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Titolo originale: The Steve Jobs Way. iLeadership for a New Generation. Copyright © 2011 byjay Elliot and William L. Simon. First published 2011 by Vanguard Press, division of The Perseus Group. All Rights Reserved Per l’edizione italiana Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2011 via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy) tel. +39 02 864871 - fax +39 02 8052886 e-mail
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www.hoepli.it Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali ISBN 978-88-203-4777-2 Ristampa: 4 3 2 1 0 2011 2012 2013 2014 2015 Traduzione: Ilaria Katerinov Progetto editoriale e realizzazione: Maurizio Vedovati - Servizi editoriali (info@iltrio Impaginazione e copertina: Sara Taglialegne Immagine di copertina © Getty Images Stampa: L.E.G.O. S.p.A., Stabilimento di Lavis (TN) Printed in Italy
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A mia moglie Liliana e ai miei figli Jay-Alexander e Federico, per il sostegno e l‟amore E ad Arynne, Victoria e Charlotte, e Sheldon, Vincent ed Elena.
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Indice Prefazione all'edizione italiana ......................................... XIII Nota dell'autore ................................................................ XVII Prologo .............................................................................. XIX PARTE I Lo zar del Prodotto ............................................... 24 La passione per il prodotto ................................................ 25 Il successo è nei dettagli .................................................... 40 PARTE II LE REGOLE DEL TALENTO ................................. 55 Lavoro di squadra ............................................................... 80 Trovare il Talento ................................................................ 98 Ricompensare i pirati........................................................ 116 PARTE III Sport di Squadra ............................................... 133 L'impresa orientata al prodotto ........................................ 134 Conservare l'energia ......................................................... 156 La ripresa .......................................................................... 178 Lo sviluppo olistico dei prodotti ...................................... 191 Evangelizzare all'innovazione ......................................... 209 PARTE IV Diventare Cool:un nuovo approccio alle vendite 225 L'apripista: il branding ...................................................... 226 Alla conquista del punto vendita ..................................... 233 Cool per definizione: "C'è un'app per questo" ..................... 243 PARTE V: Diventare come Steve ...................................... 224 Sulle sue orme .................................................................. 225 Una lettera a Steve ............................................................ 225 Ringraziamenti .................................................................. 229 Lettera di Steve al suo team ............................................... 59
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Prefazione all'edizione italiana di Luca De Biase
Lo hanno definito un genio, un tiranno, un leader carismatico. Ma più spesso, molto più spesso, Steve Jobs è stato descritto come un mago: per gli ammiratori, un creatore di realtà che nessuno aveva visto prima; per i critici, un prestigiatore che tira sempre fuori dal cilindro la sua nuova sorpresa. Perché un visionario è sempre una persona che pensa diversamente e che, dunque, suscita reazioni contrastanti: c'è chi crede che il suo sia un potere soprannaturale e c‟è chi non cessa di tentare di scoprire quale sia il trucco. C‟è chi lo applaude e c‟è chi lo perseguita. Da questo punto di vista, non è cambiato proprio tutto dai tempi di Giordano Bruno. E in effetti, ci sono poche biografìe di imprenditori segnate come quella di Jobs dalla sperticata adorazione dei suoi seguaci e dalla violenta incomprensione degli scettici: perché Jobs fondò la Apple con Steve Wozniak e la portò al successo, perché fu poi cacciato dalla sua creatura e visse in esilio una dozzina d‟anni, trovando il tempo di fondare altre due aziende come Next e Pixar, e perchè solo quando l‟azienda era sull'orlo del fallimento fu chiamato a rifondarla. Nel
1998, quando al MacWorld di San Francisco, dopo la presentazione dei nuovi prodotti, facendo simpaticamente finta di essersi ricordato all‟ultimo momento di avere “ancora una cosa” da dire, annunciò “siamo in utile”, fu un trionfo: ma non sarebbe stato lo stesso se per arrivarci non avesse dovuto attraversare un inferno. La dimostrazione di come un uomo potesse fare la differenza, in un‟impresa, non sarebbe stata altrettanto chiara se il suo amore per Apple non avesse dovuto superare una prova tanto dura come Tesserne stato brutalmente respinto e allontanato. I momenti di trionfo sono stati tanti, da quel 1998, da aver riempito le cronache in ogni parte del mondo. La reinvenzione del business della musica, con l‟accoppiata iTunes-iPod. La ridefinizione del telefono, con l‟iPhone. L‟apertura di una nuova dimensione della lettura e della fruizione dei contenuti digitali con iPad. La conquista dei vertici dell‟imprenditorialità globale con il riconoscimento registrato a Wall Street, quando Apple ha raggiunto la capitalizzazione di borsa più alta di tutta l‟industria tecnologica. Ora tutti si chiedono come ci sia riuscito. E quale sia il suo insegnamento per la comunità degli innovatori. Chi lo conosce bene, come Jay Elliot, antico collaboratore di Jobs e autore della magnifica biografia che in questo momento state cominciando a leggere, non esita a definirlo “un artista”. Ed è difficile non comprendere che in questa definizione c‟è qualcosa di molto vero: guardando i suoi prodotti, gli ammiratori non vedono strumenti elettronici, ma rivelazioni, capaci di far scoprire nuovi mondi di senso, capaci di spostare il limite del possibile dal punto di vista tecnologico e nello stesso tempo di gratificare chi li usa in modo più estetico che funzionale. Sarebbe d‟accordo, lo stesso Steve Jobs? Nell‟unico momento di autobiografia che Jobs abbia voluto condividere, la lezione a Stanford nel 2005, divenuta uno dei video più commoventi e importanti che si possano trovare su YouTube, suggerisce ai ragazzi di coltivare la passione e l‟ingenuità, la fame e la follia: “Solo amando quello che fate, farete grandi cose”. Un‟idea non troppo diversa da quella che aveva espresso presentando il Mac , più di vent‟anni prima: "Irragionevolmente grande". Lui, Jobs,
non si è raccontato se non attraverso le sue opere e in esse ha proiettato la sua passione, visione ed esperienza: come un artista, come un (•saltato, come un creatore, senza alcuna distanza tra la sua esistenza e ciò che ne ha fatto. Eppure, ci sono molti esaltati che non sono altrettanti Steve Jobs. È chiaro che il suo valore non si riassume in una parola. Piuttosto, lo si scopre nella sua vita esemplare. Una vita proiettata a cercare di realizzare opere eccellenti condotte dalla tensione verso l'essenziale. Solo questa tensione spiega la sua maniacale attenzione per i dettagli. Ha sempre voluto conoscere tutti i particolari dei prodotti dell‟azienda, come ricorda Elliot, e occuparsi di tutto. Il che ha sempre generato un certo timore in chi gli stava di volta in volta accanto, anche perché Jobs non si è mai tirato indietro quando ha pensato che fosse giunto il momento di esprimere le critiche più feroci; ma questo atteggiamento, nello stesso tempo, è sempre stato un motivo di entusiasmo per i collaboratori: perché un fatto è certo, chi ha avuto la fortuna di lavorare con lui ha vissuto un‟esperienza indimenticabile. Non ha mai smesso di interloquire con gli ingegneri sulle soluzioni tecniche, non ha mai cessato di mettere tutto se stesso nella scelta delle persone da assumere, ha sempre trovato il tempo per mandare una mail di complimenti per un lavoro ben fatto anche all‟ultimo collaboratore. Scelse personalmente il marmo di un negozio Apple in California, mandandolo a comprare in Italia, e andò regolarmente a ispezionare lo stato di avanzamento dei lavori: quando si accorse che il marmo si sporcava in seguito al passaggio delle persone, ordinò di rifare il lavoro usando nuovi materiali per fissare il marmo, scelti in modo che non trattenessero la polvere. La sua leggenda era tale che bastò che girasse la voce secondo la quale la sua bibita preferita era il succo di frutta Odwalla per fare di quella marca un successo internazionale. Al centro della sua carriera, ancor più che i prodotti o i clienti, sta una ricerca continua, incessante, appassionata, di qualcosa da amare. Una ricerca perseguita con un rigore senza paragoni. Che gli ha fatto vivere una vita disciplinata solo dallo scopo di esprimere quello che ne voleva fare. A
cinquant‟anni ha detto, agli studenti di Stanford: "Siate autori della vostra vita, non lasciate che gli altri la scrivano per voi”. E a trent‟anni governò il team che progettava il Macintosh con il motto: "Non siete la Marina, siete pirati!”. Questa sua ricerca avrebbe condotto a combattere con i limiti che gli imponevano le regole abituali. A scuola era stato tanto ingovernabile da aver rischiato l‟espulsione e in un‟occasione addirittura la galera. In Apple, escluso dalla progettazione dei prodotti, ai tempi dell‟Apple II, aveva trovato il modo di imbrogliare l‟azienda e di sviluppare un team segreto con il quale avrebbe creato il Macintosh. E poi avrebbe causato danni enormi alle pur ricche casse di Apple imponendo ai progettisti di togliere la ventola per rendere silenzioso il Mac, pagando quest‟idea con cinque mesi di ritardo nella produzione, e imponendo all‟azienda di costruire una fabbrica per assemblare il prodotto: era tanto convinto che fosse unico e meraviglioso che non poteva lasciare ad altri il compito di costruirlo. Aveva ragione sul fatto che il Mac avrebbe cambiato molto più che il mondo dell‟informatica, ma doveva ancora imparare quali regole invece non si possono ignorare. Al suo ritorno in Apple, la sua conduzione sarebbe stata molto più consapevole. Ma lo spirito non era cambiato: si era semplicemente allargato dalla cura del prodotto, alla cura di tutta l‟azienda. Quando un imprenditore coltiva la sua azienda come un artista lavora alla sua opera, quando vede quello che la sua azienda può creare e trascina tutti a realizzarlo, allora il leader non è un capo: è un maestro di vita che conduce tutti a fare qualcosa di grande. In quel caso, non c‟è differenza tra economia e cultura. E l‟innovazione non è l‟insieme delle novità: ma la costruzione del futuro. Luca De Biase - Il Sole 24 Ore
Nota dell'autore
Scrivere ogni volta “prodotti e servizi” renderebbe la lettura macchinosa, quindi ho usato solo il termine “prodotto” e prego il lettore di includere anche i servizi nell’accezione di questa parola.
A
volte,
le
cose
si
mettono
talmente
bene......
che non avremmo saputo pianificarle meglio neppure se fosse dipeso da noi. Naturalmente, quelli che vengono definiti "lavori di prestigio” - nel cinema, in televisione, nel mondo della musica o della moda - sembrano affascinanti solo visti da fuori: lavorare in quegli ambienti significa dover affrontare ostacoli e frustrazioni continue. Nessuno considera la tecnologia un ramo prestigioso; ma io non mi sono mai divertito ed entusiasmato più di quando lavoravo con Steve Jobs. Ho collaborato con i dirigenti di IBM e Intel, ho conosciuto grandi imprenditori e intellettuali come Jack Welch, Buckminster Fuller e Joseph Campbell, e ho discusso con John Drucker del prossimo cambio di paradigma nella teoria delle organizzazioni. Ma Steve è un mondo a parte. Le principali riviste di economia sono spesso in disaccordo, ma è opinione diffusa che Steve Jobs sia a capo dell‟azienda più straordinaria della storia. Steve fa ogni giorno cose teoricamente impossibili.
Cosa lo rende così unico? Com‟è riuscito a diffondere in tutto il mondo prodotti così pratici, divertenti e funzionali? A questa domanda intendo rispondere nelle prossime pagine. Non si tratta solo di cambiare prospettiva, ma di fare in modo che l‟azienda cambi insieme a voi. I principi di iLeadership che enuncerò in questo libro riguardano il prodotto o i servizi che offrite, le persone e i team, l‟azienda stessa e il motore dell‟innovazione che connette le vostre attività e i vostri prodotti alla clientela che volete raggiungere. Steve Jobs rappresenta forse l‟esempio perfetto di un leader che, appplicando questi principi, guida una grande azienda come se fosse una startup. Alcuni dei consigli che darò non sono facili da mettere in pratica. Vi chiederò di pensare in un modo nuovo, a cui non siete abituati. Ma se avrete il coraggio di applicare i principi di iLeadership che troverete in queste pagine, potrete migliorare la vostra azienda e la vostra vita. Jay Elliot
Prologo
Ero nella sala d'attesa di un ristorante...... un ambientazione davvero improbabile, per un incontro destinato a cambiarti la vita. Stavo leggendo sul giornale la triste storia della start-up Eagle Computer. Un ragazzo, seduto accanto a me in sala d'aspetto, stava leggendo lo stesso articolo: ci mettemmo a parlare e gli spiegai cos‟avevo a che fare con quella vicenda. Di recente avevo detto al mio capo, il presidente dell‟Intel, Andy Grove, che intendevo dimettermi dalla sua azienda per lavorare con i fondatori della Eagle Computer, che si preparavano a quotare la propria azienda in borsa. Il giorno dell‟offerta pubblica, l‟amministratore delegato divenne multimilionario in poche ore e decise di festeggiare concedendosi una bevuta insieme con i co-fondatori. Da lì andò dritto a comprarsi una Ferrari, prese un‟auto dal concessionario per una prova su strada ed ebbe un grave incidente. Morì, l‟azienda morì con lui, e l‟impiego per cui avevo lasciato Intel si volatilizzò prima ancora che mettessi piede in ufficio.
Il ragazzo a cui avevo raccontato questa storia iniziò a fare un mucchio di domande sulla mia esperienza lavorativa. Eravamo molto diversi: lui era un hippie poco sopra i vent‟anni, in jeans e scarpe da ginnastica; io ero un uomo dal fisico atletico, alto due metri, sulla quarantina: un classico uomo d'affari in giacca e cravatta. L‟unica cosa in comune fra noi era la barba, che all‟epoca portavamo entrambi. Ma presto scoprimmo una passione condivisa: i computer. Quel ragazzo era instancabile, traboccava di energia: si entusiasmò quando gli dissi che ero stato un dirigente di alto livello nel settore tecnologico, ma che avevo lasciato l‟IBM perché la trovavo restia ad accettare nuove idee. Si presentò come “Steve Jobs, presidente del Cda di Apple Computer”. Avevo sentito parlare in termini vaghi di Apple, ma non riuscivo a figurarmi quel ragazzino come presidente di un‟azienda informatica. Poi Steve mi colse completamente alla sprovvista: disse che gli sarebbe piaciuto assumermi. “Non credo possiate permettervi il mio stipendio”, gli risposi. All'epoca Steve aveva venticinque anni, e di lì a qualche mese Apple sarebbe stata quotata in borsa e quel ragazzo sarebbe valso qualcosa come 250 milioni di dollari. Eccome, se la sua azienda poteva permettersi di assumermi. Un venerdì, due settimane dopo, iniziai a lavorare per Apple con una retribuzione leggermente più alta e con molte più azioni di quante ne avessi all‟Intel. Andy si accomiatò da me dicendomi che stavo commettendo "un grave errore: Apple non ha futuro”. A Steve piace stupire tutti, tenendo segrete le informazioni fino all‟ultimo minuto: forse lo fa per lasciarti sempre un po‟ sulle spine, per controllarti meglio. Il primissimo giorno che ero lì, dopo un pomeriggio passato a chiacchierare per conoscerci meglio, mi disse: “Domani andiamo a farci un giro. Ci vediamo qui alle dieci, voglio mostrarti una cosa.” Non avevo idea di cosa aspettarmi, o di come prepararmi. Il sabato mattina salimmo sulla macchina di Steve e partimmo. Dagli altoparlanti, i Police e i Beatles rimbom-
bavano a volume fastidiosamente alto. E non sapevo ancora dove stessimo andando. Steve entrò nel parcheggio del PARC, il centro di ricerca Xerox di Palo Alto; da lì fummo accompagnati in una stanza piena di computer: uno spettacolo che mi mozzò il fiato. Steve era stato lì un mese prima con un gruppo di ingegneri del software di Apple, ma non era riuscito a persuaderli che quelle meraviglie fossero applicabili anche ai personal computer. Ora Steve era tornato a dare un altra occhiata e ne era esaltato, gli cambiò la voce quando vide qualcosa di “incredibilmente bello”, e quel giorno ne fui testimone. Vedemmo una versione primitiva di uno strumento che in seguito avremmo chiamato "mouse”, una stampante, un monitor che non si limitava a mostrare testo e numeri, ma poteva riprodurre disegni, immagini e menu in cui si potevano selezionare le varie voci con il mouse. In seguito Steve definì "apocalittiche” quelle visite al PARC. Era sicuro di aver visto il futuro dei computer. Il PARC stava sviluppando una macchina per le aziende: un mainframe che avrebbe potuto competere con quello di IBM e che sarebbe costato tra i dieci e i ventimila dollari. Steve, però, aveva intravisto un‟altra possibilità: un computer per tutti. Ma le sue intuizioni non si limitavano alla tecnologia informatica. Come un ragazzo dell'Italia medievale che entrando in monastero scoprisse Gesù, Steve si era convertito alla religione dello user friendly. O forse, aveva soltanto scoperto come appagare un desiderio preesistente. Steve - il consumatore per eccellenza, l‟uomo capace di immaginare prodotti perfetti - si era imbattuto per caso nel sentiero che conduceva a un futuro glorioso. Certo, la strada era irta di ostacoli. Steve avrebbe commesso molti errori gravi, costosi e quasi disastrosi, spesso per colpa della sua illusione d‟infallibilità, quella sicurezza testarda che ha dato vita al cliché: “Fa‟ come ti dico, altrimenti quella è la porta.”
Ma per me, il suo nuovo assistente, era straordinario osservare quanto fosse aperto alle nuove idee, con quanto entusiasmo apprezzasse, e facesse suo, un nuovo modo di pensare. E il suo entusiasmo è contagioso: Steve comprende la psiche dei consumatori perché è uno di loro; poiché ragiona come i suoi futuri clienti, è consapevole di intravedere il futuro. Con il tempo sarei giunto a vedere in Steve un uomo di straordinaria intelligenza, ricolmo di energia, motivato da una visione del futuro, ma anche molto giovane e molto impulsivo. E lui cosa vedeva in me? Probabilmente qualcosa che cercava invano da tempo: un dirigente con i piedi per terra e un buon fiuto per il business. Il mio nuovo titolo era vicepresidente operativo senior, ma ricoprivo anche le mansioni non ufficiali di mentore, spalla e grande saggio; avevo 44 anni. Ben presto Steve avrebbe iniziato a dire in giro: “Non fidatevi di nessuno che abbia più di quarantanni, tranne Jay.” Steve non aveva competenze tecniche approfondite, ma voleva creare un prodotto tutto suo. Mentre Woz sviluppava i primi computer dell'azienda, Steve si era occupato di trovare finanziatori e stringere accordi; ma adesso non vedeva l'ora di dimostrare la validità delle sue idee, creando una macchina che portasse la sua firma. Quando cercò di trasmettere la sua visione del futuro ai progettisti del computer Lisa, per scrollarselo di dosso quelli gli dissero: “Se le tue idee ti sembrano così buone, vai a costruirti un computer da solo.” No, Steve non aveva la sfera di cristallo: non poteva sapere che avrebbe creato un prodotto dopo l‟altro, tutti straordinari e trend setter. E non è mai stato abbastanza introspettivo per fermarsi a riflettere sulla strada percorsa. Insomma, accumulava credibilità senza neppure accorgersene. Ma all‟epoca, mi sembrò straordinaria quell‟apertura mentale, quell‟entusiasmo di fronte a nuovi schemi di pensiero.
L‟illuminazione ricevuta da Steve al PARC sarebbe diventata uno degli eventi più celebri e più discussi nella storia della tecnologia. Sulla base di quanto aveva visto quel giorno, Steve Jobs si prefisse di cambiare il mondo. E, naturalmente, c‟è riuscito.
PARTE I Lo zar del Prodotto
La passione per il prodotto
Alcune persone scelgono la loro strada nella vita, altre se la vedono imporre. E poi ci sono quelli che scoprono la loro vocazione quasi per caso, senza averla mai cercata. Steven Paul Jobs non ha deciso di diventare uno Zar del Prodotto. Se l'avessi chiamato così all'inizio della carriera, forse non avrebbe capito di cosa parlavo. Forse avrebbe riso di me. D'accordo, non dirò di essermene accorto subito. Nessuno lo sapeva. Certo non Paul e Clara Jobs, che con affetto e dedizione l'avevano sopportato negli anni della scuola: era così indisciplinato da rischiare, come ammette lui stesso, persino la galera. È davvero sorprendente, quindi, che sia diventato l‟industriale e il creativo più famoso del mondo. Ma fin dall‟inizio mi accorsi che era determinato e motivato e che, come tutti i grandi leader che avevo conosciuto prima di lui, aveva con il suo lavoro un legame quasi irrazionale: ma quel tipo di concentrazione ha reso il mondo un posto migliore. L'ossessione di Steve è la passione per il prodotto... la passione per la perfezione del prodotto. Che forma assume quest‟ossessione? Facile: Steve è il più grande consumatore del mondo. L‟ho imparato il giorno stesso in cui sono stato assunto in Apple. Steve ha dato vita al Macintosh con l‟intento di farne “il computer per tutti noi”. Ha creato l‟iTunes Store e l‟iPod perché amava la musica e voleva portarsela sempre addosso. Trovava comodo il telefono cellulare, ma odiava i telefoni presenti sul mercato pesanti, sgraziati, brutti e difficili da usare; e questa
insoddisfazione l‟ha spinto a creare l‟iPhone, per se stesso e per tutti noi. Steve Jobs sopravvive, prospera e cambia la società perché insegue le sue passioni. Ho visto in azione per la prima volta queste passioni il giorno in cui andammo al PARC. L‟ufficio che mi avevano assegnato, in uno dei primi edifici Apple su Bandley Drive a Cupertino, era a pochi passi dall‟ufficio di Steve, e ne avevo approfittato per fare un salto da lui: speravo di poter riprendere la conversazione avviata al ristorante a proposito dei suoi progetti per Apple e, inoltre, volevo capire quale ruolo avesse in mente per me in azienda. Fu durante quella chiacchierata pomeridiana che mi chiese di andare a fare quella visita con lui il giorno dopo. Per il resto di quel fine settimana, continuai a rivivere l‟esperienza della visita al PARC. Riflettevo su ogni istante di quelle due ore: ero consapevole di aver assistito a qualcosa di straordinario. Steve era incontenibile, non riusciva a trattenere l‟entusiasmo. Quella era la passione nella sua forma più pura, la passione per un‟idea. Ma in lui si stava già coagulando nella passione per un prodotto specifico. Da tutto quel che mi aveva detto, lì al PARC e sulla via del ritorno, avevo tratto due conclusioni: già allora Steve aveva idee molto chiare sul fatto che i computer potevano cambiare la vita delle persone e sapeva di aver visto da vicino gli strumenti che avrebbero consentito questo cambiamento. In particolare, era rimasto molto colpito dall‟idea di un‟icona mobile sullo schermo - un cursore - che si poteva controllare con il movimento della mano. In un nanosecondo, Steve aveva avuto una visione del futuro dei computer. A impressionarlo non era stata solo la tecnologia del PARC, ma anche le persone: e l‟ammirazione era reciproca. Vari anni dopo, lo scienziato del PARC Larry Tessler avrebbe ricordato con il giornalista e autore Jeffrey Young la visita di Steve e del team Apple: "Mi impressionò la profondità delle loro domande: nei miei sette anni in Xerox, nessuno dipendenti, visitatori, docenti universitari o studenti - mi
aveva posto domande così acute. Da quelle domande era chiaro che comprendevano tutte le implicazioni, tutte le sottigliezze. Nessun altro, tra coloro che avevano visto la demo, aveva mostrato altrettanto interesse per i dettagli: cosa ci facessero quei motivi di sfondo nel titolo della finestra, perché i menu a comparsa fossero fatti proprio in quel modo.” Tessler restò così colpito che di lì a poco lasciò il PARC e fu assunto in Apple con il titolo di vicepresidente, diventando al contempo il primo Chief Scientist (“scienziato capo”) di Apple. Nei miei dieci anni in IBM avevo conosciuto molti professionisti di prim‟ordine che facevano un lavoro eccezionale ma erano demoralizzati perché raramente le loro idee si trasformavano in prodotti veri. Al PARC avevo fiutato nell‟aria l‟odore rancido della frustrazione, quindi non mi stupì apprendere che avevano un turnover del personale del venticinque per cento, uno dei più elevati in quel settore. Quando entrai in Apple, l‟entusiasmo era alimentato soprattutto dal team che lavorava a un computer che poi sarebbe stato battezzato Lisa e che, secondo le loro previsioni, era destinato a stravolgere il mercato: una vera rivoluzione rispetto alla tecnologia di Apple II, che avrebbe portato l‟azienda in una direzione nuova, sfruttando alcune delle innovazioni viste al PARC. Steve mi disse che il Lisa era così rivoluzionario “che produrrà un‟ammaccatura nell‟universo”. Sono frasi che lasciano il segno e quella frase, in particolare, è sempre stata un monito per me: non puoi generare entusiasmo nelle persone con cui lavori se non ti entusiasmi tu per primo... e se non lo fai sapere a tutti. Il Lisa era in fase di sviluppo da due anni, ma questo non contava: la tecnologia che Steve aveva visto al PARC avrebbe cambiato il mondo e il Lisa andava ripensato da capo con queste nuove premesse. Steve cercò di trasmettere quel suo entusiasmo al team che lavorava sul Lisa: "Dovete cambiare direzione”, insisteva. Gli ingegneri e i programmatori del Lisa erano fedelissimi di Woz e non
avevano certo intenzione di lasciarsi convincere da Steve Jobs. In quei giorni Apple era una specie di nave in fuga, che solcava le acque a vele spiegate con tutto l‟equipaggio sul ponte ma nessuno al timone. L‟azienda, nata da appena quattro anni, aveva già un fatturato netto annuo nell‟ordine dei 300 milioni di dollari. Steve era il co-fondatore, ma non esercitava più il potere dei primi tempi, quando c‟erano solo i due Steve (Woz si occupava del lato tecnologico e SJ di tutto il resto). L‟amministratore delegato se ne era andato, l‟investitore in start-up Mike Markkula faceva l‟amministratore ad interim e Michael Scott (“Scotty”) era il presidente: entrambi erano più che competenti, ma non avevano le qualifiche necessarie per gestire un‟azienda tecnologica in forte crescita. Mike, il secondo principale azionista, mi sembrava più interessato ad andarsene in pensione che a occuparsi dei problemi quotidiani di un‟azienda giovane e dinamica. I due dirigenti volevano evitare che il Lisa arrivasse sul mercato troppo tardi, a causa delle modifiche richieste da Steve. Il progetto era già in ritardo sulla tabella di marcia e l‟idea di buttare via quanto fatto finora e ricominciare da capo era semplicemente inaccettabile per loro. Per obbligare il team Lisa e i dirigenti a piegarsi al suo volere, Steve aveva progettato di farsi nominare vicepresidente dello Sviluppo Nuovi Prodotti, ovvero comandante supremo del team Lisa: così avrebbe avuto l‟autorità per imporre il cambiamento di rotta che desiderava. Invece, con un rimpasto aziendale, Markkula e Scott avevano assegnato a Steve il titolo di presidente del consiglio di amministrazione, spiegandogli che questo avrebbe fatto di lui il "volto" dell‟azienda in occasione dell‟imminente offerta pubblica iniziale delle azioni Apple; quel venticinquenne carismatico e telegenico sarebbe stato un ottimo portavoce, gli dissero: il valore delle azioni sarebbe aumentato e lui si sarebbe arricchito. Steve restò molto ferito dal tranello che Scotty aveva escogitato senza informarlo né consultarlo: era la sua azienda,
dopotutto! E gli dispiaceva molto perdere il coinvolgimento diretto nel progetto Lisa. Si offese a morte.1 La trappola scattò impietosa: il nuovo coordinatore del gruppo Lisa, John Couch, disse a Steve che doveva piantarla di andare lì a disturbare i suoi ingegneri; doveva starsene per i fatti suoi e lasciarli lavorare in pace. Steve Jobs non conosce la parola "No”, ed è sordo a frasi del tipo: "Non possiamo” o “Non hai il permesso”. Cosa fai se hai in testa un prodotto rivoluzionario, che però alla tua azienda non interessa? Steve decise di darsi da fare: invece di piagnucolare come un bambino a cui avevano rubato i giocattoli, vidi che si concentrava sul lavoro con disciplina e determinazione. Non gli era mai capitato di essere estromesso in quel modo dalle attività della sua stessa azienda; è un'esperienza che capita a poche persone. Alle riunioni del consiglio di amministrazione lo vedevo più capace e competente degli altri dirigenti, che pure erano più anziani, più equilibrati e molto più esperti. Aveva in testa dati aggiornatissimi sulla posizione finanziaria di Apple, sui margini, il flusso di cassa, le vendite di Apple II in diversi segmenti di mercato e zone geografiche e così via. Oggi tutti lo ritengono un grande esperto di tecnologia, uno straordinario creatore di prodotti, ma Steve è molto di più, e lo è sempre stato. D'altro canto, però, gli era appena stato sottratto il ruolo di ideatore e creatore di prodotti. Steve aveva una visione chiara sul futuro dei computer, una visione che gli martellava in testa, ma non sapeva cosa farsene. Le porte del gruppo Lisa gli erano state sbattute in faccia e chiuse a doppia mandata. E allora? *** Tutto ciò accadeva in un periodo in cui Apple aveva in tasca milioni di dollari, grazie alle buone vendite di Apple II. 1
Jeffrey S. Young, Steve Jobs: The Journey Is the Reward, Scott Foresman Trade 1987
Quel capitale consentiva di avviare piccoli progetti innovativi a ogni livello dell‟azienda. Era il genere di atmosfera da cui ogni azienda avrebbe tratto vantaggio: la voglia di creare un mondo nuovo sognando qualcosa di radicalmente diverso, qualcosa che nessuno avesse mai fatto prima. Fin dalla mia prima settimana in ufficio avevo percepito la passione e la motivazione che riempivano tutti di energia. Immaginavo scene del tipo: due ingegneri si incontrano in corridoio, uno dei due descrive un‟idea che gli è appena venuta e l‟altro risponde “Fantastico, dovresti metterla in pratica”; allora il primo torna in laboratorio, riunisce un team e passa mesi a sviluppare l‟idea. Sarei pronto a scommettere che in quel periodo andava così in tutta l‟azienda. La maggior parte dei progetti non avrebbe mai trovato sbocchi commerciali o fatturato un dollaro. Accadeva che due gruppi lavorassero allo stesso progetto l‟uno all‟insaputa dell‟altro, ma non importava: un numero sufficiente di progetti sarebbe riuscito a fare la differenza. L‟azienda era ricchissima e traboccava di idee creative. C‟era un progetto, in particolare, che era nelle prime fasi di sviluppo e che poco tempo prima Steve aveva cercato di stroncare perché temeva che entrasse in competizione con il Lisa. Quando andò a controllare a che punto fosse, trovò il piccolo team al lavoro in un edificio che tutti gli altri chiamavano "Texaco Towers” perché era vicino a un distributore Texaco. Il team si prefiggeva di costruire un computer poco costoso e facile da usare per un pubblico molto ampio e, in pochi mesi, aveva già sviluppato un prototipo funzionante. E il loro computer aveva già un nome: Macintosh. (Il direttore del team, un brillante ex professore universitario di nome Jef Raskin, aveva scelto il nome della sua varietà di mela preferita, in analogia con il nome dell‟azienda; narra la leggenda che Raskin intendesse usare la stessa grafia, Mclntosh, e che avesse sbagliato a scrivere; ma in seguito Raskin affermò di aver usato intenzionalmente uno spelling diverso, per evitare confusioni.) Steve cambiò idea: non voleva più fermare il progetto. Se il team Lisa
opponeva resistenza alla sua nuova visione dell'informatica, invece il piccolo team Macintosh era composto da hacker con una mentalità affine a quella di Steve, e potevano dimostrarsi più aperti alle sue idee. Quando il co-fondatore, presidente e uomo-simbolo dell‟azienda iniziò a farsi vedere sempre più spesso nel laboratorio Macintosh, il team non seppe bene come reagire: si sentivano stimolati dalla passione e dall‟impegno di Steve, ma allo stesso tempo, come scrisse uno di loro in un memorandum, ritenevano che Steve portasse nell‟ambiente di lavoro “tensione, fastidio e beghe politiche”. Certo: le persone di grande successo, i visionari, spesso non possiedono particolari doti di socializzazione, o semplicemente non si sforzano di apparire educati o di avere tatto. Ma non ebbero scelta: Steve prese il comando del team e iniziò ad assumere gente, a convocare riunioni e a fissare nuove rotte. Lo scontro più duro con Raskin verteva su come l‟utente avrebbe impartito i comandi al computer. Jeff voleva che le istruzioni fossero digitate sulla tastiera, ma Steve pensava che doveva esserci un sistema migliore: un oggetto o un apparecchio che controllasse i movimenti del cursore sullo schermo. Ordinò al team Macintosh di trovare un sistema che consentisse di usare il cursore per impartire i comandi: aprire un file o visualizzare un elenco di opzioni. Gli elementi fondamentali dei computer che usiamo oggi spostare il cursore con il mouse, cliccare per selezionare, trascinare un file o un‟icona e tutto il resto - erano idee nate al PARC e sviluppate poi dal team Mac grazie alla continua insistenza di Steve sulla semplicità, sull‟eleganza del design e sull‟intuitività. Oltre alle mie mansioni dirigenziali, Steve cercava in me anche una cassa di risonanza, una sorta di mentore o consigliere, soprattutto nelle questioni economiche e organizzative. Quindi mi assegnò un secondo ruolo, all‟interno del team Macintosh: diventai un consulente informale, membro a pieno titolo del team ma senza uno status ufficiale. Io e Steve ci vedevamo quasi ogni giorno e
spesso passeggiavamo intorno a Bandley Drive. Mi chiedeva un parere o una seconda opinione su persone, progetti, strategie di marketing, vendite... su tutto. In quelle lunghe discussioni riflettevamo su come trasformare il gruppo Mac nel nuovo paradigma dell'imprenditorialità americana. In me Steve vedeva un socio che l‟avrebbe aiutato a realizzare il suo sogno, un uomo che si era fatto da sé e che aveva accumulato una vasta esperienza in due aziende leader nel settore della tecnologia. Credo che vedesse in me anche una persona conciliante - al contrario di lui - e un mediatore. L‟assistente di Steve, Pat Sharp, era solita dire: “Quando Jay entra nella stanza, Steve diventa una persona diversa.” Cioè, Steve si calmava. Le doti che Steve mi attribuiva mi derivavano da un‟infanzia piuttosto insolita. Mio padre era quello che molti chiamerebbero un contadino, ma per noi era un “rancher”. Le nostre terre costituivano il ranch di 'Ano Nuevo” („Anno Nuovo”): mille acri lungo la costa di Monterrey, nella California settentrionale, con tre miglia e mezza di spiaggia e due laghi nell‟entroterra che potevano ospitare piccole barche a vela. La zona era stata colonizzata da padre Junipero Serra intorno al 1770. Mia madre veniva da una famiglia di pionieri che erano migrati all‟Ovest su carri coperti e si erano stabiliti in quelle terre alla fine dell‟Ottocento, quando la California era appena diventata uno Stato. (In seguito abbiamo ceduto allo Stato gran parte di Ano Nuevo, oggi meta turistica per le migliaia di persone che ogni anno vengono a vedere gli elefanti marini.) Un mio trisavolo, Frederick Steele, aveva frequentato l‟accademia di West Point con Ulysses S. Grant, ed era stato il suo braccio destro durante la Guerra civile. Possiedo ancora un cimelio di famiglia: il documento firmato da Abramo Lincoln con cui Steele veniva nominato generale. campi e il bestiame non aspettano nessuno: ci alzavamo ogni mattina alle cinque, anche nei fine settimana, e non vedevo mio padre fino all‟ora di cena, alle sei, quando intorno al tavolo si riunivano i miei genitori, la nonna, due sorelle, a volte mio fratello con sua moglie, e il nostro colono, un uomo rigido e impettito.
In una fattoria anche i ragazzi lavorano molto, tra la scuola, i compiti a casa e le faccende domestiche. Le mucche devono essere munte alle cinque del mattino e alle cinque del pomeriggio, nei giorni feriali e in quelli festivi: che piova o che ci sia il sole, la nebbia o la tempesta. Quando diventi grande abbastanza da guidare il trattore, ti conviene imparare anche a ripararlo: perché se ti ritrovi in panne a venti miglia dal fienile e non sei bravo nel fai-da-te, devi farti una bella scarpinata per chiedere aiuto (ma questo oggi non è più un problema, grazie ai telefoni cellulari). Non è una vita facile, ma ti insegna l'indipendenza. Bisognava essere creativi per inventarsi dei passatempi: io mi costruivo tavole da surf, e costruii due barche a vela che stavano a galla piuttosto bene. Poi, quando avevo quindici anni, mio padre annunciò che nell‟anno successivo si sarebbe concentrato sulle sue mansioni nel comitato scolastico e in altri enti pubblici, e mi avrebbe affidato la gestione della fattoria. A tutt‟oggi non so come potesse pensare che ci sarei riuscito. Volevo fare la differenza. In un grande ranch, di solito basta un ottimo raccolto ogni cinque anni per restare in attivo. Io volevo ottenere quel raccolto eccezionale... ma di cosa? Quali semi potevo piantare? La coltura va decisa sei mesi prima e bisogna indovinare quale sarà il livello dei prezzi al momento del raccolto. Mi scoprii affascinato dal Farmer‟s Almanac, una pubblicazione davvero incredibile. Sulla base delle previsioni meteo dell‟almanacco per la stagione del raccolto e dopo aver chiesto consiglio ai coltivatori di frutti di bosco della zona, decisi di piantare fragole e affidai parte del lavoro a una famiglia giapponese che conosceva bene quel tipo di coltura. Si rivelò un anno di guadagni straordinari, per il ranch e per me. Penso che quell‟esperienza mi abbia aiutato a costruire la mia autostima e mi abbia convinto che potevo ottenere più di quanto avessi mai creduto possibile. Ecco un‟altra cosa che ho imparato coltivando la terra. Forse ogni ranch è fatto a modo suo, ma Ano Nuevo non era governato da una gerarchia top-down, in cui fosse richiesta
un‟obbedienza cieca: se ti accorgevi che qualcosa non funzionava bene, dovevi dirlo subito. Quell'atteggiamento si è radicato nella mia personalità; e nel mio primo impiego in azienda, alla IBM, mi condusse a prendere un‟iniziativa che pochi altri, credo, avrebbero preso trovandosi nei miei panni. Il presidente dell‟azienda Tom Watson Jr., figlio del primo presidente di IBM, andò a testimoniare al Comitato per gli Affari Esteri del Senato che aveva aperto un‟inchiesta per capire cosa fosse andato storto in Vietnam, e dichiarò che c‟era stato un problema a livello logistico. Quando lessi sul giornale la testimonianza di Watson, mi tornò in mente la regola che vigeva al ranch quand‟ero bambino: se qualcosa ti sembra sbagliato, devi alzare la voce. Allora mi sedetti e scrissi con molta cura una lettera in cui dicevo che secondo me anche IBM stava commettendo un errore di quel tipo. Ammiravo il rispetto con cui l‟azienda trattava i dipendenti e i clienti aziendali, ma secondo me IBM si stava lasciando sfuggire un‟opportunità preziosa, scegliendo di non entrare nel mercato consumer. Ricevetti una telefonata dall‟assistente di Watson: la settimana successiva il presidente avrebbe visitato la sede IBM in cui lavoravo e voleva vedermi. Andai da lui con i nervi molto tesi: ero convinto che quello fosse il mio ultimo giorno in azienda. Invece, Watson mi disse che era rimasto colpito dalla mia idea, che aveva apprezzato la mia scelta di parlare chiaro e che avrebbe preso in considerazione i miei suggerimenti. Da quel giorno in poi, ogni volta che passava in quello stabilimento IBM, Tom Watson chiedeva di vedermi per fare due chiacchiere. Credo che a guadagnarmi il rispetto di Steve Jobs sia stata l‟esperienza che avevo accumulato in IBM e in seguito in Intel, unita alla mia indole tollerante e alla capacità di dire come la penso senza acredine o livore. I primi due prodotti di Apple erano stati due computer ideati dal co-fondatore Steve Wozniak (noto a tutti come Woz, anche se preferisce farsi chiamare Steve). La scalata al successo di Woz è una storia non meno interessante di quella del suo futuro socio. Da ragazzo era stato influenzato dai
libri della saga di Tom Swift, il cui protagonista era “un giovane inventore che sapeva progettare macchine di ogni tipo, aveva un'azienda tutta sua, catturava gli alieni, costruiva sottomarini e girava il mondo. Erano storie davvero coinvolgenti, come certi telefilm dell'epoca". Suo padre, ingegnere, spingeva Steve a creare progetti di elettronica per i concorsi di scienze organizzati dalla scuola. Gli elogi degli insegnanti per i buoni voti in scienze "mi fecero venir voglia di diventare ancor più bravo in quella materia. In quinta elementare costruivo grandi progetti di elettronica simili a computer. In prima media costruii un vero computer: ci si poteva giocare a tris”. Per tutto il liceo e il college, Woz continuò a studiare informatica da autodidatta, finché riuscì a progettare e costruire computer completi. Quando gli hanno chiesto di riassumere la sua vita in una parola, ha risposto senza esitazioni: "Fortunato. Ogni sogno che abbia mai avuto nella vita si è realizzato dieci volte meglio di quanto sperassi. Sono la persona più fortunata al mondo, per tutto ciò che ho.” In parte attribuiva la buona sorte ai sani valori che aveva coltivato in gioventù. "Non ho mai frequentato la chiesa, ma ogni tanto ero influenzato da storie di ispirazione cristiana; per esempio l‟idea di porgere l‟altra guancia: se qualcuno ti fa del male, non rispondergli a tono, ma trattalo bene, sii buono con lui, amalo dal profondo del cuore. Capire l‟importanza della comunità in cui ero cresciuto, le scuole che avevo frequentato, le città in cui avevo vissuto. Valori come il rispetto per gli altri.” Woz è stato profondamente influenzato dal pensiero individualista, sulla scia di autori come Henry David Thoreau e, in particolare, i suoi testi sulla disobbedienza civile. Ma un lato negativo della fama, a giudizio di Woz, è il fatto che la tua storia può essere raccontata male e venire fraintesa. "Trovo strano il fatto di dover leggere il giornale per scoprire chi sono e poi sforzarmi di diventare quella persona. Piccoli errori giornalistici sfuggono di mano, e la storia viene scritta. Un grande quotidiano nazionale scrive l‟opposto di ciò che hai detto tu, e quella diventa la verità
scritta nei libri. E altri libri la ripetono. Probabilmente è andata così per tutta la storia dell‟umanità.” Eppure, malgrado l‟importanza del suo contributo alla rivoluzione informatica, Woz non riesce a capire il motivo di tutta l'attenzione che riceve: “Non mi sembra di aver mai fatto nulla di speciale: sono diventato un bravo ingegnere, proprio come sognavo, ma allora perché mi considerano un eroe, una persona speciale? La gente vuole qualcuno di speciale da ammirare, ma in realtà i computer sono nati grazie all'impegno di tante persone, alla somma delle loro idee.” Woz è fatto così: gli piace condividere il merito.2 Steve Jobs non possedeva neppure un decimo delle conoscenze tecniche e dell'abilità di Woz: com‟è riuscito a diventare un esperto in un settore complesso come la tecnologia informatica? Un giorno mi disse che aveva scoperto il fascino dei computer molto presto, prima dell‟adolescenza, quando aveva visitato il centro di ricerca Ames della NASA, nella vicina Mountain View. In realtà ho poi scoperto che non aveva visto davvero il computer, ma soltanto il terminale. Si illumina in volto con l'entusiasmo di un bambino quando ne parla, quando dice che quel giorno “si innamorò” dell'idea dei computer. Parlando di quei primi tempi, nel documentario Triumph of the Nerds prodotto dalla PBS, Steve ha illustrato meglio questo punto: “Si digitavano questi comandi sulla tastiera e poi dovevi aspettare un po'; a un certo punto la macchina faceva dadadadadadada e sputava fuori una risposta. Niente male per un ragazzino di dieci anni, riuscire a scrivere un programma in Basic o in Fortran e vedere che la macchina... prendeva la tua idea e... la trasformava in realtà, produceva un risultato. E se il risultato era quello previsto, voleva dire
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Tutte le citazioni di Steve Wozniak in questa sezione sono tratte da un‟intervista condotta da Jill Wolfson e John Leyba, consultabile su http://www.engology.com/engint-wozniak.htm e http://www.thetech.org/exhibit/online/revolution/wozniak/
che il tuo programma funzionava davvero. Era un'esperienza entusiasmante.”3 Non si diventa un imprenditore leader nel settore della tecnologia senza prima studiare sodo. È una regola ferrea che, però, per qualche motivo, non si applicava a Steve. Fui testimone di un fenomeno quasi incredibile. Un ragazzo che aveva lasciato il college dopo un semestre o poco più, era partito per l‟india non come turista ma come monacomendicante, ed era rimasto affascinato dal buddismo, che avrebbe praticato per il resto della vita. (Un giorno, su un treno in Giappone, mi indicò un tempio buddista e spiegò che dopo il viaggio in India aveva deciso di andare a vivere lì e diventare un sacerdote. E l‟avrebbe fatto, mi disse, se non fosse stato per quel piccolo progetto avviato con il vicino di casa Steve Wozniak. È straordinario come a volte le nostre vite imbocchino una strada diversa da quella che ci aspettavamo.) E ora, invece di prendere i voti, Steve Jobs si stava trasformando in un mago dei computer. Ben presto divenne esperto di ogni dettaglio del progetto Macintosh, dell‟architettura di sistema e delle funzionalità. Conosceva la macchina così a fondo che poteva scendere con ciascun ingegnere nei particolari del suo lavoro: chiedeva i motivi di ogni decisione, monitorava i progressi, imponeva modi-fiche. Interveniva anche nelle questioni centrali, come la scelta del microchip per il Macintosh: ordinò al team di creare un nuovo prototipo del computer con un chip diverso, il Motorola 68000, che aveva più capacità di memoria. Loro brontolarono ma alla fine obbedirono; e si dimostrò la decisione giusta. Una volta, intervistato sul suo periodo in Apple, l‟ingegnere del gruppo Mac Trip Hawkins attribuì a Steve “una forza visionaria che fa quasi spavento. Quando Steve crede in qualcosa, il potere di quella visione può 3
Triumph of thè Nerds, documentario in tre parti della PBS scritto e presentato da Robert X. Cringley, trasmesso per la prima volta nel giugno 1996. Trascrizione disponibile su www.pbs.org/nerds/transcript.html.
letteralmente spazzar via ogni obiezione, barriera o ostacolo. I problemi cessano semplicemente di esistere”. 4 Come ci riusciva? Per me, che ero il suo braccio destro (o sinistro, dato che è mancino), la risposta è nel modo in cui parlava del suo ruolo e dei suoi obiettivi. Solo chi è mosso dalla passione può creare grandi prodotti. I grandi prodotti sono opera di squadre coinvolte dalla passione. La "visione" di cui parlava Trip Hawkins nasceva dall'impegno di Steve, ma ancor più dalla sua passione. Mi piaceva il modo in cui ne parlava lui stesso: diceva che occorre fissare per sé e per gli altri l'obiettivo di svolgere ogni compito al meglio delle proprie possibilità, “perché in una vita si può fare un numero limitato di cose”. Come ogni artista, si è sempre lasciato guidare dalla passione creativa, dall'amore per i suoi prodotti. Il Mac (e tutto ciò che è venuto dopo) non è un semplice prodotto: è il risultato dell‟impegno instancabile di Steve Jobs. Un visionario è in grado di creare grande arte o grandi prodotti perché il suo lavoro non si svolge in orario d'ufficio. Ogni azione di Steve era come lui: intuitiva ma ispirata. Si atteneva inconsapevolmente al consiglio di Einstein: “Segui ciò che è misterioso.” Ma solo molti anni dopo il primo Macintosh, dopo che molta acqua era passata sotto i ponti e dopo aver commesso molti errori imbarazzanti, Steve si sarebbe reso conto che la sua vera passione non era semplicemente creare prodotti fantastici, ma qualcosa di più specifico, più preciso... come vedremo nelle prossime pagine. Questa intuizione gli avrebbe permesso di creare gli apparecchi eleganti, accessibili, dall'uso intuitivo, belli, potenti ed economici che hanno plasmato la sua carriera. Il mondo intero sarebbe cambiato grazie a lui... e lui avrebbe cambiato il mondo. "Potrei fare tante altre cose nella vita”, diceva, "ma il Macintosh cambierà il mondo. Io ci credo, e ho scelto di avere intorno persone che ci credono.”
4
Anthony Imbimbo, The Brilliant Mind Behind Apple, Gareth Stevens Publishing, New York 2009.
Questa passione per il prodotto è viva in tutta l'azienda: dalle receptionist agli ingegneri, fino ai dirigenti. Se i leader non riescono a trasmettere questo entusiasmo ai loro sottoposti, devono chiedersi perché. In quanto zar del suo prodotto, Steve svolgeva molti ruoli nel team Macintosh, a iniziare da quello di “ideatore capo”. Dal primo disegno preparatorio fino al giorno della consegna finale, Steve abitava il prodotto, ne percepiva ogni dettaglio come se fosse un organismo vivente. Sapeva di doversi circondare di persone che, come lui, puntassero all'eccellenza. La passione è uno dei grandi segreti del successo di Steve. E' esigente, è severo, e - sì - a volte agisce in modo avventato. E lo fa proprio perché è animato da una passione bruciante. Steve è convinto che la maggior parte delle persone non abbia la stoffa per diventare un imprenditore o un responsabile di prodotto. Negli anni in cui cercava il successo con la Next, dichiarò: "Molta gente viene da me e mi dice: Voglio diventare un imprenditore. Allora io chiedo: Qual è la tua idea?, e mi rispondono: Non ne ho ancora una." A quelle persone, Steve replicava: "Secondo me devi trovarti un lavoro come bigliettaio dell'autobus o una cosa del genere, finché non trovi qualcosa che ti appassiona davvero.'' E' convinto che "una buona metà di ciò che distingue l'imprenditore di successo da quello che fallisce è la semplice perseveranza. Ti impegni così tanto, investi tutto te stesso in quest'impresa, e molti si arrendono nei momenti difficili. Non li biasimo: è un lavoro duro, che può stravolgerti la vita''.5 A motivarti dev‟essere "un'idea, o un problema da risolvere, o un torto da riparare”. Se non è la passione a spronarti fin dall'inizio, non resisterai mai fino alla fine.
Le citazioni sono tratte da un‟intervista condotta da Daniel Morrow, direttore esecutivo del Computerworld Smithsonian Awards Program, il 20 aprile 1995. 5
Il successo è nei dettagli
Steve Jobs aveva capito come raggiungere un risultato cui tante altre aziende tendono invano: col passare del tempo, i suoi prodotti diventavano sempre più semplici. In alcuni casi, la questione riguarda più l'utente che il prodotto; ogni utente vuole riuscire bene in quello che fa. Come ti senti quando riesci a far funzionare un apparecchio a meraviglia? Più il cliente è soddisfatto, più clienti arriveranno. Per Steve, nulla va sprecato e non dev‟esserci nulla di superfluo. Il segreto non è nella rapidità d'esecuzione, ma nell'inseguire la perfezione tramite la creatività e l‟innovazione. Significa concentrarsi come un raggio laser su ogni dettaglio, puntando a renderlo di facile comprensione per l‟utente. Il paradosso è che per ottenere questo risultato ci vuole più impegno, una pianificazione più orientata ai dettagli. È probabile che conosciate alcune (o parecchie) persone che si considerano “attente ai dettagli‟‟, e forse voi stessi ritenete di appartenere a questa categoria. Ma il livello di attenzione al dettaglio di Steve è uno dei segreti del suo successo, e del successo dei suoi prodotti.
Portava un orologio da polso Porsche, scelto per il design impeccabile. Ogni volta che qualcuno si complimentava con lui per quell‟orologio, Steve se lo sfilava dal polso e lo regalava a quella persona, come a dire: “Congratulazioni per aver riconosciuto l‟eccellenza nel design.” Pochi minuti dopo lo vedevi ricomparire con un orologio identico: ne teneva una scatola nel suo ufficio per poterli regalare... e costavano sui duemila dollari l‟uno.(Un paio di anni fa, al mio esemplare si è rotto il cinturino; il danno era irreparabile, perché il cinturino era integrato nella cassa, ed erano entrambi di titanio. Non ho mai chiesto a Steve se ha tratto da quegli orologi l‟ispirazione per il Mac in titanio.) A ripensarci, episodi come quello del parcheggio e quello degli orologi Porsche dovevano essere le prime avvisaglie di quello che sarebbe diventato un tratto essenziale del carattere di Jobs e del suo successo nella creazione di prodotti: la sua volontà - o dovrei dire, la sua esigenza assoluta e irrefrenabile - di concentrarsi su un singolo aspetto o dettaglio, disinteressandosi di tutto il resto finché non era pienamente soddisfatto. Certo, a tutti noi capita di concentrarci su qualcosa, di tanto in tanto; ma Steve dedica a ogni dettaglio la stessa profondità di analisi. Visualizza la destinazione alla quale si prefigge di arrivare, e poi visualizza il prodotto: come funzionerà, in che modo verrà usato, come si inserirà nel ritmo naturale della vita.
Prevedere l'esperienza dell'utente Steve voleva vivere l‟esperienza in ogni dettaglio. Quando arrivi a casa o in ufficio con il tuo nuovo computer e apri lo scatolone, cosa vedrai? Quanti pezzi di polistirolo devi rimuovere prima di tirare fuori il computer, e quanto è facile rimuoverli? Steve diceva al team di sviluppo:“D‟accordo, io sono il prodotto. Cosa mi succede quando l‟acquirente cerca di tirarmi fuori dalla scatola e accendermi?” Non faceva che scoprire imperfezioni in ogni cosa, dalla progettazione alla user experience e all'
interfaccia utente, fino al marketing e al packaging, e alle strategie pubblicitarie e di vendita. Rimanevo stregato da quelle esibizioni. Quella sì che era vera passione per i dettagli: una passione unita al coraggio di credere nelle proprie idee e alla certezza di essere il consumatore ideale. Il mouse sarebbe stato una novità assoluta per gli utenti: come si poteva progettare l‟imballaggio in modo che il cliente potesse prendere in mano il mouse fin dal primo momento in cui usciva dalla scatola? Come possiamo progettare un computer esteticamente piacevole, che il cliente sarà fiero di esibire sulla scrivania? Non dev‟essere un brutto parallelepipedo squadrato, non deve sembrare disegnato da un ingegnere. Quanto in fretta può accendersi il Macintosh quando lo si collega a una presa elettrica e si preme il pulsante di avvio? Ogni volta che avvia il sistema, quale sarà la prima cosa che vedrai sullo schermo? L‟utente potrà iniziare subito a usare il computer, senza dover leggere il manuale di istruzioni? Durante una riunione con gli autori della documentazione di supporto del Macintosh, qualcuno ribadì un luogo comune di quell‟epoca: che il manuale di istruzioni doveva essere scritto in un linguaggio adatto a un ragazzo dell‟ultimo anno delle superiori. Steve non la prese bene. “No”, ribattè: “Dev‟essere al livello della prima elementare.” Era uno dei suoi sogni, ci disse: che il Mac fosse così intuitivo da non richiedere un manuale di istruzioni. E poi soggiunse: "Forse dovremmo farlo scrivere a un bambino di prima elementare!” Sapeva che alcune funzioni non si potevano rendere intuitive; si era arreso all‟idea che solo gli apparecchi più semplici potevano essere completamente intuitivi. Ma sapeva anche che se i progettisti e i programmatori si fossero impegnati abbastanza, avrebbero migliorato moltissimo l‟usabilità del Mac (e di tutti i prodotti successivi). Per Steve, il successo risiede nei dettagli.
Semplicità Sempre attento a semplificare al massimo i suoi prodotti, Steve si divertì molto quando gli raccontai della mia passione per la Ford Model A del 1932. Come ricompensa per il duro lavoro al ranch, per il mio quindicesimo compleanno ricevetti in regalo una vecchia Model A. Dovetti lavorare sodo sul motore, i freni e la carrozzeria: quell‟auto aveva più di vent‟anni. Ma i collaboratori di Henry Ford avevano fatto un così bel lavoro che era molto facile intervenire sul motore anche senza disporre del manuale di istruzioni. Il progetto di Ford era così dettagliato che, per costruire i sedili e gli interni dell‟auto, venivano riutilizzate le assi di legno che componevano le casse in cui le parti arrivavano in fabbrica. E se dovevi sostituire un pezzo, trovavi inciso sul suo retro il tipo e le dimensioni, così sapevi cosa cercare. Nel raccontare questa storia a Steve, gli feci notare che quando era uscito quel modello la concorrenza era rappresentata dai cavalli, e non esistevano officine meccaniche. Gli acquirenti di computer non avevano mai visto un mouse: il diretto concorrente era la tastiera. Quei primi automobilisti avevano dovuto imparare a usare la frizione, l‟acceleratore e il cambio prima di mettersi in marcia; il mouse era altrettanto nuovo per gli utenti, ma avrebbe richiesto una fase di apprendimento molto più breve. Quando Steve Jobs mise al lavoro i suoi migliori ingegneri sul progetto top secret per lo sviluppo dell‟iPhone, dovette ingaggiare una battaglia. Sviluppare un telefono cellulare era uno sforzo titanico per un‟azienda che non aveva esperienza in quel settore. Uno dei motivi principali che lo spinsero a questa impresa impossibile era che secondo lui tutti i cellulari in commercio erano troppo complicati da usare: una sfida perfetta per un uomo così attento ai dettagli e innamorato della semplicità. Quindi, fin dall‟inizio Steve aveva deciso che il telefono Apple avrebbe avuto un unico tasto. I suoi ingegneri continuavano a ripetergli, nelle riunioni che si svolgevano una o due volte a settimana, che non era
possibile progettare un cellulare con un solo pulsante. Non lo si sarebbe potuto accendere e spegnere, non c‟era modo di controllare il volume, passare da una schermata all‟altra, andare su Internet e usare tutte le altre funzionalità del telefono. Steve fu sordo alle loro lamentele. Ribadì: “Il telefono avrà un solo tasto. Scoprite come fare.” Steve è un eccellente risolutore di problemi e, negli anni, ha avuto idee fantastiche per tutti i prodotti sviluppati sotto la sua direzione; ma non sapeva come si potesse progettare un telefono con un solo pulsante. Tuttavia, essendo il “consumatore ideale”, sapeva di volere proprio quello: e pretese che gli ingegneri risolvessero il problema. Sapete già com‟è andata a finire: il primo iPhone aveva un solo tasto.
A portata di mano Steve era affascinato dalla straordinaria anatomia della mano umana, dalla duttilità e agilità con cui si muove insieme al braccio. A volte, durante una riunione, lo vedevo alzare una mano davanti al viso e ruotarla lentamente: sembrava intento a riflettere su cosa la mano umana è capace di fare. Per dieci o quindici secondi sembrava completamente immerso in quell‟esercizio. Ti bastava assistere a quella scena un paio di volte per capire il pensiero che c‟era dietro: le dita potevano impartire istruzioni al computer in modo molto più sofisticato che con una semplice tastiera. Riflettendo sulle idee nate dalle visite al PARC, tornava spesso a meditare sulla mano e diceva cose del tipo: "La mano è la parte del corpo che più di ogni altra risponde ai comandi del cervello.” Oppure: “Se potessimo replicare la mano, avremmo un prodotto da urlo.” A ripensarci, da quelle riflessioni derivano tutti i prodotti Apple più recenti, dal Mac all‟iPod, dall‟iPhone all‟iPad. Steve chiese al team Mac di collaudare una serie di periferiche con cui controllare il cursore: c‟era una specie di
penna, e mi pare che ci fosse anche una sorta di tablet, simile al touchpad dei computer portatili di oggi. Ci mise un po‟ a convincersi che niente funzionava bene quanto il mouse. Ogni operazione, dai menu a discesa fino al taglia- incolla, era resa possibile dal movimento del cursore.
L'utente ideale: il cliente è come me, io sono il cliente In fondo, lo stimolo che ha dato vita ai prodotti Apple deriva dall‟ottica con cui Steve pensa ai prodotti: li considera un elemento intimo e personale della vita di ciascuno. Quest‟uomo perfezionista e pieno di entusiasmo, capace di trasformare in realtà le sue visioni, ama la tecnologia sofisticata ma anche la semplicità d‟uso, che rende affascinanti i suoi prodotti anche per il consumatore più distratto e meno esperto. Quando Steve crea un prodotto per sé, lo crea per ogni consumatore; progettando per sé, sta progettando per l‟uomo (e la donna) della strada. A volte, soprattutto nei primi tempi, ogni dipendente di Steve sembrava avere storie horror da raccontare sulla sua attenzione maniacale per i dettagli. Durante la progettazione del primo Mac, Steve stava sempre col fiato sul collo di tutti. Era un piccolo team, non più di un centinaio di persone fra amministrazione, documentazione, marketing e tutto il resto. Ma con allarmante frequenza ti ritrovavi Steve alla tua scrivania o nella tua postazione, pronto a rimettere in discussione ogni scelta che avevi fatto dopo la sua ultima visita. E se ti diceva: “Questa roba fa schifo”, dovevi sapere che non era necessariamente una critica, ma poteva essere il suo modo per dire: “Non lo capisco, spiegami cos‟è.” La maggior parte del team Mac ci mise un po‟ a capire che quell‟atteggiamento non era ingerenza, mania di perfezionismo o perdita di tempo, e che Steve non faceva tutte quelle domande perché si perdeva nelle minuzie più
irrilevanti. No, si comportava così perché aveva le idee chiarissime sul prodotto che voleva creare e doveva assicurarsi che ogni scelta, ogni decisione fosse la migliore possibile in vista di quell‟obiettivo.
Fare la cosa giusta Steve era deciso a fare di ogni suo prodotto un gioiello di semplicità e intuitività per il consumatore, ma accanto a questo impulso ce n‟era un altro, di pari intensità: l‟esigenza di creare. I suoi prodotti dovevano possedere due qualità: essere intuitivi all‟uso e generare una tale soddisfazione da suscitare nell‟utente un attaccamento emotivo nei riguardi dell‟oggetto. Per Steve, lanciare un prodotto con le tempistiche giuste non è importante quanto lanciare un prodotto valido: il più vicino possibile alla perfezione. Più e più volte ha imposto alla sua squadra di frenare prima del traguardo, di battere in ritirata strategica. Non voleva realizzare un prodotto simile al PC IBM, che a suo giudizio era utile tutt‟al più come fermaporte. Quasi tutti i prodotti che hanno costruito la reputazione di Apple dopo il ritorno di Steve - cioè praticamente tutti quanti - sono usciti in ritardo rispetto alla data prevista, perché Steve ha preso quella decisione impopolare che tanto spesso ottiene l‟effetto di inimicarsi gli azionisti: ha deciso che il prodotto non era ancora pronto per il grande pubblico. Mesi dopo la data di lancio fissata da Steve, gli sviluppatori del team Mac indossavano ancora magliette con la scritta “Maggio 1984” sulla manica, e il prodotto non era ancora sul mercato. Oggi Steve non viene più criticato perché non rispetta le scadenze: semplicemente, oggi non annuncia mai i nuovi prodotti fino a poco prima dell‟uscita. Non presta attenzione ai si dice e alle “voci di corridoio”. Tutte le chiacchiere prima dell‟uscita non fanno che alimentare l‟attesa del pubblico.
Sfruttare competenze e interessi non avremmo mai pensato di poter usare
che
Qual è il vostro talento più insolito, l‟abilità o l‟area di competenza che non vi aspettavate di poter sfruttare? Tutti ne abbiamo qualcuno: quelle attitudini latenti, quelle informazioni apprese e poi messe da parte pensando che non ci sarebbero mai servite. Steve ne aveva parecchie. Per esempio: nel suo breve soggiorno al Reed College aveva scoperto il mondo della calligrafia. Che interesse poteva avere una disciplina così di nicchia e così poco tecnologica per un ragazzo che fin da giovanissimo si era appassionato all‟informatica? Il fascino che esercitano su di lui le forme e i contorni si esprime nella sagoma dei caratteri, in font come il Garamond o il Myriad, così come nel design quasi perfetto dell‟iPhone. (Per un certo periodo, all‟inizio della nostra collaborazione, Steve si firmava in una bella grafia corsiva, tutta in minuscolo.) Per Steve, l‟interfaccia grafica che aveva visto al PARC era un invito: significava che il suo Macintosh non doveva per forza usare gli orribili font rozzi e noiosi che avevano caratterizzato ogni altro computer fin dai tempi dei primi monitor. Con un display grafico simile a quello sviluppato al PARC, il Macintosh avrebbe potuto disporre di una vasta gamma di font piacevoli all‟occhio, a larghezza variabile, in dimensioni diverse e comprensivi di grassetto, corsivo, sottolineato, apici e pedici per la notazione matematica, e più varianti di quante lo stesso Steve potesse concepire. Non per l‟ultima volta, Steve aveva forgiato una visione del futuro. Com‟era accaduto a me con la Model A, le prime esperienze possono avere un potere quasi magico, se sappiamo richiamarle nei momenti cruciali.
Dettagli, dettagli Voglio raccontare alcuni aneddoti che illustrano bene l‟attenzione maniacale di Steve per i dettagli più minuti: forse vi strapperanno un sorriso, ma sono anche un punto di riferimento che può tornare utile a tutti noi. Nel 2002, quando Steve cercava di convincere i dirigenti delle case discografiche a stringere accordi per vendere musica online, era in contatto con Hilary Rose, direttrice dell‟associazione di categoria: la RIAA (Recording Industry Association of America). Un giorno la Rose partecipò a una riunione con Steve e due progettisti del sito dell‟iTunes Music Store, venuti per sottoporre al giudizio di Steve l'ennesima revisione. La Rose racconta così la scena a cui assistette, incredula e divertita: "Steve passò circa venti minuti a discutere con gli ingegneri su quale fosse il posto migliore in cui inserire un testo di tre parole entro un riquadro di otto centimetri. Ecco quant‟era fissato con i dettagli.” Un giornalista di Time visse un‟esperienza analoga. Una volta gli fu permesso di partecipare a una riunione della Pixar e anch‟egli rimase colpito dall‟attenzione di Steve per i dettagli. Alcuni esperti del marketing Disney erano venuti a presentare la campagna pubblicitaria per l‟uscita di Toy Story 2, e Steve stava esaminando attentamente la tabella dei codici colori scelti per le locandine, i trailer, le affissioni stradali, le date di uscita, le promozioni per la colonna sonora, per i giocattoli ispirati ai personaggi del film e così via. Steve faceva domande precise e dettagliate sul palinsesto degli spot televisivi, sugli eventi organizzati a Disneyland e Disney World, e sulle trasmissioni in cui si sarebbe parlato del film. Steve era così coinvolto, si legge nell‟articolo, che “studiava quei documenti come un rabbino studia il Talmud”. Il giornalista era chiaramente impressionato; ma per
chiunque abbia mai lavorato con Steve, non c‟era nulla di strano. Fa sempre così.6 Facciamo un altro esempio, in cui la cura per i dettagli verte su questioni più complesse rispetto a quale personaggio di Toy Story debba campeggiare su ogni locandina. Durante il lavoro sull‟iPhone, il team aveva valutato un‟infinità di progetti per il guscio esterno: alcuni differivano solo per qualche particolare, alcuni erano radicalmente diversi, altri ancora richiedevano di realizzare il guscio con materiali differenti. E poi, durante un fine settimana, a pochi mesi dal lancio sul mercato, Steve comprese una dolorosa verità: non era soddisfatto del guscio che aveva scelto. Il giorno dopo andò in ufficio sapendo che il team iPhone - gente che già lavorava con orari impossibili - non l‟avrebbe presa bene. Ma questo non importava. Steve è il Michelangelo del design: continua ad aggiungere pennellate sulla tela finché non è certo di aver ottenuto il risultato voluto. È quello che a volte definisce "premere il pulsante di reset”. Larry Tesler del PARC, che era diventato lo "scienziato capo” di Apple, disse una volta che era stato Steve Jobs a insegnargli il significato della parola “carisma”. Se credi nel tuo prodotto e nelle persone che lavorano con te quanto ci crede Steve, le persone non ti abbandoneranno. Apple aveva uno dei turnover del personale più bassi in tutta la Silicon Valley, e ancor di più per i team di prodotto. Capitava di rado che qualcuno si licenziasse perché scontento degli orari o delle condizioni di lavoro. Ma ormai le truppe Apple sapevano cosa attendersi. Quando Steve dice: “Non va bene, dobbiamo buttar via tutto, fare dieci passi indietro e scoprire cosa è giusto davvero”, la pressione si intensificherà, ma il prodotto finale sarà effettivamente migliore. Cercate di immaginare qualcosa in Apple che sia così irrilevante da non meritare l‟attenzione di Steve Jobs. E ora sentite questa. Michael Krantz, 'Apple and Pixar: Steve's Twojobs”, Time, 18 ottobre 1999.
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A Los Angeles vive un ragazzo di nome Ian Maddox, che oggi lavora allo show televisivo Warehouse 13 sul canale SyFy, ma che tempo fa era addetto vendite e “key holder” (“custode delle chiavi”, ovvero assistente del direttore) all‟Apple Store di Pasadena. Poco dopo la sua assunzione, un gruppo di operai iniziò a presentarsi ogni sera all'orario di chiusura. Scardinavano le assi del pavimento una dopo l‟altra e posavano nuove mattonelle: granito grigio scuro importato dall‟Italia, scelto personalmente da Steve, "molto lussuoso per un negozio”, racconta Ian. Un paio di giorni dopo la fine dei lavori, di mattina presto prima dell‟apertura, Ian vide i dirigenti aggirarsi per il negozio in stato di massima allerta. Arrivò anche il direttore regionale. Ed eccolo lì: Steve Jobs in persona, venuto a ispezionare la nuova pavimentazione, con quattro o cinque persone al seguito. Steve non era soddisfatto. Le mattonelle facevano un bell‟effetto appena posate, ma quando i clienti avevano iniziato a camminarci sopra, si erano formate delle chiazze alquanto antiestetiche. Invece di donare un tocco di classe al negozio, gli davano un‟aria sciatta e triste. dipendenti si finsero indaffarati per non dare nell‟occhio e, intanto, studiavano la reazione di Steve. Il quale, inviperito, ordinò di rifare il lavoro da capo. La sera dopo gli operai tornarono, tirarono via le mattonelle e ricominciarono. Stavolta usarono un sigillante diverso e ordinarono un altro prodotto per pulire le mattonelle. Quando ho sentito raccontare questo aneddoto, ho sorriso: non riuscivo a immaginare nessun altro amministratore delegato di una global company che si prendesse la briga di ispezionare la pavimentazione di un punto vendita; eppure allora sembrava un comportamento così tipico di Steve, il grande maestro dei dettagli. Ogni tanto ripenso a quell‟episodio e mi domando: "Di recente mi è capitato di pronunciare la frase: Non è proprio quel che volevo, ma andrà bene lo stesso?” Voglio assicurarmi di essere esigente quanto Steve - il mio modello di riferimento - nel ricercare la perfezione dei dettagli.
Ian ha un altro aneddoto da raccontare che riflette un lato diverso della personalità di Steve. Quando lavorava all‟Apple Store, un giorno Ian ricevette un‟email che lo lasciò interdetto. Un cliente che aveva aiutato era rimasto soddisfatto, talmente soddisfatto che aveva scritto a Steve Jobs per elogiare il servizio ricevuto. L‟email che arrivò a Ian aveva come mittente l‟indirizzo personale di Steve e il cliente era in copia. Il messaggio era composto da due parole: ottimo lavoro Solo questo. Niente maiuscole, niente punto, niente firma. “Bastava così”, dice Ian. Quanti amministratori delegati di grandi aziende trovano il tempo di dare una pacca sulla spalla a un dipendente così in basso nella gerarchia?
Imparare dagli errori Il team Mac era sempre più vicino al suo obiettivo: un hardware funzionante e un software che facesse il suo dovere senza andare in crash. Un giorno Steve andò da loro per esaminare la macchina e non fu soddisfatto. "Cos‟è quel rumore?" chiese. Nessuno sapeva di cosa parlasse. Non c‟era alcun rumore, tranne un lieve fruscio della ventola. Steve non voleva saperne. Non gli importava che ogni altro personal computer avesse una ventola rumorosa: il Macintosh doveva essere assolutamente silenzioso. Gli ingegneri cercarono di spiegargli che il Mac non poteva funzionare senza ventola: si sarebbe surriscaldato e bruciato. Ma Steve insisteva: niente ventola. Gli ingegneri iniziarono a venire nel mio ufficio per scongiurarmi di parlare con Steve, di fargli cambiare idea: il Mac doveva per forza avere una ventola. L‟intera azienda era in disaccordo con lui, ma lui non sentiva ragioni. Gli ingegneri tornarono ai loro laboratori e cominciarono a riprogettare il Mac, senza ventola. La data di lancio
prevista arrivò e passò. Il Macintosh sarebbe uscito con cinque mesi di ritardo. Steve aveva ragione, in linea di principio: un computer totalmente silenzioso è molto piacevole da usare. Ma il prezzo da pagare era troppo alto. Anche stavolta Steve avrebbe imparato una lezione preziosa: dettagli sono importanti e vale la pena di aspettare per ottenere il meglio. Ma ci sono casi in cui bisogna soppesare costi e benefici: un prodotto perfetto che però arriva in ritardo sul mercato. Steve avrebbe continuato a rimandare il debutto dei prodotti per perfezionarli, ma avrebbe ammesso pubblicamente che un ritardo di quell‟entità non doveva ripetersi più. Alcuni nemici del Macintosh, e per la verità anche alcuni amici, soprannominarono quei primi Mac “ i tostapane beige”, per via dei loro inevitabili problemi di surriscaldamento. Ma tutti i prodotti di punta usciti in seguito, dall‟iPod in poi, hanno sfruttato lezioni che Steve ha imparato con quei primi Mac: su come prodotti arrivano nelle mani del consumatore, sul pricing e su altri fattori. E non finiscono qui le grandi cantonate prese da Steve con il Mac. A un certo punto decise che, oltre a creare l‟hardware e il software, voleva anche costruire i computer. La fabbrica sarebbe costata venti milioni di dollari; il consiglio di amministrazione era riluttante, perché nessuno credeva davvero che il Macintosh avrebbe visto la luce; ma alla fine si lasciarono convincere, anche perché Apple aveva in banca duecento milioni di dollari, grazie alle vendite stellari di Apple II. Steve trovò una fabbrica già esistente nella vicina Fremont, a poco più di mezz‟ora di auto da Cupertino, e la fece ristrutturare per farne uno stabilimento interamente automatizzato in cui assemblare il Macintosh. (I libri di storia della tecnologia ne parlano sempre come di una fabbrica, ma in realtà era un centro di assemblaggio: i componenti erano prodotti in Giappone e altrove, e spediti a Fremont.)
Steve collaborò in prima persona con gli ingegneri che progettavano le varie macchine per il montaggio automatizzato e, come al solito, pretese di essere coinvolto nelle decisioni su ogni dettaglio del funzionamento di ogni ingranaggio o procedura di controllo. Quando veniva installato un nuovo macchinario, non vedeva l‟ora di andare a Fremont e vederlo all‟opera: era come un bambino la mattina di Natale. Il grande fascino che la robotica esercitava su di lui sembrava nascere da quell‟interesse per la mano umana. Negli ultimi tempi, prima dell‟avvio della produzione, io e lui visitammo lo stabilimento circa tre volte la settimana. Ma questa parte della storia non ha un lieto fine. Se Steve si fosse fermato a riflettere e avesse applicato le sue ottime capacità analitiche, avrebbe capito che le vendite del Macintosh avrebbero dovuto essere astronomiche perché la fabbrica avesse un senso dal punto di vista finanziario. Penso che ogni Mac che usciva da quello stabilimento gli sia costato circa ventimila dollari, e il prezzo di listino era duemila dollari: fate voi i calcoli. Fu una decisione orribilmente costosa e, quel che è peggio, nei primi tempi il Mac non vendette bene. Ma diamo a Steve quel che è di Steve: non avrebbe mai più ripetuto quell‟errore.
Piccolo cambiamento, grande risultato La perspicacia di Steve mi lasciava ancor più ammirato quando la paragonavo ad alcuni episodi a cui avevo assistito in altre aziende. Quand‟ero in Intel, avevo partecipato a una riunione con i tre fondatori, Andy Grove, Gordon Moore e Bob Noyce (uno degli inventori del semiconduttore). Andy ci mostrò un microchip della concorrenza e disse: “Guardatelo: è molto più bello del nostro. I nostri chip usano una tecnologia molto più avanzata, ma questo ha un involucro più bello, un lettering più elegante e tutti i contatti sono in oro. Ci stanno stracciando con un prodotto peggiore del nostro ma più bello."
Il chip è un prodotto che vive all‟interno di un computer o di un altro apparecchio elettronico: l‟utente non lo vede mai. Ma tutti in quella riunione capirono che Intel doveva fare qualcosa. Avviarono un grande progetto per adeguare l‟aspetto del prodotto alla qualità della tecnologia. Poi lanciarono un‟ambiziosa campagna di sensibilizzazione: il progetto "Intel Inside”. Intel era al quarto posto tra i produttori di semiconduttori: dopo quella campagna divenne il leader di settore. Non è un‟esagerazione dire che Steve Jobs è diventato un leader così straordinario e ha creato tanti prodotti rivoluzionari, perché è attento ai minimi dettagli e alla perfezione di ogni particolare. Per Steve, tutto è importante. Continua a innovare per avvicinarsi al suo ideale, alla sua idea di perfezione, che quasi sempre va oltre quel che tutti gli altri considerano raggiungibile. Il lavoro procede a rilento, i dipendenti s‟infuriano: ma è un elemento essenziale del suo successo.
PARTE II LE REGOLE DEL TALENTO
Lavoro di squadra “Pirates! Not the Navy”
Avrei dovuto saperlo che non sarebbe stato un ritiro aziendale come tutti gli altri. Dai finestroni del ristorante al secondo piano del Carmel Inn si vedeva scintillare l'acqua blu della piscina, dove sguazzavano allegri un gruppo di ragazzi e un paio di ragazze... completamente nudi. Alle otto del mattino, nientemeno. La maggior parte dei commensali non sapeva da che parte voltarsi. Due signore eleganti dai capelli grigi che prendevano il caffè sembravano scioccate. Io ero sorpreso quasi quanto loro. Quei ragazzi nudi che giocavano in acqua erano membri del team Macintosh.
Promuovere
lo
spirito
di
squadra
Ogni leader e ogni manager vuole che i suoi sottoposti collaborino in modo proficuo, che si sostengano a vicenda, che ciascuno faccia la sua parte in vista di un obiettivo comune. Sì, la scena a cui assistevo in quella piscina era eccessiva, non proprio l‟esempio perfetto dell‟obiettivo a cui un leader dovrebbe puntare... ma di sicuro mostrava che Steve era riuscito a instillare uno spirito di squadra nel gruppo Macintosh. Il team Mac comprendeva ormai una trentina di persone: ai cinque componenti originari che avevano avviato il progetto di un computer rivoluzionario, Steve aveva aggiunto alcuni nuovi assunti. Aveva organizzato quella vacanza per assicurarsi che tutti fossero sulla stessa lunghezza d‟onda e si muovessero nella stessa direzione. A quei ragazzi, quasi tutti sotto i trent‟anni, si chiedeva di farsi
venire idee fresche e nuove, in un ambiente che si sarebbe potuto definire quasi ostile: un‟azienda che prosperava su una linea di prodotti che ormai Steve considerava datati e obsoleti. Tutto considerato, non c‟era da stupirsi per quel bagno senza costume: Steve aveva cercato - in Apple e fuori - persone che avessero il coraggio di essere diverse, di rifiutare le convenzioni, di oltrepassare i limiti. Per me, quei ragazzi nudi significavano che c‟era riuscito.
L'ABC del team building Mentre i partecipanti prendevano posto in platea alla conferenza di apertura del ritiro aziendale a Carmel, ragazzi e ragazze distribuivano gadget. A ogni membro del team veniva consegnata una maglietta con quello che sarebbe diventato il celebre logo del team Mac:
Pirates!
Not
the
Navy
Non ho mai chiesto a Steve da dove provenisse quella frase: se l‟avesse inventata lui o se lo spunto fosse di uno dei creativi delle agenzie pubblicitarie McKenna e Chiat/Day, In ogni caso, Steve l‟aveva adottato come grido di battaglia per incitare le truppe. Era convinto che lo slogan dei pirati li avrebbe aiutati a costruire una chimica di squadra,
un team di persone molto unite e pronte a fare affidamento l'una sull'altra. E ci riusci‟. Per Steve, questi “ritiri” erano una straordinaria occasione per far interagire persone che lavorano a vari aspetti del progetto e che normalmente non si frequentano. Quelle vacanze stimolavano un senso di appartenenza, l‟idea che “Ci siamo dentro tutti". Per tre
giorni il team trascorreva insieme ogni minuto della giornata: i pasti, il tempo libero e le sedute di brainstorming. Steve rivolgeva loro parole molto sentite: esaltava il loro talento e faceva appello alla loro consapevolezza di svolgere un ruolo cruciale nella creazione di prodotti rivoluzionari. La maglietta dei “Pirati” era solo una delle centinaia che avrei visto nei miei anni in azienda. Apple si fece la fama di un‟azienda che celebrava praticamente tutto: fasi di sviluppo del prodotto, obiettivi raggiunti, aumento del fatturato, nuovi prodotti immessi sul mercato, l‟assunzione di nuovi dirigenti. E distribuire magliette o felpe per commemorare eventi e successi divenne un marchio di fabbrica di Apple. Penso di averne collezionate un centinaio, nel corso degli anni. Ed esiste un libro fotografico composto interamente di immagini delle magliette Apple.
L'utilità dei piccoli gruppi di lavoro orientati al prodotto Steve capiva istintivamente che alcuni progetti hanno bisogno del calore e dell‟intensità che si generano in un piccolo gruppo di persone di talento che può lavorare libero dalle consuete costrizioni. Nel giusto ambiente e con il tipo giusto di coraggio, i pirati possono ottenere ciò che alla “marina” sarebbe impossibile. Steve chiedeva a tutti i membri del team di sfruttare appieno i loro talenti creativi e artistici (in seguito avrebbe usato lo stesso approccio con tutti i team di progetto). Fin dall‟inizio decise che il gruppo Mac non avrebbe mai contato più di cento persone. “Se dobbiamo assumere qualcuno con competenze specifiche, qualcun altro dovrà andarsene”, diceva. Conosceva i pericoli di un gruppo di lavoro così vasto: iniziano a presentarsi intoppi organizzativi che rallentano il lavoro di tutti. Ma lui preferiva dire che il problema era un altro: “È difficile ricordare più di cento nomi.” Anche questo era un atteggiamento minimalista derivato dalla sua fede nel buddismo. Naturalmente aveva ragione: una grande azienda può facilmente cadere vittima di
un‟inutile duplicazione del lavoro, di una gerarchia farraginosa, di barriere che frenano la comunicazione e il flusso libero delle idee. Steve vedeva già questi problemi nel resto dell‟azienda, e voleva rimediare. Anzi, già allora disse di voler dimostrare con il successo del Macintosh la validità di questi piccoli team "tipo startup”, per poi diffondere in tutta la Apple quella stessa modalità ili lavoro, basata su gruppi poco numerosi e orientati al prodotto. Lo slogan sui pirati non parlava solo del prodotto, ma incarnava quello spirito rivoluzionario, da fuorilegge, improntato al libero pensiero, che Steve voleva diffondere. Temeva per il futuro di Apple: aveva paura che, sviluppandosi sempre più, potesse diventare un azienda piatta e priva di creatività come tante altre. Le sue aspettative erano alte nei riguardi di tutti: dagli ingegneri ai venditori, dall'amministrazione alla produzione. C'era voluto l‟ingegno di centinaia di menti visionarie per mandare tre uomini sulla luna; e così Steve faceva affidamento sul contributo prezioso di ogni dipendente Macintosh per raggiungere il suo obiettivo ultimo. Questa era la cultura di un team orientato al prodotto. Ed era essenziale, diceva Steve, se Apple voleva continuare a proporsi come un laboratorio vivace di idee e prodotti innovativi e allo stesso tempo come un ambiente di lavoro stimolante. Lo straordinario spirito di corpo del gruppo Mac era anche il risultato dell‟impegno profuso da Steve per isolarlo da interferenze esterne provenienti dal resto dell‟azienda. Il team Mac era un organismo indipendente, con i suoi progettisti, programmatori, sviluppatori, responsabili di produzione, redattori della documentazione e addetti alla promozione. In un team ristretto di persone, soprattutto se si lavora insieme per sedici ore al giorno, si stabilisce un legame stretto con i colleghi e si costruisce responsabilità. I rapporti si orientano su un piano più personale e ciascuno si sente in dovere di tenersi al passo con il resto del team. Steve sognava il giorno in cui Apple avrebbe potuto snellire la struttura di management, con una gerarchia meno
verticale, con meno livelli di approvazione e meno firme per ogni singola decisione. Mi diceva: „Apple dovrebbe essere il genere di posto in cui chiunque può andare dall‟amministratore delegato a esporgli le sue idee.” Era più o meno questo il suo stile di management. Ma sapeva di non avere tutte le risposte: abbiamo passato insieme un‟infinità di ore a riflettere su come promuovere in ogni dipendente l‟impressione che quella fosse la sua azienda, il suo prodotto.
L'arte del team building: avanzare con i ritiri Al termine del ritiro di Carmel, a tutti i partecipanti furono regalati due bicchieri con il logo Apple. Quelli appena assunti nell‟azienda o appena entrati nel gruppo Macintosh - come me - tornarono a casa dal primo ritiro ricolmi di entusiasmo, sentendosi membri a pieno titolo del team. Tutti sembravano molto ottimisti. Avevo partecipato a molte riunioni aziendali, ma non avevo mai assistito a niente di simile. Non solo il lavoro sul Macintosh aveva fatto evidenti progressi, ma era stato raggiunto l‟obiettivo di creare spirito di gruppo, un “Ci siamo dentro insieme” che generava rispetto e sostegno reciproco. Durante quel ritiro scoprii che Steve sapeva trasformare il cliché del “team building” in una vera e propria forma d‟arte. Aveva reinventato un rituale tipico della vita d‟azienda, proprio come faceva per i prodotti che creava e per la motivazione dei suoi team. Viveva le riunioni d‟affari come esperienze totalizzanti, come una fase essenziale della creazione del prodotto. Steve adorava i ritiri del team. Li inseriva nel flusso di lavoro, ne organizzava uno ogni tre mesi circa, per un gruppo Mac che era in continua crescita. C‟era molto tempo per divertirsi e per rilassarsi, ma i momenti di lavoro seguivano un‟agenda molto rigida, ed era richiesta la partecipazione di tutti. Debi Coleman, che aveva conseguito un master in gestione d‟impresa a Stanford e si occupava di gestire il budget per il Mac, durante i ritiri era anche
responsabile dell‟agenda e doveva assicurarsi che il lavoro procedesse in maniera ordinata. Uno dopo l‟altro, ogni team leader - per l'hardware, il software, il marketing, le vendite, l‟amministrazione, l‟ufficio stampa - presentiva un breve rapporto e una timeline, spiegando a che punto era il lavoro, giustificando eventuali intoppi o ritardi e avanzando proposte su come rimettersi in carreggiata. Tutti erano invitati a dare suggerimenti. L‟idea era di ammettere apertamente i problemi e spingere il gruppo a risolverli insieme. Al centro dei pensieri di tutti doveva esserci il Mac, non il titolo o la posizione di ciascuno.
Il
leader
come
Capitano
dei
Pirati
Steve era il direttore di quel circo, con tanto di frustino. A ogni gruppo chiedeva sempre risultati in linea con il livello qualitativo desiderato. Sapeva tirar fuori il genio creativo delle persone per farle lavorare in armonia. Si circondava di uomini e donne che condividevano il suo stile e la sua filosofia, e che erano disposti (quasi sempre, per lo meno) a lasciargli reggere il timone. Ma, al contempo, incoraggiava lo spirito critico. C‟erano molti dibattiti accesi, ma anche molte risate. Le uniche volte in cui ho visto Steve davvero frustrato era quando gli sembrava che qualcuno non dicesse chiaramente come la pensava. Le discussioni possono essere molto animate, ma malgrado quel che potreste aver letto altrove - l‟atmosfera delle riunioni era sempre civile... benché Steve non avesse remore a puntare il dito contro gli errori. Conosceva così bene ogni dettaglio del Macintosh che non gli sfuggiva quasi nulla. E non ha mai avuto molta pazienza per la stupidità e la disinformazione. Nelle aziende tradizionali, come sapevo bene per averci lavorato a lungo, le riunioni tendono a essere influenzate dalla struttura gerarchica dell‟organizzazione. Se il capo dice che la mucca è viola, difficilmente qualcuno dirà: “Ho visto l‟animale coi miei occhi, non è proprio una mucca, ed è
arancione.” Steve non la pensava così: se hai un‟idea, diceva, devi alzare la voce. Non gli importava da quale livello della gerarchia venissero l‟idea, la critica o il suggerimento, purché fossero sensati e basati sui fatti. Un progettista ricorda: "Spesso, Steve dava l‟avvio a una riunione o a una discussione in maniera provocatoria o polemica, ma si rilassava appena capiva di non avere di fronte uno zuccone. L‟ho visto comportarsi così durante le riunioni generali: all‟inizio esponeva una serie di insoddisfazioni, con il tono di un sergente dell‟esercito, ma poi adottava un atteggiamento più propositivo. 7 Anni dopo, l‟ex dirigente Apple Jean-Louis Gassé elogiò lo stile di management di Steve con una definizione memorabile: “Per creare grandi prodotti non serve una democrazia, ma un tiranno competente.” 8 Le persone che lavoravano per Steve lo perdonavano, o almeno tolleravano il suo stile, anche perché era soprattutto un tiranno del prodotto, che si impegnava a fondo per realizzare i prodotti che ideava. Anche i pirati hanno bisogno di un capitano. Ed era confortante che il Grande Capo, il presidente dell‟azienda, non fosse “Mr. Jobs” ma semplicemente “Steve”. Era lui a dare gli ordini, ma voleva che tutti lo considerassero “uno di noi”. Fin troppo spesso veniva a farti domande scomode e dettagliatissime. Sì, a volte i progettisti si sentivano un po‟ come all‟asilo infantile. L‟importante, però, era che Steve non se ne stava in ufficio a dare ordini, ma era lì, proprio lì: scendeva in miniera, per così dire, a lavorare gomito a gomito con tutti gli altri. Ogni visita, ogni domanda mostravano appieno l‟intensità del suo coinvolgimento. Gli importava davvero di ogni aspetto del lavoro che avrebbe fatto del Mac un grande prodotto, anche nei minimi dettagli. Le sue azioni ne erano la riprova, ogni giorno. Anche quando si dichiarava 7 8
fonte confidenziale Peter Elkind , “The trouble with Steve Jobs”, Fortune, 5 Marzo 2008
insoddisfatto, era chiaro che in fondo c‟era la convinzione che ogni cosa è importante: che il successo risiede nei dettagli. Naturalmente, una delle unità di misura con cui valutava l‟impegno, soprattutto quello degli sviluppatori software del team Mac, era il numero di ore al giorno che eri disposto lavorare. Sedici ore? Bene. Tutto il weekend? Perchè no? ( Di un dirigente Disney - brusco ed esigente ma molto creativo - con cui Steve avrebbe lavorato in seguito, si narrava che fosse solito dire ai suoi sottoposti: “Se non vieni a lavorare il sabato, non scomodarti a venire la domenica.” In altri termini, non scomodarti a tornare mai più.) Una persona convinta che il suo lavoro stesse rivoluzionando il settore informatico - se non proprio la storia dell'umanità - non considerava un problema lavorare in orari assurdi e rinunciare al tempo libero, ma anzi si considerava un prescelto, un privilegiato. Un giorno, dopo una visita di controllo al team, Steve mi guardò e disse: “So che si lamentano di me, ma in futuro ripenseranno a questo periodo come ai giorni migliori della loro vita. Solo che ancora non lo sanno. Io però lo so. In realtà è una festa." “Steve, non ti illudere", gli risposi: "Lo sanno eccome, e gli piace da morire!"
Ammettere i propri errori e andare avanti Ma neppure Steve era infallibile nel valutare le persone. Una volta prese una decisione potenzialmente disastrosa per il Macintosh, perché spinto dall‟ammirazione e dal rispetto per un collega. Il Macintosh aveva bisogno di un disco fisso. Steve si teneva molto aggiornato sul mercato della componentistica per computer; ma tra gli hard drive allora in commercio nessuno lo convinceva fino in fondo, nessuno gli sembrava degno del Macintosh. Poi, un giorno, mi presentò un visitatore, un tedesco che evidentemente gli stava molto simpatico, un tizio molto
sveglio che lavorava e aveva lavorato alla Hewlett-Packard ed era un esperto di dischi fissi. (Porgo le mie scuse a quell‟uomo: non ricordo più il suo nome.) A Steve erano sempre piaciute le persone orientate al prodotto. Per lui la cosa più importante è che le persone con cui lavora più a stretto contatto condividano la sua visione. Potete anche contraddirlo apertamente, purché lui sia certo che condividiate i suoi obiettivi A causa della fiducia che riponeva nell' uomo dell' hard drive",incaricò quell'uomo di progettare un hard drive innovativo e all‟avanguardia per il Mac, da assemblare in uno stabilimento nei pressi della Silicon Valley. Ero stato direttore del principale stabilimento di produzione di hard drive per IBM, a San Jose, in California. E un settore di cui nessun outsider dovrebbe provare a entrare: sono prodotti complicatissimi da progettare e costruire, tra substrati magnetici, bracci meccanici e operazioni di alta precisione. Tanto per dirne una, le testine induttive si muovono a pochi nanometri di distanza dal disco che ruota; le tolleranze nella costruzione possono essere un incubo. È difficilissimo costruire dischi funzionanti. Dissi a Steve: "Non penso proprio che sia il caso di metterci a costruire dischi fissi: meglio trovarne uno già pronto.” E il responsabile dell‟hardware Mac, Bob Belleville, era d‟accordo con me. Ma Steve fu irremovibile. Qualcuno inventò il nome in codice “Twiggy”, e l‟impresa ebbe inizio, con un team di lavoro che sarebbe arrivato a contare trecento persone. Andai a parlare con Belleville: eravamo sulla stessa lunghezza d‟onda e credeva di aver trovato una soluzione. La Sony aveva immesso sul mercato un nuovo hard drive da 3,5 pollici sviluppato per la Hewlett- Packard; uno degli ingegneri di Belleville, che veniva dall‟HP, poteva chiedere ai suoi contatti di prestarci uno di quei dischi per eseguire un collaudo. Bob si procurò il disco, lo trovò buono e disse che si poteva usare per il Mac. Mentre i suoi sviluppatori si mettevano al lavoro sull‟interfaccia, avviammo i negoziati
con la Sony: l‟azienda giapponese era ben felice di collaborare con Apple. Il lavoro su Twiggy e sul drive Sony procedevano in parallelo. Bob andava spesso in Giappone, e uno degli ingegneri Sony veniva ogni tanto a Cupertino per discutere delle specifiche tecniche. Tutto andò a meraviglia, finché un giorno l‟ingegnere della Sony era nell‟uffìcio di Bob e, a un certo punto, Bob sentì dal corridoio una voce familiare che veniva verso il suo ufficio. Balzò in piedi, aprì la porta di uno sgabuzzino e si sbracciò cenni concitati per dire all‟ingegnere di infilarsi lì dentro. Il pover'uomo rimase sconcertato: perché mai doveva farsi chiudere in uno sgabuzzino nel bel mezzo di una riunione? Ma si fidava di Bob, quindi entrò nello sgabuzzino. Bob lo chiuse lì entro, tornò a sedersi alla scrivania e si finse indaffarato mentre Steve entrava. L‟ingegnere restò buono buono nel ripostiglio buio finché Sleve non se ne fu andato. Mi viene da ridere ogni volta che ripenso a quella scena. Mesi dopo, partecipai a una riunione sul Twiggy nel Mac building. Il tizio dei dischi fissi” di Steve ci illustrò i risultati dei test. Fu sincero: i risultati erano pessimi. Il Twiggy era un vero disastro. Steve convocò una riunione con tutti i responsabili del team Mac, sul versante della progettazione e su quello finanziario. Quando tutti lo scongiurarono di interrompere il lavoro sul Twiggy, lui guardò me e mi disse: “Jay, vorrei da te un parere obiettivo e un consiglio spassionato.” “Va bene”, risposi io. "Usciamo a fare una passeggiata.” Fu una delle nostre solite passeggiate, ma fu più tesa del solito. Steve apprezzava la mia sincerità e io fui sincero. "Steve, devi abbandonare il progetto. È un ridicolo spreco di soldi. E ti prometto che troverò un altro impiego a tutte le persone del progetto Twiggy.” Tornammo in sala riunioni. Steve si sedette e disse: “Va bene, Jay ha deciso di chiudere il progetto.” Non ero contento di assumermi la responsabilità della decisione, ma feci del mio meglio per restare impassibile. Steve soggiunse:
"E Jay dice che troverà un altro posto per tutti i dipendenti. Nessuno perderà il lavoro.” Quella fu la fine del Twiggy per il Macintosh. Il progetto fu abbandonato. Come promesso, mi consultai con il reparto risorse umane e ricollocammo i membri del gruppo Twiggy in altre divisioni Apple. Il Macintosh uscì sul mercato con il drive della Sony, che probabilmente costava la metà di quanto sarebbe costato il Twiggy, e senza i costi di manifattura. Dal fiasco del Twiggy, Steve ha imparato che quando le circostanze lo giustificano è meglio comprare i componenti da un fornitore esterno. Oggi, per accelerare l‟immissione sul mercato di un nuovo prodotto, spesso accetta componenti o software di terze parti, per poi sostituirli con progetti originali Apple per le versioni successive. Il Twiggy gli ha impartito una lezione che non ha più dimenticato. C‟è un ultimo atto nella storia del Twiggy: due drive per floppy disk Twiggy furono usati nella prima versione del Lisa. Ma nel frattempo non erano stati risolti i difetti di progettazione che avevano impedito di usare quei drive sul Mac: erano lenti e, quel che è peggio, inaffidabili. I primi acquirenti del Lisa protestarono tanto che alla fine Apple decise di offrire ai primi seimila o giù di lì un upgrade gratuito al nuovo Lisa, dove al posto dei due Twiggy c‟era un drive Sony di capacità inferiore, ma più affidabile. Abbandonare il Twiggy era stata una decisione sofferta per Steve. Ma alla fine ne uscì vincitore: aveva fatto la scelta giusta.
Il
manager
globale
La cura di Steve per i dettagli non si applicava soltanto alle questioni tecniche e di progettazione, ma anche a quelle economiche, che furono all‟origine di molte frustrazioni. Debi Coleman, direttrice finanziaria del gruppo Mac, aggiornava in continuazione le proiezioni di vendita. Ma, nel frattempo, anche Apple Finance - l‟ufficio finanziario dell‟intera azienda - faceva le sue proiezioni e i conti non tornavano mai. I due uffici comunicavano fra loro, partivano dalle stesse cifre, ma ottenevano sempre proiezioni diverse. Debi, con grande spirito imprenditoriale, si sforzava molto di fornire proiezioni attendibili. Ma ogni volta che lei e Steve incontravano il direttore finanziario dell‟azienda, Joe Graziano, si ripeteva la stessa storia: a quanto pare, il problema era che le stesse voci di bilancio venivano computate in modi diversi. (Non che sia importante, ma Joe era un direttore finanziario che guidava una Ferrari rossa. Ho sempre pensato che trasmettesse il messaggio sbagliato!) Steve non smetteva mai di stupirmi, in quelle riunioni: sembrava che capisse le proiezioni meglio del direttore finanziario. E ricercava la perfezione nelle cifre tanto quanto nel prodotto. Ogni dettaglio doveva essere curato quanto il prodotto stesso.
Dimmi dove lavori e ti dirò chi sei Per uno come Steve Jobs, un team è qualcosa in più della somma delle persone che lo compongono: è anche un ambiente di lavoro. Il luogo in cui si lavora può influire molto sulla qualità dei rapporti interpersonali. Non è solo una serie di postazioni o tavoli di laboratorio; l‟ambiente fìsico contribuisce a creare un aura, un‟atmosfera speciale. Nel 1981, il team Mac si trasferì in un edificio su Bandley Drive che in precedenza era stato usato da una parte del team Apple II. Il nuovo palazzo si sviluppava intorno a un grande atrio. Steve piazzò il suo ufficio vicino all'ingresso principale e tutti gli altri si sistemarono in postazioni e laboratori
disposti ad arco tutt'intorno a lui; Steve veniva quindi a trovarsi proprio nel punto di fuga, come un direttore d‟orchestra con i musicisti disposti a raggiera davanti a lui. Nell‟atrio c‟erano un pianoforte, alcuni videogiochi e un enorme frigorifero pieno di succhi di frutta. Ben presto divenne un luogo d‟incontro e un posto dove rilassarsi. Nell‟atrio era esposta la vecchia motocicletta BMW di Steve, ancora in perfette condizioni: un simbolo di eccellenza nel design e di funzionalità ma anche, per me, un simbolo del fatto che quel particolare gruppo di lavoro aveva un leader molto speciale. La Pixar e Google avrebbero in seguito suscitato l‟interesse della stampa creando ambienti di lavoro simili per i loro dipendenti; come in tante altre cose, Steve era all‟avanguardia. Prima che il suo team traslocasse lì, Steve mi disse di voler chiamare un esorcista per scacciare i demoni dall‟edificio; lo disse in tutta serietà, benché quel timore apparisse poco in sintonia con le sue convinzioni buddiste. Sembrava convinto che il gruppo Apple II fosse in qualche modo macchiato, che avesse lasciato dietro di sé cattive vibrazioni. Pensai che se qualcuno fosse venuto a saperlo, saremmo stati coperti dal ridicolo: un‟altra spina nel fianco per il resto di Apple. Per fortuna Steve ascoltò la voce della ragione e abbandonò l‟idea. (O forse l‟aveva detto solo per prendermi in giro; ma quando si trattava di affari, e in particolare del Macintosh, raramente Steve dava prova di possedere un gran senso dell‟umorismo.)
Cultura aziendale, vecchio stile Credo che, all‟epoca, i membri più giovani del team non si rendessero pienamente conto di quanto fosse anticonformista la cultura che Steve aveva creato per il gruppo Mac. Per me era una specie di piccolo miracolo: notavo in continuazione quanto fosse diverso l‟atteggiamento dei 'pirati” rispetto alle aziende in cui avevo lavorato in precedenza.
Quando ero in IBM, anche malgrado le tante persone intelligenti che lavoravano lì - e per anni fui letteralmente circondato da menti brillanti - la maggior parte di noi era così lontana dal prodotto vero e proprio che tendevamo a perderlo di vista. IBM era allora la quarta o quinta corporation al mondo, con quattrocentomila dipendenti. La maggior parte di loro probabilmente si trovava bene in quel tipo di cultura aziendale; quanto a me, mi sentivo sempre un po‟ estraneo, anche dopo aver partecipato al loro programma di formazione dei dirigenti. Non avevo proprio la mentalità del dirigente. Durante una lunga vacanza mi lasciai crescere la barba e tornai in ufficio senza rasarmi. I miei superiori non sapevano bene come prendere la cosa: quel tizio in uniforme d‟ordinanza IBM, giacca e cravatta e camicia bianca, con quella nuova barba era un pugno in un occhio. I miei colleghi alla IBM erano soliti dire: “In quest‟azienda abbiamo dei cani sciolti... ma procedono schierati in formazione.” Trovavo molto frustrante la loro scarsa ricettività alle nuove idee. Un giorno, durante una riunione, il presidente del Cda Frank Carey ascoltò un mio suggerimento e ribatté: “L‟IBM è come una super- petroliera: molto grande e difficile da manovrare. Una volta stabilita la rotta, poi non è semplice cambiarla. Ci vogliono ventun miglia per svoltare e sedici per fermarti." In quel momento seppi che il mio posto non era lì. In Apple non mi sono mai sentito un semplice amministratore. Certamente ero interessato al lato finanziario delle cose, sapevo elaborare strategie solide e tradurle in modo che funzionassero nell‟azienda; ma riconobbi subito l‟importanza delle nuove frontiere dell‟informatica verso cui il team si stava muovendo. La fenomenale energia di Steve e la passione per ogni singolo elemento del prodotto erano un‟esperienza nuova per me. E mi ci tuffai dentro con tutto il cuore.
Se tu diventassi miliardario, gestiresti l'azienda allo stesso modo? Sarei pronto a scommettere che chi vince un sacco di soldi alla lotteria si licenzia in tronco e non mette mai più piede in ufficio. Voi cosa fareste, se diventaste ricchi da un giorno all‟altro? Due settimane prima del Natale 1980, Steve Jobs ricevette un regalo enorme, e con lui varie altre persone nell‟azienda. Quando le azioni Apple Computer furono quotate in borsa, la gente si precipitò a comprarle con lo stesso entusiasmo che anni dopo avrebbe caratterizzato il lancio dell‟iPod e dell‟iPhone. Nella prima ora furono vendute 4,6 milioni di azioni; alla fine del primo giorno, si era di fronte alla miglior offerta pubblica di acquisto nella storia, la più sottoscritta in eccesso fin dal giorno in cui era stata quotata la Ford, oltre trent‟anni prima. In un giorno solo, Steve era diventato uno dei self-made men più ricchi del mondo. Gli piaceva dire alla gente: "A ventitré anni valevo un milione di dollari, a ventiquattro valevo dieci milioni e a venticinque valevo oltre duecento milioni.” Un anno prima, la Xerox aveva investito in Apple. (Tra le altre clausole, l‟accordo fra le due aziende consentiva a Steve e ai suoi ingegneri di visitare lo Xerox PARC, quelle visite così feconde di idee.) Spero che le due persone in Xerox che furono responsabili della decisione di investimento siano state adeguatamente ricompensate: La partecipazione azionaria da un milione di dollari della Xerox d‟un tratto valeva qualcosa come trenta milioni di dollari. Quel che stupisce è che l‟improvvisa ricchezza di Steve non sembrò cambiarlo. Il neo multimilionario, co-fondatore e presidente del Cda di un‟azienda nel Fortune 500, continuava a venire al lavoro in maglietta, jeans Levi‟s e sandali Birkenstock. D‟accordo, ogni tanto si metteva in giacca e cravatta per una riunione con un banchiere o qualcuno su cui voleva fare una buona impressione. Ma non parlava quasi mai di soldi o di oggetti. Aveva già una casa, una Mercedes coupé e una
moto BMW con dei pompon arancioni sul manubrio, comperata un anno prima quando l‟azienda aveva ricevuto investimenti di venture capital. Per quanto lo riguardava, aveva già comperato tutto quel che voleva comperare. Volare in prima classe, ma questa era prassi comune in Apple: a quei tempi tutti i dipendenti avevano diritto alla prima classe, non solo dirigenti e manager ma anche ingegneri e “area associates” (cosi Apple definisce le segretarie). L‟azienda era cosi piena di soldi che non c‟era un piano di assicurazione sanitaria: se dovevi sostenere una spesa medica, sia che fosse una semplice visita o un‟operazione seria, consegnavi la parcella all‟ufficio amministrazione e Apple pagava per te. Per Steve, il lavoro non serviva a guadagnare abbastanza per andare in pensione. Non si trattava di spingere il suo team di pirati a creare un ottimo prodotto. Negli ultimi anni sarebbe diventato sempre più ricco, ma non avrebbe mai smesso di impegnarsi per creare prodotti straordinari.
Essere
pirata
A posteriori, devo ammettere che mi lusingava il fatto che Steve fosse cosi determinato ad arruolarmi in Apple, e ancor più nel gruppo Macintosh. Sono sempre stato un pirata, ma non lo sapevo finché Steve non ideò il termine. In IBM mi chiamavano “cane sciolto” per via delle mie opinioni a volte controcorrente sull‟azienda, i prodotti e la leadership. Inoltre odiavo la politica e la burocrazia, in Apple, ho sempre spinto i miei collaboratori a non pensare come burocrati. Allo stesso tempo, ero ispirato dalla passione incredibile che caratterizzava il resto del team Macintosh. Non ci molto a capire che la linea guida di Steve consisteva nel cercare i talenti migliori e assoldarli ove possibile. Il fatto che Steve abbia visto in me uno di quei talenti speciali, e proprio in un momento della mia carriera in cui ero disponibile a lavorare per lui, è una delle cose migliori che mi siano mai successe.
Mi ripromisi che, in qualsiasi altra azienda fossi finito a lavorare in futuro, avrei cercato di riprodurre quell‟atmosfera da startup, da nave pirata. Una pirata è felice che il suo capo nutra aspettative alte, che richieda la perfezione, e si sforza di dargliela.
Trovare il Talento
Se doveste organizzare una nuova scuola, vorreste assumere certamente i docenti più qualificati. Se apriste un sito web dedicato all‟equitazione, sperereste di aggiudicarvi la collaborazione dei migliori cavalieri, quelli che hanno vinto più medaglie e trofei. E così via. E' un‟idea semplice, ma ovviamente metterla in pratica è un altro paio di maniche. Eppure, è una delle chiavi del successo di Steve Jobs: ogni volta che si è trovato ad affrontare una nuova sfida, è riuscito a trovare persone straordinarie, le migliori nei loro campi. Vediamone alcuni esempi. Il primo passo, naturalmente, è valutare l‟esperienza pregressa: scoprire se il candidato ha il talento e le competenze che l‟azienda ricerca. Questo va da sé: chiunque abbia mai scritto il proprio curriculum, letto cv altrui o assunto almeno un dipendente, lo sa già. Ma in Apple, in quel periodo, il curriculum era meno importante di quanto si potrebbe pensare.
Alla
ricerca
dell'entusiasmo
Per me, uno degli aneddoti più divertenti sul reclutamento in Apple - un aneddoto che descrive alla perfezione l‟approccio di Steve - riguarda una delle prime persone assunte per il team Mac. Un giorno, l‟ingegnere del software Andy Hertzfeld ricevette una telefonata da Scotty - Mike Scott, il presidente di Apple - che gli chiedeva di andare da lui. Andy si spaventò: pochi giorni prima, Scotty aveva deciso che l‟azienda non stava raggiungendo gli obiettivi prefissati e che bisognava tagliare le spese e, così, aveva licenziato metà degli ingegneri; un evento che sarebbe passato alla storia come “Il mercoledì nero” di Apple. Gli ingegneri superstiti, compreso Andy, erano insoddisfatti e al contempo temevano di perdere il posto. Ma quando Andy si presentò nel suo ufficio, Scotty gli disse subito che non voleva licenziarlo e gli domandò cosa l‟avrebbe potuto convincere a restare. Andy rispose che gli sarebbe piaciuto entrare nel team Mac: due dei suoi migliori amici c‟erano appena entrati, Burrell Smith e Brian Howard. Scotty gli disse di andare a parlarne con Steve. Steve non si perse in chiacchiere. Andy mi ha raccontato che Steve esordì in questo modo: “Sei bravo? Vogliamo solo gente davvero brava per il gruppo Mac e non sono sicuro che tu abbia i numeri per farcela. .. Ho sentito dire che sei creativo. È vero?” Invece di offendersi per un simile interrogatorio, Andy rispose a tono e chiarì che seguiva molto da vicino il progetto Mac. Steve gli disse che gli avrebbe fatto sapere. Appena due ore dopo, Steve si presentò alla scrivania di Andy e gli porse le sue congratulazioni: Andy entrava ufficialmente a far parte del team Mac, con effetto immediato. Andy disse che gli servivano un paio di giorni per finire quello su cui stava lavorando. Ma Steve non voleva aspettare. Staccò letteralmente la spina dal computer di Andy, prese in braccio il case lo portò fuori dall' edificio e lo gettò sul portabagagli della sua Mercedes grigia metallizzata, Andy era sconcertato. Steve lo
portò al quartier generale Mac, le “Texaco Towers”, all‟angolo di Stevens Creek con Saratoga-Sunnyvale Road e, durante il tragitto, gli disse che il Macintosh sarebbe stato la cosa più bella mai vista nel mondo dell‟informatica. Andy aveva impressionato Steve con la sua franchezza e mostrandosi affascinato dal prodotto. Inoltre, avevano contato molto i consigli di Burrell e Brian, gli ingegneri del gruppo Mac che Steve aveva consultato prima di assumere Andy. Una volta presa una decisione su una persona, Steve non esita e non perde tempo. E quella volta aveva ragione: Andy si rivelò uno dei membri più validi del team di sviluppo Mac. Per assumere i collaboratori Steve si basa sull‟istinto, ma è anche molto attento ai dettagli. Prima di un colloquio con l‟avvocato Nancy Heinen, che poi divenne responsabile dell‟ufficio legale dell‟azienda, Steve chiese di vedere alcuni contratti scritti da lei, per valutare "l‟impatto estetico” del suo lavoro. A volte, dopo il colloquio con Steve, andavo anch‟io a parlare con il candidato. Molti di loro non avevano neppure avuto l‟impressione di essere a un colloquio di lavoro: gli era sembrata una lezione universitaria, o una presentazione dei prodotti Apple a potenziali investitori; seguita da un esame finale in cui spiegavi come intendevi contribuire al Mac e al team.
Solo quozienti intellettivi di prim'ordine, per favore Oltre a cercare le persone più competenti, Steve vuole collaboratori che siano veri fanatici di Apple, capaci di lavorare al meglio in un ambiente dinamico, da startup. Oggi è più facile trovare i talenti giusti, perché tanti potenziali candidati pubblicano il loro curriculum sul web. Ma, naturalmente, nei primi tempi del progetto Mac non avevamo questo lusso. D‟altro canto, da quando lo conosco, Steve è sempre stato attento a circondarsi soltanto di persone che, a suo giudizio,
avessero “un quoziente intellettivo a tre cifre” e non fossero così diceva - “zucconi”. Le persone che non considerava all‟altezza lo mettevano molto a disagio; e purtroppo, non aveva il minimo tatto nel farglielo sapere. Se ti considerava intelligente, capace, e in grado di dare un contributo, allora potevi dirgli chiaro e tondo come la pensavi o proporre un miglioramento a un progetto, e lui ti dava retta. Ma se ti bollava come zuccone, facevi meglio a tapparti le orecchie e ad andartene al più presto. Esistevano solo quelle due categorie per lui: se non eri brillante, allora non potevi che essere uno zuccone. E per quanto Steve ti ritenesse brillante, bastava un commento infelice e venivi subito etichettato come zuccone. Anche in pubblico. Naturalmente, il giorno dopo o anche il pomeriggio stesso lui se n‟era già dimenticato e ti trattava normalmente. Era fastidioso, ma chi lavorava con lui si abituava a non prenderla sul personale. Nel corso della carriera Steve ha assunto svariate migliaia di persone, ma il recruiting è sempre un processo difficile. I colloqui sono troppo brevi per trasmettere tutte le informazioni necessarie. Per Steve, spesso non contano tanto le risposte che dai, ma il modo in cui rispondi: più di ogni altra cosa, Steve deve convincersi che la persona che ha davanti sia profondamente innamorata di Apple. Ma Steve non era l‟unico ad assumere personale: bisognava capire come estendere a tutta l‟azienda le sue pratiche di assunzione che avevano funzionato così bene nel gruppo Mac. Lavorammo sodo per produrre un documento intitolato “Apple values”, che descriveva la cultura aziendale. Al termine della stesura, inviai il documento ai vari uffici e strutture e a tutte le nuove sedi internazionali. Facevo molti viaggi all‟estero, soprattutto in Europa, per assicurarmi che gli standard internazionali per l‟assunzione dei dipendenti fossero rigorosi quanto quelli in uso negli Stati Uniti. Visitavo personalmente tutte le sedi per far sì che lo stile e i valori fossero gli stessi. E mi accertavo che tutti i selezionatori conoscessero gli standard di Cupertino.
Un
altro
modo
di
assumere
Poiché cercava di inventare un nuovo modello di utilizzo per il personal computer, Steve era sempre alla ricerca di competenze specializzate. Sapeva di aver bisogno di un tecnologo e mi incaricò di trovarlo. Chiesi in giro; un cacciatore di teste mi inviò il curriculum di Bob Belli-ville, che era Head of technology per le stampanti da ufficio al PARC. Era un uomo che conosceva i computer come le sue tasche; aveva poco più di trent'anni, ma ne dimostrava tredici. Lo mandai a parlare con Steve, che gli disse: “Ho sentito che sei un grande nel tuo settore, ma finora hai fatto solo schifezze. Vieni a lavorare per me." Per nulla offeso, Bob accettò. programmatori del nucleo originale del team Mac erano dei geni, ma non avevano il quadro completo della situazione: Belleville invece si. Spesso si trovava tra due fuochi, con i programmatori da una parte e Steve dall‟altra. Era pacato ma persuasivo, sapeva convincere la gente a fare le cose a modo suo. Per indurre Steve a fare qualcosa, non si limitava a spiegarsi a parole, ma costruiva un modellino o una demo funzionante che mostrasse la sua idea all‟opera. Grazie a queste abilità di persuasione, era molto bravo a far lavorare la gente. Era brillante, ma non usava mai la sua intelligenza per imporsi sugli altri: il suo obiettivo era sempre trovare il modo di arrivare al risultato giusto insieme agli altri. E di solito ci riusciva. Passavo un sacco di tempo con Bob; veniva spesso a chiedermi consigli su come convincere Steve di qualcosa. Fin dall‟inizio svolse un ruolo cruciale come facilitatore tra Steve e i tecnici, in un certo senso parallelo al mio ruolo di facilitatore tra il team Mac e tutti gli altri. Assumere Bob mi ha insegnato quant‟è importante non basarsi solo sul curriculum, ma scoprire i talenti nascosti di una persona, cercare di capire quale contributo può dare all‟azienda.
Usare
i
prodotti
per
attrarre
talenti
L‟amore di Steve per i prodotti Apple, un amore ferocemente protettivo, ha trasformato i prodotti stessi in un richiamo per i più grandi talenti creativi del mondo. Steve non è solo in grado di raggiungere l‟eccellenza nello sviluppo di tecnologie che diventano icone di un prodotto, ma sa anche attrarre i talenti che possono trasformare le sue idee in realtà. E questo non vale soltanto quando c‟è bisogno di ingegneri. Oggi appare ovvio, ma all‟epoca non lo era: per Steve il talento nel design era altrettanto importante di quello nella progettazione. Andy Hertzfeld, del team Mac, aveva frequentato il liceo in Pennsylvania con una ragazza di nome Susan Kare, che poi era diventata designer grafica ed era un‟Artista con la A maiuscola. Quando il gruppo Mac capì di aver bisogno di un talento creativo per progettare le icone del sistema operativo, Andy fece il nome di Susan. Durante il colloquio, Steve capì che il talento, la passione e l‟originalità di Susan erano più importanti della sua scarsa esperienza nel settore tecnologico. Susan diventò un elemento fondamentale del team Mac. Quasi vent‟anni dopo, Susan ricordava: “Steve era aggressivo, ti criticava per vedere se avevi valutato tutte le possibilità; ma quando è soddisfatto di te, sa farti sentire benissimo.” 9 Durante un weekend, Steve andò a cena in un ristorante di San Francisco, il Ciao, e rimase colpito dalla grafica quasi picassiana del menu. Il lunedì mattina arrivò in ufficio impaziente di condividere il suo entusiasmo e andò subito a cercare Susan Kare. Ispirata dai suoi suggerimenti, e ancor più dal suo fervore, Susan disegnò icone semplici ed essenziali, di immediata comprensione (pensate all‟icona del cestino), e progettò i caratteri tipografici, l‟aspetto e il colore del case. L‟interfaccia grafica del Macintosh nacque quella Ken Aaron, “Behind the Music” Cronell Engineering Magazine, autunno 2005 9
sera in cui Steve andò per caso a mangiare al ristorante Ciao. Fu come se Susan gli avesse mostrato una cornucopia traboccante di meraviglie. Con l'aiuto di Susan, Steve sperimentò la gioia di creare un prodotto dal forte impatto estetico, che potesse suscitare l‟ammirazione del mondo intero per il suo design. Era la sua droga, il suo LSD. Se la filosofia del design Apple nacque la sera in cui Steve andò al Ciao, fu però Susan a studiare le conseguenze di quell‟approccio e a farlo funzionare davvero. La gioia di creare un prodotto dall'estetica molto curata è oggi una delle ragioni di vita di Steve. Mai più si sarebbe accontentato delle banali forme squadrate dell'Apple IIc o del IIe, che pure erano già un miglioramento notevole rispetto ai PC IBM. Ed è sempre alla ricerca di altre Susan: persone ricche di talento e sensibilità artistica. Ogni gruppo di lavoro ha bisogno di alcune persone davvero creative che sappiano “pensare in modo diverso”, così diverso da costituire un esempio per tutti gli altri.
Il talento trova il talento Quando trovi la persona giusta, hai l'ulteriore vantaggio di poterla usare come selezionatore di fiducia: è probabile che una persona brava ne conosca altre con gli stessi valori e lo stesso senso dello stile. Un buon “pirata” di solito ha un amico o un parente bravo quanto lui. Steve mi diceva sempre: “I grandi ingegneri sono un moltiplicatore eccellente”. Lo e Steve avviammo un paio di iniziative per assicurarci di avere i talenti giusti da mettere al lavoro sul Mac: promettemmo un bonus di cinquecento dollari ai dipendenti che avessero raccomandato una persona che poi veniva assunta. Implementammo anche un buddy sy-sicm, per cui ogni nuova recluta veniva accolta sotto l‟ala protettrice di un altro dipendente. IBM aveva adottato un sistema analogo negli anni settanta. Inoltre, mandavamo i migliori dipendenti assunti negli ultimi due anni nelle università in cui si erano laureali, per reclutare nuovi studenti,
Assumere di serie A
giocatori
Durante i colloqui di lavoro, Steve affronta gli argomenti da angolazioni insolite e si domanda: "Questa persona è congeniale al contesto in cui dovrà lavorare?” È così coinvolto nel prodotto che riesce a intuire subito quali persone saranno in grado di integrarsi appieno nel team di sviluppo. Vuole assumere solo persone il cui lavoro sia all‟altezza delle sue aspettative e che non si sentano minacciate dalle critiche severe, che servono a rendere il prodotto non soltanto migliore, ma il migliore. Non si lascia fuorviare da pregiudizi, preconcetti e opinioni diffuse; incontra i candidati in un contesto informale. A volte penso che questo approccio derivi in parte da quello che altri buddisti chiamano “la mente del novizio”: la capacità di vedere con occhi nuovi realtà già note. Inoltre, all‟epoca del Mac, Steve era giovane e quindi meno propenso ad adottare una prospettiva rigida. In qualche modo è riuscito a mantenere ancora oggi questa agilità mentale. Uno dei principi guida di Steve è assumere sempre i migliori: “Le persone di serie A”, le chiama. Ripeteva spesso: „Appena assumi uno di serie B, quello comincia a portarti in azienda dei giocatori di serie B e di serie C.” Una persona di serie A poteva essere praticamente chiunque, purché fosse dotato di vero talento. Randy Wiggington, che scrisse il codice per MacWord, la prima vera applicazione Mac, fu assunto da Steve quando era ancora al liceo: per Steve la cosa era irrilevante, dato che Randy era più che capace di fare il suo lavoro. Poche persone sono state più importanti per il successo di Apple di Jonathan Ive, un inglese, e la storia di come Steve l‟ha "scovato” non rientra precisamente nello schema degli altri casi di talent scouting; raccontati in queste pagine. Jonathan studiava in Inghilterra e aveva vinto la borsa di studio assegnata dalla Royal Society of Aris agli studenti di design, l'aveva vinta due volte. II premio comprendeva un breve stage negli Stati uniti, e Jonathan trovò il tempo di
prendere n aereo per la California e visitare le aziende di design alla moda della Silicon Valley. Dopo la laurea, Ive entrò in uno studio di design dove passò mesi sul progetto di un lavandino per il bagno (i dettagli si sono evoluti nel tempo: alcuni sostengono che si trattasse di un water). Com'era suo solito, produsse molte versioni diverse prima di assestarsi su un design che lo soddisfaceva. Più o meno nello stesso periodo, un designer che Ive aveva conosciuto nella Silicon Valley, Robert Brunner, era diventato direttore del design in Apple. Brunner aveva cercato di assoldarlo già due volte; ma in quella terza occasione Jony era giù di morale perché era costretto a lavorare con gente che non apprezzava i suoi progetti innovativi, quindi accettò l'offerta di Brunner. Tutto ciò accadeva negli anni in cui Steve Jobs non era in Apple. Al suo ritorno, quando iniziò a tagliare le spese sui progetti, sui prodotti c sulle persone, la testa di Jony stava per rotolare. Malgrado avesse progettato lo sfortunato palmare Newton, un anno prima era stato nominato a sua volta direttore del design Apple. E Steve odiava l‟aspetto della maggior parte dei prodotti Apple. Si mise alla ricerca di un nuovo responsabile del design. Per fortuna, prima che trovasse quel che stava cercando, si rese conto di avere già sul libro paga un designer di prima classe. Invece di rimpiazzare Jonathan, Steve lo accolse a braccia aperte, lo confermò come chief designer nel nuovo corso Apple e gli garantì l'incoraggiamento, le risorse e il sostegno che da allora in poi hanno rappresentato un fattore cruciale del successo di Apple e dei suoi prodotti. Oggi, Jony lavora chiuso a chiave nel suo laboratorio nel campus Apple, tutto in alluminio lucido ed equipaggiato con strumentazioni all'avanguardia; con la sua dozzina di collaboratori - designer fortunati- (o estremamente talentuosi) provenienti da sei paesi diversi - sforna un prodotto dopo l‟altro in una sintesi perfetta di eleganza e funzionalità. Jonathan Ive e il suo team continuano a fissare uno standard a cui nessun'altra azienda può sperare di avvicinarsi.
L‟aspetto più interessante di questa storia è che se Steve stesse per licenziare Ive, ma che poi si sia accorto in tempo del suo vero talento. Col senno di poi, è evidente che i professionisti ingaggiati da Steve non erano meteore destinate a bruciarsi in fretta. Molti dei suoi collaboratori hanno poi fondato altre importanti aziende nel settore delle nuove tecnologie: Jean Louis Gassée ha fondato Be, Mike Boisch ha fondato Radius, Guy Kawasaki ha fondato Garage.com... e così via. Donna Dubinsky, una studentessa della Harvard Business School, un giorno assistette a una dimostrazione del computer Apple II con il software VisiCalc. Aveva lavorato nel settore bancario e sapeva quanto poteva essere difficile compilare i fogli di calcolo a mano: “E se l‟interesse fosse al 10 per cento anziché al 9,5?” Trovare la risposta a una domanda così semplice richiedeva di ricalcolare il contenuto dell‟intera tabella. Quindi Donna comprese subito il potenziale del nuovo software: “Ogni banchiere vorrà questa roba.” Aveva lavorato anche nel ramo finanziario delle tv via cavo: "Lì avevo imparato quanto è importante trovarsi a lavorare in un settore in espansione.” Combinando questi due elementi, spiega, “seppi di aver trovato il posto giusto”: Apple era l‟azienda per cui voleva lavorare. C‟era solo un piccolo problema: Apple non aveva mai assunto nessuno dalla Harvard Business School. Donna fece domanda per un colloquio, ma le “dissero di no. Volevano solo gente con competenze tecniche”. Il giorno dei colloqui, Donna si accampò fin dal mattino presto nel corridoio fuori dall‟ufficio: “Ogni volta che la signora usciva dalla stanza, cercavo di parlarle‟‟, racconta. Come lo stesso Steve sa bene, l‟impossibile può accadere, se sei abbastanza determinato. 'Alla fine, verso sera, la signora ebbe pietà di me e mi lasciò entrare.” Malgrado l‟editto "Vogliamo solo tecnici”, la perseveranza di Donna fu premiata. L‟entusiasmo di Donna per Apple e per i suoi prodotti doveva essere evidente, perché la richiamarono per altri colloqui e le offrirono un impiego nel ramo amministrativo,
nel Distribution Support: avrebbe iniziato a lavorare appena avesse conseguito il master in gestione d‟impresa. Lavorare a Cupertino fu un‟esperienza nuova per Donna, abituata all‟ambiente formale della banche, in cui ci si rivolgeva ai superiori chiamandoli “signore" o "signora”; non potevi impilare cartelline sulla scrivania, e “ti mettevi la giacca anche solo per andare in bagno, nel caso incontrassi un cliente”. In Apple, naturalmente, Donna scoprì che il codice di abbigliamento era composto da bermuda, T-shirt e sandali. In quel periodo l‟azienda si stava espandendo a tale velocità che l'atmosfera era caotica. “Quando arrivai”, racconta Donna, “il venti o trenta per cento della gente era stata appena assunta e il tizio che mi aveva fatto il colloquio era già stato trasferito in un altro reparto.” Ma il background di Donna non era del tutto convenzionale: al liceo aveva suonato nella banda musicale. Capiva che c'è più di un modo per gestire un'azienda; quello era un ambiente creativo, e Donna lo trovò "illuminante”. “Ben presto iniziai a lavorare dall‟alba al tramonto, sviluppando sistemi di informazione e regolando il flusso dei prodotti.” Donna incontrava Steve quasi solo nelle riunioni di forecast. Ricorda bene un paio di occasioni in cui Steve prese decisioni che le parvero insensate in base alla sua esperienza bancaria. A un certo punto, “stavamo passando dalle stampanti a 300 dpi a quelle di nuova generazione, da 1.200 dpi o qualcosa del genere. Cosa farcene delle vecchie stampanti? Avevamo pensato di venderle con un forte sconto ai clienti che cercavano una stampante economica”. Invece, Steve disse: "Toglietele dal listino. Voglio che i clienti acquistino la nuova stampante." Quel giorno Donna scoprì un tratto peculiare di Steve: la sua decisione contravveniva ai principi basilari di economia insegnati ad Harvard, ma dimostrava che Steve badava soltanto a quel che era "bene” per il cliente: "Queste stampanti sono obsolete, non è quel che la gente deve comprare, togliamole di mezzo.”
Negli anni, Apple si è dimostrata un‟ottima palestra: Donna sarebbe diventata amministratore delegato di Palm e co -fondatrice di Handspring, e “Fortune” l‟ha inserita nella "Innovators Hall of Fame". Donna attribuisce una parte del suo successo al “numero sterminato di cose” che ha imparato sotto la guida di Steve Jobs. "Devi avere persone straordinarie. Devi costruire prodotti straordinari. Devi creare un‟etica manageriale improntata alla spontaneità e alla celebrazione dei successi.” Ma forse la lezione più importante che Donna ha imparato è: “Una sola persona può davvero fare la differenza.”
Corteggiare
il
talento
Porterò qualche altro esempio della grande abilità di Steve di riconoscere e assumere le persone più capaci. Nei primi tempi di NeXT, Steve cercò di reclutare l‟ingegnere video Steve Mayer, che aveva lavorato con lui in Atari prima che Steve e Woz fondassero Apple. Mayer accettò di andare a parlare con Steve, che gli parve "devastato” all‟idea di non essere più in Apple ma allo stesso tempo "assolutamente certo che avrebbe fatto qualcosa di nuovo e importante”. Più che fare un colloquio a Mayer, Steve lo stava corteggiando: un‟attività che gli riesce altrettanto bene. Orientò la conversazione su quello che Mayer chiama “il metodo Immagina", e si mise a raccontare una storia:
Immagina: stai leggendo una rivista e vedi la pubblicità di un nuovo computer che ti sembra interessante. Immagina di telefonare all’azienda per saperne di più su questo nuovo prodotto, e loro non solo rispondono alle tue domande, ma ti invitano a un incontro. Immagina di imboccare il vialetto della sede di quell’azienda e di trovare una receptionist lì ad accoglierti.
Ti accompagnano nell’edificio, oltre i laboratori, e fino alla sala presentazioni, dove il prodotto è coperto da un telo. Il prodotto viene svelato, ed è bellissimo. Questo racconto da Mille e una notte in salsa tecnologica diede vita a un dialogo sulle principali funzionalità della macchina. Ma, in realtà, a Mayer il prodotto non fu svelato: sia perché non esisteva ancora, sia perché Steve non mostrava mai progetti o modelli a nessuno che non fosse già un dipendente e che non avesse firmato un accordo di riservatezza. Mayer restò molto impressionato da quella conversazione così teatrale, capace di “condurti nel mondo del prodotto, di mostrarti come il prodotto verrà usato”. Era tipico: invece di partire dai dettagli di progettazione, come accade a tanti altri prodotti high-tech, Steve inizia sempre visualizzando il prodotto finito. Usò una tecnica diversa con Burt Cummings, un alto dirigente Apple che aveva rifiutato il primo invito di Steve in NeXT perché stava per essere promosso a una posizione dirigenziale, che in Apple era un gradino sotto il vicepresidente. Burt aveva sviluppato e gestito il programma Apple rivolto alle università e gli fu detto che Steve voleva fargli fare la stessa cosa in NeXT. Racconta Burt: "Quando dissi di no, il selezionatore mi chiese se volevo parlarne con Steve prima di prendere una decisione definitiva. Gli dissi che l‟avrei fatto volentieri.” Ecco come andò: “Io e Steve parlammo un po‟, e lui mi disse che nessuno poteva vedere il prodotto prima di essere assunto, ma a me poteva mostrarne un pezzo. Abboccai all‟amo. Lui spiegò che l‟unità principale era separata dalla tastiera e dal monitor, e c‟era un cavo di collegamento. Quel cavo, come mi illustrò con dovizia di particolari, conteneva le connessioni per la tastiera, il mouse, l‟uscita video e audio e la corrente elettrica per il monitor. Ovvero, cinque cavi in uno. Poi mi mostrò il cavo: era molto sottile. Lo tenne piegato a forma di U rovesciata e fece scorrere la mano su e giù
come se mungesse una mucca e mi fece notare che non si attorcigliava. Poi mi chiese di far scorrere la mano sul cavo mentre lui lo „massaggiava‟. Così feci.” 'Appena toccai il cavo - ricorda Burt - esclamai: “Ok, ci sto.” E aggiunge: "Questo la dice lunga su quanto ero stupido”. Intende che in seguito si convinse che Steve l'avesse persuaso con l'inganno ad accettare l‟impiego, facendo leva sul suo fascino e sul suo potere ipnotico. (Ma alle persone come Burt io ho sempre detto che non si tratta di un inganno: "Hai solo imparato una lezione dal grande guru dei prodotti. È stato il prodotto a conquistarti, non Steve.”)
Scegliere persone che siano pirati e facciano gioco di squadra Nel 1990, in una fase leggermente più avanzata della sua carriera, Steve cercava ingegneri per le workstation di fascia alta e si imbatte in un ragazzo dal curriculum impressionante. Jon Rubinstein, detto Ruby, dopo essersi laureato in ingegneria elettronica alla Cornell University era entrato alla Hewlett-Packard come sviluppatore di workstation. Quando Steve sentì parlare di lui e lo rintracciò, Ruby era responsabile dello sviluppo dei processori per un supercomputer grafico. Una persona che sa coordinare una squadra per un progetto complesso è probabilmente un leader adeguato, in grado di assumersi responsabilità e con buone capacità di comando. Quando Steve trova una persona che secondo lui può diventare una risorsa preziosa per l‟azienda, non lascia il recruiting nelle mani di qualcuno dell‟ufficio risorse umane o di un‟agenzia di selezione esterna: alza il telefono personalmente. Ruby disse di sì. Uno dei docenti di Ruby alla Cornell, Fred Schneider, afferma di aver appreso una lezione importante dal suo allievo: una lezione che offre anche a noi un indizio prezioso sul modo in cui Apple riesce a creare prodotti migliori di
quelli di ogni altra azienda. Quel che Ruby gli ha insegnato, dice il professore, è che progettare sistemi elettronici complessi non è diverso dal progettare un aspirapolvere: "Dev‟essere dotato di un usabilità paragonabile a quella dei prodotti più semplici. Assoluta comprensibilità, fin dal momento in cui apri la scatola.” Schneider osserva che "lui e la gente di Apple fanno business in modo molto diverso da ogni altra azienda di informatica”.10 Come vedremo, Ruby avrebbe svolto un ruolo cruciale nello sviluppo dell‟iPod e dei prodotti che lo seguirono.
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Creare un'atmosfera che attragga il talento Cos‟ha di tanto speciale Apple, per riuscire ad attrarre tutti questi talenti? La pressione è intensa, e Steve è estremamente esigente. Ma è un visionario autentico, un esempio concreto di questa parola così abusata, "visione”. Se c‟è qualcuno nel settore tecnologico che ha dimostrato di essere un vero innovatore, quello è Steve. E l‟enfasi costante sull‟eccellenza a rendere Apple così interessante per i professionisti più quotati: sanno che in Apple lavoreranno a progetti davvero innovativi, più stimolanti che in qualsiasi altra azienda. Iniziano a pensare come Steve: si convincono che non vale la pena di preoccuparsi di quel che accade nelle altre aziende. Questo complesso di superiorità sarebbe insopportabile, se il team Apple non fosse effettivamente riuscito a creare molti dei migliori prodotti “consumer” mai visti al mondo. Quando Steve trova persone capaci, fa tutto il possibile per trattenerle in Apple. Il settore tecnologico è uno dei più competitivi e Steve è stato criticato perché, a quanto pare, crede fermamente che "in amore e in guerra tutto è lecito”. Lo hanno accusato di rubare i talenti alle altre aziende, come lo sviluppatore capo dell‟iPod, Jeff Robbin. Ma certamente non vuole che la stessa cosa accada a lui. Per un corto periodo, all‟inizio dell‟era iPod, Steve proibiva ai giornalisti di pubblicare il nome di Robbin nei loro articoli. Quell‟informazione era strettamente riservata.
Comportarsi come Steve Lavorare con una persona determinata ed energica come Steve significa assorbire idee e prassi senza neppure accorgersene. Alcuni anni fa, dopo aver lasciato Apple, cercavo un responsabile marketing di prodotto da assumere per una delle mie startup. Quella persona avrebbe dovuto fare da tramite tra le vendite e i progettisti, con mansioni di senior customer rep. Costui o costei doveva avere solide competenze sulle tecnologie, ma doveva anche saper parlare
di tecniche di vendita ai venditori. Uno dei miei rappresentanti disse di conoscere un tizio fantastico che era appena stato licenziato da un‟altra azienda. Fissai subito un colloquio: non vedevo l‟ora di incontrare quell‟uomo, che mi era stato dipinto come una persona molto brillante, con un master a Stanford. Durante il colloquio, restai impressionato dalle domande che mi fece sulla mia azienda: scoprii che ne sapeva quasi quanto me sul mio prodotto. Aveva fatto ricerche approfondite, aveva usato il prodotto e aveva buone idee su come migliorare l‟interfaccia utente. Lo assunsi e, in seguito, implementammo alcune delle sue idee. Oggi che tutte le informazioni sui prodotti e le aziende sono disponibili su Internet, può essere saggio aspettare di trovare un candidato che si sia preso la briga di studiare e prepararsi. Anzi, in Apple Steve lo pretendeva. *** Di recente mi è stato rammentato che Steve mi aveva impartito, fin dal mio arrivo in azienda, le prime lezioni sulla selezione del personale: ho incontrato per caso un uomo di nome David Arella, che mi ha raccontato in che modo lo avevo assunto in Apple. Aveva lavorato per l‟Agenzia di protezione ambientale e poi si era trasferito agli uffici comunali di San Francisco mentre studiava per un master in gestione d'impresa a Standford. In cerca di un nuovo impiego, aveva mandato in giro un po‟ di curricula e aveva ricevuto risposta da Apple: era rimasto sorpreso, perché non pensava di avere i numeri giusti per lavorare lì. David racconta che quando venne a fare il colloquio con me, io esaminai il suo curriculum, gli feci qualche domanda (non di quelle tipiche dei colloqui di lavoro) e poi gli dissi: “Credo che tu possa dare un contributo a questa azienda. Ma non so cosa potresti fare, la tua esperienza lavorativa non si attaglia a niente in particolare.” Gli proposi uno stipendio, mi racconta David, e gli chiesi: “Intanto, saresti disposto a entrare in azienda? Poi vedremo cosa farti fare.”
Iniziò a lavorare sulla policy aziendale nell‟ufficio legale e alla fine diventò direttore delle risorse umane per il gruppo Apple II, con un budget di vari milioni di dollari. Di recente mi ha detto: “Non mi hai assunto grazie al mio curriculum, mi hai assunto malgrado quel curriculum. Mi hai permesso di avviare una carriera che prosegue tuttora.” E ha soggiunto: "Devo aver raccontato questo aneddoto cento volte.” Per me questa storia dimostra che non serviva passare molto tempo con Steve prima che i suoi atteggiamenti e le sue pratiche iniziassero a influenzare il tuo modo di lavorare. A volte ci sono persone che sembrano ufficiali della marina, ma guardando più attentamente scopri che dentro di loro c‟è un pirata che aspetta solo di essere liberato. Una persona di questo genere era Grace Hopper: quando l‟ho conosciuta aveva più di sessant‟anni, ed era un ammiraglio della marina che portava l‟uniforme con orgoglio. Non era della marina solo nel senso "Pirati vs. Marina”, lo era davvero: un ammiraglio con le stellette e tutto quanto. Conoscerla è stato un onore per me: era uno dei miei eroi. Al centro di ricerca della Marina Americana aveva inventato uno dei primissimi linguaggi di programmazione per computer, che aveva posto le basi per il diffusissimo COBOL, il linguaggio software che ha davvero rivoluzionato la programmazione. Quando sollevai l‟argomento del software, le vidi balenare una scintilla negli occhi: capii che stavo parlando con una persona di grande intelligenza e creatività e che sarebbe potuta benissimo diventare un pirata Questa esperienza mi ha rammentato che quando si cerca il talento, non bisogna lasciarsi fuorviare dalle prime impressioni, ma bisogna sforzarsi di capire chi è davvero quella persona: a volte scopri un pirata dove meno te l‟aspettavi.
Ricompensare i pirati
La maggior parte delle aziende celebra i compleanni e gli anniversari dei dipendenti; ma per un azienda orientata al prodotto come Apple, premi e riconoscimenti sono focalizzati sulle vere star: il talento e i prodotti. Steve tiene davvero molto ai suoi collaboratori: non solo sa di non poter andare avanti senza di loro, ma fa di tutto per far sapere loro che lo sa. Resto sempre sbalordito dall‟impegno con cui Steve premia e ricompensa i suoi dipendenti. L‟esempio più memorabile fu quando mi disse: “Gli artisti firmano sempre le loro opere”, e decise di far incidere all‟interno del case dei primi Mac le firme dei membri originari del team. Il party delle firme si tenne dopo una riunione programmata, il 10 febbraio 1982: ogni membro del team di progetto firmò su un grande foglio di carta da disegno, compreso Steve Wozniak, che firmò con il nomignolo usato da tutti, Woz.
Gli acquirenti dei Mac non avrebbero mai visto gli autografi all‟interno del computer e non avrebbero neppure saputo della loro presenza. Ma gli ingegneri lo sapevano e per loro significava molto. Ancora oggi, ogni volta che vedono un Mac classico nel garage di qualcuno o in un museo dell‟informatica, provano la soddisfazione di sapere che lì dentro ci sono i loro nomi. Sapere di aver contribuito
alla realizzazione di un grande prodotto è appagante come poche altre cose al mondo.
Ispirare con il coinvolgimento personale Quando entrai in Apple, Steve era già arrivato a capire che le persone si sentono motivate quando il loro manager o leader crea un legame diretto, attivo e personale con il prodotto. Aveva scoperto che non c'è modo migliore per ispirare gli altri. Il suo obiettivo è creare energia, affinché ogni di-pendente dell'azienda si senta motivato quanto lui. Perché questo accada, ciascuno deve sentirsi parte integrante del prodotto. Nell'azienda di Steve il prodotto è il cuore di tutto, anche del riconoscimento e della motivazione. L‟attenzione di tutti è concentrata sul prodotto. Steve sa‟ che per essere un buon leader devi diventare il prodotto. Si impegna per convincere ogni dipendente che il suo contributo è essenziale al successo del prodotto. Questa è leadership attraverso l‟esempio. Le persone sviluppano un legame forte con il loro lavoro - creare il prodotto - perché vedono quant'è forte il legame del loro capo con il prodotto. In seguito, quando uscì il Mac, malgrado le vendite deludenti dei primi tempi, tutto il team ne comprese il potenziale. Steve si assicurò che tutti lo capissero e il suo entusiasmo non vacillò mai. Riesce sempre a dire le parole giuste per stimolare in tutti la voglia di impegnarsi. E nonostante lo stress e la pressione creati da un leader la cui passione e ossessione per i dettagli è infinita, alla gente piace lavorare in Apple e lavorare per Steve. Il risultato? Apple aveva un tasso di turn-over del personale del 3%: il più basso nel settore tecnologico. Anche i dipendenti che raramente vedevano Steve di persona gli erano fedeli. Quella fedeltà si riflette nelle ricompense che i dipendenti ricevono per i loro sforzi. La grande maggioranza delle aziende premia i dipendenti con aumenti di stipendio,
incentivi e stock option. Anche in Apple è così, ma Steve sa trovare anche altri modi per premiare le persone: denaro e titoli azionari non sono gli unici stimoli alla motivazioni. Soprattutto nei primi tempi, ogni volta che un team conseguiva un obiettivo importante tutti sapevano di potersi aspettare una ricompensa. Il team Mac teneva scorte di champagne da stappare ogni volta che a qualcuno sembrava di aver raggiunto un successo piccolo ma significativo: quando finalmente riusciva a far funzionare qualcosa di difficile. Quando un membro del team Mac meritava un bonus, Steve infilava l'assegno in una busta bianca, andava alla scrivania del dipendente e glielo consegnava di persona. Un giorno distribuì medaglie agli ingegneri del team Mac, solo per mostrare quanto apprezzava il loro impegno. E Steve sapeva che i successi spingono le persone ad andare avanti: “Il software del monitor deve essere funzionante entro il 15 di questo mese”... “Entro il 21 devono essere spedite 75.000 unità''. Raggiungere ogni obiettivo era un'occasione per fermarsi e festeggiare. Una volta immessi sul mercato i primi Mac, Steve voleva far sapere agli operai della fabbrica che apprezzava il loro impegno. Come fa un amministratore delegato a mostrarsi riconoscente? Avrebbe potuto chiedere all'ufficio risorse umane di stampare dei certificati da appendere al muro; avrebbe potuto dire al direttore della fabbrica di organizzare una festa del genere "pacca sulla spalla". Per Steve non era abbastanza. Andò di persona in fabbrica e mi portò con sé. Consegnò personalmente a ogni operaio un biglietto da cento dollari e li guardò negli occhi uno per uno. Ma il punto non erano i soldi: a lasciare un'impressione profonda fu il fatto che l'amministratore delegato fosse venuto di persona a distribuire bonus ed elogi. Un giorno ero con Steve in una delle sue sortite di “management itinerante”, e andammo nel reparto spedizioni del magazzino della linea Mac. Steve era insoddisfatto della velocità e della qualità del processo di spedizione. Anche quella volta si immedesimò nel prodotto e descrisse come si sentiva un Mac quando arrivava al reparto spedizioni. Di
fronte a tutti gli spedizionieri, immaginò di venire impacchettato e incellofanato, per riflettere su come si potesse velocizzare e migliorare la procedura. Gli astanti erano perplessi e sembravano a disagio di fronte a quella performance: ma il metodo si rivelò efficace e si riuscì a velocizzare i tempi di spedizione. Alla fine tutti applaudirono. Poi ordinammo pizza e bibite e celebrammo tutti insieme il nuovo sistema di spedizione. In sintesi, quei cambiamenti permisero di raggiungere l'obiettivo fissato da Steve: un Mac spedito ogni ventisette secondi. Dopo il lancio del prodotto, tornando a Bandley Drive trovammo un grosso camion davanti alla porta sul retro. Dentro c‟erano cento Macintosh e Steve li consegnò personalmente durante una piccola cerimonia, chiamando ogni persona per nome, stringendo ogni mano e ringraziando ciascuno a titolo personale. Ciascuno di quei Mac era personalizzato con una targhetta con il nome del ricevente. Possiedo ancora il Mac che Steve mi regalò quel giorno e scommetto che lo possiedono anche le altre novantanove persone. Quando uscì l‟iPhone, ogni dipendente ne ricevette uno gratis. E così ogni collaboratore part-time e ogni consulente che fosse in azienda da più di un anno. Steve era il miglior cheerleader che una squadra potesse avere: sempre impegnato a sollevare il morale e suscitare entusiasmo con frasi del tipo: “Quello che stiamo facendo qui si irradierà come un‟onda in tutto l‟universo.”
Spronare l'artista che è in ciascuno di noi Steve è un artista, lo "head artist” di Apple, per usare un termine che di recente è diventato di moda, ma che a lui si attagliava fin dall‟inizio. Incoraggia anche i suoi ingegneri a ritenersi artisti. Una volta, nel 1982, portò l‟intero team Mac a visitare il museo
dedicato a Louis Comfort Tiffany, il celebre designer Art Nouveau. Perché? Perché Tiffany era un artista che era riuscito a produrre in serie le sue opere. Steve sfruttava la sensibilità artistica dei suoi ingegneri. Sempre iperattivo e impaziente di avere prodotti nuovi da lanciare, arringava le truppe come un domatore di leoni, dicendo cose come: “I veri artisti consegnano in tempo.” Andy Herzfeld, una figura chiave del team originario di progettazione del Mac, la mette in questi termini: “Il team Mac era motivato da molte cose, ma l‟ingrediente speciale era una forte dose di valori artistici. L‟obiettivo non era mai quello di battere la concorrenza o di guadagnare un sacco di soldi: era quello di fare il miglior lavoro possibile, e magari anche qualcosa in più.” 11
Saper comunicare Non so perché, ma i giornalisti scrivono raramente di uno dei tratti più importanti del carattere di Steve: l‟impegno con cui fa sapere alle persone che sono importanti e che il loro lavoro è cruciale. Steve si impegna continuamente per generare entusiasmo. Ha un talento naturale, ma si sforza anche di osservare altre persone che possiedono questa abilità. Cosa dicono esattamente? Che atteggiamenti assumono? Come fanno a capire se l‟altro li ascolta? È facile perdere di vista l‟importanza dell‟elemento umano. Steve è un modello per tutti in Apple, dai dirigenti di alto livello fino allo staff dei Genius Bar di ogni Apple Store. Nel 2005, durante il suo celebre discorso di apertura dell‟anno accademico all‟università di Stanford, ha detto: "Dovete credere in qualcosa: l‟istinto, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Questo approccio non mi ha mai Andy Hertzfeld, "SigningParty,” Folklore.org, febbraio 1982. http://folklore.org/StoryView.py?project=Macintosh&story=Signing_Par ty.txt&%20characters=Mike%20Boich&sortOrder=Sort%20by%20Date &%20detail=medium
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tradito, e ha fatto la differenza nella mia vita.” Instilla nelle persone che lavorano per lui lo stesso senso di fiducia, orientamento e visione. Ha promosso in prima persona l‟iniziativa del “mese sabbatico Apple”: dopo cinque anni in azienda, il dipendente avrebbe ottenuto un mese di ferie retribuite. Ma non serviva a starsene in spiaggia e bere pina colada; ci attendevamo che in quel mese il dipendente si facesse venire nuove idee per un prodotto, un processo o una problematica più generale riguardante l‟azienda e le sue strategie. Il congedo retribuito doveva servire a rivitalizzare il pensiero creativo.
Un approccio pragmatico alla motivazione Steve è anche un maestro del "management itinerante”. In un giorno qualunque della settimana potreste ritrovarvelo sull‟uscio del vostro ufficio, a chiedervi: “Su cosa stai lavorando?”, oppure: "Che problemi hai?” Ogni tanto lo vedevo più polemico: "Come ti stai guadagnando lo stipendio che ti pago?” Questo atteggiamento mette alcuni a disagio: lo considerano una forma di micro managing. Ma questo approccio può anche generare sentimenti più positivi: "A Steve non interessa solo il prodotto, ma anche il mio ruolo. Faccio parte di qualcosa di più grande. Ci siamo dentro tutti insieme.” Negli anni, Steve è sempre stato onnipresente nella vita dei suoi dipendenti. È convinto che mantenersi disponibile all‟ascolto aiuterà i suoi collaboratori a corrispondere alle sue aspettative. Andy Grove, allora presidente di Intel, lavorava in modo simile, ma non proprio identico. Naturalmente Intel era un‟azienda molto più grande di Apple. Andy entrava negli uffici dei dipendenti senza farsi annunciare e spesso li faceva sentire minacciati; ma ci andava perché voleva sentirsi partecipe di tutto ciò che accadeva, e motivare tutti alla risoluzione dei problemi e alla ricerca continua di soluzioni migliori.
Questo tipo di leadership basata sull‟ubiquità, se praticata nel modo giusto, fa sentire tutti parte di un grande organismo. Oggi questo stile di management “partecipativo” è ancor più importante. Con i telefoni cellulari, gli sms e la possibilità di comunicare per email con il vicino di scrivania, la tecnologia abbatte le distanze fra le persone proprio mentre ci allontaniamo gli uni dagli altri. Sì, Steve usa molto l‟email, ma è attento a mantenere il contatto umano come e più di prima. Ancor oggi metto in pratica ciò che Steve mi ha insegnato sull‟importanza delle relazioni umane nello sviluppo di un prodotto: i miei dipendenti sanno che sono sempre disponibile e che, se la questione è importante, preferisco parlare a quattr‟occhi piuttosto che ricevere un email impersonale. Quando un membro del team Mac aveva bisogno di una pausa, andava nell‟atrio di cui ho già parlato: un luogo di ritrovo e di relax, pieno di videogiochi e scorte inesauribili della bibita preferita di Steve, il succo di frutta Odwalla, che allora era ancora una novità prodotta in zona. (La ben nota predilezione di Steve per l‟Odwalla ne ha poi garantito il clamoroso successo internazionale.) Era un ottimo posto dove andare a parlare con in colleghi sul lavoro e sulle difficoltà che incontravi. Un luogo di ritrovo come l‟atrio Mac aiuta tutti a sentirsi meno soli: un problema che affligge una parte del team diventa presto un problema di tutti.
Una tattica di leadership tipica di Steve: revisioni molto
frequenti
Oltre ai grandi ritiri del team organizzati ogni tre mesi e alle feste estemporanee organizzate per celebrare la conquista di obiettivi intermedi, c‟erano le sessioni ordinarie di revisione prodotto che si svolgevano formalmente ogni settimana. Steve credeva molto nell‟utilità di frequenti verifiche all‟andamento di un progetto. Ma quando gli veniva in mente un‟idea o una domanda, non aspettava la prossima review session. Il leader di un
product team poteva essere a cena, o a casa con la famiglia, o in pigiama e pronto per andarsene a letto, e d‟un tratto si ritrovava al telefono con Steve che gli snocciolava una lista di richieste: “Hai fatto questo, hai avuto risposta da quell‟altro, qualcuno ha trovato un candidato per quella posizione, hai risolto il problema tal dei tali?” E magari ritelefonava dopo un paio d‟ore perché gli era venuto in mente qualche altro dettaglio. Ma ogni volta, chiedeva: “Puoi parlare adesso?” Il sottinteso che il lavoro ventiquattrore al giorno veniva stemperato da una dimostrazione di rispetto per la tua vita privata. Steve contravviene ad alcune regole apparentemente ferree sulla gestione del personale. E' conosciuta la sua abitudine di spingere le persone al limite, di aspettarsi che diano il massimo ogni giorno. Perché i suoi dipendenti accettano di buon grado queste intrusioni nella loro vita personale? E' sempre difficile lavorare per un perfezionista, ma puoi farcela se ti sforzi di essere energetico, entusiasta e ispiratore quanto lo è il tuo leader.
I vostri dipendenti usano i vostri prodotti? Forse questa regola non si applica alla vostra azienda: se producete microchip, molle per materassi, parti di trattori... o se progettate siti web, o consegnate pacchi, probabilmente quello che sto per dirvi non vi interesserà. Ma se fornite prodotti o servizi che i vostri dipendenti possono usare, allora vi conviene assicurarvi che chi lavora per voi non sia un semplice utente del vostro prodotto, ma un fan entusiasta: che lo usi non solo perché qualcuno controlla che lo faccia, ma perché ci crede davvero. E non solo: se io, per esempio, fossi il capo di Intel, mi aspetterei che i dipendenti usassero anche a casa computer con l'etichetta “Intel Inside”. Prima del Mac, i dipendenti Apple erano assunti con un periodo di prova, durante il quale dovevano imparare a usare
l'Apple II. Dopo tre settimane dovevano sostenere un esame. Se non si erano scomodati ad apprendere l'uso del computer, questo era interpretato come un segno che non tenevano davvero al prodotto o all‟azienda, quindi venivano licenziati. Ma se passavi l'esame, Apple ti regalava un Apple II da portarti a casa. Nel 1985, dopo l‟uscita del Mac, chiesi al reparto progettazione negozi di creare un punto vendita riservato ai dipendenti nella vicina Bandley Drive, rifornito di prodotti Apple: computer, stampanti, periferiche e accessori. Non era un centro di profitto, ma un modo per incoraggiare i dipendenti a tenersi al passo con le ultime versioni di ogni prodotto hardware. Potevi comprare un Mac o un Apple II a circa metà del costo di produzione, ovvero con circa il 75 per cento di sconto sul prezzo di listino. E non finiva qui: una volta all‟anno ogni dipendente poteva acquistare un computer per un familiare o un amico con lo stesso sconto; un‟altra ricompensa per i pirati Macintosh e per i non-pirati nelle altre divisioni di Apple. L‟azienda era molto generosa anche con i fornitori, gli sviluppatori e i consulenti. “Vi piacerebbero un paio di nuovi Mac? Una stampante laser? Un server?” Per l‟azienda era una spesa trascurabile, meno di un arrotondamento; ma il guadagno in termini d‟immagine ed entusiasmo per i prodotti Apple era inestimabile.
La ricompensa più grande Poche cose hanno più valore, nel mondo aziendale, di un dipendente a cui importa davvero dell‟azienda e dei suoi prodotti. Chuq von Rospach, veterano che lavora in Apple da diciassette anni, la mette in questi termini: “Sono entrato in Apple per motivi semplici: era un‟azienda che secondo me poteva fare la differenza e migliorare la società. Apple è una razza in estinzione: un‟azienda che non ha paura di
impegnarsi per migliorare il mondo intorno a sé.” 12 È questo genere di atteggiamento a incrementare il successo dei prodotti. Un programmatore che lavorò in Apple nei primi tempi (e spera di tornarci, motivo per cui non faccio il suo nome) spiega bene in che modo questo atteggiamento permea l‟azienda: “Da due anni non lavoro più in Apple, ma mi sembra ancora di festeggiare il Natale due volte: una con la mia famiglia, e un‟altra a gennaio, al Macworld, quando Steve Jobs sale sul palco e dice: “Oggi voglio mostrarvi alcune cose che penso vi piaceranno” In quanto “artista capo”, Steve vuol sempre fare scalpore, finire in prima pagina sui giornali, far colpo dapprima sugli azionisti, al meeting annuale, e poi al Macworld, di fronte ai fan più accaniti e agli sviluppatori. E bravissimo a "generare il Buzz”, nell‟azienda e in tutto il mondo. Quando Steve sale sul palco al Macworld, tutti i dipendenti interrompono il lavoro e si riuniscono davanti ai maxischermi montati per l‟occasione nel ristorante del campus. Steve sa di parlare a tutto il mondo, ma per lui è altrettanto importante rivolgersi a ogni dipendente e concessionario Apple: soprattutto a quelli che hanno avuto un ruolo, per quanto piccolo, nella creazione del prodotto che presenta quel giorno. Varie presentazioni di Steve sono poi visibili su YouTube: cercate “Steve Jobs Macworld”. Spesso, per i pirati di Steve, la ricompensa più grande è l‟emozione di vedere il loro prodotto presentato con titoli a caratteri cubitali, il genere di risonanza mediatica che Steve è così bravo a creare. Per i veri pirati dei secoli passati, la ricompensa era il bottino delle razzie. Per i pirati delle migliori aziende di oggi, una delle gioie più grandi è quando un nuovo prodotto o servizio su cui hanno lavorato viene lanciato con qualcosa in più di un comunicato stampa. Basta guardare Steve sul palco durante il lancio di un nuovo prodotto, e immaginare 12
Chuq von Rospach, "Enjoying the Show, Avoiding the Flamethrower: Life Inside Apple”, Guardian, 2 gennaio 2009 http://www.guardian.co.uk/technology/2009/jan/02/apple-macworldlookback
l‟orgoglio e la soddisfazione che provereste se aveste contribuito a creare, pubblicizzare o lanciare quel prodotto. Poi domandatevi cosa potete fare per dare ai vostri dipendenti la stessa soddisfazione.
PARTE III Sport di Squadra
L'impresa orientata al prodotto
È essenziale che un'azienda sia strutturata nel modo più efficiente per svolgere le sue attività. Nei primi anni, Apple prosperò sul successo di Apple II: le vendite crescevano ogni mese a ritmo esponenziale, Steve Jobs era diventato il ragazzo-immagine degli oggetti high-tech americani e il simbolo dei prodotti Apple, mentre Steve Wozniak, il genio dell‟ingegneria che aveva reso possibile tutto ciò, non riceveva i riconoscimenti che gli sarebbero spettati. Poi, nei primi anni ottanta, la situazione iniziò a evolvere; ma la dirigenza Apple non lo capì, e non si accorse dei problemi che si profilavano. Quel che è peggio, il successo finanziario dell'azienda stava nascondendo quei problemi.
Il momento migliore, il momento peggiore In quel periodo gli Stati Uniti non se la passavano bene e, nei primi mesi del 1983, i tempi non erano propizi per le vendite di alcun prodotto. Ronald Reagan era succeduto a Jimmy Carter alla Casa Bianca e l'America intera stava uscendo faticosamente da una brutta recessione: una recessione anomala, in cui l‟inflazione galoppante, che di solito si associa a un eccesso di domanda, si accompagnava invece a una stagnazione dell‟attività economica. "Stagflazione”, la chiamavano. E per domare il mostro dell‟inflazione, il presidente della Federai Reserve, Paul Volcker, aveva fatto schizzare alle stelle i tassi d‟interesse, strozzando la domanda di consumo. Intanto, IBM era atterrata come una tonnellata di mattoni nel settore dei PC, nel quale un tempo Apple aveva esercitato un sostanziale predominio. Nel business dei personal computer, IBM era il gigante solitario tra i pigmei: e i "pigmei” erano gente del calibro di General Electric, Honeywell e Hewlett-Packard. Apple non si poteva neppure definire un pigmeo: di fronte al fatturato di IBM, quello di Apple somigliava agli spiccioli avanzati da un arrotondamento. Dunque, Apple era forse destinata a lasciarsi spazzare via, a finire relegata nelle note a piè di pagina dei manuali di storia dell‟economia? Apple II era la macchina da soldi dell‟azienda, ma Steve sapeva bene che non poteva durare così in eterno. E per di più, l‟azienda aveva appena subito il primo grande fallimento: il richiamo dei nuovi Apple III- prezzo di listino 7.800 dollari - per colpa di un cavo difettoso che costava meno di trenta centesimi. Poi IBM partì all‟assalto con la sua stucchevole campagna pubblicitaria con Charlie Chaplin. Entrando in quel mercato, "Big Blue” l‟aveva trasformato profondamente, legittimando il personal computer come un oggetto d‟uso quotidiano, anche fuori dal circuito ristretto degli appassionati di
elettronica. Ma la domanda più pressante per Apple era: come contrastare il leggendario potere di mercato di IBM? Per sopravvivere, se non per prosperare, Apple doveva rispondere a tono alla sfida posta da IBM. Steve era convinto di aver trovato l'antidoto nel piccolo gruppo di sviluppo che dirigeva: il principio dell‟azienda orientata al prodotto. Ma stava per trovarsi davanti uno dei pochi ostacoli insormontabili della sua carriera: un ostacolo che lui stesso avrebbe posto sul proprio cammino.
Alla
ricerca
di
una
leadership
La situazione della dirigenza Apple era precaria. Steve era a capo del consiglio di amministrazione, un ruolo che prendeva molto sul serio, ma la sua attenzione si concentrava soprattutto sul Mac. Mike Scott non aveva ancora dimostrato quanto valeva come presidente e Mike Markkula, l‟ angel investor che aveva versato i primi fondi per avviare l'azienda dei due Steve, era ancora amministratore delegato ad interim, ma cercava un modo per scaricare quell‟incombenza sulle spalle di qualcun altro. Malgrado tutte le pressioni che subiva, una volta al mese Steve saliva in macchina e andava nel vicino campus di Stanford e, di solito, io lo accompagnavo. Andare in macchina con Steve era sempre un esperienza. È un automobilista molto attento e prudente, ma all‟epoca guidava con lo stesso stile che usava per gestire il progetto Mac: sempre di corsa, tentando di fare accadere tutto il più in fretta possibile. Salendo con lui su quella Mercedes, un estraneo avrebbe imparato molto sulla sua personalità. E avrebbe scoperto ben presto il grande amore di Steve per la musica, che era una parte importante della sua vita. Ti diceva: “L‟hai mai sentita questa?” e faceva partire una canzone dei Beatles o un‟altra delle sue preferite, allo stesso volume assordante di quel mio primo viaggio con lui verso il PARC, tanto che bisognava gridare per farsi sentire sopra la musica.
In quelle visite mensili a Stanford, Steve incontrava gli studenti della Business School, in una piccola aula con trenta o quaranta posti oppure intorno a un tavolo da riunioni. Due degli studenti più avanti nel corso, Debi Coleman e Mike Murray, furono assunti da Steve nel gruppo Mac appena si laurearono. Durante una delle riunioni settimanali con i leader del team Mac, Steve disse che bisognava trovare un nuovo amministratore delegato. Debi e Mike balzarono sull‟attenti e iniziarono a decantare le lodi del presidente di PepsiCo, John Sculley, che una volta aveva tenuto una conferenza nel loro corso alla Business School. Era stato lui a ideare la campagna di marketing che negli anni settanta aveva finalmente strappato una grossa fetta di mercato alla Coca Cola. Intitolata Pepsi Challenge (con la Coca Cola come sfidante, ovviamente), la campagna era composta da spot in cui consumatori bendati assaggiavano le due bibite e dovevano dire quale preferivano: naturalmente sceglievano sempre la Pepsi. Debi e Mike parlarono con grande entusiasmo di Sculley, descrivendolo come un amministratore di grande esperienza e un genio del marketing, e immagino che tutti i presenti abbiano pensato, nel loro intimo: “Proprio quello che ci serve.” Suppongo che Steve abbia telefonato subito a John. Dopo qualche settimana passò un intero week-end in riunione con lui; mi pare fossimo in inverno, perché ricordo che Steve mi disse di essere a Central Park e che i prati erano coperti di neve. Naturalmente John non capiva nulla di computer, ma Steve restò molto impressionato dalle sue idee sul marketing che gli avevano permesso di scalare la vetta di quella gigantesca macchina del marketing che è Pepsi: idee che secondo Steve avrebbero potuto rappresentare un ottima risorsa per Apple. Ma John non accolse con entusiasmo la proposta di Steve: Apple era un'azienda minuscola rispetto a Pepsi, e tutti gli amici e i contatti d'affari di John vivevano sulla costa atlantica. Per giunta, aveva scoperto di essere uno
dei tre candidati al posto di presidente del consiglio di amministrazione in Pepsi. La sua prima risposta, dunque, fu un secco no. Come tutti i leader di successo, Steve è estremamente determinato. Alla fine riuscì a sedurre Sculley con un colpo da maestro, una domanda che è passata alla storia: “Vuoi vendere acqua zuccherata per il resto della vita, oppure vuoi avere una possibilità di cambiare il mondo?” La domanda in realtà era rivolta più a se stesso che a Sculley: era chiaro che Steve si credeva destinato a cambiare il mondo. Molto tempo dopo, John ricordò: "In quel momento trasalii, perché sapevo che se avessi detto di no, avrei passato il resto della vita a chiedermi cosa mi ero perso. 13 Per conquistare Sculley furono necessari diversi mesi, ma nella primavera del 1983, finalmente, Apple aveva il suo nuovo amministratore delegato. Sculley aveva rinunciato alla guida di una grande multinazionale, a uno dei brand più famosi al mondo, per gestire un'azienda relativamente piccola in un settore di cui non sapeva niente. Un‟azienda che, inoltre, era stata creata poco tempo addietro da due ragazzini in un garage e che ora voleva sfidare il mastodontico leader dell'informatica. Per i mesi successivi, John andò d'accordissimo con Steve: la stampa di settore li soprannominò "il dinamico duo". Presiedevano insieme alle riunioni e, almeno durante la giornata lavorativa, erano sempre gomito a gomito. E soprattutto, erano una società di mutua istruzione: John insegnava a Steve a dirigere una grande impresa, Steve iniziava John ai misteri dei bit e dei byte. Ma fin dall‟inizio, John Sculley fu attratto soprattutto dal grande progetto di Steve Jobs, il Mac. Con Steve come capo scout e guida turistica, l‟interesse di John non avrebbe potuto essere diretto altrove. Per aiutare John nella difficile transizione dalle bibite gassate a quello che doveva sembrargli il misterioso mondo della tecnologia, piazzai in un ufficio accanto al suo uno dei miei uomini dell‟lT, Mike Homer, per assisterlo sul versante 13
Triumph of the Nerds. Op. cit. [NDR]
tecnologico. Quando Mike lasciò quell‟impiego, fu sostituito da un giovane di nome Joe Hutsko: un ragazzo senza laurea e senza grande esperienza, ma assolutamente in grado di fare il suo lavoro. Pensavo che per il bene di John e di Apple, fosse essenziale avere un tecnico a portata di mano. Steve accettò di buon grado quegli intermediari, ma non ne era felice; avrebbe preferito farsi carico da solo dell‟apprendistato tecnologico di John. Ma chiaramente aveva ben altro da fare che star dietro al nuovo arrivato. John e Steve erano sulla stessa lunghezza d‟onda, tanto che a volte si completavano le frasi a vicenda. (Be‟, non l‟ho mai visto accadere davvero, ma ormai fa parte della “leggenda di John e Steve”.) Questa sintonia d‟intenti, come si scoprì, era dovuta anche al fatto che John iniziava gradualmente a condividere l‟idea di Steve che il futuro di Apple era il Macintosh. Né Steve né John immaginavano cosa li aspettava. Se anche un moderno Nostradamus avesse previsto una battaglia, noi tutti avremmo dato per scontato che sarebbe stata una lotta fra prodotti: Macintosh contro Lisa, o Apple contro IBM. Non ci passò mai per la testa che la battaglia potesse riguardare l‟organigramma aziendale.
Il labirinto del ''go-to-market" In effetti, uno dei grandi problemi di Steve era il computer Apple Lisa, che l‟azienda aveva immesso sul mercato lo stesso mese in cui era stato assunto Sculley. Con il Lisa, Apple aspirava a infrangere il monopolio di IBM sui clienti business. Allo stesso tempo fu lanciato anche un upgrade dell‟Apple II: l‟Apple IIe. Steve aveva sempre pensato che il Lisa sfruttasse tecnologie già superate, ma al momento dell‟immissione sul mercato si profilò un ostacolo davvero insormontabile: il prezzo base era nientemeno che diecimila dollari. Il Lisa faticò a imporsi fin dal primo giorno: poco potente, troppo pesante e troppo caro, si rivelò ben presto un flop e non fu
davvero d‟aiuto nella crisi che seguì. L‟Apple IIe, invece, fu un successo stratosferico: più usabile, con un nuovo software e una grafica migliore. Nessuno si era aspettato che quell‟upgrade, più o meno di routine, trasformasse l‟Apple II in un bestseller. Il target del Mac, invece, erano i nuovi consumatori, gli utenti privati. Il computer sarebbe costato sui duemila dollari: assai più abbordabile del Lisa, ma comunque più caro del suo competitor diretto, il PC IBM. E poi c‟era sempre l‟Apple II, che sarebbe rimasto sul mercato ancora per vari anni. Così ora l‟attenzione di Apple era divisa fra due prodotti, l‟Apple Ile e il Mac. Era per risolvere questo tipo di problemi che avevano assunto John Sculley: ma lui cosa poteva farci, se Steve continuava a ripetergli che il Mac era il futuro di Apple, che avrebbe cambiato la vita dei consumatori? A causa di questo conflitto interno, l‟azienda si spaccò in due fazioni, Apple II contro Mac. Lo stesso succedeva nei negozi che vendevano prodotti Apple: il principale competitor del Mac era l‟Apple II. - All‟apice di questo conflitto, l‟azienda aveva circa quattromila dipendenti, di cui tremila seguivano la linea di produzione dell‟Apple II, e mille si occupavano del Lisa e del Mac. Malgrado questo forte squilibrio, la maggior parte dei dipendenti pensava che John trascurasse il versante Apple II perché era troppo concentrato sul Mac. Ma all‟interno dell‟azienda era difficile intuire la dinamica esatta del problema, che veniva nascosto dal fatturato altissimo e dal miliardo di dollari che Apple aveva in banca. Questo ampliamento del listino prodotti avrebbe posto le basi per un conflitto spettacolare quanto drammatico. L‟Apple II veniva immesso sul mercato in modo tradizionale: venduto a distributori che poi lo rivendevano a scuole, università e negozi. Come in altri settori merceologici - lavatrici, bibite, automobili - erano i negozianti a vendere il prodotto ai singoli acquirenti. I clienti di Apple, in breve, non erano i singoli utenti finali, ma le grandi imprese di distribuzione.
Col senno di poi, è chiaro che si trattava del canale di vendita sbagliato per un prodotto di tecnologia di consumo come il Mac. Mentre il team Mac lavorava sodo per sistemare gli ultimi dettagli prima del lancio tante volte rimandato, Steve organizzò un ciclo di conferenze stampa in otto città americane, per mostrare ai giornalisti una demo del nuovo Mac. Durante una di queste presentazioni, qualcosa andò storto con il software. Steve fece del suo meglio per nascondere l‟intoppo e proseguì la presentazione come se niente fosse. Appena i giornalisti se ne furono andati, telefonò subito a Bruce Horn, responsabile del software che aveva mostrato malfunzionamenti, e gli descrisse il problema. “Quanto ci vorrà per risolverlo?” “Due settimane”, rispose Bruce, dopo un attimo di riflessione. Steve sapeva cosa significava quella risposta: chiunque altro ci avrebbe messo un mese, ma Bruce era il tipo d'uomo che si chiude a chiave nel suo ufficio e praticamente non si muove di lì finché il problema non è risolto. Steve sapeva anche che quel ritardo avrebbe fatto saltare le tempistiche previste per il lancio del Mac. "Due settimane è troppo”, disse. Bruce gli spiegò in cosa consisteva il lavoro. Steve rispettava Bruce e si fidava di lui, però disse: "Capisco la tua posizione, ma devi farcela più in fretta.” Non so come o dove l‟abbia acquisita, ma Steve ha la strana capacità di valutare con precisione cosa è fattibile e cosa no, pur in mancanza di competenze tecniche approfondite. Ci fu una lunga pausa, mentre Bruce ci rifletteva su. Alla fine disse: "Va bene, provo a farcela in una settimana.” Steve gli disse che era molto soddisfatto di lui. Quando Steve prova gratitudine nei tuoi confronti, glielo senti nella voce: senti balenare una scintilla di entusiasmo. Quei momenti sono una fonte di grande motivazione per chi lavora con lui.
Qualcosa di molto simile avvenne più a ridosso del lancio del Mac, quando gli ingegneri del software che sviluppavano il sistema operativo incontrarono un intoppo. Una settimana prima della data in cui il software doveva essere consegnato per la duplicazione dei dischi, Bud Tribble, direttore del team software, disse a Steve che non ce l‟avrebbero fatta in tempo. Il Mac sarebbe uscito sul mercato con un sistema operativo instabile e pieno di bug, con l‟etichetta "demo”. Invece di infuriarsi, Steve elogiò il team Mac: Apple contava su di loro, disse. "Voi potete farcela”, li esortò con quel suo tono irresistibile e determinato. E poi pose fine alla conversazione, prima che i programmatori potessero ribattere. Quelle persone lavoravano novanta ore a settimana da mesi e tante volte avevano dormito in ufficio invece di tornare a casa; ma grazie a Steve avevano trovato l‟ispirazione e riuscirono a terminare il lavoro proprio l‟ultimo giorno disponibile, quando mancavano letteralmente pochi minuti allo scadere del tempo utile.
Accorgersi dei segnali di conflitto Le prime avvisaglie di un raffreddamento dei rapporti fra John e Steve si ebbero durante la lunga fase di gestazione della campagna pubblicitaria per il Mac. Questa è la storia del famoso spot televisivo da sessanta secondi che doveva essere trasmesso durante il Super Bowl dell'84, per la regia di Ridley Scott, il nuovo beniamino di Hollywood, dopo il successo di Blade Runner. Per chi non lo sapesse, lo spot mostrava un auditorium pieno di impiegati in giacca e cravatta che fissavano inebetiti un maxischermo da cui li arringava una figura gigantesca: una citazione esplicita da 1984 di George Orwell, nel quale il Grande Fratello controlla le menti dei cittadini. D‟un tratto, una giovane atleta in maglietta e pantaloncini rossi irrompeva nell‟auditorium e scagliava un martello contro lo schermo, mandandolo in frantumi. A quel punto, nella sala entrava un raggio di sole a squarciare il buio, una ventata
d‟aria fresca faceva uscire i lavoratori dal loro stato di trance. Una voce fuori campo dichiarava: “Il 24 gennaio, Apple presenterà Macintosh. E scoprirete perché il 1984 non sarà come 1984.” Lo spot ideato dall‟agenzia pubblicitaria piacque subito a Steve. John invece era perplesso: gli sembrava una follia. “Potrebbe funzionare”, ammise tuttavia. Il consiglio di amministrazione detestò lo spot senza mezze misure e chiese all‟agenzia di annullare la prenotazione dello spazio televisivo che Apple aveva già acquistato per il Super Bowl e di richiedere indietro i soldi. Probabilmente il network televisivo fece del suo meglio, ma dichiarò di non essere riuscito a trovare un nuovo acquirente. Steve Wozniak ricorda chiaramente la sua reazione: “Steve [Jobs] mi fece vedere lo spot e io commentai: Questo spot ci rappresenta. Chiesi se l‟avremmo trasmesso durante il Super Bowl e Steve disse che il Cda aveva deciso di no." Quando Woz ne domandò il motivo, l‟unica parte della risposta su cui ricorda di essersi concentrato è il fatto che trasmettere lo spot sarebbe costato 800.000 dollari. "Ci pensai su per un momento e poi dissi che avrei versato metà di quella cifra, se Steve era disposto a pagare l‟altra metà.” Con il senno di poi, dice Woz, “Ora capisco quant‟ero ingenuo. Ma avanzai quella proposta in tutta sincerità”. Ma non fu necessario, perché pur di non vedere un banale spot di rimpiazzo per il Macintosh, il vicepresidente esecutivo di Apple per le vendite e il marketing, Fred Kvamme, all‟ultimo minuto fece la telefonata cruciale che avrebbe scritto una pagina nella storia della pubblicità: "Trasmettetelo.” Quando lo spot fu trasmesso, i telespettatori restarono sconcertati e affascinati: non avevano mai visto niente del genere. Quella sera, i direttori di tutti i telegiornali decisero che quello spot era così unico da costituire una notizia, e lo ritrasmisero all'interno dei telegiornali: milioni di dollari in pubblicità gratis per Apple. Ancora una volta Steve aveva fatto bene a seguire l‟istinto. Il giorno dopo la trasmissione dello spot, di mattina presto,
salii in macchina con lui e passammo davanti a un negozio di computer a Palo Alto, dove trovammo una lunga fila di persone che aspettavano l‟apertura delle porte. Era così davanti ai reseller di informatica di tutto il paese. Oggi, "1984” è considerato da molti il miglior spot televisivo mai trasmesso. Ma in Apple, quello spot provocò solo guai. Non fece che alimentare l‟invidia da parte dei gruppi Lisa e Apple II nei confronti del parvenu Macintosh. Ci sono metodi per dissipare questo tipo di gelosia che sorge in un contesto aziendale, ma non si possono applicare all'ultimo minuto. Se i dirigenti Apple avessero riconosciuto il problema, avrebbero potuto sforzarsi di far sentire l‟intera azienda orgogliosa del Mac e fiduciosa nel suo successo. Invece, nessuno si rese conto dell‟effetto deleterio di quelle tensioni sul morale dei dipendenti.
Tensioni nella leadership Prima di presentare il Macintosh dal vivo ai giornalisti, Steve convocò una riunione generale di tutto il personale. Del nuovo computer si era parlato molto, ma al di fuori del team Mac l‟aveva mai visto. David Arella, il responsabile delle risorse umane che avevo assunto malgrado non avesse esperienza, si illumina in volto quando ricorda quella giornata. “Steve tenne uno dei discorsi più travolgenti che io abbia mai sentito. Ci convinse che eravamo nel posto giusto al momento giusto. Fu il discorso più efficace che abbia mai ascoltato.” Ma fu una sola riunione convocata all'ultimo minuto: troppo tardi per avere un impatto profondo sulle forze rivali che si contendevano l'azienda. Due giorni dopo il Super Bowl, lo spot Apple era ancora sulla bocca di tutti e Steve, in doppiopetto blu scuro e cravatta a pois, salì sul palco e tenne uno dei suoi celebri discorsi di presentazione, che sarebbero diventati il suo marchio di fabbrica. Sfoderando il suo tipico sorrisetto
complice, strappò via il telone che copriva il Mac e lo invitò a parlare. Il computer parlò: “Ciao, mi chiamo Macintosh. Non fidatevi mai di un computer che non riuscite a sollevare... Sono felice di essere uscito da quella borsa”. E poi disse: "È con grande orgoglio che vi presento un uomo che è stato come un padre per me: Steve Jobs.” La platea scoppiò in un applauso fragoroso: nessuno dei presenti aveva mai visto niente di simile. John Sculley e io eravamo dietro le quinte: e quando Steve scese dal palco ci disse: “Non sono mai stato così orgoglioso in vita mia.” Sapevamo cosa intendeva: non aveva soltanto presentato un computer, aveva presentato un modo nuovo di usare i computer. Sprizzava gioia da tutti i pori.
Essere il volto pubblico del tuo prodotto L'azienda orientata al prodotto è quella in cui il prodotto è l'elemento più importante in ogni decisione. Steve è un esempio perfetto di come si possa essere il volto del proprio prodotto ovunque si vada. Questo aspetto è particolarmente evidente in occasione delle conferenze stampa di presentazione dei nuovi prodotti, o al Mac Expo. Molto spesso Steve parla a braccio, anche se si è preparato un discorso; ma allo stesso tempo, il suo perfezionismo è assoluto: l'esatta posizione sul palco del prodotto da presentare, il modo in cui verrà illuminato, il momento preciso in cui verrà svelato. Assistere a una di queste presentazioni era come vedere sul palcoscenico un attore consumato; no, anzi, era meglio di un grande attore, perché gli attori pronunciano parole scritte da altri, mentre Steve improvvisava a partire da un canovaccio. Sapeva ipnotizzare platee sterminate per un‟ora o anche due. Quando ha un nuovo prodotto da presentare, diventa iperattivo. Ripone nel prodotto - qualunque esso sia - una fiducia incrollabile. Ed è stranamente imperturbabile: il
giorno in cui presentò la prima stampante laser di Apple, la LaserWriter, dopo un lungo preambolo premette il pulsante della tastiera per dare il comando di stampa... e non successe nulla. Steve continuò a parlare come se niente fosse, mentre un‟équipe di tecnici in camice bianco accorreva sul palco, trovava un cavo staccato, lo inseriva nella presa e si dileguava. Senza fare una piega, Steve tornò al computer, premette di nuovo Il tasto e le pagine iniziarono a uscire dalla stampante. Più di recente, mentre Steve stava presentando l‟iPhone 4, si è verificato un problema di ricezione. Senza battere ciglio, Steve ha chiesto a tutti i presenti di spegnere i loro iPhone: ed ecco risolto il problema delle interferenze. Dopo la presentazione del Mac, le vendite partirono col piede giusto. Steve aveva annunciato che si sarebbe detto soddisfatto se nei primi cento giorni fossero state vendute cinquantamila unità. In realtà furono più di settantamila e le vendite continuarono a crescere: oltre sessantamila nel solo mese di giugno. Ma a quel picco seguì un rapido declino delle vendite, che si fece progressivamente più preoccupante. La scarsa espandibilità, la limitata capacità di memoria (128 KB, contro 1 MB del Lisa), il ridotto numero di applicazioni disponibili, in un periodo in cui le case produttrici di software indipendenti sfornavano dozzine di applicazioni utili per il PC IBM: tutti questi fattori furono determinanti. Un calo generalizzato delle vendite di PC (nel frattempo erano usciti anche i primi cloni IBM) non fece che peggiorare le cose. Il pubblico dei consumatori aveva deciso di prendersi una pausa di riflessione, per “digerire” tutto quel nuovo che era avanzato in quei pochi anni di rivoluzione informatica. Steve cercò di capire quale fosse il problema di fondo, indagando nella rete vendita e nella distribuzione. La risposta non fu difficile da trovare: il Mac non aveva slot di espansione per le periferiche esterne, quindi i negozianti non potevano vendere periferiche allegate al Mac. L‟utilizzo del computer era molto intuitivo, quindi i negozianti non
potevano far soldi offrendo corsi di formazione per insegnare a usarlo. I margini di guadagno sui computer erano scarsi e quindi i negozi facevano gran parte dei profitti vendendo, per l‟appunto, periferiche e corsi. punti vendita usavano il Mac come un‟esca per attirare i clienti in negozio. Tutti volevano vedere quel computer rivoluzionario, ma dopo avergli mostrato il Mac, il commesso spiegava al cliente tutti i motivi per cui avrebbe fatto meglio a comprare un PC IBM o un clone: e il prezzo era un fattore cruciale che spingeva il cliente molto spesso a voltare le spalle al Mac. Un altro indizio che il sistema di vendita era sbagliato: organizzammo un programma di incentivi per i negozianti, per cui chi vendeva un certo numero di Mac ne otteneva uno in regalo. Mi imbarazza ammetterlo, ma fu una mia idea; e purtroppo il risultato non fu un aumento delle vendite ma un turnover del trenta per cento nello staff dei negozi, perché i commessi si facevano assumere per ottenere il Mac in omaggio, e subito dopo se ne andavano. Nel frattempo, i dissidi tra Steve e John stavano scavando baratri di incomprensione.
Quando il disaccordo diventa guerra aperta Dopo il lancio del Macintosh, Apple organizzò una convention generale della forza vendita in un hotel a Waikiki Beach, alle Hawaii. L‟evento rappresentò un successo straordinario, ma tutti notarono che John e Steve non si erano quasi mai rivolti la parola. Steve stava già intuendo qualcosa che gli sarebbe tornato utile negli anni successivi: il PC IBM era classificato come un personal computer, ma la verità era un‟altra. In realtà era pensato per i clienti "corporate", perché lo mettessero sulle scrivanie dei dipendenti. E lo stesso valeva per il Lisa: già il prezzo di diecimila dollari chiariva che non era un computer rivolto all‟utente “home”.
Il\Macintosh era diverso: era l‟unico computer, in quel mercato affollato, a essere davvero progettato per un‟utenza consumer. Ma Apple aveva appena assoldato una nuova forza vendita interna di 2.500 persone per piazzare i Macintosh in ambito aziendale. Steve era frustrato, perché non riusciva a convincere John che in questo modo Apple avrebbe imboccato una direzione sbagliata. A cena, quella prima sera alle Hawaii, i due ebbero una scontro aperto: fu chiaro a tutti che non erano più gli amici fraterni che erano stati nei primi mesi dopo l‟arrivo di John.
Le nuove idee possono appianare le tensioni, o crearne di nuove Steve voleva rivolgersi direttamente all‟utente finale: fu per questo che si entusiasmò tanto quando un certo visitatore andò a trovarlo poco dopo la riunione alle Hawaii. Sempre desideroso di affinare le sue capacità manageriali, Steve mi aveva chiesto se avevo in mente un‟idea per sfruttare le competenze di imprenditori più esperti; e mi venne l‟idea di organizzare quello che battezzai Management Leadership Program.. Invitavo a Cupertino gli amministratori delegati di varie aziende: alla sera venivano a cena con me e Steve, e il giorno dopo tenevano una specie di seminario a tutti i nostri dirigenti. Vari manager famosi accettarono l‟invito, come Lee Iacocca della Chrysler e Fred Smith della Federal Express; e Steve ascoltò con assoluto interesse le loro idee e testimonianze. Quando telefonai a Lee Iacocca, lui mi disse: "Sarei felice di venire a Cupertino, ma prima dimmi: quanti furgoni Dodge prende in leasing la Apple?” Dissi che non lo sapevo ma che mi sarei informato. Un paio di giorni dopo lo richiamai e dovetti confessare: neppure uno. Lee ribatté: "Va bene, voi prendetene quattro e io verrò al vostro seminario.” Era la prima volta in vita mia che vedevo l‟amministratore delegato di un‟azienda così prestigiosa comportarsi come un piazzista per i prodotti della sua società. Ma firmai i quattro contratti di leasing, e lui venne a tenerci lezione. La visita di Lee a Steve fu un incontro tra due imprenditori che hanno fatto la storia. Avevano molto in comune: l‟entusiasmo contagioso, l‟attenzione al prodotto, il carisma. Durante una delle conversazioni tra Steve e Lee, venne fuori la questione dell‟organigramma. Con Steve che gestiva il gruppo Mac come se fosse il suo dominio feudale, Apple era in sostanza un‟azienda spaccata in due. Il consiglio di
Lee fu che l‟azienda doveva orientarsi risolutamente al prodotto. “Da noi alla Chrysler”, spiegò, “ruota tutto intorno al prodotto. Tu guardi me e vedi un van Dodge.” Lee riteneva che le case automobilistiche giapponesi fossero le più orientate al prodotto; le aziende americane invece erano troppo stratificate, si lasciavano sbilanciare da una struttura dirigenziale troppo articolata. “Le aziende devono avere una mentalità da startup per essere innovative e avere successo.” Questo consiglio ci parve sensato; anche perché Steve ammirava molto Sony, che era una delle aziende più product-centric al mondo, pur avendo letteralmente centinaia di prodotti in listino. Lee convenne con noi che i prodotti Sony mostravano la stessa attenzione al dettaglio e alla qualità che caratterizzava i prodotti di Steve. Quel giorno capii ancor meglio un altro dei principi guida di Steve: che l‟organigramma di un‟azienda va periodicamente rivisto, per accertarsi che i “company need” siano sempre in linea con i “product need”, dal progetto fino alla vendita. Apple non si stava ancora muovendo in questa direzione. Al termine della riunione pensai che una collaborazione fra Steve e Lee avrebbe dato vita a una sinergia perfetta, forse ancor più di quella fra Steve e John Sculley. Poiché condividevano gli stessi valori aziendali- il che non si poteva certo dire di Steve e John - lo scambio di idee fra loro sarebbe stato estremamente proficuo. Non importava se il background di Lee affondava le sue radici in tutt‟altro settore: l‟importante era che entrambi sapevano per istinto come gestire un azienda e come soddisfare il cliente. E si ammiravano e rispettavano a vicenda. Quindi so che la risposta alla mia domanda è: “Sì, Steve e Lee condividevano un sistema di valori e avrebbero formato un grande team.” Forse avrebbero funzionato anche in veste di co-amministratori delegati. Fu Fred Smith, però, ad avere l‟impatto più profondo su Steve, quando gli offrì di tagliare il nodo gordiano che
teneva il Mac prigioniero del tradizionale sistema di vendita e distribuzione. Alla fine del 1984, durante una cena con me e Steve, la sera prima del suo seminario per i dirigenti, Smith disse a Steve che IBM stava valutando un approccio rivoluzionario alla vendita dei PC, un approccio che anche Apple poteva adottare: un sistema direct-to-consumer, per spedire i prodotti direttamente a casa dell‟utente finale, con il corriere Federal Express. A Steve si illuminarono gli occhi. Subito si immaginò una pista di atterraggio per gli aerei FedEx costruita a fianco dello stabilimento di assemblaggio Mac a Fremont, e vide i Mac che uscivano dalla catena di montaggio e decollavano subito, diretti allo hub di smistamento della FedEx, per poi arrivare direttamente - nel giro di ventiquattrore! - a casa dei clienti. Niente più milioni di dollari in spese di distribuzione, niente più reseller che cercavano di vendere i PC ai clienti che andavano a vedere il Mac. Pieno di entusiasmo, Steve ne parlò con John. Ma John, convinto che il sistema distributore-punto vendita fosse la legge naturale dell‟universo, trovò strana l‟idea. Non gli piacque. Non capiva come potesse funzionare. La bocciò. All‟epoca non colsi un punto su cui invece penso che avessero le idee chiare Lee Iacocca, Fred Smith e persino Ross Perot (sul quale torneremo): il vero problema era chi dovesse essere l'amministratore delegato di Apple. Conoscete già la mia risposta: Steve. Molte persone di grande successo hanno un mentore, soprattutto all'inizio della carriera. Uno dei motivi per cui avevo ideato il Managment Leadership Program era la speranza che Steve trovasse un leader aziendale di grande esperienza e ne facesse il suo mentore. Ma non accadde mai. Spesso, tuttavia, Steve parlava con ammirazione di un certo imprenditore (oltre a Gutenberg ed Henry Ford): Edwin Land, l‟inventore della macchina fotografica Polaroid che in un minuto stampava una copia cartacea a colori di una foto appena scattata. Come Steve, Land aveva abbandonato Harvard dopo un solo anno. E come Steve, era un grande innovatore. A differenza degli altri eroi di Steve, però, Land
era vivo e vegeto. Una volta, quando Steve menzionò Land, gli suggerii di incontrarlo. E lui lo incontrò. Al suo ritorno era pieno di entusiasmo e descrisse Land come un vero eroe americano. Riteneva che Land non avesse mai ottenuto il riconoscimento che meritava, perché i consumatori compravano i suoi apparecchi fotografici ma non badavano allo scienziato geniale che ci stava dietro, alle scoperte che erano state il frutto delle lunghe ricerche di Land. (Nella prima fase del suo lavoro Land si introduceva di nascosto nei laboratori della Columbia University, perché non poteva permettersi un laboratorio suo.) Mi sembrava chiaro che Steve si rammaricava per il destino di quell‟uomo brillante. E soprattutto, la storia di Land era stata istruttiva per Steve: adesso era fermamente deciso a non lasciare che la stessa cosa accadesse a lui o al Mac. Circa un mese dopo, ispirato dall‟entusiasmo di Steve, andai personalmente a parlare con Land, in un ristorante vicino ai Commons a Boston. Lo trovai molto simile a Steve: pochi studi alle spalle ma un uomo brillante e un interlocutore vivace su qualsiasi argomento. Una persona di valore. Era chiaro che lui pensava lo stesso di Steve: era impressionato dall‟impegno che Steve aveva profuso per lanciare e far crescere Apple, e dalle idee innovative che aveva per il Mac.
Prendere posizione durante una tempesta Ma l‟ispirazione fornita da Edwin Land non fu d‟aiuto per trovare soluzioni ai problemi che iniziavano a crearsi ai vertici di Apple. Steve non si curava della questione dell‟organigramma, purché John continuasse a sostenere lo sviluppo del Mac. Ma io sapevo che fin dall‟inizio aveva ragione lui: Apple doveva passare da una struttura organizzativa funzionale a una che fosse “product-driven”. L‟azienda doveva essere interamente orientata al prodotto.
Parlai molte volte con John delle idee di Steve, cercando di fargli capire che quella divisione nelle attività e nell‟orientamento dell‟azienda era sbagliata. Lui mi ascoltò, ma non riuscii mai a persuaderlo. Tra la fine dell‟anno di George Orwell e l‟inizio del 1985, Steve era di ottimo umore, soprattutto perché era riuscito a far scrivere a sviluppatori esterni parecchie nuove applicazioni per il Mac. Le applicazioni erano utili e innovative, ma erano troppo poche e arrivavano troppo tardi: non bastarono a risollevare le vendite stagnanti. Andy Hertzfeld racconta che Steve “sembrava non accorgersi del calo di vendite e continuava a comportarsi come se il Macintosh fosse un successo clamoroso. I suoi luogotenenti nella divisione Macintosh dovevano vedersela con un suo crescente distacco dalla realtà: ovvero riconciliare gli audaci progetti per il dominio del mondo, elaborati giorno dopo giorno dal loro leader, con le cattive notizie che arrivavano ogni giorno dai canali di vendita.” 14 Erano ancora sicuri quanto Steve che il Mac fosse il futuro dei personal computer: ma a differenza di Steve capivano che la prima versione del Mac immessa sul mercato aveva bisogno di qualche aggiustamento, prima che la curva delle vendile si potesse orientare nuovamente verso l‟alto. Steve cercava di scoprire come rimettere in sesto l'azienda e spingeva i dipendenti a riscoprire la loro passione. Quando lui non ci riusciva, doveva provarci il vicepresidente delle risorse umane: cioè io. A marzo organizzai un grande incontro all' hotel Parajo Dunes per affrontare le tensioni crescenti tra il gruppo Mac e il gruppo Apple II, che si stavano sommando alle divergenze tra Steve e John. Da allora l'ho sempre chiamato il meeting dello "spazio sugli scaffali". All‟inizio della riunione scoprii che John aveva modificato l‟ordine del giorno preparato da me. Voleva usare quella riunione per spiegarci come risolvere la crisi di vendita del Mac. John passò quattro ore a cercare di Andy Hertzfeld, "The End of an Era,” Folklore.org, maggio 1985 .
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convincere tutti che l‟unica strada per migliorare le vendite era lo stesso approccio che aveva usato per creare il successo della Pepsi: conquistare spazio sugli scaffali. Naturalmente questo non accadde mai; e fallì il mio tentativo di mettere in luce i problemi di fondo dell‟azienda e di dar vita a una nuova Apple. La tempesta che si andava addensando scoppiò infine verso la fine di maggio, quando John Sculley disse a Steve che il gruppo Macintosh non era più suo: Steve sarebbe stato “promosso‟‟ a una posizione teoricamente più prestigiosa; a quanto ricordo, il titolo avrebbe dovuto essere “chief technology officer”, o qualcosa del genere. Di fatto, il Cda era ansioso di trovare un ruolo appropriato per Steve, per tenere dentro l‟azienda il suo grande talento visionario, ma lo ritenevano troppo capriccioso, troppo inesperto per dirigere un gruppo di prodotto. Anche John voleva che Steve restasse; ma lo voleva fuori dalla divisione Mac. È tempo di dire le cose come stanno: spesso si è sostenuto che John (o il Cda) licenziò Steve, o gli disse che doveva andarsene. Non è così che andò. Quel giorno Steve uscì dalla sede di Apple, salì sulla sua Mercedes e se ne andò, profondamente ferito. Sì, sapeva di essere un uomo difficile, ma guardiamo i risultati. Il Macintosh era la sua creazione, le vendite non erano buone ma sarebbero migliorate e il resto dell‟industria informatica avrebbe fatto a pugni per offrire agli utenti un mouse come il nostro, le icone, i menu a discesa e tutto il resto. Eppure il gruppo Mac gli era stato strappato di mano. John rimase così scosso che quel giorno se ne andò anche lui. La differenza è che il mattino dopo John era di nuovo alla sua scrivania, di buon ora, come al solito. Malgrado alcuni tentativi da parte di John per riconquistarlo, Steve sarebbe rimasto fuori da Apple per i successivi dieci anni. Con Steve fuori dai giochi, John ristrutturò l'azienda, accentuando la struttura organizzativa funzionale. Il team Macintosh non era più un'unità autonoma e indipendente ma divenne parte di un nuovo gruppo di
sviluppo prodotti sotto la direzione di Del Yocam, un vicepresidente che, per quanto ne so, aveva scarsa esperienza nello sviluppo prodotti. Sarebbe facile vedere questo episodio come una battaglia per il potere fra due dirigenti. Ma era molto di più: era un esempio di ciò che accade quando un‟azienda non ha adottato una coerente strategia di produzione ed è organizzata in un‟unica struttura funzionale, anziché articolarsi in divisioni separate, legate al prodotto. I principi di iLeadership presentati in questo libro non sono il risultato di un processo di apprendimento durato anni. Appena arrivato in Apple, dopo aver lavorato in IBM e in Intel, appresi subito le basi dell‟approccio caldeggiato da Steve: un'azienda orientata al prodotto, prodotti pensati per le persone che li usano e un marketing rivolto all‟utente finale, non alle vendite corporate. Il sogno di Steve - fare di Apple un‟azienda productdriven - era svanito. Nel decennio successivo l‟azienda avrebbe sofferto molto, per varie ragioni, ma soprattutto perché non era orientata al prodotto. Il pensiero di Steve era all‟avanguardia rispetto alla maggior parte dei manager dell‟epoca; ma pur sapendo cosa voleva, non sapeva ancora come esprimerlo e non aveva l‟autorità per imporre le sue idee all‟amministratore delegato che lui stesso aveva scelto, John Sculley. Apple non si sarebbe più organizzata in strutture legate al prodotto fino al ritorno di Steve. Assistendo a queste dinamiche mi resi conto che, per un imprenditore, è importantissimo imparare a essere persuasivo e parlare con chiarezza. L‟unico modo per orientare il focus di un‟azienda al prodotto è tradurre in realtà quella filosofia nello stesso organigramma aziendale. In quanto a Steve, quale sarebbe stato il suo futuro?
Conservare l'energia
Quasi ogni imprenditore, ogni dirigente e ogni azienda attraversano prima o poi un periodo di crisi. A prescindere dalle dimensioni - il singolo imprenditore che fonda una ditta, o le più grandi multinazionali e i loro leader - arriverà inesorabile il momento in cui i problemi sembreranno travolgerci e ci appariranno quasi insormontabili. Per Steve, ogni opportunità comincia con un‟esigenza insoddisfatta. Se riesci a rispondere a quell‟esigenza, il tuo prodotto diventa irrinunciabile, qualcosa da realizzare a tutti i costi. Steve aveva visto nel lavoro di Woz un‟opportunità di quel genere: se ben progettati e ridotti nelle dimensioni e nel prezzo, i personal computer sarebbero diventati irrinunciabili per molte persone, non solo quelle che rispondevano al profilo dei geek, degli appassionati di elettronica e dei membri dell‟Homebrew Computer Club, ma persone come lui. Steve ha sempre saputo che, se vuoi davvero qualcosa, riuscirai più facilmente a convincere gli altri. L'imprenditore orientato al prodotto è quello che si localizza su un prodotto dopo l‟altro. “Tutti gli imprenditori fanno così", dirà qualcuno. Ma mentre la persona orientata al prodotto pensa sempre al prossimo prodotto da immettere sul mercato, gli altri ragionano in termini di opportunità personali, anche se questo significa passare da un‟azienda all‟altra. John Sculley veniva da un‟azienda in cui “il prossimo prodotto” significava continuare a vendere sempre la stessa
cosa. Quando è arrivato in Apple, ha continuato a ragionare nei termini della prossima opportunità, non del prossimo prodotto. Mark Hurd, ex amministratore delegato di HP, cambiò tre aziende in otto anni senza mai sviluppare un prodotto. Questi dirigenti non sono eccezioni: se ci pensate, vi renderete conto che nelle aziende tradizionali funziona spesso così.
Rifare un'azienda... nel modo sbagliato Nell‟autunno del 1985, Steve Jobs, “l‟uomo del prodotto” per eccellenza, quello che non voleva saltare da un‟azienda all‟altra, era in crisi. Valeva duecento milioni di dollari, ma sapeva di non fare più parte dell‟azienda che aveva contribuito a fondare. Il progetto Macintosh, in cui aveva creduto profondamente, quello che avrebbe cambiato il mondo dell‟informatica, gli era stato strappato di mano da un giorno all‟altro. Fui devastato quando lo vidi andarsene da Apple: temevo che gli ingegneri migliori l‟avrebbero seguito, con conseguenze drammatiche per lo sviluppo dei prodotti Apple. Anche a John dispiaceva vederlo andar via; lo confessò a tutti i dirigenti e, anni dopo, lo riconobbe apertamente. Allo stesso tempo, sapevo di dover difendere ciò in cui credevo, quindi decisi di spiegare al Cda che stava facendo un errore clamoroso. Iniziai con Mike Markkula e passai quasi un‟ora al telefono con lui per spiegargli la mia posizione: il gruppo Mac doveva diventare un‟azienda separata, sotto la guida di Steve. Lui ribatté che Steve era “troppo immaturo”. Incontrai Arthur Rock nel suo ufficio buio a San Francisco. Mi ringraziò della visita, ascoltò quel che avevo da dirgli, non aprì quasi bocca ma disse che avrebbe riflettuto sui miei suggerimenti nel momento di decidere il da farsi con il consiglio di amministrazione. Poi andai a Los
Angeles per parlare con il consigliere Henry Singleton: la sua reazione fu analoga a quella degli altri due. Un paio di giorni dopo, Steve mi invitò a pranzo nella sua casa di Woodside, millequattrocento metri quadri che, a quanto vidi, non erano quasi arredati: Steve viveva in poche stanze. La sua cuoca/colf ci servì il pranzo: un‟insalata con salsa hummus, come si conveniva all‟osservanza buddista di Steve. Quell‟invito era il suo modo per ringraziarmi. Si disse convinto che i miei colloqui avrebbero aiutato il Cda a prendere la giusta decisione. John Sculley convocò una riunione per convincere tutti i vice- presidenti Apple a giurargli fedeltà come amministratore delegato. Io mi rifiutai e, invece, giurai fedeltà alla Apple, ai suoi dipendenti e agli azionisti. Qualche giorno dopo John mi convocò nel suo ufficio e mi disse: "Spiegami perché non dovrei licenziarti. Sei andato a dire a vari consiglieri che stavo facendo un grave errore con Steve.” Risposi che trovavo ridicolo il dissidio fra lui e Steve, e che Apple era composta da due aziende, Apple II e Mac, ma il futuro di Apple era il Mac, e il Mac era un parto della mente di Steve. John doveva trovare il modo di gestire l‟Apple II per il resto del suo ciclo di vita, e lasciare che Steve preparasse il Mac per la conquista del mercato. John non mi licenziò, e anzi chiese il mio aiuto per tenere unita l‟azienda. Gli dissi: "Se un messia se n‟è andato, puoi richiamare l‟altro. Chiama Steve Wozniak. Coinvolgilo di nuovo.” John lo fece e, per un periodo, i dipendenti Apple nutrirono qualche speranza sul futuro dell‟azienda.
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Quanto all‟opera di convincimento sul consiglio di amministrazione, la mia battaglia era stata difficile. Steve non si era mai piegato alle dinamiche della diplomazia aziendale: non era proprio nelle sue corde. Il consiglio non dovette riflettere troppo prima di scegliere John: l'amministratore delegato di grande esperienza, il dirigente che godeva della fiducia di Wall Street. Certo, Steve era il co-fondatore, ma non era ben educato e deferente, e non c‟erano garanzie che il Macintosh sarebbe diventato tutto ciò che Steve prometteva. Le vendite erano molto al di sotto delle proiezioni e, in ogni caso, Sculley e il consiglio non avevano intenzione di dismetterne lo sviluppo. Se il Mac era promettente, qualche altro manager Apple poteva occuparsene e tenerlo in vita. Insomma, non riuscii a far cambiare idea a nessuno dei consiglieri, o almeno non abbastanza per fare la differenza. Steve aveva fatto crescere Apple, partendo da zero e trasformandola in un‟azienda da due miliardi di dollari che si era piazzata trecentocinquantesima nella "Fortune 500”. E mentre lui era via, l‟azienda crebbe di altre cinque volte, grazie al Mac. Ma Steve ritiene ancora oggi che quel periodo abbia fatto molto male ad Apple, soprattutto a chi credeva davvero in un‟azienda orientata al prodotto. Il problema, come spiegava Steve in un‟intervista per un progetto di storia della Smithsonian Institution, non era nel fatto che Apple fosse cresciuta troppo in fretta, ma che avesse adottato valori diversi: fare soldi era diventato più importante del prodotto. La nuova dirigenza applicava strategie di business convenzionali a un‟azienda che era tutt‟altro che convenzionale, ma che anzi si fondava sull‟unicità e sull‟innovazione. È vero che Apple ottenne profitti incredibili per circa quattro anni, ma il nuovo orientamento finì per danneggiare l‟azienda. Steve pensava che Apple avrebbe dovuto puntare a profitti ragionevoli concentrandosi intanto su un prodotto eccezionale per ampliare la sua fetta di mercato, e che quella strategia avrebbe assicurato al Mac almeno un terzo del mercato dei personal computer. Invece, i PC Windows compatibili presero decisamente il sopravvento.
Riprendersi dal disastro Steve vendette tutte le sue azioni Apple tranne una e il suo patrimonio netto del valore di duecento milioni si tradusse in duecento milioni dollari in banca. Mi disse di non avere progetti particolari, ma che pentiva di viaggiare per il mondo, di vagabondare da un posto all‟altro. Poi saltò su un aereo per l‟Italia. Nelle settimane successive Susan Barnes Mack, dipendente Apple e amica personale di Steve, gli telefonò spesso, pregandolo di tornare, dicendogli che i suoi collaboratori erano infelici senza di lui. Steve era incapace di vivere nell‟ozio. Un giorno, dopo un paio di mesi, telefonò per dire che era tornato. Mi ringraziò ancora per come l‟avevo difeso con il consiglio di amministrazione. Io non l‟avevo fatto per lui, ma perché ero intimamente convinto che la sua presenza fosse necessaria per garantire un futuro ad Apple. Lui aveva un piano, e faceva sul serio. “Proviamo un‟altra volta a far cambiare idea al Cda. Farò stampare delle magliette con su scritto: We want our Jobs back."15 Accidenti, pensai. Gran bella battuta. Dopodiché Steve soggiunse: “Invita a pranzo tutti i dipendenti e distribuisci le magliette.” Ooops. “No, Steve, io sono un dirigente Apple, non posso farlo.” Lui ribatté qualcosa del tipo: "Be‟, in ogni caso è una buona idea.” Lo era.
Gioco di parole tra "Rivogliamo il nostro Jobs" e “Rivogliamo i nostri posti di lavoro”. [N.d.T.] 15
Restare in gioco Per un certo periodo sembrò davvero che Steve avesse gettato la spugna. Mi sorpresi: quello non era lo Steve che conoscevo. Ma non si era arreso. Il modo in cui scelse di agire fu l'esempio perfetto di cosa occorre fare in tempo di crisi: continua a marciare finché non trovi la nuova strada. Avrebbe mostrato il fegato e l‟intraprendenza che caratterizzano un imprenditore ispirato dal suo prodotto. Durante i suoi viaggi, Steve aveva riflettuto su una conversazione avuta con Paul Berg, premio Nobel e docente di Stanford, quando i due si erano trovati vicini di posto a una cena in onore del presidente francese Francois Mitterrand a Stanford. Il professore aveva descritto la sua idea di un personal computer così potente da consentire agli studenti di condurre esperimenti virtuali troppo complessi per svolgerli in un laboratorio universitario. Nessun personal computer sul mercato poteva anche solo avvicinarsi a una potenza simile. In Apple, Steve aveva posto le basi per nuove versioni del Macintosh, più potenti: con il progresso continuo nella velocità dei chip e nella capienza dei dischi fissi, forse il computer sognato dal professore poteva diventare realtà. Rientrato in America, Steve andò a trovare Paul Berg e gli disse: “Ne ho parlato con i colleghi e posso confermarti che nelle università c‟è un ampio mercato per il genere di macchina che mi hai descritto.” Il professor Berg diede a Steve l'incoraggiamento che gli serviva. La successiva riunione trimestrale del Cda Apple si svolse di lì a poco, giovedì 14 settembre. Le circostanze erano alquanto insolite: ricordate quando Steve aveva chiesto all‟amministratore delegato ad interim Mike Markkula di nominarlo vicepresidente dello sviluppo prodotti, e Mike, non volendo lasciare a Steve il potere decisionale sul
prodotto che quella posizione gli avrebbe conferito, l‟aveva invece nominato presidente del consiglio di amministrazione? Be‟, nessuno era riuscito a modificare quello stato di cose. Quando il Cda si sedette al tavolo per la riunione di settembre, indovinate chi era seduto a capotavola? Esatto: Steven P. Jobs. Partecipavo a quasi tutte le riunioni, e quella non me la sarei persa per niente al mondo. L‟atmosfera era solenne: non c‟era traccia dei soliti sorrisi e chiacchiere tra amici. Negli ultimi tre mesi l‟azienda aveva licenziato un numero incredibile di dipendenti, e aveva gravi problemi finanziari e di vendite. Nessuno sapeva cosa aspettarsi. A me sembrava che tutti i consiglieri fossero nervosi. O forse c‟era qualcos'altro: i consiglieri avevano sentito una voce di corridoio secondo cui Steve intendeva comprare l‟azienda. Se così fosse stato, avrebbe preso decisioni che avrebbero segnato la fine di Apple Computers? I membri del board dovevano preservare l‟integrità dell‟azienda e, naturalmente, ciascuno di loro possedeva un numero sufficiente di azioni per avere motivo di preoccuparsi per le proprie finanze personali, nel caso l‟azienda non fosse sopravvissuta. dirigenti presentarono i soliti rendiconti delle vendite, delle scorte di magazzino e così via. Il quadro era fosco: le vendite erano ancora deludenti, Apple era chiaramente nei guai, non si profilavano soluzioni a breve termine, e il morale dei dipendenti non era mai stato così basso: è molto doloroso vedere buoni amici uscire dalla porta dell‟azienda con tutta la loro roba in uno scatolone. Ed è drammatico doversi chiedere ogni giorno: “Sarò io il prossimo?” Dopo la presentazione dei rendiconti, arrivò il turno di Steve. Quel che disse li colse tutti di sorpresa. Non ricordo esattamente le sue parole, ma il senso era: “Voglio fondare una mia azienda. Non intendo competere con Apple, il mio prodotto sarà un computer per le università. Voglio portare con me alcuni dipendenti di livello operativo.”
Fin qui erano tutte cose che sapevo già, ma la parte successiva mi colse impreparato, e colse alla sprovvista tutti i presenti: “E vorrei che Apple investisse nella mia azienda.” Sentivo quasi un sospiro di sollievo provenire da tutte le direzioni. Niente accuse, niente rabbia, nessuna emozione. Dopo qualche minuto di discussione, il Cda approvò l‟idea che John e Steve si confrontassero per trovare un accordo. Era già buio quando uscimmo dall‟edificio: la riunione era durata tre ore, fin verso le dieci di sera. Steve incontrò John il giorno dopo, di mattina presto, con una lista di nomi: le persone che avevano accettato di seguirlo nella nuova startup. Nella lista c‟erano alcune persone del settore amministrativo, oltre a Rich Page e Daniel Lewin. John mi telefonò per mettermi al corrente e commentò: “Mi sembra un accordo soddisfacente per tutti.” Cercai di spiegargli che quelli non erano “dipendenti di livello operativo”. Rich stava lavorando su una nuova versione del Mac, che sperava di equipaggiare con uno schermo da un milione per un milione di pixel, molta capacità di memoria e un disco fisso molto capiente. E Dan'1 era una figura chiave del nostro mercato education, responsabile del programma “Kids Can‟t Wait” che donava macchine Apple II alle scuole. Inoltre gestiva l‟Apple University Consortium, il programma che offriva forti sconti a professori e studenti universitari. Dissi a John: “Steve aveva detto di non voler competere con noi, ma ora si sta portando via figure chiave dell‟azienda.” Oltre a rappresentare un problema reale, questa emorragia di risorse umane avrebbe inviato un messaggio molto negativo ai dipendenti che restavano. Alla fine si trovò un accordo: Steve poteva fondare la nuova azienda ma non poteva sottrarre altri dipendenti ad Apple. Steve fondò NeXT Computer Inc. e si mise al lavoro per creare quella che di fatto era la nuova generazione di Macintosh che avrebbe voluto costruire in Apple. Avrebbe mostrato di saper fare quel che prometteva: costruire un
grande prodotto anche fuori dall‟ombrello protettivo di Apple. Quando Steve fondò NeXT, e quando mi fui ripreso almeno in parte dallo shock di vederlo andar via, pensai: "Quale altro nome, se non NeXT - „il prossimo‟ - potrebbe esprimere così bene la filosofia di business di Steve?” Sì, è un uomo perennemente irrequieto, ma è perché sa che nel mondo del business non c‟è mai un momento di calma, soprattutto nel settore delle tecnologie. Negli ultimi anni, la carriera di Steve era davvero decollata; ma, come abbiamo visto, lungo la sua strada non sono mancate battute d‟arresto anche pesanti. Quel che conta, però, è che fin dall‟inizio il viaggio di Steve sia stato una successione di next big things: ogni nuovo prodotto era il migliore che si fosse mai visto. D‟altronde, in tutta onestà, all‟epoca non ero certo che Steve potesse farcela. Nessuno ne era certo, neppure lui. Anzi, mi disse di essere spaventato da morire.
I prodotti devono riflettere i valori di chi li crea Da quel momento accaddero varie cose, e tutte imprevedibili: Steve non rimise piede in Apple per i dieci anni successivi; la piattaforma informatica NeXT pose le basi per il nuovo sistema operativo Macintosh; costruire una workstation da centinaia di migliaia di dollari, ben oltre le possibilità di quasi tutti gli utenti singoli, aiutò Steve a riconoscere la sua vera vocazione: progettare per l‟utente finale e non per le aziende. Ancora più importante di tutto questo, però, era la cultura aziendale che Steve alimentava in NeXT. Adottando misure che poi avrebbe replicato in Apple, Steve appiattì le gerarchie, assegnò benefit generosi, riqualificò i collaboratori chiamandoli "membri" anziché “dipendenti”, e supervisionò la creazione di un ambiente di lavoro open space che incarnava fisicamente quello che per lui era un nuovo modo di lavorare. Il suo team di tecnici, product
manager e responsabili marketing in NeXT nasceva direttamente da quella cultura anticonformista. Molti di loro sarebbero poi entrati in Apple con un ruolo di primo piano. Ho sempre considerato quel periodo come “l‟esilio di Steve sull‟isola di NeXT", ma per lui NeXT era un‟altra Apple: teneva viva la sua visione del futuro del Macintosh. Il computer NeXT sarebbe stato la nuova generazione del Mac. Nel frattempo, in Apple, Steve era una presenza invisibile. Anche i dipendenti assunti dopo la sua partenza non potevano non percepire la sua influenza. Uno di loro, pur non avendo mai conosciuto Steve, spiegò la cosa in questi termini: „Avevo la sensazione che fosse ancora la sua azienda. Si avvertiva lo stesso orgoglio, la stessa energia, la stessa passione; e il ricordo di Steve Jobs era tenuto vivo dalle tante persone che avevano lavorato lì, sotto la sua direzione, e non facevano che parlare di lui.”16 Un obiettivo a cui tutti noi possiamo aspirare: emanare un‟aura così intensa che anche chi non ci ha conosciuti avvertirà la nostra presenza dopo che ce ne saremo andati. Accettare sfide improbabili Quando ti mettono con le spalle al muro, ci vuole fegato per continuare a lottare e per affrontare una sfida che anche gli studenti di una qualsiasi Business School definirebbero azzardata. Mentre Steve cercava di trasformare il computer NeXT nella macchina dei suoi sogni, scoprì l‟esistenza di un altro potente computer pensato per un uso professionale, il cui responsabile di progetto stava cercando di liberarsi dell‟intero pacchetto, scaricando persone, tecnologie e software già sviluppato. Era la divisione di animazione digitale della Lucasfilm, lo studio cinematografico di George Lucas a Marin County, in California. Lucas voleva liberarsi di quella divisione perché aveva bisogno di soldi per pagarsi il divorzio, e Steve andò a parlare con lui. Altri imprenditori si erano detti interessati e stavano sondando le acque. Fra questi il magnate ed ex 16
Intervista dell‟autore a una fonte riservata.
candidato alla presidenza degli Stati Uniti Ross Perot, che aveva venduto la sua azienda, EDS, a General Motors, ottenendo in cambio un posto nel consiglio di amministrazione GM. Perot strutturò una transazione per acquisire lo studio grafico di Lucas con un accordo a tre fra Philips, EDS e Lucasfilm. L‟accordo era andato in porto, semafori verdi su tutti i fronti, quando, improvvisamente, una dichiarazione in cui Perot criticava il Cda GM lo rese da un giorno all‟altro persona non grata. Gli fu revocata l‟autorità di stringere accordi per conto dell‟azienda. Lo studio grafico di Lucas tornava sul mercato, e Steve si fece avanti. Per me era perfettamente sensato: io e Steve avevamo parlato spesso del suo amore per il cinema, e combinare il suo talento per la tecnologia con la cinematografia sarebbe stata una soluzione perfetta. Oggi credo che nei prossimi anni vedremo un coinvolgimento sempre maggiore di Apple in questo settore. Quella divisione di Lucasfilm, naturalmente, era ciò che sarebbe diventato la Pixar; il nome era in spagnolo maccheronico e doveva suggerire l'idea di “fare film”. L'unità era diretta da due newyorkesi, pionieri dell‟animazione computerizzata: il dottor Ed Catmull e il dottor Alvy Ray Smith. Il loro obiettivo, il loro sogno fin dall‟inizio, da molto prima che nascesse la Pixar, era creare il primo lungometraggio di animazione realizzato interamente al computer. Un terzo elemento chiave del team era il brillante tecnico di animazione John Lasseter, proveniente da Disney e assoldato per realizzare cortometraggi che mostrassero le potenzialità della nuova tecnica di animazione al computer. (Per motivi non chiari, molti libri e articoli attribuiscono a Steve la brillante decisione di assumere Lasseter, ma il merito spetta ai due fondatori. All‟epoca dell‟accordo con Steve, Lasseter faceva già parte del team.) Qualche anno prima, più o meno quando erano iniziati i problemi di Steve in Apple, Lasseter aveva fatto scalpore al Siggraph, l‟annuale convention delle principali aziende di computer grafica. A impressionare il pubblico era stato un
cortometraggio di soli novanta secondi, scritto e diretto da Alvy e animato da Lasseter, intitolato André and Wally B. All‟epoca, i limiti dell‟animazione computerizzata erano fin troppo evidenti. Non si riusciva ancora a mostrare le emozioni sul volto dei personaggi, il che rendeva praticamente impossibile raccontare una storia. L‟animazione al computer era usata per realizzare effetti speciali, o per brevi filmati con immagini astratte e caleidoscopiche. Ma André and Wally B. raccontava una storia che suscitava emozioni nello spettatore: era all‟avanguardia assoluta nel settore dell‟animazione computerizzata. Una volta acquisita e capitalizzata l‟unità di animazione, Steve cominciò a rendersi conto che né Ed Catmull né Alvy Ray Smith erano realmente interessati ai computer: li vedevano solo come strumenti per creare animazioni in digitale. Era paradossale, perché Steve pensava di aver acquisito il controllo di una società di computer grafica, mentre i fondatori consideravano il computer essenzialmente come un mezzo per raccontare storie in modo più efficace. Steve persegui il suo obiettivo, trovare clienti a cui servisse un computer in grado di effettuare elaborazioni grafiche avanzate, e alla fine aprì uffici vendite in sette città, dimostrando per l'ennesima volta di non essere uno che fa le cose a metà. Parte del problema, per il team Pixar, era che lo stato dell'arte della tecnologia informatica non rendeva ancora conveniente realizzare al computer un intero lungometraggio; ma ogni anno quella possibilità si faceva più vicina. E ogni anno, Lasseter e la sua troupe presentavano al Siggraph un cortometraggio che mostrava gli ultimi progressi di Pixar Graphics Computer. All'edizione del 1986, a Dallas, proiettarono Luxo Jr., una pietra miliare nella storia dell'animazione. John Lasseter diresse e animò il corto, i cui protagonisti erano due lampade da scrivania incredibilmente espressive, una grande e una piccola. In omaggio al trionfo di quel cortometraggio, e a ciò che avrebbe significato per l'azienda, ancor oggi una lampada simile a Luxo appare nei titoli di testa di ogni film Pixar.
Luxo Jr. rappresentava una novità assoluta nella storia dell‟ animazione e dell'informatica: la tecnologia di animazione al computer era finalmente messa al servizio di una storia da raccontare, riuscendo a trasmettere le emozioni dei personaggi in maniera assai più realistica rispetto ai cortometraggi precedenti. Le seimila persone che assistettero alla proiezione reagirono con “applausi prolungati ed entusiasti''. 17 Il film vinse un Golden Eagle al Cine Film Festival di Washington e ricevette la nomination agli Oscar come miglior corto d'animazione: era la prima nomination per un‟animazione al computer. Non vinse, ma Ed Catmull è tuttora convinto che Luxo Jr. abbia rappresentato un vero punto di svolta per Pixar e per i film di animazione realizzati al computer.
Mantenere la centralità nei momenti difficili Il grande talento di Steve è nella sua bravura nel rifinire e perfezionare i prodotti, seguendo la filosofia del less is more. La sua abilità consiste nel semplificare prodotti complessi e ricchi di funzionalità, rendendoli usabili e più piacevoli per l‟utente finale. Inoltre è molto bravo a capire il timing perfetto per lanciare un prodotto. Infine ha dimostrato più e più volte di saper comprendere appieno le esigenze e i desideri del consumatore. Quando si è allontanato da questa rotta, si è regolarmente cacciato nei guai. Quando è rimasto fedele ai suoi punti di forza, è sempre uscito vincitore, anche nelle sfide che sembravano impossibili. E, all‟inizio del 1988, Steve era certamente nei guai. Pixar e NeXT erano in attivo, ma questo non bastava. Il fatturato al di sotto delle aspettative di entrambe le società costringeva Steve a trasferire ogni mese una certa somma di denaro dal suo conto personale, e questo lo innervosiva, perché non faceva che ridurre il suo patrimonio. Per la sola Pixar, benché il reddito delle licenze del software grafico, la Philip Elmer-De Witt, “The Love of Two DeskLamps”, Time, 1 settembre 1986.
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produzione di spot televisivi e la vendita dei computer a marchio Pixar (soprattutto a Disney e ad agenzie governative) riuscissero a coprire circa la metà delle spese, Steve doveva fare bonifici dai trecento ai quattrocentomila dollari al mese per mantenere l‟azienda in attività. 18 Quella primavera, Steve convocò Ed Catmull, Alvy Ray Smith e un paio di alti dirigenti Pixar per la consueta riunione operativa mensile. Quelli della Pixar non avevano idea delle difficoltà che li aspettavano. Steve disse chiaramente che era al limite della sopportazione, e non poteva più permettersi quegli esborsi. La Pixar andava ridimensionata. Gli altri ne furono devastati: quei tagli avrebbero fatto a pezzi Il fantastico team di animatori costruito nel tempo, a partire da metà anni settanta, era considerato il migliore del settore. Ma bisognava farlo. Chi sarebbe stato scaricato? La discussione fu deprimente e sembrò durare in eterno: quando finalmente ebbe termine, Steve si preparò per andarsene, ma Bill Adams, vicepresidente delle vendite e del marketing, gli ricordò che c‟era un altro punto importante all‟ordine del giorno. Se Pixar non avesse presentato un nuovo cortometraggio al Siggraph di quell‟anno, se non avesse dimostrato che il software Pixar aveva fatto progressi rispetto a un anno prima e che era migliore dei software di altre aziende, di sicuro avrebbero iniziato a circolare voci. La gente si sarebbe chiesta cosa c‟era sotto: “Se compriamo il software Pixar adesso, chi ci garantisce che tra un paio d‟anni l‟azienda esisterà ancora e potrà fornirci supporto tecnico e aggiornamenti?” Quasi sicuramente le vendite ne avrebbero risentito. Malgrado il fosco panorama finanziario, il nuovo cortometraggio era necessario per garantire un futuro a Pixar. Senza il corto, le cose sarebbero potute precipitare.
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Intervista dell‟autore a una fonte riservata in Pixar.
Quando Bill e gli altri finirono di parlare, Steve restò seduto lì. Non era difficile indovinare cosa gli passasse per la mente. Alla fine chiese se avevano qualcosa da mostrargli. Eccome se avevano qualcosa. John Lasseter aveva disegnato una serie di bellissimi storyboard per presentare quello che sperava potesse essere il nuovo corto Pixar, Tin Toy. Steve ne risultò abbastanza impressionato e, dopo aver riflettuto a lungo, prese la dolorosa decisione di finanziare quel cortometraggio, malgrado i problemi con i flussi di cassa. Si sarebbe dimostrata una delle decisioni più sagge della sua carriera. Ogni nuovo corto Pixar era una rivoluzione. La novità principale di Tin Toy stava nell‟animazione molto realistica del protagonista, un bimbetto. Esprimere emozioni attraverso il volto umano aveva sempre rappresentato il maggior ostacolo da superare per l‟animazione al computer, e alcuni dubitavano che fosse un obiettivo realizzabile. Tin Toy dimostrò che si sbagliavano: stavolta Pixar conquistò l‟Oscar per il miglior corto d‟animazione. Steve aveva incassato da Apple duecento milioni di dollari: sembrano un sacco di soldi. E lo sono. Però in quel momento Steve vedeva calare il suo capitale a ritmi preoccupanti. Quando nel l988 il computer NeXT fu finalmente messo sul mercato, sul lato più del libro mastro, condivideva alcune qualità del Mac delle origini: era innovativo, di bell'aspetto, ed ebbe recensioni stellari. La stampa di settore, entusiasta, fece un sacco di rumore sul “ritorno” di Steve. Eppure non era un computer per il consumatore qualunque. Steve non aveva ancora realizzato la sua vera passione. Peggio, questa non sarebbe stata l‟ultima volta che commetteva quello stesso errore. Ma se non avesse pagato di tasca sua la produzione del corto Tin Toy, quel che avvenne dopo non sarebbe mai accaduto. I dirigenti Disney si stavano lentamente convincendo che l‟animazione in CGI potesse avere un ruolo negli studios di Biancaneve e Cenerentola. Dopo alcuni colloqui preliminari,
la dirigenza Disney invitò il team Pixar nella sede centrale di Burbank. Quelli di Pixar proposero il progetto di un film animato per la televisione, finanziato da Disney, della durata di un‟ora. Ma a sorpresa, i dirigenti Disney fecero una controproposta: un intero lungometraggio animato - per il cinema, non per la tv - prodotto da Pixar. Dopo una serie di riunioni agli studios, il sogno di Ed Catmull e Alvy Ray Smith divenne realtà: Pixar avrebbe prodotto il primo lungometraggio al mondo animato al computer, e Disney l‟avrebbe distribuito. Che si debba essere sempre pronti a cogliere al volo le occasioni inattese è una banale verità; e se anche il team Pixar non si aspettava certo di sentirsi proporre un lungometraggio, d‟altronde quello era da anni il loro obiettivo. Il primissimo concept per il corto che Lasseter presentò a Jeff Kat- zenberg della Disney aveva il titolo provvisorio Toy Story. Ben poco della storia e dei personaggi originali sarebbe confluito nel film, ma il titolo, naturalmente, arrivò così com‟era sul grande schermo. Katzenberg - presidente dei Walt Disney Studios (sotto Michael Eisner, che era amministratore delegato dell'intera azienda) - era un tipo difficile con cui lavorare: era un tiranno, si autodefiniva tale, e quasi se ne vantava. Ma si dimostrò un buon mentore e consulente creativo per Lasseter e il suo team. Non diceva mai: "Dovete fare così", ma solo: “Così non funziona.” Se gli sembrava che la trama del film procedesse troppo a rilento, diceva a Lasseter: “Guarda che così gli spettatori si alzeranno e andranno a comprare altri popcorn.” Durante la lunga fase di produzione - compreso un periodo di alcuni mesi in cui la Disney ordinò di sospendere i lavori finché Lasseter e compagni non avessero trovato soluzioni concrete ad alcuni problemi creativi, come il fatto che il personaggio di Woody era troppo negativo e antipatico - i costi non fecero che moltiplicarsi. Alla fine il budget fu sforato di oltre sei milioni di dollari. Disney richiese a Steve di garantire il completamento del film aprendo una linea di
credito da tre milioni di dollari con il suo patrimonio personale come garanzia. Steve iniziò a pentirsi dell'accordo con Disney; cominciò persino a sospettare che sarebbe stato meglio non acquisire Pixar. Dopo aver sforato il budget, la situazione finanziaria iniziava ad apparire disastrosa: se il film non avesse incassato più di ogni altra pellicola animata Disney degli ultimi anni, Steve ci avrebbe rimesso soldi. Serviva un trionfo al botteghino, almeno 100 milioni, perché Steve ci guadagnasse qualcosa. Peggio ancora: ora Steve capiva perché quelli di Disney avevano insistito tanto per riservarsi tutti gli incassi delle iniziative collaterali: i giocattoli, i pupazzi, le bambole, le magliette, le sorprese dei fast food e via dicendo. Se anche il film di per sé non avesse incassato molto, Disney avrebbe guadagnato un bel po‟ da quelle altre fonti. Steve stava iniziando a capire i meccanismi di Hollywood, ma gli sembrava di dover apprendere attraverso lezioni troppo costose. Poi, d‟un tratto, tutto cambiò. I collaboratori di Steve, persone che per la prima volta lavoravano nelle alte sfere del cinema, avevano dimostrato di essere degne delle alte sfere. Michael Eisner aveva deciso di posporre l‟uscita di Toy Story: sarebbe stato il film Disney di quel Natale. Il tocco finale: Eisner definì il film “una pellicola spettacolare e un film adorabile”. 19 Passarono cinque anni dalla firma del contratto alla prima di Toy Story, ma tutti sentivano che era valsa la pena di aspettare e di combattere. Molti erano scettici all‟idea che un‟azienda guidata da Steve Jobs, il tecnologo, potesse produrre una vera opera d‟arte. Ma quei sospetti si basavano su un fraintendimento. Fin dall‟inizio il contratto Pixar aveva previsto che Steve si sarebbe occupato solo del lato finanziario, mentre il team originario avrebbe avuto autorità assoluta su tutte le decisioni creative. 19
Jeffrey Young e William L. Simon, iCon: Steve Jobs - The Greatest Second Act in thè History of Business, John Wìley Se Sons, Hoboken 2005.
Dopo la première, che si svolse nella settimana del Ringraziamento del 1995, il film ottenne recensioni entusiastiche e lodi sperticate da parte di critici, genitori e bambini: spettatori di tutte le età in tutto il mondo. Un film costato circa trenta milioni di dollari ne incassò 190 negli Stati Uniti e oltre 300 in totale. Pixar divenne una star nel firmamento di Hollywood. Mentre scrivo queste pagine, nel 2011, Pixar è l‟unico grande studio di Hollywood a non aver mai perso soldi in nessuna produzione. E tutto questo perché Steve Jobs, a volte temendo di sbagliare, è stato disposto a finanziare quei primi cortometraggi dimostrativi. Durante la produzione di Toy Story, il resto del team Pixar si era concentrato su due fronti: migliorare la tecnologia di animazione e proseguire lo sviluppo dei pacchetti software. Il Pixar Image Computer era un ottimo strumento per chiunque dovesse lavorare con immagini grandi o in alta risoluzione. Steve era convinto di poter vendere quel computer specialistico a un pubblico più vasto. Ma a quale pubblico? E quale era il mercato in quegli anni? Uscita nel 1986, la macchina richiedeva un investimento di quasi duecentomila dollari. Funzionava a meraviglia, ma era molto difficile da usare, soprattutto per chi non fosse già un mago della tecnologia informatica. L‟azienda cercò intese per piazzare l‟Image Computer nel settore sanitario. Ma i medici e gli altri professionisti che videro la demo decisero quasi all‟unanimità che ci voleva troppo tempo per imparare a usarlo: lo staff di ospedali e cliniche era già fin troppo indaffarato. Come si suol dire nel baseball, tre errori e sei eliminato: il computer Pixar era troppo costoso, troppo difficile da usare e aveva un mercato troppo ristretto. L‟azienda ne aveva venduti meno di trecento. Nel 1990 Steve si arrese e vendette il ramo hardware a un‟azienda di nome Vicom, per soli due milioni di dollari. La Vicom chiuse un anno dopo. Il computer NeXT fu un‟altra dimostrazione dell‟impegno di Steve per creare non solo l‟hardware ma anche il software. Aveva fatto così per il Macintosh e ora l‟aveva rifatto con il
NeXT: i suoi ingegneri avevano sviluppato l‟innovativo sistema operativo NeXTStep. Due anni dopo Steve presentò una macchina più avanzata, il NeXT Cube. Sia la prima macchina sia il Cube erano workstation costose e specializzate, dirette soprattutto al mercato accademico e agli utenti di fascia alta. Come tutti i grandi imprenditori, Steve è un abile giocoliere, che lavora quasi sempre su vari progetti in contemporanea, apparentemente non correlati fra loro. Di solito, poi, i diversi progetti si rivelano parte di una strategia complessiva e coerente, ma così non era per NeXT e Pixar. Quello di NeXT non è uno dei capitoli più felici della carriera di Steve. Il computer NeXT rappresentava un vero e proprio salto quantico, tipicamente jobsiano: fu apprezzato ed elogiato da tutti, ma le vendite non furono proprio spettacolari. La macchina aveva molta capacità di memoria e un display più grande e più nitido degli altri personal computer dell‟epoca, compreso il Mac. Gli esperti ne erano entusiasti e, non a caso, nel 1991 il pioniere di Internet Tim Berners- Lee sviluppò il primo browser e il primo server per il Web su un NeXT Cube. Un pedigree di tutto rispetto. Il NeXT era stato progettato per l‟uso nel settore accademico, ma vendette parecchio anche in altri mercati ristretti. Il responsabile del marketing educational alla NeXT, Burt Cummings, descriveva così il computer NeXT: “Eccellenza nella progettazione. C‟erano specifiche severe per ogni elemento del design: non si badava a spese. Case in magnesio per l‟unità CPU, elegante finitura nera. Disco magneto-ottico all'avanguardia. Fantastica interfaccia utente, un sistema operativo strabiliante, ma..," Il “ma” è che quel computer presentava due degli stessi difetti del Mac- originale: costava decisamente troppo - sui diecimila dollari, molto più dei primi Mac - e soprattutto, non c‟erano abbastanza sviluppatori disposti a creare applicazioni per la piattaforma NeXTStep. Anche qui, in parte per motivi finanziari: il costo dello sviluppo di programmi per il sistema originale NeXTStep era elevatissimo, a quanto ho sentito era nell‟ordine di milioni di dollari. Davvero troppo, a fronte di vendite mediocri.
Significava che una casa produttrice di software investiva un bel po‟ di soldi senza poter contare su un‟ampia fetta di mercato potenziale; le probabilità che l‟investimento rendesse erano semplicemente troppo basse. La conclusione di Burt Cummings: “Dunque, essenzialmente, il NeXT era morto sul nascere. Era progettato per il mercato universitario, ma era troppo costoso. Costruire oggetti meravigliosi è fantastico, però devi anche conoscere il tuo mercato.” Il vicepresidente di Pixar, Bill Adams offre però un altro punto di vista: “Se il NeXT fosse stato costruito in Apple, avrebbe avuto successo”, perché lì sarebbe stato sostenuto da un‟azienda già affermata che l‟avrebbe promosso con campagne pubblicitarie, contatti nel mondo corporate e una base di clienti che già si fidavano del marchio. E non era solo l‟opinione di Bill: quando ne parlò con Steve, “lui ammise che la pensava come me”. Con il tempo, Steve aveva dovuto accettare la triste verità che i suoi computer NeXT - malgrado la velocità, la straordinaria architettura software e l‟estetica impeccabile erano troppo costosi per le aziende che li volevano adottare. Fu una pillola amara da inghiottire, ma come aveva fatto con il computer Pixar, Steve chiuse la linea di produzione delle macchine NeXT e si concentrò sulla vendita di copie del sistema operativo NeXTStep. IBM si mostrò seriamente interessata a comprare la licenza del prodotto per usarlo sui propri computer: sembrava l‟accordo che avrebbe potuto salvare NeXT. Un team di tecnici IBM andò da Steve a presentargli l'offerta e gli piazzò sotto il naso un contratto di cento pagine. Mi stato riferito che Steve prese lo scartafaccio, lo gettò nel cestino e disse che non avrebbe firmato nulla che fosse più lungo di tre o quattro pagine. Prima che IBM trovasse una soluzione per l'editto delle tre-quattro pagine, la persona che in IBM aveva patrocinato il progetto lasciò il lavoro. Nessun altro, in IBM, era interessato al software di Steve. Le storie di NeXT e di Pixar sono stranamente simili. Steve si era fatto una buona fama con i suoi computer, ma aveva fallito già due volte.
Il computer per la grafica sviluppato in Pixar era un prodotto rivolto al mercato business. Quando aveva comprato Pixar, Steve non aveva ancora capito appieno che la sua vera forza erano i prodotti consumer, non l'hardware per le aziende. Paradossalmente, Pixar ha finito per diventare un'azienda che realizza prodotti consumer - film di animazione - anche se questa direzione non è stata sempre chiara. Si è trasformata da una piccola azienda di servizi grafici in digitale in un gigante dell'intrattenimento, una delle grandi storie di successo degli ultimi decenni. Forse in questo caso Steve ha trovato la next big thing grazie a un colpo di fortuna. Ma come sempre, la fortuna aiuta chi è pronto a farsi aiutare. Pixar ha trasformato l'industria dell'entertainment e, di sicuro, Steve ha compreso col passare del tempo quel che all'inizio non riusciva a vedere.
Sviluppare uno stile imprenditoriale Il fatto che Lasseter e Katzenberg siano riusciti a lavorare bene insieme ci rammenta che non esistono due imprenditori uguali: ciascuno ha il suo stile personale e stili diversi possono entrare in conflitto, così come possono completarsi vicendevolmente. I veri leader guardano sempre oltre l‟orizzonte, alla ricerca della prossima opportunità e, a volte, scoprono lungo la strada la loro vera missione, com‟è successo a Steve. Ho sempre trovato affascinante studiare i diversi stili di lavoro delle persone che danno vita a grandi aziende. Una volta andai a parlare con il fondatore delle linee aeree JetBlue per offrirgli un mio prodotto, che avrebbe permesso ili sincronizzare i computer portatili dei piloti con il database usato negli aeroporti per le informazioni sulla rotta, sulle condizioni meteo e simili. Avevo scelto JetBlue per via della loro creatività: mi sembrava che avessero ridefinito l'idea stessa di viaggio aereo. (In realtà mi avevano viziato: da quando volo con loro, non tollero più di salire su un aereo che non abbia un televisore sul sedile.)
Quando incontrai il fondatore di JetBlue, David Neeleman, capii che era un tipo molto simile a Steve Jobs. In precedenza aveva fondato Morris Air, l‟aveva venduta alle Southwest Airlines, poi aveva litigato con l‟amministratore delegato di Southwest, Herb Kelleher; Neeleman, come Steve Jobs, era stato cacciato dall‟azienda. Poi aveva fondato JetBlue, ma nel 2007 era stato estromesso dal consiglio di amministrazione. Allora, cosa fa un imprenditore quando incontra questo genere di ostacoli? Si rialza e ricomincia da capo. David aveva fondato una nuova linea aerea in Brasile, Azul (in portoghese significa "azzurro”), che aveva trasportato 2,2 milioni di passeggeri nei primi dodici mesi, stracciando il record precedente per una nuova linea aerea. Perché proprio in Sudamerica? Perché è una delle economie in crescita più rapida. Come spiega David: "L‟importante non è quel che ti succede nella vita, ma come reagisci.” Uno dei tratti fondamentali di un imprenditore è l‟energia: una caratteristica che riscontro in tutti questi leader. Non arrendersi, resistere, andare sempre avanti malgrado le avversità, restare sempre aperti alla prossima grande idea. L‟ho imparato da Steve, ed è per me un principio guida, un principio che mi ha condotto a creare più di dieci nuovi prodotti negli ultimi otto anni. Martin Luther King disse una volta: "Giudica un uomo da come reagisce al fallimento, non al successo.”
La ripresa
Nel 1995, mentre Pixar si crogiolava nel successo di Toy Story, NeXT ora ancora in punto di morte: sopravviveva solo perché ogni mese Steve versava enormi somme di denaro nelle sue casse. Ma la situazione finanziaria di Steve stava per ribaltarsi completamente, trasformandolo in uno dei più straordinari amministratori delegati della storia. Eppure, nei primi anni della carriera se la passò davvero male: è la riprova che se anche inizi col piede sbagliato, o inizi tardi, non devi mai smettere di sperare in ciò che il futuro ha in serbo per te.
Saper cogliere le occasioni Nel 1971, un amico comune portò Steve Jobs, allora sedicenne, ad ammirare le creazioni artigianali di un ragazzo del quartiere, Steve Wozniak. Woz aveva costruito il suo primo computer tre anni prima, a diciotto anni, con l‟aiuto di un amico. A quei tempi, per molte persone "computer” significava ancora una macchina grande e complessa che occupava un‟intera stanza dotata di aria condizionata, di cui si prendevano cura tizi in camice bianco. I primi kit in commercio per costruire semplici computer per uso
domestico sarebbero apparsi anni dopo. Quindi, benché la versione di Woz non facesse molto più che accendere e spegnere lampadine, era un‟impresa non da poco. Steve capì subito che Woz, che aveva cinque anni più di lui, era uno spirito affine che condivideva la sua passione per la tecnologia. I due erano simili in molte cose e diversi in altre: si completavano alla perfezione. Fin dai primi anni di scuola, Steve Jobs era sempre stato una vera peste. Poi un‟insegnante, una certa Mrs. Hill, riconosciuta la sua intelligenza, l‟aveva convinto a studiare corrompendolo con denaro, caramelle e un kit per costruire una macchina fotografica. Steve si era talmente appassionato che aveva montato la lente con le sue mani. Nell‟intervista per il progetto di storia della Smithsonian, raccontava: “Penso di aver imparato di più in quell‟anno scolastico che nel resto della vita.” Un ottimo testimonial per l‟idea che un solo insegnante può cambiare il destino di uno studente. Quell‟esperienza fu formativa per Steve in un modo che sorprenderà molte persone. Fin dalla nascita di Apple, avviò programmi per consentire a studenti e insegnanti - dalle elementari all‟università - di acquistare computer a prezzi molto vantaggiosi. Non era una trovata per migliorare l‟immagine dell‟azienda; era il riflesso di una convinzione profonda che nasceva dall‟esperienza di quel bambino nella classe di Mrs. Hill: Credo fermamente nelle pari opportunità [...] Più di ogni altra cosa, per me "pari opportunità” significa ricevere un‟ottima istruzione [...] Soffro al pensiero che in questo Paese sappiamo davvero fornire un‟istruzione eccellente, potremmo offrirla a ogni bambino e invece non lo facciamo, neppure lontanamente [...] Sono sicuro al cento per cento che se non fosse stato per Mrs. Hill in quarta elementare, e per
qualche altra persona, sarei finito in prigione. Vedevo in me quelle tendenze, una certa energia, una motivazione. Quando sei giovane, una semplice correzione di rotta ottiene grandi risultati. Dopo il liceo, insistette per iscriversi al Reed College di Portland, in Oregon: un duro colpo per il budget familiare, ma i suoi genitori adottivi avevano promesso alla madre naturale, allora laureanda, che avrebbero mandato suo figlio al college. Malgrado le loro buone intenzioni, Steve lasciò il college dopo un solo semestre, pur continuando a frequentare le lezioni per qualche mese ma senza sostenere esami. Tornò nella Silicon Valley e trovò lavoro in Atari, nel turno di notte, per tirar su qualche soldo da destinare a "un viaggio in Oriente”. Quando tornò dall‟india, Steve era un buddista zen praticante e un fruttariano. Tornò in Atari: a quanto ne so è l‟unico impiego dipendente che abbia mai avuto. E si mise in contatto con Woz, che lavorava alla Hewlett Packard di Palo Alto e, nel tempo libero, costruiva circuiti stampati. Woz era membro dell‟ormai leggendario Homebrew Computer Club, un gruppo di giovani geek ossessionati dalla tecnologia. Malgrado il suo retroterra nella controcultura, o forse proprio grazie a quello, Steve è sempre stato particolarmente abile a riconoscere le opportunità di business che agli altri passano inosservate. Sapeva da tempo che, se metti passione in ciò che fai, diventa più facile convincere gli altri della bontà delle tue idee. Steve vide quel genere di opportunità nel lavoro di Woz. Quand‟era ragazzo, aveva deciso di non voler frequentare la scuola del suo quartiere ed era riuscito a convincere i genitori a trasferirsi in un‟altra zona della città, in modo da potersi iscrivere alla scuola migliore. Allo Homebrew, Steve notò che gli amici di Woz progettavano circuiti stampati ma non si curavano di costruirli. Propose a Woz di costruire i circuiti e di venderli ai membri dello Homebrew che erano troppo pigri per farlo da soli.
Woz non capiva come si potesse guadagnare soldi in questo modo. In seguito avrebbe ricordato: "Non pensavamo che la cosa avesse un futuro. Ci dicemmo: facciamolo per divertimento e, probabilmente, ci rimetteremo qualche soldo. Però potremo dire di aver fondato un azienda.” 20 Entusiasmato dall‟idea, Woz si mise a lavorare con Steve: da lì sarebbe nata Apple Computer. Nella sua autobiografia, Woz rivela perché aveva davvero bisogno dell‟inarrestabile Steve. Woz stava costruendo quello che sarebbe diventato il computer Apple I e voleva usare i chip DRAM prodotti da Intel, che però costavano troppo. Steve disse che ci avrebbe pensato lui. Chiamò in Intel e convinse qualcuno del marketing a mandargli dei chip gratuiti. Woz restò sbalordito: “Io non ci sarei mai riuscito, ero troppo timido”, racconta.21 Ma per Steve non era nulla di che: qualche anno prima, ancora adolescente, era riuscito a farsi passare al telefono il co-fondatore di Hewlett-Packard William Hewlett, e a restare quasi mezz‟ora al telefono con lui: fu premiato con l‟offerta di uno stage estivo.
La passione non è un optional: una lezione di vendita Nel 1996, con NeXT e Pixar che ancora gli drenavano soldi, la salvezza di Steve - e il primo passo verso i successi futuri - provenne dalla fonte più improbabile, l‟ultimo posto che Steve avrebbe potuto immaginare. Apple Computer aveva disperato bisogno di un nuovo sistema operativo. Microsoft Windows, pur con tutte le sue pecche, sfornava versioni sempre nuove e sempre più pratiche e, così, sottraeva clienti al Mac. Durante l‟assenza di Steve, Apple sembrava aver perso la capacità di sviluppare un nuovo sistema operativo: un folto gruppo di ingegneri lavorava da anni, ma era ancora ben lontano dal trovare una
20 21
Triumph of thè Nerds, op. cit. pag. 14. Ibidem.
soluzione funzionante: anche perché l‟uomo che in teoria era al timone non esercitava nessun potere concreto. L'azienda era allora nelle mani di un valido tecnologo con un dottorato in fìsica, Gil Amelio, responsabile di un clamoroso rilancio della National Semiconductor, un produttore di microchip; Amelio era stato assoldato in Apple per dirigere lo sviluppo tecnologico e risolvere i problemi finanziari. Quando fu chiaro che gli ingegneri Apple non avrebbero sviluppato un buon sistema operativo, Gil iniziò a guardarsi intorno, fuori dalle mura del civico 1 dell‟Infinite Loop. Ben presto trovò vari candidati papabili per il prestigioso incarico di creare un nuovo OS Apple: e tra i papabili c‟era nientemeno che Microsoft. Bill Gates stava facendo un pressing aggressivo per convincere Gil Amelio che Windows NT poteva essere adattato alle esigenze dell‟antico rivale. Microsoft era un peso massimo da 500 tonnellate, ma l‟idea che i creatori di Windows progettassero un OS altrettanto instabile per la Apple era una prospettiva alquanto tetra. E inoltre avrebbe fatto infuriare le orde di devoti del Macintosh. Amelio era convinto che l‟opzione migliore fosse far sviluppare alla Sun Microsystems una versione del loro SunOS, ma Gil era deciso a prendere in considerazione tutte le possibilità ragionevoli. 22 Un altro candidato era un software di nome BeOS, sviluppato dall‟ex dirigente Apple Jean-Louis Gassée, colui che vari anni prima aveva rimpiazzato Steve a capo del team Macintosh. Gil mise insieme alcuni team di tecnici per valutare ciascuna di queste possibilità, e piazzò al comando tre dei suoi ingegneri del software più esperti: Wayne Meretsky, Winston Hedrickson e Kurt Piersol. A ciascuno dei team fu chiesto di presentare una valutazione in un report. Un bel giorno, nel mezzo di tutto questo, la responsabile tecnologica di Gil, Ellen Hancock, ricevette una telefonata da un ingegnere di NeXT, che diceva di aver sentito che Apple cercava un sistema operativo. In realtà forse Steve aveva brigato dietro le quinte e, immaginando che una sua Email di Gil Amelio all‟autore, 7 novembre 2010 .
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telefonata personale non sarebbe stata gradita, aveva chiesto all‟ingegnere di chiamare al posto suo.) Ellen disse a Winston di mandare un paio di ingegneri a parlare con quelli di NeXT, per vedere di che si trattava. Gli ingegneri esaminarono l‟OS NeXTStep, e Winston riferì che era una possibilità da considerare. Steve aveva capito che NeXT aveva disperato bisogno di un salvataggio, e un accordo per sviluppare il nuovo sistema operativo Apple poteva essere la soluzione. E chi meglio di Steve poteva capitanare quell'impresa? Nel frattempo, Amelio incontrò un ostacolo. Le valutazioni tecniche del SunOS erano promettenti, e i negoziati di Gil con l‟amministratore delegato Scott McNealy erano andati a buon fine. Ma all‟ultimo minuto, il consiglio di amministrazione della Sun aveva respinto l‟accordo. Questo lasciava NeXT e Be come unici contendenti. Tutto era pronto per una battaglia campale fra Steve e Jean-Louis, soprattutto quando Steve lesse che Gassée aveva già avviato le trattative con Apple: una notizia che, Gil ne è convinto, era stata messa in giro ad arte da Gassée. I l10 dicembre 1996 fu il giorno della sfida all‟O.K. Corrai: Steve e Jean- Louis furono invitati a presentare la propria candidatura, uno dopo l‟altro, al Garden Court Hotel di Palo Alto: una ben strana location, scelta per depistare i giornalisti. Steve salì sul palco con il suo mago dei sistemi operativi, Avie Tevanian, e si sedettero a un tavolo a forma di ferro di cavallo, proprio davanti a Gil ed Ellen. Wayne Meretsky, esperto di software Apple che era seduto a metà del tavolo, descrive così la scena: "Durante la sua presentazione Steve si rivolse direttamente a Gil, come se non ci fosse nessun altro nella stanza. Come ci si poteva attendere, Steve decantò con grande eloquenza le virtù del suo sistema operativo”, enumerando le funzionalità che lo rendevano adatto ai computer Apple, e poi mostrò come il sistema NeXTStep poteva proiettare due film in contemporanea su un laptop. Poi ne fece partire altri tre: cinque filmati aperti allo stesso
tempo sullo schermo di un solo computer. Tutti i presenti compresero il valore di un software che poteva gestire un processore dalle prestazioni cosi elevate. Continua Wayne: "Steve si fece in quattro e la sua presentazione, un duetto con Avie, dimostrò ancora una volta che - se non altro - Steve è il miglior oratore e il miglior venditore nel settore tecnologico. Gssée invece si presentò da solo, senza essersi preparato un discorso, pronto solo a rispondere alle domande.” Convinto che Apple non avesse alternative realistiche al suo BeOS, non tentò davvero di spiegare perché il BeOS, e solo il BeOS, fosse la soluzione di cui Apple aveva bisogno. Come racconta Wayne Meretsky: “La decisione di scegliere NeXT invece di BeOS fu naturale.” Senza rivelare la decisione di Apple, Amelio contattò Steve per sapere che tipo di contratto poteva proporgli. Sempre per evitare le fughe di notizie, si incontrarono a casa di Steve. Gil ricorda: “Steve è un ottimo oratore, e lo dimostra anche durante i negoziati”, ma “promette più di quanto possa mantenere, pur di convincerti.” E Gil, con quali armi affrontò quel negoziato? Usando la stessa celebre tattica che Steve aveva impiegato con John Sculley: “Vuoi continuare a perdere tempo con la NeXT, oppure vuoi cambiare il mondo?” Alla fine, Apple non appaltò a NeXT lo sviluppo di un nuovo sistema operativo per il Macintosh; comprò invece l'intera azienda di Steve, ottenendo i pieni diritti di utilizzo del NeXTStep, reclutando molti dei talenti migliori della NeXT... e reclutando anche Steve Jobs, nel ruolo di consulente dell‟amministratore delegato. Molti ammonirono Gil che se gli avesse permesso di rimettere piede in Apple, ben presto Steve gli avrebbe strappato l'azienda di mano. Gil rispose che era convinto di aver preso la decisione migliore per il bene dell'azienda. Pochi mesi dopo, Gil Amelio si sarebbe pentito di non aver insistito su una clausola del contratto di assunzione di Steve: quella che gli avrebbe garantito di conservare il titolo di amministratore delegato per tre anni o anche cinque, quanto bastava per completare il rilancio dell'azienda e
riportarla alla salute finanziaria, con una gamma di prodotti validi e un solido flusso di cassa. Sapeva che rinnovare l'azienda avrebbe richiesto tempo, ma dava per scontato che il Cda gli avrebbe concesso quel tempo. Naturalmente, quando gli fu offerta la posizione di amministratore delegato, non poteva prevedere che Steve Jobs avrebbe potuto portar gli via tutto quanto. Chiunque conoscesse Steve non si aspettava nulla di meno da lui. L'insigne e autorevole giornalista economico di Fortune Brent Schlender accese la miccia con un tempestivo articolo dal titolo incendiario: “C‟è del marcio a Cupertino”.23 L‟occhiello recitava: “Steve Jobs è tornato e ha in mente un cambiamento di rotta che potrebbe riportare la Apple nelle sue mani.‟‟ Non si poteva leggere quell‟articolo senza farsi l‟impressione che Schlender fosse molto interessato al destino della Apple, e che vedesse in Steve proprio la medicina di cui l‟azienda aveva bisogno. Scriveva: “È in corso uno scontro per il potere [...] che spinge a chiedersi chi gestisca davvero l‟azienda.” Schlender chiamava Steve "il persuasore occulto della Silicon Valley”. Sembrava davvero colpito dai termini con cui era stata rilevata NeXT: Steve aveva ottenuto cento milioni di dollari e un milione e mezzo di azioni Apple. E la sua influenza si faceva già sentire: "Le sue impronte digitali sono in ogni angolo del piano di riorganizzazione e della strategia di prodotto di Amelio, benché Jobs non abbia un ruolo operativo e non sieda neppure nel Cda”. Il tocco finale era la previsione di Schlender, secondo cui era probabile che Steve "tramasse” la riconquista di Apple; e Schendler citava le parole del miglior amico di Steve, l‟amministratore delegato di Oracle Larry Ellison: "Steve è l‟unico che può salvare Apple. Ne abbiamo parlato molto seriamente, molte volte.” Sia che l‟articolo fosse interamente farina del sacco di Schlender, sia che ci fosse lo zampino di Steve, sta di fatto Brent Schlender, "Something‟s Rotten in Cupertino”, Fortune, 3 marzo 1997.
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che Steve non avrebbe potuto ottenere un sostegno più autorevole per la sua campagna. Intavolò trattative segrete con i consiglieri di amministrazione, concentrandosi in particolare su Ed Woolard, presidente di Dupont ed ex membro del Cda di IBM. Woolard era stato reclutato nel Cda Apple da Gil, ma aveva mostrato ostilità per alcune sue decisioni. Doveva averlo impressionato il fatto che Steve era stato dichiarato incapace di gestire un singolo gruppo di lavoro in Apple - il gruppo Macintosh - e che non era riuscito a riportare in attivo NeXT. Ma Steve usò di nuovo le sue capacità persuasive. Ben presto Woolard prese il telefono e chiamò .gli altri membri del Cda, spiegando il suo punto di vista, facendo una specie di sondaggio. Ci volle un po‟ di tempo per convincerli, ma poche settimane dopo l‟articolo di Fortune due membri del Cda, tra cui Mike Markkula, si dissero disposti a lasciar continuare Gil; altri tre invece orano schierati con Woolard. La mannaia era pronta a calare. Gil stava trascorrendo il weekend del 4 luglio con la famiglia nella sua casa sulla riva del lago Tahoe, quando squillò il telefono. Era Ed Woolard, che disse di avere "cattive notizie”. Disse a Gil: "Hai fatto molto per l‟azienda, ma le vendite non sono aumentate. Pensiamo che tu debba farti da parte.” Gil fece notare che Apple aveva appena annunciato risultati trimestrali che superavano le previsioni degli analisti: "Volete che mi faccia da parte proprio quando le cose iniziano a migliorare?” Woolard rispose che il Cda voleva “trovare un amministratore delegato che fosse un grande leader, che potesse orientare il marketing e le vendite”. Non menzionò il fatto che avevano già deciso di nominare Steve "amministratore delegato ad interim”. Gil non ebbe bisogno che gli dicessero che Steve l‟avrebbe sostituito: l‟avevano già avvertito che sarebbe finita così. Steve Jobs era tornato e, per la prima volta nella storia dell‟azienda, era il comandante supremo. L‟editor at large di Fortune, Peter Elkind, descrisse con parole molto azzeccate il “Nuovo Steve”, il “Manager Pigliatutto”: "Fin da subito Jobs si è gettato a capofitto nelle minuzie più torbide del business, dando un impulso forte, riducendo drasticamente il
numero dei prodotti Apple, e accelerando una riduzione dei costi che avrebbe ridotto le dimensioni dell‟azienda riportandola in attivo. Jobs aveva affinato molto le sue capacità di leadership: non era più un esteta sfrenato a cui interessava solo creare begli oggetti. Adesso era un esteta sfrenato che voleva creare begli oggetti per fare soldi. Nessuna specifica di progettazione, nessun dettaglio del design era troppo piccolo per meritare la sua attenzione.” 24 Questa osservazione corrispondeva al vero solo in parte. L‟obiettivo primario di Steve non era mai stato quello di "fare soldi”, ma di adottare misure - per quanto brutali e dolorose - per salvare Apple dal triste destino delle aziende fallite. Iniziò a esaminare attentamente ogni prodotto e progetto dell‟azienda. Racconta il senior engineering scientist Alex Fielding: "Le riunioni con Jobs erano in pratica udienze sul diritto di ciascun prodotto a sopravvivere.” Se non gli piaceva quel che gli dicevi, se contrastava con il suo obiettivo di conservare solo pochi prodotti forti in listino, allora il tuo progetto era spacciato, e così il tuo posto di lavoro. Racconta Alex: “Gil Amelio avviò una campagna promozionale con lo slogan: I was there when The comeback began‟ ('Io c‟ero quando è iniziata la rimonta3). Paradossalmente, per certi versi aveva ragione, considerando che la fusione con NeXT aveva riportato Jobs in azienda. Ma molti dipendenti ora prendevano gli adesivi da parafango con quello slogan e li correggevano con un pennarello: 'Io c‟ero quando è iniziata la rimonta sono iniziati i licenziamenti‟. Winston Hedrickson, l‟ingegnere del software che era tornato dall‟incontro in NeXT con un‟opinione positiva sul loro sistema operativo, era ancora in Apple. Ricorda che, nella prima metà del 1997, tutti si chiedevano cosa significasse per Steve il ruolo di “consulente” di Gil, e lo spostamento della leadership di ricerca e sviluppo verso gli ex dirigenti NeXT lasciava pensare che Steve non si Peter Elkind, profilo di Apple in „America‟s Most Admired Companies”, Fortune, 5 marzo 2008.
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limitasse alle consulenze. Ma Steve, dice Winston, era "relativamente invisibile”. In quella prima fase, ricorda Winston, Steve sembrava voler “mantenere le distanze per cautelarsi contro l‟ancora probabile fallimento di Apple. Molti drizzarono le antenne perché sentivano puzza di bruciato, ma il rimpasto che segui all'acquisizione, e l‟emorragia di talenti, mascheravano il vero problema, che era al livello dirigenziale”. Man mano che Steve acquistava visibilità, si diffondeva in Apple un miscuglio di eccitazione e trepidazione, tipico di ogni fase transitoria, ma stavolta caratterizzato da una fastidiosa incertezza. Finalmente si prendevano decisioni e si implementavano cambiamenti, e a un ritmo inaudito per l‟Apple di quei tempi. Questo dinamismo stimolò un certo entusiasmo, anche perché "la rapidità con cui succedeva tutto ciò parlava chiaro: c‟era un nuovo sceriffo in città”. Quando Gil se ne andò ci fu la stessa reazione ambigua: non rimaneva "il minimo dubbio che NeXT avesse comprato Apple” anziché il contrario. Curiosamente, pensa Winston, i dipendenti Apple - o almeno gli ingegneri - “erano assetati di leadership”: persino qualora il leader fosse “un tiranno il cui ricordo aveva acquisito un certo fascino in quella fase di irresolutezza che aveva segnato i primi anni novanta”. Ottenuta la nomina ad amministratore delegato ad interim, Steve si concentrò sul reparto hardware e “impose tagli drastici: i progetti passarono da varie centinaia a poche decine”. Durante una vacanza aziendale con i cento più alti dirigenti a Pajaro Dunes, Steve presentò i suoi nuovi piani per l‟hardware, svelando il progetto che sarebbe diventato l‟iMac. Winston ebbe occasione di parlare a tu per tu con Steve durante la cena, e “mi parve che stesse cercando di farsi un‟opinione su di me”. Ma osservando i dipendenti NeXT aveva imparato che si può essere in disaccordo con Steve, purché lo si esprima con tatto e ragionevolezza, e scoprì che era vero: "Dissentii da una delle sue giustificazioni per l‟iMac, e lui mi disse solo che mi sbagliavo e mi spiegò perché, invece di arrostirmi vivo come in molti avevano paventato.” (Winston scoprì in
tempo che la sua obiezione era infondata, e che Steve, il non ingegnere, aveva ragione.) Un giorno Steve mi disse che uno dei suoi obiettivi per la Apple era di trasformarla in un‟azienda miliardaria con meno di cinquemila dipendenti. Disse di aver fissato quell‟obiettivo perché così avrebbe piazzato la Apple tra le aziende più redditizie e produttive d‟America. Non sorprende che non sia riuscito a tenere a freno il numero dei dipendenti - solo nei negozi ce ne sono ormai 1.500 - ma di sicuro si era tenuto basso nel fissare il suo obiettivo di capitalizzazione di mercato. Il valore totale di mercato di Apple, al momento della stesura di queste pagine, supera i 280 miliardi di dollari.
L'amministratore e il consiglio
di
delegato amministrazione
Una cosa che Steve ha imparato dalla dolorosa esperienza dell'esilio è l'importanza di un consiglio di amministrazione che capisca la strategia perseguita dal capo. Col senno di poi, avrebbe dovuto rendersene conto già quando il Cda Apple aveva accolto con freddezza lo spot 1984. Tutti sanno che “un buon consiglio di amministrazione” è fonda- mentale per un'azienda di successo. Ma cosa significa concretamente? Più di ogni altra cosa, significa che i membri del Cda devono comprendere l'azienda, la sua visione e il suo Ad. Anche se l‟Ad non ha selezionato personalmente i consiglieri, dovrebbe conoscere la biografia e le qualifiche di ognuno, il ruolo svolto, e chi condivide, o non condivide, la visione aziendale. Il Cda ideale è composto da persone con esperienza in vari settori, che usano religiosamente il prodotto dell'azienda e comprendono a fondo chi è il cliente e dove dovrà trovarsi l‟azienda fra cinque anni. Avete notato che non ho parlato del profitto? Il profitto dipende dalla qualità dei prodotti e delle persone. Come ho già detto, è il prodotto che dev‟essere al centro dell‟azienda.
Quando Steve prese le redini di Apple, fece un rimpasto completo del Cda dando il benservito a tutti i consiglieri tranne due. Uno dei superstiti, ovviamente, era Ed Woolard, che aveva contribuito molto al suo ritorno. L‟altro era Gareth Chang, un vicepresidente senior della Hughes Electronics. Nel Cda entrarono l‟amico stretto di Steve, Larry Ellison, e l‟ex executive di Apple Bill Campbell (a volte detto “Coach” perché, strano a dirsi ,era stato allenatore di football alla Columbia University). Le motivazioni di Steve erano chiare: questo non era un Cda di fedelissimi, ma un gruppo di persone che pensavano come Steve, si fidavano di lui, e avrebbero sostenuto i suoi sforzi per salvare e ricostruire l'azienda. Ho imparato a caro prezzo la verità sui Cda. In una delle mie startup, per ottenere finanziamenti, ho dovuto accettare executive e consiglieri scelti dalla Lehman Brothers. Quei tizi avevano tutte le carte in regola, ma badavano solo ai numeri. Se qualcuno mi avesse detto che non sapevano neppure quale fosse il nostro prodotto, non mi sarei sorpreso. Nessuno di loro usava neppure il nostro prodotto, un segno evidente che non comprendevano la filosofia o la direzione dell‟azienda. Ma Steve, con il suo nuovo Cda, aveva introdotto un nuovo principio, che quasi nessuna azienda può permettersi di ignorare: un‟azienda può restare fedele al suo core business pur vendendo diversi tipi di prodotti. Era questa la strada che Steve stava imboccando
Lo sviluppo olistico dei prodotti
Si racconta che Cristoforo Colombo fosse riuscito a trovare in una sola città tutti gli artigiani con le diverse abilità necessarie per costruire ed equipaggiare le sue navi: carpentieri, velai, cordatori e mastri calafati, oltre ai marinai veri e propri. Oggi, per costruire un prodotto complesso - ma anche per realizzarne di più semplici - bisogna spesso ricorrere a componenti prodotti da fornitori esterni. È per questo motivo che i telefoni cellulari con sistema operativo Android non funzionano bene quanto l‟iPhone: perché Google sviluppa Android, mentre l‟hardware proviene da varie case produttrici. I costruttori di cellulari non esercitano alcun controllo sulla progettazione del software e Google non ha modo di accertarsi che l‟hardware sia totalmente compatibile con il software. (Tornerò a breve su questo punto.) È per questo che il bordo superiore delle lattine di schiuma da barba Gillette si arrugginisce sempre: Gillette produce la schiuma, ma compra i barattoli da un fornitore esterno, un‟azienda di cui non farò il nome, perché non merita le critiche dei clienti di Gillette. (E sorge il sospetto che i top manager di Gillette non usino il loro prodotto: se lo usassero veramente, si sarebbero di certo accorti del problema.)
Al momento del suo ritorno in Apple, Steve aveva iniziato a riflettere su una questione che sarebbe diventata centrale per lui: come si può creare un prodotto valido, se il gruppo di lavoro che programma il software e quello che progetta l‟hardware lavorano in maniera indipendente l'uno dall'altro? La risposta di Steve è: "Non è possibile." Ma se pensate che la cosa riguardi solo le aziende di hightech, dovrete ricredervi: in un futuro non lontano, molti prodotti di uso quotidiano conterranno un microchip e comunicheranno fra loro in modi che oggi iniziamo appena a intuire. Già da diversi anni, molte lavatrici per uso domestico sono controllate da microprocessori. E avete notato in che modo si toglie la sicura e si avvia il motore di una Toyota Prius o di una Lexus? Non con una chiave, ma con un piccolo telecomando che contiene un chip. I circuiti elettronici dell‟auto captano un segnale emesso dal telecomando e fanno scattare la sicura delle portiere mentre il guidatore si avvicina al veicolo, e poi gli consentono di avviare il motore con la semplice pressione di un pulsante. È solo un assaggio del futuro che ci attende. Quindi non chiedetevi di cosa parla questo capitolo: probabilmente parla di come saranno domani i vostri prodotti. Definisco "sviluppo olistico dei prodotti” questa sinergia di hardware e software che è diventata parte essenziale della filosofia di Steve, oltre che della mia. E anche se non lavorate nel settore dell'high-tech, dovrete farci i conti prima di quanto immaginiate. (Non so da dove Steve abbia tratto la parola “olistico”, ma un giorno mi sono accorto che la usava per descrivere la totalità del processo di sviluppo dei prodotti.)
Recepire
il
nuovo
Steve Jobs è convinto che, se si vuol essere davvero originali, sia inutile usare i focus group per sviluppare i prodotti. Adorava citare una celebre battuta di Henry Ford: “Se avessi chiesto ai miei clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto: un cavallo più veloce.” Ogni volta che Steve ripeteva quella frase, io ripensavo alla mia Ford Model A del 1932, quella che mi avevano regalato come premio per il mio lavoro nel ranch. Già a quindici anni ero riuscito a ripararla senza il manuale di istruzioni; era tutto molto intuitivo, bastava possedere qualche nozione di base sui motori e una certa dose di buonsenso. La Model A era un prodotto ben progettato. E il fatto che Ford riutilizzasse per i sedili le assi di legno delle casse in cui arrivavano i pezzi da montare offre un altro esempio di product development olistico. Se Steve Jobs e Henry Ford si fossero conosciuti di persona, sono convinto che avrebbero scoperto di avere parecchie cose in comune, e avrebbero provato una forte ammirazione reciproca. La battuta di Ford sul cavallo implica un'idea che Steve afferra intuitivamente. Se prendete un gruppo di utenti, non necessariamente insoddisfatti di un prodotto, e chiedete loro di suggerirvi come migliorarlo, probabilmente si metteranno a cercarne i punti deboli. Questa ricerca dei difetti ha un suo valore, ma tutt'al più si limita a indicare piccole migliorie: di certo non permette di ideare prodotti radicalmente nuovi, in grado di mutare il panorama di un intero settore. Questa non è vera innovazione. Perché no? Perché in una situazione del genere, la maggior parte delle persone si concentra su quello a cui crede di dover pensare: gli utenti credono di dover analizzare la propria esperienza d'uso del prodotto. Ma non è così che deve andare. Quello che vi serve sono persone che si concentrino sulle esperienze possibili. Ciò che distingue i visionari dal resto dell'umanità è la loro tendenza a interrogarsi sulle possibilità, a domandarsi come potrebbero essere diversi i loro prodotti o la loro vita.
Di fronte a un nuovo strumento o a una nuova tecnologia, queste persone iniziano subito a immaginare prodotti che permetteranno di fare cose totalmente nuove. Gli innovatori creano prodotti che sono frutto della loro immaginazione, strumenti che li aiutano a creare il mondo in cui vorrebbero vivere. È una mentalità molto diversa da quella di chi, semplicemente, si domanda come migliorare quel che già esiste. grandi innovatori sono mossi da un desiderio di cambiare le cose, di vivere esperienze nuove, migliori e speciali. I product developer come Steve Jobs possiedono l'immaginazione necessaria per visualizzare oggetti nuovi e nuovi stili di vita. E sanno domandarsi: "Perché no?” Mi torna sempre in mente quella frase di Robert Kennedy: 'Alcuni vedono il mondo com'è, e si chiedono: 'Perché?' Io invece sogno cose che non esistono ancora e mi chiedo: perché no?” Una persona così, quando scopre che il progresso della tecnologia ha reso possibile la creazione di un prodotto che prima era irrealizzabile, si chiederà: "Perché aspettare?” Perché
noi
Perché
aspettare
Scriveva Thoreau: “L‟obiettivo è semplificare i mezzi ed elevare i fini.” Be', nello sviluppo dei prodotti questo si traduce in: ideare qualcosa di radicalmente diverso e migliore, e poi scoprire come trasformarlo in realtà. Per spiegare come mai i prodotti Apple sono così belli e funzionano così bene, Steve ricorre spesso all‟aneddoto del prototipo di automobile. “Vedi una nuova concept car”, diceva (sto parafrasando, ma il senso era questo). "Bellissima auto, design innovativo. Quattro o cinque anni dopo, l'auto arriva nelle concessionarie e negli spot televisivi, e fa schifo. E tu ti chiedi perché. Ce l‟avevano fatta, avevano azzeccato il prodotto giusto, e poi si sono persi per strada.” A quel punto, Steve spiegava cos‟era andato storto secondo lui: “Quando i designer hanno portato agli ingegneri quella grande idea, gli ingegneri hanno detto: „Figuriamoci, non ce la possiamo fare. E' impossibile.‟ Allora gli ingegneri
hanno avuto il permesso di realizzare quello che secondo loro era 'possibile‟, e poi hanno consegnato quei progetti ai tecnici del manufacturing, negli stabilimenti di produzione. Qui i tecnici hanno detto: 'Questa macchina non può essere costruita'." A Steve piaceva chiudere con una frase a effetto: “Hanno strappato la sconfitta dalle fauci della vittoria.” Probabilmente Steve direbbe che il problema non è la fattibilità o meno di un progetto, quanto il fatto che la casa automobilistica non si è impegnata senza riserve per creare il prodotto migliore, pur essendo riuscita a immaginarlo. Per sviluppare prodotti in modo olistico, non basta immaginare un prodotto nuovo: bisogna credere in quell‟idea e impegnarsi per tradurla in realtà. Bisogna convincersi che la cosa più importante sia creare prodotti nuovi e speciali. In tante aziende ci sono persone ricche di immaginazione, le cui idee brillanti vengono scartate per non alterare lo status quo. In una società come la nostra, che tanto apprezza l‟innovazione, troppe grandi idee vanno sprecate ogni giorno. Per questo sentiamo parlare così spesso di imprenditori che hanno inventato un prodotto fantastico ma sono costretti a lasciare l‟azienda, perché lì nessuno è interessato alle loro idee visionarie. A volte, la stessa cosa ha rischiato di accadere in Apple. Nel 1997, quando Steve rientrò in azienda, lui e Jonathan Ive, direttore del design, svilupparono il prototipo dell‟iMac: un computer integrato con un display a tubo catodico e una scocca in brillanti colori al neon. Sembrava uscito da un fumetto di fantascienza disegnato da un bambino precoce e fantasioso. In seguito, Steve dichiarò a Lev Grossman di Time: “Com‟era prevedibile... quando lo portammo agli ingegneri, loro si inventarono trentotto motivi [per cui non era fattibile]. E io dissi: „No, no, lo costruiremo.‟ E loro: „Be‟, e perché?‟ E io: „Perché sono l‟amministratore delegato, e secondo me si può fare.‟ Quindi lo costruirono, ma contro- voglia. E fu un grande successo.”25 25
Lev Grossman, "How Apple does It", Time, 16 ottobre 2005.
In questo caso, la concept car è arrivata in con-cessionaria.
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A volte, l'istinto creativo di Steve trovava fonti di ispirazione davvero insolite: come Johann Gutenberg, di cui Steve - strano a dirsi - era un grande ammiratore. Mi ripeteva spesso che trovava affascinante il funzionamento della stampa a caratteri mobili e l‟impatto che quella singola invenzione aveva avuto sulla storia dell‟umanità. Un giorno ebbe l'intuizione: il Macintosh non si sarebbe limitato a visualizzare e stampare lettere e numeri, come qualsiasi altro computer, ma avrebbe creato anche immagini e progetti grafici. Gli utenti dovevano poter creare loghi aziendali, volantini pubblicitari e ogni genere di illustrazione; quindi, naturalmente, il Mac meritava una stampante più sofisticata di quelle a matrice di punti monocromatiche. "Ci serve un‟invenzione simile a quella di Gutenberg”, disse Steve. “Certo, come no, e che ci vuole?!” pensai io. Ma d‟altro canto, per Steve nulla è impossibile. Ne parlò con Bob Belleville. Entrambi sapevano che non c‟era tempo per costruire da zero una stampante di quel genere e farla uscire in concomitanza con il Mac. Belleville avanzò un‟idea che ci parve brillante. Durante un viaggio in Giappone, aveva visitato la sede di Canon e aveva visto le loro fotocopiatrici laser: forse si poteva adattare una di quelle macchine in modo che potesse stampare dal Mac. I nostri progettisti potevano costruire una scheda che fungesse da interfaccia fra le due macchine, traducendo i dati elaborati dal Mac nel linguaggio necessario a far funzionare la stampante. Steve iniziava già a immaginarsela. „Andiamo a vedere queste stampanti”, ci disse. Dopo una serie di telefonate in Canon, fissammo appuntamenti e prenotammo l‟intera prima classe di un volo Air Japan. Saremmo partiti in sei: Steve e Bob, io e tre ingegneri.
In aereo, gli ingegneri costruirono un modellino in cartone della scheda di espansione, per stabilire le dimensioni massime consentite dallo spazio disponibile nella stampante Canon. Quando arrivammo nel nostro albergo a Tokyo, alcune ragazzine riconobbero Steve e corsero a chiedergli l‟autografo. Ero sconcertato: Steve era un volto familiare, era apparso sulle principali riviste americane, ma nessuno gli aveva mai chiesto l‟autografo. E ora lì, all‟altro capo del mondo, non solo lo riconoscevano, ma lo trattavano come una rockstar. Ero curioso di vedere la sua reazione: ma se la considerava un‟intrusione nella sua preziosa privacy, di sicuro non lo diede a vedere. So che non lo avrebbe mai ammesso (e non gli sarebbe piaciuto se gliel‟avessi chiesto), ma ebbi la netta impressione che la cosa gli facesse piacere. Nella mia stanza trovai una sorpresa. Mi avevano chiesto in anticipo che genere di stanza volessi, e siccome mi considero un viaggiatore sempre attento alla cultura locale, avevo scelto la stanza tradizionale giapponese. E ora scoprivo che invece del letto c‟era solo una stuoia. Mi arrangiai, ma ho passato notti migliori.
Divergenze
culturali
La mattina dopo, vennero a prenderci con una limousine e ci portarono al quartier generale di Canon a Tokyo. Arrivammo alle dieci, ci portarono in una sala riunioni e ci offrirono tè, caffè e dolci. Tutti erano molto deferenti nei riguardi di Steve: anche lì lo trattarono come una rockstar, ma in un senso diverso. Poi arrivarono il presidente e l‟amministratore delegato di Canon, e le presentazioni furono cerimoniose e molto formali. Quando il presidente se ne fu andato, ci sedemmo con l‟Ad e una dozzina di altri dirigenti per avviare la trattativa. Steve spiegò cosa volevamo fare, e mostrò una certa impazienza per il fatto di dover aspettare che l‟interprete traducesse ogni due o tre frasi.
Ma poi emerse una differenza culturale più profonda. I Giapponesi non reagivano: sembravano quasi addormentati, stavano seduti con la testa china e gli occhi chiusi. Steve si innervosì e cominciò a lanciarmi occhiate infastidite. Eravamo arrivati fin lì, e ora li facevamo addormentare?! Per fortuna avevo letto un opuscolo redatto da Air Japan per gli stranieri, in cui si spiegava che durante una riunione d'affari a volte i Giapponesi chiudono gli occhi per non lasciarsi distrarre, per ascoltare l‟essenza pura delle parole. Sussurrai questa spiegazione a Steve, che mi rivolse un sorrisetto di indulgenza e gratitudine, e riprese a parlare. A pranzo, scoprimmo che quelli di Canon si erano fatti in quattro per conquistare Steve. Si erano informati sui suoi piatti preferiti e ci offrirono un pranzo straordinario in un famoso sushi restaurante. Evidentemente il protocollo sanciva che a tavola non si dovesse parlare di affari, ma solo di questioni personali. Steve però voleva continuare a parlare di lavoro, e così fece. Le conversazioni che intrattenemmo nel pomeriggio con il presidente di Canon, il direttore dello sviluppo e il consulente legale evidenziarono alcuni punti critici. Per esempio, non reagirono bene quando li avvertimmo che la tecnologia Apple era proprietaria, e che quindi non avremmo spedito loro i chip da installare nelle stampanti: sarebbero stati loro a spedire l‟interno delle macchine negli Stati Uniti, dove noi avremmo installato i chip Apple in un nostro stabilimento, per poi inserire il tutto in una scocca progettata da Apple. Il presidente non parve entusiasmato da quest‟idea, ma dopo qualche insistenza da parte di Steve si arrese. Poi sorse l‟incomprensione più difficile, che Steve aveva correttamente previsto: sul case della stampante sarebbe apparso il logo di Apple, ma non quello di Canon. Proprio come temeva Steve, ne nacque una diatriba interminabile: restammo a parlarne per un‟ora intera. Il fatto era che, per Canon, la collaborazione con Apple Computer azienda amata e rispettata in Giappone - era un‟opportunità preziosa per migliorare l‟immagine dell‟azienda e le vendite dei loro prodotti. Steve fece qualche
concessione: Canon poteva piazzare il proprio logo sul motore interno della stampante e affermare nelle pubblicità di averlo costruito. Ma sulla questione centrale Steve fu irremovibile, e usò tutto il suo potere di persuasione. Uno dei tizi di Canon - non ricordo se il presidente o il direttore dello sviluppo sollevò un altro problema: volevano che il Mac potesse scrivere in caratteri Kanji, cosi da poterlo usare in tutto il Giappone. (I Kanji sono caratteri cinesi molto usati nel moderno sistema di scrittura giapponese.) Steve si voltò verso Bob Belleville, che disse di doversi consultare con i suoi ingegneri a Cupertino. La riunione fu interrotta per consentire a Bob di fare quella telefonata. Nel frattempo io parlai con il direttore delle risorse umane Canon, che mi pose molte domande sui compensi dei nostri dipendenti, sui metodi con cui li motivavamo, sulle strategie promozionali e così via. Non penso che Canon abbia mai adottato i nostri sistemi, ma ero affascinato dall'idea che volessero conoscerli. Quando la riunione riprese, Bob annunciò che i suoi ingegneri erano convinti che fosse possibile visualizzare e usare i Kanji sul Mac. Alla fine, il presidente di Canon accettò la condizione di Steve: niente logo Canon sul case della stampante. Steve, Bob e io comprendemmo la verità: il presidente non aveva preso quella decisione perché la ritenesse giusta, ma solo perché nutriva un rispetto profondo per Steve Jobs e per Apple Computer. Sono convinto che quell'esperienza abbia impartito una lezione a Steve: ha cambiato il suo modo di pensare. Era la prima volta che il Mac cercava un partner di sviluppo fuori dall'azienda e, grazie a quell‟accordo, la LaserWriter fu costruita molto più rapidamente che se Steve avesse incaricato del lavoro i team hardware e software interni ad Apple. Da quel giorno, Steve sarebbe sempre rimasto aperto all‟idea di cercare soluzioni all‟esterno, soprattutto per la prima generazione di un prodotto rivoluzionario. E benché all‟epoca non avesse ancora elaborato l‟idea dello sviluppo olistico, stava già attenendosi al principio generale su cui si
basa. Questa esperienza, insieme a quella del Twiggy, gli ha permesso di cambiare mentalità. Durante la nostra permanenza in Giappone visitammo anche la sede di Sony, a Kyoto. L‟ammirazione era davvero reciproca: Steve adorava Il Walkman prodotto da Sony, ne parlava in continuazione, elogiandone la semplicità d‟uso e il design, era uno dei suoi argomenti preferiti durante le riunioni con gli ingegneri che lavoravano al Mac. Definiva spesso Sony “la Apple giapponese”, e la prendeva a modello. Quella visita in Sony fu per lui come un pellegrinaggio alla Mecca. Se gli edifici di Canon erano nel tradizionale stile giapponese che vedevamo ovunque, l'architettura della sede Sony sembrava più adatta alle strade di Los Angeles, Chicago o Manhattan. Una volta entrati, però, trovammo un ambiente molto austero, piuttosto freddo agli occhi di un Americano. L‟unica eccezione era l‟ufficio dell‟amministratore delegato, Akio Morita: entrando, notammo subito il Van Gogh autentico appeso alla parete. Trovai Morita molto occidentalizzato, molto intelligente, un abile oratore e un imprenditore sofisticato. Morita-san parlava un buon Inglese, come tutti i suoi manager di livello elevato. In seguito seppi che veniva da una famiglia importante, che produceva sakè da quattrocento anni. I dirigenti Sony, come quelli di Canon, erano grandi fan di Steve e lo trattavano con riverenza, quasi come un capo di Stato. Quella sera ci offrirono la cena più straordinaria della mia vita. Eravamo noi sei, scortati da Morita-san e cinque suoi collaboratori stretti. Bob Belleville era un ottimo compagno in occasioni del genere, sia per la sua cultura in ambito tecnologico sia perché è molto estroverso e attento alle convenzioni sociali: suggeriva a Steve le norme dell‟etichetta durante le riunioni e a tavola, e Steve gli dava retta. Il ristorante in cui ci portarono è così esclusivo che ha un solo tavolo, e cenare lì è un privilegio trasmesso di
generazione in generazione... e non è neppure detto che alla morte del padre il figlio verrà ammesso. Tra le altre cose, mangiammo pesce palla. Come saprete, il pesce palla dev‟essere preparato con grande attenzione da un cuoco che sappia il fatto suo, altrimenti è letale: pare che sia il secondo vertebrato più velenoso al mondo. Tutti pensammo che se i nostri anfitrioni giapponesi si fidavano abbastanza dello chef, allora non c‟era da aver paura; e immagino che non mangiare quel pesce sarebbe stato un insulto, una mancanza di rispetto nei loro confronti. Nel caso ve lo siate mai chiesto, il pesce palla ha una carne bianchissima e somiglia al merluzzo; ma a me parve quasi insapore. Steve invece lo apprezzò tanto che, disse ai nostri ospiti, sperava di poterlo assaggiare di nuovo in America. (Ci riproverei anch'io, nel ristorante giusto, ma solo per vedere se al secondo assaggio il sapore migliora.) Al termine della giornata in Sony avevo l'impressione che, malgrado le divergenze culturali e la differenza d‟età - forse cinquantanni -, Steve e Morita condividessero molti valori. In fondo Morita-san, proprio come Steve, puntava a creare oggetti che lui stesso avrebbe voluto usare. E le aziende di entrambi erano pioniere nello sviluppo olistico dei prodotti. Steve ebbe conferma che tutto ciò in cui credeva aveva valore anche all‟altro capo del mondo: ama il tuo lavoro, ama i tuoi prodotti, rendili perfetti. Assistere al dialogo fra quei due imprenditori significava imparare una lezione sui valori aziendali. Alla fine, purtroppo, la relazione fra Apple e Sony non sfruttò mai il suo potenziale: ben presto Steve avrebbe lasciato Apple e, al suo ritorno, Morita-san non era già più in Sony.
Privilegiare la qualità rispetto alla quantità Tutti apprezziamo l‟innovazione e gli innovatori, perché tutti pensiamo che i grandi prodotti conducano a grandi profitti. Inoltre, ci piace lasciarci sorprendere ed entusiasmare dai prodotti rivoluzionari, quelli che aprono nuove possibilità, che ci permettono di fare quel che prima sembrava
impossibile. Siamo tutti drogati di novità. In questo senso, siamo tutti early adopter. Ma nella mente dei creativi quel desiderio sorge molto prima: se vogliono usare un prodotto, devono prima fabbricarlo. Non basta immaginarlo e volerlo costruire: il punto è essere in grado di costruirlo. Da dove proviene questa abilità? Nel caso di Steve, naturalmente, proviene in larga parte dal suo impegno totale e instancabile per implementare la sua strategia. Ma Steve è anche un uomo d'affari: le innovazioni dell' Apple nascono anche dalla sua capacità di intuire quando è necessario un compromesso. E' stato spesso disposto a correre rischi enormi per tradurre la sua visione in realtà: è disposto a pagare il prezzo che è richiesto a chi si impegna per innovare. Come ricorderete, una delle prime cose che Steve fece quando diventò amministratore delegato ad interim fu smettere di vendere dozzine di prodotti. Un conto è disegnare un prodotto favoloso su un tovagliolo di carta, o descriverlo in termini entusiasmanti ai nostri progettisti/discepoli. Ma cosa farsene di quei prodotti di vecchia generazione che però continuano a vendere? Magari non saranno stati degli iPod o degli iPhone, ma anche il più banale dei prodotti Apple garantiva un profitto. Quei prodotti non solo pagavano da soli i propri costi di produzione, ma contribuivano a mantenere in attivo l'azienda. Ciascuno di quei noiosi oggetti incrementava il fatturato di Apple, anche se di pochi spiccioli. L‟idea di staccare la spina a quelle macchine da soldi era assolutamente controproducente, un vero incubo per l‟azienda. Ma come abbiamo visto, Steve fece proprio questo: tagliò dozzine di prodotti e concentrò tutte le risorse su quattro di essi. Fu una sorpresa anche per il consiglio di amministrazione. Il presidente di Apple all‟epoca era Edgar Woolard, amministratore delegato di DuPont, che ricorda: 26 "Restammo a bocca aperta.” Peter Burrows e Ronald Grover, “Steve Jobs' Magic Kingdom”, BusinessWeek, 6 febbraio 2006.
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La stampa specializzata e gli analisti di Wall Street hanno spesso fatto pressioni su Steve perché aumentasse la quota di mercato di Apple, vendendo prodotti di largo consumo o entrando in segmenti di mercato in cui l‟azienda sapeva di non poter essere leader. Steve non ha mai ceduto a quelle pressioni. "Sono orgoglioso di ciò che non facciamo, tanto quanto di ciò che facciamo”, ha ripetuto spesso. Questa frase può essere interpretata in vari modi. Ma io ho sempre pensato che Steve intendesse dire: diamo prova del nostro valore e della nostra visione anche tramite ciò che scegliamo di non fare. Non possiamo accontentare sempre tutti, piacere a tutti, anche se a volte è una tentazione irresistibile e può sembrarci una scorciatoia per diventare ricchi. “La qualità è più importante della quantità, ed è anche un criterio più sensato dal punto di vista finanziario", ha detto Steve a BusinessWeek. E ha aggiunto, con una metafora tratta dal baseball: “Un home run è molto meglio di due doublé.” A mio avviso, Steve riesce a focalizzarsi così bene sul suo lavoro perché ha la spiccata capacità di visualizzare il futuro e un desiderio instancabile di trasformarlo in realtà. L‟altro fattore cruciale è la competizione: ovvero, semplicemente, essere convinti di avere un asso nella manica, un prodotto migliore di quelli della concorrenza. Fin dall‟inizio, Steve ha visto in ogni nuovo prodotto della sua azienda una possibilità di strappare clienti a Windows. Credo che lo Steve Jobs che ho conosciuto tanti anni fa non sarà soddisfatto finché il Mac non controllerà almeno il cinquanta per cento del mercato dei computer.
Costruire l'azienda olistica Per innovare davvero, occorre creare una cultura che sostenga l‟innovazione. “Innovazione" con la I maiuscola è una delle parole più abusate nel mondo aziendale; “avere prodotti innovativi” è linguaggio in codice, che in realtà significa: “far meglio della concorrenza”. Molte aziende comunicano usando la parola innovazione senza essere davvero innovative: non è altro che una strategia di marketing, o un tentativo svogliato e palese di motivare le truppe. Un‟azienda di alto livello imprenditoriale è quella in cui le idee nuove sono la linfa vitale. E come si promuovono le nuove idee in una cultura aziendale di vecchio stampo? Non si può. Non funziona. Le aziende innovative e quelle tradizionali sono due organismi profondamente diversi. Non si può produrre innovazione in un'azienda tradizionale.. Nelle aziende del vecchio tipo, un dipendente presenta la sua idea a un dirigente di livello superiore, che potrà rivendicarne il merito e in certi casi ottenere persino una promozione. Abitualmente, al manager con più anzianità viene assegnata la direzione del progetto, e la persona che ha avuto l‟idea riceve una pacca sulla spalla e niente più. Questa è la deleteria prassi comportamentale nelle aziende tradizionali che operano in maniera gerarchica. Non è che non producano buone idee: le buone idee nascono ovunque ci siano persone che pensano, cioè dappertutto. Ma nelle aziende tradizionali, troppo spesso quelle idee vengono ignorate, accantonate, sviluppate in modo imperfetto o sottratte indebitamente al legittimo proprietario. Al contrario, in un ambiente imprenditoriale che sa ascoltare e premiare le nuove idee, i lavoratori sono motivati a fare del loro meglio e sentono che il futuro dell‟azienda dipende anche da loro. Si compete, in modo non aggressivo, sul terreno delle idee. Si promuovono la competitività e l‟ambizione mostrando di credere che ciascuno possa esprimere la creatività a modo suo: sia che lavori
nell‟amministrazione, che sviluppi prodotti o che cerchi nuovi modi per incentivare i dipendenti. Ma c‟è una regola da rispettare: serve una visione che ciascuno possa far propria, una road map verso l‟infinito. Si devono incoraggiare le idee che sono in linea con la visione e la road map, e poi dare a tutti la possibilità di contribuire al loro sviluppo. Bisogna inoltre saper tollerare gli errori senza penalizzare le persone. Credetemi, fa una pessima impressione vedere che un dipendente che ha avuto una buona idea, un‟idea che l‟azienda ha poi adottato e finanziato, viene retrocesso o addirittura licenziato quando il progetto non va a buon fine. Se invece accade il contrario, tutti recepiscono il messaggio: “Sei libero di essere creativo, di innovare, e non rischi il licenziamento.” Incentivando i dipendenti e le loro idee, si crea un network di intelligence dal basso. I dipendenti porteranno in azienda i nuovi prodotti della concorrenza, appena usciti sul mercato, per esaminarne i punti forti e i difetti, per collaudarli, per usarli... e poi si chiederanno: "Come possiamo creare un prodotto che sia una generazione avanti rispetto a questo?” Nelle aziende tradizionali, ci si concentra sulla produttività e sul profitto, e non c‟è tempo per guardare alle cose da una prospettiva diversa. Almeno, è così per la maggioranza dei dipendenti nella maggior parte delle aziende. E non c‟è molta "impollinazione incrociata”, perché troppe aziende isolano le persone più intelligenti, tenendole lontane dagli altri, in un laboratorio o in un ufficio separato da cui non possano disturbare il “lato business”. I geni eccentrici vengono segregati e si limita la loro influenza sull‟innovazione. In questo modo non si fa che frustrare la creatività, invece di promuoverla in tutta l'azienda. Forse sono un sognatore, ma sono convinto che l‟azienda imprenditoriale rappresenti il futuro, perché sempre più lavoratori richiedono di poter operare in questo tipo di ambiente. L'ho visto accadere nelle mie aziende e altrove: i dipendenti vogliono un ambiente di lavoro più a misura d‟uomo, dove i loro sforzi siano perlomeno apprezzati, dove
possano sentirsi parte di qualcosa di più grande. La nuova generazione di dipendenti, soprattutto quelli con più talento, vuole qualcosa in più di un lavoro d‟ufficio. Vogliono avere un obiettivo.
A scuola di innovazione La storia che ho raccontato a proposito dell‟iMac ci impartisce tre lezioni sull‟innovazione: la prima verte sulla collaborazione, la seconda sul controllo e la terza sull‟ispirazione. I dipendenti Apple parlano sempre di “collaborazione profonda”, "impollinazione incrociata” o “concurrent engineering” (progettazione integrata). Intendono che non ci sono fasi di sviluppo separate, lineari, sequenziali: tutto avviene in modo simultaneo e olistico. Tutti i reparti lavorano contemporaneamente a un prodotto - design, hardware e software - attraverso cicli continui di revisioni interdisciplinari. I prodotti non passano di mano da un team all‟altro. Ciascuno rimane coinvolto in ogni fase del lavoro. Nessuno viene estromesso. Il mondo è pieno di manager che si vantano di non sprecare tempo in lunghe riunioni. Apple invece fa riunioni interminabili, e ne va fiera: "Il metodo convenzionale di sviluppo dei prodotti non funziona quando sei ambizioso come noi”, dice lo straordinario designer Jonathan Ive. "Quando le sfide sono così complesse, devi sviluppare il prodotto in modo più collaborativo e integrato.” La seconda lezione riguarda il controllo. Steve si appellò alla propria autorità per far costruire l‟iMac, ma focalizzarci su questo ci farebbe perdere di vista il modo in cui la sua determinazione ha spianato la strada all‟innovazione. Niente, in un‟azienda, influenza il giudizio quanto una strategia, un approccio o una linea di prodotto che ha già funzionato in precedenza. Il successo può provocare il fallimento, se ci conduce a ripeterci. Troppo spesso non riusciamo a
immaginare un mondo diverso perché guardiamo al nostro mondo alla luce di ciò che ha funzionato in passato. Impegnando Apple nello sviluppo del nuovo prototipo dell‟iMac, Steve aveva lanciato un messaggio preciso: l‟azienda doveva mantenere una mentalità sperimentale e aperta alle novità. Fare le cose in modo nuovo o costruire prodotti diversi, invece di limitarsi a ripetere quanto fatto in passato: spesso è proprio questo atteggiamento a condurre in territori nuovi e inesplorati. La novità può mostrarci un orizzonte inedito, luoghi che non vediamo l‟ora di colonizzare, là dove nasce la creatività. Quando Steve insisteva per costruire quel computer colorato, così simile a un giocattolo, stava abbattendo le barriere che irreggimentano il pensiero. Ma soprattutto, chiedendo ad Apple di sviluppare quel nuovo iMac, Steve stava implicitamente stimolando l‟intera azienda con un incentivo straordinario: stava dicendo che, in Apple, tutto ciò che è immaginabile è anche realizzabile. Per un dipendente di talento, un‟idea del genere è fonte di grande ispirazione. Questa è la terza lezione. Naturalmente, al contempo occorre adottare anche i metodi classici per coinvolgere e gratificare i dipendenti: mostrarsi disponibili, instaurare un rapporto personale con ciascuno e scoprire cosa li motiva. Disporsi all‟ascolto. E apprezzare le loro idee, anche quelle sul packaging o sulla documentazione da allegare ai prodotti. (I piccoli dettagli, come il packaging o i manuali d‟uso, possono influire molto sul successo di un prodotto. Quante volte vi siete trovati a leggere un manuale di istruzioni così complicato che ci avete messo ore per assemblare o imparare a usare il prodotto?) Ma l‟ingrediente principale, se fin dall‟inizio avete assunto i dipendenti giusti, è creare una cultura in cui le loro idee abbiano elevate probabilità di essere tradotte in realtà. Uno degli isotopi più radioattivi nel grande carisma di Steve è aver convinto i collaboratori del suo impegno costante nell‟innovare. È così che si crea una cultura dell‟innovazione.
„Apple è un‟azienda incredibilmente collaborativa”, ha detto Steve alla conferenza All Things Digital nel 2010. "Sapete quante divisioni abbiamo in Apple? Nemmeno una. Siamo strutturati come una startup. Siamo la più grande startup del pianeta. Ogni giorno da mattina a sera incontro i vari gruppi di lavoro e mi confronto sulle idee e sui problemi, per ideare nuovi prodotti.” Al contrario, alcune aziende sono l‟equivalente di una discarica dell‟innovazione: mucchi di spazzatura dove le grandi idee vanno a morire. Al PARC, gli sviluppatori se ne andavano perché le loro idee non si traducevano mai in realtà. I prodotti che ideavano, e di cui andavano fieri, non finivano mai nelle mani degli utenti. Era questo il motivo dell‟alto tasso di turnover al PARC. Mi sono piaciute molto le parole del giornalista Lev Grossman su Time: “Se mescolassimo Microsoft, Dell e Sony in una sola azienda, otterremmo qualcosa di simile alla varietà della biosfera tecnologica di Apple.”
Evangelizzare all'innovazione Il mondo di Steve Jobs non è diviso in due fazioni, i creativi che hanno idee brillanti e i tecnici o gli artigiani che le trasformano in prodotti funzionanti. Non è così che lavora Steve. Il suo metodo di lavoro non si è evoluto nel tempo: Steve ha sempre saputo intuitivamente che se si mette insieme un gruppo di persone creative, si crea un team con la forza propulsiva necessaria a trasformare i sogni in prodotti veri. Nel mondo di Steve, rinnovazione è un lavoro di squadra. Fu una sorpresa per me, che in IBM avevo visto il lato oscuro, il lato deprimente dell'innovazione. Big Blue aveva alcuni degli scienziati e degli ingegneri più creativi al mondo: interi laboratori pieni di persone straordinarie, talenti ineguagliati. Stentavo a capacitarmene. Perché, allora, lo trovavo anche deprimente? Ecco perché: tutte quelle persone così creative avevano un'idea fenomenale dopo l‟altra, per creare nuovi prodotti e per migliorare i prodotti esistenti, e quasi nessuna di quelle idee avrebbe mai visto la luce. Naturalmente, IBM non rappresentava un‟eccezione in quel mondo di sordomuti. Kodak, che era una delle aziende leader nel settore della fotografia, ha continuato a fare ciò che le riusciva così bene... ed è rimasta indietro nell‟era della fotografia digitale e dell‟elaborazione digitale delle immagini. Se fosse dipeso da loro, oggi saremmo ancora a consegnare i rullini di pellicola in negozio dopo una vacanza o una laurea Steve ha sempre saputo che l‟innovazione non è soltanto uno sport di squadra, ma va evangelizzata: sia dentro l‟azienda, sia al di fuori. I collaboratori esterni devono lavorare in sinergia con il team. Il team Mac l‟ha fatto fin dall‟inizio: un gruppo di "evangelist” andava a parlare con le varie case
produttrici di software per convincerle a creare applicazioni per il Mac.
La teoria del prodotto totale Da sempre Steve adotta una filosofia che è un‟estensione dell‟idea di sviluppo olistico del prodotto, e che io definisco “teoria del prodotto totale”: per creare prodotti validi in ambito tecnologico - prodotti che funzionano bene e soddisfano le attese - hardware e software devono essere realizzati dalla stessa azienda. Ne discussi a lungo con Steve; la mia idea era che avremmo dovuto limitarci a vendere il software, come faceva Microsoft: così avremmo avuto un prodotto migliore e avremmo controllato il mercato delle applicazioni. Lui mi convinse che sbagliavo, e lo fece non solo con argomentazioni ragionevoli ma, negli anni, attraverso il successo dei prodotti Apple, che metteva in luce i difetti dei prodotti concorrenti. Per ottenere le prestazioni migliori dal software, devi poter controllare l‟intero sistema, hardware compreso. Il principio non vale solo per le aziende che vendono tecnologia: se Steve producesse materassi, non si limiterebbe a progettare la struttura per poi comprare le molle da chi gli offre il prezzo più basso. Se Microsoft avesse potuto supervisionare la produzione dell'hardware, oggi Windows sarebbe decisamente migliore. Ma poiché Microsoft non si confronta con i problemi dello sviluppo hardware, semplicemente non riesce a capire cosa serve per far funzionare in armonia software e hardware. Non a caso, ogni versione di Windows presenta malfunzionamenti fastidiosi e snervanti. E con i prodotti di elettronica di consumo è andata ancora peggio: Microsoft ha sfornato un prodotto dopo l'altro, e tutti hanno fallito miseramente. A metà del 2010 hanno ritirato dal mercato il nuovo cellulare, il Kin, uscito da appena due mesi: un fiasco su cui i giornalisti hanno ironizzato parecchio. Poco tempo dopo, quelli di Redmond ci hanno riprovato, stavolta con un approccio diverso. Il nuovo
telefono, battezzato Windows Phone 7, ha ricevuto una pessima accoglienza dal New York Times, in un articolo intitolato: "Un telefono promettente, non privo di difetti”. L‟articolo lamentava che anche il nome fosse fuorviante: "Non è Windows. Non somiglia a Windows e non funziona come Windows, non usa software Windows, non richiede neppure un PC che giri sotto Windows. Ci sono sprazzi di genio, ma manca una serie imbarazzante di funzionalità che nell‟iPhone e in Android sono di serie.” 27 Gli sviluppatori che scrivono software destinato a prodotti di altre aziende puntano a ottenere l‟accordo più redditizio per la propria azienda, non a costruire prodotti migliori per il consumatore. Immaginate di essere il responsabile dello sviluppo prodotti di Motorola: avete convocato una riunione con Microsoft per parlare del vostro prodotto, Droid, e della road map per costruire smartphone con sistema operativo Windows Mobile. La riunione va a meraviglia: le presentazioni sono professionali e alla fine Microsoft parla di “un approccio molto aggressivo ai diritti di licenza” per Windows Mobile: sono disposti a concedere uno sconto del venti per cento sulla licenza per singolo dispositivo. In seguito alla riunione con Microsoft, incontrate i dirigenti di Google per valutare la possibilità di equipaggiare i vostri telefoni con il sistema operativo Android. Anche qui la presentazione va a gonfie vele ed è molto professionale. Entrambe le aziende hanno sviluppatori software molto bravi. Ma poi succede qualcosa di strano, quando si inizia a parlare di soldi: i tizi di Android spiegano che non richiederanno alcun diritto di licenza, trattandosi di un ambiente di sviluppo open source. Anzi, non vi chiedono un centesimo per installare Android sui vostri telefoni. Un ottimo affare, pensate voi; a patto però che il software funzioni bene, altrimenti è inutile che sia gratis. Molti utenti del Droid sono frustrati dai malfunzionamenti continui che affliggono i loro telefoni. Conosco una coppia David Pogue, “A Phone of Promise, with Flaws”, New York Times, 27 ottobre 2010.
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di gemelli che hanno acquistato due Motorola Droid; in due hanno avuto un totale di otto telefoni: Motorola li rimpiazza continuamente perché non funzionano a dovere. Nessun intervento risolve il problema, neppure reinizializzare il telefono. Di chi è la colpa, di Motorola o di Google? Il consumatore non può saperlo. Per gli utenti di iPhone è fastidioso che ogni tanto cada la linea, ma quel malfunzionamento è colpa del gestore telefonico, AT&T. I problemi come quelli di Droid, in cui l'apparecchio non funziona come dovrebbe, sull'i Phone sono rari. È vero, all‟inizio l‟iPhone 4 aveva un problema con l‟antenna, e a mio avviso i motivi sono due. In quel periodo Steve, per via dei suoi problemi di salute, passava più tempo con la famiglia e aveva delegato in parte a luogotenenti fidati la straordinaria cura per i dettagli che in passato gravava interamente sulle sue spalle. In secondo luogo: quando tutti ti dicono che sei il numero uno, devi comportarti da numero uno. I media si aspettano una comunicazione in tempo reale e, quando Apple non si è assunta immediatamente la responsabilità del problema, i media le sono saltati alla gola. Una fonte interna mi riferisce che appena i giornali e il web hanno iniziato a parlare del problema dell‟antenna, Steve ha telefonato al vicepresidente responsabile dell‟iPhone e gli ha trasmesso un messaggio conciso: "Non è così che lavoriamo in Apple." A quanto ho capito, quel vicepresidente non lavora più in Apple.
Guardarsi intorno In Apple, l‟espressione "prodotto totale" non significa semplicemente costruire l'intero apparecchio, ma riguarda l‟esperienza d‟uso nel suo complesso. L‟obiettivo è progettare il device in modo che si adatti naturalmente allo stile di vita, al modo in cui la gente è abituata a usare le cose: non dev‟essere l‟utente ad adeguarsi al prodotto. L‟obiettivo è dare all‟utente la piacevole sensazione di un prodotto semplice e intuitivo da usare.
Nel 2000 Apple incontrò una difficoltà nel suo approccio al prodotto totale. Nessun‟azienda può fare tutto da sola, soprattutto se versa in cattive acque finanziarie, e una pagina del libro mastro di Apple continuava ad apparire preoccupante: la quota di mercato del Macintosh era ancora inferiore al tre per cento. Steve era alla disperata ricerca di applicazioni irrinunciabili che potessero convincere gli utenti Windows a passare al Mac. Era naturale che a Steve, una persona così amante della musica, venisse l‟idea di offrire un pacchetto software musicale di qualità superiore, che consentisse di tener traccia dei propri brani e di ritrovarli quando li si cercava. Fin dai tempi dell‟accordo con Canon per la LaserWriter, Steve si era convinto che alcuni prodotti possono essere interamente sviluppati all‟interno dell‟azienda, ma per altri occorre guardarsi intorno e vedere cosa è già disponibile sul mercato. Era già in commercio un software molto valido per la gestione della musica in formato MP3: Soundjam MP, sviluppato da Casady and Greene (C&G), una piccola azienda della Silicon Valley che aveva prodotto anche vari giochi per il Mac. Il programmatore capo di Soundjam, Jeff Robbin, era un ex dipendente Apple. Soundjam MP aveva avuto molto successo, e controllava il novanta per cento del mercato. Apple contattò C&G proponendo di acquistare i diritti di Soundjam. Per contratto, Jeff Robbin fu riassunto in Apple e gli fu affidata la creazione di una nuova interfaccia. La versione Apple del software, presentata al Macworld nel gennaio 2001 con il nome di "iTunes”, divenne subito popolarissima... ma pochi avrebbero potuto immaginare la rivoluzione che avrebbe scatenato nelle abitudini di consumo: pochi, a parte Steve Jobs e il suo team di iTunes. All‟epoca, iTunes sembrava un software stand-alone, ma oggi sappiamo che era solo la prima tappa di una strategia più ampia.
Decisioni
sul
prodotto
Steve aveva seguito con attenzione il lavoro svolto alla Carnegie Mellon University su un software avanzato, il kernel Mach (il kernel è il componente centrale di un sistema operativo). Steve ne sapeva abbastanza per accorgersi che quel pacchetto era forse il miglior software disponibile su cui costruire un sistema operativo di nuova generazione per i personal computer; prima di lasciare Apple, aveva ordinato l'acquisto di un supercomputer Cray per avviare lo sviluppo di un sistema operativo basato sul kernel Mach. (Si era anche creata un po' di tensione: Steve aveva l‟autorizzazione a spendere fino a dieci milioni di dollari, e il Cray ne costava una dozzina.) Non riuscì a lavorare sul kernel Mach in Apple, ma decise di farne la base del sistema operativo per il nuovo computer che avrebbe costruito in NeXT. Andò a cercare uno dei principali sviluppatori del Mach alla Carnegie Mellon, Avadis Tevanian Jr. Avie - che aveva una laurea in matematica e un dottorato in informatica, e che lavorava al kernel Mach fin dai tempi dell‟università - accettò di trasferirsi nella Silicon Valley per lavorare in NeXT. Avie aveva l‟intelligenza, l‟esperienza, la motiva-zione e l‟entusiasmo che Steve cercava. La collaborazione si dimostrò fruttuosa per entrambi. Avie fu il principale sviluppatore del sistema operativo NeXTStep (basato ovviamente sul kernel Mach); quel software sarebbe stato il vero punto di svolta per NeXT e per Steve. In seguito, Avie avrebbe raggiunto Steve in Apple, sovrintendendo allo sviluppo di un sistema operativo di nuova generazione per il Macintosh, OS X. All‟epoca, nessuno - neppure Steve o Avie - poteva immaginare che una versione semplificata di OS X avrebbe reso possibile il telefono cellulare più user friendly e più avanzato del mondo. Ogni anno, gli ingegneri e i leader dei team di prodotto di Steve valutavano centinaia di idee, parecchie delle quali sembravano brillanti. Ma per il momento vorrei concentrarmi su un‟idea in particolare, e su come Steve è arrivato a decidere: "Questa è l‟idea giusta per noi.‟‟ team Apple si tengono sempre aggiornati sugli ultimi sviluppi delle tecnologie, e sono pronti ad agire non appena
diventa possibile costruire qualcosa di innovativo. Dopo l‟uscita di iTunes, era naturale che Steve, Ruby e i suoi team iniziassero a immaginare un lettore MP3 portatile che fosse eccitante e rivoluzionario quanto il Macintosh originale. Ma le tecnologie necessarie allo sviluppo ancora non esistevano. Abbiamo già visto come Steve, dopo essere diventato amministratore ad interim, avesse dismesso gran parte dei prodotti Apple. Fra quelli cassati c‟era il rivoluzionario palmare Newton, che Steve abbandonò perché aveva capito che non era un prodotto di punta. Ma qualche anno dopo, quando Apple venne a trovarsi in una posizione finanziaria più solida, il panorama era cambiato: il mercato dei palmari era in forte crescita. Le vendite dei lettori di musica erano in stallo; i palmari sembravano un mercato più promettente rispetto ai lettori. Ma ben prima che decollasse il mercato degli smartphone, Steve intuì che i cellulari avrebbero potuto integrare tutte le funzionalità dei palmari. Era sempre più convinto che il mercato dei palmari sarebbe presto andato in stallo, dunque spostò lo sguardo altrove. Guardandosi intorno in cerca del prossimo prodotto da creare, Steve e John Rubinstein videro molta innovazione e creatività nel design delle fotocamere e videocamere digitali, nei lettori di musica e nei cellulari. Al solo scopo di sondare le acque, Ruby mise al lavoro alcuni team per valutare l‟hardware e il software che le varie aziende usavano per quegli apparecchi. Scoprì che le macchine fotografiche e le videocamere avevano un software accettabile, ma per quanto riguardava i lettori musicali: “Quel che c‟era sul mercato era terribile: apparecchi massicci e pesanti, e le interfacce utente erano orribili”, come ha raccontato Ruby al Cornell Engineering Magazine.28 Nel frattempo, Steve si stava rendendo conto delle grandi prospettive che poteva offrire il mercato dei lettori musicali. Per giunta, la competizione non appariva molto aggressiva, e il mercato sembrava maturo per l‟introduzione di un prodotto che rivoluzionasse l‟esperienza utente. Ken Aaron, "Behind thè Music”, Cornell Engineering Magazine, autunno 2005. 28
A volte può capitare che alcuni gap tecnologici - uno o due elementi cruciali che non raggiungono gli standard di qualità di Apple - impediscano di trasformare un‟idea in un progetto concreto di sviluppo. Ma quella volta, tutti gli astri erano allineati alla perfezione. Qualche tempo prima, Ruby era andato in visita alla sede di Toshiba in Giappone, per discutere dei dischi fissi che l‟azienda costruiva per vari prodotti Apple; a un certo punto qualcuno aveva menzionato un prodotto in fase di sviluppo, un minuscolo hard drive da 1,8 pollici, per il quale però non avevano ancora trovato un mercato. Rubinstein-san pensava forse di potergli trovare un utilizzo? Quel disco minuscolo, spiegarono a Ruby, poteva contenere cinque gigabyte di dati. Per l‟epoca era una capienza sterminata. Apple siglò un accordo di esclusiva con Toshiba per quel disco rigido. Erano già in commercio batterie miniaturizzate che avrebbero finalmente permesso di non essere costretti a connettere il device alla rete elettrica dopo poche canzoni e garantito un‟autonomia interessante al lettore. E poi c‟era un altro elemento decisivo: un‟in-novazione tecnologica che sembrava marginale, ma che sarebbe tornata utilissima. Con i lettori esistenti, ci volevano ore per scaricare tutta la propria libreria musicale; ma la nuova tecnologia FireWire, che Apple aveva contribuito a sviluppare, rendeva possibile un download completo in pochi minuti. Insieme, questi elementi avrebbero trasformato in realtà l‟idea di realizzare un iPod snello ed elegante. le competenze acquisite da Apple nel ramo del software permettevano di creare un lettore di qualità impareggiabile. E poi, l‟azienda era all'avanguardia nel design industriale e nella miniaturizzazione. “E così”, racconta Ruby, "Steve mi chiese di progettare un lettore di musica." Immaginate di lavorare su un prodotto così straordinario che i membri del team di sviluppo non vedono l‟ora di terminarlo per portarsene uno a casa. È così che andò con l‟apparecchio che poi sarebbe stato chiamato iPod. L‟idea di
portarsi in giro gran parte della propria collezione di dischi era assolutamente irresistibile. Nelle parole di Jonathan Ive: “Come tutti i colleghi, anch‟io mi impegnai a fondo nel lavoro, non tanto perché fosse difficile - e lo era - ma perché volevo uno di quei lettori.” 29 E aggiunge: “Non ricordo di aver mai desiderato tanto un prodotto come all‟epoca dell‟iPod.”30 Ma Steve aveva sentenziato che l‟iPod doveva essere pronto per il lancio a Natale del 2001: solo dieci mesi, una scadenza ravvicinatissima. La difficoltà principale nella progettazione dell‟iPod era riuscire a garantire prestazioni eccellenti per un lettore non più grande di un pacchetto di sigarette. Il progetto di massima fu pronto in poco tempo, ma a quel punto Apple aveva bisogno d‟aiuto per il design. Un membro del team, che seguì da vicino la nascita dell‟iPod, ricorda che Ruby fece un giro di telefonate: uno dei candidati era già impegnato in un altro progetto, ma suggerì a Ruby di rivolgersi a Tony Fadell. Ruby fece qualche telefonata, rintracciò Tony, che era in settimana bianca, e lo convocò per un colloquio. In seguito Tony avrebbe dichiarato che Ruby si era rifiutato di dirgli a cosa voleva farlo lavorare, ma che inizialmente l‟aveva assunto come consulente. Come per tutti i progetti Apple, anche stavolta Steve, Ruby, Jeff Robbins e Phil Schiller fecero lunghe sedute di brainstorming per mettere insieme i vari pezzi. Ma naturalmente Steve non se ne stava nel suo ufficio ad aspettare che il team arrivasse a presentargli il prodotto finito: come potete immaginare, in base a ciò che avete letto fin qui sul suo conto, il suo coinvolgimento nello sviluppo dell‟iPod fu ravvicinato e costante. Comprendeva istintivamente le esigenze del marketing e, quindi, richiese un design accattivante. E come sempre, pose l‟accento sull'usabilità. Si lamentava se doveva premere tre volte un tasto per trovare la canzone che voleva, andava su tutte le furie se il menu non si Brent Schlender, “Apple‟s 21st-Century Walkman CEO Steve Jobs Thinks He Has Something Pretty Nifty. And If He‟s Right, He Might Even Spook Sony and Matsu shita”, Fortune, 12 novembre 2001. 30 Mike Harris, Fini/ YourLightbulb, Capstone, Mankato, 2008, p. 60. 29
visualizzava abbastanza in fretta, si inalberava se la qualità audio non era straordinaria. Il lavoro procedeva secondo le tempistiche, ma nell‟ultima fase dello sviluppo ci si accorse di un difetto potenzialmente disastroso. Il lettore consumava energia anche da spento: aveva un‟autonomia di tre ore. La scoperta avvenne quando il circuito elettronico era ormai completo e stava per entrare in produzione. Ci vollero settimane per risolvere il problema. Uno dei fornitori esterni ricorda: “Per due mesi in Apple pensarono di avere un lettore MP3 con tre 31 ore di autonomia.‟‟
Imprevisti e tempistiche Una serie di eventi esterni mise a repentaglio l‟imminente lancio dell‟iPod. Alla fine di ottobre, Intel annunciò di voler uscire dal mercato dell‟elettronica di consumo: Intel, un‟azienda rinomata per la bravura dei suoi ingegneri e del suo ufficio marketing, ora ammetteva di non riuscire a fare soldi in quel mercato. E uno dei prodotti che aveva cercato di vendere era un lettore MP3 portatile. Nel frattempo si erano profilate altre grane legali ed economiche. La “bolla delle dot-com” era scoppiata, lasciando il settore high-tech nelle macerie delle tante aziende fallite e con un esercito di sviluppatori senza più un lavoro. Come non bastasse, i tribunali erano congestionati da processi per violazione del copyright sulla musica e royalty non pagate. E, quel che è peggio, era il 2001. I tragici attacchi terroristici dell‟11 settembre si svolsero solo un mese prima della data prevista per l‟uscita dell‟iPod. Gli Americani erano sconcertati, disgustati e spaventati all‟idea delle possibili conseguenze di quell‟evento: una nazione già in lutto viveva nel terrore di altri attacchi.
Leander Kahney, "Inside Look at Birth of thè iPod”, Wired, 21 luglio 2004. http://www.wired.com/gadgets/mac/news/2004/07/64286. 31
Tutto era pronto per il lancio in grande stile dell‟iPod, e Steve doveva decidere se procedere come previsto con il debutto del suo piccolo e sofisticato lettore musicale. E poiché nulla scalda il cuore come l‟annuncio di una nascita, Steve Jobs si attenne ai suoi piani anche mentre il mondo intorno a lui andava in pezzi.
Diventa evangelista del tuo prodotto Come da tradizione, il 23 ottobre Steve salì sul palco al quartier generale Apple di fronte a un pubblico selezionatissimo e presentò al mondo la sua nuova, splendida creatura: l‟iPod, una tecnologia agile quanto il tip tap di Fred Astaire. Ben presto, Steve e i suoi collaboratori avrebbero visto clienti di tutto il mondo battere i piedi al ritmo di quegli inconfondibili e così esclusivi auricolari bianchi. Steve Jobs aveva condotto i suoi team a fissare un nuovo standard per l‟innovazione, e aveva evangelizzato l‟intero team del Prodotto Totale: non solo i dipendenti ma anche i collaboratori esterni. Ormai lo conoscevo bene, ma le sue performance durante il lancio dei prodotti mi facevano sempre pensare al film II figlio di Giuda, con Burt Lancaster nel ruolo di un predicatore bigotto, deciso a entusiasmare i fedeli e convertire gli scettici. Steve Jobs, che meglio di chiunque altro sa entusiasmare i fedeli di Apple e convertire ogni scettico, è il product evangelist per eccellenza.
Ampliare il raggio della persuasione Quando le circostanze lo richiedono, Steve sa essere uno showman- evangelista anche in gruppi ristretti o a tu per tu. I suoi negoziati con i grandi magnati della musica, che hanno reso possibile l‟iTunes Music Store, costituiscono un altro case study su come evangelizzare all‟innovazione e promuovere l‟esperienza del Prodotto Totale. La completa identificazione di Steve con il cliente gli consentiva di vedere ogni aspetto dell‟iTunes Music Store - dalla creazione alle vendite, all‟utilizzo, al piacere che dava ogni giorno ai clienti - come parte di un sistema globale. All‟epoca, i profitti del settore musicale erano in picchiata: un allarmante meno 8,2 per cento nel solo 2002. Le cinque principali case discografiche e la loro associazione di settore, la Recording Industry Association of America (RIAA), incolpavano di quel declino la pirateria, resa possibile da Napster e software analoghi. La RIAA andò in tribunale e fece chiudere Napster, ma altri servizi di file sharing come KaZaA, che operavano su un modello distribuito senza un server centrale, si dimostrarono più difficili da sradicare. Le azioni legali intentate dalla RIAA contro individui e organizzazioni si dimostrarono inoltre un disastro in termini di pubbliche relazioni: non fecero che rendere invise le case discografiche agli ascoltatori, ovvero i loro clienti. Nel frattempo, le case discografiche tentavano di creare piattaforme proprietarie per la distribuzione Online della musica. Tre delle cinque major - Time Warner, Emi e Bertlesmann - lanciarono l‟iniziativa Music Net, mentre le altre due, Sony e Universal, idearono il competitivo sistema Pressplay. Ciascuno dei due gruppi oppose un assurdo rifiuto all‟idea di ospitare la musica dei concorrenti sul proprio network. E commisero un altro errore marchiano: richiesero abbonamenti mensili per cui, di fatto, i clienti non diventavano mai proprietari della musica per cui pagavano.
Chi disdiceva l‟abbonamento non poteva più ascoltare la musica acquistata e scaricata sul suo computer! Trasferire la musica su lettori MP3 portatili non era visto di buon occhio: all‟inizio MusicNet non lo permetteva, e le policy restrittive di Pressplay non erano molto migliori. Quando i due sistemi in competizione decisero di collaborare, era ormai troppo tardi. Le restrizioni sul download furono mitigate, ma non abbastanza; e i fan erano più scoraggiati che mai. L‟industria discografica stava commettendo il peggior errore possibile: ignorare le esigenze del cliente. Quella gente vi avrebbe riso in faccia, se aveste detto che l‟uomo in procinto di salvarli veniva dal mondo dell‟hightech. Dopotutto, i computer e il web erano i nemici che li stavano mandando in rovina. Qualsiasi altro guru tecnologico non sarebbe probabilmente riuscito a superare quella resistenza; ma Steve era Steve, ed essendo Steve non solo aveva ragione, ma era anche tenace. Lui e i suoi collaboratori in Apple insistevano che il problema della pirateria musicale era in sostanza un problema comportamentale, non tecnologico, come ritenevano invece le case discografiche. Non era colpa della tecnologia, ma di come le persone la usavano. Inoltre, la tecnologia non fa passi indietro, e illudersi di tenerla sotto controllo era peggio che un pio desiderio: era un atteggiamento pericoloso. Come scrisse il reporter di BusinessWeek Alex Salkever in un articolo dell‟aprile 2003: "Per tutto questo tempo Steve ha puntato a semplificare l‟acquisto di musica online, anziché sforzarsi di mettere i bastoni tra le ruote alla pirateria.” 32 Una sentenza della corte federale del 2003, secondo cui i servizi peer-to-peer per la condivisione dei file avevano usi legittimi distinti dalla pirateria musicale, sembrò confermare l‟idea di Steve che il problema fosse comportamentale e non tecnologico. Alex Salkever, "Steve Jobs, Pied Piper of Online Music”, BusinessWeek, 30aprile2003. http://www.businessweek.com/technology/content/apr2003/tc2003043 0_9569_ tc056.htm. 32
Molto semplicemente, Steve vedeva che cercare di schiacciare il "nemico” - tutte le persone che scaricavano musica illegalmente era inutile, era una perdita di tempo, un tentativo destinato a fallire, e che probabilmente avrebbe condannato all‟implosione l‟industria musicale. Anche le argomentazioni più ragionevoli non erano finora riuscite a scalfire l‟ostilità delle case discografiche. Non c‟era dubbio che la nuova tecnologia fosse dirompente: aveva stravolto ogni modello di business dell‟industria musicale. Steve disse alle major che sopravvivere era possibile, ma solo a patto di restare aperti alle nuove opportunità. Niente rimane uguale a se stesso nel mondo del business, e l‟unico modo per rispondere all‟innovazione è con altra innovazione. Steve non si lasciò demoralizzare dalla consapevolezza di non trovarsi in una posizione di forza: a quel punto, Apple controllava ancora solo il tre per cento del mercato. Come commentò con franchezza Hilary Rosen, che all‟epoca era a capo della RIAA: „Apple aveva una quota di mercato così ristretta che le major rischiavano davvero poco.” L‟esperienza aveva insegnato alle grandi case discografiche che gli imprenditori del settore tecnologico capivano ben poco dell‟industria musicale, della sua struttura e delle sue basi finanziarie. Ma Steve era diverso: aveva studiato, e ne sapeva quanto un insider grazie al suo intuito fenomenale. Un altro vantaggio era che Steve poteva prendere il telefono e parlare con star del calibro di Bono e Mick Jagger. Alla fine, cosa decretò la sua vittoria? Secondo la Rosen, l‟accordo di settore fu il frutto “dell‟incrollabile forza di volontà di Steve. Il suo carisma e la sua energia hanno fatto la differenza”. 33 Si racconta che un certo dirigente di EMI per settimane non riuscì a smettere di ripetere quanto Steve fosse straordinario.
33 Jeflrey Young e William L. Simon, iCon: Steve Jobs - The Greatest Second Act in thè History of Business, John Wiley & Sons, Hoboken 2005.
Quando le acque si furono calmate, si vide che Steve era riuscito nell‟impresa in cui le cinque major avevano fallito anche unendo le forze: le aveva messe d‟accordo. Steve avrebbe venduto tutta la loro musica attraverso il nuovo iTunes Music Store. Le "Big Five" si tutelarono anche limitando a un anno la durata dell'accordo, con la possibilità di un rinnovo. Le case discografiche sentivano di avere qualcosa in comune con Steve: un uomo d‟affari ossessionato dal design e dallo stile, un manager ancora giovane, una rara combinazione di competenze tecnologiche, amore per la musica e conoscenza approfondita dell‟industria discografica. Naturalmente, l‟iTunes Music Store ebbe un tale successo che a nessuno dei discografici passò per la testa di non rinnovare l‟accordo: alla fine del primo anno erano tutti pronti con la penna in mano.
Come diventare del vostro prodotto
evangelist
Steve Jobs non ha brevettato l‟idea dell‟innovation evangelist, ma in questo come in altri campi rappresenta un modello per tutti noi. Nel mio lavoro mi sforzo sempre di ragionare nei termini del Prodotto Totale, di restare aperto a tutte le potenziali fonti di nuove idee, dentro e fuori dalla mia azienda. Mi considero un evangelist del mio prodotto, e cerco di mantenere un atteggiamento positivo di fronte a ogni suggerimento che possa migliorarlo: ogni idea ha diritto di essere presa in considerazione, di non essere scartata a priori. Come me, anche voi farete bene a restare aperti a ogni input, e non solo da parte dei vostri dipendenti; a non dimenticarvi che siete l‟evangelist del vostro prodotto, anche nei riguardi di conoscenti, gente esterna al vostro settore e persone di cui mai pensereste che potrebbero diventare vostri clienti. Io predico le mie idee a tutti, e ho ricevuto ottimi spunti da perfetti estranei o quasi.
Il criterio da seguire, al momento di apportare migliorie a un prodotto, è: “Sarà di aiuto all‟acquirente?” E il modo migliore per rispondere è porsi un‟altra domanda: “Questa funzionalità mi sarà utile, vorrò usarla personalmente?” Se la risposta è no, allora quella funzionalità è superflua. Come Steve, anch‟io comprendo molto meglio un‟idea quando mi viene presentata in modo visuale. Dico ai miei collaboratori: "Portatemi le vostre idee sotto forma di modelli grafici o di prototipi, o fatemi vedere una demo sul computer. Se vi limitate a spiegarmi come funziona o a consegnarmi una proposta scritta, dovrò cercare di immaginare quello che vi passa per la mente. Se possibile, ho bisogno di vedere le vostre idee.” Nella fase di progettazione dei nuovi prodotti, mi sforzo sempre di pensare anzitutto in termini di sviluppo interno all‟azienda, nei termini cioè del Prodotto Totale. E quando non è possibile - quando ci sono validi motivi per acquistare alcuni elementi da fornitori esterni Ma devo comunque accertarmi che il prodotto funzionerà bene come se lo avessimo costruito interamente noi. Posso accettare l‟uso di tecnologie di terze parti, a patto che il prodotto totale funzioni come previsto.
PARTE IV Diventare Cool: un nuovo approccio alle vendite
L'apripista: il branding
Steve Jobs e Steve Wozniak fondarono Apple nel solco della nobile tradizione della Silicon Valley, fin dai tempi dei fondatori di HP Bill Hewlett e Dave Packard: due ragazzi in un garage. E nei primi tempi di quel sodalizio nato in garage si situa un episodio che sarebbe passato alla storia della Silicon Valley: un giorno Steve Jobs vide una pubblicità di Intel che usava immagini familiari a tutti, come gli hamburger e i gettoni per il poker. Niente termini tecnici e niente simboli. Steve restò così impressionato da quell'approccio che decise di rintracciare l'ideatore di quella pubblicità. Voleva che quel mago operasse lo stesso incantesimo sul marchio Apple, ancora poco conosciuto. Steve telefonò in Intel e chiese chi si occupava della pubblicità e delle pubbliche relazioni. Scoprì che la mente dietro le inserzioni era un uomo di nome Regis McKenna. Allora chiamò la segretaria di McKenna per farsi fissare un appuntamento, ma incassò un rifiuto. Continuò a telefonare quattro volte al giorno, ogni santo giorno. Alla fine la segretaria scongiurò il suo capo di fissare una riunione, solo per liberarsi di Steve. Steve e Woz andarono nell‟ufficio di McKenna a perorare la loro causa. McKenna li ascoltò garbatamente e li informò
che non era interessato. Steve non fece una piega: continuò a ripetere a McKenna che Apple sarebbe diventata un gigante dell‟informatica, al pari di Intel. McKenna era troppo beneducato per cacciarlo in malo modo, e alla fine la tenacia di Steve fu premiata: McKenna accettò di prendere Apple come cliente. Be‟, è una bella storia, ed è stata raccontata in vari libri, però non è andata proprio così. Come racconta Regis, all‟inizio della sua carriera le pubblicità nel settore tecnologico sciorinavano le specifiche tecniche dei prodotti. Quando iniziò a lavorare per Intel, riuscì a convincerli a creare pubblicità "colorate e divertenti". Il colpo di genio era stato assoldare "un direttore creativo proveniente dal settore dei generi di consumo, che non conosceva la differenza tra un microchip e un sacchetto di patatine”, e che, quindi, nelle campagne puntava soprattutto all‟impatto visivo; ma per Regis non era sempre facile persuadere i clienti della validità di questo approccio: “Ci volle parecchio per convincere Andy Grove e gli altri di Intel.” Era il genere di creatività che Steve Jobs stava cercando. In quella prima riunione, Woz mostrò a Regis un suo progetto di campagna: era pieno di paroloni tecnici, e “Woz era restio a lasciarsi „riscrivere‟ i testi da altri”; così, Regis disse che non pensava di poterli aiutare. Ma Steve, come sempre, sapeva quel che voleva e rifiutava di arrendersi. Telefonò per fissare un altro appuntamento, stavolta senza dirlo a Woz. Al loro secondo incontro, Regis si fece un‟impressione diversa di Steve, e ne ha parlato spesso negli anni successivi: “Ripeto sovente che le uniche persone davvero visionarie che ho mai incontrato nella Silicon Valley sono Bob Noyce [di Intel] e Steve Jobs. Jobs attribuisce gran parte del merito a Woz, il genio dell‟ingegneria, ma è stato Jobs a conquistare la fiducia degli investitori e a portare avanti con costanza la visione di Apple.” Al termine di quel secondo incontro, Apple era cliente di Regis. “Steve era, ed è ancora, una persona molto tenace,
quando vuole ottenere qualcosa. A volte le riunioni con lui erano interminabili”, racconta Regis. (Una nota a margine: per raccogliere fondi, Regis mandò Steve a parlare con il venture capitalist , Don Valentine, che all‟epoca era socio accomandatario di Sequoia Ventures. "In seguito Don mi telefonò”, ricorda Regis, "e mi chiese: 'Perché mi mandi questi rinnegati della razza umana?‟”. Ma alla fine Steve conquistò anche lui. Valentine non voleva investire nei "rinnegati”, e li scaricò su Mike Markkula, che avviò l‟azienda con un investimento di tasca sua, diventando socio paritario con i due Steve. Inoltre Markkula procurò loro i primi finanziamenti importanti, tramite il banchiere d‟affari Arthur Rock e, in seguito, come abbiamo visto, fu amministratore delegato ad interim.) Per me, l‟aspetto più interessante di questa storia - Steve che va a cercare Regis e lo convince a lavorare per Apple - è la chiarezza con cui Steve, un ragazzo che probabilmente aveva meno esperienza dei lettori di questo libro, comprese l‟importanza del branding. Nessuna laurea o dottorato in economia aziendale, nessun mentore-manager da cui potesse aver imparato: eppure Steve intuì fin dall‟inizio che Apple poteva avere successo solo se fosse diventata un brand familiare ai consumatori. La maggior parte degli imprenditori che conosco non ha ancora afferrato questo principio basilare.
Steve e l'arte del branding Non fu difficile trovare l‟agenzia pubblicitaria che insieme a Regis avrebbe fatto di Apple un vero brand, un nome noto a tutti. L‟agenzia Chiat/Day, fondata nel 1968, realizzava le pubblicità più creative che si fossero mai viste. La giornalista Christy Marshall l‟ha descritta splendidamente in questi termini: "Un luogo in cui il successo partorisce l‟arroganza, dove l'entusiasmo sfocia nel fanatismo, e dove l'impegno somiglia pericolosamente alla nevrosi. È inoltre una spina nel fianco delle agenzie blasonate di Madison Avenue, che deridono le sue campagne fantasiose e spesso incantevoli,
definendole irresponsabili e inefficaci, e poi le imitano.” 34 (Fu l‟agenzia Chiat/Day a produrre lo spot “1984” per Apple, e la descrizione della giornalista ci dà più di un indizio sul perché Steve abbia scelto proprio loro.) A chiunque voglia pubblicità intelligenti e innovative per il suo prodotto, e abbia il coraggio di rischiare con un approccio schietto e mirato, questa descrizione offre un elenco utile delle qualità da ricercare in un‟agenzia. L‟uomo che ideò “1984”, il pubblicitario della Chiat/Day Lee Clow (oggi a capo del conglomerato pubblicitario TBWA), spiega come vanno trattate le persone creative: "Un creativo è per il cinquanta per cento egocentrismo, e per l‟altro cinquanta insicurezza. Devi ripetergli costantemente che è bravo e che gli vuoi bene.” 35 Quando Steve trova una persona o un‟azienda che risponde ai suoi requisiti severi, poi le resta fedele. Lee Clow spiega che è normale per le grandi aziende cambiare agenzia pubblicitaria di punto in bianco, anche dopo anni di campagne fortunatissime. Ma con Apple, dice, la situazione era molto diversa. È stato "un rapporto molto personale fin dal primo giorno”. Apple ha sempre detto: “Se noi abbiamo successo, voi avete successo... Se noi guadagniamo molto, guadagnerete molto anche voi.” E ci perderete come clienti solo se andiamo in bancarotta. Fin dall‟inizio, Steve Jobs ha sempre dimostrato lealtà nei riguardi dei suoi designer e creativi. Clow definisce quella lealtà “un modo di farti rispettare per le tue idee e il tuo contributo”. 36. Steve dimostrò quella lealtà anche nella sua relazione con la Chiat/ Day. Quando Steve lasciò Apple per fondare NeXT, la dirigenza Apple cambiò subito agenzia pubblicitaria. Una delle prime cose che Steve fece al suo ritorno in Apple, dieci anni dopo, fu richiamare Chiat/Day. Nomi e volti erano cambiati negli anni, ma la creatività era Christy Marshall, “Smart Guy”, Business Month, aprile 1988. Danielle Sacks, "100 Most Creative People in Business”, Fast Company, 2010. www.fastcompany.com/100/. 36 Tutte le citazioni di Clow sono tratte da Bob Garfield, "Lee Clow on What‟s Changed Since „1984‟”, AdAge, 11 giugno 2007. 34 35
rimasta costante; e Steve rispettava ancora le loro idee e il loro contributo.
Ragazzo immagine Pochi riescono a diventare ragazzo (o ragazza) immagine per le riviste, i giornali e le tv. Quelli che ci riescono, naturalmente, sono politici, sportivi, attori o musicisti. Se sei un imprenditore, non ti aspetti di conquistare quel genere di notorietà. Steve l‟ha ottenuta senza cercarla. Man mano che Apple cresceva, Jay Chiat, direttore di Chiat/Day, cavalcò un fenomeno che era sorto spontaneamente, e promosse Steve come “volto” di Apple e dei suoi prodotti, proprio come lo era stato Lee Iacocca per Chrysler negli anni del rilancio. Steve - visionario, difficile e controverso - era stato il volto di Apple fin dal primo giorno. Nei primi tempi, quando il Mac non vendeva bene, dissi a Steve che avremmo dovuto realizzare spot che lo vedessero protagonista, come stava facendo con successo Iacocca in Chrysler. Dopotutto, Steve era apparso su così tante copertine di magazine che era un volto assai più noto di quanto non lo fosse Lee all‟epoca dei primi spot Chrysler. A Steve piacque l‟idea, ma le decisioni sulla pubblicità spettavano ai dirigenti Apple. Certo, i primi Mac avevano qualche difetto, come qualsiasi altro prodotto (pensate alla prima generazione di qualunque prodotto Microsoft): ma la semplicità d‟uso compensava ampiamente i limiti di memoria e lo schermo in bianco e nero. All‟inizio ci fu un primo picco di vendite, grazie ai fan del marchio e ai creativi nei settori intrattenimento, della pubblicità e del design. Inoltre, il Mac avvicinò per la prima volta i dilettanti al desktop publishing. Fu d'aiuto anche il fatto che sul Mac ci fosse un‟etichetta con scritto "Made in the USA”. Gli impianti di assemblaggio a Fremont si trovavano vicino a uno stabilimento di General Motors che stava per chiudere, rischiando di mettere a
repentaglio l‟economia dell‟intera zona. Così, Apple divenne un eroe a livello locale oltre che nazionale. Il Macintosh e il brand Mac, naturalmente, trasformarono Apple. Ma quella patina di novità sbiadì quando Steve se ne andò: Apple divenne un‟azienda qualunque, che vendeva tramite canali tradizionali come tutti i competitor, e misurava i risultati in base alla quota di mercato anziché all‟innovazione di prodotto. L‟unica nota positiva fu che i clienti più fedeli non abbandonarono il Macintosh in quel periodo difficile.
Consolidare il brand Studiando l‟esempio di Steve per imparare l‟arte del branding, ben presto ci si accorge che uno dei suoi grandi talenti è la capacità di creare nella mente dei consumatori un‟immagine di prodotto coerente e positiva. Steve unisce la tenacia alla percezione intuitiva di cosa è necessario per far innamorare i clienti di un prodotto. Sa bene che l‟importante non è solo il design e la funzionalità - che pure ovviamente sono fattori cruciali - ma il modo in cui il prodotto è percepito dall‟utente: è questa la chiave del successo. Quando Steve presentò l‟Apple II, nel 1976, trasformò il noto presentatore di talk-show Dick Cavett nel primo portavoce dell‟azienda: Cavett godeva di grande credibilità presso il target istruito che rappresentava la potenziale clientela dell‟Apple II. Nel 1980, l‟Apple II aveva conquistato l‟ottanta per cento del mercato, ed era un prodotto così forte che gli sviluppatori avevano creato oltre mille applicazioni dedicate. In realtà, fu lo straordinario successo nel branding dell‟Apple II - gli elogi che la stampa fece piovere su Apple (e su Steve) - a spingere IBM a entrare nel mercato dei PC. Non erano esattamente dei principianti: avevo visto prodotti di personal computing nei laboratori IBM almeno a partire dal 1976. Ma il loro lavoro era noleggiare mainframe a grandi aziende, e non conoscevano il mercato consumer. La concorrenza di IBM all‟inizio innervosì Steve, ma IBM non
comprese mai certe cose che per Steve erano intuitive. Il primo PC IBM uscì nel 1981 ; solo nove anni dopo IBM smise di produrre PC. Nel frattempo, la novellina Apple ascese agli alti ranghi della “Fortune 500” più in fretta di ogni altra azienda della storia.
Squadra che vince non si cambia La collaborazione di Steve con Regis McKenna e Jay Chiat fu per tutti loro un‟ottima occasione di sfruttare la creatività che continua a caratterizzare il marchio Apple. Lo scalpore suscitato dallo spot “1984” fu solo l‟inizio. Dopo il ritorno di Steve, Chiat/Day piazzò al comando dell‟account Apple l‟innovativo art director Lee Clow, che ottenne un altro successo clamoroso con la straordinaria campagna “Think Different". Più di recente, le figure umane dotate di iPod proiettate in silhouette su sfondi colorati, sia sulle pagine delle riviste sia sui manifesti, sono diventate altrettanto indelebili nelle menti dei consumatori. Nel settore pubblicitario, la longevità è l‟eccezione, non la regola. Come ha evidenziato Lee Clow, Steve ha dato una grande attestazione di fedeltà: Chiat/Day, che nel frattempo si è fusa con TBWA e fa parte del conglomerato OMD Worldwide, rimane ancora oggi l‟agenzia pubblicitaria di Apple. Nel quartier generale di Playa Del Rey c‟è un Media Arts Lab che lavora in gran segreto per collaudare innovazioni sviluppate appositamente per Apple. Apple è un ottimo esempio dei risultati che si possono ottenere con le giuste collaborazioni: prodotti che le persone vogliono davvero, e anche un branding efficace. Questo è il primo passo per avvicinare i consumatori al prodotto.
Alla conquista del punto vendita
Nel 1996, quando rientrò in Apple, Steve era in piena forma. Mise a frutto l'esperienza accumulata negli anni per riorganizzare il listino prodotti e snellire l'azienda per renderla più gestibile, e intanto pose le basi per una svolta che alcuni avrebbero considerato visionaria e molti una follia: entrare nel settore retail. Sapeva cosa voleva: un legame diretto con i clienti di Apple. Non aveva alcuna esperienza nella vendita al dettaglio, ma voleva tentare di eliminare gli intermediari. Poche settimane dopo il suo ritorno, avviò uno dei progetti più rischiosi della sua carriera.Le grandi catene di informatica e gli altri rivenditori incassavano un margine del 35-40 per cento su ogni prodotto Apple che vendevano. Dopo la collaborazione con Disney, Steve comprendeva appieno l'importanza della vendita diretta al consumatore: aveva scoperto in sé una nuova vocazione. Mise al lavoro un team sul versante tecnologico: nel novembre 1997, meno di un mese dopo aver assunto il comando dell'azienda e con grande anticipo sulla concorrenza, Apple aprì il suo negozio online. A consentire questa rapidità fu soprattutto WebObjects, un ambiente di sviluppo per application server che era stato progettato in NeXT. Di lì a poco, Steve annunciò che il nuovo negozio online su Apple, com aveva ricevuto ordini per dodici milioni di dollari nel primo mese di attività.
L'intuito Se il negozio ordine andava a gonfie vele, il canale di vendita tradizionale continuava a deludere: la quota di mercato di Apple nel settore dei computer non aumentava. Uno dei problemi più gravi, secondo Steve, era che le grandi catene al dettaglio non assicuravano ad Apple la giusta visibilità sugli scaffali, e non allestivano per i suoi prodotti una scenografia adeguata. D‟altronde, nelle grandi catene si badava poco all‟estetica, e c‟era un alto tasso di ricambio del personale di vendita. La maggior parte degli acquirenti sceglieva il computer meno costoso, e la fidelizzazione al marchio era scarsa: una situazione molto simile a quella del 1984, quando era uscito il Mac. Steve si era persuaso ormai da tempo che per aumentare la sua quota di mercato Apple dovesse farsi carico della distribuzione dei suoi prodotti: se ne era reso conto già quando gli avevano prospettato la possibilità di una consegna diretta a domicilio con il corriere FedEx. Era più convinto che mai che le potenzialità di Apple e del Mac non fossero sfruttate come meritavano. I clienti dell‟Apple II lo compravano perché ne erano affascinati, e negli anni era sorto spontaneamente un vero e proprio “culto del Mac” e di Apple. Ma le grandi catene al dettaglio non si rivolgevano a quei clienti: puntavano alle masse e, quindi, al minimo comun denominatore. Così, anche quella volta Steve decise di fare quello che gli riesce meglio: innovare. Applicare i principi dell‟iLeadership. In un‟intervista a Fortune, nel 2007, ha ripercorso le tappe della sua decisione: “Iniziai a preoccuparmi [...] Apple era sempre più alla mercé delle grandi catene [... | che non erano incentivate ad assegnare un posto d‟onore ai nostri prodotti nei loro punti vendita. Mi dissi: qui dobbiamo fare qualcosa, o resteremo vittime della tettonica a placche.. . Qui bisogna innovare.”37
37
Jerry Useem, 'Apple: America‟s Best Retailer”, Fortune, 8 marzo 2007. http://money.cnn.com/magazines/fortune/fortune_archive/2007/03/19/8402321/index.htm
All'attacco del retail Steve prese la coraggiosa decisione di elaborare una strategia di vendita al dettaglio per rivolgersi direttamente ai consumatori. La strada si prefigurava irta di ostacoli. L‟esperimento tentato in precedenza - un reparto Apple separato all‟interno di ogni negozio della catena CompUSA era stato un fiasco completo. Nello stesso anno, il 2001, la catena Gateway chiuse il dieci per cento dei punti vendita e nel 2004 sarebbe fallita. Se anche le grandi catene chiudevano i battenti, sembrava il momento peggiore per mettersi a vendere computer, soprattutto per un principiante. Ma Steve non stava facendo un salto nel vuoto, per quanto ai suoi concorrenti piacesse credere così. Quando si tratta di andare a caccia di talenti, Steve Jobs è un modello per tutti noi; e quella volta mise insieme un team di venditori straordinari. Si rivolse a persone di cui si fidava, si fece suggerire dei nomi. Gli parlarono di Ron Johnson, un MBA di Harvard che all‟epoca era vicepresidente del merchandising per la catena di grandi magazzini Target, dove aveva promosso la fortunata iniziativa del “design sostenibile” - avviata con la bella ed economica teiera di Michael Graves - e che aveva rilanciato il brand Target. Ormai avrete capito che Steve è bravissimo a trovare collaboratori. Non è facile dirgli di no, perché i suoi inviti sono irresistibili: “Vuoi vendere acqua zuccherata o vuoi cambiare il mondo?” Johnson andò a Cupertino e diventò senior vicepresident del merchandising, con l‟incarico di creare una rete di negozi a marchio Apple. Steve reclutò anche Mickey Drexler, amministratore delegato della catena di abbigliamento Gap, azienda leader nel suo settore. Non fu facile convincerlo a lasciare un‟azienda da quindici miliardi di dollari per diventare vicepresidente in Apple, ma posso figurarmi il sorriso di Steve al termine della conversazione: Drexler accettò di entrare nel Cda Apple. Steve avrebbe potuto contare sulle sue competenze nel ramo della vendita al dettaglio.
Ancora una volta, Steve Jobs si era dimostrato un ottimo cacciatore di talenti.
Applicare il modello dei prototipi Johnson fu incaricato di portare i prodotti Apple direttamente al consumatore, creando una catena di punti vendita Apple. Non dovette guardarsi troppo intorno per trovare un modello di riferimento, e Steve non glielo permise: del resto ne avevano uno già in casa. Nel negozio riservato ai dipendenti, aperto nel 1984 su Bandley Drive a Cupertino, erano esposti con eleganza tutti i prodotti Apple, e i dipendenti-clienti potevano provarli liberamente. Era più un laboratorio interattivo che un negozio di stampo tradizionale. nuovi negozi dovevano interpretare la stessa filosofia: luoghi in cui si potesse giocare con i prodotti, ma anche comprarli; e senza nessuna pressione da parte dei commessi. Steve insisteva per vendere i suoi prodotti a modo suo. Mickey Drexler di Gap gli consigliò di costruire un prototipo di negozio in un magazzino, prima di avventurarsi nel mondo là fuori. Così Apple avrebbe potuto commettere i suoi errori in privato; e di errori ne commise parecchi. Quando entrò in quel primo prototipo, Steve si sentì mancare le forze. I prodotti erano disposti per tipo e categoria, un criterio che a un dipendente Apple può apparire logico, ma che non aiutava i clienti a trovare quel che cercavano. Nei mesi successivi, il prototipo fu raso al suolo e ne fu costruito un altro. Nel frattempo, Steve e il suo team dovettero affrontare un altro problema: dove posizionare i negozi. Chiunque abbia mai gestito un negozio sa che il fattore cruciale è lo stesso vecchio adagio degli agenti immobiliari in fatto di case: "La location è tutto”. Si decise di aprire i primi negozi in centri commerciali di fascia alta, praticamente l‟opposto della strategia seguita da Gateway. Apple ha sempre posto l‟accento sulla sintonia dei prodotti con lo stile di vita dei consumatori e sull‟identificazione da parte del cliente, e gli Apple Store
sarebbero partiti da questa base. L‟obiettivo era creare una straordinaria esperienza di acquisto per ampliare la comunità degli utenti Apple, trasformando un culto per pochi iniziati in un movimento di massa.
L'ora di lancio Il 15 maggio 2001, su invito di Steve, un folto gruppo di giornalisti visitò il primo Apple Store, appena inaugurato nel centro commerciale Tysons Corner di McLean, in Virginia: i primi negozi furono aperti volutamente fuori dalle grandi città. Malgrado l‟attenta pianificazione e il design all‟avanguardia, se Steve sperava che l‟evento somigliasse a una delle sue popolarissime presentazioni annuali al Macworld, dovette restare alquanto deluso. La location non era decisamente uno dei punti focali del centro commerciale: dopo essere saliti al secondo piano a dare un‟occhiata al negozio, situato accanto a un negozio di abbigliamento sportivo L.L.Bean, molti dei giornalisti restarono tiepidi. Per un po‟ sembrò che la loro impressione negativa avesse un fondamento. La mia prima reazione, quando entrai, fu un senso di pacata meraviglia. Quel posto sembrava così ben progettato, così invitante e ordinato che sapevi subito dove trovare ciò che cercavi. Editing video di qua, fotografia digitale di là, prodotti musicali in un reparto tutto per loro, videogiochi lungo i lati del negozio. Si potevano provare tutti i prodotti, giocarci a piacimento senza che nessuno ti mettesse fretta. Anche i commessi erano ben addestrati: ogni dettaglio era curato, e io me ne accorsi. Uscii da lì con l'impressione che quel posto avrebbe dovuto chiamarsi “il negozio di Steve”, e lo intendo come un complimento. Pensai: Ha azzeccato la formula giusta. Non sarà un fallimento. A un certo punto IBM aveva aperto una catena di punti vendita al dettaglio per i suoi PC. Big Blue, che era tanto più grande di Apple, e con molte più risorse a disposizione, evidentemente non aveva dedicato la stessa cura all‟analisi del mercato e al reclutamento dei dipendenti.
Immaginai i clienti che uscivano da quel primo Apple Store con il loro nuovo iMac o iPod sottobraccio, e pensavano: "Dovrei comprare qualche azione Apple”, o “qualcuna in più”. Un negozio gemello aprì quattro giorni dopo in un altro centro commerciale di fascia alta, Galleria a Glendale, in California. Per un‟azienda che si occupa di software e hardware, entrare nel ramo della vendita al dettaglio sembrava una mossa per nulla scontata. Molti, nella stampa di settore, lo videro come un segno che Steve era impazzito. Dopotutto, che esperienza avevano Steve e Apple nel settore retail? Nessuna o quasi, e i punti vendita al dettaglio subiscono un elevato tasso di fallimenti, soprattutto quando sono aperti da principianti. Stavolta, Steve il ragazzo prodigio aveva sicuramente fatto il passo più lungo della gamba. BusinessWeek salutò l‟iniziativa titolando: “Scusa, Steve, ma ecco perché gli Apple Store non funzione-ranno.”38 Un noto consulente del settore predisse che i negozi avrebbero chiuso entro un paio d‟anni, e che Apple avrebbe riportato grosse perdite da quello scriteriato tentativo di eliminare gli intermediari. Con gli Apple Store, Steve Jobs stava facendo un altro passo da gigante verso la vendita diretta al consumatore. Era una direzione tentata da molte aziende, generalmente con scarso successo. Molti restarono a guardare, per vedere se questa volta il grande leader di Apple avrebbe preso una batosta. Malgrado le losche previsioni degli esperti, il negozio in Virginia vendette oltre settemila prodotti nel primo giorno di apertura. E quello fu solo l‟inizio. Mentre scrivo queste righe, nell‟autunno del 2010, Apple gestisce oltre trecento negozi nel mondo, Cina com-presa. Il negozio-vetrina sulla Quinta Strada a Manhattan è aperto ventiquattr‟ore al giorno, ogni giorno dell‟anno. E non vi Cliff Edwards, "Commentary: Sorry, Steve: Here‟s Why Apple Stores Wòn‟t Work”, BusinessWeek 21 maggio2001. http://www.businessweek.com/magazine/content/01_21/b3733059.ht m. 38
sorprenderà scoprire che i negozi Apple hanno vinto molti premi per la loro architettura e design. Quando i primi risultati dimostrarono la validità dell‟idea, furono aperti altri Apple Store in centri commerciali più accessibili. Ma Steve non si è lasciato vincolare dalla strategia immobiliare originaria: ha inaugurato un certo numero di negozi flagship in città come New York, Londra, Parigi, Monaco, Tokyo e Shanghai; e negozi più piccoli in aree molto trafficate come la Market Street di San Francisco: un tentativo di cooptare nella tribù Apple gli utenti di PC. Tanto stavo passando di qui, e fare un giro nel negozio non mi ruberà più di cinque minuti. Ci è voluto un po‟ di tempo, ma i negozi Apple sono diventati uno dei più grandi successi nella storia della vendita al dettaglio. Nel 2006, i negozi generavano in media oltre 43.000 dollari di vendite per metro quadrato all‟anno, circa il quadruplo di Best Buy e decisamente meglio rispetto a giganti come Tiffany e Saks, i cui negozi erano sulla Quinta Strada a Manhattan a pochi passi dal grande Apple Store. Nel terzo anno di operatività, i negozi hanno sforato il miliardo di dollari l‟anno: più velocemente di ogni altra catena nella storia. Appena due anni dopo, incassavano la stessa cifra ogni trimestre: e tutto ciò prima che uscisse il primo iPhone, nel 2008. Aprendo gli Apple Store, e assicurandosi il controllo dell‟intera catena del valore, dall‟ideazione alla produzione allo sbarco nel punto vendita, Steve ha trasformato Apple nella Disney dell‟high-tech: esattamente l‟obiettivo a cui mirava.
Progettare il negozio intorno al cliente Il design, un elemento fondamentale in tutti i prodotti di Steve, è stato altrettanto cruciale al momento di progettare i negozi. I clienti sono affascinati da qualsiasi cosa abbia a che fare con Apple, anche se non sanno bene perché. Apple ha collaborato con gli studi di architettura più all‟avanguardia per progettare il layout e l‟arredamento dei
negozi. Tutti i fornitori esterni e i concessionari, anche quelli più quotati nel loro settore, riferiscono che lavorare con Steve richiede di alzare l‟asticella di qualche centimetro in più. Come il vecchio store riservato ai dipendenti, i negozi Apple somigliano a un laboratorio interattivo, più che a un punto vendita. E quando trovi qualcosa che ti piace, non devi metterti in fila alle casse: i commessi si portano addosso un lettore di carte di credito, così puoi pagare subito. Tutto negli Apple Store deve essere user friendly, dai prodotti all‟esperienza d‟acquisto, fino alle riparazioni. Una delle grandi innovazioni varate dall‟ex dirigente di Target Ron Johnson sono i Genius Bar: e già il nome è geniale. Johnson mandò alcuni ricercatori a intervistare gli utenti, per chiedere dove avessero ricevuto il servizio migliore. Quasi tutti risposero: in un hotel di lusso. Nella testa di Johnson si accese una lampadina: agli Apple Store serviva qualcosa di analogo al concierge di un albergo, un servizio di assistenza per i clienti che avevano un problema con il loro prodotto Apple: anche se il problema in questione era rappresentato da una domanda stupida e prevedeva una risposta ovvia. Se vi fermate per qualche minuto ad ascoltare le conversazioni in un Genius Bar, capirete che per chi lavora lì non esistono domande stupide. Avete un prodotto Apple difettoso? Vi è caduto, o l‟avete maltrattato? Se lo staff non riesce a ripararlo, probabilmente ve lo sostituirà con uno nuovo di zecca. E, incredibile a dirsi, la consulenza, le riparazioni e le sostituzioni sono gratuite.
Il brand è dentro di te Nel 2010, dei 46.000 dipendenti Apple, più della metà lavoravano nel retail. Tutto lo staff degli Apple Store deve condividere i valori aziendali e comprendere a fondo lo spirito del brand. I commessi sono il volto che ogni azienda mostra ai clienti.
Sul sito ufficiale, Apple si rivolge così agli aspiranti dipendenti: “Quando terrai un workshop gratuito, quando guiderai una sessione di training One to One, quando darai assistenza tecnica avanzata al Genius Bar, c‟è una cosa che vedrai di sicuro: la gioia e lo stupore sul volto delle persone quando si accorgono di saper fare qualcosa che non credevano possibile. Ti ci abituerai, ma non te ne stancherai mai.”39 Quante aziende in America, o nel mondo, potrebbero usare toni simili? Non dobbiamo mai dimenticare che il comportamento dei dipendenti che stanno a contatto con il pubblico influenza molto l‟idea che i clienti si fanno della nostra azienda.
Reinventare le linee di prodotto In passato, le grandi aziende di elettronica di consumo pensiamo a General Electric - sviluppavano e vendevano centinaia se non migliaia di prodotti. Apple ne ha in listino meno di venti: un numero incredibilmente basso, per un‟azienda da trenta miliardi di dollari. (Mi diverte osservare che, oltre a essere sempre meno numerosi, i prodotti Apple tendono anche a diventare sempre più piccoli.) Steve ritiene che una delle chiavi del successo di Apple sia la capacità di concentrarsi su pochi prodotti fondamentali, quelli che il consumatore desidera possedere appena li vede. Ormai la clientela di Apple si è ampliata molto rispetto al “culto del Mac” dei primi anni. Oggi quasi tutti vogliono almeno un prodotto Apple. Aprendo un nuovo canale di vendita per portare i prodotti direttamente ai consumatori, tagliando le spese per gli intermediari come le catene Best Buy e Fry‟s, Steve ha cambiato il volto della vendita al dettaglio dei computer, dei lettori MP3 e dei telefoni. Le altre aziende di informatica faticheranno moltissimo a essere competitive, e le aziende di
39
www.apple.com/jobs/uk/retail.html.
tutti gli altri settori hanno imparato una lezione sulla vendita al dettaglio. La strategia completa direct-to-customer di Steve funziona a meraviglia: Apple è una forza dirompente sia online, con iTunes, sia negli Apple Store. Non avrei mai immaginato che Steve, il “cliente ideale”, potesse creare l‟esperienza d‟acquisto ideale. Questa strategia svolge anche la funzione di un cavallo di Troia, dal momento che i prodotti Apple sono compatibili con Windows. Se un cliente installa Microsoft Exchange sul suo iPhone, diventa più probabile che il suo prossimo computer sia un Mac. E chi compra o fa l‟upgrade di un iPhone in un Apple Store può abbonarsi subito al servizio telefonico, senza recarsi in un punto vendita del gestore AT&T. Nessun altro gestore fa una cosa del genere: neppure la AT&T fornisce questo servizio per altri cellulari. È un esempio classico di one-stop shopping: tutto sotto lo stesso tetto. Steve ha il pieno controllo del suo marchio perché non solo sviluppa una linea di prodotti, ma riesce a venderli con grande efficacia. Solo così si può acquisire il controllo totale di un brand. *** Nell‟economia di oggi - dopo il fallimento di grandi catene di elettronica e informatica al dettaglio come Circuit City, Sharper Image, Mervyn‟s e Gateway - si stenta a credere che un nuovo retailer possa aver avuto un successo così strabiliante. Vendere direttamente al consumatore e costruire le infrastrutture giuste è stata una delle sfide più difficili nel mondo del business, e Steve l‟ha vinta. La sua insistenza sul controllo totale del prodotto è la chiave del successo di una strategia di vendita al dettaglio.
Cool per definizione: "C'è un'app per questo"
Non c'è niente di più cool, nel mondo del business, che far uscire un prodotto straordinario: milioni di persone lo comprano subito, e tutti gli altri muoiono d‟invidia. E non c‟è niente di più cool che essere una persona capace di immaginare e creare un prodotto di quel genere. Anzi, c‟è una cosa ancora più cool: creare non uno ma un‟intera serie di prodotti irrinunciabili, che rientrano in una strategia d‟insieme.
Trovare un tema predominante Il keynote di Steve al Macworld del 2001, pronunciato di fronte a migliaia di persone al Moscone Center di San Francisco e a un numero sterminato di spettatori via satellite in tutto il mondo, mi colse completamente alla sprovvista. Steve presentò i suoi progetti per i successivi cinque anni o più dello sviluppo di Apple, e io capii subito qual era il suo obiettivo ultimo: un media center così piccolo da stare in una mano. Molti lo interpretarono come un presagio del futuro,
ma io lo lessi come un‟evoluzione delle idee maturate da Steve vent‟anni prima, dopo quella visita allo Xerox PARC. Nel 2001, l‟industria dei PC era in crisi: i pessimisti sostenevano che l‟intero settore era sull‟orlo del baratro. La paura, condivisa dalle aziende e dalla stampa, era che il PC stesse diventando obsoleto, mentre apparecchi come i lettori MP3, le fotocamere digitali, i palmari e i lettori dvd vendevano sempre più. Ma se i rivali di Steve, Dell e Gateway, si rassegnavano a quella fosca prospettiva, Steve invece non voleva arrendersi. Iniziò il suo discorso ripercorrendo brevemente la storia della tecnologia. Definì gli anni ottanta - la prima età dell‟oro del personal computer - “l‟era della produttività”. I novanta erano stati l‟era di Internet. Il primo decennio del ventunesimo secolo sarebbe stato l'era del "digital lifestyle”, un‟epoca segnata dall‟esplosione dei dispositivi digitali: fotocamere, lettori dvd... e cellulari. Lo chiamò il “Digital Hub”. E naturalmente, al centro di tutto ci sarebbe stato il Macintosh: il fulcro intorno a cui si articolavano tutti gli altri device, con il valore aggiunto dell'interazione. (Potete trovare questa parte del keynote cercando su YouTube "Steve Jobs introduces The Digital Hub strategy”.) Steve ammise che solo un PC era abbastanza potente da gestire applicazioni complesse, che il monitor più grande garantiva un‟usabilità migliore, e che i dispositivi portatili non potevano competere con la capacità di memoria del computer. E Steve rivelò con trasparenza la road map di Apple. Ciascuno dei concorrenti avrebbe potuto seguire quella rotta tracciata da Steve. Ma nessuno lo fece, e Apple rimase all‟avanguardia per anni con la sua idea del Mac come Digital Hub, come nucleo della cellula: un computer potente, in grado di integrare le funzioni di una vasta gamma di apparecchi, dai televisori ai cellulari, per entrare a far parte della nostra vita quotidiana. Steve non fu il primo a usare la locuzione digitai lifestyle: nello stesso periodo anche Bill Gates parlava di questo concetto, ma non sembrava avere le idee molto chiare su cosa farsene. Steve era assolutamente convinto che se
qualcosa è immaginabile, è anche realizzabile. Gli anni successivi avrebbero dimostrato fino a che punto ci credeva.
Il piede in due scarpe Si può essere allo stesso tempo capitano di una squadra e giocatore di un altra? Nel 2006, la Walt Disney Company acquisì Pixar. Steve Jobs entrò nel Cda Disney e ricevette metà del prezzo d‟acquisto di 7,6 miliardi di dollari, in gran parte sotto forma di azioni Disney, diventandone il principale azionista. Ancora una volta Steve, per primo, aveva mostrato a tutti i limiti del possibile. Molti pensarono che non avrebbe trovato il tempo di lavorare anche in Disney: invece, pur continuando a sviluppare prodotti rivoluzionari in Apple, si disse impaziente di avviare nuove collaborazioni con Disney. 'Abbiamo parlato di molte cose”, dichiarò a Business Week poco dopo l‟annuncio dell‟accordo. "Nei prossimi cinque anni vedremo un mondo nuovo e straordinario.”
Cambiare rotta: costoso ma a volte necessario Mentre sviluppava l‟idea del Digital Hub, Steve si accorse che, ovunque si voltasse, vedeva qualcuno con un apparecchio portatile in mano. C‟era chi teneva il cellulare in una tasca, il palmare in un‟altra, magari ascoltando musica da un iPod. E quasi tutti quei dispositivi erano decisamente brutti. Inoltre, ci voleva una laurea per imparare a usarli: quasi nessuno era capace di sfruttarne appieno le funzionalità avanzate. Forse Steve non sapeva ancora in che modo il Digital Hub, tramite la potenza del Mac, si sarebbe connesso al telefonino dando forma a un nuovo lifestyle digitale; ma sapeva che il contatto diretto fra le persone era un elemento essenziale. Vedeva ovunque intorno a sé un numero sterminato di
telefoni cellulari, un mercato vastissimo che chiedeva innovazione: Steve capì che il potenziale era infinito, in tutto il mondo. Se c‟è una cosa che Steve Jobs ama con tutto il cuore, è entrare in un nuovo settore e sbaragliare la concorrenza. Ed è quel che fece in quell‟occasione. Per di più, quella categoria di prodotto era matura per l‟innovazione. Certo, i cellulari avevano fatto molta strada dai primi modelli: Elvis Presley ne aveva uno dei primissimi, così grande da riempire una valigetta, e così pesante che Elvis stipendiava un dipendente con la sola mansione di trasportare il telefono. Quando i cellulari si ridussero alle dimensioni di una scarpa da uomo, sembrò un grande progresso; ma servivano ancora entrambe le mani per tenerlo accostato all‟orecchio. Il vero boom dei cellulari dovette attendere che fossero abbastanza piccoli da stare in tasca o in borsetta. Le case produttrici impiegavano i chip più potenti, le antenne migliori e così via, ma il problema era, ancora una volta, l‟interfaccia utente: troppi tasti, in alcuni casi neppure contrassegnati con la relativa funzione. Tante opportunità che nessuno imparava a sfruttare. Quei telefoni erano ingombranti e goffi: ma Steve ama gli oggetti goffi, perché gli offrono l‟occasione di migliorarli. Per uno come Steve, un prodotto che tutti odiano rappresenta un‟opportunità.
Rimediare agli errori La decisione di costruire un telefono cellulare fu questione di un attimo, ma progettarlo era un altro paio di maniche. L‟azienda Palm si era già inserita nel mercato con il suo elegante Treo 600, una via di mezzo tra cellulare e BlackBerry. Gli early adopter l‟avevano apprezzato molto. Per accelerare i tempi di immissione sul mercato, all‟inizio Steve commise un errore. Sul momento la sua scelta parve sensata, ma violava il principio che ho chiamato “teoria del prodotto totale”. Invece di rivendicare il controllo ili tutti gli aspetti del progetto, Steve si piegò alle regole del
gioco, e scelse di fare quel che facevano gli altri produttori di cellulari: Apple fornì il software per collegare il telefono all‟iTunes Store, lasciando a Motorola la costruzione dell'hardware e il sistema operativo. Da questo calderone uscì un telefono-lettore musicale con un nome non molto incisivo: il ROKR. Steve trattenne il disgusto quando lo presentò, nel 2005, come “un iPod Shuffle sul vostro telefono”. Ma lo sapeva già: il ROKR era destinato a una morte rapida, anche per il più fedele dei fan di Steve. La rivista Wired ironizzò che il ROKR sembrava progettato da “un comitato”40 e titolò in copertina: “E questo sarebbe il telefono del futuro?” Quel che è peggio, il ROKR era veramente brutto: e questo era un boccone molto amaro da ingoiare, per un imprenditore che teneva tanto all‟estetica dei suoi prodotti. Ma Steve aveva un asso nella manica. Fin dall‟inizio sapeva che il ROKR sarebbe andato male: mesi prima del lancio, aveva radunato il suo trio di team leader, Ruby, Jonathan e Avie, e aveva assegnato loro un nuovo incarico: costruitemi un cellulare da zero. Nel frattempo, Steve si mise al lavoro sull'altra metà del problema: trovare un costruttore di cellulari con cui collaborare.
Per essere leader, devi riscrivere le regole Come si convincono le aziende a lasciarti riscrivere le regole del loro settore, se sono leggi scolpite nella pietra? Fin dagli albori dell'industria dei cellulari, i gestori telefonici avevano avuto il coltello dalla parte del manico: potevano fissare le regole del gioco, grazie ai milioni di utenti che ogni mese versavano un flusso costante di denaro nelle loro casse. I gestori compravano gli apparecchi dal produttore e li rivendevano agli utenti, spesso vincolandoli 40
Nell'inglese aziendale, affidare il management a un comitato è sinonimo di gestione fallimentare. [N.d.R.]
con un contratto biennale. Gestori come Nextel, Sprint e Gingillar incassavano un margine così alto sui minuti di traffico vocale che potevano permettersi di regalare i telefoni, e quindi di imporre ai produttori le funzionalità da sviluppare sui loro cellulari. E poi spuntò dal nulla Steve Jobs, e si sedette al tavolo con i dirigenti di varie compagnie telefoniche. A volte, quando hai a che fare con Steve, devi startene in silenzio mentre lui ti illustra tutti i difetti della tua azienda o del tuo settore. Steve andò a parlare con tutti i gestori e, in sostanza, disse a tutti che vendevano beni di largo consumo senza avere idea di come le persone si relazionassero alla musica, al computer e all'entertainment. Ma Apple è diversa: Apple sì che ne capisce. E poi annunciò che Apple sarebbe entrata nel loro mercato, ma dettando nuove regole: le regole di Steve. La maggior parte dei dirigenti gli rispose picche: non avrebbero permesso a nessuno di mettere loro i bastoni fra le ruote, neppure a Steve Jobs. Uno dopo l'altro, gli dissero educatamente di tornarsene da dov'era venuto. Era ormai il Natale del 2004 - vari mesi prima del lancio del ROKR e Steve non aveva ancora trovato un gestore telefonico disposto ad accettare le sue condizioni. Due mesi dopo, a febbraio, Steve andò a New York a incontrare i dirigenti di Cingular (che poi fu acquisita da AT&T) in una suite di un albergo a Manhattan. Li travolse con la sua tipica eloquenza: disse che il telefono Apple sarebbe stato anni luce avanti a qualsiasi altro; e che se non avessero trovato un accordo, Apple sarebbe entrata in competizione con loro, comprando minuti di traffico vocale all'ingrosso e fornendo il servizio direttamente ai consumatori: come facevano già alcune compagnie più piccole. (Per inciso: durante le riunioni Steve non fa uso di slide in PowerPoint, depliant da distribuire, e neppure appunti. Parla a braccio, come al Macworld o durante il lancio di un prodotto, ed è tanto più persuasivo perché fa in modo che tutti restino concentrati sulle sue parole.) Quelli di Cingular si lasciarono convincere, e permisero al produttore del telefono - Steve - di dettare i termini
dell‟accordo. Era una scommessa pericolosa per Cingular: perché l'accordo si rivelasse vantaggioso, Apple doveva vendere un numero enorme di quei telefoni, portando a Cingular tantissimi nuovi clienti e ore di traffico mensili. Il carisma e le abilità persuasive di Steve avevano strappato un altra vittoria. L'idea di isolare un gruppo di lavoro dal resto dell'azienda, per evitare distrazioni e interferenze, aveva funzionato così bene per il Macintosh che Steve decise di adottare lo stesso approccio per tutti i prodotti successivi. Durante lo sviluppo dell'iPhone si preoccupava molto della riservatezza: voleva accertarsi che la concorrenza non venisse a sapere il minimo dettaglio del design o della tecnologia. Quindi spinse all'estremo l‟idea dell‟isolamento: ogni team che lavorava su un aspetto dell‟iPhone era separato dagli altri. Potrà sembrare un‟esagerazione, ma è così che andò. Le persone che progettavano l‟antenna non sapevano quanti tasti avrebbe avuto il telefono. Chi lavorava sui materiali da usare per lo schermo e la scocca non aveva modo di sapere nulla sul software, l‟interfaccia utente, le icone sullo schermo e così via. Ed era così per tutti: ciascuno conosceva solo le informazioni necessarie per fare il suo lavoro. A Natale 2005, i progettisti dell‟iPhone si trovarono di fronte alla sfida più grande della loro carriera: il prodotto non era ancora pronto, ma Steve aveva già fissato una data di massima per l‟uscita, e mancavano solo quattro mesi. Tutti erano così sfiniti, così stressati, che l'atmosfera era tesa: le urla si sentivano riecheggiare nei corridoi. A un certo punto i progettisti cedevano alla pressione, se ne andavano a casa a recuperare un po' di sonno, e poi tornavano barcollando in ufficio e ricominciavano da dove avevano interrotto. Con l'avvicinarsi della data fatidica, Steve chiese di vedere una demo completa del prodotto. Non andò bene. Il prototipo, semplicemente, non funzionava. Cadeva la linea, la batteria non si caricava, le applicazioni erano così piene di bug che sembravano sviluppate a metà. Il team era abituato alle sfuriate di Steve,
ma stavolta la sua reazione fu pacala. Sapevano tutti di averlo deluso, di non essere stati all‟altezza delle sue aspettative; sentivano di meritare la scenata che Steve non aveva fatto, e in un certo senso questo li faceva sentire ancora peggio. Sapevano cosa bisognava fare. Poche settimane dopo, con il Macworld dietro l‟angolo e il lancio dell‟iPhone ormai imminente, e mentre sui blog e sul web si infittivano i pettegolezzi sul nuovo, misterioso prodotto Apple, Steve andò a Las Vegas per mostrare un prototipo ad AT&T Wireless, gigante della telefonia e nuovo partner di Apple per l‟iPhone, da quando aveva acquisito Cingular. Come per miracolo, Steve riuscì a mostrare a quelli di AT&T un iPhone bellissimo e perfettamente funzionante, con il suo schermo di vetro e l‟entusiasmante varietà di applicazioni. Era ben più che un telefono, era ciò che Steve aveva promesso: l‟equivalente di un computer, nel palmo della mano. In seguito Steve rivelò che il dirigente AT&T Ralph de la Vega l‟aveva definito "il miglior device che io abbia mai visto”. L‟accordo che Steve aveva strappato ad AT&T rese alcuni dirigenti del gigante della telefonia molto nervosi. Steve li aveva persuasi a spendere vari milioni di dollari per sviluppare la “Visual Voicemail" (segreteria telefonica visuale). Aveva preteso che ripensassero da capo la noiosa procedura di adesione al servizio di registrazione per avere un iPhone, snellendo molto la burocrazia. Il versante profitti era ancora più incerto: AT&T avrebbe pagato oltre duecento dollari ogni volta che un nuovo cliente stipulava un contratto biennale per l‟iPhone, più dieci dollari al mese da versare ad Apple per ogni cliente. Era prassi corrente, nel settore della telefonia, che su ogni cellulare apparisse non solo il nome del produttore ma anche quello del gestore. Come era successo anni prima con Canon e la LaserWriter, Steve non volle saperne: il logo AT&T fu bandito dall‟iPhone. L‟azienda, un gigante nel settore del
traffico telefonico, aveva faticato molto ad accettare quella condizione, ma alla line, come Canon, si era arresa. L‟accordo non era sbilanciato come potrebbe sembrare, tenendo conto che Steve era disposto a concedere ad AT&T il diritto esclusivo di vendere l‟iPhone per cinque anni, fino alla fine del 2010. Tuttavia, è probabile che sarebbero rotolate alcune teste se l‟iPhone si fosse rivelato un fallimento: AT&T ci avrebbe rimesso un mucchio di soldi, e ci sarebbe voluta molta fantasia per giustificarsi con gli azionisti. Per l‟iPhone, Steve era ricorso come mai in passato ai fornitori esterni per accelerare l‟implementazione delle nuove tecnologie. L‟azienda che accettò di produrre l‟iPhone ammise di aver chiesto ad Apple una cifra inferiore al costo di produzione, contando che il volume di vendita sarebbe aumentato così tanto che il costo per unità si sarebbe abbassato, generando un profitto. Anche stavolta, un‟azienda era disposta a scommettere sul successo di un progetto di Steve Jobs. E io scommetto che le vendite degli iPhone hanno superato le loro più rosee previsioni. Ai primi di gennaio del 2007, circa sei anni dopo il lancio dell‟iPod, nel Moscone Center di San Francisco si diffusero le note cariche di energia di "I Feel Good” cantata da James Brown. Poi Steve salì sul palco, accolto da un applauso fragoroso, e disse: "Oggi faremo la storia.” E fu così che presentò iPhone al mondo. Con la straordinaria attenzione al dettaglio richiesta da Steve, Ruby e Avie, i loro team avevano creato uno dei prodotti più memorabili e desiderati della storia. Nei primi tre mesi sul mercato, furono venduti quasi un milione e mezzo di iPhone. Non importava che in tanti si lamentassero dei problemi di connessione e del segnale debole; quella era colpa della scarsa copertura di AT&T.
A metà del 2010, Apple aveva venduto - incredibile a dirsi - cinquanta milioni di iPhone.
Quel giorno, quando scese dal palco del Macworld, Steve sapeva già quale sarebbe stato il prossimo grande annuncio. Il fuoco che gli bruciava dentro, la prossima meraviglia che voleva creare per Apple, era qualcosa di totalmente inaspettato: un tablet PC. La prima volta che qualcuno gli parlò dei tablet, Steve capì subito di volerne creare uno. Potrà sembrare strano, ma l'iPad fu ideato prima dell‟iPhone, e rimase in fase di sviluppo per anni, perché la tecnologia non era pronta. Non c‟erano sul mercato batterie capaci di alimentare per ore un apparecchio così grosso. La potenza dei processori era troppo limitata per fare ricerche su Internet o vedere un film. Una delle persone più vicine a Steve, nonché suo grande ammiratore, racconta: “Uno dei grandi pregi di Steve è che si rifiuta di vendere i prodotti finché la tecnologia non è pronta. Ed è una delle cose che più ammiro in lui.” 41 Ma quando giunse il momento, fu chiaro a tutti che quel tablet doveva essere diverso da tutti gli altri. Avrebbe incorporato tutte le funzionalità dell‟iPhone, e molto di più. Come al solito, Apple avrebbe creato una nuova categoria di prodotto: il media center portatile con un catalogo di applicazioni. *** Ma cosa vedeva davvero Steve nell‟iPad? Quando fu il momento di sedersi al tavolo con i creativi di Chiat/Day per presentare il prodotto al mercato, Steve disse di sapere che anche stavolta la gente avrebbe fatto a pugni per averlo; ma non sapeva come raccontare quella storia. 42 Un altro insider racconta: "Non avevamo previsto il successo dell‟iPad, e neppure dell‟iPod. Non avevamo idea che potessero essere così enormi. Sapevamo soltanto che ciascuno di noi ne voleva uno.” E nessuno sapeva come si sarebbero evoluti quei prodotti. “Tra dieci anni tutti li
41 42
Fonte confidenziale. Fonte confidenziale interna a Chiat/Day.
useranno. Forse non useremo neppure più i computer. ‟‟ 43
Quando a
gli
altri
ti
aiutano guadagnare
Il successo di un'azienda che produce aeroplani, automobili o trattori si ripercuote su dozzine di fornitori esterni. Lo stesso vale per qualsiasi prodotto: quasi sempre è necessario ricorrere a parti o ingredienti forniti da altre aziende. Se volete ottenere la massima qualità e imporvi come leader del mercato, dovete convincere i fornitori più bravi a lavorare con voi. Steve c'è riuscito magnificamente con gli sviluppatori delle applicazioni per l'iPhone. Certo, probabilmente 1'80-90 per cento delle app sono prodotti di nicchia, destinati a un‟utenza ristretta. Ma guardiamo alla quantità: al momento della stesura di questo libro, nuove app arrivano sul web e nell'Apple Store al ritmo di trecento al giorno, e ce ne sono ormai duecentomila tra cui scegliere. E, come probabilmente saprete già, per quanto possa sembrare inverosimile, la maggior parte di queste app è stata sviluppata da piccole startup o da singoli individui che mai avrebbero immaginato di avere un proprio prodotto sul mercato. Nel giro di tre anni, le applicazioni per iPhone sono diventate un'industria da tre miliardi di dollari. Incredibile! E naturalmente anche gli sviluppatori Windows creano app per l‟iPhone. Come forse saprete, non serve una laurea in informatica per scrivere un‟app per l‟iPhone. Ai tempi di Microsoft, le applicazioni erano create solo da aziende specializzate, su licenza della casa madre di Redmond. Ma Apple ha messo a disposizione strumenti che semplificano enormemente il lavoro di programmazione, tanto che praticamente chiunque è in grado di creare un‟app per l‟iPhone, purché sappia usare 43
Fonte confidenziale.
un
computer.
Ci sono finito in mezzo anch‟io, quasi per caso. Un mio amico, che aveva avuto un ictus, si è abbonato a un servizio di pronto soccorso a distanza tramite pulsante antipanico, molto costoso e che, ovviamente, funziona solo se al momento dell‟emergenza il mio amico si trova in casa e nelle vicinanze del pulsante da premere. Allora mi è venuto in mente che forse si poteva sviluppare un‟applicazione di questo tipo per l‟iPhone, un apparecchio che molti di noi si possono portare sempre addosso. In quel periodo, uno studente del college che aveva assistito a una mia conferenza sull‟imprenditoria mi contattò per parlarmi di una sua idea. Mi mostrò un‟applicazione che aveva scritto: un pulsante antipanico per iPhone. Decidemmo di unire le forze. La nostra app, "vSOS”, può essere programmata in modo da inviare una richiesta di aiuto a un numero d‟emergenza, a un call center, al proprio medico, a un familiare o a più destinatari insieme. Tramite il GPS riesce a geo-localizzare la posizione della persona in difficoltà. Inoltre vSOS può essere programmato per trasmettere immagini e video: utilissimo in caso di incidenti d‟auto, incendi in casa e così via. E ha un costo contenuto, quindi può infondere un senso di sicurezza agli anziani e agli infermi che non possono pagare i trenta o quaranta dollari al mese per il dispositivo di pronto soccorso. Oggi, anche bambini e ragazzi possono sviluppare applicazioni.
Un altro passo verso la gloria Fin da bambino, ho sempre pensato che chi inventa un modo di dire tanto incisivo da finire nel dizionario o nelle raccolte di citazioni sia destinato a entrare nella leggenda. Steve c‟è riuscito senza neanche accorgersene. All‟avvicinarsi della data di lancio dell‟iPhone, mentre gli sviluppatori consegnavano le varie applicazioni, Steve
continuava a ripetere una frase al suo team: "There’s an app for that", cioè “C‟è un‟app per questo”. Ben presto tutto il team iniziò a usare quella battuta. In seguito fu inserita in uno spot Apple. E poi... il grande atlante delle citazioni dell‟università di Yale, nientemeno, l‟ha inserita tra le dieci frasi più memorabili del 2009. Nel frattempo, l‟iPhone era diventato una tale icona, quasi da un giorno all‟altro, che iniziammo a vederlo all‟orecchio dei protagonisti di spot e pubblicità di altre aziende, come a dire: "Guardate quanto siamo cool!" Era tutta pubblicità gratuita per l'iPhone, e le vendite aumentarono ancora. Gli utili dichiarati da Apple per Tanno fiscale 2010 hanno lasciato di stucco persino gli esperti di Wall Street. Il fatturato netto è cresciuto di uno strabiliante 50 per cento grazie alle vendite di iPhone e iPad, e nell‟area Asia e Pacifico l‟incremento delle vendite ha toccato il 160 per cento. La popolarità dell‟iPhone in Cina ha generato un curioso mercato illegale che ha avvio ogni mattina a Manhattan, quando davanti all‟Apple Store si forma una coda lunga un intero isolato: una fila di cinesi circospetti e nervosi, che aspettano l‟apertura del negozio per comprare un iPhone a prezzo di listino e senza abbonamento al gestore. Non hanno bisogno di attivare il telefono, perché non intendono usarlo. Lo rivendono immediatamente a un intermediario, che lo spedisce in Cina, dove l‟iPhone è un tale status symbol che c‟è chi è disposto a pagarlo un migliaio di dollari. Ulteriore dimostrazione che l‟iPhone è il prodotto-icona più leggendario mai creato da mani umane. Pochi vedono in Steve un esempio di moralità, ed è per questo che mi ha fatto molto piacere il servizio realizzato da CBS News su uno scambio di email avvenuto tra Steve e Ryan Tate, noto opinionista del web. Tate ha scritto una mail a Steve, dicendo: “Se oggi Bob Dylan avesse vent‟anni, cosa penserebbe della tua azienda? Crederebbe che l‟iPad abbia qualcosa a che fare con la 'rivoluzione‟? Le rivoluzioni si fanno in nome della libertà. “Mi ha sempre sorpreso che Steve, indaffarato com‟è, trovi il tempo di rispondere ad alcune email di perfetti sconosciuti. Quella volta ha risposto:
“Sì, la libertà da programmi che ti rubano i dati personali. La libertà dai programmi che ti prosciugano la batteria. La libertà dalla pornografia. Sì, libertà. The times they are achangin‟,5 e alcuni produttori di PC tradizionali si sentono mancare la terra sotto i piedi. Ed è così che sta andando.”
La conversazione proseguì con qualche altro botta e risposta, Finché Steve decise che ne aveva abbastanza. Definì Tate “disinformato” e scrisse: “Microsoft ha tutto il diritto di richiedere il rispetto delle regole che ha fissato per la sua piattaforma. Se alla gente non sta bene, può scrivere per un'altra piattaforma, e alcuni fanno così. Oppure possono comprare un'altra piattaforma, e alcuni l'hanno fatto. Quanto a noi, facciamo il possibile per creare (e tutelare) l'esperienza utente che immaginiamo. Puoi non essere d'accordo con noi, ma le nostre motivazioni sono trasparenti.” 44
Il contenuto è sovrano Di alcune persone si dice che continuano incessantemente a reinventarsi. Ho sempre pensato che Steve Jobs sia una di queste persone, ma in un senso diverso: non è cambiato negli anni, è cambiata la sua visione. Il Macintosh come “computer per tutti” era lo Steve di prima generazione. In tutto ciò che è venuto prima dell‟ iPhone e dell'iPad, Steve era un creatore di prodotti che stimolavano l'immaginazione. Oggi la visione di Steve si è evoluta, e si concentra sui contenuti. Agli occhi dei competitor, l'ìPad è un semplice tablet; ma i competitor non colgono il punto centrale. Per Steve, l'ìPad non è solo un tablet ma un dispositivo multimediale, una piattaforma di distribuzione che porta i contenuti all'utente. In quanto evoluzione dell‟iPhone, è anche una piattaforma per applicazioni; con la differenza che la maggior parte delle app per iPad è tesa a semplificare l'accesso ai contenuti da parte dell‟utente. Google guadagna con la pubblicità e con le applicazioni per cellulari, ma vede se stessa come un intermediario che consente ad altri di distribuire contenuti. Al contrario, Steve Charles Cooper, Steve Jobs on „Freedom from Porn . . CBS News, 15 maggio 2010. www.cbsnews.com/8301-501465_162-20005076501465.html.
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ha scoperto, lavorando con Pixar e Disney, che il contenuto è sovrano. Ovunque ci si volti, ogni giorno, vediamo persone che ascoltano musica sull'iPod o guardano film sull‟iPad... e pagano Apple per il privilegio di farlo. Steve ha immaginato un mondo in cui sono i contenuti a fare la differenza. L'Apple del futuro si concentrerà sempre di più su questa funzione: mettere nelle nostre mani apparecchi che trasmettano contenuti Come al solito, Steve ha intravisto il futuro e lo sta facendo suo. Ricordate quella battuta che dice: “Se cerchi la cosa X sul dizionario, troverai la foto della persona Y"? Se i dizionari fossero illustrati, non c'è alcun dubbio che la definizione di cool sarebbe adornata da una gigantografia di Steve Jobs. Steve ha creato una serie di prodotti che hanno cambiato così radicalmente la società da convincere milioni di persone non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, e non solo i giovani ma gente di tutte le età - che per emanare carisma basta sfoggiare un MacBook, un iPod, un iPhone e ora un iPad. *** Ma ecco il punto centrale: Steve Jobs non ha brevettato l'idea di essere cool. Altre aziende, altri product manager e product designer, possono creare prodotti di nuova generazione che tutti vorranno: e li vorranno perché sono belli, intuitivi, comodi e piacevoli da usare, e in armonia con le esigenze del cliente. E voi? Avete creato - o pensate di creare - un prodotto in grado di fare tanto scalpore che persino Steve Jobs si accorgerà di voi?
PARTE V: Diventare come Steve
Sulle sue orme
Si possono davvero seguire le orme di Steve Jobs, applicando i principi illustrati in queste pagine per potenziare le vostre strategie di business e ottimizzare i vostri prodotti? La mia risposta è sì, e la prova è che ci sono riuscito anch'io, ripetutamente. Nel 1987, fui invitato a parlare di employee entrepreneurship45 a un convegno di amministratori delegati della “Fortune 100” a Williamsburg. C'erano un centinaio di partecipanti, e io ero molto in imbarazzo perché dovevo salire sul palco subito dopo Ted Kennedy e perché in platea c'erano molti luminari del settore. Per i dirigenti è facile pensare: "Be', tutto questo potrà funzionare in Apple, ma non funzionerebbe mai nella mia azienda.” Eppure, una settimana dopo, mi contattò il vicepresidente alle risorse umane di General Electric: l'azienda stava promuovendo un'iniziativa per stimolare
Lett. "imprenditorialità dei dipendenti”: fenomeno per cui un dipendente lascia l‟azienda per fondare una startup concorrente nello stesso settore. [N.d.T.]
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l'input da parte dei dipendenti, e mi chiese se per caso ero interessato a partecipare. Andai a New York a incontrare gli ideatori dell‟iniziativa e Jack Welch venne a tenere un discorso. Welch era un uomo d‟affari dalla personalità forte, che aveva la reputazione di essere un duro e non un buon ascoltatore. Io non lo vedevo così: capivo che voleva creare un ambiente in cui i dipendenti di GE potessero sentirsi parte integrante dell‟azienda, e disposti a contribuire alla risoluzione dei suoi problemi. L‟iniziativa era tesa a implementare le buone idee dei dipendenti per stimolare l‟efficienza dell‟azienda con un sistema più invitante e più efficace di una semplice scatola dei suggerimenti. In altri termini, volevano che i dipendenti si sentissero un po‟ come pirati in una startup Collaborammo con un‟agenzia di consulenza di Boston per dar vita a un programma intitolato "Work Out” per conseguire quegli obiettivi. Lo collaudammo in uno stabilimento di General Electric a Buffalo, famigerato per il livello di burocrazia, fra i peggiori dell‟intera azienda. Work Out si dimostrò un enorme successo. Disse Jack: "Work Out vuole aiutare i dipendenti a emanciparsi dalle assurdità che si vedono nelle grandi aziende: troppi livelli di approvazione, duplicazioni, sperperi, sprechi.” Disse inoltre che il programma era riuscito a "mutare radicalmente l‟azienda: i dipendenti hanno iniziato a dare istruzioni ai capi. Ha cambiato per sempre il modo di lavorare in quest‟azienda”. Per me quest‟esperienza è stata un‟ulteriore riprova che i principi di iLeadership possono essere applicati a qualsiasi livello e fare davvero la differenza. L‟esperienza in GE ha rinnovato in me la convinzione che gli insegnamenti di Steve mi sarebbero tornati molto utili nella vita. Gradualmente ho maturato il desiderio di fondare un‟azienda con un ambiente simile a quello di Apple, costruita intorno a una grandiosa idea di prodotto. Da Steve avevo imparato che non si deve mai smettere di cercare idee che risolvano problemi e migliorino la produttività
dell‟utente. E che serve l‟intuito per capire se un prodotto aiuterà o no a rendere il mondo un posto migliore. Tempo fa collaborai con il Medicai Center dell‟Università di Los Angeles (UCLA) su un progetto di digitalizzazione delle cartelle cliniche e riconoscimento vocale, che mi obbligava a volare a Los Angeles ogni settimana. Un giorno arrivai in albergo e mi accorsi di aver lasciato il computer in aereo. Odiavo portarmi dietro quel computer. Qualcuno mi mostrò un piccolo gadget che non avevo mai visto prima: un drive USB che consentiva di portarsi dietro i dati. Che idea fenomenale! All‟epoca, i 256 mb di quella chiavetta bastavano a portarsi in viaggio tutta la cartella Documenti senza dover mettere in valigia il computer. Da Steve ho imparato a chiedermi sempre: “Cosa si può fare con questa tecnologia?‟‟ Due giorni dopo, tornando a casa, sapevo di avere l‟idea per un grande prodotto: l‟intero desktop in una chiavetta usb. Quando l‟utente avesse inserito la chiavetta nel computer, un software (che dovevo ancora sviluppare) si sarebbe sovrapposto al sistema operativo caricando non solo i documenti ma l‟intera scrivania, con tutti i programmi e le cartelle. Estraendo la chiavetta sarebbe riapparso il desktop originario, e il computer "ospite” sarebbe tornato esattamente come prima. La passione travolgente di Steve per i suoi prodotti è stata il mio modello. E come Steve, anch‟io mi sono circondato di persone entusiaste. L‟amministratore delegato di Handspring, Donna Dubinsky, mi ha messo in contatto con il primo sviluppatore, un giovane e brillante programmatore della Brown University. Arrivava in ufficio agli orari più strani sul suo scooter, lavorava per tutta la notte e a volte non si faceva vivo per giorni. Ma avevo imparato da Steve come trattare i pirati, e quel che vidi era un ragazzo molto giovane ma che sapeva come si crea un prodotto di successo. Il grande pregio di un pirata è che se gli dici: “Ho bisogno di un prototipo funzionante di questo prodotto”, lui lavorerà anche la notte per costruirtelo il prima possibile. ***
I drive usb dell‟epoca erano cosi inguardabili che decisi di costruirmene uno da solo: chiesi a un amico di intagliarlo nel legno secondo le mie specifiche, e poi portai il modellino a un costruttore. Mi scervellai per trovargli un nome. Un marchio come „Apple” o “Sony” è semplice, inconfondibile, e si presta bene al trattamento grafico. Volevo un nome di quel tipo, non tecnico ma orecchiabile, e alla fine optai per "Migo”, che unisce la pronuncia di “me” e “go” (conferendo un senso di "dinamicità”). Sembrava la giusta combinazione di semplicità ed efficacia. Come sempre, ci fu una miriade di problemi tecnici da risolvere: il Migo doveva essere compatibile con tutti i sistemi operativi e tutte le versioni di Word ed Excel; doveva garantire la massima sicurezza ed essere affidabile al cento per cento, e semplicissimo da usare. Anche i pirati hanno bisogno di un buon amico: andai a trovare il genio della pubblicità Jay Chiat, il brillante cofondatore di Chiat/Day, l‟agenzia che aveva dato un contributo straordinario al branding di Apple, e lui accettò di occuparsi del branding di Migo. Anche qui seguivo gli insegnamenti di Steve: cerca i talenti e le risorse più straordinari - i migliori in assoluto - e cerca di assumerli non appena puoi. E non dimenticarti di persone e risorse che hai usato in passato o di cui ti hanno parlato bene. Al termine del lavoro, mi ritrovai con un prodotto bellissimo e molto intuitivo. Finestre sullo schermo guidavano l‟utente in ogni passo: c‟era un manuale utente, ma non serviva neppure. Anche questo l‟avevo imparato dall‟esperienza del Macintosh. Il prodotto fu elogiato da PC World, Newsweek e al Consumer Electronics Show per il design, l‟interfaccia e persino per la scatola in cui era venduto: un ottimo risultato di branding e PR con pochissima spesa. L‟autorevole Walter Mossberg del Wall Street Journal lo definì "un piccolo grande prodotto”. Quella recensione fece salire il valore delle azioni Migo da 1,50 dollari a 6,50 in un
solo pomeriggio. Anche John Dvorak scrisse un articolo fantastico su di noi per PC Magazine, seguito da Steve Wildstrom di BusinessWeek. E non finisce qui: Mossberg non si limitò a elogiare il mio prodotto sulla carta stampata, ma lo mostrò anche in tv, durante la sua trasmissione sulla CNBC, e disse: “Un piccolo grande prodotto." Mi sembrava di essere tornato con Steve, di ritrovare la stessa energia che sentivo quando ero in Apple. Purtroppo questa storia non ha un lieto fine. Per risparmiare, mi ero rivolto a un fornitore a basso costo per la scocca e i circuiti elettronici, e metà dei pezzi costruiti da loro non funzionavano. Ma c‟era un problema ancor più serio: quando avevo avviato il progetto, un flash drive da 256 mb costava 150 dollari. Quando uscì il Migo, il prezzo era calato a circa quattro dollari per un intero gigabyte: una capienza pari al quadruplo. Il costo aggiuntivo per un flash drive con software Migo non incideva molto su una spesa di 150 dollari, ma una volta crollato il prezzo delle chiavette, con dozzine di modelli tra cui scegliere, si fece difficile giustificare il prezzo molto più elevato del Migo. Commisi un altro errore, analogo a uno commesso da Steve in Apple. Come ho già detto, la Lehman Brothers mi aveva convinto a reclutare un consiglio di amministrazione composto da persone già esperte nella gestione di aziende quotate in borsa. Il problema era che quelle persone non nutrivano una vera passione per il prodotto. Mi sembrava di essere tornato in IBM. Quelle persone erano intelligenti, ma così lontane dal prodotto che perdevano di vista le cose davvero importanti: a loro interessava solo la quotazione delle azioni. Ed è stata la mia ultima lezione: se ti trovi costretto a lavorare con consiglieri d‟amministrazione o investitori che non ti capiscono, probabilmente è tempo di andartene. Ho lasciato Migo per concentrarmi sul prossimo prodotto e ho fondato un‟altra azienda. Un altro insegnamento di Steve, confermato dalla mia esperienza con Migo: l‟idea che ogni prodotto immaginabile sia anche realizzabile. Ed è per questo che, quando i suoi ingegneri avevano detto di non poter costruire un telefono con un solo tasto, Steve aveva insistito abbastanza a lungo e
con sufficiente vigore, e finalmente gli ingegneri c‟erano riusciti. Il Migo era nato da una grande passione per un grande prodotto. È stato Steve Jobs a generare in me quella passione. Alcuni altri principi di Steve Jobs che mi sono stati utili in Migo: Devi appassionarti a ogni progetto a cui lavori. Individua un‟opportunità e crea il prodotto giusto per rispondere a quell‟esigenza. Tieni sempre gli occhi aperti per trovare i talenti giusti. Fa‟ del tuo meglio per rendere intuitivo il prodotto, in modo che non serva un manuale d‟uso. Sii sincero con te stesso in merito ai tuoi prodotti. Assicurati che i prodotti rappresentino te e la tua personalità. Celebra ogni successo insieme ai tuoi collaboratori. Continua a innovare per avvicinarti al tuo ideale di perfezione, e guarda oltre ciò che oggi è fattibile. Non ascoltare chi ti dice: “È impossibile‟‟. Mentre scrivo queste parole, ho appena finito di raccogliere venture capital per un‟altra startup, Nuvel, basata su un prodotto che incrementa la velocità e le prestazioni di Internet migliorando la connettività nell‟"ultimo miglio”, oltre all‟esperienza utente per i computer e i dispositivi mobili. Il prodotto Nuvel accelera fino a duecento volte tutto il traffico su reti IP-based. In termini semplici, il prodotto comprime i dati in tempo reale e forza attraverso un tunnel elettronico sicuro ad alta velocità creato da Nuvel, e incrementa sensibilmente le prestazioni, l‟affidabilità e la sicurezza delle reti. Ho creato un app store Nuvel, per rendere disponibili i nostri prodotti sui dispositivi mobili come iPhone e iPad. Un‟altra lezione che ho appreso da Steve: mantieniti sempre aggiornato e continua a sfidare te stesso, chiedendoti: "Cosa entusiasma i consumatori?” Ovviamente, continuo a mettere in pratica i principi di Steve. E soprattutto, in azienda e fuori, tutti sanno che io
sono lo Zar del Prodotto: spettano a me tutte le decisioni finali sul prodotto, sull'interfaccia e su ogni altro aspetto. Potete scommetterci: tutti i membri del team sanno che l'interfaccia utente è cruciale per il prodotto. Forse mi accusano di voler somigliare troppo a Steve Jobs; ma se è così, non mi dispiace. La massima semplicità possibile per l‟interfaccia utente è un elemento irrinunciabile: tutti i miei dipendenti sanno da dove ho tratto questa convinzione, e si impegnano per trasformarla in realtà. Un‟altra cosa che ho imparato da Steve è il grande valore delle relazioni pubbliche, soprattutto quando si hanno pochi fondi a disposizione. Una strategia efficace di PR è il miglior apripista nel mercato. I miei ingegneri del software, gli stessi con cui lavoravo in Migo, non soltanto sono pirati e grandi artisti, ma soprattutto comprendono il mio desiderio di raggiungere la massima qualità nei prodotti. E si impegnano a fondo: quando richiedo una modifica per il lunedì mattina, lavorano tutto il week end, se necessario.
A nome di Steve Le persone che hanno lavorato più a stretto contatto con Steve sono le uniche in grado di trasmettere la filosofia e le idee che gli hanno garantito tanto successo, come ho cercato di fare io in queste pagine. L‟unica altra persona che, a mio avviso, è riuscita a cogliere l‟essenza di Steve è il direttore operativo di Apple, Tim Cook. Le sue parole mi sembrano illustrare al meglio i valori che Steve Jobs ha promosso, quelli che hanno reso Apple così grande; valori che chiunque può far propri: Ci focalizziamo costantemente sull‟innovazione. Crediamo nel semplice, non nel complesso. Crediamo di dover possedere e controllare le tecnologie primarie che sono alla base dei nostri prodotti, ed entrare solo nei mercati a cui possiamo fornire un contributo significativo. Crediamo che sia necessario dire di no a migliaia di prodotti, per poterci concentrare sui pochi che davvero significano qualcosa per noi. Crediamo nella collaborazione profonda e nell'impollinazione incrociata dei nostri gruppi, che ci permettono di innovare come nessun altro. La verità è che non siamo disposti a compromessi sull‟eccellenza, in ogni gruppo dell‟azienda, e abbiamo la sincerità di ammettere i nostri errori e il coraggio di cambiare .46
Dunque, la mia ultima domanda è: “E voi?” Il vostro prodotto, il servizio che offrite, il vostro lavoro, vi rappresentano? Dimostrano chi siete? 46
Tim Cook, discorso pronunciato durante la teleconferenza degli investitori Apple, 21 gennaio 2009, http://www.businessinsider.com/2009/1/apples-tim-cook-were-finewithout-steve-jobs
Più affinità c‟è tra il vostro lavoro e la vostra identità profonda, e più vi sforzerete di pretendere la perfezione che ogni prodotto merita. E vi impegnerete maggiormente per fare in modo che i clienti ricordino e amino il vostro prodotto. Il sintomo più evidente della passione per il prodotto è il fatto che voi per primi lo usiate con piacere. Dovete essere sinceri con voi stessi: se il vostro prodotto non vi interessa, come potrete promuoverlo in modo efficace? Come riuscirete a persuadere il cliente che il prodotto gli sarà utile, lo soddisferà e gli darà piacere? Sono convinto che un‟azienda sia il riflesso del suo leader, del suo primo difensore. Come i bambini si accorgono subito dell‟insincerità, così anche voi non potete fingere: dovete appassionarvi ai prodotti che create, promuovete, pubblicizzate o vendete, e questo vuol dire che dovete lavorare in un‟azienda e in un settore a cui tenete davvero. Steve Jobs non sarebbe mai arrivato dov‟è arrivato senza la passione, senza l‟impegno per l‟eccellenza, senza un branding efficace e senza essere disposto a imparare dai suoi errori. E non c‟è sentiero migliore da imboccare che quello tracciato da lui..
Una lettera a Steve Caro Steve, in queste pagine ho cercato di ritrarre il vero Steve Jobs: non la mezza verità contenuta in tutti quei libri scritti da giornalisti, o da persone che hanno lavorato sul Mac ma non ti hanno mai conosciuto davvero. Ricordo che una volta, verso la fine di un viaggio in Giappone, dovevamo andare a un‟ennesima “cena di gala” con Sony o Canon o qualcuno del genere, e io ti dissi che non me la sentivo di mangiare sushi un‟altra volta. Allora tu uscisti, e alla reception dell‟albergo mi diedero l‟indirizzo di un ottimo ristorante di tempura. Ero lì da mezz‟ora quando tu mi raggiungesti, dicendo che neppure tu avevi voglia di un‟altra cena formale. Non ho mai dimenticato quella serata e la nostra conversazione sulla politica e il futuro del mondo, sulle persone, la vita, il lavoro, l‟amore. Tu eri rilassato, calmo, potevi essere te stesso. Era in quei momenti che vedevo il vero Steve. Mi sono sempre chiesto cosa ne sarebbe stato di Apple se nel 1985 non ti avessero cacciato. Non è bello rinfacciare "te l'avevo detto”, però avevo previsto il futuro. E come ti ho detto una volta, tu decidi la partita: tu releghi gli altri giocatori ai bordi del campo. Hai portato Apple alla gloria con la seconda maggiore capitalizzazione di mercato nel mondo. Ma non è il valore di mercato a caratterizzare un‟azienda, sono le persone e i prodotti. È evidente che hai tratto profitto dalle tue esperienze, e sei riuscito a fissare un nuovo standard nella gestione d‟impresa. Credo fermamente che l‟azienda di nuova generazione debba essere orientata al prodotto, e lavorare ogni giorno come se fosse una startup. La nuova Apple è il modello per l‟azienda del futuro, perché traduce in azione tutti i princìpi della leadership, ed è così da quando tu sei
tornato. Sei persino riuscito a far restare Apple una startup: un‟impresa molto ardua. Mi chiedono sempre cosa succederebbe se Steve lasciasse Apple, o, come dici tu, se “ti investisse un autobus”. Io rispondo che Steve Jobs è insostituibile in quanto leader carismatico e visionario di un‟azienda centrata sull‟uomo e sul prodotto; ma che Steve può essere rimpiazzato da un triumvirato che porti avanti la sua eredità. Apple avrà un nuovo amministratore delegato, ma quella persona svolgerà solo una parte del tuo ruolo. Jonathan Ive, il britannico schivo che ha dato il soffio vitale ai progetti dell‟iMac, dell‟iPod, dell‟iPhone e dell‟iPad, continuerà a inventare prodotti che tutti vorranno usare e possedere. Phil Schiller continuerà a immaginare i prodotti di domani, spianando la strada per il futuro della tecnologia. Uno tra i vari contendenti erediterà da te il ruolo di forza motrice dei team che lavorano dietro le quinte per tradurre le idee in software e hardware. Il direttore operativo Timothy Cook è il contendente principale, essendo riuscito a far funzionare benissimo l‟azienda mentre tu eri via. Una volta io e te ci siamo detti che è difficile creare prodotti, ma è ancor più difficile fondare e gestire aziende davvero efficienti. Ed è difficilissimo fare le due cose insieme. Sono convinto che il nuovo modello imprenditoriale che tu hai creato sia la pietra angolare delle aziende del futuro. Tutti ci auguriamo che resterai alla guida di Apple per molti anni ancora, quindi voglio chiudere questa lettera ponendoti una sfida. Come sai non ho più rapporti con Apple, se non come cliente, quindi il mio sarà un consiglio da bordo campo. Tu per me sei "il re dello schermo”: hai messo nelle nostre mani dispositivi in grado di trasmettere quantità enormi di informazioni che chiunque può usare. Oggi viviamo in una società dell'immagine, sempre pronta a metterci davanti agli occhi un altro display. Quindi, ora che sei riuscito a darci l‟accesso a tutte queste informazioni, voglio sperare che tu stia già lavorando per dare ai nostri portatili, ai nostri iPhone e iPad, la possibilità di monitorare il nostro stato di salute: avvertire il nostro medico e magari
l‟ambulanza se c‟è un cambio improvviso dei parametri vitali. Spero che i tuoi prossimi prodotti non solo ci daranno accesso ai contenuti, ma saranno capaci di leggere o individuare informazioni tramite lo schermo: monitorare la temperatura, la pressione del sangue, l‟emocromo, persino la qualità dell‟aria che respiriamo e dell‟acqua che beviamo. Chiunque può comprendere il valore enorme di un servizio simile. E oggi che oltre il trentacinque per cento dell‟economia mondiale è rappresentata dal settore sanitario, ogni uomo ne trarrebbe vantaggi incalcolabili. Sei all‟avanguardia su tanti fronti, e forse stai già lavorando su queste idee. Ma altrimenti, spero che raccoglierai questa sfida direttamente. Cordialmente Jay Elliot
Dovete credere in qualcosa: l'istinto, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Questo approccio non mi ha mai tradito, e ha fatto la differenza nella mia vita. Steve Jobs, discorso inaugurale, università di Stanford, 2005.
Ringraziamenti
Da parte di Jay Elliot Ho avuto la grande fortuna di lavorare con alcune figure di spicco del mondo aziendale. Tutte le mie esperienze professionali sono confluite in questo libro, e devo ringraziare alcuni dirigenti tra cui T.J. Watson, direttore e presidente di IBM; l‟amministratore delegato di Intel, Andy Grove; i co-fondatori di Intel Gordon Moore e Bob Noyce; e naturalmente Steve Jobs. Le lezioni che ho imparato lavorando con questi leader sono state inestimabili per lo sviluppo del mio pensiero sulla leadership. Vorrei ringraziare la mia buona amica e collega Kim Pettinger: le sono molto riconoscente per il sostegno e l‟incoraggiamento, e per le sue idee durante la prima stesura di questo libro, portata a termine tra infinite tazze di caffè. È la mia “allenatrice” personale e mia musa, e molte delle lezioni di questo libro sulla crescita personale e la cultura aziendale portano la sua impronta. Non è facile affrontare un uomo come me.
Lettera di Steve al suo team
17 gennaio 2011 Team, su mia richiesta, il consiglio di amministrazione mi ha accordato un periodo di assenza per malattia, così da potermi concentrare sulla mia salute. Continuerò in ogni caso a svolgere l'incarico di amministratore delegato e sarò coinvolto nelle più importanti decisioni strategiche sulla società. Ho chiesto a Tim Cook di prendersi le responsabilità del lavoro day by day di Apple. Sono certo che Tim e gli altri manager faranno un fantastico lavoro mettendo in pratica i nostri eccitanti progetti per il 2011. Amo moltissimo Apple e spero di tornare il prima possibile. Nel frattempo, io e la mia famiglia apprezzeremo molto il rispetto per la nostra privacy. Steve