FRITZ LEIBER SPADE E DIAVOLERIE (Swords And Deviltry, 1970) PRESENTAZIONE La terra di Nehwon è il mondo immaginario crea...
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FRITZ LEIBER SPADE E DIAVOLERIE (Swords And Deviltry, 1970) PRESENTAZIONE La terra di Nehwon è il mondo immaginario creato da Fritz Leiber intorno alle avventure dei due personaggi di Fafhrd e del Gray Mouser: il barbaro gigantesco venuto dal nord e il piccolo spadaccino intrigante che bazzica un poco con la magia (una sorta di clerico vagante medievale). I due personaggi furono creati nel 1934 da Leiber e dal suo amico Barry Fischer: Fafhrd è la caricatura eroicomica dello stesso Leiber, mentre il piccolo Mouser è l'alter ego di Fischer. Insieme, Leiber e Fischer scrissero una prima stesura dell'ultimo racconto della serie cronologica, I signori di Quarmall, poi Fischer lasciò l'attività di scrittore per quella più prosaica di progettista di imballaggi ("attività un po' mouseriana" commenta Leiber, "ma assai impegnativa, che non gli lasciò tempo per la narrativa." "La spada Cesello infilzò barattoli di colla, il pugnale Zampino la sparse sul cartone ondulato. Non ho mai letto che da uno dei suoi imballaggi siano saltate fuori anguille velenose di Lankhmar o ragni giganti di Klesh, ma continuo a nutrirne fondate speranze"). Leiber iniziò in quegli anni Le spade di Lankhmar e altri racconti più brevi, che apparvero in seguito sulla rivista "Unknown" (Le gemme nella foresta, La casa dei ladri, La torre che ululava); di questa prima produzione, Il gambetto dell'adepto venne pubblicato in volume nel 1947, in una raccolta di opere di Leiber. In seguito, le avventure di Fafhrd e del Gray Mouser rimasero ferme per vari anni, fino a quando Cele Goldsmith, che dirigeva la rivista "Fantastic", chiese a Leiber di scrivere nuove storie con gli stessi personaggi. Per lei Leiber terminò la stesura di Le spade di Lankhmar nel 1961 e completò I signori di Quarmall. Poi, nel periodo tra il 1960 e il 1970, elaborò gradualmente anche la geografia di Nehwon e gli aspetti della città di Lankhmar (L'empio Graal, 1962; Il bazar del bizzarro, 1963; Tempi magri a Lankhmar, 1959). Si trattava di racconti aventi lo scenario e i personaggi in comune, ma ancora privi di una connessione cronologica. Il suggerimento di disporli in successione venne a Leiber da parte di Donald Wollheim, che allora dirigeva le collane di fantascienza degli Ace Books. A partire dal 1967, Leiber scrisse altre storie che descrivono il retroterra dei due personaggi, e
la Ace Books pubblicò tutta la serie: cinque volumetti con una caratteristica in comune; nel titolo di ogni libro compare la parola swords, spade. Il primo libro, "Spade e diavolerie", comprese L'empio Graal con due nuovi brani: Le donne delle nevi (giovinezza di Fafhrd) e Brutto incontro a Lankhmar (incontro tra il Gray Mouser e Fafhrd). Il materiale apparso negli anni '40 mila rivista "Unknown" costituì il secondo volume, "Spade contro la morte". Il terzo volume, "Spade nella nebbia" comprese le storie scritte per Cele Goldsmith agli inizi degli anni '60, con l'aggiunta di quel Gambetto dell'adepto che era stato scritto nel 1937 e pubblicato dieci anni dopo. Quarmall costituì il pezzo forte del quarto volume. Ai quattro volumi di racconti e al quinto volume contenente il romanzo Le spade di Lankhmar se ne è aggiunto ora un sesto, contenente episodi successivi alla "guerra contro i ratti" delle Spade di Lankhmar: è uscito recentemente in America, dopo vari anni di silenzio, un nuovo volume del Gray Mouser, intitolato "Spade e magia dei ghiacci", e probabilmente la serie continuerà ancora. Infatti dice Leiber: "In tutti questi anni, nei momenti buoni e in quelli cattivi, il Mouser e Fafhrd sono stati per me due ottimi amici capaci di farmi uscire dai momenti di depressione, con le buone o con le cattive, quando nessun altro riuscirebbe a farlo: tanto che sono certo che continuerò a chiedere loro nuove avventure." Riccardo Valla Contenuto INTRODUZIONE DELL'AUTORE INDUZIONE Di un altro mondo, e di come due estranei si incontrarono, scoprendo allora di essere affini. LE DONNE DELLE NEVI Della gelida magia delle donne, e di una guerra fredda tra i due sessi, in cui si narrano le disavventure di un giovane dalle mille risorse circuito da tre donne magistrali; inoltre, valide informazioni relative all'affetto tra padre e figlio, al coraggio degli attori e alla temerarietà dei folli. L'EMPIO GRAAL
Una parafrasi narrativa dei rapporti di un mago di campagna con accoliti d'ambo i sessi, e con essa varie rivelazioni sull'impiego dell'odio come motore; inoltre, l'unica verace cronaca del modo in cui Mouse, il Topo, divenne il Gray Mouser, il Cacciatore di Topi. BRUTTO INCONTRO A LANKHMAR Il secondo e decisivo incontro di Fafhrd e del Gray Mouser, con talune rivelazioni sugli aspetti negativi dell'interminabile nebbia notturna e del latrocinio organizzato, dell'ebbrezza da vanità che contraddistingue uomini e ragazze troppo amati, e delle vertiginose meraviglie e altrettanto vertiginosi orrori della Città dei Centoquarantamila Fumi. INTRODUZIONE DELL'AUTORE Questo è il Primo Libro della Saga di Fafhrd e del Gray Mouser, i due più grandi spadaccini che mai esisteranno in questo o in qualunque altro universo della realtà o della fantasia, maestri della lama più abili di Cyrano de Bergerac, Scar Gordon, Conan, John Carter, D'Artagnan, Brandoch Daha e Anra Devadoris. Compagni fino alla morte e commedianti neri per tutta l'eternità, donnaioli, rissosi, sbevazzatori, fantasiosi, romantici, terreni, ladri, sardonici, spiritosi, perpetuamente alla ricerca d'avventure per tutto il vasto mondo, eternamente destinati a scontrarsi con gli avversari più tremendi, i nemici più perfidi, le donne più deliziose e i più terribili degli stregoni e belve sovrannaturali ed altri personaggi. In una sera incantata, Harry Otto Fischer creò Fafhrd e il Mouser, e gli stregoni loro protettori, Ningauble dai Sette Occhi e Sheelba dal Volto Senza Occhi e - con l'aiuto dell'autore - la città di Lankhmar. Ma l'autore ha inventato e scritto tutto il resto, tranne 10.000 parole dei Signori di Quarmall, scritte da Fischer. Dopo questo Primo Libro, nell'ordine esatto delle avventure vengono: Spade contro la morte, Spade nella nebbia, Spade contro la magia (che comprende I signori di Quarmall) e Le spade di Lankhmar. Nel frattempo, il Libro Sesto (del ciclo delle "Spade") è in fase di ribollente creazione: sono già stati scritti quattro nuovi racconti. Fritz Leiber San Francisco, giugno 1973 INDUZIONE
Separato da noi da abissi di tempo e di dimensioni estranee, sogna l'antico mondo di Nehwon, con le sue torri e i suoi teschi e le sue gemme, le sue spade e i suoi incantesimi. I regni conosciuti di Nehwon si affollano intorno al Mare Interno; verso nord la fiera Terra delle Otto Città, coperta di verdi foreste, verso est i cavalieri Mingol. abitatori della steppa ed il deserto attraversato lentamente dalle carovane provenienti dalle ricche Terre Orientali e dal fiume Tilth. Ma a sud, collegati al deserto soltanto dalla Terra Sommersa, e protetti dalla Grande Diga e dal Monte della Fame, vi sono i lussureggianti campi di grano e le città murate di Lankhmar, la più antica e importante delle terre di Nehwon. Situata in posizione dominante nella Terra di Lankhmar alla foce sabbiosa del fiume Hlal, in un angolo sicuro tra i campi, la Grande Palude Salata ed il Mare Interno, sorge la metropoli di Lankhmar, dalle mura massicce e dai vicoli tortuosi, affollata di ladri e di sacerdoti dal capo rasato, da esili maghi e da grassi mercanti... Lankhmar l'Imperitura, la Città della Toga Nera. A Lankhmar, in una notte tenebrosa, se vogliamo credere ai libri enigmatici di Sheelba dal Volto Senza Occhi, si incontrarono per la prima volta quei due discutibili eroi e bricconi capricciosi, Fafhrd e il Gray Mouser. Le origini di Fafhrd si leggevano facilmente nei suoi due metri e dieci di statura e nella sua struttura simile a quella di un tronco d'albero, negli ornamenti martellinati e nell'enorme spadone: era inequivocabilmente un barbaro delle Solitudini Fredde, a nord delle Otto Città e dei Monti dei Troll. I precedenti del Mouser erano più enigmatici, e difficilmente si potevano dedurre dalla sua statura da bambino, dalla veste grigia, dal cappuccio di pelli di topo che gli ombreggiava la faccia olivastra, e dallo stiletto ingannevolmente elegante; ma qualcosa, in lui, parlava delle città e del sud, delle strade buie ma anche di spazi ampi, assolati. E mentre i due si scrutavano con aria di sfida nella nebbia scura rischiarata indirettamente da torce lontane, già erano vagamente consapevoli che erano due frammenti lungamente separati e perfettamente collimanti di un eroe ancora più grande, e che ognuno di loro aveva trovato un compagno che gli sarebbe rimasto fedele in mille imprese e per tutta una vita - o per cento vite - di avventura. Nessuno, in quel momento, avrebbe potuto sospettare che il Gray Mouser un tempo era chiamato Mouse, Topo, o che Fafhrd fino a poco tempo prima era un giovane dalla voce educata al falsetto, che indossava soltanto pellicce bianche, e dormiva ancora nella tenda di sua madre sebbene avesse diciotto anni.
LE DONNE DELLE NEVI A Cantuccio Freddo, a mezzo inverno, le donne del Clan delle Nevi erano impegnate in una guerra fredda contro gli uomini. Si aggiravano come fantasmi nelle loro pellicce più bianche, quasi invisibili sullo sfondo della neve appena caduta, sempre riunite in gruppi esclusivamente femminili, silenziose o, al massimo, sibilanti come ombre sdegnate. Evitavano la Casa di Dio che aveva alberi per pilastri e pareti di cuoio intrecciato e un tetto altissimo d'aghi di pino. Si radunavano nella grande, ovale Tenda delle Donne, piazzata di sentinella davanti alle tende più piccole che fungevano da abitazioni, e cantilenavano e mugolavano minacciosamente e compivano varie pratiche taciturne, destinate a creare possenti incantesimi per legare le caviglie dei loro mariti a Cantuccio Freddo, per serrare i loro lombi e procurare loro raffreddori da far sgocciolare il naso, tenendo di riserva la minaccia della Grande Tosse e della Febbre Invernale. Se un uomo era tanto imprudente da andare in giro solo durante il giorno, rischiava di essere preso a palle di neve e, se catturato, di essere percosso... anche se era uno scaldo o un possente cacciatore. È non era uno scherzo, venire presi a palle di neve dalle donne del Clan delle Nevi. Lanciavano a braccio alto, questo è vero, ma i loro muscoli erano irrobustiti a furia di spaccare la legna da ardere, tagliare i rami alti, e battere le pelli, compresa quella dura come il ferro del colosso delle nevi. E qualche volta, facevano prima ghiacciare le palle di neve. Gli uomini muscolosi e induriti dall'inverno subivano tutto questo con immensa dignità, aggirandosi come sovrani nelle vistose pellicce cerimoniali nere, ruggine e tinte dei colori dell'arcobaleno, bevendo abbondantemente ma con discrezione, e barattando con abilità degna degli Ilthmariti i pezzi d'ambra e d'ambragrigia, i diamanti delle nevi visibili solo di notte, le lucide pelli d'animali e le erbe del ghiaccio con stoffe, spezie ardenti, ferro azzurrato e brunito, miele, candele di cera, polveri per il fuoco che divampavano con un rombo colorato, ed altri prodotti del civile Meridione. Tuttavia, non mancavano di stare generalmente in gruppi, e tra loro c'erano molti nasi che sgocciolavano. Le donne non avevano nulla da ridire contro il commercio. In questo gli uomini erano abilissimi e loro, le donne, ne erano le principali beneficiarie. Preferivano di gran lunga il commercio alle sporadiche attività piratesche
che conducevano quegli uomini libidinosi molto lontano, lungo le coste orientali del Mare Esterno, al di fuori della portata immediata della supervisione matriarcale e persino, come temevano talora le donne, della loro potente magia femminile. Cantuccio Freddo era la località più meridionale mai raggiunta dal Clan delle Nevi, i cui membri trascorrevano gran parte della loro esistenza nelle Solitudini Fredde e tra le colline ai piedi delle inviolate Montagne dei Giganti e delle ancora più settentrionali Ossa degli Antichi, e perciò quell'accampamento di mezzo inverno era la loro unica occasione annuale di commerciare pacificamente con gli avventurosi Mingol, Marheenmarti, Lankhmarini e persino con qualche uomo del deserto Orientale, pesantemente inturbantato, infagottato fino agli occhi e calzato di guanti e stivali degni d'un elefante. Le donne non trovavano neppure da ridire se i mariti sbevazzavano. Gli uomini erano gran tracannatori di idromele e di birra e persino del brandy bianco ricavato dalle patate della neve, una bevanda che andava alla testa assai più dei vini e dei liquori dispensati dagli speranzosi mercanti. No, quello che le Donne delle Nevi odiavano con tanto veleno e che ogni anno le induceva a ingaggiare una guerra fredda, in pratica senza esclusione di mezzi naturali o magici, era la compagnia teatrale che inevitabilmente arrivava, tremando, a nord insieme ai commercianti, con i suoi guitti ardimentosi dalle facce screpolate e dai geloni ai piedi, ma dai cuori accesi per il tenero oro settentrionale e per il pubblico facile anche se esuberante... uno spettacolo così blasfemo ed osceno che per farlo rappresentare gli uomini requisivano la Casa di Dio (dato che Dio non si scandalizzava) e rifiutavano di farvi assistere le donne e i giovani; uno spettacolo i cui attori erano, secondo le donne, solo vecchi sudicioni e smilze giovani meridionali ancora più sozzone, dalla morale ancora più inconsistente dei loro indumenti succinti... quando pure erano vestite. Alle Donne delle Nevi non passava neppure per la testa che una ragazza magra, con la sudicia pelle nuda accapponata e bluastra nelle correnti gelide della Casa di Dio, non poteva avere un grande fascino erotico, a parte il fatto che rischiava di continuo il congelamento. Perciò, a mezzo inverno, le Donne delle Nevi sibilavano e si davano a pratiche magiche e spiavano e colpivano di sorpresa, con le palle di neve congelata, gli uomini colossali che si ritiravano con sovrano decoro, e spesso catturavano un marito vecchio o invalido o sciocco, oppure giovane e ubriaco, e lo picchiavano di santa ragione. Questo combattimento, esteriormente comico, aveva connotazioni sini-
stre. Soprattutto quando lavoravano tutte insieme, le Donne delle Nevi avevano fama di essere capaci di magie potenti, soprattutto sfruttando il freddo e le sue conseguenze: la scivolosità, il congelamento improvviso della carne, l'incollarsi della pelle al metallo, la fragilità degli oggetti, la massa minacciosa degli alberi e dei rami sovraccarichi di neve, e la massa immensamente più grande delle valanghe. E non vi era un solo uomo che fosse interamente immune dalla paura del potere ipnotico di quegli occhi azzurri come il ghiaccio. Ogni Donna delle Nevi, di solito con l'aiuto delle altre, si dava da fare per conservare il dominio assoluto sul suo uomo, pur lasciandolo apparentemente libero, e si mormorava che parecchi mariti recalcitranti erano stati conciati male o addirittura uccisi, in genere con qualche mezzo gelido. Nel contempo, però, le cricche stregonesche e le singole incantatrici erano impegnate l'una contro l'altra in un gioco di potere, nel quale gli uomini più poderosi e arditi, persino i capi ed i sacerdoti, erano soltanto pedine. Durante i quattordici giorni degli scambi commerciali e i due giorni dello Spettacolo, vecchie megere e giovani donne forzute sorvegliavano da ogni lato la Tenda delle Donne, dal cui interno giungevano forti profumi, fetori, bagliori e lampi intermittenti durante la notte, clangori e tintinnii, crepitii e sfrigolii, e cantilene e mormorii incantatori che non cessavano mai del tutto. Quella mattina non era difficile credere che la stregoneria delle Donne delle Nevi operasse dovunque, perché non c'era vento e il cielo era coperto, e nell'aria umida e gelida c'erano spire di nebbia, così che cristalli di ghiaccio si formavano rapidamente su ogni arbusto e su ogni ramo, su ogni fuscello e su ogni oggetto appuntito, comprese le estremità dei baffi degli uomini e delle orecchie delle linci domestiche. I cristalli erano azzurri e luccicanti come gli occhi delle Donne delle Nevi, e ad una mente immaginosa parevano addirittura imitare con le loro forme le figure alte, biancovestite e incappucciate delle Donne delle Nevi, perché molti di quei cristalli si sviluppavano in altezza, come fiamme di diamante. E quella mattina le Donne delle Nevi avevano catturato, o almeno avevano la quasi assoluta certezza di poter intrappolare una vittima incredibilmente pregiata. Una delle ragazze della compagnia teatrale, infatti, forse per ignoranza o per temerarietà sventata, e forse tentata dall'aria relativamente mite e generatrice di gemme, si era avventurata sulla neve ghiacciata, allontanandosi dalla protezione delle tende degli attori, oltre la Casa di Dio, dalla parte del precipizio, e di lì tra due boschetti di sempreverdi cari-
chi di neve fino al ponte di roccia naturale che era stato l'inizio della Vecchia Strada del Sud per Gnampf Nar, fino a quando, una trentina d'anni prima, ne era crollato il tratto centrale, per una lunghezza pari a cinque stature d'uomo. Ad un passo dall'orlo pericoloso e incurvato verso l'alto, la ragazza si era fermata a lungo a guardare verso il sud, tra le spire di nebbia che, in lontananza, si assottigliavano come ciuffi di lana. Sotto di lei, nella spaccatura del canalone, i pini ammantati di neve che pavimentavano il Canyon dei Troll apparivano minuscoli, come le tende bianche d'un esercito di Gnomi del Ghiaccio. Lentamente, il suo sguardo seguì il Canyon dei Troll dal punto lontano in cui incominciava, a oriente, fino a quello in cui, restringendosi, passava sotto di lei e poi, allargandosi lentamente, si incurvava verso sud, fin dove il contrafforte di fronte, con il tratto sporgente e corrispondente del ponte di pietra, non bloccava la visuale. Allora il suo sguardo tornava a seguire la Strada Nuova, dal punto in cui incominciava a scendere, oltre le tende degli attori, e costeggiava l'altra parete del canyon fino a quando, dopo molte giravolte e molti tuffi nel grande canalone - a differenza della discesa molto più rapida e diretta della Vecchia Strada calava tra i pini del fondo e con loro si dirigeva verso sud. A giudicare dalla sua espressione malinconica, si sarebbe detto che l'attrice fosse una sciocca ballerinetta nostalgica, che già si pentiva di quella gelida tournée al nord e rimpiangeva i luoghi afosi e infestati dalle pulci frequentati dagli attori, oltre la Terra delle Otto Città e il Mare Interno... se non fosse stato per la tranquilla sicurezza dei suoi movimenti, il portamento fiero delle spalle ed il punto pericoloso che aveva scelto per la sua contemplazione. Quel punto, infatti, non era soltanto pericoloso fisicamente: era anche vicino tanto alla Tenda delle Donne delle Nevi quanto alla Casa di Dio, e per giunta era tabù, perché un capo ed i suoi figli erano precipitati, uccidendosi, quando il tratto centrale del ponte di roccia era crollato trentasei anni prima, e perché il ponte di legno che l'aveva sostituito era caduto sotto il peso del carro d'un mercante di acquavite ventiquattro anni dopo. Acquavite della più ardente, una perdita abbastanza tremenda da giustificare il più severo dei tabù, compreso quello che vietava di ricostruire il ponte. E come se tutte queste tragedie non fossero bastate a saziare gli dèi gelosi ed a rendere assoluto il tabù, soltanto due anni prima lo sciatore più abile che il Clan delle Nevi avesse avuto da molti decenni, un certo Skif, ebbro di acquavite delle nevi e di un gelido orgoglio, aveva cercato di valica-
re con un balzo l'abisso dalla parte di Cantuccio Freddo. Lanciato in una rapida partenza, e spingendo furiosamente con i bastoncini, era decollato come un falco planante, eppure aveva mancato l'opposta sponda nevosa per la lunghezza d'un braccio; le punte degli sci avevano urtato contro la roccia, ed egli era precipitato sfracellandosi nelle profondità del canalone. L'attrice meditabonda indossava una lunga pelliccia di volpe rossa, stretta in vita da una catena leggera di ottone laminato d'oro. Sui fini capelli scuri, raccolti alla sommità del capo, s'erano formati cristalli di ghiaccio. A giudicare dalla linea sottile della pelliccia, la sua figura doveva essere scarna, o almeno così poco muscolosa da corrispondere all'idea che le Donne delle Nevi si facevano delle commedianti, ma era alta quasi un metro e ottanta... le attrici non dovevano essere così alte, e quello era decisamente un altro affronto per le altissime Donne delle Nevi, che in quel momento le si avvicinavano da tergo, in una bianca schiera taciturna. Uno stivale di pelliccia bianca, troppo frettoloso, cantò sulla neve invetriata. L'attrice si girò di scatto e, senza esitare, si lanciò di corsa nella direzione da cui era venuta. Nei primi tre passi sfondò la crosta di neve ghiacciata, perdendo tempo, ma poi imparò il trucco di correre scivolando, sfiorando la crosta con i piedi. Sollevò la pelliccia colore ruggine. Portava stivali neri di pelliccia e calze scarlatte. Le Donne la inseguirono svelte, scagliando le compatte palle di neve ghiacciata. Una la colpì con forza alla spalla. L'attrice commise l'errore di voltarsi indietro. Per un caso sfortunato, due palle di neve la centrarono alla mascella e alla fronte, rispettivamente sotto il labbro inferiore dipinto e sopra le arcuate sopracciglia nere. Ella barcollò, si girò completamente, e una palla di neve scagliata quasi con la forza d'una fionda la colpì allo stomaco, facendola piegare su se stessa, facendole sfuggire il fiato dai polmoni in un ansito sonoro, a bocca aperta. L'attrice cadde. Le donne bianche si avventarono verso di lei, con gli occhi azzurri sfolgoranti. Un uomo alto, piuttosto magro, dai baffi neri, che portava una giubba trapuntata e un basso turbante nero, stava osservando la scena accanto a una delle colonne viventi della Casa di Dio, con la corteccia rozza e coper-
ta di cristalli; accorse verso la donna caduta. I suoi passi spezzarono la crosta, ma le gambe robuste lo portarono avanti, poderosamente. Poi egli rallentò sbalordito quando si vide superare da una figura alta, bianca e snella che correva rapidissima, tanto da dare l'impressione che volasse sugli sci. Per un altro istante, l'uomo inturbantato pensò che fosse un'altra Donna delle Nevi, ma poi notò che indossava un corto giubbotto di pelliccia, anziché un lungo cappotto... quindi era presumibilmente un Uomo delle Nevi o un Giovane delle Nevi, sebbene l'uomo dal turbante nero non avesse mai visto un maschio del Clan delle Nevi vestito di bianco. La strana, velocissima figura corse scivolando, con il mento abbassato e lo sguardo distolto dalle Donne delle Nevi, come se temesse di incontrare le loro iraconde occhiate azzurre. Poi, quando si inginocchiò accanto all'attrice caduta, dal cappuccio si riversarono lunghe ciocche di capelli biondorossicci. A quella vista, e notando la snellezza della figura, l'uomo inturbantato di nero provò un istante di paura; temeva che fosse una Ragazza delle Nevi molto alta, ansiosa di sferrare il primo colpo da distanza ravvicinata. Ma poi vide un mento maschile e lanuginoso che sporgeva tra i capelli biondorossicci e un paio di massicci bracciali d'argento, del tipo che si poteva guadagnare solo con la pirateria. Il giovane raccolse l'attrice fra le braccia e corse via, allontanandosi dalle Donne delle Nevi, che ormai potevano vedere soltanto le gambe rossocalzate della loro vittima. Una raffica di palle di neve colpì la schiena del salvatore. Questi barcollò un poco, poi accelerò, proseguendo deciso e chinando la testa. La più gigantesca delle Donne delle Nevi, che aveva un portamento da regina e un volto scarno ancor bello, sebbene incorniciato da capelli bianchi, smise di correre e urlò con voce profonda: «Torna indietro, figlio mio! Mi senti, Fafhrd? Torna subito indietro!» Il giovanotto annuì leggermente con la testa china, ma non interruppe la corsa. Senza girare il capo, gridò con voce piuttosto acuta: «Tornerò indietro, riverita madre mia Mor... più tardi.» Le altre donne si associarono al grido di "Torna subito indietro!" Alcune aggiunsero epiteti come "Giovane dissoluto!" "Tormento della tua buona madre Mor!" e "Cacciatore di puttane!" Mor le azzittì con un gesto ampio e brusco delle mani, a palmo in giù. «Aspetteremo qui» annunciò, in tono autoritario. L'uomo dal turbante nero indugiò ancora un poco, poi si incamminò nella direzione in cui era sparita la coppia, tenendo prudentemente d'occhio le
Donne delle Nevi. A quanto gli risultava, non si poteva mai dire, con quelle donne barbare e con i loro compagni. Fafhrd arrivò alle tende degli attori, disposte in cerchio intorno a una distesa di neve calpestata, all'estremità della Casa di Dio dove stava l'altare. Più lontana dal precipizio c'era la tenda alta e conica del Direttore della Compagnia. A mezza strada era piantata quella degli attori comuni, che aveva un po' la forma di un pesce: era riservata per un terzo alle donne, per due terzi agli uomini. Più vicina al Canyon dei Troll c'era una tenda di media grandezza, semicilindrica, sostenuta da centine. Sulla parte centrale, un sicomoro sempreverde stendeva un grande ramo pesante controbilanciato dall'altra parte da due rami più piccoli, tutti costellati di cristalli di ghiaccio. Nella parte anteriore della tenda c'era una falda mobile allacciata, che Fafhrd trovò piuttosto difficile da aprire, poiché la figura che reggeva tra le braccia era ancora esanime. Un vecchietto panciuto si avviò a grandi passi verso di lui, con un'elasticità degna di un giovanotto. Indossava abiti laceri, un tempo suntuosi, ornati d'oro. Persino i lunghi baffi grigi è la barbetta a punta brillavano di pagliuzze d'oro, sopra e sotto la bocca dai denti sudici. Gli occhi segnati erano gonfi e orlati di rosso, ma scuri e mobilissimi. Sulla fronte portava calcato un turbante purpureo, che sosteneva una corona dorata incastonata di gemme ammaccate di cristallo di rocca, misere imitazioni di diamanti. Dietro l'ometto veniva un Mingol magrissimo con braccio solo, e poi un grasso Orientale dall'immensa barba nera che puzzava di bruciato, e infine due ragazze magre che, sebbene sbadigliassero e fossero avvolte in pesanti coperte, apparivano vigili e sfuggenti come gatte randagie. «Cosa succede?» chiese il capo, captando con gli occhi svelti ogni dettaglio di Fafhrd e del suo carico. «Vlana uccisa? Violentata e uccisa, eh? Sappi, giovane assassino, che pagherai a caro prezzo il tuo sollazzo. Forse non sai chi sono io, ma lo imparerai! Otterrò un risarcimento dai tuoi capi, ti assicuro! Un risarcimento altissimo! Sono molto influente, io. Perderai quei tuoi bracciali da pirata e quella catena d'argento che occhieggia sotto il tuo colletto. La tua famiglia si ridurrà in miseria, e anche tutti i tuoi parenti. In quanto a quello che loro faranno a te...» «Tu sei Essedinex, Direttore della Compagnia» l'interruppe dogmaticamente Fafhrd, con quella sua voce acuta, tenorile che soverchiava come uno squillo di tromba la voce baritonale e rauca dell'altro. «Io sono Fafhrd, figlio di Mor e di Nalgron, lo Spezzaleggende. Vlana, la danzatrice, non è stata violentata né uccisa, solo stordita a palle di neve. Questa è la sua ten-
da. Aprila.» «Penseremo noi a lei, barbaro» affermò Essedinex, in tono tuttavia più calmo: sembrava sorpreso e un po' intimidito dalla precisione quasi pedantesca del giovane. «Consegnala a noi. Poi vattene.» «La deporrò io» insistette Fafhrd. «Apri la tenda!» Essedinex scrollò le spalle e fece un cenno al Mingol il quale, con un sogghigno sardonico, usò l'unica mano e l'unico gomito per slacciare e scostare la falda della tenda. Ne uscì un profumo di legno di sandalo e di bacche. Fafhrd si chinò ed entrò. Al centro della tenda scorse un giaciglio di pellicce e un tavolo basso, con uno specchio d'argento appoggiato a barattoli e a tozze boccette. In fondo c'era un attaccapanni carico di costumi. Girando intorno ad un braciere da cui esalava un filo di fumo chiaro, Fafhrd si inginocchiò cautamente e con grande delicatezza posò il suo fardello sul giaciglio. Poi auscultò le pulsazioni di Vlana all'attacco della mandibola, le rialzò le palpebre scure e le scrutò gli occhi, uno dopo l'altro, tastò dolcemente con i polpastrelli i cospicui bozzi che si stavano formando sulla mascella e sulla fronte. Poi le pizzicò il lobo dell'orecchio sinistro e, visto che la ragazza non reagiva, scosse il capo e, aprendole la pelliccia color ruggine, cominciò a sbottonarle l'abito rosso. Essedinex, che aveva assistito perplesso, insieme agli altri, a quella scena, gridò: «Ma questa, poi... Smettila, giovane lascivo!» Le due ragazze avvolte nelle coperte ridacchiarono, poi si coprirono la bocca con la mane, lanciando occhiate divertite a Essedinex e agli altri. Scostandosi i lunghi capelli dall'orecchio destro, Fafhrd lo accostò al petto di Vlana, tra i seni piccoli come mezze melagrane, dai capezzoli di bronzo rosato. La sua espressione era tuttora solenne. Le ragazze repressero altri risolini. Essedinex si schiarì la gola con un suono strozzato, preparandosi a un lungo discorso. Fafhrd si raddrizzò e disse: «Tra poco il suo spirito ritornerà. Bisogna curarle i lividi con impacchi di neve, da cambiare quando cominciano a sciogliersi. Adesso mi occorre una coppa della tua acquavite migliore.» «La mia acquavite migliore...!» gridò indignato Essedinex. «Questo è troppo! Prima ti sei goduto uno spettacolo piccante, e adesso vuoi da bere! Vattene immediatamente, giovane presuntuoso!» «Volevo solo...» cominciò Fafhrd, in toni chiari e lievemente minacciosi. La sua paziente pose fine alla disputa aprendo gli occhi, scrollando il capo, rabbrividendo e infine levandosi a sedere... poi impallidì e il suo
sguardo vacillò. Fafhrd l'aiutò a ridistendersi e le mise sotto i piedi alcuni cuscini. Poi la guardò in faccia. Vlana aveva ancora gli occhi aperti e lo fissava incuriosita. Fafhrd vide un visetto minuto, dalle guance incavate, non più da adolescente, ma ancora bello d'una bellezza felina, nonostante i bozzi. Gli occhi grandi, dalle iridi brune e dalle lunghe ciglia, avrebbero dovuto essere trepidi, ma non lo erano. Avevano un'espressione solitaria, ed erano decisi, intenti a valutare pensosamente ciò che vedevano. Vlana vedeva un bel giovane dalla carnagione chiara, di circa diciotto inverni, con la testa grande e la mascella allungata, come se non avesse ancora finito di crescere. I fini capelli d'oro rosso gli ricadevano sulle guance. Gli occhi erano verdi, enigmatici, fissi come quelli di un gatto. Le labbra erano carnose, ma lievemente compresse, come fossero una porta che bloccava le parole e si aprisse soltanto al comando di quegli occhi misteriosi. Una delle ragazze aveva per metà riempito di acquavite una coppa, da una bottiglia che stava sul tavolo basso. Fafhrd la prese e sollevò la testa di Vlana per farla bere a piccoli sorsi. L'altra ragazza arrivò, portando fasce di lana riempite di neve finissima. Si inginocchiò dall'altra parte del giaciglio e le legò sulle lividure. Dopo aver chiesto a Fafhrd il suo nome ed aver confermato che era stato lui a salvarla dalle Donne delle Nevi, Vlana chiese: «Perché parli con voce così rauca?» «Studio presso uno scaldo» rispose lui. «Adoperano questo tono, e sono loro i veri scaldi, non quelli che ruggiscono nelle tonalità profonde.» «Che ricompensa ti aspetti per avermi salvato?» chiese sfrontatamente la ragazza. «Nessuna» rispose Fafhrd. Le altre due ragazze ridacchiarono di nuovo, ma si interruppero di colpo a un'occhiata di Vlana. Fafhrd aggiunse: «Era mio dovere salvarti, poiché il capo delle Donne delle Nevi era mia madre. Io devo rispettare i suoi desideri, ma debbo anche impedirle di commettere azioni ingiuste.» «Oh. Perché ti comporti come un sacerdote o un guaritore?» continuò Vlana. «Anche questo è uno dei desideri di tua madre?» Non si era presa il disturbo di coprirsi i seni, ma adesso Fafhrd non li guardava, guardava solo le labbra e gli occhi dell'attrice. «Guarire fa parte dell'arte degli scaldi» rispose. «In quanto a mia madre,
io faccio il mio dovere verso di lei, né più, né meno.» «Vlana, non è giusto che tu parli così con questo giovane» si intromise Essedinex, in tono nervoso. «Lui deve...» «Stai zitto!» intimò Vlana. Poi, volgendosi di nuovo a Fafhrd: «Perché ti vesti di bianco?» «È l'abbigliamento tradizionale di tutto il Popolo delle Nevi. Io non seguo la nuova usanza che impone ai maschi le pellicce scure e tinte. Mio padre si vestiva sempre di bianco.» «È morto?» «Sì. Nello scalare una montagna tabù, chiamata Zanna Bianca.» «E tua madre vuole che tu ti vesta di bianco, come se fossi tuo padre redivivo?» Fafhrd non rispose e non si accigliò, nell'udire quella domanda maliziosa. Chiese invece: «Quante lingue sai parlare... a parte questo pessimo lankhmarese?» Vlana sorrise, finalmente. «Che domanda! Ecco, parlo... anche se non troppo bene, mingol, kvarchisco, alto e basso lankmarese, quarmalliano, vecchio ghoulish, dialetto del deserto e tre lingue orientali.» Fafhrd annuì. «Molto bene.» «Ma perché?» «Perché significa che sei molto civile» rispose il giovane. «E cosa c'è di tanto straordinario?» domandò Vlana con una risata acida. «Dovresti saperlo, sei una danzatrice colta. Comunque, io mi interesso della civiltà.» «Sta arrivando qualcuno» sibilò dall'ingresso Essedinex. «Vlana, il giovanotto deve...» «No!» «Comunque, adesso debbo proprio andare» disse Fafhrd, alzandosi. «Tieni gli impacchi di neve» disse a Vlana. «Riposa fino al tramonto. Poi altro brandy, e una minestra calda.» «Perché devi andartene?» chiese Vlana, sollevandosi su di un gomito. «Ho fatto una promessa a mia madre» disse Fafhrd, senza voltarsi. «Tua madre!» Chinandosi per passare, Fafhrd si fermò finalmente per voltarsi indietro. «Ho molti doveri verso mia madre» disse. «Verso di te non ne ho ancora nessuno.» «Vlana, deve andarsene davvero, quello. È lui» mormorò Essedinex, con un rauco mormorio che sembrava un "a parte" da palcoscenico. E intanto
spingeva Fafhrd, ma nonostante la snellezza del giovane, era come cercare di sradicare un albero. «Hai paura di colui che sta per arrivare?» Vlana, adesso, si riabbottonava l'abito. Fafhrd la guardò pensieroso. Poi, senza rispondere in alcun modo a quella domanda, si chinò per varcare l'ingresso e si rialzò, aspettando nella nebbia persistente l'arrivo di un uomo il cui volto si rannuvolava per la collera. L'uomo era alto quanto Fafhrd, una volta e mezzo più massiccio di lui, e aveva circa il doppio del suoi anni. Era vestito di pelli brune di foche e d'argento costellato d'ametiste, e portava ai polsi due massicci bracciali d'oro e una catena d'oro al collo, i segni distintivi di un capo pirata. Fafhrd provò un fremito di paura, non per l'uomo che si avvicinava, ma per i cristalli, che adesso erano più fitti sulle tende di quanto li ricordasse quando aveva portato dentro Vlana. L'elemento su cui Mor e le streghe sue sorelle avevano maggior potere era il freddo... nella zuppa o nei lombi di un uomo, nella sua spada o nella sua corda da scalatore, bastava a frantumarli. Spesso si chiedeva se era la magia di Mor a rendere tanto freddo il suo cuore. Ora il freddo si sarebbe chiuso intorno alla danzatrice. Avrebbe dovuto avvertirla, ma lei era civile e avrebbe riso. L'uomo grande e grosso si avvicinò. «Onorevole Hringorl» lo salutò sottovoce Fafhrd. Per tutta risposta, l'uomo grande e grosso sferrò un pugno a Fafhrd. Fafhrd si piegò bruscamente, schivando il colpo, e poi se ne andò tranquillo per la strada che aveva percorso all'andata. Hringorl, respirando pesantemente, lo seguì con lo sguardo indignato per un paio di battiti di cuore, e poi si precipitò nella tenda semicilindrica. Hringorl era certamente l'uomo più possente del Clan delle Nevi, pensò Fafhrd, sebbene non ne fosse uno dei capi a causa dei modi prepotenti e del disprezzo per le consuetudini. Le Donne delle Nevi lo odiavano, ma era difficile combinargli qualche brutto tiro, perché sua madre era morta e lui non aveva mai preso moglie, accontentandosi delle concubine che portava con sé quando tornava dalle spedizioni piratesche. L'uomo dal turbante nero e dai baffi neri, che era rimasto chissà dove senza farsi notare, si avvicinò a Fafhrd senza far rumore. «Ben fatto, amico mio. E quando hai portato dentro la danzatrice!» Fafhrd disse, impassibile: «Tu sei Vellix l'Avventuriero.» L'altro annuì. «Porto a questo mercato l'acquavite da Klelg Nar. Vuoi as-
saggiare la migliore in mia compagnia?» Fafhrd rispose: «Mi dispiace, ma ho un impegno con mia madre.» «Un'altra volta, allora» fece disinvolto Vellix. «Fafhrd!» Era stato Hringorl a chiamarlo. La sua voce non era più collerica. Fafhrd si voltò. L'omone stava accanto alla tenda: si avvicinò a grandi passi, quando il giovane non si mosse. Nel frattempo, Vellix indietreggiò e si dileguò con la stessa disinvoltura con cui aveva parlato. «Ti chiedo scusa, Fafhrd» fece Hringorl in tono burbero. «Non sapevo che avessi salvato la vita alla danzatrice. Mi hai reso un grande servizio. Prendi.» Si slacciò dal polso uno dei pesanti bracciali d'oro e lo porse al giovane. Fafhrd tenne le mani abbandonate lungo i fianchi. «Non è stato un servizio reso a te» disse. «Ho soltanto evitato a mia madre di commettere un'azione ingiusta.» «Tu hai navigato al mio comando!» ruggì all'improvviso Hringorl, avvampando in volto sebbene continuasse a sogghignare, o almeno tentasse di farlo. «Perciò devi accettare i miei doni, e non solo i miei ordini.» Afferrò la mano di Fafhrd, vi pose il pesante cerchio, chiuse intorno a questo le dita inerti del giovane e poi arretrò di un passo. Subito Fafhrd si inginocchiò e disse precipitosamente: «Perdonami, ma non posso prendere ciò che non ho guadagnato con pieno merito. E ora devo mantenere l'impegno preso con mia madre.» Poi si alzò in fretta, si voltò e si allontanò. Dietro di lui, il bracciale d'oro scintillava sulla crosta di neve intatta. Udì il ringhio e le imprecazioni soffocate di Hringorl, ma non si voltò per vedere se quello aveva recuperato o no il dono spregiato, anche se gli era un po' difficile camminare in linea retta e non abbassare la testa, nell'eventualità che Hringorl decidesse che scagliargli contro la nuca il massiccio bracciale. Arrivò poco dopo nel luogo dove sua madre sedeva in mezzo a sette Donne delle Nevi: erano otto in tutto. Loro si alzarono. Il giovane si fermò a un metro di distanza. Chinando il capo e deviando lo sguardo, disse: «Eccomi, Mor.» «Ci hai messo parecchio» disse la madre. «Troppo tempo.» Sei teste, intorno a lei, annuirono solennemente. Fafhrd notò, con la coda dell'occhio, che la settima Donna delle Nevi, la più snella, arretrava in silenzio. «Ma sono qui» disse Fafhrd.
«Hai disobbedito al mio comando» sentenziò freddamente Mor. Il volto scarno, un tempo bellissimo, sarebbe apparso molto triste, se non fosse stato così fiero e autorevole. «Ma ora obbedisco» ribatté Fafhrd. Notò che la settima Donna delle Nevi, adesso, correva in silenzio, facendo svolazzare il gran mantello bianco, tra le tende-abitazione, verso l'alta foresta bianca che cingeva Cantuccio Freddo dovunque non lo cingesse il Canyon dei Troll. «Benissimo» disse Mor. «E ora mi obbedirai seguendomi nella tenda del sogno per la purificazione rituale.» «Non sono contaminato» dichiarò Fafhrd. «Inoltre, io mi purifico alla mia maniera, che è non meno gradita agli dei.» Dalla congrega di Mor si levarono schiocchi di lingua che suonavano a severa disapprovazione. Fafhrd aveva parlato arditamente, ma teneva ancora la testa china, e quindi non vedeva le loro faccia e i loro occhi ipnotici, ma solo le forme avvolte dalle lunghe vesti bianche, che le rendevano simili a un gruppo di grandi betulle. Mor disse: «Guardami negli occhi.» Fafhrd rispose: «Io compio tutti i doveri abituali di un figlio adulto, dal procurare il cibo al difenderti con la spada. Ma a quanto mi è dato di sapere, tra tali doveri non c'è quello di guardare mia madre negli occhi.» «Tuo padre mi obbediva sempre» disse Mor, in tono malaugurante. «Ogni volta che vedeva una montagna altissima, la scalava, senza obbedire ad altri che a se stesso» la contraddisse Fafhrd. «Sì, ed è morto per questo!» gridò Mor; la sua maestà dominava l'angoscia e la collera, ma senza nasconderle. Fafhrd rispose con asprezza: «Di dove veniva il grande freddo che spezzò la sua corda e la sua piccozza sulla Zanna Bianca?» Tra i gemiti scandalizzati della sua congrega, Mor disse, con la sua voce più profonda: «La maledizione materna, Fafhrd, sulla tua disobbedienza e suoi tuoi malvagi pensieri!» Con strano slancio, Fafhrd disse: «Accetto doverosamente la tua maledizione, Madre.» Mor ribatté: «La mia maledizione non è per te, ma per i tuoi perversi sospetti.» «Tuttavia, la serberò sempre come un tesoro» ribatté Fafhrd. «E ora, obbedendo a me stesso, debbo prendere congedo da te, fino a quando il demone della collera ti avrà abbandonata.» E con queste parole, tenendo ancora la testa china e inclinata da una par-
te, si avviò rapidamente verso un punto nella foresta, ad est delle tendeabitazione, ma ad ovest della grande lingua di foresta che si spingeva verso sud quasi alla Casa di Dio. I sibili infuriati della congrega di Mor lo seguirono, ma sua madre non gridò il suo nome, non disse neppure una parola. Fafhrd avrebbe quasi preferito che lo facesse. La gioventù guarisce rapidamente le ferite superficiali. Quando Fafhrd si addentrò nel suo amatissimo bosco senza muovere un solo fuscello ingioiellato di cristalli, i suoi sensi erano vigili, la giuntura del collo ben snodata, e la superficie esteriore del suo essere interiore era pronta per una nuova esperienza come la neve immacolata che gli si stendeva davanti. Scelse il percorso più facile, evitando gli arbusti spinosi indiamantati sulla sinistra e gli enormi speroni di granito, schermati dai pini, sulla destra. Vide orme di uccelli, orme di scoiattoli, orme d'orso vecchie di alcuni giorni; gli uccelli delle nevi afferravano con i becchi neri le rosse bacche delle nevi; un pelosissimo serpente delle nevi sibilò contro di lui, ma Fafhrd non si sarebbe scomposto neppure nel vedere apparire un drago dalle creste incrostate di ghiaccio. Perciò non si stupì affatto quando la corteccia intonacata di neve di un grande pino si aprì, mostrandogli la sua driade... un gaio volto di fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, una driade che non aveva più di diciassette anni. Per la verità, si aspettava quell'apparizione fin dal momento in cui aveva visto fuggire la settima Donna delle Nevi. Tuttavia finse per quasi due battiti del cuore di essere sbalordito. Poi balzò avanti gridando: «Mara, mia strega» e con tutte e due le braccia staccò la persona biancovestita di lei dallo sfondo mimetico, la tenne stretta a lungo: rimasero come un'unica colonna bianca, cappuccio contro cappuccio e labbra contro labbra per almeno venti battiti di cuore, del tipo più esagitato e delizioso. Poi Mara gli prese la mano destra, l'attirò dentro al mantello, e attraverso un'apertura, sotto la lunga veste, e la premette contro i riccioletti crespi del basso ventre. «Indovina» bisbigliò, leccandogli l'orecchio. «Fa parte di una ragazza. Credo che sia una...» cominciò Fafhrd, quasi allegramente, sebbene i suoi pensieri si stessero già precipitando in una direzione tremendamente diversa. «No, idiota, è qualcosa che appartiene a te» spiegò l'umido sussurro. La direzione tremenda divenne un gelido precipizio che conduceva verso la certezza. Tuttavia, egli disse coraggiosamente: «Bene, avevo sperato
che non provassi anche con gli altri, sebbene sia tuo diritto. Devo dire che sono immensamente onorato...» «Stupido bestione! Voglio dire che è qualcosa che appartiene a noi.» La direzione tremenda era ormai un gelido tunnel nero, e stava diventando un abisso. Automaticamente, e con un grande, appropriato batticuore, Fafhrd disse: «Non...?» «Sì! Ne sono certa, mostro. Ho già mancato per due volte.» Meglio ancora di quanto fosse mai avvenuto in vita sua, le labbra di Fafhrd svolsero il compito di bloccare le parole. Quando alla fine si aprirono, labbra e lingua erano perfettamente sotto il dominio dei grandi occhi verdi. Poi, in uno slancio gioioso: «Oh dei! È meraviglioso! Sono padre! Come sei stata brava, Mara!» «Bravissima, veramente» ammise la ragazza, «se sono riuscita a confezionare un cosino tanto delicato dopo il tuo rude trattamento. Ma ora debbo ripagarti per quella sgarbata osservazione a proposito di "provare con altri".» Sollevandosi la gonna sul dietro, guidò le mani del giovane sotto al mantello, fino a un nodo di cinghioli alla base della sua spina dorsale. (Le Donne delle Nevi portavano cappucci di pelliccia, stivali di pelliccia, alte calze di pelliccia fissate per mezzo di giarrettiere a una cinghia allacciata in vita, e uno o più abiti e mantelli di pelliccia... era un abbigliamento pratico, non molto diverso da quello degli uomini: solo, le vesti erano più lunghe.) Mentre tastava il nodo, da cui partivano tre cinghioli tesi, Fafhrd disse: «Davvero, carissima Mara, queste cinture di castità non mi entusiasmano. Non sono cose civili. Inoltre, deve alterarti la circolazione del sangue.» «Tu e la tua passione per la civiltà! Riuscirò ben io a fartela passare. Avanti, slaccia il nodo, e accertati che sia stato tu e nessun altro a farlo.» Fafhrd obbedì e dovette ammettere che quel nodo era suo, non di un altro. Fu un compito che richiese un certo tempo, e per Mara fu delizioso, a giudicare dai suoi squittii e gemiti sommessi, e dai suoi piccoli morsi delicati. Lo stesso Fafhrd incominciò a sentirsi interessato. Quando il lavoro fu terminato, Fafhrd ricevette la ricompensa di tutti i bugiardi gentili: Mara lo amava perché lui le aveva detto tutte le menzogne più adatte e lei lo dimostrava con il comportamento affascinante; e l'interesse e l'eccitazione del giovane non ebbero limiti. Dopo varie carezze ed altre dimostrazioni di affetto, caddero sulla neve fianco a fianco: le pellicce e i cappucci bianchi fungevano da materasso e da coperte.
Un viandante che fosse passato di lì per caso avrebbe creduto che un mucchio di neve si fosse convulsamente animato e stesse forse per partorire un uomo delle nevi, un elfo oppure un demone. Dopo un po', il mucchio di neve divenne completamente immobile, e l'ipotetico viandante avrebbe dovuto avvicinarsi molto per udire le voci che provenivano dall'interno. MARA: Indovina a cosa sto pensando. FAFHRD: Che sei la Regina della Beatitudine. Aaah! MARA: Aaaah a te, e ooooh! E che tu sei il Re dei Bestioni. No, sciocco, te lo dico io. Pensavo che è una fortuna che tu abbia vissuto le tue avventure al sud prima del matrimonio. Sono sicura che hai violentato o almeno hai fatto all'amore indecentemente con dozzine di donne meridionali, e questo spiega forse la tua passione sbagliata per la civiltà. Ma non me ne importa nulla. Te lo farò dimenticare con il mio amore. FAFHRD: Mara, tu hai una mente geniale, ma esageri troppo quell'unica spedizione piratesca che ho compiuto agli ordini di Hringorl, e specialmente le occasioni di avventure amorose che ha offerto. Innanzi tutto, gli abitanti, e specialmente tutte le giovani donne delle città costiere che abbiamo saccheggiato, fuggivano a rifugiarsi tra le colline prima ancora che sbarcassimo. E se anche qualche donna è stata violentata, essendo il più giovane sarei stato l'ultimo della lista degli stupratori, e quindi mi sarei sentito poco tentato. Per dire la verità, le uniche persone interessanti che ho incontrato in quel noioso viaggio sono state due vecchi che abbiamo preso per chiederne il riscatto, e dai quali ho imparato un po' di quarmalliano e di alto lankhmarese, e un giovanotto magro, apprendista d'uno stregone. Era svelto con la daga, quello, e aveva una mentalità che lo spingeva a spezzare le leggende, come me e come mio padre. MARA: Non affliggerti. La vita diventerà più eccitante, per te, quando saremo sposati. FAFHRD: È qui che ti sbagli, carissima Mara. Calma, lascia che ti spieghi. Conosco mia madre. Quando saremo sposati, Mor pretenderà che tu provveda a cucinare e a sbrigare le faccende di tenda. Ti tratterà per sette ottavi come schiava e, forse, per un ottavo come mia concubina. MARA: Ah! Dovrai proprio imparare a domare tua madre, Fafhrd. Comunque, carissimo, non preoccuparti neppure per questo. È evidente che non sai nulla delle armi che una giovane sposa, forte e instancabile, può usare contro una vecchia suocera. La metterò io al suo posto, a costo di avvelenarla... oh, non per ucciderla, solo per indebolirla abbastanza. Prima
che siano passate tre lune, quella tremerà al mio sguardo e tu ti sentirai molto più uomo. So che, siccome tu sei un buon figlio e quel matto di tuo padre è morto giovane, lei ha acquisito su di te un'influenza anormale, ma... FAFHRD: Mi sento molto uomo già in questo momento, streghetta immorale e avvelenatrice, tigre delle nevi: e intendo dimostrartelo senza indugio. Difenditi! Ah, come osi...? Ancora una volta il mucchio di neve si agitò convulsamente, come un gigantesco orso dei ghiacci in agonia. L'orso morì tra una musica di sistri e di triangoli, mentre cozzavano e si spezzavano i lampeggianti cristalli di ghiaccio che si erano moltiplicati in numero e in grandezza innaturale sui manti di Mara e di Fafhrd nel corso del loro dialogo. La breve giornata correva verso la notte, come se anche gli dei che governano il sole e le stelle fossero impazienti di vedere lo Spettacolo. Hringorl conferiva con i suoi tre principali luogotenenti, Hor, Harrax e Hrey. C'erano smorfie e cenni del capo, e venne fatto il nome di Fafhrd. Il marito più giovane del Clan delle Nevi, un galletto vanitoso e spensierato, venne preso in un'imboscata e stordito a palle di neve da una pattuglia di giovani Mogli delle Nevi che l'avevano visto impegnato in una spudorata conversazione con una commediante Mingol. Quindi, ormai sicuramente perduto per i due giorni della durata dello Spettacolo, egli venne amorosamente ma lentamente curato dalla moglie, che era la più entusiasta tra le lanciatrici di palle di neve. Mara, felice come una colomba delle nevi, andò ad aiutare. Ma, nel vedere il marito così indifeso e la moglie così tenera, perse il sorriso e la sua grazia sognante. Divenne tesa e nervosa, per una ragazza tanto atletica. Per tre volte aprì le labbra per parlare, poi le strinse, e alla fine se ne andò senza dire una parola. Nella Tenda delle Donne, Mor e la sua congrega gettarono un incantesimo su Fafhrd per riportarlo a casa e un altro per agghiacciargli i lombi, poi passarono a discutere misure ancora più pesanti contro l'intero universo di figli, di mariti e di attrici. Il secondo incantesimo non ebbe alcun effetto su Fafhrd, probabilmente perché in quel momento stava facendo un bagno di neve... ed è ben noto che la magia ha ben poco effetto su coloro che già infliggono a se stessi gli stessi risultati che l'incantesimo cerca di causare. Dopo aver lasciato Mara, si era svestito, si era immerso in un banco di neve, e poi si era massaggiato
tutto il corpo, meticolosamente, con quella sostanza farinosa e agghiacciante. Poi usò rami di pino ad agili fitti per spazzolarsi e per rimettere in movimento la circolazione del sangue. Quando si fu rivestito, si sentì trascinato dal primo incantesimo, ma resistette e si diresse in gran segreto alla tenda di due vecchi mercanti Mingol, Zax ed Effendrit, che erano stati amici di suo padre, e dormicchiò fino a sera su un mucchio di pelli. Nessuno dei due incantesimi di sua madre poté seguirlo in quella che, secondo la tradizione mercantile, era una minuscola area del territorio Mingol, sebbene la tenda cominciasse a vacillare sotto il peso di una quantità innaturale di cristalli di ghiaccio, che i vecchi Mingol, incartapecoriti e agili come scimmie, facevano sonoramente cadere con i bastoni. Quel suono penetrò piacevolmente nel sogno di Fafhrd senza destarlo, il che avrebbe irritato sua madre se l'avesse saputo... era convinta, infatti, che il piacere e il riposo non fossero adatti agli uomini. Fafhrd sognò Vlana che danzava sinuosamente, in un abito di finissima rete d'argento, dalle cui intersezioni pendevano miriadi di minuscoli campanellini argentei; una visione che avrebbe irritato Mor oltre ogni sopportazione: era davvero una fortuna che in quel momento non si servisse delle facoltà di leggere le menti a distanza. Anche Vlana dormiva, mentre una delle ragazze Mingol, pagata in anticipo con un mezzo smerduk dall'attrice ferita, le cambiava gli impacchi di neve quand'era necessario e le inumidiva le labbra aride con vino dolce: alcune gocce scivolavano in bocca. La mente di Vlana era una tempesta di trame e di anticipazioni; ma ogni volta che si svegliava, l'acquietava con un incantesimo circolare orientale che diceva più o meno: "Sonno, striscia; corri, biscia; rogna, fogna; sonno, tonno; figlio, artiglio; bruciato, guadagnato; grosso, fosso; porte, morte; conte, fonte; cavalla, stalla; balla, biscia; sonno, striscia", e così via, torno torno, in un cerchio incestuoso. Vlana sapeva che a una donna le rughe possono venire nella mente e non solo sulla pelle. Sapeva anche che soltanto una zitella guarda una zitella e infine sapeva che una ballerina, come un soldato, doveva cercare di dormire appena era possibile. Vellix l'Avventuriero, che gironzolava pigramente, sorprese alcune frasi del complotto di Hringorl, vide Fafhrd entrare nella tenda dei Mingol, notò che Essedinex beveva più del solito, e per un po' rimase ad origliare ciò che diceva il Direttore della Compagnia. Nel terzo della tenda a forma di pesce riservato alle ragazze, Essedinex stava discutendo con le due Mingol, che erano gemelle, e con una Ilthmarita adolescente, a proposito della quantità di grasso che quelle intendevano
spalmarsi sul corpo per lo spettacolo di quella sera. «Per le ossa nere, mi ridurrete in miseria» esclamò in tono lamentoso. «E non apparirete più lascive di tre pezzi di lardo.» «Se non conosco male i Settentrionali, a loro piacciono le donne ben lardose» ribatté una delle ragazze Mingol. «E poi» aggiunse in tono tagliente la gemella, «se pretendi che ci congeliamo fino a perdere le dita dei piedi e i capezzoli, per piacere a un pubblico di vecchie pelli d'orso puzzolenti, ti sbagli di grosso.» «Non preoccuparti, Seddy» disse l'Ilthmarita, accarezzando le guance arrossate e i radi capelli bianchi del direttore. «Faccio sempre meglio il mio numero quando sono unta a dovere. Ci rincorreranno su per le pareti, e noi schizzeremo via dalla loro stretta come altrettanti semi di melone.» «Vi inseguiranno...?» Essedinex afferrò l'Ilthmarita per la spalla fragile. «Tu non scatenerai nessuna orgia questa sera, mi hai sentito? Provocare rende. Le orge no. Il fatto è che...» «Sappiamo benissimo fino a che punto dobbiamo provocare, paparino» intervenne una delle Mingol. «E sappiamo come tenerli a bada» aggiunse la sorella. «E se non ci riusciamo noi, ci pensa sempre Vlana» concluse l'Ilthmarita. Mentre le ombre impercettibili si allungavano e l'aria piena di vapori si oscurava, i cristalli onnipresenti parvero formarsi ancora più rapidamente. Poi le discussioni nelle tende degli scambi, che la spessa lingua innevata della foresta isolava dalle tende-abitazione, si smorzarono e cessarono del tutto. Si poté udire meglio la sommessa, interminabile cantilena che proveniva dalla Tenda delle Donne, e il suo tono si fece più acuto. Dal nord giunse la brezza serotina, che fece tintinnare tutti i cristalli. La cantilena diventò più truce e la brezza e il tintinnio cessarono, quasi a comando. La nebbia ritornò da oriente e da occidente, e cristalli ripresero a crescere. Il canto delle donne si dileguò in un mormorio. Tutto Cantuccio Freddo divenne teso e silenzioso, con l'appressarsi della notte. Il giorno fuggì oltre l'orizzonte occidentale dalle zanne di ghiaccio, come se avesse paura della tenebra. Nello stretto spazio tra le tende degli attori e la Casa di Dio vi fu un movimento, uno scintillio, un baluginio vivace che crepitò per nove, dieci, undici battiti di cuore, e poi un lampo, uno sfolgorio, e dapprima lentamente, poi sempre più rapida, si levò una cometa dalla coda irta di fuoco arancione, che lasciava sgocciolare faville. Lassù, sopra i pini, quasi al li-
mitare del cielo - ventuno, ventidue, ventitré - la coda della cometa sbiadì ed esplose con uno scoppio di tuono in nove stelle bianche. Era il razzo che segnalava il primo numero dello Spettacolo. Vista all'interno, la Casa di Dio era una lunga nave alta e pazzesca di tenebra gelida, inadeguatamente illuminata e riscaldata da un arco di candele verso la prua, che per tutto il resto dell'anno era un altare, ma che adesso era un palcoscenico. Gli alberi maestri erano undici enormi pini viventi che spuntavano dalla poppa della nave, dalla prua e dalle fiancate. Le vele - per essere esatti, le pareti - erano fatte di pelli cucite e fissate ben tese agli alberi. Invece del cielo, in alto, c'erano rami di pino strettamente intrecciati, bianchi di neve, che incominciavano all'altezza di cinque uomini al di sopra del ponte. La poppa e la parte centrale della bizzarra nave, che si muoveva solo spinta dai venti dell'immaginazione, erano affollate dagli Uomini delle Nevi, nelle loro pellicce scure, seduti su tronchi d'albero e su grosse coperte arrotolate. Ridevano, un po' ebbri, e si scambiavano borbottando frasi e battute scherzose, ma non a voce troppo alta. La reverenza e il timore li prendevano quando entravano nella Casa di Dio, o più esattamente, nella Nave di Dio, nonostante l'uso profano cui l'avevano destinata per quella notte... o forse proprio per tale ragione. Si levò un rullo ritmico di tamburo, sinistro come il passo di un leopardo delle nevi e dapprima così sommesso che nessuno dei presenti avrebbe saputo dire esattamente quand'era cominciato: ma all'improvviso le conversazioni e il movimento tra il pubblico cessarono: tante paia di mani si strinsero o si posarono leggermente sulle ginocchia, e tante paia d'occhi scrutarono il palcoscenico illuminato dalle candele, tra due schermi dipinti a spirali grigie e nere. Il rullo di tamburo divenne più forte, più rapido, si complicò in arabeschi di suono ritmato, poi ridiventò simile al passo del leopardo. Sulla scena, esattamente tenendo il tempo dei rulli di tamburo, balzò un felino dal manto argenteo, dal corpo corto e snello, dalle gambe lunghe, lunghe orecchie ritte, lunghe vibrisse e lunghe zanne candide. Al garrese e ai quarti posteriori era alto un metro. L'unica caratteristica umana era il lucente ciuffo di capelli neri, lunghi e lisci, che gli ricadevano sul collo e poi, in avanti, sulla spalla destra. Il felino fece per tre volte il giro del palcoscenico, abbassando la testa, fiutando l'aria come se cercasse un'usta, e ringhiando dal profondo della gola.
Poi notò il pubblico e, con un grido, si acquattò, arretrando e rampando, e minacciando i presenti con i lunghi artigli lucenti delle zampe anteriori. Due dei presenti si lasciarono incantare dall'illusione, al punto che i vicini dovettero trattenerli per impedire che scagliassero un coltello o un'ascia a manico corto contro quella che credevano fosse una belva autentica e pericolosa. La belva li vide, aggricciò le labbra nere scoprendo le zanne e i denti più piccoli. E mentre faceva oscillare rapidamente il muso da una parte e dall'altra, scrutandoli con i grandi occhi bruni, la coda a pelo corto sferzava l'aria, a tempo. Poi danzò una danza leopardesca della vita, dell'amore e della morte, talvolta sulle zampe posteriori, ma quasi sempre a quattro zampe. Si aggirava correndo e indagando, avanzava e indietreggiava, attaccava e fuggiva, miagolava e si strusciava voluttuosamente come una gatta. Nonostante i lunghi capelli neri, per il pubblico non era facile considerarla una femmina umana chiusa in un aderente costume di pelo. Innanzi tutto, le zampe anteriori erano lunghe quanto quelle posteriori, e sembravano avere una giuntura in più. Qualcosa di bianco lanciò un grido rauco e salì svolazzando da uno degli schermi. Con un rapido balzo e un colpo della zampa anteriore, il grande felino argenteo lo centrò. Nella Casa di Dio tutti udirono lo strillo del piccione delle nevi, lo schianto del suo collo che si spezzava. Accostandosi l'uccello morto alle zanne, il grande felino, che ora stava ritto come una donna, lanciò al pubblico una lunga occhiata, poi si avviò senza fretta e sparì dietro lo schermo più vicino. Dai presenti si levò un sospiro misto d'odio e di desiderio, di stupore per ciò che sarebbe venuto dopo, e di ansia di capire quel che stava accadendo in quel momento. Fafhrd, però, non sospirava. Innanzi tutto, il minimo movimento poteva rivelare il suo nascondiglio. E poi, poteva vedere chiaramente quanto accadeva dietro gli schermi ornati di spirali. Escluso dallo Spettacolo per la sua giovane età, per la volontà e le stregonerie di Mor, mezz'ora prima dell'inizio dello spettacolo si era arrampicato su uno degli alberi-pilastri della Casa di Dio, dalla parte del precipizio, mentre nessuno stava a guardare. I lacci robusti delle pareti di cuoio gli avevano facilitato la scalata. Poi si era avventurato cautamente su due grossi rami di pino che crescevano insieme verso l'interno, badando a non disturbare né gli aghi scuriti né la neve ammucchiata, fino a quando aveva
trovato una posizione adatta, un'apertura verso il palcoscenico nascosta alla vista del pubblico. Poi, era stato sufficiente restare immobile, per non tradirsi facendo cadere aghi o neve. Se qualcuno avesse alzato lo sguardo nell'oscurità e avesse scorto parte dei suoi indumenti bianchi, avrebbe pensato che fosse neve: o almeno, così si augurava. Ora osservò le due ragazze Mingol sfilare rapidamente dalle braccia di Vlana le aderenti maniche di pelliccia con le estensioni rigide e unghiute che lei aveva tenuto strette con le mani. Poi sfilarono dalle gambe di Vlana le calze di pelliccia, mentre lei sedeva su uno sgabello e, dopo essersi staccata le zanne dai denti, si toglieva in fretta la maschera da leopardo e l'imbottitura delle spalle. Un attimo dopo Vlana si ripresentò sul palcoscenico: era una donna delle caverne, con un corto sarong di pelliccia argentea, intenta a rosicchiare pigramente l'estremità di un osso lungo e massiccio. Mimò la giornata d'una donna delle caverne: curare il fuoco e il bimbo piccolo, prendere a sberle il marmocchio più grandicello, masticare le pelli, cucire laboriosamente. Le cose si fecero un po' più eccitanti con il ritorno del marito, una presenza invisibile resa visibile dalla sua recitazione mimata. Gli spettatori seguirono senza difficoltà la storia, sogghignando quando lei chiese cosa aveva portato il marito dalla caccia, si mostrò insoddisfatta della scarsa preda e gli rifiutò un abbraccio. Sghignazzarono allegramente quando Vlana cercò di dare al marito una mazzata in testa con il grande osso, e finì a sua volta lunga distesa, circondata dai figlioletti spaventati. Da quella posizione, Vlana sgattaiolò fuori scena, dietro l'altro schermo, che nascondeva l'uscita degli attori (riservata di solito al Sacerdote delle Nevi) e che celava anche il Mingol con un braccio solo, le cui cinque dita fulminee eseguivano tutta la musica sul tamburo tenuto stretto con i piedi. Vlana si strappò di dosso il resto delle pellicce, cambiò il taglio degli occhi e delle sopracciglia con quattro rapidi tocchi di colore, indossò con un movimento fulmineo una lunga veste grigia con cappuccio, e tornò sul palcoscenico impersonando una donna Mingol delle Steppe. Dopo un'altra breve scena mimata, Vlana si accovacciò graziosamente davanti a un tavolo basso carico di boccette e cominciò con cura a truccarsi il viso e ad acconciarsi i capelli, usando il pubblico come specchio. Lasciò cadere cappuccio e veste, rivelando un corto indumento di seta rossa. Era affascinante vederla applicare le pomate e le cip'rie e le polveri scintillanti di vari colori alle labbra, alle guance e agli occhi, e vederla rialzarsi i capelli scuri in un'alta torre tenuta ferma da lunghi spilloni con le capoc-
chie ingemmate. Proprio allora, la compostezza di Fafhrd fu messa a dura prova, quando una grossa manciata di neve gli cadde sugli occhi e vi restò appiccicata. Rimase perfettamente immobile per tre battiti del cuore. Poi afferrò un polso piuttosto sottile e lo trascinò verso il basso, scuotendo gentilmente la testa e sbattendo le palpebre. Il polso prigioniero si svincolò, torcendosi, e la neve cadde sul collo della giubba di pelle di lupo dell'uomo di Hringorl, Hor, che stava seduto proprio là sotto. Hor lanciò uno strano grido soffocato, e fece per alzare lo sguardo, ma per fortuna in quel preciso momento Vlana si abbassò il sarong di seta rossa e cominciò a spalmarsi i capezzoli con una pomata color corallo. Fafhrd girò la testa e vide Mara che lo guardava sogghignando rabbiosamente, distesa su due rami accanto ai suoi, con la testa all'altezza delle spalle di lui. «Se fossi stata uno gnomo del ghiaccio, saresti morto!» disse, sibilando. «O se avessi incaricato i miei quattro fratelli di prenderti in trappola, come avrei dovuto fare. Le tue orecchie erano sorde, la tua mente era tutta nei tuoi occhi, protesa verso quella cortigiana ossuta. Ho sentito che hai sfidato Hringorl per lei! E hai rifiutato il bracciale d'oro che lui ti aveva donato!» «Ammetto, cara, che ti sei insinuata dietro di me abilmente e silenziosamente» mormorò sottovoce Fafhrd, «mentre sembra che tu abbia occhi ed orecchie per tutto ciò che succede e che non succede a Cantuccio Freddo. Ma devo dire, Mara...» «Ahah! Adesso mi dirai che non dovrei essere qui, perché sono una donna. Prerogative maschili, sacrilegio intersessuale e così via. Bene, non dovresti essere qui neppure tu.» Fafhrd rifletté con aria grave. «No, io credo che tutte le donne dovrebbero essere qui. Ciò che potrebbero imparare tornerebbe a loro vantaggio.» «Caprioleggiare come una gatta in calore? Aggirarsi torpidamente come una stupida schiava? Sì, anch'io ho visto quei numeri... mentre tu sbavavi, ammutolito e sordo! Voi uomini ridete di tutto, specialmente quando la vostra stupida libidine ansimante è stata destata da una sgualdrina svergognata che mette in mostra le sue ossute nudità!» I sibili indignati di Mara stavano diventando pericolosamente sonori e avrebbero potuto attirare l'attenzione di Hor e degli altri; ma ancora una volta la fortuna intervenne: vi fu un rullo ondulante di tamburo mentre
Vlana lasciava il palcoscenico, e poi incominciò una musica frenetica, un po' rarefatta ma galoppante; al Mingol con un braccio solo si unì la piccola Ilthmarita che suonava un flauto da naso. «Io non ridevo, mia cara» mormorò altezzosamente Fafhrd. «E non sbavavo né ansimavo, e sono sicuro che tu lo avrai notato. No, Mara, l'unico motivo per cui sono qui è il desiderio di imparare a conoscere meglio la civiltà.» Mara gli lanciò un'occhiataccia, sogghignò, poi all'improvviso sorrise teneramente. «Sai, penso davvero che tu incominci a crederlo, bambolone che non sei altro» sussurrò, pensosa. «Ammettendo che la decadenza chiamata civiltà possa avere interesse per qualcuno, e che una puttana caprioleggiante possa portare il messaggio, o meglio l'essenza di un messaggio.» «Io non penso e non credo: io so» rispose Fafhrd, senza badare alle altre osservazioni di Mara. «Un mondo intero ci chiama, e noi abbiamo occhi soltanto per Cantuccio Freddo? Guarda insieme a me, Mara, e acquisisci saggezza. Quell'attrice danza le culture di tutte le terre e di tutte le epoche. Adesso è una donna delle Otto Città.» Forse Mara cominciava a lasciarsi convincere un po'. O forse era il fatto che il nuovo costume copriva Vlana completamente - maniche lunghe, corpetto verde, ampia gonna azzurra, calze rosse e scarpe gialle - e che la danzatrice culturale ansimava un po' e tendeva i muscoli del collo per lo sforzo della danza energica e vorticosa che stava eseguendo. Comunque, la Ragazza delle Nevi scrollò le spalle e sorridendo con indulgenza bisbigliò: «Beh, devo ammettere che tutto questo ha un certo, disgustoso interesse.» «Sapevo che avresti compreso, carissima. Tu hai un'intelligenza due volte più grande di quella di qualunque donna della nostra tribù, sì, e di qualunque uomo» l'adulò Fafhrd, accarezzandola teneramente ma piuttosto distrattamente, mentre sbirciava il palcoscenico. In rapida successione, sempre cambiando fulmineamente costume, Vlana divenne una urì delle Terre Orientali, una regina quarmalliana oppressa dalla veste di gala, una languida concubina del Re dei Re, e un'altezzosa dama di Lankhmar, avvolta in una toga nera. Quest'ultima era una licenza poetica: solo gli uomini di Lankhmar portano la toga, ma quell'indumento era il simbolo principale della città in tutto il mondo di Nehwon. Mara, intanto, faceva del suo meglio per assecondare l'eccentrico capriccio del futuro marito. All'inizio fu sinceramente affascinata, e prese mentalmente nota dei dettagli degli abiti di Vlana e dei movimenti che avrebbe
potuto adottare lei stessa. Ma poi si sentì sopraffare poco a poco dalla certezza che l'altra donna era superiore per preparazione, conoscenza ed esperienza. Le danze e le scene mimate di Vlana non si potevano imparare se non con lunghi allenamenti ed esercizi. E come, soprattutto dove, una Ragazza delle Nevi poteva indossare abiti del genere? Il senso d'inferiorità lasciò il posto alla gelosia, la gelosia all'odio. La civiltà era uno schifo, Vlana avrebbe dovuto essere scacciata a frustate da Cantuccio Freddo, e Fafhrd aveva bisogno di una donna che dirigesse la sua esistenza e tenesse a freno la sua immaginazione scatenata. Non sua madre, naturalmente... quella spaventosa, incestuosa divoratrice del proprio figlio: ma una giovane moglie affascinante e astuta... lei stessa. Mara cominciò a scrutare attentamente Fafhrd. Non sembrava un maschio infatuato, e appariva freddo come il ghiaccio, ma era senza dubbio assorbito dalla scena. La Ragazza delle Nevi ricordò che alcuni uomini erano abilissimi nel nascondere i loro veri sentimenti. Vlana si tolse la toga nera e rimase ritta in una tunica a maglie larghe di sottili fili d'argento. Dovunque i fili si incrociavano spiccava un minuscolo campanellino d'argento. Lei vibrò tutta e i campanellini tintinnarono, come un albero carico di piccolissimi uccelli che trillassero tutti insieme un inno al suo corpo. Adesso la sua snellezza pareva quella dell'adolescenza, mentre tra le ciocche dei capelli lisci i grandi occhi brillavano di allusioni e di inviti misteriosi. Il respiro controllato di Fafhrd divenne concitato. Dunque il suo sogno nella tenda dei Mingol era stato vero! La sua attenzione, che fino a quel momento era parzialmente lontana, nelle terre e nelle epoche delle danze di Vlana, si concentrò interamente su di lei e divenne desiderio. Questa volta la sua compostezza fu messa alla prova ancora più duramente perché, senza preavviso, la mano di Mara gli serrò l'inguine. Ma egli ebbe poco tempo per dimostrare la sua compostezza. Mara lasciò la presa e gridando: «Sudicio bestione! In preda alla libidine!» gli sferrò un colpo al fianco, sotto le costole. Fafhrd cercò di afferrarle i polsi, restando sui suoi rami. Mara continuava a cercare di colpirlo. I rami del pino scricchiolarono, spandendo una pioggia di neve e di aghi. Nello sferrare un pugno sull'orecchio di Fafhrd, Mara perse l'equilibrio, sebbene si tenesse abbrancata con i piedi ai rami più esili. Ringhiando: «Dio ti congeli, sgualdrina!» Fafhrd afferrò con una mano il ramo più robusto, mentre con l'altra cercava di abbrancare il braccio di
Mara sotto la spalla. Gli spettatori che guardavano dal basso - e ormai erano parecchi, nonostante la forte attrazione del palcoscenico - videro due corpi ammantati di bianco che lottavano e due teste bionde penzolanti dal tetto frondoso, come se si accingessero a scendere in tuffi degni di un cigno. Poi, ancora lottando, le due figure risalirono verso l'alto. Un vecchio Uomo delle Nevi urlò: «Sacrilegio!» Uno più giovane gridò: «Guardoni! Picchiamoli!» Probabilmente lo avrebbero obbedito, perché ormai un quarto degli Uomini delle Nevi era balzato in piedi, se non fosse stato che Essedinex teneva d'occhio la platea attraverso uno spioncino in uno degli schermi: ed egli era esperto nell'arte di trattare gli spettatori indisciplinati. Puntò un dito verso il Mingol che stava dietro di lui, e poi rialzò bruscamente la mano, a palmo in su. La musica si fece più forte. Risuonarono i cembali. Le due ragazze Mingol e l'Ilthmarita balzarono sul palcoscenico completamente nude e cominciarono a caprioleggiare intorno a Vlana. Il grasso orientale passò in mezzo a loro e si appiccò il fuoco alla gran barba nera. Fiamme azzurre salirono lingueggiando davanti al suo viso, intorno alle orecchie. Non spense il fuoco con l'asciugamano bagnato che portava, fino a quando Essedinex gli bisbigliò con rauca sonorità attraverso lo spioncino: «Basta così. Li abbiamo di nuovo in pugno.» La lunghezza della barba nera si era dimezzata. Gli attori fanno grandi sacrifici, che il pubblico e persino i loro compagni apprezzano raramente. Fafhrd, precipitando per gli ultimi tre o quattro metri, atterrò sull'alto mucchio di neve all'esterno della Casa di Dio e nello stesso istante Mara finì di scendere. Si fronteggiarono, immersi fino ai polpacci nella neve incrostata, su cui la luna sorgente, lievemente gibbosa, gettava striature di scintillii bianchi e formava ombre tra loro. Fafhrd chiese: «Mara, dove hai sentito quella menzogna? Io avrei sfidato Hringorl per la danzatrice?» «Libertino infedele!» gridò la ragazza, sferrandogli un pugno in un occhio, e corse verso la tenda delle donne, singhiozzando e urlando: «Lo dirò ai miei fratelli! Vedrai!» Fafhrd saltellò avanti e indietro, soffocando un ululato di dolore, spiccò tre balzi per inseguirla, si fermò, si mise un po' di neve sull'occhio dolorante e, non appena la sofferenza si placò un poco, incominciò a pensare. Si guardò intorno con l'altro occhio, non vide nessuno, si avviò verso un gruppo di sempreverdi carichi di neve, sull'orlo del precipizio, si nascose lì
in mezzo e continuò a pensare. Le orecchie gli dicevano che lo Spettacolo continuava ancora a pieno ritmo dentro alla Casa di Dio. C'erano risate e applausi che talvolta sommergevano la musica frenetica del tamburo e del flauto. I suoi occhi - quello colpito funzionava di nuovo - gli dicevano che non c'era nessuno vicino a lui. Li rivolse sulle tende degli attori verso l'estremità della Casa di Dio più vicina alla nuova strada per il sud, poi sulle stalle che stavano più oltre, sulle tende dei mercanti dietro le stalle. Poi tornò a posarli sulla tenda più vicina, quella semicilindrica di Vlana. I cristalli l'ammantavano, ammiccando nel chiaro di luna, e una gigantesca planaria di cristallo sembrava strisciare al centro, proprio sotto il ramo del sicomoro sempreverde. Sgattaiolando, Fafhrd si avviò in quella direzione, sulla crosta di neve indiamantata. Il nodo che chiudeva i lacci dell'ingresso era nascosto nell'ombra, e sembrava complesso e sconosciuto. Il giovane si portò dietro la tenda, svelse due pioli, strisciò sul ventre infilandosi nel varco, come un serpente, si trovò tra le gonne appese di Vlana. Rimise i pioli a posto, si alzò, si scrollò, avanzò di quattro passi e si distese sul giaciglio. Un po' di calore si irradiava da un braciere. Dopo un po', Fafhrd allungò la mano verso il tavolo e si versò una coppa di acquavite. Finalmente udì delle voci che si fecero più forti. Mentre i lacci dell'ingresso venivano sciolti e allentati, Fafhrd cercò il coltello e si preparò a tirarsi addosso un grande tappeto di pelliccia. In tono ridente ma deciso, Vlana disse: «No, no, no» ed arretrò svelta, tenne chiusa la falda con una mano, mentre tirava i lacci con l'altra, e si diede un'occhiata alle spalle. La sua espressione di sorpresa svanì quasi prima che Fafhrd la notasse, e fu subito sostituita da un sorriso che le corrugò comicamente il naso. Vlana gli voltò le spalle, tirò con cura i lacci e impiegò qualche tempo per fare il nodo all'interno. Poi venne a inginocchiarsi accanto a Fafhrd, con il corpo eretto dalle ginocchia in su. Non sogghignava più, mentre lo guardava: la sua era un'espressione composta, enigmaticamente pensosa, che Fafhrd cercò di imitare. Vlana indossava la veste con cappuccio del costume Mingol. «Quindi hai cambiato idea, per la ricompensa» disse sottovoce, ma in tono pratico. «Come fai a sapere se non ho cambiato idea anch'io, nel frattempo?» Fafhrd scosse il capo, rispondendo alla prima frase. Poi, dopo una pausa, disse: «Comunque, ho scoperto che ti desidero.»
Vlana disse: «Ti ho visto che assistevi allo spettacolo dalla... dalla galleria. Mi hai quasi rubato la scena. Chi era la ragazza insieme a te? Oppure era un giovane? Non ho capito bene.» Fafhrd non rispose a quella domanda. Disse invece: «Vorrei anche farti qualche domanda sull'arte suprema con cui danzi e... e reciti da sola.» «Si dice mimare suggerì Vlana.» «Mimare, sì. E poi, voglio parlarti della civiltà.» «Bene: questa mattina mi hai chiesto quante lingue conoscevo» disse lei, guardando oltre le spalle di Fafhrd, in direzione della parete della tenda. Era chiaro che anche lei era una pensatrice. Gli prese dalla mano la coppa di acquavite, trangugiò metà di quel che restava, e gliela rese. «Benissimo» disse, abbassando finalmente lo sguardo su di lui, ma con espressione immutata. «Ti darò ciò che desideri, mio caro ragazzo. Ma non è questo il momento. Prima debbo riposare, riacquistare le forze. Vattene e ritorna quando tramonta la stella Shadah. Svegliami, se mi trovi addormentata.» «Sarà un'ora prima dell'alba» disse Fafhrd, alzando gli occhi verso di lei. «Sarà un'attesa gelida per me, in mezzo alla neve.» «Non devi far questo» fece Vlana, prontamente. «Non ti voglio congelato per tre quarti. Vai dove c'è caldo. Per restare sveglio, pensa a me. Non bere troppo vino. Adesso va'.» Fafhrd si alzò e fece per abbracciarla. Vlana arretrò di un passo, dicendo: «Più tardi. Più tardi... tutto.» Il giovane si avviò verso la porta. La donna scosse il capo. «Potrebbero vederti. Esci come sei entrato.» Fafhrd le passò davanti di nuovo, e sfiorò con la testa qualcosa di duro. Tra le centine che sorreggevano la parte centrale della tenda, il cuoio morbido s'era abbassato, e persino i supporti sì erano piegati e un po' appiattiti per reggere il peso. Per un istante, si acquattò, pronto ad afferrare Vlana ed a balzare via, da qualche parte, poi cominciò a sferrare metodicamente pugni e manate ai rigonfiamenti, colpendo sempre verso l'esterno. Vi fu uno scroscio e un tintinnio sonoro quando i cristalli ammassati, che dall'esterno gli avevano ricordato una gigantesca planaria - ormai doveva essere un serpente gigantesco! - si spezzarono e piovvero tutto intorno. Intanto, Fafhrd disse: «Le Donne delle Nevi non ti amano. E mia madre Mor non ti è amica.» «Credono di farmi paura con i cristalli di neve?» chiese sprezzante Vlana. «Io conosco incantesimi orientali del fuoco, al cui confronto la loro debole magia...»
«Ma adesso tu sei nel loro territorio, alla mercé del loro elemento, che è più crudele e sottile del fuoco» l'interruppe Fafhrd, spazzando via gli ultimi rigonfiamenti, in modo che le centine si raddrizzassero e il cuoio si tendesse quasi piatto. «Non sottovalutare i loro poteri.» «Ti ringrazio per avere impedito che la mia tenda crollasse. Ma adesso vattene... e in fretta.» Lo diceva come se fosse una banalità, ma i suoi grandi occhi erano pensierosi. Prima di insinuarsi di nuovo sotto il telo della tenda, Fafhrd si guardò alle spalle. Vlana fissava di nuovo la parete, tenendo in mano la coppa vuota che lui le aveva dato; ma notò il suo movimento e, con un tenero sorriso, gli gettò un bacio con la mano. Fuori, il freddo era divenuto pungente. Fafhrd, comunque, tornò al suo gruppo di sempreverdi, si strinse addosso l'ampio mantello, si calò il cappuccio sulla fronte, tirando il cordoncino per stringerlo meglio, e sedette, rivolto verso la tenda di Vlana. Quando il freddo cominciò a penetrare attraverso le pellicce, pensò a lei. Poi all'improvviso si sollevò, acquattandosi e sguainò a mezzo il coltello. Una figura si avvicinava alla tenda di Vlana, tenendosi il più possibile nell'ombra. Sembrava vestita di nero. Fafhrd avanzò in silenzio. Nell'aria immobile risuonò il suono lieve delle unghie che raschiavano il cuoio. Vi fu un bagliore di luce fioca, quando l'ingresso si aprì. Era poco intensa, ma bastò a mostrare il volto di Vellix l'Avventuriero. L'uomo entrò, e vi fu il fruscio dei lacci che venivano tirati. Fafhrd si fermò a dieci passi dalla tenda e rimase lì per due dozzine di respiri. Poi, senza far rumore, passò accanto alla tenda, mantenendo la stessa distanza. Dall'alta tenda conica di Essedinex filtrava un barlume di luce. Dalle stalle, più oltre, un cavallo nitri due volte. Fafhrd si acquattò, e attraverso la bassa apertura illuminata, guardò nell'interno: era distante un tiro di coltello. Vide una tavola carica di fiasche e di coppe, collocate contro la parete inclinata della tenda, di fronte all'ingresso. Da un lato della tavola sedeva Essedinex. Dall'altro, Hringorl. Fafhrd girò intorno alla tenda, attento, per timore che Hor, Harraw o Hrey fossero lì intorno. Si avvicinò nel punto in cui si scorgeva il profilo
vago del tavolo e dei due uomini. Scostando il cappuccio ed i capelli, accostò l'orecchio alla superficie di cuoio. «Tre lingotti d'oro... è il massimo» diceva acido Hringorl. Il cuoio alterava la voce. «Cinque» rispose Essedinex, e si sentì lo slup del vino sorbito e ingoiato. «Stammi a sentire, vecchio» ribatté Hringorl, nel suo tono più truce e minaccioso. «Non ho bisogno di te. Posso prendermi la ragazza senza pagarti.» «Oh, no, così non va, Padron Hringorl.» Essedinex sembrava allegro. «Perché allora la Compagnia non tornerebbe mai più a Cantuccio Freddo, e che ne direbbero gli uomini della tua tribù? E non ti porterei più neppure una ragazza.» «Che importa?» replicò noncurante l'altro. Le parole furono soffocate da una sorsata di vino, eppure Fafhrd sentiva che era un bluff. «Ho la mia nave. Posso tagliarti la gola in questo preciso momento e portarmi via la ragazza.» «E allora fallo pure» rispose vivacemente Essedinex. «Basta che mi lasci il tempo di bere un altro goccio.» «E va bene, vecchio avaro. Quattro lingotti d'oro.» «Cinque.» Hringorl imprecò in toni sulfurei. «Una volta o l'altra, vecchio mezzano, esagererai con le tue provocazioni. E poi, quella ragazza è vecchia.» «Sì, è una vecchia volpe in fatto di arti del piacere. Ti ho mai detto che una volta è diventata un'accolita dei Maghi di Azorkah? Perché l'addestrassero a diventare concubina del Re dei Re e loro spia alla corte di Horborixen. Sì, e lei raggirò quei temibili negromanti con estrema abilità, quando ebbe acquisito la scienza erotica che desiderava.» Hringorl rise, con leggerezza forzata. «Perché dovrei pagare anche un solo lingotto d'argento per una donna che è stata posseduta da dozzine di uomini? Il sollazzo di tutti.» «Da centinaia» lo corresse Essedinex. «L'abilità si acquisisce solo con l'esperienza, come ben sai. E più grande è l'esperienza, più grande è l'abilità. Eppure questa ragazza non è mai un giocattolo. È la maestra, la rivelatrice: gioca con un uomo per il piacere di lui, può farlo sentire re dell'universo e magari, chissà, può anche renderlo veramente tale. Che cos'è impossibile per una donna che conosce le vie del piacere degli stessi dèi... sì, e degli arcidemoni? Eppure, tu non lo crederai, ma è vero... a suo modo ella resta eternamente verginale. Perché nessun uomo l'ha dominata.»
«A questo si può rimediare!» Le parole di Hringorl erano quasi un grido ridente. Vi fu di nuovo il suono del vino trangugiato. Poi la voce si abbassò. «Benissimo, cinque lingotti d'oro, usuraio. La consegna dopo lo Spettacolo di domani sera. L'oro verrà pagato quando mi darai la ragazza.» «Tre ore dopo lo Spettacolo, quando la ragazza è drogata e tutto è tranquillo. È inutile destare subito la gelosia degli uomini della tua tribù.» «Facciamo due ore. D'accordo? Ed ora parliamo dell'anno prossimo. Voglio una ragazza nera, una Kleshita purosangue. E non farò mai più acquisti per cinque lingotti d'oro. Non mi servirà un prodigio incantato: solo gioventù e grande bellezza.» Essedinex rispose: «Credimi, non desidererai mai più un'altra donna, quando avrai conosciuto Vlana e... ti auguro buona fortuna!... l'avrai domata. Oh, naturalmente, suppongo...» Fafhrd si allontanò d'una mezza dozzina di passi dalla tenda e poi piantò i piedi saldamente sulla neve: si sentiva stranamente in preda alle vertigini, oppure era ubriaco? Aveva intuito subito che stavano parlando quasi certamente di Vlana: ma sentir pronunciare quel nome lo aveva scosso più di quanto prevedesse. Le due rivelazioni, avvenute in successione così rapida, lo riempirono di una sensazione confusa che non aveva mai provato: una rabbia travolgente e un desiderio di prorompere in una risata ciclopica. Desiderava una spada enorme per squartare il cielo e far ruzzolare dai loro letti gli abitatori del paradiso. Avrebbe voluto prendere e accendere tutti i razzi della Compagnia nella tenda di Essedinex. Avrebbe voluto rovesciare la Casa di Dio con tutti i suoi pini e trascinarla attraverso le tende degli attori. Avrebbe voluto... Si girò e si diresse a passo svelto verso la tenda che fungeva da stalla. L'unico inserviente russava sulla paglia accanto ad una fiasca vuota e alla leggera slitta di Essedinex. Con un sogghigno diabolico, Fafhrd notò che il cavallo che conosceva meglio apparteneva a Hringorl. Trovò una cavezza e un lungo rotolo di corda robusta e leggera. Poi, mormorando suoni rassicuranti tra le labbra socchiuse, fece uscire dal gruppo il cavallo prescelto... una giumenta bianca. Notò di nuovo la slitta. Un diavolo temerario s'impadronì di lui: slacciò il rigido telo incatramato che copriva lo spazio per le provviste, dietro ai due sedili. Lì sotto, tra le altre cose, c'era la riserva dei razzi della Compagnia. Ne scelse tre dei più grossi - con le robuste aste di frassino erano lunghi come bastoncini da sci - e riallacciò con cura il telo. Provava ancora
il cieco impulso di distruggere, ma adesso riusciva a controllarlo parzialmente. Una volta uscito, mise alla cavalla la cavezza, cui legò saldamente un capo della corda. Con l'altro capo foggiò un ampio laccio. Poi, avvolgendo il resto della corda e stringendo i razzi sotto il gomito sinistro, montò agilmente sul dorso della giumenta, e la condusse al passo vicino alla tenda di Essedinex. Le due figure indistinte si fronteggiavano ancora, al di qua e al di là del tavolo. Fafhrd roteò il laccio sopra la testa e lo lanciò: il cappio si assestò intorno all'apice della tenda senza far rumore, perché il giovane fu pronto a tendere la corda prima che andasse a sbattere contro la parete della tenda. Il cappio si strinse intorno alla punta del palo centrale della tenda. Frenando l'eccitazione, Fafhrd avviò la giumenta al passo verso la foresta, sulla neve scintillante al chiaro di luna, svolgendo la corda. Quando gli rimasero solo quattro avvolgimenti, lanciò l'animale a corsa. Si rannicchiò sopra la cavezza, tenendola ben stretta, con i talloni piantati contro i fianchi della cavalla. La corda si tese. La cavalla tirò più forte. Dietro Fafhrd si levò un crack smorzato, piacevolissimo. Il giovane proruppe in una risata trionfale. La cavalla si avventò in avanti, cercando di vincere l'irregolare resistenza della corda. Voltandosi indietro, Fafhrd vide la tenda trascinata dietro di loro. Vide le fiamme e udì urla di sorpresa e di collera. La sua risata risuonò di nuovo, scrosciante. Quando arrivò al limitare della foresta, sguainò il coltello e recise la corda. Balzò a terra con un volteggio, mormorò un ringraziamento all'orecchio della cavalla e le diede una pacca sul fianco che la fece partire al galoppo verso la stalla. Pensò di lanciare i razzi verso la tenda caduta, ma poi decise che non era il caso. Tenendoli stretti sotto il gomito, si addentrò nel bordo del bosco. Così nascosto, si avviò verso casa. Camminava a passo leggero per lasciare poche impronte; poi trovò un ramo di pino e se lo trascinò dietro per cancellarle; e appena poteva, camminava sulla roccia. La gaiezza colossale era svanita, ed era svanita anche la rabbia, lasciando il posto a una nera depressione. Non odiava più Vellix e neppure Vlana, ma la civiltà gli sembrava una cosa sgargiante, indegna del suo interesse. Era contento di aver giocato quello scherzo a Hringorl e ad Essedinex, ma quelli erano pidocchi. E lui era uno spettro solitario, condannato ad aggirarsi in eterno nel Deserto Freddo. Pensò di procedere verso nord, attraverso la foresta, fino a quando avesse trovato una nuova vita o fosse morto congelato; di mettersi gli sci e di
tentare di scavalcare con un salto l'abisso tabù che era costato la vita a Skif; di prendere la spada e di sfidare tutti e tre insieme i luogotenenti di Hringorl; e altri cento progetti disastrosi. Le tende del Clan delle Nevi sembravano funghi pallidi nella luce della luna pazza. Alcune erano coni che sovrastavano tozzi cilindri; altre erano emisferi rigonfi, a forma di rapa. Come i funghi, non toccavano il suolo, intorno all'orlo. I pavimenti di rami fitti, tappezzati di pelli e sostenuti da rami più robusti, erano piantati su grossi pali, in modo che il calore interno delle tende non trasformasse in poltiglia il sottostante terreno gelato. L'enorme tronco argenteo di una quercia morta, che terminava in quelle che sembravano le unghie spezzate d'un gigante, dove un fulmine l'aveva schiantato anticamente a metà, indicava l'ubicazione della tenda di Mor e di Fafhrd: e anche della tomba di suo padre, su cui stava la tenda. Tutti gli anni veniva montata in quel punto. C'erano le luci accese in alcune delle tende-abitazione e nella grande Tenda delle Donne, che stava più oltre, in direzione della Casa di Dio, ma Fafhrd non vide nessuno in giro. Con un grugnito d'avvilimento si avviò verso l'ingresso di casa sua e poi, ricordandosi dei razzi, deviò verso la quercia morta. La superficie era liscia; la corteccia era caduta ormai da molto tempo. Anche i pochi rami rimasti erano nudi e tranciati; e il più basso appariva fuori portata. A pochi passi di distanza, Fafhrd si fermò per darsi ancora un'occhiata intorno. Certo che nessuno lo vedesse, corse verso la quercia e, spiccando un balzo verticale degno più di un leopardo che di un uomo, si afferrò con la mano libera al ramo più basso e vi si issò di scatto prima di esaurire lo slancio verticale. Tenendosi ritto sul ramo morto, con un dito appoggiato al tronco, si accertò per l'ultima volta che non ci fosse in giro nessuno a spiarlo e poi, con la pressione delle dita e delle unghie, aprì in quel legno scuro apparentemente compatto una porta alta quanto lui, larga la metà. Procedendo a tentoni oltre gli sci e i bastoncini da sci, trovò un oggetto lungo e sottile, ben avvolto in pelle di foca leggermente oleata. Lo svolse, e ne estrasse un arco possente e una faretra piena di lunghe frecce. Vi ripose anche i razzi, rifece i nodi, poi chiuse la bizzarra porta della sua cassaforte arborea e si lasciò cadere al suolo, sulla neve che si affrettò a pareggiare. Quando entrò in casa, si sentiva di nuovo come uno spettro, e come uno spettro non fece rumore. Gli odori familiari lo confortarono fastidiosamente e contro la sua volontà: odori di carne, di cucina, di fumo freddo, di pel-
li, di sudore, di vasi da notte, e il lieve puzzo dolce-acido di Mor. Attraversò il pavimento elastico e, completamente vestito, si stese sul giaciglio di pelli. Era mortalmente stanco. Il silenzio era profondo. Non sentiva il respiro della madre. Pensò all'ultima volta che aveva visto suo padre, bluastro e con gli occhi chiusi, le membra spezzate ricomposte, la sua spada migliore snudata al fianco, le dita color ardesia assestate intorno all'elsa. Pensò a Nalgron che adesso giaceva nella terra sotto alla tenda, ridotto a uno scheletro dai vermi, la spada arrugginita e nera, gli occhi aperti... occhiaie che guardavano verso l'alto, attraverso la terra compatta. Ricordò l'ultima volta che aveva visto suo padre vivo: un alto mantello di pelli di lupo che si allontanava, rapido, seguito dal crepitare degli avvertimenti e delle minacce di Mor. Poi gli tornò in mente lo scheletro. Era una notte da spettri. «Fafhrd?» chiamò sottovoce Mor, dall'altra parte della tenda. Fafhrd si irrigidì e trattenne il respiro. Quando non resistette più, cominciò a espirare e ad aspirare a bocca aperta, senza far rumore. «Fafhrd?» La voce era un po' più forte, sebbene sembrasse ancora il richiamo di un fantasma. «Ti ho sentito entrare. Non dormi.» Era inutile tacere. «Neanche tu hai dormito, Madre?» «I vecchi dormono poco.» Questo non era vero, pensò. Mor non era vecchia, neppure secondo i criteri spietati del Deserto Freddo. Nello stesso tempo, però, era la verità. Mor era vecchia quanto la tribù, lo stesso Deserto, vecchia come la morte. Mor disse compostamente (Fafhrd sapeva che doveva essere distesa sul dorso, a fissare il soffitto): «Voglio che tu prenda in moglie Mara. Non sono entusiasta, ma l'accetto. Qui c'è bisogno d'una schiena robusta, finché tu continui a fantasticare, a lanciare i tuoi pensieri come frecce scagliate verso l'alto a casaccio, e perdi tempo con le attrici e altre sozzure indorate. E poi, hai messo incinta Mara e la sua famiglia non è da buttar via.» «Mara ha parlato con te, questa notte?» chiese Fafhrd. Cercò di mantenere un tono spassionato, ma le parole gli uscivano soffocate dalla bocca. «Come si conviene a una Ragazza delle Nevi. Solo, avrebbe dovuto dirmelo prima. E tu, prima ancora. Ma hai ereditato la segretezza di tuo padre moltiplicata per tre, oltre al suo impulso di trascurare la famiglia e di abbandonarti ad inutili avventure. Solo che, in te, questa mania assume una forma ancora peggiore. Le amanti di tuo padre erano le vette gelide delle montagne, mentre tu ti senti attratto dalla civiltà, questa piaga putrida del caldo sud, dove non esiste un freddo naturale per punire gli sciocchi e i
lussuriosi e per conservare la decenza. Ma scoprirai che vi è un freddo stregato capace di seguirti dovunque, in tutto Nehwon. Una volta il ghiaccio discese e coprì tutte le terre, come punizione per un precedente ciclo di male libidinoso. E la stregoneria può mandare ancora una volta il ghiaccio là dove è già stato. Arriverai a crederlo, e rinuncerai alla tua mania, oppure imparerai a tue spese, come lo imparò tuo padre.» Fafhrd tentò di formulare l'accusa di uxoricidio cui aveva alluso con tanta facilità quella mattina, ma le parole si bloccarono, non nella gola, ma nella mente che egli sentiva invasa. Molto tempo prima, Mor aveva reso freddo il suo cuore: Adesso, nel suo cervello, Mor stava creando tra i suoi pensieri più segreti cristalli di ghiaccio che distorcevano tutto e gli impedivano di usare contro di lei le armi del dovere compiuto freddamente e sostenuto da una gelida ragione che gli permetteva di conservare l'integrità. Aveva l'impressione che si stesse chiudendo intorno a lui, per sempre, tutto il mondo del freddo, in cui la rigidità del ghiaccio, la rigidità della morale e la rigidità del pensiero erano una cosa sola. Come se si rendesse conto della propria vittoria e si concedesse di allietarsene un po', Mor disse con gli stessi toni opachi, riflessivi: «Sì, ora tuo padre rimpiange amaramente il Grande Hanack, Zanna Bianca, la Regina del Ghiaccio, e tutte le altre montagne che erano i suoi amori. Adesso non possono più aiutarlo. Lo hanno dimenticato. Lui guarda per l'eternità, con le occhiaie senza palpebre, la casa che disprezzava, e ora ne prova nostalgia: così vicina, eppure così irraggiungibile. Le ossa delle sue dita raschiano debolmente la terra gelata, ed egli cerca invano di muoversi sotto quel peso...» Fafhrd udì un raspare leggero, forse di ramoscelli gelidi contro il cuoio della tenda, ma i capelli gli si rizzarono. Eppure non poteva muoversi: se ne accorse appena cercò di alzarsi. La tenebra intorno a lui era un peso immane. Si chiese se Mor l'aveva trasferito con la magia sottoterra, accanto a suo padre. Eppure era un peso ancora più grande che otto piedi di terra gelata, quello che l'opprimeva. Era il peso di tutte le Solitudini Fredde e della loro crudeltà, dei tabù e dei disprezzi e della meschinità mentale del Clan delle Nevi, dell'avidità piratesca e dell'oscena lussuria di Hringorl, persino del gaio egocentrismo di Mara, della sua mente spensierata e semicieca, e soprattutto Mor, con i cristalli di ghiaccio che si formavano sulle punte delle sue dita, mentre li intesseva in un incantesimo vincolante. E poi pensò a Vlana. Forse non fu il pensiero di Vlana a liberarlo. Forse una stella passò per
caso sopra il minuscolo sfiatatoio del fumo della tenda e gli scoccò in una pupilla la sua minuscola freccia d'argento. Forse il respiro a lungo trattenuto esalò, e i suoi polmoni aspirarono automaticamente altra aria, dimostrandogli che i suoi muscoli potevano muoversi. Comunque, Fafhrd schizzò in piedi e si precipitò verso l'uscita. Non osò fermarsi per sciogliere i lacci, perché le dita di ghiaccio di Mor cercavano d'afferrarlo. Squarciò invece il vecchio cuoio fragile con un colpo dell'unghiuta mano destra, e poi balzò lontano dall'entrata, perché le braccia scheletriche di Nalgron si tendevano verso di lui dall'esiguo spazio nero tra il suolo gelato e il pavimento rialzato della tenda. E poi corse, come non aveva mai corso in vita sua. Corse come se tutti gli spettri delle Solitudini Fredde gli fossero alle calcagna... e in un certo senso era così. Passò davanti alle ultime tende del Clan delle Nevi, tutte buie, e alla tintinnante Tenda delle Donne, e si lanciò sul dolce pendio inargentato dalla luna, che portava verso il ciglio rialzato del Canyon dei Troll. Provava l'impulso di balzare oltre quell'orlo, sfidando l'aria a sostenerlo e a portarlo a sud, oppure a scagliarlo nell'oblio immediato... e per un momento gli parve che fosse una cosa da nulla scegliere tra quei due destini. E poi si accorse che non correva tanto per allontanarsi dal freddo e dai suoi orrori sovrannaturali e minacciosi, quanto per raggiungere la civiltà, che era tornata ad essere un emblema fulgido, nel suo cervello, la grande risposta alla mentalità ristretta e meschina. Fafhrd rallentò un poco il passo, e recuperò un po' di buon senso: cominciò a guardarsi intorno, caso mai scorgesse qualche ritardatario in carne ed ossa, oppure demoni e apparizioni. Notò che Shadah brillava azzurra sopra le cime degli alberi, a occidente. Aveva rallentato al punto di procedere al passo quando arrivò alla Casa di Dio. Passò tra questa e il ciglio del canyon, che non lo attirava più irresistibilmente. Vide che la tenda di Essedinex era stata rimontata, ed era di nuovo illuminata. Non c'erano nuovi vermi di neve che strisciassero sulla tenda di Vlana. Il ramo del sicomoro delle nevi che la sovrastava scintillava di cristalli al chiaro di luna. Il giovane entrò senza annunciarsi dall'ingresso posteriore, sfilando senza far rumore i pioli già rimossi e poi insinuando, sotto il telo della tenda e gli orli dei costumi appesi, la testa e il pugno destro che serrava il coltello sguainato.
Vlana dormiva sola, riversata sul giaciglio, avvolta in una coperta di lana rossa che la copriva fino alle ascelle. La lampada irradiava una fioca luce gialla, tuttavia abbastanza chiara da mostrare tutto l'interno della tenda rivelando che non vi era nessun altro, oltre lei. Il braciere, ricaricato da poco, irradiava calore. Fafhrd entrò, rinfoderò il coltello, e si fermò a guardare l'attrice. Le braccia erano snelle, le dita lunghe, le mani un po' grosse. Ora che teneva chiusi i grandi occhi, il viso sembrava piuttosto piccolo, al centro della splendida aureola di capelli scuri. Eppure aveva un'espressione nobile e saggia, e le labbra umide e generose, appena ridipinte di carminio, lo eccitavano e lo tentavano. La pelle di lei aveva una lieve lucentezza d'olio, di cui Fafhrd poteva percepire il profumo. Per un attimo Vlana, così supina, gli ricordò sia Mor sia Nalgron: ma. quel pensiero venne immediatamente scacciato dal calore ardente del braciere, che sembrava un piccolo sole di ferro battuto, dalle ricche stoffe e dagli eleganti strumenti della civiltà che lo circondavano, e dalla bellezza e dalla grazia ben curata di Vlana, che sembrava conscia di sé persino nel sonno. Lei era un simbolo della civiltà. Fafhrd tornò all'attaccapanni e cominciò a togliersi gli indumenti, piegandoli e ammucchiandoli con cura. Vlana non si svegliò o almeno non aprì gli occhi. Qualche tempo dopo, infilandosi di nuovo sotto la coperta rossa, dopo esserne uscito per fare i suoi bisogni, Fafhrd disse: «Ora parlami della civiltà e della parte che tu hai in essa.» Vlana bevve metà del vino che Fafhrd le aveva porto, poi si stiracchiò soddisfatta, poggiando la testa sulle mani intrecciate. «Ecco, tanto per cominciare, non sono una principessa, sebbene mi piacesse farmi credere tale» disse, disinvolta. «Devo informarti che non ti sei trovato neppure una dama, carissimo ragazzo. In quanto alla civiltà, fa schifo.» «No» ammise Fafhrd. «Mi sono trovato la più brava ed affascinante attrice di tutto Nehwon. Ma perché la civiltà ti ispira ripugnanza?» «Temo di doverti disilludere ancora di più, carissimo» disse Vlana, strusciandosi un po' distrattamente contro di lui. «Altrimenti saresti capace di farti venire idee sciocche sul mio conto e magari di escogitare sciocchi progetti.» «Se parli di quando hai finto di essere una prostituta per acquisire la
scienza erotica ed altre conoscenze...» cominciò Fafhrd. Vlana gli lanciò un'occhiata di considerevole stupore e l'interruppe, piuttosto bruscamente: «Io sono peggio di una prostituta, secondo un certo metro di giudizio. Sono una ladra. Sì, Riccioletti Rossi, sono una tagliaborse e una scippatrice, una derubatrice di ubriachi, una scassinatrice notturna e una rapinatrice da vicoli. Sono nata contadina, e immagino che questo mi collochi su di un gradino ancora più basso di un cacciatore, che vive uccidendo gli animali, non si sporca le mani con la terra e non miete alcun raccolto se non con la spada. Quando il poderetto dei miei genitori venne confiscato con un trucco legale ed entrò a far parte di una delle nuove, grandi tenute coltivate a grano dagli schiavi e appartenenti a Lankhmar, e i miei genitori morirono di fame, io decisi di riprendermi ciò che era mio, togliendolo ai mercanti di grano. La Città di Lankhmar mi avrebbe nutrita, sì, e nutrita bene! Ed io l'avrei ripagata solo a sberle e a graffi. Perciò mi recai a Lankhmar. Lì m'incontrai con una ragazza sveglia che la pensava come me ed era dotata d'una certa esperienza: e me la cavai benissimo per due rivoluzioni complete delle lune, anzi un po' di più. Lavoravamo solo abbigliate di nero, e tra noi ci chiamavamo il Duo Tenebroso. «Per coprire la nostra vera attività, ballavamo, soprattutto nelle ore del crepuscolo, per far passare il tempo prima dell'entrata in scena dei grandi dello spettacolo. Dopo un po', cominciammo anche a fare numeri di mimo, istruite da un certo Hinerio, un attore famoso che il vino aveva rovinato: il più caro e cortese tra i vecchi alcolizzati che mai abbiano mendicato all'alba per pagarsi da bere, o mai siano riusciti a coccolare, la sera, una ragazza che avesse un quarto dei loro anni. E perciò, come dico, me la cavai benissimo... fino a quando non incappai nelle reti della legge, come era accaduto ai miei genitori. No, non i tribunali del Sovrano, caro ragazzo, e le sue prigioni e le sue camere di tortura e i suoi ceppi per mozzare teste e mani, sebbene siano una vergogna che gridano vendetta alle stelle. No, incappai nelle reti di una legge ancora più antica di quella di Lankhmar, di un tribunale meno misericordioso. Per dirla in breve, l'attività di copertura mia e della mia amica venne smascherata dalla Corporazione dei Ladri, un'organizzazione antichissima con filiali in ogni città del mondo civile, con una legge inflessibile che non permette alle femmine di farne parte e un odio profondo verso tutti i professionisti indipendenti. Alla fattoria avevo sentito parlare della Corporazione e, nella mia ingenuità, avevo sperato di divenire degna di farne parte, ma ben presto scoprii qual era il suo motto: "Meglio baciare un cobra che confidare un segreto a una donna". Tra l'altro,
mio dolce studioso delle arti della civiltà, se la Corporazione deve servirsi di donne come esche oppure per distrarre l'attenzione e così via, le prende a noleggio ad un tanto alla mezz'ora dalla Corporazione delle Puttane. «Ebbi fortuna. Nel momento in cui avrei dovuto morire strangolata altrove, inciampai nel cadavere della mia amica, poiché ero tornata di corsa a casa per prendere una chiave che avevo dimenticato. Accesi una lampada nella nostra dimora dalle imposte chiuse, vidi la lunga agonia impressa sul volto di Vilis, e la corda di seta rossa piantata profondamente nel suo collo. Ma ciò che mi riempì del furore più ardente e dell'odio più gelido, oltre che di una paura da far tremare le ginocchia, fu che avevano strangolato anche il vecchio Hinerio. Vilis ed io, almeno, eravamo concorrenti, e quindi, forse, selvaggina disponibile secondo i criteri maleodoranti della civiltà: ma lui non aveva mai sospettato che fossimo ladre. Aveva creduto semplicemente che avessimo altri amanti, oppure clienti erotici. «Perciò fuggii da Lankhmar in tutta fretta, come un granchio che si sente spiato, tenendo gli occhi rivolti all'indietro per timore di essere inseguita, e ad Ilthmar incontrai la compagnia di Essedinex, diretta a nord per la stagione. Per mia fortuna, c'era bisogno di una mima, e la mia abilità era sufficiente per soddisfare il vecchio Seddy. «Ma nello stesso tempo, giurai per la stella del mattino di vendicare la morte di Vilis e di Hinerio. E un giorno la vendicherò! Con piani opportuni e aiuto e una nuova copertura. Più di un alto potentato della Corporazione dei Ladri imparerà cosa si prova a sentirsi serrare la gola di un'unghia alla volta, sì, e anche cose più terribili! «Ma questo è un argomento di conversazione assai truce per un piacevole mattino, amante mio, e io l'ho affrontato solo per spiegarti per quale ragione non devi legarti troppo a una donna sudicia e perversa come me». Poi Vlana si girò in modo da appoggiarsi contro Fafhrd, e lo baciò dall'angolo della bocca al lobo dell'orecchio, ma quando egli si mostrò intenzionato a ricambiare con gli interessi queste cortesie, Vlana scostò le sue mani brancolanti e, appoggiandoglisi sulle braccia in modo da tenerle ferme, si sollevò e lo guardò con espressione enigmatica, dicendo: «Caro ragazzo, spunta ormai il grigiore dell'alba, e presto verrà la luce rosata, e tu devi lasciarmi subito, o al massimo dopo un ultimo amplesso. Torna a casa, sposa quella deliziosa ed agile ninfa degli alberi (ora sono certa che non era un giovinetto) e vivi una vita diritta e onesta, lontana dai fetori e dalle seduzioni della civiltà. La Compagnia farà i bagagli e partirà presto, dopodomani, e io debbo seguire il mio tortuoso destino. Quando il tuo sangue
avrà cessato di ribollire, proverai per me soltanto disprezzo. No, non negarlo... conosco gli uomini! Tuttavia c'è la vaga possibilità che tu, essendo tu, mi ricorderai con un po' di piacere. In tal caso ti consiglio una cosa soltanto: non accennarne mai con tua moglie!» Fafhrd ricambiò lo sguardo enigmatico di Vlana e rispose: «Principessa, io ho fatto il pirata, che altro non è se non un ladro delle acque, che spesso depreda gente povera quanto lo erano i tuoi genitori. La barbarie non puzza meno della civiltà. Nessuno può muoversi, nella nostra esistenza congelata: è vincolato dalle leggi di un dio matto, che noi chiamiamo tradizioni, e dalle irrazionalità tenebrose cui è impossibile sottrarsi. Mio padre fu condannato a morire sfracellato da un tribunale che non oso nominare. Il suo delitto: scalare una montagna. E qui vi sono omicidi e ladri e mezzani e... Oh, vi sono certe storie che potrei narrarti se...» Si interruppe per alzare le mani, in modo da tenere Vlana dolcemente sollevata a mezzo sopra di lui, tenendola per le ascelle. «Lascia che io venga a sud con te, Vlana» disse, incalzante, «sia come membro della tua compagnia o da solo... anche se io sono veramente uno scaldo, e so anche eseguire la danza della spada, fare il giocoliere con quattro pugnali, e colpire con uno di essi, a dieci passi di distanza, un bersaglio non più grande dell'unghia del mio pollice. E quando arriveremo alla Città di Lankhmar, magari camuffati da Settentrionali, dato che tu sei alta, io sarò il valente braccio destro della tua vendetta. So fare il ladro anche sulla terraferma, credimi, e so seguire una vittima nei vicoli tortuosi, direi, invisibile e silenzioso come nelle foreste. So...» Vlana, sorretta dalle mani di lui, gli posò un palmo sulle labbra, mentre l'altra mano vagava pigramente sotto i lunghi capelli, alla nuca. «Tesoro» ella disse, «non dubito che tu sia valoroso e devoto ed abile, per un ragazzo di diciotto anni. E per essere così giovane sai fare l'amore piuttosto bene... così bene da tenerti la tua ragazza dalla pelliccia bianca e magari anche qualche altra donna, se volessi. Ma nonostante le tue parole feroci, perdona la mia franchezza... io sento in te l'onestà, la nobiltà, un amore per la lealtà, e l'odio per la tortura. Il luogotenente che io cerco per la mia vendetta deve essere crudele e proditorio e malvagio come un serpente, e deve conoscere almeno quanto me le usanze incredibilmente tortuose delle grandi città e delle antiche corporazioni. E, per essere sincera, deve avere almeno la mia età, mentre tu sei più giovane almeno d'un numero di anni pari a quello delle dita di due mani. Perciò baciami, caro ragazzo, e dammi ancora una volta il piacere e...»
Fafhrd si levò di scatto a sedere, la sollevò un poco e se la fece sedere sulle cosce, poi l'afferrò per le spalle. «No» disse con fermezza. «Non mi pare vi sia nulla da guadagnare, assoggettandoti ancora una volta alle mie carezze inesperte. Ma...» «Temevo che l'avresti presa così» l'interruppe Vlana, mestamente. «Io non intendevo...» «Ma» continuò Fafhrd, con tranquilla autorità, «voglio rivolgerti una domanda. Hai già scelto il tuo luogotenente?» «Non intendo rispondere» ribatté lei, fissandolo con la stessa serena fermezza. «È forse...?» cominciò Fafhrd, e poi serrò le labbra, trattenendo il nome di Vellix prima di pronunciarlo. Vlana lo guardò con aperta curiosità. «Benissimo» fece lui, finalmente, staccandole le mani dalle spalle e usandole per puntellarsi. «Tu hai tentato, credo, di comportarti secondo quelli che ritieni siano i miei interessi, perciò ti ricambierò. Ciò che devo rivelarti mette sotto accusa allo stesso modo la barbarie e la civiltà.» E le riferì i piani orditi contro di lei da Essedinex e da Hringorl. Quando Fafhrd ebbe terminato, Vlana rise di cuore, sebbene egli avesse l'impressione che fosse un po' impallidita. «Dovevo essermi illusa» commentò. «Dunque era per questo che le mie recitazioni mimate, così sottili, sono piaciute tanto facilmente ai gusti rozzi di Seddy, e perché c'era un posto per me nella compagnia, e perché non ha insistito che facessi la puttana per lui dopo lo Spettacolo, come debbono fare le altre.» Fissò Fafhrd, intensamente. «Qualche burlone ha rovesciato la tenda di Seddy, stanotte a mezzanotte. Sei stato tu...?» Egli annuì. «Ero di umore bizzarro, questa notte: allegro e tuttavia furioso.» Allora Vlana proruppe in una risata sincera, divertita, seguita da un'altra occhiata acuta. «Dunque non sei ritornato a casa, quando ti ho mandato via dopo lo Spettacolo?» «Solo più tardi» rispose Fafhrd. «No, sono rimasto a osservare.» Vlana lo guardò in modo tenero, ironico, stupito, che chiedeva apertamente "E cos'hai visto?" Ma questa volta gli fu molto più facile non nominare Vellix. «Dunque, sei anche un gentiluomo» scherzò la donna. «Ma perché non mi hai avvertita prima del vile intrigo di Hringorl? Pensavi che mi sarei spaventata troppo per aver voglia di fare l'amore?»
«Un po' anche per questo» ammise Fafhrd. «Ma soprattutto ho deciso di avvertirti solo in questo momento. Per la verità, stanotte sono tornato da te solo perché ero stato spaventato dagli spettri, anche se più tardi ho scoperto altre buone ragioni. In verità, prima di entrare nella tua tenda, la paura e la solitudine... sì, e anche un po' di gelosia, mi avevano fatto decidere a gettarmi nel Canyon dei Troll, oppure a calzare gli sci e ad osare il salto quasi impossibile che da anni tenta il mio coraggio...» Vlana gli afferrò il braccio, piantandogli le dita nella carne. «Non farlo mai» gli disse, in tono molto serio. «Aggrappati alla vita. Pensa solo a te stesso. Il peggio si trasforma sempre nel meglio... o nell'oblio.» «Sì. è quanto pensavo quando ero disposto a lasciare che l'aria del canyon decidesse del mio destino. Mi avrebbe cullato o mi avrebbe lasciato precipitare? Ma l'egoismo, che in me è più forte di quanto tu immagini, e una certa incredulità nei confronti dei miracoli, hanno soffocato quell'impulso. Inoltre, ero già deciso a calpestare la tua tenda, prima di abbattere quella del Direttore della Compagnia. Quindi, come vedi, anche in me c'è del male. Sì, ed una silenziosa falsità.» Vlana non rise, ma studiò pensierosa il volto di lui. Poi, per qualche istante, nei suoi occhi ricomparve l'espressione enigmatica. Per un momento Fafhrd pensò di poter leggere ciò che stava oltre, e ne fu turbato, perché ciò che credeva di scorgere dietro quelle pupille dalle iridi brune non era una sibilla che scrutava l'universo dalla vetta d'un monte, ma un mercante con le bilance su cui pesava meticolosamente gli oggetti, e annotava su un libriccino vecchi debiti e nuove corruzioni e piani alternativi per ricavare guadagni. Ma fu soltanto un'unica occhiata conturbante, e il suo cuore si rallegrò quando Vlana, che egli teneva ancora reclinata su di sé con le grosse mani, gli sorrise guardandolo negli occhi e disse: «Ora risponderò alla tua domanda, cui prima non volevo e non potevo rispondere. Perché solo in questo istante ho deciso chi sarà il mio luogotenente... tu. Abbracciami per suggellare il patto!» Fafhrd la strinse con uno slancio impaziente e una forza che le fece lanciare gridolini sommessi, ma poi, un attimo prima che il suo corpo s'infiammasse insopportabilmente, Vlana lo scostò da sé, e disse ansimando: «Aspetta, aspetta! Prima dobbiamo fare i piani.» «Dopo, amor mio. Dopo» supplicò Fafhrd, cercando di farla ridistendere a forza. «No!» protestò lei, bruscamente. «Il Dopo perde troppe battaglie contro
il Troppo Tardi. Se tu sei il luogotenente, io sono il capitano e do gli ordini.» «Ascolterò obbediente» fece Fafhrd, cedendo. «Solo, ti prego di sbrigarti.» «Dobbiamo essere molto lontani da Cantuccio Freddo prima del momento del rapimento» disse Vlana. «Oggi devo raccogliere la mia roba e procurare una slitta, cavalli veloci, e provviste. Lascia fare a me. Oggi ti comporterai esattamente come al solito, tenendoti alla larga da me, nell'eventualità che i nostri nemici ti facciano spiare, come faranno molto probabilmente Seddy e Hringorl...» «Benissimo, benissimo» convenne precipitoso Fafhrd. «Ed ora, mia dolcissima...» «Taci ed abbi pazienza! Per coronare l'inganno, arrampicati sul tetto della Casa di Dio prima dello Spettacolo, esattamente come hai fatto la notte scorsa. Potrebbe esserci un tentativo di rapirmi durante lo Spettacolo, se Hringorl o i suoi uomini diventassero troppo impazienti, o se Hringorl cercasse di frodare Seddy per non dargli l'oro pattuito. E mi sentirò più tranquilla se tu starai di guardia. Poi, quando uscirò dopo il numero con la toga e i campanellini d'argento, tu scendi svelto e aspettami nella stalla. Fuggiremo durante l'intervallo tra la prima e la seconda parte dello Spettacolo, quando in un modo o nell'altro tutti sono intenti a pensare a ciò che verrà dopo; nessuno baderà a noi. Hai capito? Resterai lontano da me, oggi? Ti nasconderai sul tetto? Mi raggiungerai durante l'intervallo? Benissimo! E ora, luogotenente carissimo, bando alla disciplina. Dimentica ogni atomo di rispetto dovuto al tuo capitano e...» Ma ora toccò a Fafhrd indugiare. Le parole di Vlana avevano lasciato alle sue preoccupazioni il tempo di destarsi: la tenne lontana da sé sebbene lei gli avesse intrecciato le mani dietro al collo e cercasse di attirarlo a sé. Fafhrd disse: «Ti obbedirò in ogni particolare. Solo, un altro avvertimento, ed è importantissimo che tu l'ascolti. Oggi pensa il meno che puoi ai nostri progetti, anche quando compi azioni vitali per realizzarli. Tienli nascosti dietro il sipario degli altri tuoi pensieri. Io farò altrettanto, puoi starne certa. Perché Mor, mia madre, è una grande lettrice delle menti.» «Tua madre! Per la verità, ti intimorisce eccessivamente, tesoro, tanto da farmi fremere dal desiderio di liberartene... oh, non tenermi lontana! Parli di lei come se fosse la Regina delle Streghe.» «E infatti lo è: non illuderti» le assicurò cupamente Fafhrd. «Lei è il grande ragno bianco, e tutte le Solitudini Fredde, in alto e quaggiù, sono la
sua ragnatela, su cui dobbiamo procedere in punta di piedi, evitando i fili appiccicosi. Mi darai ascolto?» «Sì, sì, sì! Ed ora...» Fafhrd l'attirò lentamente verso di sé, come un uomo che si accosta alla bocca un otre di vino, prolungando l'attesa. Le loro epidermidi si toccarono. Le loro labbra si sfiorarono. Fafhrd si accorse di un silenzio profondo intorno, sotto e sopra, come se tutta la terra trattenesse il respiro. E si spaventò. Si baciarono, bevendo profondamente l'uno dell'altra; e le paure di lui si smorzarono. Si separarono per riprendere fiato. Fafhrd tese la mano e strinse tra le dita lo stoppino della lampada, in modo che la fiamma si spense, e nella tenda scese l'oscurità, rotta soltanto dall'argento freddo dell'alba che filtrava dalle fessure. Le dita gli fecero male. Si chiese perché l'aveva fatto... prima avevano preferito far l'amore alla luce della lampada. La paura lo riassalì. Strinse forte Vlana, nell'abbraccio che scaccia ogni timore. E poi all'improvviso - anche se non avrebbe saputo dire il perché - si ritrovò a rotolare insieme a Vlana, più e più volte, verso il fondo della tenda. Stringendole le spalle con le mani, tenendola avvinghiata con le gambe, lanciava Vlana a lato, sopra di lui, e poi se stesso sopra di lei, in un'alternanza rapidissima. Vi fu uno scroscio simile al tuono, e la violenza del pugno d'un gigante fece sussultare il terreno gelato e indurito come granito dietro di loro, al centro della tenda, mentre le centine si piegavano, trascinandosi dietro il cuoio dei teli. Rotolarono in mezzo agli indumenti appesi che caddero loro addosso. Vi fu un secondo scroscio mostruoso, seguito da uno scricchiolio e da uno schianto, come se una belva gigantesca avesse afferrato tra le zanne un colosso, stritolandolo. Per qualche istante, la terra tremò. Poi tutto fu silenzio, dopo il grande frastuono e il terremoto: c'erano solo lo sbigottimento e la paura che facevano loro ronzare le orecchie. Si strinsero l'uno all'altra come bambini terrorizzati. Fafhrd fu il primo a riprendersi. «Vestiti!» disse a Vlana, e si infilò sotto l'orlo della tenda, si alzò nudo nel freddo pungente, sotto il cielo che si colorava di rosa. Il grande ramo del sicomoro delle nevi, con i cristalli schizzati via in un mucchio enorme, giaceva di traverso al centro della tenda, schiacciandone i teli e il sottostante giaciglio contro la terra gelata.
Il resto del sicomoro, privato del grande ramo che lo teneva bilanciato, era caduto tutto intero nella direzione opposta, e giaceva circondato da mucchi di cristalli scrollati via. Le radici nere, pelose, spezzate, erano nude, allo scoperto. Tutti i cristalli lucevano al sole, sfumati di un pallido colore rosa carne. Intorno non c'era nulla che si muovesse, neppure un filo di fumo. La stregoneria aveva sferrato un possente colpo di maglio e nessuno se n'era accorto, tranne le vittime predestinate. Fafhrd cominciò a tremare e tornò a infilarsi nella tenda. Vlana gli aveva obbedito e si vestiva con la rapidità tipica di un'attrice. Fafhrd si precipitò a indossare i propri abiti, fortunatamente ammucchiati in quella estremità della tenda. Si chiese se era stato un dio a ispirargli l'idea di metterli lì e di spegnere la lampada, perché altrimenti la fiamma avrebbe incendiato la tenda crollata. Gli abiti erano più freddi dell'aria gelida, ma egli sapeva che presto sarebbe cambiato. Uscì di nuovo, questa volta in compagnia di Vlana. Quando si alzarono, egli la fece voltare verso il ramo caduto, cinto dal grande mucchio di cristalli e disse: «E ora puoi ridere dei poteri stregoneschi di mia madre e della sua congrega e di tutte le Donne delle Nevi.» Vlana disse, dubbiosa: «Io vedo solo un ramo che si è spezzato sotto il peso eccessivo del ghiaccio.» Fafhrd ribatté: «Paragona la massa dei cristalli e della neve che sono stati scagliati via da quel ramo con quelli accumulati altrove. Ricorda: nascondi i tuoi pensieri!» Vlana tacque. Una figura nera arrivò correndo verso di loro dalle tende dei mercanti. Crebbe di grandezza via via che spiccava grandi balzi, grottescamente. Vellix l'Avventuriero ansimava, quando si fermò bruscamente e afferrò Vlana per le braccia. Dominando il respiro, disse: «Ho sognato che venivi schiacciata. Poi mi ha svegliato uno scroscio di tuono.» Vlana rispose: «Tu hai sognato la verità: ma in un caso come questo, non sarebbe servito a nulla.» Finalmente, Vellix scorse Fafhrd. Un'espressione di collera e di gelosia si incise sul volto; la sua mano corse al pugnale che portava alla cintura. «Fermo!» ordinò bruscamente Vlana. «Sarei davvero finita schiacciata come una mummia, se non fosse stato per l'acume di questo ragazzo, che pure avrebbe dovuto essere assorto completamente in qualcosa d'altro: egli
ha intuito i primi segni della caduta del ramo, e mi ha sottratto alla morte appena in tempo. Fafhrd è il suo nome.» Vellix trasformò il movimento della mano in una parte di un profondo inchino, allargando l'altro braccio. «Ti sono profondamente debitore, giovanotto» disse con calore e poi, dopo una pausa, «per aver salvato la vita di una grande artista.» Ma ormai erano comparse altre figure: alcune venivano in fretta verso di loro dalle vicine tende degli attori, altre si affacciavano sulla soglia delle lontane tende della Tribù delle Nevi e non si muovevano affatto. Premendo la guancia contro quella di Fafhrd, come in un gesto formale di gratitudine, Vlana mormorò rapidamente: «Ricorda il mio piano per questa notte e per la nostra futura felicità. Eseguilo alla lettera. Non farti notare.» Fafhrd riuscì a bisbigliare: «Guardati dal ghiaccio e dalla neve. Agisci senza pensare.» A Vellix, Vlana disse in tono più distaccato, benché con cortesia: «Ti ringrazio, signore, per il tuo interesse per me, sia nei tuoi sogni che allo stato di veglia.» Essedinex, avvolto in un pastrano di pelliccia, dal collo che gli copriva le orecchie, esclamò con burbera ilarità: «È stata una brutta notte per le tende.» Vlana scrollò le spalle. Le donne della compagnia si raccolsero intorno a lei, rivolgendole domande ansiose, ed ella parlò con loro sottovoce, mentre si avviavano verso la tenda degli attori e vi entravano dall'ingresso riservato alle donne. Vellix la seguì con lo sguardo aggrondato e si tirò i baffi neri. Gli attori scuotevano il capo, sbalorditi dallo stato in cui era stata ridotta la tenda semicilindrica. Vellix disse a Fafhrd, con amichevole calore: «Prima ti avevo offerto dell'acquavite, e ora credo che tu ne abbia proprio bisogno. Inoltre, fin da ieri mattina, desideravo parlare con te.» «Ti prego di perdonarmi, ma se mi metterò seduto non riuscirò a rimanere sveglio neppure per udire poche parole, anche se fossero sagge come quelle dei gufi, e neppure per bere un sorso di acquavite» rispose educatamente Fafhrd, nascondendo un enorme sbadiglio che era simulato solo per metà. «Ma ti ringrazio.» «Sembra che io sia destinato a chiedertelo sempre al momento meno opportuno» commentò Vellix con una scrollata di spalle. «Magari a mezzogiorno? Oppure a metà pomeriggio?» aggiunse in fretta.
«A metà pomeriggio, se per te sta bene» rispose Fafhrd, e si allontanò rapidamente, avviandosi a grandi passi verso le tende dei mercanti. Vellix non tentò di seguirlo. Fafhrd si sentiva soddisfatto, più di quanto si fosse mai sentito in vita sua. Il pensiero che quella notte sarebbe fuggito per sempre da quello stupido mondo di neve e dalle sue donne incatenatrici d'uomini gli fece quasi provare un senso di nostalgia per Cantuccio Freddo. Sorveglia i tuoi pensieri! si disse. Una sensazione di strana minaccia, o forse il bisogno di dormire, trasformavano ciò che lo circondava in una scena spettrale, come un luogo dell'infanzia rivisitato dopo molto tempo. Vuotò un boccale di porcellana bianca pieno di vino offertogli dai suoi amici Mingol, Zax ed Effendrit; lasciò che i due lo guidassero a un lucido giaciglio nascosto da un mucchio di pelli e cadde quasi subito in un sonno profondo. Dopo eoni di assoluta, morbida oscurità, le luci si accesero dolcemente. Fafhrd sedeva a fianco di suo padre Nalgron a un robusto tavolo da banchetto, imbandito con saporite vivande fumanti e vini speziati in recipienti di terracotta, di pietra, d'argento, di cristallo e d'oro. C'erano altri commensali, intorno al tavolo, ma Fafhrd riusciva a distinguere solo i contorni scuri delle loro figure e il parlottio incessante, troppo sommesso perché potesse comprenderlo, simile al mormorio di molti ruscelli, interrotto di tanto in tanto da scoppi di risa smorzate, come minuscole onde che battessero una spiaggia sassosa. E il tintinnare dei coltelli e dei cucchiai era simile all'acciottolio dei sassi nella risacca. Nalgron era vestito e ammantato di pelli d'orso dei ghiacci, del bianco più puro, con spille e catene e braccialetti ed anelli dell'argento più puro, e c'era dell'argento anche nei suoi capelli: questo turbò Fafhrd. Nella sinistra stringeva un calice d'argento, che si portava di tanto in tanto alle labbra: ma la mano con cui avrebbe dovuto mangiare la teneva nascosta sotto il manto. Nalgron discorreva di molte cose, saggiamente, con tolleranza, quasi con tenerezza. Volgeva qua e là lo sguardo intorno al tavolo, eppure parlava a voce così sommessa che Fafhrd sapeva che la sua conversazione era rivolta a lui solo. Fafhrd sapeva anche che avrebbe dovuto ascoltare attento ogni parola, facendo tesoro di ogni aforisma, perché Nalgron parlava d'onore, di coraggio, di prudenza, di scrupolo nel donare e di puntigliosità nel mantenere la parola, di seguire gli impulsi del cuore, di porsi una meta elevata e roman-
tica e di lottare instancabilmente per raggiungerla, di onestà in tutto, ma soprattutto nel riconoscere le proprie avversioni e i propri desideri, della necessità di chiudere le orecchie alle paure e alle insistenze delle donne, e tuttavia di perdonare loro tutte le gelosie, i tentativi di inganno e persino le perversità peggiori, poiché queste scaturivano solo dal loro indomabile amore, e di molte altre cose utilissime per un giovane che stava per diventare uomo. Ma sebbene sapesse questo, Fafhrd udiva solo di tanto in tanto ciò che diceva suo padre, perché era molto turbato dalla vista delle guance scarne di Nalgron, dalla magrezza delle forti dita che reggevano il calice, dall'argento nei suoi capelli, e dalla lieve sfumatura bluastra delle sue labbra rosse, sebbene Nalgron fosse molto sicuro, quasi scattante in ogni movimento, in ogni gesto e in ogni parola: e si sentì spinto a cercare nei piatti e nelle ciotole fumanti intorno a lui porzioni particolarmente succulente per servirle nel grande piatto d'argento di Nalgron, onde tentarne l'appetito. Ogni volta che lui faceva questo, Nalgron si voltava a guardarlo con un sorriso e un cenno cortese, con gli occhi pieni d'affetto, e poi si portava il calice alle labbra e riprendeva a discorrere, ma non scopriva mai la mano con cui avrebbe dovuto mangiare. Mentre il banchetto continuava, Nalgron cominciò a parlare di cose ancora più importanti, ma ormai Fafhrd quasi non sentiva più quelle parole preziose, perché era troppo agitato dalla preoccupazione per la salute del padre. La pelle sottile sembrava tendersi fin quasi al punto di lacerarsi sugli zigomi sporgenti, gli occhi splendenti si facevano più infossati, più alonati di scuro, le vene azzurrognole si gonfiavano sui tendini robusti della mano che teneva con leggerezza il calice d'argento... E Fafhrd aveva cominciato a sospettare che, sebbene Nalgron si portasse spesso il vino alle labbra, non ne bevesse mai neppure una goccia. «Mangia, padre» supplicò Fafhrd con voce bassa, tesa per la preoccupazione. «Bevi, almeno.» Di nuovo lo sguardo, il sorriso, il cenno condiscendente, gli occhi splendenti accesi d'affetto, il rapido inclinarsi del calice contro le labbra chiuse, il distogliersi dello sguardo, la ripresa del discorso tranquillo che era impossibile seguire. E poi Fafhrd provò un senso di paura, perché le luci diventavano azzurre, e si accorse che nessuno dei neri commensali senza volto si era accostato alla bocca una mano o l'orlo d'una coppa, sebbene continuassero tutti a far tintinnare le posate. La preoccupazione per suo padre divenne un tor-
mento; e quasi senza rendersi conto di ciò che faceva, scostò il manto del padre, gli afferrò l'avambraccio destro spingendogli la mano verso il piatto carico di cibo. Nalgron smise di annuire, accostò la testa a quella di Fafhrd, e non sorrise, ma sogghignò mettendo in mostra tutti i denti color d'avorio vecchio, mentre i suoi occhi erano freddi, freddi, freddi. La mano ed il braccio che Fafhrd teneva stretti sembravano, erano nude ossa brune. Con un tremito improvviso che gli scosse violentemente ogni parte del corpo, ma soprattutto le braccia, Fafhrd sì ritrasse sulla panca, rapido come un serpente. Poi si accorse che non tremava: veniva scosso da un paio di forti mani di carne che gli stringevano le spalle, e invece dell'oscurità c'era la pelle semitrasparente della tenda dei Mingol, e al posto del viso di suo padre c'era la faccia olivastra, nerobaffuta, cupa e interessata di Vellix l'Avventuriero. Fafhrd lo fissò, stordito, poi scrollò le spalle e la testa per richiamare nel proprio corpo una vitalità accelerata e per liberarsi dalle mani che lo stringevano. Ma Vellix l'aveva già lasciato andare, e si era seduto su di un vicino mucchio di pelli. «Ti chiedo perdono, giovane guerriero» disse in tono grave. «Sembrava facessi un sogno che nessuno avrebbe desiderato continuare.» I suoi modi e il tono della voce erano simili a quelli del Nalgron dell'incubo. Fafhrd si sollevò su un gomito, sbadigliò, e si scrollò di nuovo, con una smorfia e un brivido. «Tu hai gelato il corpo, o la mente, o entrambi» disse Vellix. «Quindi abbiamo un buon pretesto per bere l'acquavite che ti ho promessa.» Prese due piccoli boccali d'argento in una mano e con l'altra una fiasca marrone di acquavite, che stappò con indice e pollice. Fafhrd aggrottò la fronte nel vedere la brunitura dei boccali, al pensiero di ciò che poteva essere incrostato o sparso in polvere sul fondo di entrambi... o forse di uno soltanto. Con un fremito di turbamento, si ricordò che quell'uomo era suo rivale per l'affetto di Vlana. «Aspetta» disse, mentre Vellix si accingeva a versare. «Nel mio sogno, una coppa d'argento aveva una parte orribile. Zax!» gridò al Mingol che stava guardando fuori dalla soglia della tenda. «Un boccale di porcellana, per favore!» «Interpreti il sogno come un avvertimento di non bere in un recipiente
d'argento?» chiese sottovoce Vellix, con un sorriso ambiguo. «No» rispose Fafhrd. «Ma mi ha instillato un'antipatia invincibile, e mi sento ancora accapponare la pelle.» Si stupì un po' al pensiero che i Mingol avessero lasciato entrare tanto facilmente Vellix. Forse i tre erano vecchie conoscenze. O forse i Mingol si erano lasciati corrompere. Vellix ridacchiò e divenne più disinvolto. «E per giunta, io non ho una grande abitudine alla pulizia, poiché vivo senza una donna e senza servitori. Effendrit! Portaci due boccali di porcellana, puliti come una betulla appena scortecciata!» Era proprio l'altro Mingol, quello che stava in piedi accanto all'entrata... Vellix li conosceva meglio di quanto li conoscesse Fafhrd. L'avventuriero gli porse subito uno dei bianchi boccali lucidi. Versò un poco di liquore solleticante nel proprio boccale, poi una dose generosa per Fafhrd, e poi ancora per sé... come per dimostrare che la bevanda del giovane non poteva essere avvelenata o drogata. E Fafhrd, che aveva osservato attentamente, non riuscì a trovare la minima pecca nella dimostrazione. Brindarono e, quando Vellix bevve una gran boccata, Fafhrd ne ingurgitò un sorso abbondante, ma lentamente. Il liquore bruciava dolcemente. «È la mia ultima fiasca» disse allegro Vellix. «Ho ceduto tutta la mia scorta in cambio di ambra, gemme delle nevi, ed altre piccole cose... sì, e anche la mia tenda e il mio carro: tutto, tranne i due cavalli, la nostra roba e le razioni per l'inverno.» «Ho sentito dire che i tuoi cavalli sono i più veloci e i più resistenti delle Steppe» osservò Fafhrd. «È un po' eccessivo. Senza dubbio, fanno la loro figura, qui.» «Qui!» esclamò sprezzante Fafhrd. Vellix lo guardò come l'aveva guardato Nalgron durante tutto il sogno, tranne l'ultima parte. Poi disse: «Fafhrd... posso chiamarti così? Tu chiamami Vellix. Posso darti un consiglio? Posso dartelo, come farei se tu fossi mio figlio?» «Sicuro» rispose Fafhrd, che si sentiva non soltanto inquieto, ma anche insospettito. «È evidente che tu, qui, sei insoddisfatto ed irrequieto. Lo sono tutti i giovani sani della tua età, dovunque. Il grande mondo ti chiama. I piedi ti prudono per l'impazienza. Eppure, lascia che io ti dica questo: ci vuole ben più dell'intelligenza e della prudenza, sì, anche più della saggezza, per affrontare la civiltà con successo. Occorre la più bassa astuzia, ci si deve sporcare quanto è sporca la stessa civiltà. Non puoi fare la scalata al suc-
cesso come se fosse una montagna, sia pure gelida e traditrice. La montagna pretende che tu faccia del tuo meglio: la civiltà, che tu faccia del tuo peggio... una malvagità calcolata di cui non hai ancora esperienza, e di cui non hai bisogno. Io sono nato rinnegato. Mio padre era un uomo delle Otto Città che si era imbrancato con i Mingol. Ora rimpiango di non essere rimasto anch'io nelle Steppe, per quanto siano crudeli, e mi pento di aver ascoltato il richiamo tentatore di Lankhmar e delle Terre Orientali. «Lo so, lo so, la gente di qui ha una mentalità ristretta, tradizionalista: ma in confronto alle menti contorte della civiltà, queste sono diritte come pini. Con le tue doti naturali, qui diventerai facilmente un capo... anzi, un capo supremo: potresti unire una dozzina di clan, fare dei Settentrionali una potenza di cui dovrebbero tener conto le altre nazioni. E allora, se vorrai, potrai sfidare la civiltà: alle tue condizioni, non alle sue». I pensieri e i sentimenti di Fafhrd erano simili ad acque agitate, sebbene in apparenza egli fosse straordinariamente calmo. C'era persino una vena di gaiezza in lui, al pensiero che Vellix temesse il suo successo con Vlana al punto di blandirlo con le adulazioni non meno che con l'acquavite. Ma tra tutte le altre correnti, ciò che più agitava le acque era l'impressione irrecusabile che l'Avventuriero non dissimulasse del tutto, che si sentisse davvero come un padre nei suoi confronti, che cercasse veramente di salvarlo, e che quanto diceva a proposito della civiltà avesse un fondo di verità. Naturalmente, poteva essere così perché Vellix si sentiva sicuro di Vlana e quindi si permetteva di essere generoso con un rivale. Tuttavia... Tuttavia, Fafhrd si sentì ancora più a disagio che mai. Vuotò il boccale. «Il tuo consiglio merita di essere preso in considerazione, signore... voglio dire Vellix. Rifletterò.» Rifiutando un altro bicchiere con un sorriso e una scrollata del capo, si alzò e si riassettò gli abiti. «Avevo sperato in una conversazione più lunga» disse Vellix, senza alzarsi. «Ho diverse cose da fare» rispose Fafhrd. «Ti ringrazio di tutto cuore.» Vellix sorrise pensieroso, mentre Fafhrd se ne andava. La pista di neve calpestata che si snodava tortuosa tra le tende dei mercanti era affollata e rumorosa. Mentre Fafhrd dormiva, gli uomini della Tribù del Ghiaccio e una metà dei Compagni del Gelo erano sopraggiunti, e si erano radunati quasi tutti intorno a due falò solari (così chiamati per la grandezza, il calore, e l'altezza delle fiamme danzanti), trangugiando idro-
mele fumante e ridendo e azzuffandosi. Ai due lati c'erano oasi di trattative mercantili, che gli sgavazzatori invadevano oppure evitavano, a seconda del rango di coloro che erano intenti a concludere affari. Vecchi amici si riconoscevano, si scambiavano grida di saluto, talvolta attraversavano la calca per abbracciarsi. Si dispensavano cibi e bevande, ci si scambiavano sfide, che talvolta venivano accettate, più spesso finivano in una risata. Gli scaldi cantavano e ruggivano. Quel tumulto infastidì Fafhrd, il quale cercava un po' di quiete per districare il pensiero di Vellix da quello di Nalgron, per scacciare i suoi vaghi dubbi sul conto di Vlana, e per riscattare la civiltà di fronte a se stesso. Camminava come un sognatore turbato, aggrottando la fronte e tuttavia senza badare alle gomitate e agli spintoni. Poi all'improvviso si ritrovò teso, all'erta, poiché aveva visto venire verso di lui, tra la folla, Hor e Harrax, e lesse nei loro occhi lo scopo che li conduceva lì. Si lasciò girare dalla calca, e notò Hrey, un altro dei fedelissimi di Hringorl, che gli stava dietro, molto vicino. Lo scopo dei tre era evidente. Fingendo una zuffa cameratesca, lo avrebbero percosso rabbiosamente, o peggio. Tutto preso dal pensiero di Vellix, aveva dimenticato il suo nemico e rivale più certo, Hringorl, brutale e tuttavia astuto. Poi i tre gli furono addosso. Per un istante, Fafhrd notò che Hor impugnava una piccola clava, e che i pugni di Harrax erano esageratamente grossi, come se stringessero pezzi di pietra o di metallo per sferrare colpi più pesanti. Spiccò un balzo all'indietro, come se volesse schivarli passando tra quei due e Hrey: poi con altrettanta rapidità invertì la rotta e con un urlo sconvolgente corse verso il falò solare che gli stava davanti. Molti girarono la testa al suo urlo, e alcuni, sbalorditi, si scostarono per schivarlo. Ma gli uomini della Tribù del Ghiaccio e i Compagni del Gelo ebbero il tempo di capire ciò che accadeva: un giovanotto alto inseguito da tre uomini robusti. Era una promessa di divertimento. Balzarono ai lati del falò per impedirgli di passare oltre. Fafhrd deviò prima a sinistra, poi a destra. Sogghignando, gli altri si strinsero più fitti. Trattenendo il fiato e alzando un braccio per proteggersi gli occhi. Fafhrd spiccò un gran balzo attraverso le fiamme. Il calore gli sollevò dal dorso il manto di pelliccia, agitandolo. Fafhrd sentì una pugnalata scottante sulla mano e sul collo. Ne uscì con la pelliccia fumigante, e fiamme azzurre che gli salivano
lungo i capelli. C'era ancora folla, davanti a lui, e c'era solo uno spiazzo spianato, coperto da un tappeto e sovrastato da un baldacchino, tra due tende, dove capi e sacerdoti sedevano intenti intorno a un tavolino, intorno a un mercante che pesava con una bilancia la polvere d'oro. Udì grida e strepito alle sue spalle. Qualcuno gridò: "Scappa, vigliacco", qualcun altro: "Una rissa, una rissa"; Fafhrd vide più avanti il viso di Mara, rosso ed eccitato. Poi il futuro capo supremo della Terra del Nord (poiché in quell'istante egli si vedeva così), balzò in un tuffo fiammeggiante attraverso la tavola coperta dal baldacchino, rovesciando inevitabilmente il mercante e due capi, facendo cadere la bilancia e spargendo al vento la polvere d'oro prima di atterrare, con uno sfrigolio fumante, nel grande, soffice mucchio di neve. Si rotolò rapidamente per due volte, per assicurarsi che i fuochi si spegnessero, poi si rimise in piedi e corse come un cervo nel bosco, seguito da scrosci di maledizioni e da raffiche di risa. Cinquanta grossi alberi più avanti, Fafhrd si arrestò di colpo nella penombra innevata e trattenne il fiato, ascoltando. Attraverso il rombo sommesso del suo sangue, non gli giunse il minimo suono d'un inseguimento. Malinconicamente, si ravvivò con le dita i capelli scorciati che puzzavano di bruciato e si spolverò sommariamente le pellicce bruciacchiate e non meno puzzolenti. Poi attese che il respiro si calmasse, che i sensi recuperassero l'acutezza. E durante quella pausa, egli fece una scoperta sconcertante. Per la prima volta in vita sua la foresta, che era sempre stata il suo rifugio, la sua tenda ampia quanto un continente, la sua grande stanza personale dai tetti d'aghi, gli parve ostile, come se gli alberi e la madre terra dalla carne fredda e dalle calde viscere in cui essi erano radicati conoscessero la sua apostasia, il suo rifiuto, la sua intenzione di abbandonare il mondo natio. Non fu il silenzio insolito, né la qualità sinistra e sospetta dei lievi suoni che finalmente cominciava a percepire: il grattare di minuscoli artigli sulla corteccia, lo zampettio di passi lievi, il chiurlare di un gufo lontano che anticipava la notte. Quelli erano solo effetti, al massimo concomitanti. Era qualcosa di innominabile, di intangibile e tuttavia profondo, come l'irritazione di un dio. O di una dea. Fafhrd era molto depresso. E nello stesso tempo, non aveva mai sentito il suo cuore indurirsi tanto. Quando, finalmente, si rimise in cammino, cercò di non far rumore, e
non procedette con la sua solita attenzione rilassata ed aperta, ma piuttosto con la sensibilità nervosa e la prontezza di un esploratore in territorio nemico. E fu un bene per lui, perché altrimenti non avrebbe potuto schivare la caduta quasi silenziosa di un ghiacciolo, aguzzo, pesante e lungo come il missile d'una catapulta, né la mazzata di un enorme ramo morto appesantito dalla neve che si spezzò con un unico scroscio tonante, né la saetta velenosa della testa d'una Vipera delle nevi, insolitamente ravvoltolata allo scoperto, né lo sventagliare crudele degli artigli d'un leopardo delle nevi che parve quasi materializzarsi a metà del balzo nell'aria gelida e poi svanì altrettanto stranamente quando Fafhrd schivò il primo assalto e l'affrontò con il pugnale sguainato. E non avrebbe neppure scorto in tempo la trappola, il nodo scorsoio disposto, contrariamente alle consuetudini, in quella zona della foresta, e abbastanza grande per strangolare non una lepre ma un orso. Fafhrd si chiese dov'era Mor, e cosa stava mormorando o cantilenando. Il suo errore era stato soltanto sognare Nalgron? Nonostante la maledizione del giorno precedente (e le altre che l'avevano preceduta), e le minacce scoperte dell'ultima notte, non aveva mai creduto veramente che sua madre potesse cercare di ucciderlo. Ma ora si sentiva rizzare i capelli sulla nuca per l'apprensione e l'orrore: l'espressione dei suoi occhi era febbrile e frenetica, mentre un filo di sangue scorreva dal taglio alla guancia, là dove l'aveva sfiorato cadendo il ghiacciolo. Era divenuto così assorto nello spiare i pericoli che fu per lui una sorpresa trovarsi nella radura dove aveva abbracciato Mara soltanto il giorno innanzi, e con i piedi sulla breve pista che portava alle tende-abitazione. Si rilassò, un poco, rinfoderò il pugnale e si premette una manciata di neve contro la guancia sanguinante: ma solo un poco, e si accorse che qualcuno gli stava venendo incontro prima ancora di udirne consciamente i passi. Allora si dileguò silenziosamente e completamente sullo sfondo innevato, tanto che Mara gli arrivò a tre passi di distanza, prima di vederlo. «Ti hanno fatto del male» esclamò lei. «No» rispose laconico Fafhrd, ancora intento a spiare i pericoli della foresta. «Ma la neve arrossata sulla tua guancia? C'è stata una rissa?» «Sono fuggito nella foresta. Me li sono lasciati indietro.» L'espressione preoccupata di Mara svanì. «È la prima volta che ti ho visto evitare una zuffa.»
«Non me la sentivo di affrontarne tre o di più» rispose seccamente il giovane. «Perché ti guardi alle spalle? Ti seguono?» «No.» L'espressione di Mara divenne più dura. «Gli anziani sono indignati. I giovani ti danno del vigliacco, e tra gli altri ci sono i miei fratelli. Io non sapevo cosa dire.» «I tuoi fratelli!» esclamò Fafhrd. «Che lo schifoso Clan delle Nevi mi chiami pure come vuole. Non me ne importa.» Mara si piantò i pugni sui fianchi. «Da un po' di tempo esageri con gli insulti. Non ammetto che tu offenda la mia famiglia, hai sentito? E che offenda me, ora che ci penso.» Mara ansimava. «Questa notte sei ritornato da quella vecchia puttana grinzosa d'una ballerina. Sei rimasto per ore nella sua tenda.» «Non è vero!» smentì Fafhrd, pensando Al massimo un'ora e mezzo. Il litigio gli scaldava il sangue, placava la sua paura sovrannaturale. «Tu menti! Lo sanno tutti, all'accampamento. Qualunque altra ragazza, al mio posto, ti avrebbe scatenato contro i fratelli.» Fafhrd recuperò la sua abituale astuzia, quasi con un sussulto. In quella suprema vigilia non doveva correre il rischio di cacciarsi in un guaio inutile... poteva anche venire storpiato o ucciso. Tattica, uomo, tattica, si disse, avanzando con ardore verso Mara, ed esclamando in toni mielati e dolenti: «Mara, mia regina, come puoi credere questo di me, di me che ti amo più di...» «Stammi lontano, bugiardo imbroglione!» «E tu che porti in grembo mio figlio» insistette lui, tentando ancora di abbracciarla. «Come sta quel tesoruccio?» «Sputa contro suo padre. Stammi lontano, ti dico.» «Ma io ardo dal desiderio di toccare la sua pelle deliziosa; perché non vi è altro balsamo per me, al di qua dell'Inferno, o bellissima resa ancora più bella dalla maternità.» «E allora vai all'Inferno. E finiscila con questa finzioni nauseanti. La tua commedia non ingannerebbe neppure una sguattera ubriaca. Guitto!» Punto sul vivo, Fafhrd si sentì avvampare e ribatté: «E le tue menzogne? Ieri ti sei vantata che avresti dominato e intimorito mia madre, invece sei corsa piagnucolando a dirle che io ti ho messa incinta.» «Ci sono andata dopo aver scoperto che tu sbavavi dietro a quell'attrice. E che cos'ho detto, se non la pura verità? Oh, non cercare di rivoltare la
frittata!» Fafhrd indietreggiò e incrociò le braccia. Poi dichiarò: «Mia moglie deve essermi fedele, deve fidarsi di me, deve interpellarmi prima di agire, deve comportarsi da degna compagna del futuro capo supremo. Mi sembra che tu non sia all'altezza della situazione.» «Fedele a te? Senti chi parla!» Il volto di Mara arrossì e si tese per la rabbia. «Capo supremo! Aspira al massimo a venire chiamato uomo del Clan delle Nevi, poiché ancora non sei riuscito a tanto! E adesso ascoltami, ipocrita. Mi chiederai immediatamente perdono in ginocchio, e poi verrai a chiedere la mia mano a mia madre e alle mie zie, altrimenti...» «Preferirei inginocchiarmi davanti a un serpente! O sposare un'orsa!» proruppe Fafhrd, dimenticando i suoi pensieri tattici. «Ti sguinzaglierò contro i miei fratelli!» urlò di rimando Mara. «Villano codardo!» Fafhrd alzò il pugno, lo lasciò ricadere, si strinse la testa tra le mani e la scrollò in un gesto di disperazione folle, poi all'improvviso si lanciò a corsa, passando davanti a Mara e dirigendosi verso l'accampamento. «Ti scatenerò contro l'intera tribù! Lo dirò nella Tenda delle Donne. Lo dirò a tua madre...» gli gridò dietro Mara: poi la voce si perse tra i rami, la neve, in lontananza. Soffermandosi appena per notare che tra le tende del Clan delle Nevi non c'era in giro nessuno, forse perché tutti erano ancora alla fiera o intenti a preparare la cena, Fafhrd salì con un balzo sul suo albero del tesoro e aprì la porta del nascondiglio. Imprecando contro l'unghia che si era spezzata, tirò fuori l'arco, le frecce e i razzi avvolti nelle pelli di foca e vi aggiunse il suo migliore paio di sci ed i bastoncini migliori, un pacchetto più corto che conteneva, ben oliata, la seconda spada di suo padre, e una borsa di altri oggetti più piccoli. Si lasciò cadere sulla neve, legò rapidamente tutto in un fardello, e se lo appese sulla spalla. Dopo un momento d'indecisione, si precipitò nella tenda di Mor, estraendo dalla borsa un piccolo portafuoco di pietra: lo riempì di braci prese dal camino, le coprì di cenere, chiuse il portafuoco e lo rimise nella borsa. Poi, mentre si volgeva verso la porta, in preda a una fretta frenetica, rimase immobile, inchiodato. Là stava Mor, un'alta sagoma dai contorni bianchi e dal volto in ombra. «Dunque, tu vuoi abbandonare me e le Solitudini. Per non tornare mai più. Così credi.» Fafhrd era ammutolito.
«Eppure ritornerai. Se vuoi che sia un ritorno strisciando a quattro zampe, o camminando beatamente su due piedi, e non disteso senza vita su una barella fatta di lance, affrettati a ricordare quali sono i tuoi doveri e la tua nascita.» Fafhrd preparò una risposta rabbiosa, ma le parole gli si strozzavano in gola. Si avviò verso Mor. «Lasciami passare, Madre» riuscì a bisbigliare. Mor non si mosse. Fafhrd serrò le mascelle in un'orrida smorfia di tensione, tese le mani di scatto, l'afferrò sotto le ascelle, scosso da un brivido, e la scostò. Mor sembrava rigida e gelida come il ghiaccio. Non protestò. Fafhrd non riusciva a guardarla in faccia. Uscì, e si avviò a passo energico verso la Casa di Dio, ma c'erano degli uomini che gli tagliavano la strada... quattro giovanotti biondi e robusti, fiancheggiati da una dozzina d'altri. Mara era andata a chiamare dalla fiera non soltanto i suoi fratelli, ma anche tutti i parenti disponibili. Eppure adesso sembrava pentita, perché tirava per il braccio il fratello maggiore e gli parlava concitata, a giudicare dalla sua espressione e dal movimento delle labbra. Il fratello maggiore continuò ad avanzare a passo di marcia, come se lei non ci fosse. Quando il suo sguardo incontrò Fafhrd egli lanciò un grido di gioia, si svincolò dalla stretta della sorella, e si avventò alla carica seguito dagli altri. Tutti agitavano i bastoni o le spade chiuse nei foderi. L'urlo disperato di Mara, "Fuggi, amor mio!" fu anticipato da Fafhrd almeno di due battiti di cuore. Girò su se stesso e si lanciò nel bosco, con il lungo pacco rigido che gli batteva sulla schiena. Quando la fuga lo portò sulla fila di impronte che aveva lasciato quando era uscito prima dalla foresta, badò a posare i piedi su quelle, senza rallentare l'andatura. Gli altri, alle sue spalle, gridarono "Vigliacco!" Fafhrd corse più svelto. Quando arrivò agli speroni di granito, un po' all'interno della foresta, svoltò bruscamente a destra e, balzando da una roccia nuda all'altra per non lasciare altre impronte, raggiunse una bassa parete di granito e vi salì, aggrappandosi con le mani, e poi continuò a correre fino a quando l'orlo del breve strapiombo lo nascose alla vista di chiunque fosse passato lì sotto. Sentì gli inseguitori addentrarsi nel bosco, le grida rabbiose quando, nel girare intorno agli alberi, sbattevano uno contro l'altro, e poi una voce au-
toritaria ordinò silenzio. Fafhrd lanciò tre pietre, in modo che cadessero lungo la sua falsa pista, molto più avanti dei segugi umani di Mara. Il tonfo delle pietre e il fruscio dei rami suscitarono grida "Da quella parte!" e un altro ordine di fare silenzio. Sollevando una pietra più grossa, Fafhrd la scagliò a due mani, in modo che urtasse in pieno il tronco di un albero robusto, dalla parte più vicina alla pista, facendo crollare dai rami neve e ghiaccio. Vi furono grida sommesse di sbalordimento, di confusione e di rabbia da parte degli uomini innaffiati e probabilmente semisepolti. Fafhrd sogghignò, poi il suo volto ridivenne serio, i suoi occhi divennero cauti e sfreccianti, mentre si avviava a lunghi passi nella foresta, tra l'oscurità che si addensava. Ma questa volta non sentì presenze ostili e le cose vive e quelle senza vita, rocce o spettri che fossero, non lo assalirono. Forse Mor, ritenendolo già abbastanza punito dai parenti di Mara, aveva smesso di energizzare i propri incantesimi. O forse... Fafhrd smise di pensare e si dedicò completamente a un'avanzata rapida e silenziosa. Lo attendevano Vlana e la civiltà. Sua madre e la barbarie se le lasciava alle spalle... ma si sforzava di non pensare a lei. Era quasi notte quando Fafhrd lasciò la foresta. Fece il giro più ampio, e uscì vicino allo strapiombo del Canyon dei Troll. La cinghia del lungo pacco gli bruciava la spalla. Tra le tende dei mercanti c'erano luci e suoni di festa. La Casa di Dio e le tende degli attori erano buie. Ancora più vicina grandeggiava la mole scura della tenda che fungeva da stalla. Fafhrd attraversò senza far rumore la ghiaia gelida e solcata della Strada Nuova che portava a sud, nel canyon. Poi vide che la stalla non era al buio. All'interno si muoveva un barlume spettrale. Si accostò cautamente alla porta e vide la sagoma di Hor che sbirciava dentro. Sempre silenziosissimo, si portò a tergo di Hor e scrutò oltre la sua spalla. Vlana e Vellix erano intenti ad attaccare i cavalli dell'Avventuriero alla slitta di Essedinex, da cui Fafhrd aveva rubato i tre razzi. Hor alzò la testa e si portò una mano alle labbra, per lanciare un grido di gufo o di lupo. Fafhrd sguainò fulmineamente il coltello ma, mentre si accingeva a tagliare la gola a Hor, cambiò idea e lo colpì con il pomolo alla testa, facendogli perdere i sensi. Quando Hor cadde, Fafhrd lo trascinò da un lato del-
la porta. Vlana e Vellix balzarono sulla slitta, l'Avventuriero toccò i cavalli con le redini, e quelli uscirono. Fafhrd strinse rabbiosamente il coltello... poi lo rinfoderò e si ritrasse nell'ombra. La slitta scese volando per la Strada Nuova. Fafhrd la seguì con lo sguardo, le braccia abbandonate lungo i fianchi come quelle d'un cadavere, ma con le dita serrate a pugno. Poi all'improvviso si girò e corse verso la Casa di Dio. Dietro la stalla si levò il chiurlare di un gufo. Fafhrd si arrestò sdrucciolando sulla neve e si voltò, sempre a pugni stretti. Dall'oscurità uscirono due figure, una delle quali era seguita da una scia di fuoco, e corsero verso il Canyon dei Troll. La più alta era inequivocabilmente Hringorl. Si fermarono sul ciglio del precipizio. Hrigorl roteò la torcia in un grande cerchio di fiamma. La luce mostrò la faccia di Harrax che gli stava accanto. Una volta, due, tre, come fosse un segnale a qualcuno in agguato molto più a sud, nel canyon. Poi i due corsero verso la stalla. Fafhrd corse invece verso la Casa di Dio. Dietro di lui si levò un grido aspro. Si fermò e si girò di nuovo. Dalla stalla uscì al galoppo un grosso cavallo. Lo montava Hringorl. Trascinava con una fune un uomo con gli sci: Harrax. I due si avventarono giù per la Strada Nuova in un turbine di neve. Fafhrd continuò a correre fino a quando ebbe superato la Casa di Dio ed ebbe salito per un quarto il pendio che conduceva alla Tenda delle Donne. Si liberò del pacco, lo aprì, tirò fuori gli sci e se li allacciò ai piedi. Poi estrasse la spada di suo padre e se la fissò alla cintura, a sinistra, controbilanciando la borsa a destra. Poi si volse verso il Canyon dei Troll, dove un tempo passava la Strada Vecchia. Impugnò due bastoncini da sci. si chinò, li piantò nella neve. La sua faccia sembrava un teschio, il volto di chi gioca a dadi con la Morte. In quell'istante, oltre la Casa di Dio, dalla direzione in cui era venuto, vi fu un lieve bagliore giallo. Fafhrd si soffermò, contando i battiti del cuore, senza sapere perché. Nove, dieci, undici... vi fu un grande lampo di fiamma. Il razzo s'innalzò, segnalando l'inizio dello Spettacolo. Ventuno, ventidue, ventitré... e la coda di fiamma svanì, ed eruppero le nove stelle bianche. Fafhrd lasciò cadere i bastoncini, raccolse uno dei tre razzi che aveva rubato, ne estrasse la miccia all'estremità, tirando giusto quanto occorreva per spezzare il catrame che la bloccava, senza romperla.
Reggendo delicatamente tra i denti il sottile cilindro catramato, tolse dalla borsa il portafuoco. La pietra era appena tiepida. Slacciò il coperchio, scostò con le dita le ceneri, fino a quando vide un bagliore rosso che lo scottò. Si tolse la miccia dai denti, la mise in modo che un'estremità sporgesse oltre l'orlo del portafuoco, mentre l'altra toccava la brace. Vi fu un crepitio. Sette, otto, nove, dieci, undici, dodici... e il crepitio divenne un lampo, poi finì. Deponendo il portafuoco al suolo, Fafhrd prese i due razzi che restavano, se li mise sotto le braccia, ne piantò le estremità nella neve, provandone la resistenza. Le corde erano rigide e forti come bastoncini da sci. Tenne i razzi paralleli con una mano, e soffiò con forza sulla brace del portafuoco, l'accostò alle due micce. Mara uscì correndo dall'oscurità. «Tesoro, sono così felice che i miei parenti non ti abbiano preso!» Il bagliore del portafuoco rivelava la bellezza del suo viso. Guardandola, Fafhrd disse: «Lascio Cantuccio Freddo. Lascio la Tribù delle Nevi. Lascio anche te.» Mara disse: «Non puoi.» Fafhrd posò il portafuoco e i razzi. Mara tese le mani. Fafhrd si tolse dai polsi i bracciali d'argento e li posò sulle palme di Mara. Mara li strinse e gridò: «Non li voglio! Non voglio niente! Tu sei il padre di mio figlio. Sei mio!» Fafhrd si tolse dal collo la pesante catena d'argento, gliela posò sui polsi e disse: «Sì! Tu sei mia per sempre, e io sono tuo. Tuo figlio è mio. Non avrò mai un'altra moglie del Clan delle Nevi. Siamo sposati.» Intanto aveva ripreso i due razzi e aveva accostato le micce al portafuoco. Le micce crepitarono simultaneamente. Le posò, chiuse il coperchio del portafuoco e l'infilò nella borsa. Tre, quattro... Mor guardò oltre la spalla di Mara e disse: «Ho udito le tue parole, figlio mio. Fermati!» Fafhrd afferrò i razzi crepitanti, piantò nella neve le estremità dei bastoncini e si lanciò giù per il pendio con una grande spinta. Sei, sette... Mara urlò: «Fafhrd! Marito!» E Mor gridò: «Non è mio figlio!» Fafhrd spinse di nuovo con i razzi crepitanti. L'aria fredda gli sferzava il volto, ma la sentiva appena. L'orlo del canyon, illuminato dalla luna, era
ormai vicino. Egli sentì il suolo incurvarsi verso l'alto. Otto, nove... Strinse rabbiosamente i razzi contro i fianchi, sotto i gomiti, e volò nella tenebra. Undici, dodici... I razzi non si accesero. Il chiaro di luna mostrava la parete opposta del canyon che si precipitava verso di lui. Gli sci erano diretti verso un punto poco al di sotto dell'orlo, ma quel punto scendeva continuamente. Fafhrd inclinò i razzi verso il basso, li strinse ancora più forte. Si accesero. Fu come se egli fosse aggrappato a due polsi colossali che lo trascinavano in alto. I gomiti e i fianchi erano caldi. Nel bagliore improvviso, la parete di roccia apparve vicina, ma non più sotto di lui. Sedici, diciassette... Atterrò perfettamente sulla solida crosta di neve che copriva la Strada Vecchia e scagliò i razzi ai due lati. Vi fu un duplice scoppio di tuono, e una pioggia di stelle bianche intorno a lui. Una lo colpì, pungendogli dolorosamente la guancia, si spense. C'era tempo per un grande pensiero ilare Me ne vado in un nimbo di luce. Non c'era più tempo per grandi pensieri, mentre Fafhrd dedicava tutta la sua attenzione alla discesa lungo il ripido pendio della Strada Vecchia, ora illuminata dalla luna, ora nera come la pece là dove si incurvava, tra i picchi sulla destra, un precipizio sulla sinistra. Piegandosi, tenendo gli sci uniti e paralleli, Fafhrd sterzava molleggiandosi sui fianchi. Il volto e le mani s'intorpidirono. La realtà era la Strada Vecchia, scagliata verso di lui. I minuscoli rialzi causavano scossoni violenti. Gli orli bianchi diventavano vicinissimi. I dossi neri erano minacciosi. Ma giù, giù nel profondo del suo animo vi erano egualmente dei pensieri. Restavano anche quando egli si sforzava di impegnarsi totalmente per sciare. Idiota, avresti dovuto impugnare un paio di bastoncini insieme ai razzi. Ma come avresti potuto tenerli quando hai gettato via i razzi? Nel pacco?... E allora adesso non ti servirebbero a niente. Il portafuoco che hai nella borsa ti sarà più utile dei bastoncini. Dovevi restare con Mara. Non troverai mai più una creatura tanto amabile. Ma è Vlana che tu vuoi. Ma la vuoi davvero? Cope, con Vellix? Se non avessi il cuore così freddo e buono, avresti ucciso Vellix nella stalla, invece di affrettarti a... Davvero intendevi ucciderti? Cosa intendi fare adesso? Gli incantesimi di Mor possono batterti in velocità? I razzi erano davvero i polsi di Nalgron, protesi dall'Inferno? Che cosa c'è, là avanti? C'era un dosso da aggirare. Fafhrd spostò il peso sul fianco destro, mentre l'orlo bianco alla sua sinistra si restringeva. Il ciglio della roccia lo sor-
resse. Più oltre, sulla parete opposta del canyon che si andava restringendo, scorse una minuscola scia di fiamma. Hringorl impugnava ancora la torcia, mentre scendeva al galoppo la Strada Nuova, trainando Harrax? Fafhrd spostò di nuovo il peso sulla destra, mentre la Strada Vecchia si incurvava da quella parte, in una svolta più stretta. Il cielo roteava. Per salvarsi la vita, avrebbe dovuto deviare ancora, frenare e fermarsi. Ma la Morte era ancora della partita. Là avanti c'era l'intersezione dove si incontravano la Strada Vecchia e la Nuova. Doveva raggiungerla contemporaneamente alla slitta di Vellix e Vlana. La velocità era importante. Perché? Fafhrd non lo sapeva bene. Davanti c'erano altre curve. A stadi infinitesimali, il pendio divenne meno ripido. Cime d'alberi cariche di neve spuntarono dalle profondità spaventose, sulla sinistra, poi comparvero su entrambi i lati. Fafhrd era in una galleria nera e piatta. La sua discesa divenne silenziosa come quella di uno spettro. Le dita intirizzite si alzarono, toccarono il gonfiore della vescica sulla guancia, causata dalla stella. Entro la vescica crepitarono lievemente sottili aghi di ghiaccio. Nessun suono, tranne il fioco tintinnio dei cristalli che crescevano tutto intorno nell'aria immobile e umida. Cinque passi davanti a lui, ai piedi di un brusco pendio, c'era un arbusto sferico appesantito dalla neve. Dietro il cespuglio stava accovacciato il luogotenente di Hringorl... impossibile non riconoscere quella barba appuntita, sebbene il suo colore rosso sembrasse grigio nel chiaro di luna. Hrey teneva un arco pronto nella mano sinistra. Più oltre, dodici passi più in basso, c'era la biforcazione dove s'incontravano la Strada Nuova e la Vecchia. La galleria che proseguiva a sud, tra gli alberi, era bloccata da un paio di cespugli rotolanti, più alti di un uomo. La slitta di Vellix e di Vlana si fermò a poca distanza dal mucchio: i due cavalli grandeggiavano scuri. La luce della luna investiva le criniere argentee e gli argentei arbusti. Vlana stava rannicchiata sulla slitta, la testa nascosta dal cappuccio di pelliccia. Vellix era sceso, e stava togliendo di mezzo i cespugli rotolanti. La luce della torcia scese fulminea dalla Strada Nuova, dalla direzione di Cantuccio Freddo. Vellix interruppe il suo lavoro e sguainò la spada. Vlana girò la testa per guardare. Hringorl si avventò al galoppo nella radura con un grido ridente di trionfo, scagliò in alto la torcia, e tirò le redini, facendo arrestare il cavallo dietro la slitta. Lo sciatore che si tirava a rimorchio, Harrax, lo superò sfrecciando, salì per metà il pendio, sullo slancio. Poi Harrax si fermò e si chinò
per slacciarsi gli sci. La torcia ricadde e si spense sfrigolando. Hringorl balzò da cavallo, impugnando un'ascia da combattimento nella destra. Vellix corse verso Hringorl. Evidentemente, aveva capito che doveva sbarazzarsi del gigantesco capo pirata prima che Harrax si togliesse gli sci, altrimenti avrebbe dovuto combattere contro due avversari. Il volto di Vlana era una minuta maschera bianca nel chiaro di luna, mentre lei si sollevava a mezzo dal sedile per seguirlo con lo sguardo. Il cappuccio le ricadde sulle spalle. Fafhrd avrebbe potuto aiutare Vellix, ma non aveva ancora cominciato a slacciarsi gli sci. Con una fitta di rabbia (o era sollievo?) ricordò che aveva abbandonato l'arco e le frecce. Si disse che avrebbe dovuto aiutare Vellix. Non era arrivato fin lì, correndo rischi incalcolabili, per salvare l'Avventuriero e Vlana, o almeno per avvertirli dell'imboscata che aveva sospettato fin da quando aveva veduto Hringorl agitare la torcia sull'orlo del precipizio? E Vellix non somigliava a Nalgron, ora più che mai in quel suo momento di temerarietà? Ma il fantasma della Morte stava ancora al fianco di Fafhrd, e gli impediva di agire. Inoltre, Fafhrd sentiva che nella radura c'era un incantesimo che rendeva inutile ogni azione. Era come se un ragno gigantesco dalla pelliccia bianca avesse già intessuto una ragnatela intorno a quel luogo, isolandolo dal resto dell'universo, facendone un volume che recava la scritta "Questo spazio appartiene al Ragno Bianco della Morte". Non aveva importanza che quel ragno gigantesco intessesse cristalli di ghiaccio e non seta... il risultato era identico. Hringorl vibrò un gran fendente con l'ascia contro Vellix. L'Avventuriero lo evitò, affondò la spada nell'avambraccio di Hringorl. Con un urlo di rabbia, il capo pirata si passò l'ascia nella mano sinistra, balzò avanti e avventò un altro colpo. Colto di sorpresa, Vellix riuscì appena a schivarlo, scostandosi dalla curva d'acciaio sibilante, fulgida nella luce della luna. Eppure fu subito in guardia, agilmente, mentre Hringorl avanzava più cauto, tenendo l'ascia levata alta, un po' in avanti, pronto a sferrare corti fendenti. Vlana era in piedi sulla slitta: nella mano le balenò un'arma d'acciaio. Fece per scagliarla, poi si trattenne, incerta. Hrey si alzò dal suo cespuglio, con una freccia incoccata all'arco. Fafhrd avrebbe potuto ucciderlo, scagliando la spada come una lancia, se non in altro modo. Ma la sensazione della Morte che gli stava al fianco lo
paralizzava ancora, e la sensazione di essere nella grande trappola del Ragno Bianco del Ghiaccio, simile a un utero. E poi, che sentimenti provava veramente nei confronti di Vellix, o anche di Nalgron? La corda dell'arco cantò. Vellix si arrestò di colpo, trafitto. La freccia l'aveva centrato nel dorso, vicino alla colonna vertebrale, e gli sporgeva dal petto, sotto lo sterno. Con un colpo d'ascia, Hringorl fece schizzare la spada dalla stretta del morente mentre questi cominciava a cadere. Proruppe in un'altra delle sue grandi risate aspre. Si girò verso la slitta. Vlana urlo. Prima ancora di rendersene conto, Fafhrd aveva sguainato silenziosamente la spada dal fodero bel oleato e, usandola come un bastone da sci, si era sospinto giù dal pendio bianco. Gli sci cantavano sommessamente, stridendo contro la crosta di neve. La Morte non gli stava più al fianco. La Morte era entrata in lui. Erano i piedi della Morte, legati agli sci. Era la morte che si sentiva a suo agio nella trappola del Ragno Bianco. Hrey si voltò, esattamente al momento più opportuno perché la lama di Fafhrd gli squarciasse il collo con un affondo che recise la gola e la vena iugulare. La spada uscì quasi prima che il getto di sangue, nero nel chiaro di luna, l'avesse bagnata, e certo prima che Hrey avesse levato le grosse mani in un vano tentativo di arrestare il gran fiotto soffocante. Tutto avvenne con estrema semplicità. Erano stati i suoi sci a spingere, si disse Fafhrd, non lui. I suoi sci avevano una vita propria, la vita della Morte, e lo portavano su di un percorso carico di destino. Harrax, come se fosse una marionetta degli dèi, finì di slacciarsi gli sci e si alzò e si voltò esattamente in tempo per l'affondo di Fafhrd, sferrato dal basso in alto per coglierlo nelle viscere, come la freccia aveva ucciso Vellix, ma nella direzione opposta. La spada raschiò contro la spina dorsale di Harrax, ma uscì facilmente. Fafhrd continuò a scendere rapidissimo, quasi senza rallentare. Harrax lo seguì con lo sguardo, a occhi sbarrati. Anche la grande bocca era spalancata, ma non ne usciva alcun suono. Probabilmente l'affondo gli aveva trapassato un polmone e il cuore, o qualcuno dei grandi vasi sanguigni che ne scaturivano. E ora la spada di Fafhrd era puntata diritto verso la schiena di Hringorl. che si accingeva a salire sulla slitta, e gli sci facevano accelerare sempre di più la lama insanguinata.
Vlana fissò Fafhrd al di sopra della spalla di Hringorl, come se guardasse l'appressarsi della Morte, e urlò. Hringorl si girò di scatto e immediatamente levò l'ascia per deviare la spada di Fafhrd. La faccia larga aveva l'espressione vigile e tuttavia sonnolenta di chi ha guardato la Morte negli occhi molte volte e non si sorprende mai dell'apparizione improvvisa di Colei che uccide tutti. Fafhrd frenò e si voltò in modo da passare oltre il fondo della slitta, rallentando. La sua spada si tese verso Hringorl, senza raggiungerlo, ed evitò il colpo che quello le sferrò. Poi Fafhrd vide, a poca distanza, il corpo esanime di Vellix. Deviò ad angolo retto, frenando immediatamente, spingendo la spada nella neve fino a quando trasse scintille dalla roccia sottostante, per evitare di ruzzolare sul cadavere. Poi si girò con uno strattone, per quanto poteva farlo con gli sci ancora legati ai piedi, giusto in tempo per vedere Hringorl che gli si precipitava addosso, nel pulviscolo di neve sollevato dalla discesa, e prendeva la mira per vibrargli un gran fendente alla testa con l'ascia. Fafhrd parò il colpo con la spada. Se fosse stata tenuta ad angolo retto rispetto alla direttrice del colpo, la lama sarebbe andata in pezzi, ma Fafhrd la tenne con l'angolazione esatta, in modo che l'ascia venne deviata con uno stridore d'acciaio e schizzò via, sibilando, sopra la sua testa. Hringorl lo superò, incapace di arrestare lo slancio. Fafhrd si girò di nuovo di scatto, maledicendo gli sci che adesso gli inchiodavano i piedi al suolo. Il suo affondo venne troppo in ritardo per raggiungere Hringorl. L'uomo si girò e tornò precipitosamente indietro, pronto a sferrare un altro colpo d'ascia. Questa volta, l'unico modo in cui poteva schivarlo era lasciarsi cadere lungo disteso al suolo. Fafhrd scorse due lampi d'acciaio illuminati dalla luna. Poi si puntellò sulla spada per rialzarsi, pronto a sferrare un altro colpo a Hringorl, o per un'altra schivata, se ne avesse avuto il tempo. L'uomo aveva lasciato cadere l'ascia e si artigliava la faccia con le mani. Balzando con un goffo passo laterale sugli sci (non c'era tempo di pensare allo stile!) Fafhrd gli trapassò il cuore. Hringorl lasciò ricadere le mani, mentre il suo corpo si inclinava all'indietro. Dall'orbita destra gli spuntavano il pomolo argenteo e l'impugnatura nera d'un pugnale. Fafhrd svelse la spada. Hringorl crollò con un gran tonfo smorzato, sollevando una nube di neve, si contorse violentemente due
volte, e rimase immobile. Fafhrd levò la spada e si guardò intorno fulmineamente. Era pronto a qualunque altro attacco, chiunque l'avesse sferrato. Ma nessuno dei cinque corpi si mosse: i due ai suoi piedi, i due che giacevano sul pendio, né quello eretto di Vlana sulla slitta. Con un po' di stupore, si accorse che l'ansito da lui udito era il suo stesso respiro. L'unico altro suono era un fioco tintinnio acuto, e per il momento non gli badò. Anche i due cavalli di Vellix, attaccati alla slitta, e il grande destriero di Hringorl, fermo un poco più indietro sulla Strada Vecchia, erano inspiegabilmente silenziosi. Fafhrd si appoggiò alla slitta, posando il braccio sinistro sul telo ghiacciato che copriva i razzi e il resto. Con la destra stringeva ancora la spada, con un po' di negligenza, ora, ma sempre in guardia. Esaminò di nuovo i corpi, e terminò con quello di Vlana. Nessuno si era ancora mosso. Ognuno dei primi quattro era circondato da una chiazza di neve annerita dal sangue, enorme per Hrey, Harrax e Hringorl, piccola per Vellix, ucciso da una freccia. Fissò lo sguardo negli occhi di Vlana, orlati di bianco. Controllando il respiro, disse: «Ti sono grato di aver ucciso Hringorl. Forse. Dubito che sarei riuscito a vincerlo, se lui fosse stato in piedi e io a terra. Ma il tuo coltello era diretto a Hringorl, oppure alla mia schiena? E sono sfuggito alla morte cadendo, mentre il coltello mi superava per abbattere un altro uomo?» Vlana non rispose. Levò le mani premendosele sulle guance e sulle labbra. Al di sopra delle dita, continuò a fissare Fafhrd. Questi proseguì, con voce ancora più disinvolta: «Hai preferito Vellix a me, dopo avermi fatto una promessa. Perché allora non avresti potuto preferire Hringorl a Vellix, e a me, quando sembrava probabile che fosse lui a vincere? Perché non hai aiutato Vellix con il tuo pugnale, quando ha affrontato Hringorl con tanto coraggio? Perché hai urlato quando mi hai visto, guastandomi la possibilità di uccidere Hringorl con un affondo silenzioso?» Sottolineò ogni domanda puntando pigramente la spada verso di lei. Il respiro gli usciva agevolmente dalla bocca, ora, la stanchezza abbandonava il suo corpo, mentre una nera depressione gli invadeva la mente. Lentamente, Vlana scostò le mani dalle labbra e inghiottì due volte. Poi disse, con voce aspra ma chiara, non molto alta: «Una donna deve sempre tenersi aperte tutte le strade, lo capisci? Solo tenendosi pronta a mettersi
con qualunque uomo, e ad abbandonare uno per l'altro con il cambiare della sorte, può cominciare a controbilanciare il grande vantaggio dell'uomo. Ho preferito Vellix a te perché aveva un'esperienza più grande e perché, credilo o no, pensavo che il mio compagno non avrebbe avuto la possibilità di vivere a lungo, e volevo che tu vivessi. Non ho aiutato Vellix, perché pensavo che fossimo entrambi spacciati. La strada bloccata e la certezza che doveva esserci qualcuno in agguato mi hanno intimorita... sebbene Vellix avesse l'aria di non pensarla così, o di non curarsene. E se ho urlato quando ti ho visto, è stato perché non ti avevo riconosciuto. Ho pensato che tu fossi la Morte.» «Bene, sembra che lo fossi davvero» commentò sottovoce Fafhrd, guardando per la terza volta i cadaveri. Si slacciò gli sci. Poi, dopo aver battuto i piedi, si inginocchiò accanto a Hringorl, svelse il pugnale dall'occhio e lo asciugò sulla pelliccia del morto. Vlana proseguì: «E io temo la morte ancora più di quanto detestassi Hringorl. Sì, sarei fuggito con Hringorl, se questo significava sfuggire alla morte.» «Questa volta Hringorl era avviato nella direzione sbagliata» commentò Fafhrd, soppesando il pugnale. Era ben equilibrato, per vibrarlo e per lanciarlo. Vlana disse: «Ora naturalmente sono tua. E ne sono felice... e non importa che tu lo creda o no. Se mi vorrai. Forse pensi ancora che io abbia cercato di ucciderti.» Fafhrd si voltò verso di lei e le lanciò il pugnale. «Prendi» disse. Lei l'afferrò al volo. Il giovane rise e disse: «No, un'attrice che è stata anche ladra deve essere esperta nel lancio dei coltelli. E non credo che Hringorl sia stato colpito al cervello attraverso l'occhio per puro caso. Sei ancora decisa a vendicarti della Corporazione dei Ladri?» «Sì» rispose lei. Fafhrd disse: «Le donne sono terribili. Voglio dire, sono terribili quanto gli uomini. Oh, c'è qualcuno nel vasto mondo che abbia altro che acqua gelida nelle vene?» E rise di nuovo, più sonoramente, come sapesse che quella domanda non poteva avere risposta. Poi pulì la spada sulla pelliccia di Hringorl, la rinfoderò, e senza guardare Vlana passò davanti a lei e ai cavalli silenziosi, raggiunse i cespugli rotolanti e cominciò a spostare quelli che restavano. Il gelo li aveva uniti l'uno all'altro, ed egli fu costretto a torcerli e a tirarli per
staccarli: lottare con gli arbusti era più faticoso, per lui, di quanto gli era parso che lo fosse per Vellix. Vlana non lo guardò, neppure quando le passò davanti. Fissava il pendio segnato dalle tracce sinuose degli sci, che portavano alla nera imboccatura della Vecchia Strada. Il suo sguardo bianco non era fisso su Harrax e Hrey, e neppure sull'ingresso della galleria. Saliva più in alto. C'era un tintinnio fievole che non cessava mai. Poi vi fu uno spicinio di cristalli e Fafhrd svelse e scagliò da parte l'ultimo cespuglio rotolante, appesantito dalla neve. Abbassò lo sguardo verso la strada che conduceva a sud. Alla civiltà, qualunque cosa valesse. Anche quella strada era una galleria, tra i pini ammantati di neve. E il chiaro di luna rivelava che era piena d'una ragnatela di cristalli che parevano continuare all'infinito, fili di ghiaccio che si stendevano di fuscello in fuscello e di ramo in ramo, profondi oltre ogni profondità. Fafhrd ricordò le parole di sua madre: Vi è sempre un freddo stregato capace di seguirti dovunque, in tutto Nehwon. E la stregoneria può mandare ancora una volta il ghiaccio là dove è già stato. Ora tuo padre rimpiange amaramente... Pensò a un grande ragno bianco, che intesseva la sua tela gelida intorno a quella radura. Vide il volto di Mor, accanto a quello di Mara, sull'orlo del precipizio, dall'altra parte del grande balzo. Si domandò cosa stavano cantilenando, ora, nella Tenda delle Donne, e se anche Mara cantava con le altre. Inspiegabilmente, pensava che lei non lo facesse. Vlana esclamò, con voce soffocata. «Le donne sono davvero terribili. Guarda. Guarda. Guarda!» In quell'istante, il cavallo di Hringorl lanciò un gran nitrito. Poi vi fu lo scalpitare degli zoccoli, mentre fuggiva su per la Strada Vecchia. Dopo un istante, i cavalli di Vellix nitrirono atterriti e si impennarono. Fafhrd colpì il collo del cavallo più vicino con l'esterno del braccio. Poi guardò la minuta maschera bianca di Vlana, e seguì lo sguardo dei grandi occhi. Dal pendio che conduceva alla Strada Vecchia stavano crescendo forme tenui, una mezza dozzina, alte come alberi. Sembravano donne incappucciate. Diventarono via via sempre più solide, mentre Fafhrd le guardava. Si accovacciò, atterrito. Quel movimento bloccò la borsa tra il suo ven-
tre e la coscia. Fafhrd avvertì un lieve tepore. Balzò in piedi e tornò indietro, sfrecciando. Strappò via il telo dalla parte posteriore della slitta. Afferrò uno ad uno gli otto razzi rimasti e li piantò nella neve, con le punte rivolte verso le immense figure di ghiaccio. Poi frugò nella borsa, estrasse il portafuoco, tolse il coperchio, scosse via le ceneri grigie, scosse le ceneri rosse da una parte, e vi accostò rapidamente le micce dei razzi. Mentre il crepitio multiplo gli risuonava nelle orecchie, balzò sulla slitta. Vlana non si mosse quando egli la sfiorò. Ma tintinnava. Sembrava avvolta in una cappa traslucida di cristalli di ghiaccio che la tenevano ritta, inchiodata. Il chiaro di luna si rifletteva splendente sui cristalli: Fafhrd sentì che si sarebbe mosso soltanto con il muoversi della luna. Afferrò le redini. Gli punsero le dita come ferro ghiacciato. Non riusciva a smuoverle. La ragnatela di ghiaccio, intanto, era cresciuta intorno ai cavalli. Ormai ne facevano parte... grandi statue equine racchiuse in un cristallo più grande. Uno stava sulle quattro zampe, l'altro impennato su quelle posteriori. Le pareti dell'utero di ghiaccio si stavano chiudendo. Vi è un freddo stregato capace di seguirti... Il primo razzo ruggì, poi il secondo. Fafhrd ne sentì il calore. Udì il possente tintinnio quando colpirono i bersagli piazzati sul pendio. Le redini si mossero, batterono sul dorso dei cavalli. Vi fu un intenso spicinio, come di vetro infranto, quando le due bestie si lanciarono in avanti. Fafhrd chinò la testa e, stringendo le redini nella mano sinistra, alzò di scatto la destra e trascinò Vlana sul sedile. La cappa di ghiaccio tintinnò pazzamente, e scomparve. Quattro, cinque... Vi fu uno spicinio incessante, mentre i cavalli e la slitta si avventavano attraverso la ragnatela di ghiaccio. I cristalli piovvero sulla sua testa abbassata, ne schizzarono via. Il tintinnio divenne più fievole. Sette, otto... Tutti i legami gelidi caddero. Gli zoccoli battevano la neve con tonfi sordi. Si levò all'improvviso un grande vento dal nord, ponendo fine alla calma durata molti giorni. Più avanti, il cielo si colorava del rosa lieve dell'alba. Dietro, era vagamente arrossato dalle fiamme degli aghi di pino incendiati dai razzi. A Fafhrd parve che il vento del nord portasse fino a lui il rombo delle fiamme. Gridò: «Gnamph Nar, Mlurg Nar, la grande Kvarch Nar... le vedremo tutte! Tutte le città della Terra delle Foreste! Tutta la Terra delle Otto Città!» Accanto a lui, Vlana si mosse, calda sotto il braccio che la cingeva e fe-
ce eco al suo grido: «Sarheenmar, Ilthmar, Lankhmar! Tutte le città del sud! Quarmall! Horborixen! Tisilinilit dalle guglie sottili! La Terra Sorgente!» A Fafhrd parve che i miraggi di tutte quelle città, di tutti quei luoghi sconosciuti, riempissero l'orizzonte che si andava rischiarando. «Viaggi, amore, avventure, il mondo!» gridò, stringendo a sé Vlana con il braccio destro, mentre la mano sinistra sferzava con le redini il dorso dei cavalli. Ed egli si chiese perché, sebbene la sua immaginazione fosse in fiamme come il canyon che si era lasciato alle spalle, il suo cuore era ancora tanto freddo. L'EMPIO GRAAL Tre cose avvertirono l'apprendista stregone che qualcosa non andava: innanzitutto, le profonde impronte di zoccoli ferrati lungo il sentiero nella foresta... le sentì attraverso le suole degli stivali prima ancora di chinarsi a tastarle nell'oscurità; poi, il bizzarro ronzio di un'ape, innaturalmente in giro di notte; e infine, l'odore lievemente aromatico di qualcosa che bruciava. Mouse colse avanti, schivando i tronchi d'albero e scavalcando le radici contorte, a memoria, con la sensibilità di un pipistrello che capta il riverbero dei suoni più lievi. I gambali, la tunica, il cappuccio a punta e il manto ondeggianti, tutti grigi, facevano sembrare un'ombra precipitosa quel giovane esile, reso scarno dall'ascetismo. L'esaltazione che Mouse aveva provato quando aveva completato con successo la sua lunga ricerca e aveva intrapreso il viaggio per tornare al suo maestro stregone, Glavas Rho, svanì dalla sua mente cedendo il posto ad una paura cui quasi non osava dare la forma di pensieri. Una minaccia per il grande stregone, di cui egli era l'umile apprendista? «Il mio Gray Mouse, ancora indeciso tra la devozione alla magia bianca e quella nera» aveva detto una volta Glavas Rho... no, era impensabile che quel grande maestro di saggezza e di potenza spirituale potesse venire minacciato da un pericolo. Il grande mago... (c'era un po' d'isterismo nel modo in cui Mouse insisteva su quel "grande", perché agli occhi del mondo Glavas Rho altro non era che un mago mediocre, non migliore di un negromante Mingol con il suo cane maculato dotato di seconda vista o di un mendicante quarmalliano evocatore li spiriti)... il grande mago e la sua dimora erano egualmente protetti da potenti incantesimi che nessun empio poteva violare, neppure (e il cuore di Mouse saltò un battito) il supremo signore di
quelle foreste, il duca Janarrl, che odiava tutta la magia, ma quella bianca più ancora di quella nera. Eppure l'odore di bruciato era diventato ancora più forte e la casetta di Glavas Rho era fatta di legno resinoso. Dalla mente di Mouse svanì anche la visione d'un viso di fanciulla, eternamente impaurito e tuttavia dolcissimo... il viso di Ivrian, la figlia del duca Janarrl, che veniva in segreto a studiare con Glavas Rho, e figurativamente sorseggiava il latte della sua scienza bianca a fianco di Mouse. Anzi, avevano preso l'abitudine di chiamarsi Mouse e Misling in privato, e sotto la tunica Mouse portava un semplice guanto verde che aveva convinto Ivrian a dargli quando era partito per la sua cerca, come se fosse stato il suo cavaliere in armi e corazza e non uno stregoncello senza spada. Quando Mouse arrivò sulla radura alla sommità della collina respirava a fatica, ma non per lo sforzo. La luce che si faceva più viva gli mostrò, ad una sola occhiata, l'orto delle erbe magiche devastato dagli zoccoli, l'arnia di paglia rovesciata, la grande chiazza di fuliggine che deturpava la superficie liscia dell'enorme macigno di granito che riparava la minuscola dimora dello stregone. Ma anche senza l'aiuto della luce dell'alba, avrebbe visto le travi carbonizzate e i pali erosi dal fuoco formicolanti di braci rosse e la spettrale fiamma verde di qualche ostinato unguento magico che bruciava ancora. Avrebbe fiutato la confusione degli aromi preziosi di droghe e balsami bruciati, e l'odore orrendamente appetitoso della carne bruciata. Rabbrividì in tutto il corpo magro. Poi, come un segugio che segue l'usta, si lanciò avanti. Lo stregone giaceva appena all'interno della porta deformata. E aveva subito la stessa sorte della sua casa: le travi del suo corpo erano messe allo scoperto e annerite; gli umori preziosi e le sostanze sottili erano volatilizzati, bruciati, distrutti per sempre, o ascesi verso qualche freddo inferno al di là della luna. Tutto intorno si levava, fievole, un ronzio sommesso e triste, il lamento delle api rimaste senza casa. I ricordi turbinarono inorriditi nella mente di Mouse: quelle labbra carbonizzate che cantilenavano incantesimi, quelle dita arse che indicavano le stelle o accarezzavano qualche animaletto del bosco. Tremando, Mouse trasse dalla borsa di cuoio che portava alla cintura una piatta pietra verde: su di una faccia erano incisi profondamente geroglifici alieni, sull'altra un mostro corazzato, dalle molte giunture snodate,
come una formica gigantesca, che avanzava tra minuscole figure umane in fuga. La pietra era stata lo scopo della Cerca in cui l'aveva mandato Glavas Rho. Per quella pietra, Mouse aveva attraversato con una zattera i laghi di Pleea, aveva vagato ai piedi dei Monti della Fame, si era nascosto a una spedizione di pirati dalla barba rossa, aveva imbrogliato tozzi pescatoricontadini, aveva adulato e corteggiato un'anziana strega puzzolente, aveva derubato un santuario tribale ed era sfuggito ai segugi lanciati sulla sua pista. L'aver conquistato la pietra verde senza spargimenti di sangue dimostrava che egli era avanzato di un altro grado nell'apprendistato. Adesso guardò intontito l'antica superficie della pietra e poi, dominando i tremiti, la posò con cura sul palmo annerito del suo maestro. Nel chinarsi si accorse che le piante dei piedi gli scottavano dolorosamente, gli stivali fumigavano un po' agli orli: tuttavia non affrettò il passo nell'allontanarsi. Ormai era più chiaro e Mouse notò molti piccoli particolari, come il formicaio accanto alla soglia. Il maestro aveva studiato quegli esseri dalle corazze nere con la stessa attenzione che aveva dedicato alle loro cugine, le api. Ora il formicaio era profondamente ammaccato da un gran segno di tacco, e mostrava un semicerchio di buchi lasciati dagli spuntoni... eppure qualcosa si muoveva. Mouse osservò attentamente e vide una minuscola formica guerriera, storpiata dal calore, che si trascinava sui granelli di sabbia. Ricordò il mostro raffigurato sulla pietra verde, e scrollò le spalle a un pensiero che non conduceva da nessuna parte. Attraversò la radura, passando tra le api dolenti, si diresse verso il punto in cui la luce pallida filtrava tra i tronchi degli alberi, e poco dopo si fermò, con la mano posata su un tronco nodoso, là dove il fianco della collina incominciava a scendere bruscamente. Nella sottostante valle boscosa c'era un serpente di nebbia lattea: indicava il corso del fiumicello tortuoso che la percorreva. L'aria era appesantita dal fumo della tenebra, che si stava disperdendo. L'orizzonte, a destra, era orlato dal rosseggiare del sole nascente. Più oltre. Mouse lo sapeva, si stendevano altre foreste, e poi gli interminabili campi di grano e le paludi di Lankhmar, e ancora più oltre l'antico centro mondiale della città di Lankhmar. che Mouse non aveva mai veduta, ma il cui sovrano regnava in teoria fin lì. Ma più vicino, alonato dal rosso dell'aurora, c'era un gruppo di torri merlate... la roccaforte del duca Janarrl. Sulla faccia impenetrabile di Mouse comparve una guardinga animazione. Pensò al segno del tacco, all'erba devastata, alla traccia lasciata dagli zoccoli, che scendeva per quel pendio. Tutto indicava che Janarrl, l'odiatore della magia, era l'autore di quelle a-
trocità; e tuttavia, poiché ancora considerava impareggiabile l'abilità del suo maestro, Mouse non capiva come il duca avesse potuto superare gli incantesimi, abbastanza forti da dare le vertigini al più astuto boscaiolo, che avevano protetto per molti anni la dimora di Glavas Rho. Chinò la testa... e vide, posato sull'erba elastica, un semplice guanto verde. Lo raccolse di scatto, si frugò nella tunica e ne trasse un altro, chiazzato di scuro e sbiadito irregolarmente dal sudore: li accostò. Erano eguali. Aggricciò le labbra, scoprendo i denti, e il suo sguardo tornò alla roccaforte lontana. Poi spostò un robusto pezzo rotondo di corteccia sul tronco dell'albero che stava toccando e infilò il braccio fino alla spalla nella cavità nera che aveva messo allo scoperto. E mentre compiva questi atti con un automatismo lento e teso, ricordò una lezione che Glavas Rho gli aveva tenuto sorridendo davanti ad un piatto di sbobba senza latte. «Mouse» aveva detto il mago, mentre la luce del fuoco danzava sulla sua corta barba bianca, «quando guardi così, ad occhi sbarrati, e agiti le nari, somigli troppo a un gatto perché io possa ritenere possibile che tu diventi mai un cane da pastore della verità. Sei uno studioso abbastanza diligente, ma in segreto tu preferisci le spade alle bacchette magiche. Le labbra roventi della magia nera ti tentano più delle caste dita esili della magia bianca, anche se queste appartengono a una fanciulla graziosa... no, non negarlo! Ti attraggono più le avvincenti sinuosità del sentiero della mano sinistra che la via diritta ed erta della mano destra. Temo che finirai per diventare non un topo, ma un cacciatore di topi. E non sarai mai bianco, ma grigio... oh, beh, sempre meglio che nero. Adesso, lava le ciotole e vai a respirare per un'ora sulla pianta antifebbre appena nata, perché è una notte fredda, e ricordati di parlare dolcemente al cespuglio spinoso.» Il ricordo di quelle parole si affievolì ma non svanì del tutto, mentre Mouse estraeva dalla cavità una cintura di cuoio coperta da una peluria verde di muffa, da cui pendeva un fodero pure ammuffito. Da questo sguainò, afferrandola per l'impugnatura rivestita da cingoli di cuoio, un'affusolata spada di bronzo che sembrava fatta più di verderame che di metallo. Spalancò gli occhi, ma le pupille si restrinsero: il suo viso divenne ancora più impenetrabile, mentre levava la lama verdepallida dal filo bruno contro la protuberanza rossa del sole levante. Dall'altra parte della valle giunse, fioca, la nota alta e chiara e squillante di un corno da caccia, che chiamava gli uomini all'inseguimento. All'improvviso, Mouse si avviò giù per il pendio, avvicinandosi alla traccia lasciata dagli zoccoli: si muoveva con lunghi passi frettolosi, a
gambe un po' rigide, come se fosse ebbro, e intanto si affibbiava alla vita la cintura ammuffita che reggeva la spada. Una forma scura, a quattro zampe, attraversò precipitosamente la radura chiazzata di sole, abbattendo gli arbusti con il petto ampio e calpestandoli con i sottili zoccoli forcuti. Più indietro risuonarono le note di un corno e le grida aspre degli uomini. All'estremità opposta della radura, il cinghiale si voltò. Il fiato gli usciva sibilando dalle froge: barcollava. Poi gli occhietti semivitrei fissarono la figura di un uomo a cavallo. Sì girò verso di lui, e per uno scherzo della luce il suo manto sembrò diventare più nero. Poi si avventò alla carica. Ma prima che le terribili zanne rivolte verso l'alto trovassero carni da straziare, una lancia dalla punta pesante si piegò come un arco contro la sua spalla, e l'animale si rovesciò all'indietro, mentre il suo sangue spruzzava la vegetazione. Nella radura apparvero cacciatori vestiti di marrone e di verde: alcuni circondarono il cinghiale caduto con una muraglia di punte di lancia, altri accorsero intorno all'uomo a cavallo. Egli indossava ricchi abiti gialli e marroni. Rise, gettò a uno dei suoi cacciatori la lancia insanguinata e prese una borraccia di vino, di cuoio intarsiato d'argento, che un altro gli porgeva. Nella radura comparve un secondo cavaliere, e gli occhietti gialli del duca si rannuvolarono sotto le sopracciglia irsute. Bevve profondamente e si asciugò le labbra con la manica. I cacciatori stavano chiudendo cautamente la muraglia di lance intorno al cinghiale, che giaceva rigido ma con la testa sollevata di un dito dal suolo; gli unici movimenti erano lo sfrecciare dello sguardo da una parte all'altra e lo sgorgare del sangue vivido dalla spalla. La muraglia di lance stava per chiudersi quando Janarrl accennò ai cacciatori di fermarsi. «Ivrian!» chiamò aspramente. «Hai avuto due volte l'occasione di abbattere la bestia, ma non l'hai fatto. La tua maledetta madre lo avrebbe già fatto a pezzi e ne avrebbe assaggiato il cuore crudo.» Sua figlia lo guardò disperata. Era vestita come un cacciatore e cavalcava con la spada al fianco e una lancia in pugno: ma tutto questo la faceva sembrare ancora di più la fanciulla dal viso esile e dalle braccia sottili che era in realtà. «Sei una vigliacca innamorata degli stregoni» continuò Janarrl. «La tua abominevole madre avrebbe affrontato il cinghiale a piedi e avrebbe riso, quando il sangue le fosse schizzato in faccia. Ecco qui: questo cinghiale è
bloccato. Non può farti del male. Piantagli la lancia in corpo, subito! Te lo comando!» I cacciatori schiusero la muraglia di lance e si ritrassero ai lati, lasciando un varco tra il cinghiale e la fanciulla. Risero apertamente di lei, e il duca li guardò con un sorriso d'approvazione. La fanciulla esitò, mordendosi il labbro inferiore, fissando impaurita e affascinata la bestia che la guardava tenendo la testa appena sollevata. «Piantagli la lancia in corpo!» ribatté Janarrl, bevendo avidamente dalla borraccia. «Sbrigati, o ti frusterò, qui, subito!» Allora la fanciulla colpì con i talloni i fianchi del cavallo e scese per la radura al galoppo, china sulla sella, con la lancia puntata. Ma all'ultimo momento la punta deviò e colpì la terra. Il cinghiale non si era mosso. I cacciatori risero, raucamente. La faccia larga di Janarrl avvampò per la collera: all'improvviso afferrò di scatto il polso della figlia, lo strinse. «La tua maledetta madre era capace di tagliare la gola agli uomini senza cambiare colore. Ti vedrò piantare la lancia in quella carcassa, oppure ti farò ballare, qui, subito, come ho fatto la scorsa notte, quando mi hai rivelato gli incantesimi dello stregone e il luogo in cui aveva la sua tana.» Si sporse verso di lei, e abbassò la voce. «Sappi che da molto tempo sospetto che tua madre, sebbene sapesse essere feroce, fosse, forse perché affatturata contro la sua volontà, amante degli stregoni quanto te... e che tu sia la figlia di quell'incantatore che ho bruciato.» La fanciulla spalancò gli occhi, e cercò di svincolarsi, ma il duca la tirò più vicina. «Non aver paura, piccola, ci penserò io in un modo o nell'altro a cancellare questa macchia. Tanto per cominciare, trafiggimi questo cinghiale!» Lei non si mosse. Il suo volto era una maschera di paura, pallida come la panna. Il duca alzò la mano. Ma in quel momento vi fu un'interruzione. Una figura comparve sul limitare della radura, nel punto in cui il cinghiale s'era girato per avventarsi nella sua ultima carica. Era un giovane sottile, tutto vestito di grigio. Come se fosse drogato o in trance, si diresse verso Janarrl. I tre cacciatori che stavano intorno al duca sguainarono le spade e avanzarono senza fretta verso di lui. La faccia del giovane era sbiancata e tesa, la fronte imperlata di sudore sotto il cappuccio grigio, per metà ributtato indietro. I muscoli della mascella spiccavano come protuberanze d'avorio. Gli occhi, fissi sul duca, erano socchiusi come se guardassero il sole abbagliante.
Le labbra si schiusero, mostrando i denti. «Assassino di Glavas Rho! Uccisore di stregoni!» Poi la spada di bronzo uscì dal fodero ammuffito. Due dei cacciatori avanzarono verso di lui. Uno di essi gridò «Attenti al veleno!» quando vide il verde della lama. Il giovane gli sferrò un colpo tremendo, maneggiando la spada come se fosse un maglio. Il cacciatore lo parò con facilità, così che la lama gli sibilò sopra la testa, e il giovane per poco non cadde, per la forza del suo stesso colpo. Il cacciatore avanzò e con un colpo brusco urtò la spada del giovane vicino all'elsa per disarmarlo, è lo scontro finì prima ancora di cominciare... quasi. L'espressione vitrea sparì dagli occhi del giovane, i suoi lineamenti fremettero come quelli di un gatto; rinsaldando la presa sulla spada, si avventò in avanti, con un movimento rapido del polso che impegnò la lama del cacciatore e la fece schizzare dalla mano dello sbalordito proprietario. Poi egli continuò la carica puntando al cuore del secondo cacciatore, che si salvò solo crollando riverso sulle zolle erbose. Janarrl si protese in avanti sulla sella, borbottando «Il cucciolo ha zanne» ma in quel momento il terzo cacciatore, che aveva fatto un ampio giro, colpì il giovane alla nuca con il pomo della spada. Il giovane lasciò cadere l'arma, barcollò sul punto di cadere, ma il primo cacciatore lo afferrò per il colletto della tunica e lo scaraventò verso i suoi compagni. Questi lo ricevettero allegramente con pugni e schiaffi, punzecchiandogli la testa e le costole con i pugnali inguainati, e alla fine lo lasciarono cadere al suolo, prendendolo a calci e assediandolo come una muta di segugi. Janarrl restò immobile in sella, a osservare la figlia. Non gli era sfuggito il sussulto spaventato quando era comparso il giovane. Ora la vide piegarsi in avanti, con le labbra tremule. Per due volte, il duca fece per parlare. Il cavallo di Ivrian si mosse a disagio e nitrì. Finalmente, lei chinò la testa e si rannicchiò, mentre dalla gola le uscivano singhiozzi strazianti. Allora Janarrl lanciò un grugnito soddisfatto e ordinò: «Basta per ora! Portatelo qui!» Due cacciatori trascinarono avanti il giovane semisvenuto, i cui abiti grigi, ora, erano chiazzati di rosso. «Vigliacco» disse il duca. «Questo spasso non ti ucciderà. Ti stavo solo addolcendo, in preparazione di altri spassi. Ma dimenticavo che sei uno stregoncello, un essere effemminato che balbetta incantesimi nell'oscurità, e maledizioni dietro le spalle, un vile che vezzeggia gli animali e vorrebbe fare delle foreste luoghi sdolcinati. Puah! Mi si allegano i denti. Eppure tu
hai cercato di corrompere mia figlia e... Ascoltami, ti ho detto, stregoncello!» Si sporse dalla sella e afferrò per i capelli la testa vacillante del giovane. Gli occhi di questi rotearono pazzamente: egli si scosse convulsamente, uno scrollone che colse i cacciatori di sorpresa e per poco non sbalzò Janarrl di sella. Proprio in quell'istante si udì uno scricchiolio minaccioso di arbusti e un tonfo rapido di zoccoli. Qualcuno gridò: «Attento, padrone! O Dei, proteggete il Duca!» Il cinghiale ferito si era rialzato in piedi e s'era lanciato alla carica contro il gruppo che stava accanto al cavallo di Janarrl. I cacciatori si dispersero, arretrando, affrettandosi ad impugnare le armi. Il cavallo di Janarrl scartò, sbilanciando ancor più il cavaliere. Il cinghiale passò oltre, tonando, come una mezzanotte chiazzata di rosso. Janarrl gli cadde quasi addosso. Il cinghiale tornò bruscamente indietro per caricare di nuovo, sfuggendo a tre lance scagliate contro di lui, che si piantarono nella terra a poca distanza dai suoi fianchi. Janarrl tentò di alzarsi, ma uno dei piedi gli era rimasto impigliato nella staffa e il cavallo, liberandosi con uno scatto, lo fece cadere di nuovo. Il cinghiale continuò la carica, ma ora c'era il tonfo di altri zoccoli. Un altro cavallo sfrecciò a fianco di Janarrl e una lancia impugnata saldamente penetrò nella spalla del cinghiale e si piantò in profondità. La bestia nera, scagliata all'indietro, cercò di colpire la lancia con la zanna, poi cadde pesantemente sul fianco e rimase immobile. Allora Ivrian lasciò andare la lancia, lasciò ricadere penzoloni il braccio con cui l'aveva tenuta. Si afflosciò sulla sella, afferrandosi al pomolo con l'altra mano. Janarrl si rimise in piedi, guardò sua figlia e il cinghiale. Poi rivolse lentamente lo sguardo tutto intorno alla radura, in un cerchio completo. L'apprendista di Glavas era scomparso. «Il nord sia sud, sia ovest l'est. Il bosco sia radura ed il fossato cresta. La vertigine ogni via investa. Provveda al resto la foresta.» Mouse mormorava la cantilena tra le labbra gonfie come se stesse parlando nel terreno su cui giaceva. Mentre le dita si disponevano in segni cabalistici, prese un pizzico di polvere verde da una piccola borsa e lo gettò nell'aria con uno scatto del polso che lo fece rabbrividire per il dolore. «Segugio che segui l'usta, sei nato di lupo, odii il corno e la frusta. Cavallo, pensa all'unicorno, mai catturato sin dal primo giorno. Statti da me lontano
e indietro torna, in nome della Noma!» Dopo aver completato l'incantesimo, Mouse rimase immobile, ed i dolori che gli straziavano le carni e le ossa ammaccate divennero più sopportabili. Ascoltò i rumori dell'inseguimento disperdersi in lontananza. Il suo volto era vicino a un ciuffo d'erba. Vide una formica scalare laboriosamente una foglia, cadere al suolo e poi riprendere la salita. Per un momento, egli sentì quasi un vincolo di affinità tra sé e il minuscolo insetto. Ricordò il cinghiale nero, la cui carica inaspettata gli aveva offerto la possibilità di fuggire, e per un momento assurdo la sua mente si collegò con quella della formica. Pensò vagamente ai pirati che, a occidente, avevano messo in pericolo la sua vita. Ma la loro allegra spietatezza era stata diversa dalla brutalità premeditata e pregustata dei cacciatori di Janarrl. Poco a poco, la collera e l'odio cominciarono a turbinare in lui. Vide gli dèi di Glavas Rho, i loro volti un tempo sereni sbiancati e contratti. Udì le parole dei vecchi incantesimi, ma ora vibravano di un nuovo significato. Poi quelle visioni svanirono, ed egli vide solo un vortice di facce ghignanti e di mani crudeli. E nel vortice, il viso bianco e pentito di una ragazza. Spade, bastoni, fruste. Tutto turbinava. E al centro, come il mozzo di una ruota che schianta gli uomini, la figura tozza e forte del duca. Che cos'erano gli insegnamenti di Glavas Rho, in confronto a quella ruota? Lo aveva travolto e schiacciato. Che cos'era la magia bianca per Janarrl e i suoi scherani? Solo una pergamena preziosa da sporcare. Gemme magiche da calpestare nella sozzura. Pensieri di profonda saggezza da ridurre in poltiglia insieme al cervello che li racchiudeva. Ma c'era l'altra magia. La magia che Glavas Rho aveva proibito, talvolta sorridendo, ma sempre con una fondamentale serietà. La magia di cui Mouse aveva appreso l'esistenza solo attraverso allusioni e ammonimenti. La magia che nasceva dalla morte e dall'odio e dalla sofferenza e dalla putredine, che dispensava veleni e urla nella notte, che discendeva a rivoli dagli spazi neri tra le stelle che, come aveva detto lo stesso Janarrl, malediceva nelle tenebre e colpiva alle spalle. Fu come se tutta la scienza delle piccole creature e delle stelle e degli incantesimi benefici e del galateo della Natura, bruciasse in un rapido, improvviso olocausto. E le nere ceneri presero vita e cominciarono a muoversi, e da esse uscì strisciando una schiera di figure notturne, simili a quelle che erano state arse, eppure tutte alterate. Forme che strisciavano, guizzavano, correvano furtive. Senza cuore, tutte odio e terrore, ma affascinanti
da guardare come ragni neri che si dondolassero nelle ragnatele geometriche. Suonare un corno da caccia per quella muta! Scatenarla sulla pista di Janarrl! Nel profondo del suo cervello, una voce maligna cominciò a bisbigliare: «Il duca deve morire. Il duca deve morire.» E Mouse seppe che avrebbe sempre sentito quella voce, fino a quando quel comando non fosse stato tradotto in realtà. Si sollevò, laboriosamente, e sentì una fitta che annunciava fratture alle costole; si chiese come fosse riuscito a fuggire fin lì. Digrignando i denti, attraversò incespicando una radura. Quando raggiunse di nuovo la protezione degli alberi, la sofferenza l'aveva costretto ormai a procedere sulle mani e sulle ginocchia. Si trascinò avanti ancora un poco, e poi crollò. Verso sera, il terzo giorno dopo la caccia, Ivrian uscì furtivamente dalla sua stanza nella torre, ordinò al paggio sogghignante di portarle il cavallo, e attraversò la valle, passò il ruscello, salì la collina di fronte, fino a raggiungere la casa di Glavas Rho, al riparo della roccia. La devastazione che vide aggiunse una sofferenza nuova sul suo viso pallido e teso. Smontò, si avvicinò alle macerie sventrate dal fuoco, tremando per il terrore di imbattersi nel corpo di Glavas Rho. Ma non c'era. Ivrian vide che le ceneri erano state mosse, come se qualcuno avesse frugato alla ricerca degli oggetti sfuggiti alle fiamme. C'era un gran silenzio. Una irregolarità del suolo, verso il limitare della radura, attirò il suo sguardo: si avviò in quella direzione. Era una tomba nuova, e al posto della lapide stava, circondata da ciottoli grigi, una piccola pietra piatta e verdastra, con la superficie coperta da strane incisioni. Un lieve suono improvviso, proveniente dalla foresta, la fece tremare; si accorse di avere una gran paura. Solo, fino a quel momento, l'infelicità era stata più forte del terrore. Alzò gli occhi e lanciò un gemito, perché una faccia la stava guardando attraverso un varco nelle fronde. Era una faccia stralunata, sporca di terra e d'erba, macchiata qua e là da grumi di sangue secco, ombrata dalla barba ispida. Poi Ivrian la riconobbe. «Mouse» chiamò, esitante. Faticò a riconoscere la voce che le rispose. «Dunque sei tornata a rallegrarti della devastazione causata dal tuo tradimento.» «No, Mouse, no!» gridò lei. «Non è questo che volevo. Devi credermi.»
«Bugiarda! Sono stati gli uomini di tuo padre che hanno ucciso Glavas Rho e hanno bruciato la sua casa.» «Ma non avevo mai pensato che l'avrebbero fatto!» «Non avevi mai pensato che l'avrebbero fatto... come se fosse una giustificazione. Hai tanta paura di tuo padre che saresti disposta a dirgli qualunque cosa. Tu vivi di paura.» «Non sempre, Mouse. Ho pure ucciso il cinghiale.» «Tanto peggio... hai ucciso la bestia che gli dèi avevano inviato perché uccidesse tuo padre.» «Ma in verità non sono stata io a uccidere il cinghiale. Mi vantavo a torto, quando l'ho detto... pensavo che mi preferissi coraggiosa. Non ricordo di averlo ucciso. La mia mente si era ottenebrata. Credo che mia madre morta fosse entrata in me e guidasse la lancia.» «Tu menti e cambi ancora le menzogne! Ma correggerò il mio giudizio: tu vivi di paura, tranne quando tuo padre ti costringe ad avere coraggio. Avrei dovuto rendermene conto e mettere in guardia Glavas Rho contro di te. Ma faceva dei sogni su di te.» «Mi chiamavi Misling» disse Ivrian, con un filo di voce. «Sì, giocavamo a fare i topolini, dimenticando l'esistenza dei gatti. E poi, durante la mia assenza, ti sei lasciata spaventare da qualche frustata e hai tradito Glavas Rho, consegnandolo a tuo padre!» «Mouse, non condannarmi.» Ivrian aveva cominciato a singhiozzare. «So che la mia vita non è mai stata altro che paura. Fin da quando ero piccina, mio padre ha tentato di costringermi a credere che la crudeltà e l'odio siano le leggi dell'esistenza. Mi ha torturata e tormentata. Non potevo confidarmi con nessuno, fino a quando ho incontrato Glavas Rho e ho appreso che l'universo ha leggi di comprensione e d'amore che cambiano persino la morte e l'odio. Ma ora Glavas Rho è morto, e io sono più impaurita e sola che mai. Ho bisogno del tuo aiuto, Mouse. Tu hai studiato con Glavas Rho. Tu conosci i suoi insegnamenti. Vieni, aiutami.» Mouse rispose con una risata beffarda. «Per farmi tradire? Per venire ancora percosso mentre tu stai a guardare? Per ascoltare la tua dolce voce menzognera, mentre i cacciatori di tuo padre si avvicinano furtivamente? No, io ho altri progetti.» «Progetti?» chiese Ivrian, in tono d'apprensione. «Mouse, la tua vita è in pericolo, se continui a nasconderti qui. Gli uomini di mio padre hanno l'ordine di ucciderti a vista. Io morirei, ti dico, se ti prendessero. Non indugiare, vattene. Ma prima dimmi che non mi odii.» E avanzò verso di lui.
Ancora una volta, Mouse le rispose con una risata beffarda. «Non sei degna del mio odio» disse in tono pungente. «Provo soltanto disprezzo per la tua viltà e la tua debolezza. Glavas Rho parlava molto d'amore. Vi sono leggi d'odio nell'universo, che cambiano anche l'amore, ed è tempo che le faccia agire per me. Non ti avvicinare! Non intendo rivelarti i miei piani, né i miei nuovi nascondigli. Ma ti dirò qualcosa, e tu ascolta attentamente. Tra sette giorni comincerà il tormento di tuo padre.» «Il tormento di mio padre? Mouse, Mouse, ascoltami. Voglio interrogarti su qualcosa di ben più importante degli insegnamenti di Glavas Rho. Voglio chiederti di lui. Mio padre mi ha fatto capire che Glavas Rho conosceva mia madre, e che forse era lui il mio vero padre.» Questa volta vi fu una pausa, prima della risata beffarda; ma quando venne, fu due volte più forte. «Bene, bene, bene! Mi fa piacere apprendere che il Vecchio Barbabianca si era goduto un po' la vita prima di diventare così saggio, saggio, saggio. Mi auguro sinceramente che si sia portato a letto tua madre. Questo spiegherebbe la sua nobiltà. Dove c'era tanto amore, amore per tutti gli esseri mai nati, prima dovevano esserci state lussuria e colpa. Da quell'incontro, e da tutta la malvagità di tua madre, è fiorita la sua magia bianca. È vero! La colpa e la magia bianca, fianco a fianco... e gli dèi non hanno mai mentito! Quindi tu sei la figlia di Glavas Rho, e hai tradito il tuo vero padre, consegnandolo a una morte fuligginosa.» Poi la sua faccia scomparve, e le fronde incorniciarono solo un varco buio. Ivrian si addentrò barcollando nella foresta, chiamando «Mouse! Mouse!» e cercando di seguire la risata che si allontanava. Ma la risata si spense, ed ella si trovò in una depressione buia, e cominciò a comprendere quant'era stata malvagia la risata dell'apprendista, come se egli avesse riso della morte dell'amore, o forse della sua mancata nascita. Poi il panico l'invase, e tornò indietro, correndo nel sottobosco, mentre i rovi le afferravano le vesti e i ramoscelli le pungevano le guance, fino a che raggiunse di nuovo la radura e salì a cavallo e galoppò nel crepuscolo, assediata dalle mille paure e con il cuore stretto al pensiero che ormai in tutto il mondo non vi era più nessuno che non l'odiasse e la disprezzasse. Quando arrivò alla rocca, le parve che si accovacciasse sopra di lei come un orrido mostro crestato, e quando varcò la grande porta, le sembrò che quel mostro l'avesse inghiottita per sempre. All'imbrunire del settimo giorno, mentre veniva servita la cena nella grande sala dei banchetti, tra conversazioni sonore e scricchiolii di giunchi
e tintinnii di piatti d'argento, Janarrl soffocò un grido di dolore e si portò la mano al cuore. «Non è nulla» disse un attimo dopo al luogotenente dal volto magro che gli sedeva accanto. «Dammi una coppa di vino! Basterà a far cessare le fitte.» Ma rimase pallido e turbato, e mangiò ben poco della carne che veniva servita in grandi fette fumanti. I suoi occhi continuarono a vagare intorno alla tavola, e alla fine si posarono su sua figlia. «Finiscila di fissarmi con quell'aria tetra, ragazza!» intimò. «Si direbbe che hai avvelenato il mio vino, e adesso aspetti di vedermi spuntare addosso le macchie verdi. O magari rosse orlate di nero.» Quella frase suscitò un'ilarità generale che parve allietare il duca, perché egli strappò l'ala di un pollo e l'addentò avidamente. Ma un attimo dopo lanciò un altro grido improvviso di dolore, più forte del primo, si alzò vacillando, artigliandosi convulsamente il petto, e poi si rovesciò sulla tavola, e vi giacque, gemendo e contorcendosi per la sofferenza. «Il duca ha avuto un colpo» annunciò il luogotenente dal viso magro, come se ve ne fosse bisogno: lo disse con tono solenne, dopo essersi chinato su Janarrl. «Portatelo a letto. Qualcuno gli slacci la camicia. Ansima e ha bisogno d'aria.» Lungo la tavola corse un brusio sommesso. Quando vennero aperte le porte dell'appartamento privato, un grande soffio d'aria gelida fece lingueggiare le fiamme delle torce e le colorò d'azzurro, e le ombre riempirono la sala. Poi una torcia sfolgorò bianca e fulgida come una stella, rivelando il volto d'una fanciulla. Ivrian sentì che gli altri si scostavano da lei con occhiate e mormorii di sospetto, come fossero certi che nelle parole scherzose del duca vi fosse stato un fondo di verità. Non alzò gli occhi. Dopo un po', qualcuno venne a dirle che il duca richiedeva la sua presenza. Senza dire una parola, Ivrian si alzò e lo seguì. La faccia di Janarrl era grigia e segnata dalla sofferenza: ma riusciva a dominarsi, sebbene a ogni respiro la sua mano si serrasse convulsamente sul bordo del letto, fino a quando le nocche spiccavano come protuberanze di pietra. Era appoggiato su un mucchio di cuscini: gli era stata drappeggiata addosso una vestaglia foderata di pelliccia, e tutto intorno al letto ardevano bracieri dalle lunghe gambe. Ma nonostante questo, il duca rabbrividiva convulsamente. «Vieni qui, ragazza» ordinò con voce bassa e faticosa, che usciva sibilando dalle labbra tirate. «Tu sai cos'è accaduto. Il mio cuore soffre come
se fosse stato posto sul fuoco, eppure la mia pelle è racchiusa nel ghiaccio. Le giunture mi dolgono come se lunghi aghi trafiggessero il midollo. È opera d'uno stregone.» «È opera d'uno stregone, senza dubbio» confermò Giscorl, il luogotenente dal volto magro, che stava accanto alla testata del letto. «E non è difficile indovinare chi è stato. Quel giovane serpente che tu non ti sei affrettato a uccidere dieci giorni or sono! Hanno segnalato che si aggira furtivamente nei boschi, sì, e parla con... certe persone» aggiunse, sbirciando intento Ivrian con aria sospettosa. Il duca fu scosso da uno spasimo di sofferenza atroce. «Dovevo schiacciare quel cucciolo insieme al genitore» gemette. Poi il suo sguardo si posò di nuovo su Ivrian. «Senti, ragazza, tu sei andata a curiosare nella foresta dove è stato ucciso il vecchio stregone. Dicono che tu abbia parlato con questo cucciolo.» Ivrian si inumidì le labbra, cercò di parlare e scosse il capo. Sentiva gli occhi del padre che frugavano nella sua anima. Poi egli tese la mano e l'afferrò per i capelli. «Sono convinto che tu abbia fatto lega con lui!» Il bisbiglio era come un coltello arrugginito. «Sei tu che lo aiuti a farmi questo. Ammettilo! Ammettilo!» Le spinse la guancia vicino al braciere più vicino, così che i capelli di lei presero a fumigare, e il suo "No!" divenne un urlo tremante. Il braciere vacillò e Giscorl lo tenne fermo. Mentre Ivrian urlava, il duca ringhiò: «Una volta, tua madre prese in mano dei carboni ardenti per provare il suo onore.» Una spettrale fiamma azzurra salì lungo la chioma di Ivrian. Il duca la scostò dal braciere e si lasciò ricadere sui cuscini. «Mandala via» bisbigliò alla fine, con un filo di voce: ogni parola gli costava uno sforzo. «È così vile che non oserebbe mai farmi del male. Nel frattempo, Giscorl, manda altri uomini a rastrellare la foresta. Devono trovare la tana di quell'individuo prima dell'alba, o il cuore mi si spezzerà, per resistere alla sofferenza.» Giscorl accennò bruscamente a Ivrian di uscire. Cercando di farsi piccola piccola, lei uscì dalla stanza; faticava a dominare le lacrime. La guancia le pulsava dolorosamente. Non si accorse del sorriso stranamente pensoso con cui il luogotenente dalla faccia aquilina la guardò uscire. Ivrian stava alla finestrella della sua camera e guardava i piccoli gruppi di cavalieri che andavano e venivano, con le torce che brillavano nei bo-
schi come fuochi fatui. La rocca era animata da movimenti misteriosi. Persino le pietre sembravano vive ed inquiete, come se condividessero il tormento del loro padrone. Lei stessa si sentiva attratta verso un certo punto, là fuori nell'oscurità. Continuava a ripresentarsi alla sua mente il ricordo del giorno in cui Glavas Rho le aveva mostrato una piccola grotta nel fianco della montagna e l'aveva avvertita che quello era un luogo maligno, dove in passato erano state compiute molte e terribili stregonerie. Si passò la punta delle dita sulla striatura ispida e strinata in mezzo ai capelli. Finalmente l'inquietudine e l'attrazione della notte divennero irresistibili. Si vestì al buio e spinse adagio la porta della sua stanza. Per il momento, il corridoio sembrava deserto. Lo percorse in fretta, tenendosi rasente alla parete, e sfrecciò giù per le scale di pietra consunte. Un suono di passi la spinse a nascondersi in fretta dentro una nicchia: restò lì, tremante, mentre due cacciatori, cupi in volto, si dirigevano verso la camera del duca. Erano impolverati e indolenziti per la lunga cavalcata. «Nessuno lo troverà, con questo buio» borbottò uno dei due. «È come dare la caccia a una formica in cantina.» L'altro annuì. «E gli stregoni possono cambiare i punti di riferimento, possono fare in modo che i sentieri nelle foreste ritornino su se stessi, confondendo i cercatori.» Non appena furono passati, Ivrian si affrettò a raggiungere la sala dei banchetti, che ora era buia e vuota, passò nella cucina, con gli alti forni di mattoni e gli enormi bricchi di rame che luccicavano nell'ombra. Fuori, nella corte, ardevano le torce, e c'era un'attività frenetica: i paggi portavano cavalli freschi e conducevano via quelli esausti. Ma Ivrian si augurò che il costume da cacciatore l'aiutasse a passare inosservata. Tenendosi nell'ombra, girò intorno alle stalle. Il suo cavallo si agitò, irrequieto, e nitrì, quando lei gli si avvicinò, ma si acquietò al suo bisbigliare sommesso. Dopo pochi istanti, lei l'aveva sellato e lo stava conducendo verso i campi aperti. Sembrava che non vi fossero pattuglie, nelle vicinanze: montò in sella e si lanciò verso il bosco. La sua mente era una tempesta d'ansie. Non sapeva spiegarsi come osasse spingersi tanto lontano: ma l'attrazione verso quel punto, la caverna da cui Glavas Rho le aveva detto di guardarsi, aveva quella notte un'insistenza stregata innegabile. Poi, quando la foresta l'inghiottì, sentì all'improvviso che si affidava alle braccia dell'oscurità e si lasciava per sempre alle spalle la roccaforte e i
suoi crudeli abitanti. Il soffitto di foglie nascondeva quasi tutte le stelle. Lasciò le redini lente sul collo del cavallo, sperando che trovasse da solo la strada. E ottenne ciò che voleva, perché dopo mezz'ora arrivò a un burroncello poco profondo che passava davanti alla grotta. Per la prima volta, il cavallo divenne irrequieto. Scartava, lanciava nitriti sommessi di paura, e cercava continuamente di tornare indietro mentre lei lo spingeva lungo il burroncello. Rallentò il passo, e alla fine rifiutò di andare oltre. Teneva le orecchie ributtate all'indietro e tremava in tutto il corpo. Ivrian smontò e proseguì. La foresta era prodigiosamente silenziosa, come se fossero scomparsi tutti gli animali e gli uccelli... persino gli insetti. Là avanti, la tenebra era quasi tangibile, come se fosse costruita di mattoni neri. Poi Ivrian scorse il barlume verde, dapprima vago e fioco come gli spettri di un'aurora boreale. Poco a poco divenne più intenso, e cominciò a pulsare, via via che si riduceva il numero delle cortine di fronde che la separavano da quel punto. All'improvviso, se la trovò di fronte... una fiamma densa, pesante, circonfusa di fuliggine che fremeva invece di danzare. Se una mucillaggine verde potesse trasmutarsi in fuoco, avrebbe quell'aspetto. La fiamma ardeva all'imboccatura d'una grotta poco profonda. Poi, accanto alla fiamma, Ivrian scorse il volto dell'apprendista di Glavas Rho, e in quell'istante una sofferenza di orrore e di tenerezza le straziò la mente. Quel volto sembrava disumano... era più maschera di tormento che la faccia di un essere vivente. Le guance erano incavate; gli occhi stralunati e folli: era pallidissimo e grondava di sudore gelido indotto dall'intenso sforzo interiore. Esprimeva una grande sofferenza, ma anche un grande potere... il potere di dominare le fitte ombre frementi che sembravano affollarsi intorno alla fiamma verde, il potere di comandare le forze dell'odio che venivano chiamate a raccolta. A intervalli regolari, le labbra screpolate si muovevano, le braccia e le mani compivano gesti rituali. A Ivrian parve di udire la voce mite di Glavas Rho ripetere un ammaestramento che una volta aveva impartito a Mouse e a lei. «Nessuno può servirsi della magia nera senza sforzare al massimo la propria anima... e senza macchiarla. Nessuno può infliggere la sofferenza senza subirla. Nessuno può inviare la morte per mezzo d'incantesimi e di stregonerie senza camminare sull'orlo dell'abisso della morte, sì, e senza versarvi il proprio sangue. Le forze evocate dalla magia nera sono come spade avvelenate a
doppio taglio, dall'impugnatura costellata di aculei di scorpione. Soltanto un uomo forte, dalle mani coriacee, in cui l'odio e il male siano molto potenti, è in grado di impugnarle, e solo per breve tempo.» Sul volto di Mouse, Ivrian scorgeva l'esempio vivente di quelle parole. Passo passo si avviò verso di lui, incapace di controllare i propri movimenti, come se vivesse in un incubo. Si accorse di presenze d'ombra, come se avanzasse tra veli di ragnatele. Si avvicinò tanto che avrebbe potuto protendere la mano per toccare il giovane, e tuttavia egli non s'era accorto della sua presenza, come se il suo spirito fosse al di là delle stelle, a lottare con le tenebre. Poi un fuscello si spezzò sotto i piedi di Ivrian, e Mouse balzò in piedi con terrificante sveltezza, scatenando l'energia di tutti i muscoli tesi. Raccolse la spada e si avventò contro l'intrusa. Ma quando la spada verdastra fu a meno d'una spanna dalla gola di Ivrian, egli la trattenne con uno sforzo. La fissò furioso, snudando i denti. Sebbene non l'avesse colpita, sembrava l'avesse riconosciuta soltanto a metà. In quell'istante, Ivrian fu investita da una raffica possente di vento, che proveniva dall'imboccatura della grotta: un vento strano che trasportava ombre. Il fuoco verde ardeva basso, correndo rapido lungo gli stecchi che l'alimentavano, e sembrò quasi sul punto di spegnersi. Poi il vento cessò e l'oscurità fitta si dileguò, venne sostituita da una fioca luce grigia che annunciava l'alba. Il fuoco, da verde che era, divenne giallo. L'apprendista stregone vacillò, e la spada gli cadde dalle dita. «Perché sei venuta?» domandò, con voce impastata. Ivrian vide che quella faccia era devastata dalla fame e dall'odio, che gli indumenti recavano i segni delle molte notti trascorse nella foresta all'addiaccio, come un animale. Poi all'improvviso si rese conto di conoscere la risposta alla domanda che le era stata rivolta. «Oh, Mouse» mormorò. «Andiamocene. Qui c'è soltanto orrore.» il giovane barcollò, e la fanciulla lo sorresse. «Portami con te, Mouse» supplicò. Egli la guardò negli occhi, incupendosi: «Allora non mi odii, per ciò che ho fatto a tuo padre? O per ciò che ho fatto degli insegnamenti di Glavas Rho?» domandò, perplesso. «Non hai paura di me?» «Ho paura di tutto» mormorò lei, aggrappandosi. «Ho paura di te, sì, terribilmente. Ma si può disimparare la paura. Oh, Mouse, mi porterai con te... a Lankmar e alla Fine della Terra?» Mouse l'afferrò per le spalle. «È quello che sognavo» disse, lentamente. «Ma tu...?»
«Apprendista di Glavas Rho!» tuonò una voce severa e trionfante. «Ti arresto in nome del duca Janarrl per le stregonerie compiute sul di lui corpo!» Quattro cacciatori balzarono fuori dal sottobosco con le spade sguainate, e Giscorl lì seguiva di due passi. Mouse li incontrò a mezza strada. Gli uomini scoprirono ben presto che questa volta non avevano a che fare con un giovane accecato dalla collera, ma con uno spadaccino freddo e astuto. Nella sua lama primitiva c'era una sorta di magia. Squarciò il braccio del primo assalitore con un affondo ben calcolato, disarmò il secondo con una torsione inattesa, e poi, freddamente, deviò i colpi degli altri due, indietreggiando lentamente. Ma altri cacciatori seguirono i primi quattro e lo circondarono. Lottando ancora con intensità terribile e ricambiando colpo per colpo, Mouse crollò sotto il peso del loro attacco. Gli legarono le braccia e lo rimisero in piedi a forza. Mouse sanguinava da un taglio alla guancia, ma teneva alta la testa scarmigliata. Cercò Ivrian con gli occhi iniettati di sangue. «Avrei dovuto saperlo» disse con voce ferma, «che dopo aver tradito Glavas Rho non avresti avuto pace fino a quando non avessi tradito anche me. Hai fatto bene il tuo lavoro, ragazza. Sono certo che la mia morte ti darà un grande piacere.» Giscorl rise. Le parole di Mouse colpirono Ivrian come una sferzata: non riuscì a sostenere lo sguardo di luì. Poi si accorse che dietro Giscorl c'era un uomo a cavallo: alzò gli occhi e vide che era suo padre. Il gran corpo era piegato dalla sofferenza, il volto era una maschera di morte. Sembrava un miracolo che riuscisse a tenersi aggrappato alla sella. «Presto, Giscorl!» sibilò. Ma il luogotenente dalla faccia aquilina stava già fiutandosi intorno all'imboccatura della grotta come un furetto ben addestrato. Lanciò un grido di soddisfazione e prese una figurina da uno scaffale accanto al fuoco, e poi calpestò le fiamme basse, estinguendole. Portò la figurina, delicatamente, come se fosse fatta di ragnatele. Quando le passò accanto, Ivrian vide che era un pupazzo d'argilla, largo quant'era alto, e abbigliato di foglie marroni e gialle, e che i lineamenti erano un'imitazione grottesca di quelli di suo padre. In molti punti era trapassato da lunghi aghi d'osso. «Eccola, o padrone» disse Giscorl, mostrando la figurina, ma il duca si limitò a ripetere: «Presto, Giscorl!» Il luogotenente cominciò a estrarre l'ago più grosso che trafiggeva la parte centrale del pupazzo, ma il duca lanciò un gemito di sofferenza e gridò: «Non dimenticare il balsamo!» Gi-
scorl stappò con i denti una grossa boccetta, ne versò il liquido sciropposo sul corpo del pupazzo, e il duca sospirò di sollievo. Poi Giscorl estrasse delicatamente gli aghi, uno ad uno, e quando ogni ago veniva tolto, il respiro del duca diveniva sibilante, ed egli si batteva la mano sulla spalla o sulla coscia, come se gli aghi venissero estratti dalle sue carni. Quando anche l'ultimo fu tolto, si afflosciò sulla sella, e rimase così a lungo. Poi finalmente rialzò la testa: in lui si era compiuta una trasformazione sorprendente. Il colore era riaffluito al suo volto, le rughe incise dalla sofferenza erano svanite, la voce era alta e squillante. «Portate il prigioniero alla nostra rocca, dove attenderà il nostro giudizio» gridò. «E che serva d'esempio a tutti coloro che vorrebbero praticare la stregoneria entro il nostro dominio. Giscorl, hai dimostrato d'essere un servitore fedele.» Il suo sguardo si posò su Ivrian. «Tu hai giocato troppo con la stregoneria, ragazza, e hai bisogno di altri insegnamenti. Tanto per cominciare, assisterai alla punizione che io infliggerò a questo immondo stregoncello.» «Una grazia, o duca!» esclamò Mouse. Lo avevano issato in sella, legandogli le gambe sotto il ventre del cavallo. «Tieni lontana dalla mia vista quella sudicia spia di tua figlia. E non permetterle di vedere le mie sofferenze.» «Uno di voi lo colpisca sulla bocca» ordinò il duca. «Ivrian, cavalca dietro di lui... te lo comando.» Lentamente il piccolo corteo si avviò verso la roccaforte, nella luce dell'alba. A Ivrian avevano portato il suo cavallo, e lei prese posto come le era stato ordinato, sprofondata in un incubo di infelicità e di sconfitta. Le pareva di vedere davanti a sé tutta la sua vita, passato, presente e futuro, e consisteva soltanto di paura, di solitudine e di dolore. Anche il ricordo di sua madre, che era morta quando lei era bambina, le suscitava ancora nel cuore un palpito di terrore: una donna sfrontata, bellissima, che aveva sempre in mano una frusta, e che persino suo padre aveva temuto. Ivrian ricordava che, quando i servi le avevano portato la notizia che sua madre si era rotta l'osso del collo cadendo da cavallo, lei aveva soltanto temuto che le mentissero, che quello fosse un nuovo trucco di sua madre per coglierla alla sprovvista, e che sarebbe seguita una nuova punizione. Poi, dal giorno della morte di sua madre, il padre aveva mostrato verso di lei solo una crudeltà stranamente perversa. Forse era la rabbia di non avere un figlio maschio che lo spingeva a trattarla come un ragazzetto vigliacco anziché come una bambina, e ad incoraggiare i suoi subordinati a
maltrattarla... dalle cameriere che giocavano a fare i fantasmi intorno al suo letto, alle sguattere che le mettevano rane nel latte e ortiche nell'insalata. Talvolta, a Ivrian era parso che la rabbia di non avere un figlio non bastasse a spiegare le crudeltà di suo padre, e che attraverso lei egli si vendicasse della moglie morta, che certamente aveva temuto e che ancora influenzava le sue azioni, poiché non si era più risposato e non aveva preso amanti ufficiali. O forse c'era qualcosa di vero in ciò che Janarrl aveva detto di sua madre e di Glavas Rho... no, sicuramente questa doveva essere una fantasia scatenata dalla collera. O forse, come egli le diceva talvolta, cercava di farle imitare il comportamento perverso e assetato di sangue di sua madre, cercava di ricreare la moglie adorata e odiata nella persona di sua figlia, trovando un piacere bizzarro nella refrattarietà del materiale che tentava di plasmare e nel carattere grottesco della sua stessa iniziativa. Poi Ivrian aveva trovato un rifugio in Glavas Rho. Quando aveva incontrato per la prima volta il vecchio dalla barba bianca, nei suoi vagabondaggi solitari attraverso la foresta, egli era intento a risanare la zampa rotta di un cerbiatto, e le aveva parlato sottovoce della bontà e della fratellanza esistente tra tutti gli esseri viventi, umani e animali. E lei era ritornata ogni giorno a sentirsi rivelare come profonde verità le sue stesse vaghe intuizioni, a rifugiarsi nell'inesauribile comprensione del vecchio... e a esplorare la sua timida amicizia con il piccolo, sveglio apprendista. Ma ormai Glavas Rho era morto, e Mouse s'era avviato sulla via del ragno, o del serpente, o del gatto, come talvolta il vecchio mago aveva chiamato la magia nera. Ivrian alzò lo sguardo, vide Mouse che cavalcava un po' più avanti, a lato, con le mani legate dietro il dorso, la testa e il corpo piegati in avanti. La coscienza le rimordeva, poiché sapeva di essere responsabile della sua cattura. Ma più tormentoso dei rimorsi era l'assillo dell'occasione perduta perché davanti a lei procedeva, ormai condannato, l'unico uomo che avrebbe potuto salvarla da quella vita. In un punto in cui il sentiero si restringeva, Ivrian gli passò accanto. Gli disse concitatamente, vergognandosi: «Se c'è qualcosa che posso fare perché tu mi perdoni un po'...» L'occhiata che Mouse le lanciò di straforo era acuta, calcolatrice, sorprendentemente viva. «Forse puoi fare qualcosa» mormorò, sottovoce, perché non lo udissero i cacciatori che lo precedevano. «Come sai, tuo padre mi farà torturare a
morte. Tu verrai invitata ad assistere. Obbedisci. E tieni sempre gli occhi inchiodati nei miei. Siedi molto vicina a tuo padre. Tienigli la mano sul braccio. Sì, e bacialo. E soprattutto, non dar segno di paura o di ripugnanza. Sii impassibile come una statua di marmo. Resisti fino alla fine. E un'altra cosa... indossa, se puoi, una veste di tua madre, e se non una veste, qualche suo indumento.» Poi le sorrise, dolorosamente. «Fai questo, ed io avrò almeno la consolazione di vederti tremare... e tremare... e tremare.» «Basta mormorare incantesimi!» gridò all'improvviso il cacciatore, dando uno strattone al cavallo di Mouse. Ivrian vacillò come se fosse stata colpita in pieno viso. Aveva pensato che la sua infelicità non potesse diventare ancora più grande, ma le parole di Mouse avevano raggiunto l'ultimo tocco. In quell'istante il corteo arrivò all'aperto, e poco più avanti grandeggiava la roccaforte... una grossa macchia cornuta e crestata sull'aurora. Mai come in quel momento era apparsa simile a un mostro orribile. Ivrian ebbe la sensazione che l'alta porta fosse le fauci ferree della morte. Entrando a passo energico nella camera delle torture, nei sotterranei della sua roccaforte, Janarrl si sentì invaso da un'onda ardente di esultanza, come quando lui e i suoi cacciatori accerchiavano un animale per ucciderlo. Ma in cima a quell'onda c'era una lieve schiuma di paura. Le sue sensazioni erano simili a quelle di un uomo affamato invitato a un banchetto sontuoso, ma che un indovino ha avvertito di guardarsi dal pericolo di morire avvelenato. Era ossessionato dalla faccia febbrile e spaventata dell'uomo ferito al braccio dalla spada bronzea e corrosa dello stregoncello. I suoi occhi incontrarono quelli dell'apprendista di Glavas Rho, il cui corpo seminudo era disteso, non ancora dolorosamente, sulla ruota: e la paura del duca si accentuò. Erano troppo indagatori, quegli occhi, troppo freddi e minacciosi, troppo carichi di poteri magici. Sì disse, rabbiosamente, che presto la sofferenza avrebbe trasformato quell'espressione in una di panico impotente. Si disse che era naturale sentirsi ancora agitato dopo gli orrori della notte precedente, quando la vita per poco non gli era stata strappata dalle immonde stregonerie. Ma nel profondo del cuore egli sapeva che la paura era sempre con lui... la paura che qualcosa o qualcuno, un giorno, sarebbe stato più forte di lui e gli avrebbe fatto del male come lui aveva fatto del male agli altri... paura dei morti cui aveva fatto del male e cui non poteva farne più... paura della moglie morta, che in verità era stata più forte e più crudele di lui, e che l'aveva umiliato
in mille modi di cui non conservava il ricordo. Ma sapeva anche che tra poco sua figlia sarebbe venuta lì, e che allora avrebbe potuto scaricare la sua paura su di lei: costringendola a tremare, avrebbe potuto recuperare il proprio coraggio, come aveva già fatto innumerevoli volte in passato. Perciò prese il suo posto, baldanzosamente, e diede l'ordine di incominciare la tortura. Quando la grande ruota si mosse cigolando e le cinghie di cuoio che gli stringevano i polsi e le caviglie cominciarono a tirare un poco, Mouse si sentì invaso da un fremito di panico impotente. Si annidava nelle giunture... quei cardini d'osso poco profondi normalmente immuni a ogni pericolo. Ancora non sentiva dolore. Il suo corpo era solo un poco stiracchiato, come se stesse sbadigliando. Il soffitto basso era vicino alla sua faccia. La luce guizzante delle torce rivelava la mortasa della pietra e le ragnatele impolverate. Verso i piedi scorgeva la parte superiore della ruota, e le due grosse mani che ne stringevano i raggi, facendoli girare senza fatica, molto lentamente, fermandosi ogni volta per venti battiti di cuore. Volgendo a lato la testa, poteva vedere la figura corpulenta del duca, non larga quando il pupazzo, ma larga... Era seduto su un seggio di legno scolpito, e dietro di lui stavano ritti due armigeri. Le mani scure, che lampeggiavano fuoco dagli anelli gemmati, erano strette sui braccioli. I piedi erano piantati saldamente sul pavimento. La mascella era immobile. Solo gli occhi tradivano disagio e vulnerabilità. Continuavano a girare da una parte all'altra... rapidamente, regolarmente, come gli occhi mobili d'una bambola. «Mia figlia dovrebbe essere qui» disse bruscamente il duca con voce incolore. «Ditele di affrettarsi. Non può permettersi di tardare.» Uno degli uomini uscì, in fretta. Poi incominciarono le fitte di dolore, che colpivano a caso l'avambraccio, il ginocchio, la spalla. Con uno sforzo, Mouse compose i lineamenti. Concentrò l'attenzione sulle facce intorno a lui, scrutandole nei dettagli come se formassero un quadro, notando i riflessi delle luci sulle guance e gli occhi e le barbe, e le ombre vacillanti che le loro figure gettavano sui muri bassi. Poi i muri si dileguarono e, come se la distanza non esistesse più, egli vide il mondo immenso che non aveva mai visitato: le grandi foreste, il fulgido deserto d'ambra, e il mare di turchese; il lago dei Mostri, la città dei Ghoul, la magnifica Lankhmar, la Terra delle Otto Città, le Montagne
dei Troll, le favolose Solitudini Fredde e, stranamente, laggiù si aggirava un giovane colossale, dalla faccia franca, che egli aveva scorto tra i pirati e con il quale, più tardi, aveva parlato... tutti i luoghi e le persone che ormai non avrebbe più veduto, ma che apparivano prodigiosamente nei dettagli più minuti, come se fossero scolpiti e colorati da un maestro miniaturista. Con sconvolgente rapidità il dolore ritornò e crebbe. Le fitte divennero colpi d'ago un abile frugare dentro di lui... dita di forza che strisciavano su per le braccia e le gambe verso la spina dorsale... uno sconvolgimento alle anche. Tese disperatamente i muscoli per opporsi. Poi udì la voce del duca: «Più piano. Fermati un po'.» Mouse pensò di aver captato una sfumatura di panico nella voce. Girò la testa, nonostante le fitte che quel movimento gli costò, e scrutò quegli occhi inquieti. Oscillavano avanti è indietro, come minuscoli pendoli. Poi, all'improvviso, come se il tempo non fosse più reale, Mouse vide un'altra scena in quel sotterraneo. C'era il duca, con gli occhi che saettavano di qua e di là, ma era più giovane, e il suo volto esprimeva panico e orrore. Accanto a lui c'era una donna sfrontatamente bella, dall'abito rossoscuro profondamente scollato e ornato di sbuffi di seta gialla. Sulla ruota, al posto di Mouse era distesa una cameriera bellissima, che adesso gemeva pietosamente: la donna rossovestita l'interrogava, con grande freddezza e insistendo per i particolari, sui suoi incontri amorosi con il duca, sul tentativo di uccidere con il veleno lei, la moglie del duca. Un suono di passi annientò quella scena, come le pietre distruggono un'immagine riflessa nell'acqua, e riportò il presente. Poi una voce annunciò: «Tua figlia o duca.» Mouse si fece coraggio. Non si era accorto di quanto avesse temuto quell'incontro, anche nella sofferenza. Aveva l'amara certezza che Ivrian non avrebbe ascoltato le sue parole. Non era malvagia, lo sapeva, e non aveva avuto intenzione di tradirlo: ma era priva di coraggio. Sarebbe venuta piagnucolando, e l'angoscia avrebbe annientato quel po' di autocontrollo di cui egli poteva disporre, avrebbe vanificato l'ultimo suo piano disperato. Ora si avvicinavano altri passi, più lievi. Ivrian. Erano stranamente misurati. Era una nuova sofferenza girare la testa per vedere la porta: eppure Mouse lo fece, e vide la figura di Ivrian comparire nell'alone della luce rossastra irradiata dalle torce. Poi vide gli occhi. Erano spalancati e fissi su di lui. E non deviarono. Il volto era pallido, calmo di una serenità mortale.
Vide che ella indossava una veste rossocupa, profondamente scollata e ornata di sbuffi di seta gialla. E allora l'anima di Mouse esultò, perché egli seppe che Ivrian aveva fatto ciò che le aveva chiesto. Glavas Rho aveva detto: «Colui che soffre può scagliare la sofferenza sul suo oppressore, se si induce l'oppressore ad aprire un canale per il suo odio.» Ed ora c'era un canale aperto per lui, un canale che portava all'essere più intimo di Janarrl. Avidamente, Mouse piantò lo sguardo negli occhi fermi di Ivrian, come se fossero stagni di magia nera sotto una luna fredda. Quegli occhi, lo sapeva, potevano ricevere ciò che egli poteva trasmettere. La vide sedersi accanto al duca. Vide il duca lanciare uno sguardo obliquo alla figlia e sussultare come se lei fosse uno spettro. Ma Ivrian non lo guardò: solo la sua mano si tese e gli strinse il polso, e Janarrl ricadde tremante sul seggio. «Procedete!» udì gridare il duca ai torturatori, e stavolta il panico affiorava nella sua voce. La ruota girò. Mouse sentì se stesso gemere pietosamente. Ma adesso c'era in lui qualcosa che poteva soverchiare la sofferenza senza partecipare al gemito. Sentiva che vi era una via tra i suoi occhi e quelli di Ivrian... un canale dalle pareti di roccia, in cui le forze dello spirito umano e dello spirito sovrumano potevano avventarsi come un torrente montano. E Ivrian non girò la testa. Il suo viso rimase impassibile quand'egli gemette, solo i suoi occhi parvero oscurarsi ancor più, mentre il volto impallidiva. Mouse sentì uno sconvolgimento di sensazioni entro il proprio corpo. Attraverso le acque brucianti della sofferenza, il suo odio salì alla superficie. Lo sospinse in quel canale dalle pareti di roccia, vide la faccia di Ivrian divenire ancora più simile a quella di una morta quando il torrente l'investi, la vide stringere più forte il polso del padre, sentì il tremito che il duca non riusciva più a dominare. La ruota girò. Da una lontananza immane, Mouse udì un piagnucolio continuo che straziava il cuore. Ma una parte di lui, ora, era al di fuori della camera di tortura... lassù in alto, lo sentiva, nel vuoto gelido che sovrastava il mondo. Vide spiegarsi sotto di lui un panorama notturno di colline e di valli boscose. Presso la vetta d'uno dei colli c'era un fascio serrato di minuscole torri di pietra. Ma, come se fosse dotato degli occhi di un avvoltoio stregato, egli poteva vedere attraverso le mura e i tetti di quelle torri, fino alle fondamenta, in una piccola stanza buia in cui uomini più piccoli degli insetti si raccoglievano impauriti. Alcuni manovravano un meccani-
smo che infliggeva sofferenze a una creatura che poteva essere una formica sbiancata e fremente. E la sofferenza di quell'essere, di cui udiva vagamente le grida fioche, aveva uno strano effetto su di lui, a quell'altezza: rafforzava i suoi poteri interiori e strappava un velo dai suoi occhi... un velo che sino a quel momento gli aveva nascosto un intero universo nero. Cominciò a udire intorno a sé un mormorio poderoso. L'oscurità gelida venne battuta da ali di pietra. La luce d'acciaio delle stelle gli affondava nel cervello come una miriade di lame indolori. Sentì un frenetico, nero vortice di male, come un torrente di tigri nere, irrompere dall'alto attraverso lui, e comprese che era a sua disposizione. Lo lasciò scorrere attraverso il proprio corpo e poi lo scagliò lungo il canale indenne che portava a due punti di tenebra nella piccola stanza laggiù... gli occhi sbarrati di Ivrian, figlia del duca Janarrl. Vide il nero del cuore del ciclone spargersi sul volto di lei come inchiostro, colare lungo le braccia bianche e colorarle le dita. Vide la mano di Ivrian stringersi convulsamente sul braccio del padre. La vide tendere l'altra mano verso il duca, accostargli alla guancia le labbra schiuse. Poi, per un momento, mentre le fiamme delle torce si agitavano, basse e azzurre in un vento che sembrava soffiare attraverso le pietre a mortasa della camera sotterranea... per un momento, mentre i torturatori e le guardie lasciavano cadere gli attrezzi del loro mestiere... per un momento incancellabile d'odio esaudito e di vendetta compiuta, Mouse vide la forte faccia squadrata del duca Janarrl squassata dall'agitazione del terrore supremo, i lineamenti contorti come una stoffa pesante strizzata da mani invisibili, e poi abbandonati nella sconfitta e nella morte. Il filo invisibile che sorreggeva Mouse si spezzò. Il suo spirito piombò come un sasso verso la camera sotterranea. Un dolore tormentoso l'invase, ma prometteva vita, non morte. Sopra di lui c'era il basso soffitto di pietra. Le mani posate sulla ruota erano candide e sottili. Allora comprese che la sofferenza era quella della liberazione. Lentamente Ivrian allentò le cinghie di cuoio che gli stringevano i polsi e le caviglie. Lentamente lo aiutò a scendere, sorreggendolo con tutte le forze mentre attraversavano la camera da cui tutti erano fuggiti in preda al terrore, tranne una figura ingemmata, afflosciata su un seggio scolpito. Si soffermarono accanto ad essa e Mouse scrutò quella cosa morta con lo sguardo sereno, soddisfatto, impenetrabile di un gatto. E poi proseguirono e salirono, Ivrian e il Gray Mouser, attraverso i corridoi svuotati dal panico, e uscirono nella notte.
BRUTTO INCONTRO A LANKHMAR
Silenziosi come spettri, il ladro alto e il ladro grasso passarono oltre il leopardo da guardia strangolato da un nodo scorsoio, uscirono dalla robusta porta scassinata della casa di Jengao, il Mercante di Gemme, e si avviarono verso est, per Via dei Contanti, attraverso la sottile, nera nebbia notturna di Lankhmar, la Città dalle Sette Dozzine di Migliaia di Fumi. Era necessario avviarsi verso est sulla Via dei Contanti, perché a ovest, all'incrocio tra questa e la Via dell'Argento c'era un posto di polizia, con le guardie non corrotte, dalle corazze e dagli elmi di ferro brunito, che agitavano irrequiete le picche, mentre la casa di Jengao non aveva un ingresso sul vicolo, e neppure una finestra, nelle mura di pietra spesse tre spanne, e il tetto e il pavimento erano quasi altrettanto solidi e privi di botole. Ma l'alto Slevyas dalle labbra contratte, candidato maestro ladro, e il grasso Fissif dagli occhi mobilissimi, ladro di seconda classe, temporaneamente promosso alla prima classe per quell'operazione, con ottimi voti nel doppio gioco, non erano minimamente preoccupati. Tutto procedeva secondo i piani. Ognuno di loro portava legata nella propria borsa una borsa molto più piccola piena solo di gemme dell'acqua più pura, perché Jengao, che ora respirava stentoreamente in casa sua, privo di sensi per le botte in testa che aveva preso, doveva venire autorizzato, anzi incoraggiato, a riprendere i suoi affari e quindi ad ammassare un'altra ricchezza da rubare. Una delle prime leggi della Corporazione dei Ladri ordinava di non uccidere mai la gallina che deponeva uova brune con un rubino nel tuorlo, oppure uova bianche con un diamante nell'albume. I due ladri avevano inoltre il sollievo di sapere che, con la soddisfazione di chi ha fatto bene il proprio lavoro, ora stavano per andare diritti a casa: non da una moglie, Aarth non volesse!, né dai genitori o dai figli, che gli dei li guardassero!, ma alla Casa dei Ladri, quartier generale e caserma dell'onnipotente Corporazione che per loro era insieme padre e madre, sebbene nessuna donna venisse ammessa a varcare il portone sempre aperto su Via del Buon Mercato. C'era inoltre la consolante certezza che (sebbene armati solo dei regolamentari coltelli da ladro, con l'impugnatura d'argento, un tipo d'arma che veniva usata di rado, se non in pochi duelli e in poche risse all'interno delle mura, e in effetti era più un simbolo dell'appartenenza alla Corporazione
che un'arma vera e propria) essi erano robustamente scortati tra tre fidati e letali bravi, noleggiati per quella serata dalla Confraternita degli Assassini. Uno di essi li precedeva a buona distanza, in avanscoperta, gli altri due li seguivano come retroguardia e principale forza d'assalto, tenendosi in pratica quasi fuori vista... poiché non è mai opportuno che queste scorte siano troppo vistose: o almeno così riteneva Krovas, Gran Maestro della Corporazione dei Ladri. Come se tutto questo non fosse bastato a far sì che Slevyas e Fissif si sentissero protetti e sereni, saltellava silenziosamente accanto a loro, nell'ombra del marciapiede nord, una piccola sagoma deforme, o almeno dalla testa troppo grossa, che poteva sembrare un cane piccolissimo, o un gatto un po' stentato, o un ratto molto grosso. Di tanto in tanto trotterellava familiarmente verso i loro piedi inguainati in comode pantofole di feltro, sebbene si affrettasse sempre a ritrarsi nell'ombra più buia. Certamente, quest'ultima guardia non rappresentava una garanzia assoluta. In quel preciso momento, dopo aver percorso appena due dozzine di passi dalla casa di Jangao, Fissif camminò un poco in punta di piedi e tese verso l'alto le labbra grassocce per bisbigliare sottovoce all'orecchio di Slevyas: «Mi venga un colpo se sono disposto a farmi pedinare dal Familiare di Hristomito, anche se dovrebbe costituire una sicurezza, per noi. E già abbastanza triste che Krovas si serva, o si lasci indurre per paura a servirsi di uno stregone dalla reputazione e dall'aspetto così discutibili per non dire perversi, ma questo è addirittura...» «Chiudi il becco!» sibilò con voce ancora più sommessa Slevyas. Fissif obbedì con una scrollata di spalle e si dedicò ancora più nervosamente e acutamente di quanto fosse sua abitudine a sfrecciare occhiate a destra e a sinistra, ma soprattutto davanti a sé. A una certa distanza, in quella direzione, per l'esattezza un po' prima dell'incrocio con la Via dell'Oro, la Via dei Contanti era scavalcata da un passaggio coperto, all'altezza del primo piano, che collegava due edifici, sede dei famosi costruttori e scultori Rokkermas e Slaarg. I massicci edifici erano fiancheggiati da bassi portici sorretti da colonne superfluamente grandi, di varie forme e decorazioni, messe lì più per fini pubblicitari che per esigenze strutturali. Dal sottopassaggio vennero due brevi fischi sommessi, il segnale del bravo d'avanguardia che aveva ispezionato quell'area per timore d'imboscate, non aveva scoperto nulla di sospetto e annunciava che la Via dell'Oro era sgombra.
Fissif non si sentì del tutto soddisfatto di quel segnale tranquillizzante. Per la verità, il grasso ladro amava sentirsi preoccupato e persino impaurito, almeno fino a un certo punto. Un senso di panico stridente, mimetizzato da una calma fremente, lo faceva sentire più vivo di quanto vi riuscissero le donne che si godeva. Perciò scrutò attentamente nella rada nebbia fuligginosa le facciate e i cornicioni degli edifici di Rokkermas e Slaarg, mentre l'andatura tranquilla e tuttavia svelta portava lui e Slevyas sempre più vicini. Da questa parte, il passaggio sopraelevato era traforato da quattro finestrelle, inframmezzate da tre grandi nicchie in cui stavano (anch'esse a fini pubblicitari) tre statue di gesso a grandezza naturale, un po' corrose da anni di intemperie e colorate di vari toni di grigio scuro da altrettanti anni di smog. Quando si erano avvicinati alla casa di Jengao, prima di intraprendere l'effrazione, Fissif le aveva notate con un rapido ma attento sguardo lanciato al di sopra della spalla. Ora gli sembrava che la statua di destra fosse cambiata in modo indefinibile. Era la figura di un uomo di media statura, avvolto nel manto e nel cappuccio, che guardava in basso, a braccia conserte e aria meditabonda. No, il cambiamento non era indefinibile... la statua adesso era di un grigioscuro più uniforme, pensò, manto, cappuccio e faccia: sembrava avesse i lineamenti più netti, meno erosi; ed egli sarebbe stato pronto a giurare che era diventata più bassa! Inoltre, proprio sotto la nicchia erano sparsi detriti grigi e bianchi che Fissif non ricordava di aver veduto all'andata. Si sforzò di ricordare se, durante l'eccitazione dell'effrazione e del furto, con l'uccisione del leopardo e le botte in testa a Jengao e tutto il resto, il cantuccio insonne della sua mente che sempre stava in guardia avesse registrato uno scroscio lontano; e ora gli sembrava che fosse stato davvero così. Prontamente, l'immaginazione gli suggerì la possibilità che vi fosse un pertugio o magari una porta dietro ognuna delle statue, e che in tal modo potessero venire spinte addosso ai passanti, nel caso specifico addosso a lui e Slevyas: forse la statua di destra era stata fatta cadere per prova, e poi era stata sostituita con una quasi identica. Si ripromise di sorvegliare attentamente tutte e tre le statue, quando lui e Slevyas fossero passati lì sotto. Sarebbe stato facile schivare, se ne avesse vista una che cominciava a perdere l'equilibrio. Doveva trascinare al sicuro anche Slevyas, quando ciò fosse accaduto? Era il caso di pensarci bene. Subito la sua attenzione inquieta si fissò sui portici e sulle colonne. Queste, robuste e alte quasi tre braccia, erano piazzate a intervalli irregolari, e
avevano forme pure irregolari e scanalate, perché Rokkermas e Slaarg erano modernisti e amavano porre in risalto una certa aria d'incompiuto, di casualità e di imprevedibilità. Tuttavia a Fissif, la cui prudenza s'era fatta ancora più acuta, sembrava vi fosse un'intensificazione dell'imprevedibilità: per l'esattezza, gli pareva che vi fosse una colonna in più, sotto il portico, di quando era passato prima. Non avrebbe saputo dire con certezza quale fosse l'ultima arrivata, ma era quasi sicuro che ci fosse. Doveva confidare i suoi sospetti a Slevyas? Sì, e guadagnarsi un altro rimbrotto sibilante e un lampo di disprezzo di quegli occhietti apparentemente opachi. Il passaggio sopraelevato, ormai, era molto vicino. Fissif sbirciò la statua di destra e notò altre differenze, oltre quella che rammentava. Sebbene più bassa, sembrava più tesa ed eretta, mentre l'espressione scolpita sulla faccia grigioscura non era tanto di meditazione filosofica quanto di disprezzo, astuzia consapevole e presunzione. Comunque, nessuna delle tre statue precipitò quando Fissif e Slevyas passarono sotto il ponte. Tuttavia, a Fissif, in quel momento, accadde qualcosa d'altro. Una delle colonne gli strizzò l'occhio. Il Gray Mouser (poiché adesso Mouse si era dato questo nome, per sé e per Ivrian) girò su se stesso nella nicchia di destra, spiccò un balzo e si aggrappò al cornicione, volteggiò senza far rumore sul tetto pianeggiante, e lo attraversò esattamente in tempo per vedere i due ladri che uscivano dal sottopasso. Senza esitare balzò in avanti e giù, con il corpo diritto come il dardo di una balestra, le suole degli stivali di pelle di ratto puntate alle scapole sepolte nel grasso, ma con un po' di gioco, per tener conto della distanza di un braccio che quello aveva percorso dal momento in cui il Mouser s'era avventato verso di lui. Nell'istante in cui spiccò il salto, il ladro altissimo si lanciò un'occhiata alle spalle e sguainò fulmineamente un coltello, pur senza spingere o strattonare Fissif per sottrarlo al proiettile umano lanciato contro di lui. Il Mouser scrollò le spalle, in pieno volo. Avrebbe dovuto sistemare in fretta il ladro più alto, dopo aver abbattuto quello grasso. Più rapidamente di quanto si potesse credere data la sua mole, Fissif ruotò su se stesso e urlò con voce acuta: «Slivikin!» Gli stivali di pelle di ratto lo centrarono nella parte alta del ventre. Fu
come atterrare su un grosso cuscino. Schivando il primo affondo di Slevyas, il Mouser eseguì una capriola in avanti, e mentre il cranio del ladro grasso urtava contro un ciottolo con un sordo bong! si ritrovò in piedi, con lo stiletto in pugno, pronto ad affrontare il più alto. Ma non ve ne fu bisogno. Slevyas, con gli occhietti divenuti vitrei, stava crollando anch'egli. Una delle colonne era balzata avanti, trascinandosi dietro un mantello voluminoso. Un gran cappuccio era ricaduto all'indietro, scoprendo una faccia giovane e una testa dai lunghi capelli. Due braccia robuste erano uscite dalle lunghe maniche ampie che avevano formato la sezione superiore della colonna, mentre il grosso pugno all'estremità di un braccio aveva sferrato a Slevyas un possente diretto al mento. Fafhrd e il Gray Mouser si fronteggiarono, al di qua e al di là dei corpi dei due ladri privi di sensi. Erano pronti per attaccare, ma per il momento nessuno dei due si mosse. Ognuno di loro scorgeva nell'altro qualcosa di inspiegabilmente familiare. Fafhrd disse: «Sembra che i motivi della nostra presenza qui siano identici.» «Sembra? Debbono esserlo sicuramente!» rispose laconico il Mouser, squadrando minacciosamente quel nuovo nemico potenziale, che era più alto di tutta la testa del ladro più alto. «Come hai detto?» «Ho detto: Sembra? debbono esserlo sicuramente!.» «Come sei civile!» commentò Fafhrd, in tono compiaciuto. «Civile?» domandò insospettito il Mouser, serrando più forte lo stiletto. «Badare, anche nel cuore dell'azione, a ciò che è stato detto esattamente» spiegò Fafhrd. Senza perdere di vista il Mouser, guardò in basso. Il suo sguardo vagò dalla borsa di un ladro alla borsa dell'altro. Poi rialzò gli occhi verso il Mouser, con un ampio, ingenuo sorriso. «Metà e metà?» propose. Il Mouser esitò, rinfoderò lo stiletto ed esclamò: «D'accordo!» S'inginocchiò svelto, facendo volare le dita sui cordoni della borsa di Fissif. «Tu ripulisci Slivikin» ordinò. Era naturale supporre che il ladro grasso avesse gridato il nome del compagno. Senza alzare lo sguardo, Fafhrd, che si era inginocchiato a sua volta, osservò: «Quel... quel furetto che era con loro. Dov'è finito?»
«Che furetto?» rispose conciso il Mouser. «Era uno uistitì!» «Uistitì» fece Fafhrd, pensoso. «È una scimmietta tropicale, no? Beh, può darsi, ma io ho avuto la strana impressione che...» La silenziosa, duplice carica che per poco non li travolse in quell'istante per la verità non li sorprese, Entrambi se l'aspettavano, ma l'attesa era tramontata dall'orizzonte del pensiero conscio a causa dello sbalordimento causato dal loro incontro. I tre bravi che correvano verso di loro in un attacco concertato, due da ovest e uno da est, e tutti con le spade pronte all'affondo, avevano presunto che i due rapinatori fossero armati al massimo di coltelli e fossero timorosi, o almeno cauti negli scontri armati quanto lo erano di solito i ladri e i controladri. Perciò rimasero sbalorditi e confusi quando, con la rapidità fulminea della gioventù, il Mouser e Fafhrd balzarono in piedi, sguainarono le spade spaventosamente lunghe e li affrontarono, mettendosi dorso contro dorso. Il Mouser fece una piccola parata in quarta, così che l'affondo del bravo sopraggiunto da est gli mancò di un capello il fianco sinistro. Immediatamente sferrò un colpo di rimessa. L'avversario, spiccando un disperato balzo indietro, parò a sua volta in quarta. Senza quasi rallentare, la punta della spada lunga e sottile del Mouser si insinuò al di sotto della parata con la delicatezza d'una principessa che esegue una riverenza, e poi scattò avanti e un po' verso l'alto; il Mouser compì un balzo incredibilmente lungo per un individuo tanto piccolo, e la lama si infilò tra due costole e attraverso il cuore, e uscì dalla schiena, come se avesse trapassato una torta di pasta margherita. Intanto Fafhrd, che fronteggiava i due bravi arrivati da ovest, deviò i loro affondi bassi con parate più ampie, dall'alto in basso, in seconde e in prime, poi risollevò di scatto la spada, lunga come quella del Mouser ma più pesante, in modo che fendesse il collo dell'avversario di destra, quasi decapitandolo. Poi, arretrando rapidamente di un passo, si preparò a sferrare un affondo all'altro. Ma non fu necessario. Un sottile nastro d'acciaio insanguinato, seguito da un guanto e da un braccio egualmente grigi, gli passò davanti lampeggiando, e trafisse l'ultimo bravo con l'identico allungo che il Mouser aveva usato contro il primo. I due giovani pulirono e rinfoderarono le spade. Fafhrd si asciugò sulla veste il palmo della destra e la tese. Il Mouser si sfilò dalla destra il guanto grigio e strinse la grossa mano del barbaro nella sua, forte e nervosa. Senza
scambiarsi una sola parola, s'inginocchiarono e finirono di ripulire i due ladri privi di sensi, impadronendosi dei sacchetti di gemme. Con una salvietta unta e poi con una asciutta, il Mouser si tolse sommariamente dal volto il miscuglio di ceneri e di fuliggine che glielo scuriva, poi arrotolò alla svelta le due salviette e le ripose nella borsa. Quindi, dopo un'occhiata interrogativa verso est da parte del Mouser e un cenno del capo da parte di Fafhrd, si avviarono a passo rapido nella direzione in cui procedevano prima Slevyas, Fissif e la loro scorta. Dopo una ricognizione sulla Via dell'Oro, l'attraversarono e continuarono per Via dei Contanti, indicata da Fafhrd. «La mia donna è alla Lampreda Dorata» spiegò questi. «Andiamola a prendere e portiamola a casa per farle conoscere la mia ragazza» propose il Mouser. «A casa?» s'informò educatamente Fafhrd, con una lievissima inflessione interrogativa nella voce. «Vicolo Buio» chiarì il Mouser. «All'Anguilla d'Argento?» «Dietro. Berremo qualcosa.» «Io porterò una fiasca. Meglio abbondare con i rinfreschi.» «Verissimo. Fai pure.» Più avanti, Fafhrd, dopo aver lanciato parecchie occhiate furtive al suo nuovo compagno, disse con molta convinzione: «Noi due ci siamo già incontrati.» Il Mouser gli rivolse un gran sorriso. «La spiaggia ai piedi dei Monti della Fame?» «Esatto! Quando ero con una nave pirata.» «E io ero l'apprendista di uno stregone.» Fafhrd si fermò, si pulì di nuovo la destra sulla veste e la protese. «Mi chiamo Fafhrd. Effe a effe acca erre di.» Il Mouser tornò a stringergli la mano. «Gray Mouser» disse, con un certo tono arrogante, come se sfidasse chiunque a riderne. «Scusami, ma come pronunci esattamente il tuo nome? Fafhrd?» «Semplicemente Faf-erd.» «Grazie.» Proseguirono. «Gray Mouser, eh?» commentò Fafhrd. «Beh, stanotte hai ucciso un bel paio di ratti.» «Davvero.» Il Mouser gonfiò il petto e gettò indietro la testa. Poi, arricciando comicamente il naso e sfoggiando un sogghigno storto, ammise: «E
tu avresti liquidato molto facilmente il tuo secondo uomo. Te l'ho rubato per dimostrarti la mia velocità. Inoltre, ero molto eccitato.» Fafhrd ridacchiò. «E lo dici a me? Come credi che mi sentissi io?» Più oltre, mentre attraversavano Via dei Ruffiani, domandò: «Hai appreso molta magia dal tuo stregone?» Ancora una volta, il Mouser rovesciò all'indietro la testa. Dilatò le narici e abbassò gli angoli delle labbra, preparando la bocca a una serie di vanterie. Ma poi tornò ad arricciare il naso e a sogghignare. Cosa diavolo aveva quell'individuo grande e grosso, per riuscire a impedirgli di fare la solita scena? «Abbastanza per capire che è roba maledettamente pericolosa. Tuttavia, di tanto in tanto, ci pasticcio ancora un po'.» Fafhrd stava rivolgendo a se stesso una domanda molto simile. Per tutta la vita aveva diffidato degli uomini piccoli, sapendo che la sua statura suscitava in loro un'immediata gelosia. Ma quell'ometto sveglio costituiva un'eccezione. Sapeva pensare in fretta, ed era anche un brillante spadaccino, su questo non c'erano dubbi. Pregò Kos che riuscisse simpatico a Vlana. All'angolo di nord-est dell'incrocio tra la Via dei Contanti e la Via delle Puttane, una torcia a combustione lenta, schermata da un ampio cerchio dorato, gettava un cono di luce nel nero smog notturno in alto, e un secondo cono sui ciottoli davanti alla porta della taverna. Dalle ombre di questo secondo cono uscì Vlana, bellissima in un abito aderente di velluto nero, con le calze rosse: i suoi unici ornamenti erano un pugnale dal fodero e dall'elsa d'argento e una borsa nera intarsiata d'argento, fissati entrambi a una semplice cintura nera. Fafhrd presentò il Gray Mouser, che si comportò con estrema cortesia, ossequiosa e galante. Vlana lo studiò apertamente, poi gli rivolse un sorriso incerto. Fafhrd aprì, sotto la torcia, la piccola borsa che aveva sottratto al ladro più alto. Vlana guardò dentro. Gettò le braccia al collo di Fafhrd, lo abbracciò stretto e gli schioccò un bacio sonoro. Poi ripose le gemme nella sua borsa. Quindi Fafhrd disse: «Senti, io vado a comprare una fiasca. Tu raccontale ciò che è accaduto, Mouser.» Quando uscì dalla Lampreda Dorata, portava quattro fiasche nell'incavo del braccio sinistro e si asciugava le labbra con il dorso della mano destra. Vlana aveva la fronte aggrottata. Le rivolse un gran sorriso. Il Mouser schioccò le labbra alla vista delle fiasche. Proseguirono verso est, lungo la
Via dei Contanti. Fafhrd si rese conto che l'irritazione di Vlana non era causata solo dalla vista delle fiasche e dalla prospettiva di una stupida ubriacatura mascolina. Il Mouser, con molto tatto, camminava un po' più avanti, ufficialmente per indicare la strada. Quando la sua figura fu poco più di una chiazza indistinta nello smog sempre più fitto, Vlana bisbigliò aspramente: «Avevi tra le mani due membri della Corporazione dei Ladri privi di sensi e non hai tagliato loro la gola?» «Abbiamo ucciso tre bravi» protestò Fafhrd, come giustificazione. «Io non ho nulla contro la Confraternita degli Assassini; è dell'abominevole Corporazione che mi voglio vendicare. Mi avevi giurato che appena ne avessi avuto l'occasione...» «Vlana! Non potevo permettere che il Gray Mouser mi scambiasse per un controladro dilettante, divorato dall'isterismo e dalla sete di sangue.» «Lo tieni già in gran conto, non è vero?» «Probabilmente, stanotte mi ha salvato la vita.» «Bene, mi ha detto che lui avrebbe tagliato la gola a quei due in un batter d'occhio, se avesse saputo che io lo desideravo.» «Lo ha detto solo per cortesia.» «Forse sì e forse no. Ma tu lo sapevi e non lo hai fatto...» «Vlana, stai zitta!» Il cipiglio di lei divenne furibondo; poi all'improvviso scoppiò a ridere freneticamente, torcendo le labbra come se stesse per piangere, si controllò e sorrise, più affettuosamente. «Perdonami, tesoro» disse. «Qualche volta tu penserai che sto per impazzire, e qualche volta ne sono convinta io stessa.» «Beh, non pensarci» disse Fafhrd, laconicamente. «Pensa invece alle gemme che ci siamo procurati. E comportati bene con i nostri nuovi amici. Bevi un po' di vino e calmati. Ho intenzione di divertirmi, questa notte. Me lo sono meritato.» Vlana annuì e gli strinse il braccio, come per cercare conforto e lucidità. Allungarono il passo per raggiungere la figura indistinta che li precedeva. Il Mouser svoltò a sinistra e li condusse mezzo isolato più a nord, su Via del Buon Mercato, dove una strada più stretta si dirigeva di nuovo verso est. Là dentro, la nebbia nera sembrava compatta. «Vicolo Buio» spiegò il Mouser. Fafhrd annuì per indicare che lo conosceva. Vlana disse: «Buio è troppo poco... è una parola troppo trasparente per
indicarlo, stanotte.» La sua risata incerta aveva ancora sfumature d'isteria, e terminò con un attacco di tosse soffocante. Quando riuscì a deglutire di nuovo, Vlana ansimò: «Maledetto smog di Lankhmar! Che città diabolica!» «È per la vicinanza della Grande Palude Salata» spiego Fafhrd. Per la verità, la sua risposta era parzialmente vera. Situata a bassa quota tra la Palude, il Mare Interno, il fiume Hlal e i piatti campi di grano meridionale irrigati dai canali alimentati dal Hlal, Lankhmar con i suoi innumerevoli fumi era preda di nebbie e di smog fuligginosi. Non c'era da stupirsi se i suoi cittadini avevano adottato la toga nera come abbigliamento ufficiale. Alcuni sostenevano che in origine la toga era stata bianca o marrone chiaro, ma si anneriva così rapidamente per la fuliggine, richiedendo lavaggi interminabili, che un astuto sovrano aveva ratificato ufficialmente ciò che imponevano la natura e le arti della civiltà. Arrivati a metà distanza dalla Via dei Carrettieri, videro emergere dall'oscurità una taverna, sul lato nord del vicolo. Una figura serpentina di metallo, a fauci aperte, coronata di fuliggine, era appesa in alto, come insegna. I tre passarono davanti a una porta chiusa da una tenda di pelle sudicia, che lasciava filtrare frastuono, luce vacillante di torce, e puzzo di liquori. Appena superata l'Anguilla d'Argento il Mouser li guidò in un androne tenebroso, all'esterno del muro orientale della taverna. Dovettero passare in fila indiana, avanzando a tentoni lungo i ruvidi mattoni resi viscidi dalla nebbia, e tenendosi molto vicini. «Attenti alla pozzanghera» avvertì il Mouser. «È profonda come il Mare Esterno.» L'androne si allargò. La luce riflessa delle torce che filtrava nella nebbia scura permetteva loro di farsi soltanto un'idea vaga del luogo in cui si trovavano. A destra c'era un alto muro privo di finestre. A sinistra, vicino alla parte posteriore dell'Anguilla d'Argento, c'era un edificio fatiscente di mattoni anneriti e di legno scuro e vecchio. A Vlana e a Fafhrd apparve completamente deserto, fino a quando, girando il collo, guardarono la soffitta del terzo piano, sotto il tetto malconcio. Là, linee e punti di luce fievole apparivano intorno a tre finestre dalle fitte sbarre. Più oltre, al di là dello spazio a forma di T in cui si trovavano, c'era uno stretto vicolo. «Vicolo delle Ossa» disse loro il Mouser, in toni piuttosto sdegnosi. «Io lo chiamo Viale delle Immondizie.» «Sento l'odore» disse Vlana.
Ormai, ella e Fafhrd riuscivano a scorgere una scala esterna di legno, lunga e stretta, ripida e vacillante e priva di ringhiera, che saliva alla soffitta illuminata. Il Mouser prese le fiasche dalle braccia di Fafhrd e salì svelto. «Seguitemi quando sono arrivato in cima» avvertì. «Credo che reggerà al tuo peso, Fafhrd, ma è meglio che saliate uno alla volta.» Fafhrd spinse avanti Vlana, gentilmente. Con un'altra risata sfumata d'isteria e una pausa a metà ascesa per un altro attacco di tosse soffocata, la giovane donna raggiunse il Mouser, che ora stava sulla soglia: dalla porta aperta usciva una luce gialla che si spegneva rapidamente nello smog notturno. Il Mouser teneva una mano posata leggermente su un grande gancio reggilampada di ferro battuto, fissato saldamente nella parte in muratura dell'edificio. Si inchinò, scostandosi, e Vlana entrò. Fafhrd salì, posando i piedi il più possibile vicino al muro, pronto ad afferrarsi con le mani a qualche appiglio. La scala scricchiolò minacciosamente e ogni gradino cedette un poco, quando vi posò il suo peso. Quasi in cima, uno cedette, con uno schianto smorzato di legno marcio. Con tutta la delicatezza possibile, Fafhrd si distese con le mani e le ginocchia sul maggior numero di scalini, per distribuire il suo peso, e imprecò in toni sulfurei. «Non agitarti, le fiasche sono sane e salve» gli gridò allegramente il Mouser. Fafhrd concluse la scalata strisciando, con un'espressione piuttosto acida sul volto, e si rialzò in piedi solo quando ebbe varcato la soglia. E quando lo fece, represse a stento un'esclamazione di stupore. Fu come grattar via il verderame da un umile anello d'ottone e scoprire che vi era incastonato un diamante dall'acqua più pura e dal fuoco d'arcobaleno. Ricchi drappi, alcuni scintillanti di ricami d'oro e d'argento, coprivano le pareti, tranne negli spazi occupati dalle finestre... e le imposte erano dorate. Altre stoffe simili, ma più scure, nascondevano il soffitto basso, formando un magnifico baldacchino, in cui le pagliuzze d'oro e d'argento sembravano stelle. Sparsi tutto intorno vi erano morbidi cuscini e tavoli bassi, su cui ardeva una moltitudine di candele. Su scaffali addossati alle pareti erano ammonticchiati, come minuscoli tronchi, altre innumerevoli candele di riserva, rotoli, fiasche, bottiglie e scrignetti smaltati. Un tavolo da toeletta era coronato da uno specchio d'argento, e sul piano erano sparsi gioielli e cosmetici. In un grande camino era sistemata una stufetta metallica dipinta di nero, con un elegante scaldino. Accanto alla stufa stava una
piramide ordinata di sottili torce resinose dalle estremità sfrangiate, che servivano ad accendere il fuoco, e altre piramidi di scope e strofinacci a manico corto, piccoli ceppi di legno e carbone nerolucente. Su di una bassa pedana accanto al camino c'era un ampio divano, dalle gambe corte e dall'alto schienale, coperto di broccato d'oro. Lì sedeva una fanciulla esile e pallida, d'una bellezza delicata, abbigliata d'una veste di pesante seta viola operata d'argento e stretta in vita da una catena d'argento. Le pantofoline erano di candido pelo di serpente delle nevi. Spilloni dalle capocchie d'ametista fissavano i capelli neri raccolti sulla sommità del capo. Sulle spalle della ragazza era drappeggiata una stola d'ermellino. Ella si sporse con grazia un po' inquieta, e tese a Vlana una candida mano sottile che tremava lievemente. Vlana s'inginocchiò davanti a lei, prese con delicatezza la mano offertale e piegò la testa: i suoi lucidi capelli scuri e lisci formarono una specie di baldacchino, mentre lei si portava alle labbra la mano della fanciulla. Fafhrd fu compiaciuto di vedere la sua donna comportarsi adeguatamente in quella situazione così strana e tuttavia deliziosa. Poi, mentre guardava da tergo le lunghe gambe di Vlana, inguainate nelle calze rosse, mentre lei stava inginocchiata, notò che il pavimento era dovunque coperto (in certi punti a due, tre, quattro strati) da spessi tappeti multicolori, splendidi, importati dalle Terre Orientali. Prima ancora che egli se ne rendesse conto, il suo indice si era puntato verso il Gray Mouser. «Sei tu, il Rubatappeti!» proclamò. «Sei tu... e anche il Corsaro delle Candele!» continuò alludendo a due serie di furti non risolti che erano sulle labbra di tutti gli abitanti di Lankhmar da quando lui e Vlana erano arrivati, una luna prima. Il Mouser, impassibile, scrollò le spalle; poi all'improvviso sogghignò, con uno scintillio vivace negli occhi socchiusi, e si lanciò in una danza improvvisata che lo portò piroettando e saltellando tutto intorno alla stanza, e lo lasciò alle spalle di Fafhrd: allora tolse abilmente la sopravveste dalle lunghe maniche e munita di cappuccio dalle spalle un po' curve del barbaro, la scosse, la piegò meticolosamente e la depose su un cuscino. Dopo una lunga pausa carica d'incertezza, la fanciulla vestita di viola batté con la mano libera sul broccato d'oro del divano, e Vlana sedette lì, badando a non mettersi troppo vicino. Le due donne cominciarono a conversare a voce bassa: era Vlana a prendere l'iniziativa, anche se non troppo scopertamente. Il Mouser si tolse il grigio manto con cappuccio, lo piegò quasi con pi-
gnoleria, e lo depose accanto alla sopravveste di Fafhrd. Poi entrambi si sganciarono dalle cinture le spade, e il Mouser le posò sugli indumenti ripiegati. Senza le armi e quegli indumenti ingombranti, i due uomini apparvero all'improvviso molto più giovani: entrambi avevano i volti lisci e ben rasati, entrambi erano snelli, anche se i muscoli delle braccia e dei polpacci di Fafhrd erano poderosi, ed egli aveva lunghi capelli d'oro rosso che gli ricadevano sul dorso e sulle spalle; il Mouser aveva i capelli scuri, tagliati a ciocche più corte; uno portava una tunica di cuoio scura lavorata con filo di rame, l'altro un giustacuore di seta grigia intessuta rozzamente. Si scambiarono un sorriso. La sensazione di essere diventati di colpo due ragazzi rese per la prima volta un po' imbarazzati i loro sorrisi. Il Mouser si schiarì la gola e, con un lieve inchino, ma senza smettere di guardare Fafhrd, tese il braccio per indicare il divano dorato e disse, con una lieve balbuzie iniziale, proseguendo poi con sufficiente disinvoltura: «Fafhrd, mio buon amico, permettimi di presentarti alla mia principessa. Ivrian, mia cara, accogli benignamente Fafhrd, ti prego, perché questa notte lui e io abbiamo combattuto insieme, dorso contro dorso, contro tre avversari, e abbiamo vinto.» Fafhrd si fece avanti, incurvandosi un po', sfiorando con la sommità del capo il baldacchino stellato, e si inginocchiò davanti a Ivrian esattamente come aveva fatto Vlana. La mano sottile che gli veniva porta sembrava più salda, adesso, ma fremeva ancora, appena appena: egli se ne accorse non appena la toccò. La trattò come se fosse stata seta tessuta con il velo del ragno bianco, sfiorandola appena con le labbra, e tuttavia si sentì ancora nervoso mentre mormorava alcune frasi cerimoniose. Non intuì, almeno sul momento, che il Mouser era nervoso quanto lei se non di più, e pregava che Ivrian non esagerasse nel suo ruolo di principessa e snobbasse i suoi ospiti, o crollasse in pianti e tremiti o corresse a rifugiarsi tra le sue braccia o nella stanza vicina, perché Fafhrd e Vlana erano, letteralmente, i primi esseri, umani o animali, nobili, liberi o schiavi, che egli avesse condotto o ammesso nel nido lussuoso da lui creato per la sua aristocratica amata... a eccezione dei due inseparabili che cinguettavano in una gabbia d'argento dall'altra parte del camino. Nonostante la sua furbizia e il suo nuovo cinismo, il Mouser non aveva mai pensato che era soprattutto quel suo incantevole ma assurdo coccolare Ivrian a farla rimanere più simile a una bambola che alla fanciulla potenzialmente coraggiosa e realistica fuggita con lui, quattro lune prima, dalla
camera delle torture del castello di suo padre. Ma poi, mentre finalmente Ivrian sorrideva e Fafhrd le lasciava la mano e indietreggiava cautamente, il Mouser si rilassò, sollevato, prese due coppe e due boccali d'argento, li pulì con una salvietta di seta sebbene non ve ne fosse bisogno, scelse con cura una bottiglia di vino violetto, poi, rivolgendo a Fafhrd un sogghigno, stappò invece una delle fiasche portate dal Nordico, riempì fin quasi all'orlo i quattro recipienti scintillanti, e servì tutti. Dopo essersi schiarito di nuovo la gola, ma questa volta senza tracce di balbuzie, brindò: «Al mio più grande furto commesso finora in Lankhmar, che volente o nolente debbo spartire con...» Non seppe resistere all'impulso improvviso. «Con questo grosso barbaro dai lunghi capelli!» E trangugiò un quarto del suo vino piacevolmente bruciante, fortificato con l'acquavite. Fafhrd ingollò metà del suo vino, poi brindò a sua volta: «Al più vanaglorioso e schizzinoso ometto civile con cui io mi sia mai degnato di spartire un bottino.» Ingollò il resto e con un gran sorriso che gli scoprì i denti candidi tese il boccale vuoto. Il Mouser glielo riempì, colmò il proprio, poi lo depose per avvicinarsi a Ivrian e le rovesciò in grembo, dalla piccola borsa, le gemme che aveva sottratto a Fissif. Le pietre, in quella nuova invidiabile posizione, scintillarono come una minuscola pozza di mercurio iridato. Ivrian arretrò tremando, e per poco non le fece cadere, ma Vlana le afferrò delicatamente il braccio, trattenendola, e si piegò sulle gemme con un'esclamazione gutturale di stupore e di ammirazione, volse lentamente un'occhiata d'invidia sulla fanciulla pallida; quindi cominciò a bisbigliarle all'orecchio, con fare incalzante ma sorridendo. Fafhrd si rese conto che in quel momento Vlana stava recitando, ma recitava bene e in modo efficace, poiché poco dopo Ivrian prese ad annuire con convinzione e poi cominciò a mormorare sottovoce a sua volta. Seguendo le istruzioni di lei, Vlana prese uno scrignetto di smalto azzurro intarsiato d'argento e, insieme, le due giovani donne trasferirono le gemme dal grembo di Ivrian all'interno foderato di velluto azzurro. Poi Ivrian depose lo scrignetto accanto a sé: e ripresero a parlottare. Mentre vuotava il secondo boccale a sorsi più moderati, Fafhrd si rilassò e cominciò a rendersi conto più chiaramente dell'ambiente in cui si trovava. Lo stupore abbacinante che aveva provato nel vedere quella sala del trono in un tugurio, quel lusso coloratissimo intensificato dal contrasto con
il buio, il fango, il viscidume e la scala marcia e il Viale dell'Immondizia che stavano fuori, cominciò a svanire, ed egli cominciò a notare lo squallore e la putredine che permanevano al di sotto di quel rivestimento sontuoso. Il legno nero e marcio, il legno secco e screpolato spuntavano qua e là tra i drappi ed esalavano i loro antichi odori nauseanti. Il pavimento cedeva, sotto i tappeti: quasi di una spanna, al centro della stanza. Un grosso scarafaggio scendeva da un drappo operato d'oro, un altro avanzava verso il divano. Spire sottili di smog notturno si insinuavano tra le imposte, formando evanescenti arabeschi neri contro lo sfondo dorato. Le pietre del grande camino erano state raschiate e verniciate, eppure quasi tutta la calce che le teneva unite era scomparsa: alcune erano malferme, e altre mancavano. Il Mouser aveva preparato la stufa. Infilò all'interno la sottile torcia giallognola che aveva acceso nel portafuoco, chiuse lo sportello nero mentre le fiamme salivano, e tornò a voltarsi. Come se avesse letto nella mente di Fafhrd, prese alcuni coni d'incenso, ne accese le punte con il portafuoco, e li dispose qua e là per la stanza dentro lucenti ciotole di bronzo... e nel frattempo calpestò uno degli scarafaggi, afferrò l'altro e lo schiacciò nel pugno. Poi infilò stracci di seta nelle crepe più grandi delle imposte, riprese il boccale d'argento, e per il momento lanciò a Fafhrd uno sguardo duro, come sfidandolo a pronunciare una sola parola contro quella deliziosa e tuttavia vagamente ridicola casa delle bambole che aveva preparato per la sua principessa. Dopo un attimo riprese a sorridere, e alzò il boccale verso Fafhrd, che subito lo imitò. La necessità di riempire i bicchieri li fece avvicinare di nuovo. Muovendo appena le labbra, il Mouser spiegò sottovoce: «Il padre di Ivrian era un duca. Io l'ho ucciso, con la magia nera, credo, mentre mi faceva torturare a morte. Era un uomo crudelissimo, crudele anche con la figlia, e tuttavia era un duca, perciò Ivrian non è abituata a badare a se stessa. Posso vantarmi di mantenerla con un lusso maggiore di quanto avesse mai fatto suo padre, nonostante tutti i suoi servi e le sue cameriere.» Trattenendosi dall'esprimere le critiche ispirategli immediatamente da quell'atteggiamento e da quel programma, Fafhrd annuì e disse in tono amabile: «Senza dubbio con i tuoi furti hai creato un piccolo palazzo delizioso, degno in tutto del sovrano di Lankhmar, Karstak Ovartamortes, o del Re dei Re, insediato a Tisilinilit.» Dal divano, Vlana chiamò, con la sua gutturale voce di contralto: «Gray
Mouser, la tua principessa vorrebbe udire il racconto dell'avventura di questa notte. E potremmo avere un altro po' di vino?» Ivrian confermò: «Sì, ti prego, Mouse.» Fremendo quasi impercettibilmente nell'udire quel vecchio nomignolo, il Mouser guardò Fafhrd per chiederne l'approvazione, ricevette un cenno di risposta, e si lanciò nel suo racconto. Ma prima servì il vino alle donne. Non ce n'era abbastanza per le loro coppe, perciò aprì un'altra fiasca e, dopo un istante di riflessione, le stappò tutte e tre, deponendone una accanto al divano, una vicino a Fafhrd che si era sdraiato sui morbidi tappeti, e riservandone una per sé. Ivrian spalancò gli occhi con aria apprensiva, di fronte a quel segnale foriero di una solenne bevuta, Vlana assunse un'espressione cinica sfumata di collera: ma nessuna delle due espresse critiche ad alta voce. Il Mouser raccontò alla perfezione la storia del controfurto, mimandola in parte, e abbellendola con un'aggiunta molto artistica (il furetto-uistitì, prima di scappare, gli si era arrampicato sulla schiena e aveva cercato di strappargli gli occhi); e venne interrotto due volte soltanto. Quando disse «E così, con un guizzo e uno scatto ho sfoderato il Cesello...» Fafhrd osservò: «Oh, quindi hai dato un soprannome alla tua spada, non solo a te stesso?» Il Mouser si raddrizzò. «Sì, e chiamo il mio stiletto Zampino di Gatto. Qualche obiezione? Ti sembra una puerilità?» «No, affatto. Io chiamo Astagrigia la mia spada. Tutte le armi, a modo loro, sono vive, civili e degne d'un nome. Continua, ti prego.» E quando egli parlò della bestiola d'incerta natura che accompagnava i ladri (e che aveva cercato di strappargli gli occhi!), Ivrian impallidì e disse, con un brivido: «Mouser! Si direbbe che fosse il familiare d'una strega!» «D'uno stregone» la corresse Vlana. «Quei vigliacchi della Corporazione non vogliono saperne delle donne, se non come strumenti prezzolati o forzati della loro lussuria. Ma Krovas, il loro re attuale, sebbene sia superstizioso, ha fama di prendere sempre tutte le precauzioni, ed è possibile che abbia uno stregone al suo servizio.» «Mi sembra molto probabile; e questo mi spaventa» ammise il Mouser con uno sguardo minaccioso e un tono sinistro. In realtà non credeva a ciò che diceva (era preoccupato quanto una foresta vergine); tuttavia, era pronto ad accettare tutto ciò che poteva caricare l'atmosfera del suo racconto. Quando ebbe terminato, le due donne, con gli occhi lampeggianti d'orgoglio e di tenerezza, brindarono a lui e a Fafhrd per la loro astuzia e per il
loro coraggio. Il Mouser s'inchinò e sorrise con gli occhi che brillavano, poi si sdraiò con un sospiro di stanchezza, asciugandosi la fronte con un fazzoletto di seta e ingollando un gran sorso. Dopo aver chiesto il permesso di Vlana, Fafhrd narrò l'avventurosa vicenda della loro fuga da Cantuccio Freddo... dove lui aveva abbandonato il suo clan, Vlana la sua compagnia. Poi narrò il viaggio verso Lankhmar, dove ora alloggiavano in una casa riservata agli attori, non lontano dalla Piazza delle Delizie Tenebrose. Ivrian si strinse a Vlana e rabbrividì, sbarrando gli occhi, nell'udire le parti riguardanti le stregonerie... Fafhrd ebbe l'impressione che rabbrividisse di delizia non meno che di paura. Disse a se stesso che, ovviamente, una bamboletta come quella doveva amare le storie di spettri; ma si chiese se il suo piacere sarebbe stato altrettanto intenso, se avesse saputo che le sue storie di spettri erano assolutamente vere. Ivrian sembrava vivere in un mondo d'immaginazione... e anche questo, ne era certo, almeno in parte era opera del Mouser. L'unico particolare che Fafhrd omise dal suo racconto fu l'idea fissa, da parte di Vlana, di vendicarsi orribilmente della Corporazione dei Ladri che aveva torturato a morte i suoi complici e l'aveva costretta a fuggire da Lankhmar, quando aveva cercato di darsi al furto indipendente nella città, usando come copertura la sua attività di mima. E naturalmente non parlò della propria promessa, che ora gli sembrava molto sciocca, di aiutarla un quell'impresa sanguinosa. Quando ebbe terminato e riscosso il suo applauso, si accorse di avere la gola secca, nonostante il suo allenamento da scaldo; ma quando cercò di inumidirsela, scoprì che il boccale era vuoto, e anche la fiasca, sebbene egli non si sentisse affatto alticcio; parlando si era liberato degli effetti del liquore, si disse: una goccia era fuggita via in ognuna delle parole ardenti che egli aveva pronunciato. Il Mouser si trovava in una situazione analoga, e anch'egli non era alticcio... sebbene si sentisse incline a indugiare misteriosamente e a guardare nell'infinito prima di rispondere a una domanda o di pronunciare un'osservazione. Questa volta, dopo una contemplazione dell'infinito particolarmente prolungata, propose a Fafhrd di accompagnarlo all'Anguilla d'Argento per provvedere ai rifornimenti. «Ma nella nostra fiasca è rimasto ancora molto vino» protestò Ivrian. «O almeno un poco» si corresse. Quando Vlana agitò il recipiente, suonò a vuoto. «Inoltre, qui c'è vino di tutti i tipi.» «Ma non di questo, carissima, e la prima regola è non mischiarli mai»
spiegò il Mouser, agitando un dito. «Quella è una via che conduce al malessere, sì, e alla follia.» «Mia cara» disse Vlana, accarezzando con fare comprensivo il polso di Ivrian «prima o poi, in una festa che sia davvero una festa, gli uomini che sono uomini debbono uscire. È estremamente stupido: ma sono fatti così e, credimi, non si può evitarlo.» «Ma, Mouse, ho paura. Il racconto di Fafhrd mi ha atterrito. E anche il tuo... sentirò quel familiare nero dalla testa grossa e dall'aspetto di ratto grattare alle imposte quando tu sarai assente, ne sono sicura!» Fafhrd ebbe l'impressione che non fosse affatto impaurita, e che si divertisse a spaventarsi e a dimostrare il suo potere sull'uomo amato. «Carissima» disse il Mouser con un lieve singhiozzo «qui c'è tutto il Mare Interno, tutta la Terra delle Otto Città, e per giunta tutti i Monti dei Troll nella loro solenne grandiosità, tra te e gli spettri gelidi di Fafhrd o... perdonami, mio camerata, ma può darsi che sia così... le sue allucinazioni frammiste alle coincidenze. In quanto ai familiari... puah! Non sono mai stati altro che gli schifosi, fin troppo naturali animali domestici di vecchie puzzolenti e di vecchi effeminati.» «L'Anguilla d'Argento è a un passo da qui, Dama Ivrian» disse Fafhrd. «E tu avrai accanto la mia cara Vlana, che ha ucciso il mio peggior nemico scagliando il pugnale che porta ancora con sé.» Con un'occhiata a Fafhrd che non durò più di un batter di ciglia, ma che esprimeva "Che razza di modo per rassicurare una fanciulla impaurita!", Vlana disse gaiamente: «Lasciamo andare questi sciocconi, mia cara. Così potremo parlare in privato, e li faremo a pezzi, dalla testa invasa dai fumi del vino fino ai piedi troppo irrequieti.» Ivrian si lasciò convincere e il Mouser e Fafhrd sgattaiolarono via, affrettandosi a chiudere la porta per non far entrare lo smog notturno. Dall'interno si udirono chiaramente i loro passi rapidi, giù per la scala. Vi furono fievoli cigolii e scricchiolii di vecchio legno, ma nessun altro suono di gradini che si spezzavano o di altre disavventure. Mentre attendevano che portassero loro dalla cantina altre quattro fiasche, i due nuovi camerati ordinarono un boccale a testa dello stesso vino fortificato, o di uno molto simile, e si accomodarono all'estremità meno rumorosa del lungo banco, nella taverna tumultuosa. Il Mouser sferrò destramente un calcio a un ratto che si era affacciato dalla tana. Dopo che si furono scambiati complimenti entusiastici, l'uno per la donna dell'altro, Fafhrd disse in tono diffidente: «Detto tra noi, pensi che possa
esservi qualcosa di vero nell'idea della tua dolce Ivrian che il piccolo essere scuro insieme a Slivikin e all'altro ladro fosse il familiare d'uno stregone, o almeno l'astuto animale domestico di un incantatore, addestrato a fungere da collegamento e a riferire gli eventuali disastri al suo padrone o a Krovas, o a entrambi?» Il Mouser rise, disinvolto. «Tu stai fabbricando dal nulla orsi mannari informi e inaccessibili alla logica, caro fratello barbaro, se così posso esprimermi. In primis, non abbiamo la certezza che la bestiola avesse qualche legame con i ladri della Corporazione. Può darsi che fosse un gattino smarrito o un grosso ratto temerario... come questo maledetto!» Sferrò un altro calcio. «Ma, secundus, ammettendo che fosse la creatura d'uno stregone al soldo di Krovas, come potrebbe fare un rapporto informativo? Non credo agli animali parlanti, eccettuati i pappagalli e altri uccelli che si limitano a ripetere ciò che odono; né a bestie che conoscano un complesso linguaggio dei segni comprensibili agli uomini. O forse tu immagini che quella bestiola sappia intingere la zampetta in un calamaio e scriva il suo rapporto su di una pergamena distesa sul pavimento? «Ehi, là, tu al banco? Dove sono le mie fiasche? I ratti hanno divorato il ragazzo che è sceso a prenderle qualche giorno fa? Oppure egli è semplicemente morto di fame mentre compiva la sua ricerca in cantina? Bene, digli di sbrigarsi, e nel frattempo, mescici altro vino! «No, Fafhrd, anche ammettendo che la bestiola fosse, direttamente o indirettamente, una creatura di Krovas, e che sia corsa alla Casa dei Ladri dopo la nostra imboscata, che cosa potrebbe raccontare? Solo che il furto a casa di Jengao è andato male. E questo lo sospetterebbero comunque, notando che i ladri e i bravi tardano a ritornare.» Fafhrd aggrottò la fronte e borbottò, ostinatamente: «Quel furbacchione peloso, comunque, potrebbe descrivere il nostro aspetto ai maestri della Corporazione, e questi potrebbero riconoscerci e venirci a cercare e attaccarci in casa. Oppure potrebbero farlo Slivikin e il suo grasso compagno, dopo aver ripreso i sensi.» «Mio caro amico» disse in tono di commiserazione il Mouser «implorando di nuovo la tua indulgenza, temo che questo vino così potente confonda il tuo acume. Se la Corporazione conoscesse il nostro aspetto o il luogo in cui alloggiamo, ci sarebbe balzata alla gola rabbiosamente già da giorni, settimane, anzi mesi. Oppure forse non sai che la punizione prevista per i furti indipendenti o non ordinati entro le mura di Lankhmar e per un raggio di tre leghe intorno è la morte, dopo torture, se è possibile?»
«So tutto questo, e la mia situazione è ancora peggiore della tua» replicò Fafhrd, e dopo essersi fatto promettere dal Mouser che avrebbe serbato il segreto, gli raccontò la storia della progettata vendetta di Vlana contro la Corporazione, e i suoi sogni pericolosi. Durante il racconto, le quattro fiasche arrivarono dalla cantina, ma il Mouser ordinò semplicemente di riempire di nuovo i loro boccali di terracotta. Fafhrd concluse: «E così, in conseguenza di una promessa formulata da un ragazzo infatuato e inesperto in un cantuccio meridionale delle Solitudini Fredde, io mi trovo ora, uomo sobrio (beh, in altre occasioni), a venire continuamente esortato a guerreggiare contro una potenza non inferiore a quella di Karstak Ovartamortes, poiché, come forse tu sai, la Corporazione ha filiali in tutte le altre città e nei centri principali di questa terra, per non parlare poi degli accordi di estradizione con le organizzazioni dei rapinatori e dei banditi in tutti gli altri paesi. Io amo teneramente Vlana, non credere, e anche lei è una ladra esperta, senza il cui insegnamento non sarei riuscito a sopravvivere durante la prima settimana trascorsa a Lankhmar: ma a questo proposito lei ha un chiodo fisso nel cervello, un nodo inestricabile che la logica e la persuasione non possono sciogliere. E io... bene, durante il mese trascorso qui ho imparato che l'unico modo per sopravvivere nella civiltà consiste nell'obbedire alle sue leggi non scritte, molto più importanti di quelle incise nella pietra, e nel violarle soltanto in caso di pericolo, con la massima segretezza, e prendendo tutte le precauzioni. Come ho fatto questa notte... non era la mia prima rapina, tra l'altro.» «Certo sarebbe follia assaltare direttamente la Corporazione, in questo hai ragione» commentò il Mouser. «Se non riesci a distogliere la tua bellissima donna da questa pazza idea, e io mi sono accorto che è intrepida e dotata di volontà fortissima... allora devi fermamente rifiutarti di ottemperare alle sue richieste in questo senso.» «Certamente» convenne Fafhrd, e aggiunse, in tono vagamente accusatorio: «Benché mi risulti che tu le abbia detto che saresti stato lieto di tagliare la gola ai due ladri da noi messi fuori combattimento.» «Semplice cortesia, uomo! Vorresti forse che mi fossi comportato sgarbatamente con la tua ragazza? Ciò deve darti un'idea dell'importanza che già fin d'ora attribuisco alla tua benevolenza. Ma una donna può essere contrastata soltanto dal suo uomo. E tu devi farlo, in questo caso.» «Certamente» ripeté Fafhrd, con grande enfasi e convinzione. «Sarei un idiota, se mi mettessi contro la Corporazione. Certo, se quelli mi prendes-
sero, mi ucciderebbero comunque per furto indipendente e rapina ai danni dei loro compagni. Ma attaccare direttamente la Corporazione, uccidere senza necessità un ladro iscritto... sarebbe una pazzia!» «Non saresti soltanto un idiota ubriaco... fra tre notti al massimo saresti la vittima puzzolente dell'imperatrice di tutte le malattie, la Morte. Per gli attacchi maliziosi, per i colpi sferrati all'organizzazione, la Corporazione pretende un prezzo dieci volte più alto di quello che esige per la semplice infrazione delle altre regole. Tutte le rapine in programma e gli altri furti verrebbero sospesi, e tutte le forze della Corporazione e dei suoi alleati verrebbero mobilitate contro te solo. Direi che avresti maggiori possibilità se affrontassi da solo l'esercito del Re dei Re, che se sfidassi gli astuti membri della Corporazione dei Ladri. Considerando la tua statura, la tua forza fisica e la tua intelligenza, tu vali un'intera squadra, magari una compagnia, ma non certamente un esercito. Quindi, non devi cedere minimamente a Vlana, in questa faccenda.» «Ne convengo!» esclamò a voce alta Fafhrd, serrando la mano ferrea del Mouser in una stretta quasi stritolante. «E adesso dovremmo tornare dalle nostre donne» disse il Mouser. «Dopo un'altra bevuta, mentre paghiamo il conto. Ehi, ragazzo!» «Benissimo.» Il Mouser si frugò nella borsa per pagare, ma Fafhrd protestò energicamente. Alla fine gettarono in aria una moneta per decidere; vinse Fafhrd e, con grande soddisfazione, fece tintinnare gli smerduk d'argento sul banco graffiato e macchiato, segnato da un numero infinito di cerchi lasciati dai boccali, come se fosse stato un tempo la scrivania di un geometra pazzo. Si alzarono, e il Mouser sferrò un ultimo calcio alla tana del ratto. Nel vedere quella scena, i pensieri di Fafhrd descrissero un circolo vizioso. Egli disse: «D'accordo che la bestiola non sa scrivere con la zampa, né parlare con la bocca o con le zampe: tuttavia, potrebbe averci seguito da lontano: potrebbe aver individuato la tua abitazione, e poi potrebbe essere tornata alla Casa dei Ladri per condurre i suoi padroni sulle nostre tracce, come un segugio.» «Adesso, finalmente, riprendi a parlare in modo sensato» disse il Mouser. «Ehi, ragazzo, un secchio di birra leggera da portar via! Subito!» Notando lo sguardo stupito di Fafhrd, spiegò: «La verserò davanti all'ingresso dell'Anguilla per distruggere il nostro odore, e poi lungo il vicolo. Sì, e la getterò anche in alto, contro i muri.» Fafhrd annuì, saggiamente. «Pensavo di avere bevuto troppo.»
Vlana e Ivrian, immerse in una conversazione eccitata, sussultarono nell'udire i tonfi precipitosi dei passi sulla scala. Due colossi lanciati a corsa difficilmente avrebbero fatto più baccano. Gli scricchiolii e i cigolii erano prodigiosi, e vi fu lo schianto di due gradini che si spezzavano: tuttavia i passi tonanti non indugiarono mai. La porta si spalancò e i due uomini piombarono nella stanza attraverso un gran fungo di smog notturno, prontamente stroncato dallo sbattere della porta. «Ti avevo detto che saremmo tornati in un batter d'occhio» gridò gaiamente il Mouser a Ivrian, mentre Fafhrd avanzava a grandi passi, senza curarsi degli scricchiolii del pavimento, esclamando: «Cuor mio, ho sentito terribilmente la tua mancanza!» Sollevò Vlana, nonostante le proteste e i tentativi di respingerlo inscenati da lei e la baciò e l'abbracciò ancora prima di tornare a deporla sul divano. Stranamente, fu Ivrian a mostrarsi incollerita nei confronti di Fafhrd, anziché Vlana, che sorrideva affettuosamente, con l'aria un po' stordita. «Fafhrd, signore» disse con fermezza Ivrian, con i pugni minuti piantati sui fianchi snelli, il mento alto, gli occhi scuri che sfolgoravano. «La mia carissima Vlana mi ha parlato delle indicibili atrocità commesse dalla Corporazione dei Ladri contro di lei e i suoi amici più cari. Perdonami se ti parlo con tanta franchezza dopo averti appena conosciuto, ma ritengo sia indegno di un uomo rifiutare la giusta vendetta che ella desidera e pienamente merita. E ciò vale anche per te, Mouser, che ti sei vantato con Vlana di ciò che avresti fatto se l'avessi saputo, e che in un caso simile non ti sei fatto scrupolo di uccidere per le sue crudeltà mio padre... o presunto tale!» Fafhrd si rese conto immediatamente che, mentre lui e il Gray Mouser si rimpinzavano oziosamente di liquore all'Anguilla d'Argento, Vlana aveva fatto a Ivrian un resoconto indubbiamente sovraccaricato dei suoi motivi di odio verso la Corporazione dei Ladri, approfittando spietatamente delle romantiche, libresche simpatie di quella fanciulla ingenua e del suo alto concetto dell'onore cavalleresco. Inoltre, gli appariva evidente che Ivrian fosse discretamente ebbra. Sul tavolino accanto alle due donne c'era una bottiglia di vino violetto della lontana Kiraay, vuota per tre quarti. Tuttavia, non seppe far altro che allargare impotente le grosse mani e chinare il capo più di quanto glielo imponesse il soffitto basso, sotto lo sguardo di Vlana! Dopotutto, avevano ragione quelle due. Lui aveva promesso. Perciò fu il Mouser che tentò per primo di obiettare. «Suvvia, cocca» esclamò con leggerezza, aggirandosi a passo di danza
nella sala, tappando con pezzi di seta altre fessure per impedire allo smog di penetrare e alimentando il fuoco nella stufa. «E anche tu, bellissima dama Vlana. Per tutto il mese scorso, Fafhrd ha colpito i ladri della Corporazione nel punto più sensibile... nelle borse che ora penzolano vuote tra le loro gambe. Sottraendo loro il bottino delle ruberie, ha sferrato altrettanti calci dolorosi ai loro inguini. E questo li fa soffrire, credetemi, assai più che derubarli della vita con un affondo o un fendente rapido e quasi indolore. E questa notte io l'ho aiutato in tale degna impresa... e tornerò a farlo con il massimo zelo. Suvvia, beviamo.» Fece saltare il tappo di una fiasca e si precipitò a riempire fino all'orlo le coppe e i boccali d'argento. «Una vendetta degna d'un mercante!» ribatté Ivrian in tono di disprezzo, per nulla placata, anzi ancora più indignata. «Eppure siete entrambi, in fondo, fedeli e gentili cavalieri, lo so, nonostante le vostre mancanze attuali. Come minimo, dovete portare a Vlana la testa di Krovas!» «E che se ne farebbe? A cosa le servirebbe, se non a macchiare i tappeti?» chiese il Mouser in tono lamentoso, mentre Fafhrd, recuperando finalmente la presenza di spirito e piegando un ginocchio sul pavimento, disse lentamente: «Rispettatissima Dama Ivrian, è vero che ho fatto promessa solenne alla mia amata Vlana di aiutarla a vendicarsi: ma ciò è avvenuto quando ero ancora nel barbarico Cantuccio Freddo, dove le faide di sangue sono abituali, sanzionate dalla consuetudine e accettate da tutti i clan, le tribù e le confraternite dei selvaggi Nordici delle Solitudini Fredde. Nella mia ingenuità, pensavo che la vendetta di Vlana fosse di questo tipo. Ma qui, nella civiltà, ho scoperto che tutto è diverso, e che le regole e le tradizioni sono sovvertite. Eppure, a Lankhmar o a Cantuccio Freddo, bisogna aver l'aria di osservare le regole e le tradizioni per sopravvivere. Qui il danaro è onnipotente, è un idolo collocato sul piedistallo più alto, sia che si debba sudare, rubare, opprimere gli altri o intrigare per averlo. Qui le faide e le vendette sono al di fuori di ogni regola, e vengono punite peggio della follia violenta. Pensa, Dama Ivrian, se Mouser e io portassimo a Vlana la testa di Krovas, lei e io dovremmo fuggire immediatamente da Lankhmar, e ogni mano d'uomo si leverebbe contro di noi; e tu, infallibilmente, perderesti questo regno che Mouser ha creato per amor tuo, e saresti a tua volta costretta a fuggire, insieme a lui, ridotti entrambi a mendicanti fuggiaschi per tutto il resto della vita.» Era un ragionamento perfetto ed esposto benissimo... e non servì a nulla. Mentre Fafhrd parlava, Ivrian prese la coppa appena riempita e la vuotò. Poi si levò, eretta come un soldato, con il volto pallido arrossato, e disse in
tono mordente a Fafhrd che le stava davanti inginocchiato: «Tu pensi al prezzo! Tu parli di cose...» Agitò la mano per indicare gli splendori multicolori che l'attorniavano. «Mi parli di semplici averi, per quanto preziosi, quando è in gioco l'onore. Hai dato a Vlana la tua parola. Oh, la cavalleria è dunque morta? E questo vale anche per te, Mouse, tu che hai giurato che avresti tagliato la gola a due miserabili ladri della Corporazione.» «Non l'ho affatto giurato» obiettò debolmente il Mouser, trangugiando una grande sorsata. «Ho detto solo che avrei voluto farlo.» Fafhrd si limitò a scrollare le spalle e a trangugiare un sorso dal boccale d'argento, per calmarsi: perché Ivrian parlava con gli stessi toni accusatori e usava gli stessi argomenti femminili, ingiusti ma strazianti, che avrebbe potuto usare sua madre Mor, o Mara, la fidanzata e promessa sposa del Clan delle Nevi che egli aveva abbandonato, e che ora portava in grembo suo figlio. Con un tocco magistrale, Vlana cercò delicatamente di far sedere Ivrian sul divano dorato. «Calmati, carissima» supplicò. «Tu hai parlato nobilmente per me e per la mia causa e, credimi, ti sono infinitamente grata. Le tue parole hanno fatto rivivere in me sentimenti grandi e splendidi spenti da molti anni. Ma tra tutti noi, qui, tu sola sei una vera aristocratica, sensibile ai principii più eletti. Noi tre non siamo altro che ladri. C'è da stupirsi se alcuni di noi antepongono la sicurezza all'onore e al rispetto della parola data, e prudentemente evitano di porre a repentaglio le nostre vite? Perciò, ti prego, non parlare più d'onore e di intrepido coraggio ma siediti e...» «Vuoi dire che entrambi hanno paura di sfidare la Corporazione dei Ladri, non è vero?» chiese Ivrian, con gli occhi spalancati e il volto alterato dal disgusto. «Avevo sempre pensato che il mio Mouse fosse prima un gentiluomo e poi un ladro. Rubare è cosa da nulla. Mio padre viveva derubando crudelmente i ricchi viaggiatori e i vicini meno potenti di lui, eppure era un aristocratico. Oh, siete entrambi codardi! Vigliacchi!» concluse, volgendo gli occhi lampeggianti di freddo sdegno prima su Mouser e poi su Fafhrd. Questi non resistette più. Balzò in piedi, rosso in viso, i pugni stretti, dimenticando il boccale che si era rovesciato e il minaccioso scricchiolio che il suo movimento brusco aveva provocato nel pavimento malfermo. «Non sono un vigliacco!» gridò. «Sfiderò la Casa dei Ladri e ti porterò la testa di Krovas e la getterò sgocciolante di sangue ai piedi di Vlana. Lo giuro, siimi testimone tu, Kos, dio del destino, per le ossa brune di mio padre Nalgron e per la sua spada Astagrigia che mi sta al fianco!» Batté la mano sull'anca sinistra, non trovò altro che la tunica, e dovette
accontentarsi di indicare, con il braccio tremante, la cintura e la spada deposte sulla sopravveste meticolosamente ripiegata... Poi riprese il boccale, lo riempì facendone schizzare il vino, e lo vuotò. Il Gray Mouser prese a ridere in toni acuti, deliziati e intonati. Tutti lo fissarono. Egli si avvicinò a Fafhrd a passo di danza e, sorridendo ancora, fece: «Perché no? Chi dice di temere i ladri della Corporazione? Chi si sente sconvolto alla prospettiva di questa impresa ridicolmente facile, quando sappiamo benissimo che tutti, anche Krovas e la sua cricca dominante, non sono altro che pigmei, come intelligenza e astuzia, di fronte a me e a Fafhrd? Mi è appena venuto in mente un piano meravigliosamente semplice e infallibile per penetrare nella Casa dei Ladri, e nei suoi luoghi più segreti. Il valente Fafhrd e io lo metteremo subito in atto. Sei con me, Nordico?» «Naturalmente» rispose burbero Fafhrd, mentre si chiedeva freneticamente quale demenza si fosse impadronita dell'ometto. «Datemi qualche battito di cuore per raccogliere il materiale necessario, e partiremo!» gridò il Mouser. Prese da uno scaffale un robusto sacco, lo spiegò, poi cominciò ad aggirarsi velocissimo, cacciandovi dentro rotoli di corda, bende, stracci, barattoli di unguenti e di pomate e altri oggetti. «Ma non potete andare questa notte» protestò Ivrian, improvvisamente pallida e incerta. «Non siete... in condizioni di farlo.» «Siete entrambi ubriachi» disse aspramente Vlana. «Ubriachi fradici... e così non otterrete nulla, nella Casa dei Ladri, tranne la vostra morte. Fafhrd, dov'è la lucidità spietata con cui hai ucciso o visto uccidere senza batter ciglio quel gruppo di possenti rivali e mi hai conquistato a Cantuccio Freddo e nelle profondità gelide del Canyon dei Troll, intessute di stregoneria? Falla rivivere in te! E infondine un po' nel tuo saltellante amico grigio.» «Oh, no» le disse Fafhrd, affibbiandosi la spada. «Tu volevi ai tuoi piedi la testa di Krovas in una gran pozza di sangue, ed è ciò che avrai, ti piaccia o no!» «Calma, Fafhrd» interruppe il Mouser, arrestandosi all'improvviso e tirando i cordini del sacco. «E calmatevi anche voi, Dama Vlana, mia cara principessa. Questa notte mi propongo di compiere solo una ricognizione. Nessun rischio: acquisiremo solo le informazioni necessarie per pianificare il colpo mortale, domani o dopo. Perciò, niente teste mozze questa notte, Fafhrd, mi hai sentito? Qualunque cosa accada, la parola d'ordine è silenzio. E indossa la sopravveste con il cappuccio.»
Fafhrd alzò le spalle, annuì, e obbedì. Ivrian sembrava piuttosto sollevata, e anche Vlana; tuttavia questa disse: «Comunque, siete entrambi ubriachi.» «Tanto meglio!» le assicurò il Mouser con un sorriso folle. «Il bere può rallentare il braccio che impugna la spada e attenuare i colpi, ma accende l'intelligenza di un uomo e la sua immaginazione, e queste sono le qualità che ci serviranno questa notte. Inoltre» proseguì in fretta, interrompendo Ivrian che stava per esprimere qualche dubbio «gli ubriachi sono supremamente guardinghi! Hai mai visto un ubriaco barcollante riprendersi di colpo alla vista delle guardie e passare oltre con modi circospetti e senza far rumore?» «Sì» disse Vlana «e cadere lungo disteso appena arriva davanti a loro.» «Puah!» ribatté il Mouser e, gettando la testa all'indietro, avanzò grandiosamente verso di lei, lungo un'immaginaria linea retta. Subito inciampò nel proprio piede, piombò in avanti, e all'improvviso, senza toccare il pavimento, eseguì un'incredibile capriola, e atterrò eretto e senza far rumore davanti alle due donne, flettendo le dita dei piedi, le caviglie e le ginocchia al momento esatto per assorbire l'impatto. Il pavimento scricchiolò appena. «Visto?» chiese, raddrizzandosi e vacillando inaspettatamente all'indietro. Incespicò sul cuscino su cui stavano il suo mantello e la sua spada, ma con una violenta torsione e un balzo rimase ritto e cominciò rapidamente a bardarsi. Nel frattempo, Fafhrd provvide silenziosamente e rapidamente a riempire ancora una volta il suo boccale e quello del Mouser, ma Vlana se ne accorse e gli lanciò una tale occhiataccia che egli posò i boccali e la fiasca stappata con tale velocità da far turbinare la sopravveste; poi si scostò dal tavolo dei rinfreschi con una rassegnata scrollata di spalle e avanzò verso Vlana con una smorfia. Il Mouser si gettò il sacco sulla spalla e spalancò la porta. Con un disinvolto saluto alle due donne, ma senza dire una parola, Fafhrd uscì sulla piccola veranda. Lo smog era divenuto così fitto che egli quasi scomparve. Il Mouser agitò quattro dita per salutare Ivrian, le disse sottovoce «Addio, Misling» e seguì Fafhrd. «Buona fortuna a voi» esclamò di slancio Vlana. «Oh, sii prudente. Mouse» ansimò Ivrian. Il Mouser, una figura esile sullo sfondo della massa incombente di Fafhrd, chiuse la porta in silenzio. Abbracciandosi automaticamente, le giovani donne attesero l'inevitabile
scricchiolio dei gradini. Ma stavolta si fece attendere. Lo smog notturno che era penetrato nella stanza si dissipò, e il silenzio perdurò, intatto. «Cosa staranno facendo, là fuori?» mormorò Ivrian. «Decidono sul da farsi?» Con una smorfia impaziente, Vlana scosse il capo, poi si svincolò, si avvicinò in punta di piedi alla porta, l'aprì, scese senza far rumore alcuni scalini che scricchiolarono lamentosamente, e tornò indietro, chiudendosi la porta alle spalle. «Se ne sono andati» disse in tono stupito, spalancando gli occhi, tenendo le mani un po' scostate dai fianchi, a palme in su. «Ho paura!» sussurrò Ivrian, e attraversò correndo la stanza per abbracciare la nuova amica. Vlana la strinse a sé, poi liberò un braccio e tirò i tre pesanti chiavistelli. Nel Vicolo delle Ossa, il Mouser ripose nella borsa la corda a nodi con cui si erano calati dal gancio della lampada. Poi propose: «Che ne diresti di una sosta all'Anguilla d'Argento?» «Vuoi dire che dovremmo fermarci lì e raccontare alle ragazze che siamo andati nella Casa dei Ladri?» chiese Fafhrd, senza eccessiva indignazione. «Oh, no» protestò il Mouser. «Ma tu non hai bevuto il bicchiere della staffa, e neppure io.» Nel pronunciare la parola «staffa», abbassò lo sguardo sugli stivali di pelle di ratto e poi, curvandosi un po', cominciò a galoppare da fermo: le suole risuonavano sommessamente sui ciottoli. Tirò le redini immaginarie (Arri-oh!) e affrettò il galoppo, ma poi, inclinandosi bruscamente all'indietro, si fermò (Evviva!), quando con un sorriso astuto Fafhrd estrasse dalla sopravveste due fiasche piene. «Le ho prelevate quando ho posato i boccali. Vlana vede molte cose, ma non tutto.» «Sei un uomo prudente e lungimirante, oltre che piuttosto abile nella scherma» disse con ammirazione il Mouser. «Sono fiero di chiamarti mio camerata.» Ognuno di loro stappò una fiasca e bevve un sorso rincuorante. Poi il Mouser si diresse verso ovest: zigzagavano e incespicavano solo un poco. Non arrivarono a Via del Buon Mercato, comunque, ma svoltarono a nord in un vicolo ancora più stretto e fetido. «Corte della Peste» disse il Mouser. Fafhrd annuì. Dopo molte sbirciate preliminari, essi attraversarono rapidamente, bar-
collando, l'ampia e deserta Via dell'Artigiano e ritornarono in Corte della Peste. Prodigiosamente, l'aria si stava schiarendo un po'. Alzando la testa, scorsero le stelle. Tuttavia, non c'era vento che soffiasse dal nord. L'aria era ancora mortalmente immota. Presi dall'ebbra preoccupazione per il progetto da realizzare e i problemi della locomozione, non si guardarono alle spalle. Là lo smog notturno era più fitto che mai. Un falco che avesse volteggiato lassù avrebbe visto la nebbia convergere da tutte le parti di Lankhmar nord, est, sud, ovest, dal Mare Interno, dalla Grande Palude Salata, dagli irrigui campi di grano, dal fiume Hlal... in torrenti e rivoletti neri e rapidi, ammucchiandosi, defluendo, turbinando, la scura e fetida essenza di Lankhmar esalata dai ferri da marchio, dai falò, dai fuochi d'ossa, dalle cucine e dalle stufe e dai camini, dalle fogne, dai forni, dalle birrerie, dalle distillerie, dagli innumerevoli fuochi accesi per bruciare l'immondizia, dai covi di alchimisti e stregoni, dai forni crematori, dai tumuli dove si preparava il carbone di legna... e tutti convergevano, quasi dotati d'una volontà, sul Vicolo Buio, in particolare sull'Anguilla d'Argento e forse soprattutto sulla squallida casa che le stava dietro, e che aveva soltanto la soffitta abitata. E più si avvicinava a quel centro, e più la nebbia nera diventava consistente, mentre spire sbrindellate si staccavano e aderivano alle ruvide pietre angolari e ai mattoni scabri, come ragnatele nere. Ma il Mouser e Fafhrd si limitarono a lanciare esclamazioni di blanda, sommessa sorpresa alla vista delle stelle, chiedendosi confusamente in che misura la visibilità migliorata avrebbe accresciuto il rischio della loro impresa, e attraversando cautamente la Via dei Pensatori, chiamata Corso degli Atei dai moralisti, proseguirono per Corte della Peste fino a quando questa si biforcò. Il Mouser scelse la ramificazione di sinistra, che portava verso nordovest. «Vicolo della Morte.» Fafhrd annuì. Dopo una curva e controcurva, comparve Via del Buon Mercato, circa trenta passi più avanti. Il Mouser si fermò di colpo, e bloccò Fafhrd tenendogli un braccio contro il petto. Bene in vista, dall'altra parte di Via del Buon Mercato, c'era un portone basso e ampio, spalancato, incorniciato da sudici blocchi di pietra. Davanti stavano due gradini, consumati dal transito di secoli. Dall'interno si riversava la luce gialloarancione delle torce appese alle pareti. I due non pote-
vano vedere molto, là dentro, data l'angolazione del Vicolo della Morte. Eppure, fin dove potevano giungere con lo sguardo, non si scorgevano portinai né guardie, assolutamente nessuno: neppure un cane alla catena. L'effetto complessivo era minaccioso. «E adesso come facciamo a entrare?» domandò Fafhrd con un bisbiglio rauco. «Dobbiamo battere il Vicolo dell'Omicidio, cercando una finestra che si possa forzare. Scommetto che nel sacco hai qualche piede di porco. Oppure dobbiamo provare dal tetto. Tu sei un uomo da tetti, già lo so. Insegnami l'arte. Io conosco gli alberi e le montagne, la neve, il ghiaccio e la roccia nuda. Vedi questo muro?» Se ne allontanò, accingendosi ad arrampicarvisi alla svelta. «Aspetta, Fafhrd» disse il Mouser, tenendo la mano contro il petto del compagno. «Terremo il tetto di riserva. E anche tutte le pareti. E credo sulla tua parola che sei un maestro scalatore. In quanto al modo di entrare, passeremo diritti dalla porta.» Poi aggrottò la fronte. «Barcollando un po', magari. Vieni, mentre preparo tutto.» Mentre si trascinava dietro per Vicolo della Morte Fafhrd che faceva smorfie di scetticismo, fino a quando Via del Buon Mercato non fu più in vista, spiegò: «Fingeremo di essere mendicanti, membri della loro corporazione, che non è altro se non un ramo della Corporazione dei Ladri, e fa lega con quella, o almeno fa i suoi rapporti al Maestri Mendicanti nella Casa dei Ladri. Saremo nuovi membri, usciti di giorno, e quindi il Maestro Mendicante della Notte e i guardiani notturni non potranno conoscerci.» «Ma non abbiamo l'aspetto di mendicanti» protestò Fafhrd. «I mendicanti hanno piaghe orrende, e gli arti deformi, o sono mutilati.» «A questo provvederò io, immediatamente» ridacchiò il Mouser, sguainando il Cesello. Senza badare all'occhiata sgomenta di Fafhrd, che subito arretrò di un passo, il Mouser scrutò meditabondo la lunga lama d'acciaio che aveva snudato, e poi con un lieto cenno del capo sganciò dalla cintura il fodero del Cesello, ornato di pelli di ratto, rinfoderò la spada e rapidamente l'avvoltolò, elsa e tutto, in una spirale, con l'ampia fascia d'una benda pescata dal sacco. «Ecco» disse annodando i capi della benda. «Adesso abbiamo un bastone.» «E a che serve?» chiese Fafhrd. «Perché siamo ciechi, ecco perché.» Mosse qualche passo, trascinando i piedi, battendo i ciottoli davanti a sé con la spada fasciata, tenuta per la guardia, in modo che l'impugnatura e il pomolo fossero nascosti dentro la
manica; e con l'altra mano brancolò a tentoni. «Ti sembra che vada bene?» chiese a Fafhrd, voltandosi. «A me sembra perfetto. Cieco come un pipistrello, eh? Oh, non agitarti, Fafhrd... lo straccio è solo garza. Posso vedere benissimo. Inoltre, non dovrò convincere nessuno, nella Casa dei Ladri, della mia cecità. Quasi tutti i mendicanti affiliati alla Corporazione fingono di essere ciechi, come forse saprai. Ora, che posso fare di te? Non posso spacciarti per cieco... troppo ovvio, desterebbe sospetti.» Strappò la fiasca e succhiò una sorsata d'ispirazione. Fafhrd lo imitò, per una questione di principio. Il Mouser fece schioccare le labbra e disse: «Ci sono! Fafhrd, reggiti sulla gamba destra e ripiega la sinistra dietro di te, al ginocchio. Attento! Non cadermi addosso! Appoggiati invece alla mia spalla. Così va bene. Alza di più il piede sinistro. Camufferemo la tua spada come la mia, trasformandola in una specie di gruccia... è più robusta e andrà benissimo. Potrai anche appoggiarti con l'altra mano sulla mia spalla, quando saltelli... lo zoppo che guida il cieco, una scena strappalacrime, un'ottima commedia! Ma tieni più alto quel piede! No, proprio non va bene... dovrò legarlo. Ma prima sgancia il fodero.» Ben presto il Mouser ridusse Astagrigia e il suo fodero nello stesso stato del Cesello e cominciò a legare la caviglia sinistra di Fafhrd contro la coscia, stringendo crudelmente la corda, sebbene i nervi del barbaro, anestetizzati dal vino, se ne accorgessero appena. Tenendosi in equilibrio sulla gruccia dall'anima d'acciaio, mentre il Mouser lavorava, Fafhrd attinse alla fiasca e rifletté profondamente. Da quando si era messo con Vlana, aveva cominciato a interessarsi al teatro, e l'atmosfera dell'alloggio degli attori aveva reso più vivo quell'interesse: perciò era felice della prospettiva di recitare una parte nella sua vita reale. Eppure, sebbene il piano del Mouser fosse indubbiamente geniale, gli pareva che presentasse qualche svantaggio. «Mouser» disse «non so se mi va molto a genio l'idea di avere le nostre spade così legate, in modo che non possiamo sguainarle all'occorrenza.» «Possiamo sempre usarle come clave» ribatté il Mouser, con un respiro sibilante, mentre tirava con forza l'ultimo nodo. Inoltre, abbiamo i pugnali. Ehi, girati la cintura dietro la schiena, in modo che il mantello nasconda il tuo. Io farò lo stesso con lo Zampino. I mendicanti non portano armi, almeno apertamente, e dobbiamo rispettare in ogni dettaglio la verosimiglianza drammatica. Adesso finiscila di bere: ti sei ingozzato abbastanza. Anch'io ho bisogno solo di un paio di sorsate per raggiungere l'apice della
forma. «E non so quanto mi attiri l'idea di entrare in quel covo di tagliagole, saltellando in questo modo. Sono capace di spiccare balzi rapidissimi, questo è vero, ma non con la velocità con cui posso correre. Davvero pensi che sia prudente?» «Puoi liberarti in un istante, tagliando la corda» sibilò il Mouser con una sfumatura d'impazienza e di collera. «Non sei disposto a fare almeno un piccolo sacrificio per amore dell'arte?» «Oh, va bene» disse Fafhrd, vuotando la fiasca e gettandola via. «Sì, certo che sono disposto.» «La tua carnagione è troppo sana» disse il Mouser, scrutandolo con aria critica. Spalmò il viso e le mani di Fafhrd con un cerone grigiopallido, poi aggiunse qualche ruga con il cerone scuro. «E le tue vesti sono troppo linde.» Raccolse manciate di terriccio tra i ciottoli e le spalmò sulla veste di Fafhrd, poi tentò di lacerarla, ma la stoffa resistette. Allora scrollò le spalle e si infilò alla cintura il sacco ormai alleggerito. «Anche le tue vesti» osservò Fafhrd. Chinandosi sulla gamba destra raccolse a sua volta una manciata di sudiciume, a giudicare dalla consistenza e dall'odore. Poi, rialzandosi con uno sforzo poderoso, strofinò il sudiciume sul mantello e sul giustacuore di seta grigia del Mouser. L'ometto sentì l'odore e imprecò, ma «Verosimiglianza drammatica» gli rammentò Fafhrd. «È un bene, se puzziamo. I mendicanti puzzano... è per questo che la gente dà loro del denaro: per sbarazzarsi della loro presenza. E nessuno, nella Casa dei Ladri, ci terrà a ispezionarci da vicino, finché odoreremo in questo modo.» Poi, afferrandosi alla spalla del Mouser, si spinse rapidamente verso Via del Buon Mercato, puntando davanti a sé la spada fasciata e spiccando balzi poderosi. «Rallenta, idiota» esclamò sottovoce il Mouser, seguendolo a piedi strascicati, quasi con la velocità di un pattinatore, per stargli dietro, e battendo come un matto con il suo "bastone". «Uno storpio deve essere debole... è questo che suscita pietà.» Fafhrd annuì saggiamente e rallentò l'andatura. Ricomparve il portone minacciosamente vuoto. Il Mouser inclinò la fiasca per bere quel poco vino che era rimasto, deglutì per un po', quindi tossì, sputacchiando. Fafhrd gli prese la fiasca dalle mani, la vuotò, poi se la gettò dietro le spalle, lanciandola a infrangersi con uno spicinio. Saltellando e trascinandosi, i due entrarono in Via del Buon Mercato, e quasi subito si fermarono per lasciar passare un uomo e una donna ricca-
mente vestiti. Il lusso dell'abbigliamento dell'uomo era sobrio, ed egli era piuttosto grasso e vecchio, sebbene avesse lineamenti duri. Senza dubbio un mercante, che doveva aver investito abbastanza denaro nella Corporazione dei Ladri, almeno per pagarne la protezione, se si azzardava a passare di lì a quell'ora. La ricchezza dell'abbigliamento della donna era sgargiante, se non sfacciata: e lei era bella e giovane, e sembrava ancora più giovane di quanto fosse. Quasi sicuramente, era un'esperta cortigiana. L'uomo si accinse ad aggirare i due mendicanti sudici e puzzolenti, volgendo la testa dall'altra parte, ma la ragazza si voltò di scatto verso il Mouser, con un'improvvisa espressione di pena. «Oh, povero ragazzo! Cieco! Che tragedia» disse. «Doniamogli qualcosa, amore.» «Stai alla larga da questi fetenti, Misra, e vieni via» ribatté l'uomo con voce soffocata, poiché si teneva tappato il naso. La donna non gli rispose, ma insinuò la mano bianca nella borsa d'ermellino dell'uomo e premette rapidamente una moneta contro il palmo del Mouser, chiudendovi sopra le dita; poi gli prese la testa tra le braccia e lo baciò dolcemente sulle labbra, prima di lasciarsi trascinar via. «Abbi cura del piccoletto, vecchio» gridò gentilmente a Fafhrd, mentre il suo compagno le borbottava rimbrotti soffocati, tra cui era intelligibile soltanto "sgualdrina depravata". Il Mouser fissò la moneta, poi lanciò un lungo sguardo alla sua benefattrice. C'era un tono di stupore nella sua voce, quando mormorò a Fafhrd: «Guarda. Oro. Una moneta d'oro e la pietà di una bella donna. Credi che faremmo meglio ad abbandonare questo progetto avventato e a dedicarci alla professione di mendicanti?» «E magari anche alla professione di sodomiti!» rispose aspramente Fafhrd, sottovoce. Quel "vecchio" l'aveva punto sul vivo. «Avanti, arditamente!» Salirono i due scalini consunti e varcarono la soglia, notando l'eccezionale spessore del muro. Davanti a loro si stendeva un corridoio lungo alto e diritto, che terminava in una scala: dalle porte che lo fiancheggiavano filtrava luce, e le torce affisse alle pareti aggiungevano il loro chiarore. Ma era completamente deserto. Avevano appena varcato la soglia quando il freddo dell'acciaio agghiacciò loro il collo e punzecchiò una spalla. Dall'alto, due voci ordinarono all'unisono: «Fermi!» Sebbene accesi, e confusi, dal vino fortificato, ebbero entrambi la pre-
senza di spirito di immobilizzarsi e poi di alzare gli occhi, con molta cautela. Due facce scarne, sfregiate, eccezionalmente brutte, sovrastate da sciarpe coloratissime che legavano i capelli, li scrutarono da una grande nicchia profonda situata sopra la porta, evidentemente così bassa proprio per quella ragione. Due braccia nodose reggevano le spade che continuavano a pungerli. «Siete usciti con gli altri mendicanti all'infornata di mezzogiorno, eh?» osservò uno dei due gaglioffi. «Beh, dovrete aver incassato parecchio per giustificare un rientro a un'ora così tarda. Il Maestro Mendicante della Notte è in franchigia a Via delle Puttane. Presentatevi di sopra, a Krovas. Per gli dei, come puzzate! Sarà meglio che vi diate una ripulita, prima, o Krovas vi farà fare il bagno nel vapore bollente. Andate!» Il Mouser e Fafhrd avanzarono, saltellando e strascicando i piedi nel modo più autentico che sapevano. Uno dei guardiani, dalla nicchia, gridò loro: «Rilassatevi, ragazzi! Non è necessario che fingiate anche qui!» «L'esercizio rende perfetti» ribatté il Mouser con voce tremula. Le dita di Fafhrd gli affondarono nella spalla, in un muto avvertimento. Proseguirono in modo un po' più naturale, per quanto lo permetteva la gamba legata del barbaro. «Per gli dei, che vita facile hanno i mendicanti della Corporazione» osservò l'altra guardia, rivolta al suo compagno. «Che scarsa disciplina, che infimi criteri di abilità! Perfetti, per il mio sacro deretano! Anche un bambino capirebbe che è una finzione.» «Senza dubbio, i bambini lo capiscono» ribatté l'altro. «Ma le loro madri e i loro padri versano una lacrima e una moneta, o sferrano un calcio. Gli adulti diventano ciechi, troppo perduti negli affanni e nei sogni, se non hanno una professione come il furto che li aiuta a vedere le cose come realmente sono.» Resistendo all'impulso di meditare su questa saggia filosofia, e lieto di non doversi sottoporre all'attenta ispezione del Maestro Mendicante (per la verità, pensò Fafhrd, Kos, il dio del Destino, sembrava condurlo direttamente da Krovas e forse quella notte vi sarebbe stata comunque una testa recisa), il barbaro e il Mouser procedettero lentamente, vigili. Poi cominciarono a udire voci, per lo più secche e brusche, e altri rumori. Passarono davanti a diverse porte dove avrebbero voluto soffermarsi, per studiare le attività che si svolgevano all'interno: tuttavia osarono solo rallentare un po'. Per fortuna, quasi tutti gli usci erano spalancati, e permette-
vano di guardare a lungo nell'interno. Alcune di quelle attività erano molto interessanti. In una stanza, si addestravano bambini a sfilare e a tagliare borse. Si avvicinavano da tergo a un istruttore, e se questi udiva lo scalpitio dei piedi nudi o sentiva il tocco della mano o, peggio ancora, udiva il tonfo d'una moneta finta di piombo lasciata cadere, il ragazzetto si buscava una bacchettata. Altri sembravano allenarsi a tattiche di gruppo: la confusione davanti, lo strappo da tergo, il rapido passaggio degli oggetti rubati da un giovane ladro a un collega. In una seconda stanza, da cui usciva aria appesantita dal fetore del metallo e dell'olio, allievi ladri più grandi svolgevano attività di laboratorio, scassinando serrature. Un gruppo ascoltava gli insegnamenti di un uomo dalla barba grigia e dalle mani sporche, che smontava pezzo per pezzo una serratura molto complessa. Altri sembravano mettere alla prova la loro rapidità e la capacità di lavorare senza far rumore... frugavano con sottili grimaldelli nelle toppe di una mezza dozzina di porte situate fianco a fianco in una parete divisoria che non serviva ad altro, mentre un istruttore che impugnava una clessidra li sorvegliava attentamente. In una terza stanza, numerosi ladri mangiavano seduti a lunghi tavoli. Gli odori erano allettanti, persino per uomini pieni di liquore. La Corporazione trattava bene i suoi membri. In una quarta stanza, il pavimento era parzialmente imbottito, e vi si insegnava a scivolare, a schivare, a rotolare, a fare sgambetti, e a eludere in altri modi gli inseguitori. Anche questi allievi erano più vecchi. Una voce degna d'un sergente maggiore gracchiò: «No, no, no! Non riusciresti a scappare neppure a tua nonna storpia. Ti ho detto di schivare, non di genufletterti davanti al sacro Aarth. Ora, stavolta...» «Grif ha usato il grasso» gridò un istruttore. «Ah, davvero! Fatti avanti, Grifi» fece la voce gracchiante, mentre il Mouser e Fafhrd passavano oltre con un certo rimpianto, poiché si rendevano conto che lì c'era molto da imparare: trucchi che potevano essere loro utili quella stessa notte. «Ascoltate, tutti voi!» continuò la voce gracchiante, così forte che seguì i due intrusi per un lungo tratto del percorso. «Il grasso può essere molto utile di notte... ma di giorno, grida a tutto Nehwon la professione di chi lo adopera! E in ogni caso, rende il ladro troppo sicuro di sé: finisce per farci conto e poi, ecco che si accorge di aver dimenticato di spalmarselo addosso. Inoltre, l'odore può tradirlo. Qui si lavora sempre a pelle asciutta, a parte il sudore naturale, come abbiamo detto a voi tutti la prima notte. Chinati, Grif. Stringiti le caviglie. Raddrizza le gi-
nocchia.» Altre bacchettate, seguite da grida di dolore, ormai distanti perché il Mouser e Fafhrd erano ormai a metà scala: Fafhrd volteggiava piuttosto laboriosamente, afferrandosi al corrimano curvilineo e alla spada fasciata. Il primo piano era eguale al piano terreno, ma era lussuoso quanto l'altro era spoglio. Nel lungo corridoio si alternavano lampade e incensieri filigranati appesi al soffitto, e spandevano una luce dolce e un profumo aromatico. Le pareti erano riccamente tappezzate, il pavimento coperto da folti tappeti. Eppure anche quel corridoio era vuoto e, per giunta, era completamente silenzioso. Dopo essersi scambiati un'occhiata, i due si avviarono di nuovo, arditamente. La prima porta, spalancata, mostrava una stanza piena di attaccapanni carichi d'indumenti, lussuosi e semplici, immacolati e luridi; e ancora portaparrucche, scaffali di barbe finte e così via, e parecchi specchi a muro, davanti ai quali stavano tavolini affollati di cosmetici e piccoli sgabelli. Era evidentemente la stanza dei travestimenti. Dopo essersi soffermato a guardare e ad ascoltare, il Mouser sfrecciò nella stanza, afferrò una grossa bottiglia verde dal tavolo più vicino e uscì. Stappò la bottiglia e fiutò. Un odore di gardenia dolciastro e nauseante lottò con l'aroma pungente degli spiriti di vino. Il Mouser innaffiò se stesso e Fafhrd con quel discutibile profumo. «Antidoto per l'immondizia» spiegò, con la pomposità di un medico, tappando la bottiglia. «Non voglio che Krovas mi faccia bollire. No, no, no.» Due figure apparvero in fondo al corridoio e vennero verso di loro. Il Mouser nascose la bottiglia sotto il mantello, stringendola tra il gomito e il fianco, e proseguì, insieme a Fafhrd... tornare indietro sarebbe apparso sospetto, pensarono entrambi, con la prudenza degli ubriachi. Passarono davanti ad altre tre pesanti porte chiuse. Quando si avvicinarono alla quinta, le due figure, che venivano avanti a braccetto e tuttavia muovevano lunghi passi rapidissimi, diventarono distinte. L'abbigliamento era quello dei nobili, ma le facce erano da ladri. E per giunta squadrarono il Mouser e Fafhrd con aria d'indignazione e di sospetto. Proprio in quel momento, da un punto imprecisabile che sembrava situato tra le due paia d'uomini, cominciò a risuonare una voce che pronunciava parole in una lingua sconosciuta, nello svelto cantilenare monotono che i sacerdoti usano nei normali servizi religiosi, e certi stregoni nei loro incantesimi.
I due ladri riccamente abbigliati rallentarono davanti alla settima porta e guardarono dentro. Si fermarono. Allungarono il collo e spalancarono gli occhi. Impallidirono visibilmente. Poi all'improvviso ripresero a camminare in fretta, quasi correndo, e incrociarono Fafhrd e il Mouser senza degnarli d'un'occhiata, come se fossero dei mobili. La voce dell'incantatore continuava a tambureggiare, senza perdere una battuta. La quinta porta era chiusa, ma la sesta era aperta. Il Mouser sbirciò dentro con un occhio solo, sfiorando lo stipite con il naso. Poi si fece avanti e guardò all'interno con aria affascinata, si rialzò dalla fronte lo straccio nero per vedere meglio. Fafhrd lo seguì. Era un'ampia stanza, deserta di vita umana e animale, a quanto poteva vedere, ma piena di cose molto interessanti. Dall'altezza del ginocchio in su, la parete di fondo era una pianta della città di Lankhmar e dei suoi immediati dintorni. Ogni edificio e ogni strada sembrava raffigurato là sopra, fino al tugurio più meschino e alla corte più stretta. C'erano segni di cancellature e di ridipinture recenti in molti punti, e qua e là apparivano piccoli geroglifici colorati dal significato misterioso. Il pavimento era di marmo, il soffitto azzurrocupo come i lapislazzuli. Le pareti laterali erano coperte da una moltitudine di oggetti appesi. Una era tappezzata da attrezzi da ladro, di ogni genere, che andavano da un colossale piede di porco che pareva in grado di scardinare l'universo, o almeno la porta del sotterraneo dei tesori del sovrano, fino a una bacchetta così sottile da poter essere lo scettro della regina degli elfi, ed evidentemente telescopica, che si poteva allungare per pescare da lontano i preziosi gingilli dal tavolo da toeletta d'una gran dama; sull'altra parete figuravano invece strani oggetti luccicanti d'oro e lampeggianti di gemme, evidentemente prescelti per la loro bizzarria tra il bottino di furti memorabili: da una maschera maschile d'oro sottile, con i lineamenti e i contorni d'una bellezza da mozzare il fiato, ma costellata di rubini che simulavano le pustole del vaiolo nello stadio della febbre, fino a un coltello, la cui lama era formata da diamanti a forma di cuneo incastonati uno accanto all'altro e affilati come rasoi. Tutto intorno vi erano tavole cariche soprattutto di modelli di abitazioni e di altri edifici, esatti fino al minimo dettaglio, compresi i fori per la ventilazione sotto la grondaia e i tubi di scarico al livello del suolo, i muri lisci o screpolati. Molti erano spaccati, per mostrare la disposizione di stanze, stambugi, camere blindate, porte, corridoi, passaggi segreti, canne fumarie e tubi d'aerazione.
Al centro della stanza c'era una tavola rotonda, a scacchi d'ebano e d'avorio, intorno a essa erano disposte sette seggiole imbottite: quella rivolta verso la mappa e nella direzione opposta al Mouser e a Fafhrd aveva lo schienale più alto e i braccioli più larghi delle altre... era il seggio di un capo, probabilmente di Krovas. Il Mouser avanzò in punta di piedi, attratto ineluttabilmente, ma la mano sinistra di Fafhrd gli si serrò sulla spalla come il guanto di ferro di un cavaliere catafratto Mingol e lo tirò ineluttabilmente indietro. Con una smorfia di disapprovazione, il Nordico riabbassò sugli occhi del Mouser lo straccio nero, e con la mano che stringeva la gruccia fece segno di andare avanti; poi si avviò in quella direzione a balzi silenziosi, meticolosamente calcolati. Il Mouser lo seguì, con una spallucciata di disappunto. Non appena ebbero voltato le spalle alla porta, ma prima che vi si fossero allontanati, una testa dalla barba nera ben curata e dai capelli corti spuntò, come quella di un serpente, a lato della seggiola che aveva lo schienale più alto e li seguì con gli occhi profondamente incassati e scintillanti. Poi una lunga mano, agile come una serpe, seguì la testa, posò sulle labbra sottili l'indice per intimare silenzio, e poi richiamò con un cenno due paia di uomini dalle tuniche scure, ritti ai due lati della porta con le spalle rivolte contro il muro del corridoio. Ognuno dei quattro stringeva in una mano un coltello curvilineo e con l'altra un manganello di cuoio scuro appesantito da pezzi di piombo. Quando Fafhrd fu arrivato più vicino alla settima porta, da cui continuava a sgorgare la giaculatoria monotona e sinistra, ne sfrecciò fuori un giovane snello e pallidissimo, dagli occhi sbarrati per il terrore, che si copriva con le mani la bocca, come per impedirsi di urlare o di vomitare. Teneva una scopa sotto un'ascella, e sembrava un po' un giovane stregone in procinto d'involarsi nell'aria. Saettò oltre Fafhrd e il Mouser e corse via: i suoi passi precipitosi risuonarono rapidi e smorzati sui tappeti, poi secchi sui gradini, prima di perdersi in lontananza. Fafhrd guardò il Mouser con una smorfia e una scrollata di spalle; quindi, accovacciandosi su di una gamba sola fino a quando il ginocchio della gamba legata toccò il pavimento, sporse metà faccia oltre lo stipite. Dopo un po', senza cambiare posizione, accennò al Mouser di appressarsi. Questi spinse lentamente mezza faccia oltre lo stipite, esattamente al di sopra di Fafhrd. Videro una stanza un po' più piccola di quella della grande mappa, illuminata da lampade centrali che emanavano una luce biancazzurra, anziché
gialla come al solito. Il pavimento era di marmo scuro, a ghirigori complicati. Le pareti scure erano cosparse di carte astrologiche e antropomantiche e di strumenti magici; sugli scaffali stavano albarelli di porcellana dalle etichette enigmatiche, fiasche vitree e tubi delle forme più strane, alcuni pieni di liquidi colorati, molti vuoti e lucenti. Ai piedi delle pareti, dove le ombre erano più fitte, c'erano oggetti rotti e scartati, ammucchiati irregolarmente, come se fossero stati spazzati lì e dimenticati: e qua e là si aprivano grosse tane di ratto. Al centro della stanza, e vivamente illuminato per contrasto, c'era un lungo tavolo dal piano robusto e dalle molte, solide gambe. Il Mouser pensò fuggevolmente a un centopiedi, e poi al banco dell'Anguilla perché il piano del tavolo era macchiato e scalfito dai molti elisir rovesciati, e segnato da profonde bruciature nere causate dal fuoco o dall'acido. Al centro del tavolo stava bollendo un alambicco. La fiamma della lampada, di un azzurro profondo, faceva bollire in una grossa zucca di cristallo un fluido scuro e viscido dai riflessi diamantini. Da quella sostanza buia e gorgogliante salivano fili di vapore più scuro, passavano attraverso la stretta bocca della zucca e ne macchiavano, stranamente d'un vivo scarlatto, la testa trasparente e poi, ridiventati neri, fluivano giù per il tubo sottile in un ricevitore sferico di cristallo, ancora più grosso della zucca, e lì si arricciolavano e ondeggiavano come le spire di una nera corda vivente... un interminabile, esile serpente d'ebano. All'estremità sinistra del tavolo stava un uomo alto e un po' curvo, dalla veste nera con un cappuccio che ombreggiava, anziché nascondere, una faccia i cui lineamenti più notevoli erano un naso lungo, grosso e appuntito, e una bocca sporgente, quasi priva di mento. La carnagione dell'uomo era grigio-olivastra come l'argilla, e sulle larghe guance spuntava una corta barba ispida e grigia. Sotto la fronte sfuggente e le irte sopracciglia grigie, gli occhi distanti fissavano intenti un rotolo brunito dal tempo, che le mani tozze e disgustosamente piccole, dalle grosse nocche e dai dorsi pelosi, continuavano a srotolare e ad arrotolare di nuovo. L'unico movimento compiuto dagli occhi, oltre il breve spostamento per leggere le righe che l'uomo intonava rapidamente, era di tanto in tanto un'occhiata in tralice all'alambicco. All'altra estremità del tavolo, con i lucidi occhietti che sfrecciavano dallo stregone all'alambicco e dall'alambicco allo stregone, stava accoccolata una bestiola nera. Appena la scorse, Fafhrd piantò dolorosamente le dita nella spalla del Mouser e questi quasi si lasciò sfuggire un grido, ma non
per il dolore. Sembrava molto simile a un ratto, eppure aveva la fronte più alta e gli occhi più ravvicinati di quanto essi avessero mai veduto in un ratto, mentre le zampe anteriori, che si strofinavano continuamente una contro l'altra in un gesto di irrequieta gaiezza, sembravano minuscole copie di quelle dell'incantatore. Simultaneamente e indipendentemente, Fafhrd e il Mouser ebbero la certezza che si trattava della bestiola che aveva scortato Slivikin e il suo compagno, e poi era fuggita; ed entrambi rammentarono che Ivrian aveva parlato del familiare di una strega, e che Vlana aveva accennato alla probabilità che Krovas si servisse di uno stregone. La bruttezza dell'uomo e della bestiola dalle mani egualmente tozze e il vapore nero che si avvoltolava e si torceva nel grande ricevitore e nell'alambicco, come un nero cordone ombelicale, formavano uno spettacolo orribile. E le somiglianze tra i due esseri, a parte la grandezza, erano ancora più inquietanti nei loro significati sottintesi. Il tempo dell'incantesimo accelerò, le fiamme biancazzurre si ravvivarono e sibilarono, il fluido nella zucca si addensò come lava, grandi bolle si formarono e scoppiarono rumorosamente, la corda nera nel ricevitore fremette come un nido di serpi: vi era sempre più forte la sensazione di presenze invisibili. La tensione sovrannaturale divenne quasi insopportabile, e Fafhrd e il Mouser stentarono a mantenere silenziosi gli ansiti a bocca aperta con cui ormai respiravano; e ognuno di loro temeva che i battiti del suo cuore potessero venire uditi a molti cubiti di distanza. Bruscamente, la formula dell'incantesimo raggiunse l'apice e si spezzò, come un tamburo colpito troppo forte, e poi venne istantaneamente smorzata dalle dita e dal palmo proteso verso l'alambicco. Con un lampo vivo e una sorda esplosione, innumerevoli crepe apparvero nella zucca; il cristallo divenne bianco e opaco ma non si infranse e non trasudò gocce. La testa si alzò di una spanna, restò sospesa lì, poi ricadde. Intanto, due cappi neri apparvero tra le spire dentro il ricevitore e all'improvviso si strinsero fino a diventare due grossi nodi neri. Lo stregone sogghignò, arrotolò con uno scatto l'estremità della pergamena, poi deviò lo sguardo dal ricevitore al suo familiare, che lanciava striduli squittii e balzava su e giù, estatico. «Silenzio, Slivikin! Ora tocca a te correre e prodigarti e sudare» gridò lo stregone, che ora parlava in gergo lankhmarese così rapidamente e in toni così acuti e striduli che Fafhrd e il Mouser riuscivano a malapena a seguirlo. Entrambi, tuttavia, si accorsero di essersi sbagliati circa l'identità di Sli-
vikin. Nel momento del disastro, il ladro grasso aveva invocato l'aiuto della bestia stregata, non quello del suo camerata umano. «Sì, padrone» squittì di rimando Slivikin, non meno chiaramente, modificando in un istante le opinioni del Mouser sugli animali parlanti. E continuò con gli stessi toni umili e flautati: «Ti ascolto obbediente, Hristomilo.» Adesso conoscevano anche il nome dello stregone. Hristomilo ordinò, in pigolii sferzanti: «Al lavoro! Provvedi a convocare una sufficiente moltitudine di banchettanti! Voglio che i corpi siano ridotti a scheletri, così che i lividi lasciati dallo smog incantato e tutte le tracce della morte per soffocamento scompaiano completamente. Ma non dimenticare il bottino! Vai a compiere la tua missione, ora... vattene!» Slivikin, che a ogni comando aveva chinato la testa in un modo che ricordava i suoi sobbalzi, squittì: «Provvederò a tutto!» E come un fulmine grigio spiccò un lungo balzo, raggiungendo il pavimento e scomparendo in un buco nero come l'inchiostro. Hristomilo, stropicciandosi le disgustose mani tozze come aveva fatto Slivikin, esclamò ridacchiando: «Ciò che Slevyas ha perduto, la mia magia ha riconquistato!» Fafhrd e il Mouser si scostarono dalla porta, in parte pensando che, non avendo più l'incantesimo, l'alambicco e il familiare cui badare, ora Hristomilo avrebbe sicuramente alzato lo sguardo scorgendoli; in parte per la ripugnanza di ciò che avevano veduto e udito; e per la viva anche se inutile pietà verso Slevyas, chiunque egli fosse, e per le altre vittime sconosciute degli incantesimi di morte di quello stregone, così simile a un ratto e probabilmente ai ratti imparentato, infelici sconosciuti già morti e destinati a venire spolpati fino all'osso. Fafhrd sottrasse la bottiglia verde al Mouser e, sebbene nauseato dall'odore troppo dolce di gardenia, ingurgitò una gran boccata pungente. Il Mouser non seppe risolversi a fare altrettanto, ma si sentì confortato dagli spiriti di vino che ebbe modo di inalare durante questa manovra. Poi, oltre la mole di Fafhrd, egli scorse, ritto davanti all'ingresso della sala della mappa, un uomo riccamente abbigliato, con un coltello dall'impugnatura d'oro e dal fodero ingemmato appeso al fianco. Il volto dagli occhi infossati era segnato prematuramente dalla responsabilità, dal lavoro eccessivo e dall'autorità, ed era incorniciato dai capelli e dalla barba nera tagliati con cura. Sorridendo, li chiamò con un cenno. Il Mouser e Fafhrd obbedirono, e questi rese la bottiglia verde al primo, che tornò a tapparla e se l'infilò sotto il gomito sinistro con ben celata irri-
tazione. Entrambi intuirono che a chiamarli era stato Krovas, il Gran Maestro della Corporazione. Fafhrd si chiese di nuovo, mentre avanzava zoppicando, barcollando e ruttando, se Kos o i Fati lo guidavano quella notte verso il suo obiettivo. Il Mouser, più vigile e apprensivo, stava ricordando a se stesso che le guardie della nicchia avevano ordinato loro di presentarsi a Krovas: perciò la situazione, sebbene non si sviluppasse in armonia con i suoi piani nebulosi, per ora non deviava disastrosamente. Eppure né la sua vigilanza, né gli istinti primordiali di Fafhrd lo preavvertirono, mentre seguivano Krovas nella sala della grande mappa. Dopo essere avanzati all'interno di due passi, ognuno di loro fu afferrato per le spalle e minacciato con il manganello da un paio di scherani che, per giunta, portavano coltelli infilati nelle cinture. Ritennero più opportuno non opporre resistenza, obbedendo almeno in questa occasione agli avvertimenti del Mouser sulla prudenza suprema degli ubriachi. «Presi, Gran Maestro» annunciò uno degli scherani. Krovas girò la seggiola dalla spalliera più alta e vi si sedette scrutandoli con calma ma con insistenza. «Cosa conduce due mendicanti della Corporazione, puzzolenti e ubriachi, nei quartieri a loro vietati dai maestri?» chiese senza alzare la voce. Mouser si sentì imperlare la fronte dal sudore del sollievo. I travestimenti da lui così ingegnosamente ideati funzionavano ancora, ingannando il capo supremo, che pure aveva notato l'ebbrezza di Fafhrd. Riprendendo i suoi modi da cieco, balbettò: «La guardia alla porta di Via del Buon Mercato ci ha ordinato di presentarci a te in persona, grande Krovas, poiché il Maestro dei Mendicanti del turno di notte è in franchigia per ragioni d'igiene sessuale. Stanotte abbiamo fatto un buon raccolto!» E frugandosi nella borsa e cercando di ignorare la stretta sulla spalla, estrasse la moneta d'oro donatagli dalla cortigiana sentimentale e la mostrò con mano tremula. «Risparmiami questa recitazione inesperta» fece brusco Krovas. «Non sono uno dei tuoi gonzi. E togliti quello straccio dagli occhi.» Il Mouser obbedì e rimase sull'attenti per quanto glielo consentivano coloro che lo bloccavano; e sorrise con disinvoltura tanto più grande quanto erano più forti le incertezze che si ridestavano in lui. A quanto pareva, non se l'era cavata brillantemente come aveva creduto. Krovas si sporse verso di loro e disse, in tono placido ma penetrante:
«Ammesso che abbiate ricevuto questo ordine, del resto errato, per il quale la guardia verrà punita... perché stavate spiando in una stanza oltre questa, quando vi ho scorti?» «Abbiamo veduto ladri coraggiosi fuggire da quella stanza» rispose calmo il Mouser. «Temendo che qualche pericolo minacciasse la Corporazione, il mio compagno e io siamo andati a vedere, pronti a rimediare.» «Ma abbiamo visto e udito solo cose che ci hanno lasciato perplessi, grande signore» aggiunse tranquillamente Fafhrd. «Non ho interrogato te, straccione. Parla quando ti viene ordinato» scattò Krovas. Poi, rivolto al Mouser: «Tu sei un briccone arrogante, molto presuntuoso per il tuo rango.» In un lampo, il Mouser decise che quella situazione richiedeva una maggiore insolenza, anziché adulazione. «Sì, lo sono, signore» disse orgogliosamente. «Per esempio, ho un grande piano, grazie al quale tu e la Corporazione potrete acquisire in tre mesi più ricchezze e poteri di quanti ne abbiano conseguito i suoi predecessori in tre millenni.» La faccia di Krovas si oscurò. «Ragazzo!» chiamò. Dalla tenda di una porta interna un giovane dalla carnagione scura dei Kleshiti, abbigliato solo di un perizoma nero, uscì d'un balzo inginocchiandosi davanti a Krovas; questi ordinò: «Chiama prima il mio stregone, poi i ladri Slevyas e Fissif.» Il giovane scuro si precipitò nel corridoio. Poi Krovas, ritornato normalmente pallido, si appoggiò alla spalliera del seggiolone, appoggiò leggermente le braccia robuste sui grandi braccioli imbottiti e si rivolse sorridendo al Mouser: «Continua pure. Rivelaci il tuo grande piano.» Costringendo la propria mente a non pensare alla sorprendente rivelazione che Slevyas non era una vittima ma un ladro, non era stato ucciso dalla stregoneria ma era vivo e disponibile (perché mai lo aveva mandato a cercare, Krovas?) il Mouser ributtò indietro la testa e, atteggiando le labbra a un lieve sogghigno, incominciò: «Puoi ridere di me, Gran Maestro, ma ti assicuro che tra meno di una dozzina di battiti di cuore mi ascolterai intento, per assorbire ogni mia parola. Come il fulmine, l'intelligenza può colpire dovunque, e i migliori di voi, a Lankhmar, hanno antiche cecità per cose ovvie a noi d'origine forestiera. Il mio grande piano è semplicemente questo: fai in modo che la Corporazione dei Ladri, sotto la tua ferrea autocrazia, si impadronisca del potere supremo nella città di Lankhmar, e poi nella Terra di Lankhmar, e poi di tutto Nehwon, dopodiché chissà quali altri reami mai sognati conosceranno la tua sovranità!»
Il Mouser aveva detto la verità almeno da un punto di vista: Krovas non sorrideva più. Si era leggermente proteso in avanti, e il suo viso si andava di nuovo oscurando, anche se era troppo presto per dire se si oscurava per interesse o per collera. Il Mouser continuò: «Da secoli la Corporazione possiede la forza e l'intelligenza necessari per fare di un colpo di stato una certezza quasi assoluta: oggi non vi è alcuna possibilità di fallimento. È nell'ordine naturale delle cose che i ladri governino gli altri uomini. Tutta la Natura lo invoca. Non c'è bisogno di uccidere il vecchio Karstark Ovartamortes: è sufficiente dominarlo, controllarlo, e così governare per suo tramite. Tu hai già infiltrato informatori in ogni casata nobile o ricca. La tua posizione è migliore di quella del Re dei Re. Hai a disposizione un esercito di mercenari mobilitato permanentemente, se mai ne avessi bisogno: la Confraternita degli Assassini. Noi mendicanti affiliati alla Corporazione siamo i vostri vivandieri. O grande Krovas, le folle sanno che la ladreria domina Nehwon, no, l'universo, no, anzi, le dimore più elevate degli dei! E le folle l'accettano: gli ripugna solo l'ipocrisia dell'attuale ordinamento, la finzione che le cose stiano altrimenti. Oh, dai loro ciò che onestamente desiderano, grande Krovas! Fai che tutto sia alla luce del sole, onesto e scoperto, con i ladri che governano di nome oltre che di fatto.» Il Mouser parlava con passione, credendo per il momento a tutto ciò che diceva, persino alle contraddizioni. I quattro scherani lo guardavano a bocca aperta per lo stupore, e con una certa reverenza. E allentarono la presa su di lui e su Fafhrd. Ma, appoggiandosi di nuovo allo schienale della grande seggiola con un sorriso tirato e minaccioso, Krovas disse freddamente: «Nella nostra Corporazione l'ubriachezza non giustifica la follia, anzi è motivo per le punizioni più severe. Ma so bene che voi mendicanti organizzati operate sotto una disciplina meno rigorosa. Perciò mi degnerò di spiegarti, piccolo sognatore ebbro, che noi ladri sappiamo benissimo che, dietro le quinte, già dominiamo Lankhmar, Nehwon, tutti gli esseri viventi, insomma, perché cos'è la vita se non l'avidità in azione? Ma per farne una dominazione scoperta, non solo saremmo costretti ad addossarci diecimila tipi di lavori noiosi che ora gli altri fanno per noi: ma andremmo contro un'altra delle leggi più radicate della vita, l'illusione. Il venditore ambulante di dolciumi ti mostra forse la sua cucina? Una puttana permette al suo cliente di vederla mentre si alliscia le rughe e si rialza i seni cadenti con ingegnosi sostegni di velo? La natura opera con mezzi sottili e segreti... il seme invisibile
dell'uomo, il morso del ragno, le spore cieche della demenza e della morte, le rocce nate nelle viscere sconosciute della terra, le stelle silenziose che avanzano nei cieli... e noi ladri la imitiamo.» «La tua è un'eccellente poesia, signore» ribatté Fafhrd, con un tono d'irosa derisione, perché era stato a sua volta profondamente colpito dal grande piano del Mouser, e lo irritava che Krovas insultasse il suo nuovo amico rifiutandolo con tanta leggerezza. «Il potere segreto può andare bene in tempi facili. Ma...» e fece una pausa istrionica «servirà a qualcosa quando la Corporazione dei Ladri si troverà alle prese con un nemico deciso a cancellarla per sempre, a una congiura per spazzarla via dalla faccia del nostro mondo?» «Che razza di vaneggiamenti da ubriaco sono mai questi?» domandò Krovas, raddrizzandosi sulla seggiola. «Quale congiura?» «Questa è molto segreta» rispose Fafhrd sogghignando, felice di ripagare con la stessa moneta quell'uomo altezzoso e pensando che era giusto costringere il re dei ladri a sudare un po', prima di tagliargli la testa per portarla a Vlana. «Io non ne so nulla, se non che molti maestri ladri sono destinati al coltello... e che la tua testa è condannata a cadere!» Fafhrd si limitò a sogghignare e incrociò le braccia: la stretta ancora allentata dei suoi custodi glielo consentì; e la sua spadagruccia gli pendeva contro il corpo, stretta leggermente nella mano. Poi fece una smorfia, quando all'improvviso avvertì una fitta tremenda alla gamba intorpidita e ripiegata, che per un po' aveva dimenticato. Krovas levò un pugno e si alzò a mezzo dalla sedia, come se si accingesse a impartire un ordine terribile... probabilmente di mettere Fafhrd alla tortura. Il Mouser si intromise rapidamente: «I Sette Segreti, così sono chiamati, sono a capo della congiura. Nessuno, nei circoli esterni della cospirazione, conosce i loro nomi, sebbene corra voce che siano membri della Corporazione segretamente rinnegati, e che rappresentino rispettivamente le città di Oool Hrusp, Kvarch Nar, Ilthmar, Horborixen, Tisilinilit, la lontana Kiraay e la stessa Lankhmar. Si ritiene che siano finanziati dai mercanti dell'Oriente, dai sacerdoti di Wan, dagli incantatori delle Steppe e da metà dei capi Mingol, dalla leggendaria Quarmall, dagli Assassini di Aarth a Sarheenmar, e addirittura dal Re dei Re.» Nonostante le risposte sprezzanti e irose di Krovas, gli scherani che trattenevano il Mouser continuarono ad ascoltare il prigioniero con interesse e rispetto, e non si preoccuparono più di tenerlo stretto. Le colorite rivelazioni e il modo melodrammatico in cui venivano fatte li tenevano inchio-
dati, mentre le osservazioni ciniche e filosofiche di Krovas sfuggivano loro quasi completamente. Poi entrò aleggiando nella stanza Hristomilo, a passi rapidi ma molto corti: o almeno, la sua veste nera scendeva fino al pavimento marmoreo, perfettamente immota nonostante la velocità della sua avanzata. Il suo ingresso fu un trauma. Tutti gli occhi dei presenti lo seguirono: tutti trattennero il respiro e il Mouser e Fafhrd sentirono le mani coriacee che li trattenevano tremare leggermente. Persino l'espressione sicura e annoiata di Krovas divenne tesa e inquieta. Chiaramente, lo stregone della Corporazione dei Ladri era più temuto che amato dal suo datore di lavoro e dai beneficiari delle sue arti. Apparentemente ignaro di questa reazione alla sua comparsa, Hristomilo, sorridendo a labbra strette, si arrestò a fianco della seggiola di Krovas, e inclinò la faccia di roditore, ombreggiata dal cappuccio, in una parvenza d'inchino. Krovas levò la mano verso il Mouser per imporgli di tacere. Poi, umettandosi le labbra, chiese a Hristomilo, in toni bruschi e nervosi: «Conosci questi due?» Hristomilo annuì deciso. «Mi hanno appena spiato, con un occhio ciascuno» disse «mentre ero intento al lavoro di cui abbiamo parlato. Li avrei scacciati e avrei fatto loro rapporto, ma questo avrebbe potuto spezzare il mio incantesimo, alterare la consonanza tra il ritmo delle mie parole e l'azione dell'alambicco. Quello è un Nordico, i lineamenti dell'altro hanno un aspetto meridionale... probabilmente viene da Tovilyis o dai dintorni. Sono entrambi più giovani del loro aspetto attuale. Direi che sono bravacci indipendenti, del tipo che la Confraternita ingaggia come avventizi quando ci sono contemporaneamente da sbrigare parecchi lavori di guardia e di scorta. Goffamente camuffati ora, certo, da mendicanti.» Fafhrd sbadigliando e il Mouser scuotendo la testa con aria di commiserazione cercarono di far capire che questa era una ben modesta congettura. «È quanto posso dirti senza leggere nelle loro menti» concluse Hristomilo. «Devo andare a prendere le mie lampade e i miei specchi?» «Non ancora.» Krovas girò la testa e puntò fulmineamente l'indice contro il Mouser. «Come puoi conoscere le cose di cui andavi farneticando?... I Sette Segreti e tutto il resto. Rispondi in modo semplice e diretto, ora... niente rodomontate.» Il Mouser rispose con disinvoltura: «C'è una nuova cortigiana, che è andata ad abitare in Via dei Ruffiani... si chiama Tyarya. È alta, bella, ma è
gobba, e questo delizia, stranamente, molti dei suoi clienti. Ora, Tyarya mi ama, perché i miei occhi menomati fanno il paio con la sua spina dorsale contorta, o perché mossa dalla pietà per la mia cecità (lei ci crede) e per la mia gioventù o per qualche bizzarro prurito, come quelli dei suoi clienti per lei, che tale combinazione desta nella sua carne. «Uno dei suoi frequentatori, un mercante giunto recentemente da Klelg Nar e chiamato Mourph, è rimasto colpito dalla mia intelligenza, dalla mia forza, dal mio ardimento e dal mio tatto, e dalle medesime qualità, che albergano anche nel mio camerata. Mourph ci ha sondato, e ha finito per chiederci se odiavamo la Corporazione dei Ladri perché domina la Corporazione dei Mercanti. Intuendo la possibilità di aiutare i nostri, siamo stati al gioco, e una settimana fa Mourph ci ha ammesso in una cellula di tre elementi, al limitare esterno della rete della cospirazione intessuta dai Sette.» «E presumevi di fare tutto da solo?» domandò Krovas in toni agghiaccianti, levandosi a sedere più eretto e stringendo i braccioli del seggio. «Oh, no» negò candidamente il Mouser. «Abbiamo riferito ogni nostra azione al Maestro Mendicante del turno di giorno, ed egli le ha approvate, ci ha detto di continuare a spiare e di raccogliere ogni notizia e ogni diceria sulla cospirazione dei Sette.» «E a me non ne ha detto una parola!» sbottò Krovas. «Se è vero, Bannat la pagherà con la testa! Ma tu menti, non è vero?» Mentre il Mouser guardava Krovas con aria offesa, preparandosi a una virtuosa smentita, un uomo corpulento passò zoppicando davanti alla soglia, sostenendosi con un bastone dorato. Si muoveva in silenzio, con dignità. Ma Krovas lo scorse. «Maestro Mendicante della Notte!» chiamò bruscamente. Lo zoppo si fermò, si girò, e claudicando maestosamente varcò la porta. Krovas puntò il dito contro il Mouser, poi contro Fafhrd. «Conosci questi due, Flim?» Il Maestro Mendicante della Notte studiò i due senza fretta, poi scosse il capo inturbantato di stoffa dorata. «Non li ho mai visti. Cosa sono? Mendicanti abusivi?» «Ma Flim non può conoscerci» spiegò disperatamente il Mouser, rendendosi conto che tutto crollava addosso a lui e a Fafhrd. «Tutti i contatti li abbiamo avuti con il solo Bannat.» Flim disse, senza alzare la voce: «Da dieci giorni, Bannat è a letto, colpito dalla febbre delle paludi. In questo periodo, io sono stato il Maestro dei
Mendicanti durante il giorno e durante la notte.» In quel momento, Slevyas e Fissif si precipitarono nella stanza. Il più alto dei ladri aveva un bernoccolo bluastro sulla mandibola. Il ladro grasso aveva la testa fasciata, al di sopra degli occhi sfreccianti. Additò prontamente Fafhrd e il Mouser e gridò: «Ecco i due che ci hanno aggredito, hanno preso il bottino di Jengao, e hanno ucciso la nostra scorta.» Il Mouser sollevò il gomito e la bottiglia verde andò in pezzi ai suoi piedi, sul pavimento di marmo. L'odore di gardenia si diffuse rapidamente nell'aria. Ma ancora più rapidamente il Mouser, liberandosi della stretta noncurante delle guardie sbalordite, balzò verso Krovas, brandendo la spada fasciata. Se fosse riuscito a sopraffare il Re dei Ladri e a puntargli lo Zampino alla gola, sarebbe stato in condizioni di trattare per salvare la propria vita e quella di Fafhrd. A meno che gli altri ladri preferissero vedere uccidere il loro Gran Maestro, il che non lo avrebbe affatto sbalordito. Con rapidità sorprendente, Flim tese il bastone dorato e fece lo sgambetto al Mouser, che ruzzolò, tentando a mezza strada di trasformare quella capriola involontaria in una volontaria. Nel frattempo, Fafhrd si avventò pesantemente contro il suo custode di sinistra, avventando verso l'alto l'Astagrigia fasciata per colpire sotto la mascella il custode di destra. Recuperando l'equilibrio su di una gamba sola con una poderosa contorsione, balzò verso la parete del bottino, che stava dietro di lui. Slevyas si lanciò verso la parete dove stavano appesi gli utensili da ladri, e con un tremendo sforzo muscolare strappò il grosso piede di porco dall'anello che lo reggeva. Quando si rimise in piedi, dopo essere malamente atterrato davanti al seggio di Krovas, il Mouser vide che era vuoto, e che il Re dei Ladri vi stava nascosto dietro, con il pugnale sguainato, gli occhi profondamente incassati accesi da una fredda ansia di battaglia. Girando su se stesso, vide i guardiani di Fafhrd sul pavimento, uno disteso esanime, l'altro che cominciava allora a rialzarsi, mentre il gigantesco Nordico, con le sue spalle contro la parete ornata di bizzarri gioielli, minacciava tutti i presenti con Astagrigia e con il lungo coltello, strappato dal fodero dietro di lui. Sguainando a sua volta lo Zampino, il Mouser gridò con voce strombettante: «Fatevi tutti da parte! È impazzito! Gli bloccherò io la gamba buona!» E correndo attraverso la calca, passò tra i suoi due guardiani, che ancora sembravano considerarlo con una certa reverenza, si avventò con il
pugnale lampeggiante verso Fafhrd, augurandosi che il Nordico, ormai ebbro della battaglia non meno che di vino e di profumo velenoso, lo riconoscesse e intuisse il suo stratagemma. Astagrigia saettò ben al di sopra della sua testa china. Il nuovo amico non solo aveva compreso, ma stava al gioco... non lo aveva mancato per puro caso, o almeno così sperava il Mouser. Chinandosi verso il muro, tagliò i legami della gamba sinistra di Fafhrd. Astagrigia e il lungo pugnale di Fafhrd continuarono a risparmiarlo. Balzando in piedi, egli si lanciò verso il corridoio, girando il capo per gridare a Fafhrd: «Andiamo!» Hristomilo rimase fuori portata, a osservare in silenzio. Fissif corse via per mettersi al riparo. Krovas restò dietro il seggio, urlando: «Fermateli! Bloccateli!» I tre scherani rimasti, che cominciavano allora a recuperare un po' di spirito combattivo, si radunarono per contrastare il Mouser. Ma questi, minacciandoli con rapide finte dello stiletto, li costrinse a rallentare e sfrecciò in mezzo a loro... e poi, appena in tempo, deviò con un colpo del Cesello il bastone dorato di Flim, proteso ancora una volta per farlo inciampare. Tutto questo diede a Slevyas il tempo di allontanarsi dal muro degli utensili e di avventare contro il Mouser un gran colpo con il massiccio piede di porco. Ma mentre il colpo partiva, una lunghissima spada urtò pesantemente Slevyas in pieno petto, sbalzandolo all'indietro, così che l'oscillazione del piede di porco risultò molto corta e gli passò accanto sibilando, senza colpirlo. Poi il Mouser si trovò nel corridoio, con Fafhrd accanto, anche se per qualche ragione inspiegabile questi procedeva ancora a balzelloni. Il Mouser indicò le scale. Fafhrd annuì, ma indugiò per protendersi, sempre su una gamba sola, a strappare dalla parete più vicina una dozzina di cubiti di drappi pesanti, che gettò attraverso il corridoio per attardare gli inseguitori. Arrivarono alla scala e salirono, anziché scendere, con il Mouser all'avanguardia. Dietro di loro si levarono grida, per lo più soffocate. «Smettila di saltare, Fafhrd!» ordinò querulo il Mouser. «Hai di nuovo due gambe.» «Sì, e l'altra è ancora come morta» si lagnò Fafhrd. «Ah! Adesso comincia a recuperare la sensibilità.» Un coltello sfrecciò sibilando tra loro e, con un tonfo sordo, colpì con la punta la parete, facendo volare polvere di pietra. Poi i due compagni superarono la svolta. Altri due corridoi deserti, altre due rampe di scale curvilinee, e poi essi
videro sopra di loro, sull'ultimo pianerottolo, una robusta scala a pioli che saliva verso un buio buco squadrato nel tetto. Un ladro, con i capelli trattenuti da un fazzoletto colorato (sembrava che fosse il distintivo delle guardie), minacciò il Mouser con la spada sguainata, ma quando vide che gli avversari erano due, e lo caricavano entrambi, decisi, con i pugnali scintillanti e strane mazze o bastoni, girò su se stesso e corse via per l'ultimo corridoio deserto. Il Mouser, seguito da Fafhrd, salì rapidamente la scala a pioli e, senza soffermarsi, volteggiò oltre la botola, e uscì nella notte incrostata di stelle. Si trovò presso l'orlo privo di ringhiera di un tetto d'ardesia, abbastanza inclinato da apparire spaventoso a un novizio, ma assolutamente non pericoloso a un veterano. Accovacciato sul lungo spiovente del tetto c'era un altro ladro con il fazzoletto sui capelli: impugnava una lanterna cieca. Egli copriva e scopriva rapidamente, certo secondo qualche cifrario, la lente della lanterna, dalla quale partiva un fioco raggio verde, diretto a nord, dove un puntolino di luce rossa ammiccava fievole in risposta... lontano, lontano, all'altezza delle mura che chiudevano la città dalla parte del mare, sembrava: o forse era sull'albero maestro di una nave ancora più distante, che navigava nel Mare Interno. Contrabbandieri? Scorgendo il Mouser, questo ladro sguainò immediatamente la spada e, facendo dondolare con l'altra mano la lanterna, avanzò minaccioso. Il Mouser lo scrutò, con prudenza... la lanterna cieca, con il suo metallo scottante, la fiamma nascosta e il serbatoio dell'olio poteva diventare un'arma infida e pericolosa. Ma intanto Fafhrd era uscito dalla botola, e s'era fermato accanto al Mouser; finalmente aveva ripreso a servirsi di tutti e due i piedi. Il loro avversario rinculò lentamente verso l'estremità settentrionale del tetto. Il Mouser si chiese, fuggevolmente, se in quel punto c'era un'altra botola. Volgendosi nell'udire un tonfo inatteso, egli vide che Fafhrd stava prudentemente sollevando la scala a pioli. Nel momento stesso in cui la tirò fuori, un coltello sfrecciò dalla botola, sfiorandolo. Mentre ne seguiva il volo, il Mouser aggrottò la fronte, ammirando involontariamente l'abilità necessaria per scagliare verticalmente un coltello con una certa precisione. La lama cadde rumorosamente accanto a loro e scivolò giù dal tetto. Il Mouser si avviò a grandi passi verso sud, sulle tegole d'ardesia; era arrivato a metà distanza dalla botola in quella parte del tetto, quando lo raggiunse il lieve tonfo metallico del coltello che colpiva i ciottoli di Vicolo
dell'Assassinio. Fafhrd lo seguì più lentamente, un po' perché aveva minor esperienza in fatto di tetti, un po' perché zoppicava ancora leggermente per non affaticare troppo la gamba sinistra indolenzita, e un po' perché portava la pesante scala a pioli in equilibrio sulla spalla destra. «Quella non ci occorre» gli gridò il Mouser. Senza esitare, Fafhrd la lanciò allegramente oltre l'orlo del tetto. Prima che si sfasciasse con uno scroscio nel Vicolo dell'Assassinio, il Mouser spiccò un balzo di due braccia in profondità e di un braccio in ampiezza per raggiungere il tetto vicino, che aveva un'inclinazione invertita e meno accentuata. Fafhrd gli atterrò al fianco. Quasi correndo, il Mouser procedette tra una foresta fuligginosa di comignoli grandi e piccoli, cisterne dalle zampe nere, botole, voliere e trappole per piccioni, attraverso cinque tetti: quattro erano progressivamente più bassi, mentre il quinto riguadagnò circa un braccio di quota. Gli spazi tra gli edifici potevano venire scavalcati facilmente con un balzo, poiché nessuno era ampio più di tre braccia, e non era necessario avere una scala a pioli da usare come ponte: solo uno di quei tetti aveva un'inclinazione più accentuata di quello della Casa dei Ladri. Finalmente raggiunsero la Via dei Pensatori, in un punto in cui era attraversata da un sovrappassaggio coperto, molto simile a quello dell'azienda di Rokkermas e Slaarg. Mentre l'attraversavano, un po' curvi, a grandi passi, qualcosa passò loro accanto sibilando e atterrò più avanti, con un tonfo metallico. Quando i due balzarono giù dal tetto del passaggio coperto, altri tre "qualcosa" sibilarono sopra le loro teste e finirono sferragliando più oltre. Uno rimbalzò contro un tozzo comignolo, e atterrò quasi sui piedi del Mouser. Questo lo raccolse, immaginando che fosse un sasso, e fu sorpreso dal peso assai maggiore di una sfera di piombo, grossa quanto due dita ripiegate. «Quelli» disse, tendendo il pollice dietro le spalle «non hanno perso tempo: hanno portato dei frombolieri sul tetto. Sono in gamba, quando si arrabbiano.» Poi proseguirono verso sud, attraverso un'altra nera foresta di comignoli, fino a un punto su Via del Buon Mercato, dove i piani superiori si protendevano sopra la strada, da entrambe le parti, in modo che fosse facile balzare dal lato opposto. Durante la traversata dei tetti, un fronte avanzante di smog notturno, abbastanza denso da farli tossire e starnutire, li aveva inghiottiti, e per circa sessanta battiti di cuore il Mouser aveva dovuto rallentare il passo e procedere a tentoni, mentre Fafhrd gli teneva la mano sulla
spalla. Giunti a pochissima distanza da Via del Buon Mercato erano usciti all'improvviso, completamente, dallo smog, e avevano rivisto di nuovo le stelle, mentre il fronte nero si era allontanato ondeggiando verso nord, dietro di loro. «Cosa diavolo era?» aveva chiesto Fafhrd: e il Mouser si era stretto nelle spalle. Un falco notturno avrebbe veduto un immenso, fitto cerchio di nero smog che si irradiava in tutte le direzioni da un centro nei pressi dell'Anguilla d'Argento, diventando via via sempre più grande nel diametro e nella circonferenza. A est di Via del Buon Mercato, i due camerati scesero ben presto al suolo, atterrando nella Corte della Peste, dietro la piccola casa di Nattick Ditaleste, il Sarto. Lì giunti, finalmente si guardarono, guardarono le spade avvoltolate nelle fasce, i loro visi sudici e gli abiti resi ancora più sporchi dalla fuliggine dei tetti, e risero, e risero e risero. Quella clamorosa e sincera autoironia continuò, mentre liberavano le spade (il Mouser lo fece come se la sua fosse un pacco a sorpresa) e si agganciavano di nuovo i foderi alle cinture. La fatica aveva bruciato in loro fin l'ultimo atomo del vino fortificato e del profumo puzzolente, ancora più forte: ma essi non provavano affatto il desiderio di bere ancora, solo l'impulso di correre a casa, a ingozzarsi di caldo, amaro gahveh, e di raccontare alle loro deliziose ragazze, in tutti i particolari, quella folle avventura. Procedettero a grandi passi, fianco a fianco, lanciandosi di tanto in tanto occhiate reciproche e ridacchiando, sebbene continuassero a guardarsi cautamente indietro e avanti per timore di venir inseguiti o intercettati, sebbene in realtà non si aspettassero che ciò avvenisse. Libera dallo smog notturno e bagnata dalla luce delle stelle, la zona angusta in cui si trovavano sembrava molto meno fetida e opprimente di quand'erano partiti. Persino il Viale dell'Immondizia aveva una certa sua freschezza. Una volta sola, per qualche breve istante, i due divennero seri. Fafhrd disse: «Questa notte hai dimostrato veramente di essere un genio idiota ubriaco, mentre io ero un pasticcione sbronzo. Legarmi la gamba! Avvoltolare le spade in modo che non potessimo usarle se non come randelli!» Il Mouser scrollò le spalle. «Eppure, fasciando le spade, ho evitato a noi stessi di commettere, questa notte, un gran numero di omicidi.»
Fafhrd ribatté, accalorandosi: «Uccidere in combattimento non è assassinare.» Il Mouser scrollò di nuovo le spalle. «Uccidere è assassinare, indipendentemente dai bei nomi che puoi dare a questa azione. Così come mangiare è divorare, e bere ingollare. Per gli Dei, sono assetato, affamato e stanchissimo! A me, morbidi cuscini, cibo, e gahveh fumante!» Salirono in fretta la lunga scala scricchiolante e malfida, con disinvolta prudenza, e quando furono entrambi sulla veranda, il Mouser spinse la porta per aprirla rapidamente, di sorpresa. L'uscio non si mosse. «Chiuso con i chiavistelli» disse brevemente il Mouser a Fafhrd. Poi notò che nessuna luce filtrava dalle fessure intorno alla porta, o dalle stecche delle imposte... al massimo, un lieve barlume rossoarancio. Allora, con un sorriso sentimentale e un tono affettuoso, in cui si insinuava solo un'ombra di inquietudine, egli disse: «Si sono addormentate, quelle spensierate fanciulle!» Bussò forte, tre volte, e poi, facendosi portavoce con le mani, gridò sommessamente alla fenditura dell'uscio: «Olà, Ivrian! Sono tornato sano e salvo. Salute, Vlana. Puoi essere fiera del tuo uomo, che ha abbattuto innumerevoli ladri della Corporazione con un piede legato dietro la schiena!» Dall'interno non giunse alcun suono... cioè, se non si teneva conto di un fruscio così lieve che era impossibile esserne certi. Fafhrd dilatò le narici. «Sento odore di fumo.» Il Mouser batté di nuovo sull'uscio. Nessuno rispose. Fafhrd gli accennò di scostarsi, aggobbendo le grosse spalle per sfondare la porta. Il Mouser scosse il capo, e con abili gesti staccò un mattone che fino a un momento prima sembrava saldamente fissato nel muro accanto alla porta. Infilò nel varco tutto il braccio. Si udì il cigolio di un chiavistello spostato, poi di un altro, poi di un altro ancora. Il Mouser ritrasse prontamente il braccio, e la porta si aprì verso l'interno al primo tocco leggero. Ma né il Mouser né Fafhrd si precipitarono dentro, come avevano avuto intenzione di fare, perché l'indefinibile odore del pericolo e dell'ignoto usciva a refoli insieme all'odore più intenso del fumo e a un aroma lieve, dolciastro e nauseante che, sebbene femmineo, non era un vero profumo per signora, e un odore animale, acre e muffito. I due potevano vedere vagamente la stanza, nel bagliore arancione che usciva dal piccolo rettangolo dello sportello aperto della stufetta nerodipin-
ta. Eppure quel rettangolo non era regolarmente diritto, ma innaturalmente inclinato: era chiaro che la stufa era stata semirovesciata, e adesso era appoggiata contro un muro laterale del camino, e lo sportello era ricaduto, aprendosi, in quella direzione. Già di per sé, quell'angolazione innaturale diede ai due la sensazione di un intero universo sovvertito. Il bagliore arancione mostrava i tappeti stranamente raggricciati, segnati qua e là da cerchi neri ampi un palmo; le candele già ammonticchiate in bell'ordine erano sparse sotto gli scaffali, insieme a fiasche e scrignetti smaltati e, soprattutto, due mucchi neri, bassi, irregolari, allungati, uno accanto al camino, l'altro per metà sul divano dorato, per metà ai suoi piedi. E da ognuno di quei mucchi fissavano il Mouser e Fafhrd innumerevoli paia di occhietti distanziati, rossi come la brace. Sul pavimento coperto da spessi tappeti, dall'altra parte del camino, c'era una ragnatela d'argento... una gabbia d'argento caduta: ma dentro non vi cantavano più gli inseparabili. Vi fu un lieve struscio metallico, quando Fafhrd si assicurò che Astagrigia fosse ben libera dentro il fodero. Come se quel lieve suono fosse stato prescelto in precedenza come segnale per l'attacco, i due sguainarono fulmineamente le spade e avanzarono fianco a fianco nella stanza, controllando la solidità del pavimento a ogni passo. Nell'udire lo stridere delle spade che venivano sguainate, gli occhietti rossi come la brace avevano ammiccato, muovendosi irrequieti, e ora, all'appressarsi dei due uomini, si dispersero rapidamente, appaiati: ogni paio era all'estremità anteriore di un piccolo corpo nero e snello, dalla coda pelata, e ognuno si diresse verso uno dei cerchi neri che costellavano i tappeti, e vi sparì. Senza alcun dubbio, i cerchi neri erano tane di ratti, da poco aperte attraverso il pavimento e i tappeti: e quegli esseri dagli occhi rossi erano ratti neri. Fafhrd e il Mouser balzarono avanti, sferrando rabbiosi fendenti contro di loro, freneticamente, bestemmiando e ringhiando e imprecando. Ma ne squartarono pochissimi. I ratti fuggirono con rapidità sovrannaturale, scomparendo nei buchi ai piedi delle pareti e del camino. Il primo fendente furioso di Fafhrd sfondò il pavimento, e al suo terzo passo, con uno scricchiolio e uno schianto minacciosi, egli affondò con la gamba nel pavimento, fino all'anca. Il Mouser lo superò sfrecciando, senza
preoccuparsi dei continui scricchiolii. Fafhrd liberò la gamba intrappolata, senza neppure badare alle graffiature causate dalle schegge, e senza preoccuparsi degli scricchiolii, più di quanto facesse il Mouser. Si lanciò dietro il suo camerata, che aveva infilato un fascio di minuscole torce nella stufa, per fare più luce. Il colmo dell'orrore fu che, sebbene tutti i ratti fossero fuggiti, rimanevano i due mucchi allungati, sebbene fossero considerevolmente ridotti di mole e, come ora si scorgeva chiaramente nella luce delle fiamme gialle che uscivano dallo sportello inclinato della stufa, avevano cambiato colore. Quei mucchi non erano più neri costellati di puntolini rossi, ma erano una mistura di nero lucente e di marrone cupo, di un blu-porpora nauseante, di viola e di velluto nero e di ermellino bianco, e dei rossi delle calze e del sangue e delle carni e delle ossa insanguinate. Sebbene le mani e i piedi fossero stati spolpati fino all'osso, e i corpi scavati fino alla profondità del cuore, i due visi erano stati risparmiati. Ed era peggio, perché erano quelli, le parti rese bluastre e violacee dalla morte per strangolamento, con le labbra aggricciate, gli occhi sporgenti, tutti i lineamenti contorti dalla sofferenza. Solo i capelli, neri e bruni, lucevano immutati... i capelli e i denti bianchi, bianchi. Mentre ognuno dei due uomini guardava la sua amata, incapace di distogliere gli occhi nonostante le ondate di orrore e d'angoscia e di furore che lo invadevano in un costante crescendo, vide un sottile filo nero slacciarsi dalla nera depressione che cingeva ognuna delle due gole e disperdersi, dissiparsi verso la porta aperta... due fili di smog notturno. Con un crescendo di scricchiolii, il pavimento si abbassò di tre spanne, al centro, prima di raggiungere una nuova, temporanea stabilità. Le parti periferiche delle menti che avevano al centro la tortura notarono mille particolari: il pugnale dall'impugnatura d'argento che era stato di Vlana aveva inchiodato sul pavimento un ratto il quale, probabilmente troppo zelante, si era avvicinato eccessivamente prima che lo smog notturno avesse compiuto la sua opera magica. La cintura e la borsa erano scomparse. Anche lo scrignetto di smalto azzurro intarsiato d'argento, in cui Ivrian aveva riposto la parte di gemme spettante al Mouser, era sparito. Il Mouser e Fafhrd si guardarono; i loro volti sbiancati e tesi erano folli, eppure erano perfettamente uniti nell'intesa e nella volontà. Non ebbero bisogno di dirsi ciò che doveva essere accaduto lì dentro quando i due cappi di vapore nero si erano serrati nel ricevitore di Hristomilo, o perché Slivikin aveva saltellato squittendo di gioia, o il significato di frasi come "una
sufficiente moltitudine di banchettanti" o "non dimenticare il bottino" o "il lavoro di cui abbiamo parlato". Fafhrd non aveva bisogno di spiegare perché ora si toglieva la sopravveste e il cappuccio, o perché svelse il pugnale di Vlana, ne fece cadere il ratto morto con una scrollata del polso, e l'infilò alla cintura. Il Mouser non ebbe bisogno di dire perché cercò mezza dozzina di fiasche d'olio e, dopo averne spezzate tre davanti alla stufa fiammeggiante indugiò, rifletté, e ripose le altre tre nel sacco appeso alla cintura, aggiungendovi le rimanenti torce e il portafuoco, pieno fino all'orlo di braci rosse, con il coperchio ben stretto. Poi, sempre senza che i due si scambiassero una parola, il Mouser si avvolse un tappetino intorno alla mano, poi la infilò nel camino, rovesciando in avanti la stufa fiammeggiante, che cadde con lo sportello in basso sui tappeti intrisi d'olio. Intorno a lui scaturirono alte fiamme gialle. I due si voltarono e corsero alla porta. Il pavimento crollò, tra scricchiolii ancora più forti. Il Mouser e Fafhrd scavalcarono disperatamente una ripida montagnola di tappeti ammassati e raggiunsero l'uscio e la veranda un attimo prima che dietro di loro tutto crollasse, e i tappeti in fiamme e la stufa e tutta la legna da ardere e le candele e il divano dorato e tutti i tavolini e gli scrignetti e le fiasche, e gli impensabili corpi mutilati dei loro primi amori precipitassero nella stanza sottostante, polverosa e piena di ragnatele, e che le grandi fiamme di una cremazione purificatrice o almeno annientatrice cominciassero a salire rombando. Si avventarono giù per la scala, che si staccò dal muro e crollò con un tonfo sordo nell'oscurità proprio mentre arrivavano a terra. Furono costretti a scavalcare faticosamente i gradini schiantati, per arrivare al Vicolo delle Ossa. Ormai le fiamme facevano sfrecciare le fulgide lingue di lucertola dalle finestre chiuse della soffitta e da quelle inchiodate del piano sottostante. Quando i due arrivarono alla Corte della Peste, correndo fianco a fianco a tutta velocità, la campana dell'allarme antincendio dell'Anguilla d'Argento prese a rintoccare stridente alle loro spalle. Erano ancora lanciati a piena velocità quando arrivarono alla biforcazione del Vicolo della Morte. In quel punto, il Mouser afferrò Fafhrd e lo costrinse a fermarsi. Il grosso barbaro gli sferrò un colpo, imprecando pazzamente, e desistette soltanto (con il volto sbiancato ancora demente) quando il Mouser gridò ansimando: «Solo dieci battiti di cuore, per armarci!» Sfilò il sacco dalla cintura e, tenendolo stretto per l'imboccatura, lo sbat-
té sui ciottoli, con forza sufficiente per frantumare non solo le fiasche d'olio, ma anche il portafuoco: poco dopo, il sacco prese a fiammeggiare un poco, alla base. Poi il Mouser sguainò il lucente Cesello, e Fafhrd Astagrigia, e insieme ripresero a correre; il Mouser faceva ruotare il sacco in grandi cerchi, per alimentare le fiamme. Era ormai una sfera di fuoco che gli bruciava nella mano sinistra quando attraversarono sfrecciando Via del Buon Mercato e si avventarono nella Casa dei Ladri; e il Mouser, spiccando un gran balzo, la scagliò nella grande nicchia sopra la porta e la lasciò andare. Le guardie nella nicchia urlarono di sorpresa e di dolore per quell'invasione fiammeggiante del loro nascondiglio, e non ebbero il tempo di far nulla con le spade o con le armi che comunque avevano, contro gli altri due invasori. Gli allievi ladri si riversarono dalle porte più avanti, nell'udire le urla e il tonfo dei piedi, e poi rientrarono nel vedere le fiamme ardenti e i due dalle facce indemoniate che brandivano le lunghe spade lucenti. Un piccolo apprendista scarno, che non poteva avere più di dieci anni, indugiò troppo a lungo. Astagrigia lo trapassò spietatamente, mentre i grandi occhi si spalancavano e la bocca minuta si apriva per l'orrore e per invocare misericordia da Fafhrd. Più avanti risuonò un bizzarro richiamo lamentoso, agghiacciante, e le porte cominciarono a chiudersi, invece di vomitare le guardie armate che i due quasi speravano di veder comparire, per infilzarle sulle loro spade. E nonostante le lunghe torce appese alle pareti e cambiate da poco, il corridoio era buio. La ragione di questa stranezza apparve finalmente evidente quando Fafhrd e il Mouser si avventarono su per la scala. Tentacoli di smog notturno apparivano nella tromba delle scale, materializzandosi dal nulla. I tentacoli divennero più lunghi, più numerosi e tangibili. Dove toccavano, si appiccicavano malignamente. Nel corridoio al primo piano si disponevano da una parete all'altra e dal soffitto al pavimento, come una ragnatela gigantesca; e divennero così concreti che il Mouser e Fafhrd dovettero reciderli per passare, o almeno così credevano le loro menti folli. La ragnatela nera smorzò leggermente il ripetersi del bizzarro richiamo lamentoso che proveniva dalla settima porta, e che questa volta si smorzò in un gaio squittio e in una sghignazzata demente quanto le emozioni dei due aggressori. Anche lì le porte si chiudevano con tonfi precipitosi. In un effimero
lampo di razionalità, il Mouser intuì che non era di lui e di Fafhrd che i ladri avevano paura, perché non li avevano ancora visti, ma piuttosto di Hristomilo e della sua magia, che pure operavano per difendere la Casa dei Ladri. Persino la sala della mappa, da cui avrebbe dovuto più probabilmente irrompere il contrattacco, era sbarrata da un'enorme porta di quercia costellata di borchie di ferro. Ormai i due recidevano con raddoppiato furore le ragnatele nere, viscose, spesse come funi, a ogni passo. A mezza strada tra la sala della mappa e la stanza della magia, si stava formando sulla ragnatela d'inchiostro, dapprima spettrale ma via via sempre più concreto, un ragno nero grosso come un lupo. Il Mouser squarciò la pesante ragnatela che gli stava davanti, arretrò di due passi, e poi si avventò sul ragno, con un gran balzo. Il Cesello lo trapassò, colpendolo in mezzo agli otto occhi nerolucenti appena formati, e quello crollò come una vescica squarciata, esalando un fetore abominevole. Poi il Mouser e Fafhrd si affacciarono nella sala della magia, il covo dell'alchimista. Era come l'avevano veduta la prima volta: ma certe cose si erano raddoppiate, o moltiplicate più e più volte. Sul lungo tavolo due recipienti a forma di zucca gorgogliavano e bollivano, esalando dalle bocche due solide funi frementi, con una rapidità maggiore di quella con cui si muove il cobra nero della palude, capace di atterrare un uomo... E quelle funi non si riversavano in ricevitori gemelli, bensì nell'aria pura della stanza (se mai l'aria della Casa dei Ladri poteva essere chiamata pura, in quel momento), intessendo una barriera tra le spade dei due compagni e Hristomilo, che stava ancora ritto, curvo sulla pergamena bruna stregata, sebbene questa volta il suo sguardo esultante fosse fisso su Fafhrd e sul Mouser, e solo di tanto in tanto si abbassasse per controllare il testo dell'incantesimo che egli intonava con voce tonante. All'altra estremità del tavolo, nello spazio libero dalle ragnatele, saltellava non soltanto Slivikin, ma anche un ratto enorme, eguale a lui per le dimensioni di tutte le membra, eccettuata la testa. Dalle tane ai piedi delle pareti, centinaia di occhietti rossi scintillavano e brillavano, a coppie. Con un urlo di furore Fafhrd cominciò a sferrare grandi fendenti alla barriera nera, ma le funi venivano sostituite dalle zucche nere con la stessa rapidità con cui egli le recideva, mentre le estremità mozzate, anziché ri-
cadere inerti, cominciavano a protendersi avidamente verso di lui, come serpenti stritolatori o liane strangolatrici. All'improvviso, egli spostò l'Astagrigia nella mano sinistra, sguainò il lungo pugnale e lo scagliò contro lo stregone. Mentre volava lampeggiando verso il bersaglio, la lama tagliò tre tentacoli, venne deviata e rallentata da un quarto e da un quinto, fu quasi arrestata da un sesto e finì, penzolante e inutile, nella stretta di un settimo. Hristomilo sghignazzò e sogghignò, scoprendo gli enormi incisivi superiori, mentre Slivikin squittiva in estasi e spiccava balzi ancora più alti. Il Mouser scagliò lo Zampino senza risultati migliori... anzi con esito peggiore, perché la sua azione diede a due sfreccianti tentacoli di smog il tempo di attorcersi rispettivamente intorno alla mano che impugnava la spada e intorno al collo, quasi soffocandolo. I ratti neri uscirono correndo dalle grosse tane alla base delle pareti. Intanto, altri tentacoli serpeggiavano intorno alle caviglie, alle ginocchia e al braccio sinistro di Fafhrd, facendolo quasi ricadere. Ma mentre si dibatteva per tenersi in equilibrio, egli sfilò il pugnale di Vlana dalla cintura e l'alzò al di sopra della spalla, con l'elsa d'argento che brillava, la lama brunita dal sangue secco del ratto. Quando lo vide, il sorriso scomparve dalla faccia di Hristomilo. Lo stregone lanciò uno strano urlo, arretrò dalla pergamena e dal tavolo, e levò le tozze mani contratte, per allontanare da sé la fine. Il pugnale di Vlana volò senza incontrare ostacoli attraverso la ragnatela, i cui fili parvero addirittura scostarsi, passò tra le mani protese dello stregone e si piantò fino all'elsa nel suo occhio destro. Hristomilo lanciò un esile grido di sofferenza atroce e cercò di strappare via l'arma. La ragnatela nera si contorse, come negli spasimi della morte. Le zucche si infransero nello stesso istante, spargendo la lava sul tavolo scalfito, spegnendo le fiamme azzurre mentre il robusto legno del tavolo cominciava a fumigare un po', all'orlo della pozzanghera di lava. Gocce ardenti caddero sonoramente sul pavimento di marmo scuro. Con un debole, ultimo grido Hristomilo crollò in avanti, con le mani ancora contratte sugli occhi, sopra il naso sporgente, mentre l'elsa argentea del pugnale gli spuntava tra le dita. La ragnatela sbiadì, come inchiostro umido irrorato da un getto d'acqua pura. Il Mouser avanzò correndo e trafisse Slivikin e l'enorme ratto con un so-
lo affondo del Cesello, prima che le due bestie si rendessero conto di quanto accadeva. Anch'esse morirono rapidamente, con esili strilli, mentre tutti gli altri ratti voltarono le code e ripararono nelle tane, rapidi come folgori nere. Poi anche l'ultima traccia di smog notturno o di fumo stregato svanì e Fafhrd e il Mouser si trovarono, soli, con tre corpi esanimi, in un silenzio profondo che sembrava riempire non solo quella stanza ma tutta la Casa dei Ladri. Persino la lava eruttata dalle zucche aveva smesso di muoversi, e ormai si induriva, e il legno del tavolo non fumigava più. La follia li aveva abbandonati, il furore era svanito... sfogato fino all'ultimo atomo rosseggiante, completamente saziato. Non provavano l'impulso di uccidere Krovas o gli altri ladri, più di quanto desiderassero schiacciare delle mosche. Con un orrore retrospettivo, Fafhrd rivide il volto pietoso del ladro bambino che egli aveva infilzato nella sua furia demente. Solo l'angoscia rimase con loro, per nulla attenuata, anzi ancora più grande... l'angoscia e una ripugnanza che cresceva ancor più per tutto ciò che stava loro intorno: i morti, il disordine della sala della magia, tutta la Casa dei Ladri, tutta la città di Lankhmar, fino all'ultimo vicolo puzzolente, fino all'ultima guglia inghirlandata di smog. Con un sibilo di schifo, il Mouser svelse il Cesello dalle carogne dei roditori, ripulì la lama sulla prima stoffa che trovò, e la rinfoderò. Fafhrd, a sua volta, pulì sommariamente e ringuainò Astagrigia. Poi i due uomini recuperarono il pugnale e lo stiletto che erano caduti sul pavimento quando la ragnatela si era smaterializzata: ma nessuno dei due guardò il pugnale di Vlana, piantato nell'occhio dello stregone. Ma sul tavolo scorsero la borsa e la cintura di velluto nero lavorato d'argento che erano appartenute a Vlana, la cintura coperta parzialmente dalla lava nera indurita, e lo scrignetto di Ivrian, smaltato d'azzurro e intarsiato d'argento. Dalla borsa e dallo scrignetto i due ripresero le gemme di Jengao. Senza pronunciare una parola in più di quante se ne fossero scambiate nel nido incendiato del Mouser dietro l'Anguilla d'Argento, ma ancora uniti dalla comunanza di scopo, dall'identità di intenti, e dal loro cameratismo, i due si avviarono, con le spalle curve, a passi lenti e cauti che solo gradualmente accelerarono, uscirono dalla sala della magia e percorsero il corridoio coperto di fitti tappeti, passarono davanti alla sala della mappa dalla porta di quercia e di ferro ancora sbarrata, davanti a tutte le altre porte chiuse e silenziose... evidentemente l'intera Corporazione aveva terrore di Hristomilo, dei suoi incantesimi e dei suoi ratti. Poi scesero la scala e-
cheggiante, affrettando un po' il passo; percorsero il corridoio del pianterreno dal pavimento spoglio, passando davanti alle porte chiuse e silenziose, mentre il suono dei loro passi echeggiava fortissimo, sebbene si sforzassero di camminare senza far rumore; e poi sotto la nicchia bruciacchiata e deserta delle guardie, e fuori, su Via del Buon Mercato, svoltando a sinistra e a nord perché era la strada più breve per arrivare alla Via degli Dei, e là girando a destra e a est... non c'era anima viva, in quell'ampia strada, tranne un magro, curvo apprendista adolescente che lucidava mestamente il lastricato davanti a un'osteria, nella fioca luce rosata che cominciava a filtrare da oriente, sebbene vi fossero molte figure addormentate, russanti e sognanti nei fossi e sotto i portici neri... sì, svoltarono a destra e a est per la Via degli Dei, perché da quella parte c'era la Porta della Palude, che portava alla Strada Sopraelevata attraverso la Grande Palude Salata, e la Porta della Palude era la più vicina uscita dalla grande e affascinante città che ora era odiosa a entrambi, da non sopportare per un lacerante, plumbeo battito di cuore più di quanto fosse necessario... una città di spettri amati che i due non potevano affrontare. FINE