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«Questo non è un libro. È una seduta di terapia di gruppo. Si basa su sei prevedibili cicli depressivi che assalgono le donne durante un periodo di dodici mesi. Non vi spiegherà come superare suddetti cicli. Avrà raggiunto lo scopo per cui è stato scritto se vi aiuterà almeno un po’ a viverli ridendo e a non perdere definitivamente la salute mentale.» (Erma Bombeck)
La scrittrice Erma Bombeck è nata nel 1927, deceduta il 1996 era affetta da una malattia genetica, la sindrome del rene policistico. Tra i suoi aforismi troviamo frasi quali: 1. Oh Dio, se non puoi farmi dimagrire, fa’ almeno che i miei amici ingrassino. 2. Sono a dieta permanente da almeno vent’anni. Ho perso in totale 345 kg. In teoria dovrei essere appesa a un braccialetto. 3. Io non soffro di amnesie. Se soffrissi di amnesie me ne ricorderei. 4. Non imprestar mai la tua macchina a qualcuno che hai partorito. 5. Il lavoro casalingo può ucciderti, se fatto bene. 6. Il mio secondo lavoro di casa preferito è stirare. Il primo è sbattere la testa sulla sponda del letto fino a svenire. 7. Sciare? Io non pratico nessuno sport con delle ambulanze ai piedi della collina. …… c’è qualcuno a cui potrebbe non piacere una scrittrice così?
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Longanesi & C.., © 1981 – 20122 Milano, via Salvini, 3
Traduzione dall’originale americano At Wit’s End di Giuseppina Rossi
Illustrazioni di Loretta Vollmuth
Copyright © 1965, 1699, 1967 by Newsday, Inc.
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Questo non è un libro. È una seduta di terapia di gruppo. Si basa su sei prevedibili cicli depressivi che assalgono le donne durante un periodo di dodici mesi. Questo libro non vi spiegherà come superare i suddetti cicli depressivi. Non vi insegnerà ad affrontarli. Avrà raggiunto lo scopo per cui é stato scritto se vi aiuterà almeno un po’ a viverli ridendo e a non perdere definitivamente la salute mentale.
2 gennaio – 4 marzo Che cosa fa una ragazza simpatica come me in un posto come questo?
Comincia tutto un lunedì mattina, una giornata cupa, opprimente. Mi sveglio, e all’improvviso mi rendo conto che non ci sono feste in vista per il fine settimana, che non c’è più pane in casa, e che ho problemi di carnagione, troppo secca. E così dico ad alta voce, tra me e me: «Che cosa ci fa una ragazza simpatica come me in un posto come questo?» Le tende sono sporche (e se provassi a lavarle si disintegrerebbero), i braccioli del divano così lisi che si vede l’imbottitura. I fili d’argento dell’albero di Natale hanno messo radici nel tappeto. E qualche spiritoso ha scritto sulla polvere che copre il tavolino del salotto, YANKEE GO HOME. Sono quei maledetti bambini. É colpa loro se mi sveglio con questa depressione addosso. Se solo mi lasciassero in pace, potrei svegliarmi a modo mio. Invece si mettono in fila davanti al mio letto e mi fissano come se fossi Moby Dick in secca su qualche spiaggia. «Ci sente. L’ho vista sbattere le palpebre.» «Aspettate che si giri, poi mettetevi a tossire tutti insieme.» «Perché non le diamo un bel pugno e poi le chiediamo quello che vogliamo, senza tante storie?» «Fuori!» «Si sta tirando le coperte sulle orecchie. Avanti con la tosse.» Non so quanto ci vorrà prima che uno di loro scopra che basterebbe tastarmi il polso per accorgersi dal battito che sto solo fingendo di dormire, ma sono certa che prima o poi capiterà. Quando erano più piccoli era ancora peggio. Mi infilavano le dita bagnate in tutti i buchi della faccia e sussurravano: «Sei sveglia?» Oppure il caro vecchio papà mi buttava addosso un fagottino di flanella e diceva: «Ecco qua il piccolo di mamma». (Qualunque madre dotata di almeno
mezzo cervello sa che quando il piccolo di papa diventa il piccolo di mamma è perché sta addirittura nuotando nella pipì) Hanno un’immaginazione alla Edgar Allan Poe. Una volta mi hanno messo un criceto sul petto, e quando sono saltata su (coi muscoli della gola paralizzati dalla paura) hanno detto: «Ci dai un po’ di alcool per il piccolo chimico?» Suppongo che tutto questo sia meglio che non permetter loro di tirare calci contro il muro per costringere papà a riprender conoscenza e poi chiedergli: «Ce li dai i cartoncini che la lavanderia ti mette nei colletti delle camicie?» Qualunque cataclisma è preferibile all’intempestivo risveglio di papà. Dev’esserci qualcosa che non va in un uomo che tutte le mattine ricarica la sveglia dopo che ha suonato, e ogni volta che la sente squillare le dà una botta urlando: «Nessuno ha mai osato dirmi cosa devo fare. bella mia!» Personalmente non me ne frega un accidente dei giochetti che mio marito decide di fare con la sveglia, ma se devo sentirla suonare tutte le mattine alle 5,30, alle 6, alle 6,15 e alle 6,30, e comprensibile che a un certo punto reagisca al trillo della suoneria come un pugile in allenamento. Ecco che cosa capita quando si sposa un animale notturno. Mio marito sembra del tutto incapace di sopportare i rumori diurni, quali accessi di tosse di mosche raffreddate, tonfi di patatine fritte sul tappeto, lo scroscio del latte versato sui fiocchi d’avena. La verità è che il poveretto è un disadattato, non riesce a integrarsi nel sistema basato sull’orario di otto ore, specialmente perché le otto ore cominciano alle otto del mattino. Una volta si e perfino addormentato sull’archivio. Verso le undici di sera comincia la trasformazione. Si stira, sbadiglia, poi spalanca gli occhi, mi dà un calcio in uno stinco e dice: «Allora, hai avuto una buona giornata?» «Vuoi dire che è ancora lo stesso giorno di stamattina?»
sbadiglio io. «Non vuoi mica andare già a letto, vero?» «Sì.» «Ti da fastidio se suono un po’ la chitarra?» «Sì.» «Be’, allora mi metterò a leggere qualcosa prima di andare a dormire.» «Perché no? Sono l’unica donna del quartiere con le palpebre abbronzate.» Non ho dubbi, se potessi alzarmi con calma riuscirei a farcela. Sta nevicando. Grazie tante lassù . Prima che ci trasferissimo in un quartiere residenziale, credevo che per «causa di forza maggiore» si intendesse il diluvio universale, lo sprofondamento di Atlantide, il terremoto di San Francisco. Ma in questo posto definiscono «causa di forza maggiore» una nevicata in gennaio, e decidono di conseguenza di chiudere le scuole tutte le volte che si verifica questo evento di portata eccezionale. La prima volta che accadde, provai una calda, materna sensazione di sicurezza: vivevamo in una comunità che metteva il bene dei bambini al di sopra di qualunque altra considerazione. La seconda volta, la seconda in una settimana, provai una sensazione un po’ meno calda e materna, e cominciai a chiedermi se non fosse possibile mettere un paio di racchette da tennis ai piedi dei bambini e legar loro una corda intorno alla vita per guidarli. La terza volta che chiusero le scuole, la terza in due settimane, mi diedi da fare per organizzare una slitta trainata da cani che passasse di casa in casa a raccogliere le piccole pesti.
Quell’anno collezionammo quindici cause di forza maggiore, e tra le donne del quartiere comincio a farsi largo la certezza che «lassù qualcuno» ce l’avesse con loro. Divento un rito invernale. Ci sedevamo tutti intorno alla radio come un gruppetto underground in cerca di contatti col mondo esterno. Quando l’annunciatore leggeva i nomi delle scuole che sarebbero rimaste chiuse, si alzava un coro di grida entusiastiche e i bambini si disperdevano per la casa. Io facevo un piantino nell’asciugapiatti, poi annunciavo con voce risentita: «Va bene, adesso non cominciate a sudare nei vestiti buoni. RIPETETE CON ME. Non sudare nei vestiti buoni. Appenderli. Può darsi che domani facciate una capatina a scuola. E state lontani da quei cestini della colazione. Sono solo le otto e mezzo». Le mie parole restavano inascoltate. Pochi minuti, ed erano tutti equipaggiati per la neve, pronti a scappar via come razzi per andare a giocare sulla collina dietro la scuola. Una serie di piccole cose, in queste improvvise sospensioni delle lezioni, cominciò a infastidirmi. Per esempio, passavamo davanti alla scuola e il piccolo puntava il dito e diceva: «Che cos’è quell’edificio laggiù, papà?» Non solo, a marzo i bambini non avevano ancora fatto la festa di Natale. Fui costretta a mandare il «piccolo» di dieci anni a lezione di alfabeto. E il gruppo «Amore e dedizione all’educazione del bambino» dovette rimandare per ben tre volte una riunione perché i membri non riuscivano a scollarsi di dosso le piccole pesti, la mattina. «Praticamente è come se abitassimo a Fort Apache», disse una madre. «Se questa neve non si scioglie, il mio bambino non riuscirà più a entrare nel banco.» Ci dichiarammo tutte d’accordo sul fatto che era assolutamente necessario fare qualcosa.
Quest’anno è successa una cosa strana. Il giornale ha pubblicato una dichiarazione sul fatto che d’ora innanzi la neve non sarà più considerata causa di forza maggiore dalla commissione della pubblica istruzione dello stato. La commissione si impegna a far sì che i bambini passino un minimo di ore alla settimana a scuola, e che gli autobus continuino ad andare anche con le strade alluvionate. La neve è una cosa deliziosa, con tutti quei fiocchi bianchi che si depositano con leggerezza al suolo, e nulla riesce a farne risaltare la bellezza come le stupende impronte dei copertoni dell’autobus della scuola sul bianco mantello. Ormai nei quartieri residenziali la neve viene considerata un fenomeno naturale. E tutti sanno che la neve è una Mamma, capiscono che agisce solo per il bene dei bambini. «Avanti, muovete le chiappe. Infilatevi quegli stivali!» «Che cosa significa che sei un participio nella recita scolastica e hai bisogno di un costume? Stai attento, su in quel solaio, mi senti? Se cadi dalle scale e ti spacchi la testa farai tardi a scuola!» Una donna di fatica, ecco cosa sono. Se lo ricorderanno, quando sarò morta di ernia del disco. «E così hai ingoiato il dinosauro di plastica che c’era nel sacchetto delle patatine fritte. Che cosa vuoi che faccia? Che chiami il veterinario?» La colazione. Meglio preparare i cestini della colazione. Stanno litigando. Che cosa gliene importa di cosa ci metterò, in quei cestini? Baratterebbero la nonna con una pasticca per il mal di gola e un santino. Naturalmente nessuna di queste cose mi darebbe tanto fastidio se avessi un marito comprensivo. La mamma aveva
ragione. Avrei dovuto sposare quello studente di letteratura che si faceva venire uno sfogo sulla pelle tutte le volte che prendeva in mano un libro di Thoreau. E invece no, ho scelto il matto che si piazza nel vialetto di casa e si mette a urlare con tutto il fiato che ha in gola: «Ho trentanove anni. Guadagno quindicimila dollari all’anno. Non me la sento proprio di andare in ufficio con un thermos di Paperino!» Ragazzi, non si permetterebbe di urlare a quel modo se i muscoli delle mie braccia non fossero ormai flaccidi. Non l’ha mai fatto, prima. Lui non ha il diritto di lamentarsi. Lui non è costretto a buttarsi di traverso sulla lavatrice tutte le mattine, quando comincia il risciacquo, per impedirle di filarsela dalla stanza. Lui non deve vedersela tutti i giorni con l’ernia, quando rifà i letti a castello. Lui non è costretto a sfogliare enciclopedie a velocità supersonica, prima che arrivi l’autobus della scuola, per scoprire quale presidente degli Stati Uniti ha inventato la sedia a sdraio. Probabilmente è colpa del tempo. «Tutti fuori!» Guardateli barcollare per il vialetto come topolini appena nati. proprio il tempo. Niente foglie sugli alberi. Niente fiori. Niente erba verde. Niente da guardare dalla finestra tranne... una sposina fresca fresca che sta entrando dritta nella trappola! Eccole, le vicine scappano tutte via dalle finestre! Ce la fareste, voi, a guardarla tracciare con amore, insieme al maritino, il suo nuovo stupendo cognome sul bidone della spazzatura nuovo di zecca? Probabilmente domattina la vedremo ginocchioni nel viale dar la cera per terra. Datele qualche anno e diventerà come tutte noi, sempre a setacciare i fondi del caffè per recuperare il succhiotto del piccolo. Ma cosa sto dicendo? Datele qualche anno di vita matrimoniale e ci cercherà il bambino, nei fondi del caffè! A proposito, che cosa dovevo cercare, stamattina? Be’, mi verrà
in mente. Chissà quanto tempo perdo ogni giorno a cercare oggetti smarriti? Vediamo un po’. Ieri ho perso come minimo due ore a cercare le banane e una quantità di spilli sufficiente a tirar su un orlo. Per fortuna i bambini mi hanno suggerito di mettermi a camminare sul pavimento a piedi nudi, altrimenti il starei ancora cercando. Suppongo che avrei potuto scoprire dov’erano finite le banane annusando il fiato della truppa, ma bisogna pur fidarsi dei bambini, ogni tanto, quando dicono non sono stato io. Il giorno prima avevo perso le chiavi della macchina. Naturalmente non per colpa mia. La colpa era dello spiritoso che le aveva lasciate nel cruscotto. È l’unico posto dove uno non penserebbe mai di guardare. Diciamo che passo circa due ore al giorno a cercare oggetti vari. Questo significa 730 ore all’anno, senza contare i mesi di novembre e dicembre; quelli li passo a cercare i cartoncini di auguri che ho comprato a meta prezzo l’anno prima appena dopo Natale. Una delle mie bambine avrebbe messo radici al casello dell’autostrada per la Pennsylvania, se un gruppo di gitanti non l’avesse vista frugare nei bidoni dell’immondizia nel parco vicino e si fosse chiesto come aveva fatto ad arrivare fin la senza macchina. Mi chiedo se anche le altre donne passino il tempo a girare per casa alla ricerca di lime per le unghie e rotoli di scotch. Una volta conoscevo una donna che diceva sempre: «Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa». La odiavo. Mi chiedo che cosa direbbe se sapesse che tutte le mattine rotolo giù dal letto e striscio in cucina sulle ginocchia, nella speranza di imbattermi in una moneta scomparsa, in un calzino scompagnato, in un libro della biblioteca sollecitato un centinaio di volte o in uno stivale che mi faccia venire in mente dove ho ficcato l’altro.
Adesso ricordo che cosa devo assolutamente trovare... gli occhiali! Ma solo se ho voglia di vederci, oggi. Che cosa dovrei vedere oggi, che non possa vedere anche domani? Uno dei bambini ha detto che c’è qualcosa di strano nel forno. Probabilmente un vassoio di antipasti avanzato dalla festa di Capodanno. Gli occhiali li cercherò domani. Nel frattempo potrei telefonare a Susan e dirle della sposina appena arrivata. Meglio non correre il rischio. Può darsi che Susan sia di ottimo umore oggi, e dopo mi sentirei ancora più stravolta di adesso. Bisogna che pulisca questa casa, altrimenti potrebbero decidere di abbatterla per bonificare la zona. Non mi sorprenderebbe affatto di finire come la zia Lidia. Strano, non ci pensavo da anni, alla zia Lidia. La nonna diceva sempre che era scappata con un piazzista di vaniglia. Scommetto che la fatale decisione venne presa dopo le vacanze natalizie. Probabilmente i bambini avevano nascosto i dolci di Natale nell’armadio della camera da letto e le formiche avevano cominciato a venir fuori dal legno a squadroni. Una delle bambine si era messa a frugare nella cesta della biancheria sporca alla ricerca delle sue mutandine «preferite» da indossare il primo giorno di scuola. Lidia trovò il cane che a nove anni faceva ancora pipì sul tappeto e gli corse dietro con un pezzo di giornale. Il cane guardò un paio di fumetti, fece una risataccia e pisciò sul tappeto. Probabilmente lo zio Walter le diede un bacetto sulla guancia con la tenerezza di un cobra e disse che al ritorno dall’ufficio avrebbero parlato dei conti natalizi. Passò davanti a uno specchio e vide una ruga permanente sulla fronte, nel punto in cui le scivolava sempre giù il bigodino. La gonna le andava stretta. Tirò dentro il fiato. Non
si mosse niente. La sua migliore amica telefonò per dirle che il vestito di lustrini che aveva comperato per la festa di Capodanno era in svendita a meta prezzo. Scrutando il futuro, non riuscì a vedere altro che un lungo inverno in casa con quattro radio a transistor a tutto volume, una lavatrice spastica e l’estrema disperazione di cercar di conversare coi pesci tropicali dell’acquario. Volete sapere una cosa? Scommetto che la zia Lidia non lo conosceva nemmeno quel piazzista di vaniglia. Quando bussò alla porta, sorrise, e disse, «buongiorno, signora. Sto attraversando questa zona diretto a Lingua Biforcuta, Iowa», la zia Lidia prese la borsa, la gabbia del canarino e il tonico per il sistema nervoso, chiuse piano la porta dietro di sé e rispose tranquillamente: «Andiamo». Ogni donna combatte la depressione a modo suo. Questo manuale illustrato, Che cosa fare in attesa del terapista, non é una pubblicazione isolata. I suoi suggerimenti, comunque, potrebbero impedirvi di regredire in un angolo in posizione fetale con le mani sopra le orecchie. A: LAVORARE A MAGLIA. Imparare a lavorare a maglia mi aprì nuovi orizzonti. Fu imparare a smettere di lavorare a maglia a portarmi praticamente sull’orlo della pazzia. Tutti, in casa, erano d’accordo sul fatto che così non si poteva andare avanti. Ero tesa, nervosa, dovevo rilassarmi. E così mi iscrissi a un corso di lavoro a maglia. Durante la prima settimana produssi trentasei presine per le pentole. Lavoravo a una coperta a quadri con tanto accanimento che avrei potuto gareggiare con un’intera catena di montaggio di ombrelli di Hong Kong. Non riuscivo a fermarmi. Alla fine del primo mese ero così rilassata da star male. Avevo cerchi scuri, profondi, sotto gli
occhi. Mi era venuto un tic al labbro superiore. Avevo i pollici e gli indici pieni di calli. Piangevo sempre di stanchezza. Ma un impulso folle, incontrollabile, mi costringeva a produrre almeno quindici copricartaigienica a forma di cappello alla settimana. La mattina non vedevo l’ora che i ragazzi uscissero di casa per tirar fuori il cestino pieno di matasse e gomitoli e cominciare a sferruzzare. «Forza, ragazzi, alzate le chiappe», gridavo. «L’ultimo a uscire si becca una pila di biancheria nuova come regalo di Natale.» «Sono solo le sei e mezzo», dicevano loro, sbadigliando, con la faccia assonnata. «È un po’ presto, lo so, e allora?» tagliavo corto. «MA È SABATO!» gridavano in coro. Mio marito fu il primo a insinuare che avessi bisogno dell’aiuto di uno specialista. «Sei andata oltre l’aspetto socializzante del lavoro a maglia», disse. «Diciamolo chiaramente. Hai un problema da risolvere, cerca di controllarti. D’ora in poi niente gomitoli.» Promisi, ma sapevo che non sarei riuscita a mantenere la promessa.
L’assuefazione finì col condurmi su una brutta strada: cominciai a mentire, a ingannare, facevo la cresta sulla spesa e vendevo effetti personali usati per pagarmi il vizio. E mi scoprivano sempre. I miei familiari trovarono una matassa di mohair in una scatola di fiocchi d’avena e una copia di Rakam nella cappa del camino. Un pomeriggio mi scoprirono intenta a disfare febbrilmente un vecchio berretto da sci per rifarlo da capo. Una notte mio marito, svegliato dal ticchettio degli aghi, saltò a sedere sul letto, accese la luce, e disse con calma mortale: «Da domani ti accompagnerò alle riunioni della Anonima sferruzzatori. Non vedi cosa sta succedendo? A noi? Ai nostri figli? Non ce la farai mai, a smettere da sola». Aveva ragione, naturalmente. All’Anonima sferruzzatori mi fecero capire la stupidità della mia coazione a sferruzzare. A poco a poco riuscirono a togliermi il vizio del gomitolo e a interessarmi a un altro hobby... la pittura. Ci credereste? La prima settimana dipinsi otto acquerelli,
la seconda feci quindici schizzi a carboncino ed entro la fine del mese avrò finito ventitre quadri a olio... tutti su tela! B: BERE. Qualche tempo fa una zelante studiosa del comportamento femminile rilevo un fenomeno di migrazione di massa di bevitrici verso i quartieri residenziali. Sul fatto che il 68 per cento delle donne oggi alzino il gomito, non ci piove. Che pero tutto questo 68 per cento abbia deciso di sistemarsi nei quartieri residenziali, resta da vedere. In seguito alla dichiarazione di questa sociologa, noi donne dei sobborghi indicemmo una riunione d’emergenza del Comitato per la smentita di voci tendenziose sul conto delle casalinghe dei sobborghi. Decidemmo di sfatare una volta per tutte quelle lamentevoli dicerie, organizzando un test di sobrietà fra le donne del quartiere alle otto di un lunedì mattina, in municipio.
Stappammo, o meglio, scoprimmo solo tre donne il cui alito sapeva di sherry, una sospetta di alitosi al cognac, e una disgraziata che non aveva affatto alzato il gomito ma che
tremava sempre a quel modo — ci spiegò — dopo aver issato i suoi quattro figli sull’autobus della scuola, la mattina. Alcune di esse confessarono di buttar giù qualche sorso di sciroppo al tamarindo nel ripostiglio delle scope, di tanto in tanto, o di farsi sporadicamente qualche sniffata di candeggina, ma quasi tutte furono d’accordo nel dichiarare che bere, per una casalinga dei sobborghi, era un sogno impossibile. Elencarono i seguenti motivi. Mancanza di intimità: «Fatemi vedere una madre che pretenda di nascondersi nel bagno a meta mattina per buttar giù un sorso dalla bottiglia, e io vi faro vedere sette bambini nascosti nella vasca da bagno pronti a proiettarle un filmino di Braccio di Ferro sul petto con il proiettore avuto dallo zio a Natale». Mancanza di discrezione: «Per i bambini, bere significa festeggiare qualcosa di particolare. Si affretterebbero a spargere per il quartiere la notizia che la mamma sta brindando a un altro mese senza bambini». Senso di colpa: «Con una caterva di amiche insofferenti, annoiate, nevrotiche e insoddisfatte, ditemi, con che cuore riuscirei a tirarmi su ed estraniarmi da loro, sia pure solo con un po’ di alcool?» Una donna in effetti confessò che l’abitudine di gratificarsi con un buon bicchiere da ultimo le aveva preso la mano. Aveva cominciato col concedersi un bicchiere per aver lavato le piastrelle della cucina o sgelato il frigorifero. Adesso si concedeva qualche sorso anche dopo aver portato dentro il latte o aperto la scatola di asparagi dal lato giusto. Senza dubbio la nostra sociologa aveva preso i suoi dati dai numerosi club di cucina che da un po’ di tempo a questa parte spuntano come funghi nei sobborghi. Organizzano colazioni in cui servono del vino a leggera gradazione alcolica
come aperitivo, poi una serie di piatti complicati, a base di brandy, vini dolci, per stimolare l’interesse delle donne per la cucina. Queste colazioni, normalmente, si tengono una volta al mese, per festeggiare qualche occasione speciale, come il compleanno o l’anniversario di matrimonio di una delle socie. Nel nostro club, abbiamo anche l’abitudine di festeggiare la famosa nuotata di Mao Tse-tung nello Yang tse, l’anniversario dei vari matrimoni di Zsa Zsa Gabor, l’anniversario della fuga di Annie Smith col lattaio, la fiera del bianco di gennaio ai grandi magazzini, l’introduzione in America Latina dei fagioli di soia e le date di partenza e di arrivo della Queen Mary. Ogni mese offriamo un premio al piatto più raffinato servito durante una di queste colazioni. Il premio del mese scorso è stato portato via dalla mia vicina di casa, con un fantastico dolce, costituito da un nocciolo di pesca a bagno in una coppa di brandy. Credo sinceramente che la nostra sociologa debba delle scuse alle casalinghe dei sobborghi per le accuse sconsiderate mosse nei loro confronti. Qualcuno vuol fare un brindisi a questa speranza? C: LEGGERE. Uno dei rischi della professione di casalinga e madre è quello di non riuscire più a trovare un momento per sedersi e leggere un libro dalla prima pagina all’ultima. Un’indagine approssimativa, condotta tra le mie amiche più colte, ha rivelato che i titoli degli ultimi libri letti dalle malcapitate erano: Il giorno più lungo, La piccola enciclopedia delle malattie infettive, Il ritratto di Dorian Gray e Pronto soccorso. (Un’altra si era addormentata leggendo il libretto di garanzia del ferro da stiro a vapore, ma decidemmo di
annoverarla comunque fra le lettrici abituali.) É triste dover rilevare dati del genere tra donne che saranno le madri dei famosi scienziati e tecnici specializzati di domani. Come dico sempre io: «Che bene può venire a una donna dall’avere la casa pulita, se poi pensa che l’antropologa Margaret Mead sia una pedicure?» (L’avevo raccomandata a tre delle mie amiche.)
Primo, bisogna trovare il libro giusto. Quando si vive in una piccola città bisogna esser cauti coi libri che si prendono alla biblioteca civica. Io, per esempio, non voglio esser soprannominata «vecchia sporcacciona». D’altra parte non mi va di buttar via tempo prezioso a leggere Le avventure della piccola Trepiedi sull’isola dei Merluzzi. «Lei mi conosce abbastanza bene, Miss Hatcock», ho detto alla bibliotecaria. «Che libro mi consiglierebbe, questa settimana?» «Gli anziani e il problema del sesso, con un bel glossario che elenca le pagine più sporche in grassetto», mi ha risposto in
tono frizzante. «Su, su, Miss Hatcock. Ci divertiamo a prendere in giro le abbonate, stamattina, eh? Non dimentichi che ho poco tempo da dedicare alla lettura, e che vorrei un libro del quale discutere poi in compagnia di amici di ambo i sessi.» «Se fossi in lei», disse lentamente, «prenderei Come imparare a leggere dieci pagine al minuto, di Fletcher. L’autore garantisce che si può imparare in tre giorni. Dopo aver letto questo libro potrà far fuori il giornale del mattino in diciannove minuti, qualunque romanzo tranne quelli di Michener in mezz’ora, e le antologie in un’ora.» Cominciai appena arrivata a casa. Mi ci vollero quarantacinque minuti per leggere il primo paragrafo. Forse avevo perso la capacita di concentrazione di cui ero dotata ai tempi della scuola. Secondo il contenuto del primo capitolo, la diagnosi del mio difetto era semplice. I miei occhi si fermavano su ogni parola. Leggevo le parole, non le frasi o le immagini. Il che richiedeva un sacco di lavoro. Appena avevo un minuto libero prendevo in mano il mio libro e passavo un paio d’ore a leggere diligentemente. Ieri sono andata da Miss Hatcock, al banco delle restituzioni. «Be’, com’è andata col Fletcher?» ha detto sorridendo. «Pronta per le opere complete di Churchill? Oppure vuole La baia? O le memorie di Kissinger?» «In realtà», dissi ridacchiando, «mi sono assopita più volte sul secondo capitolo. Sa, quello intitolato ‘Disattenzione’. Se riuscissi a superarlo, sento che potrei leggere l’intero volume in un batter d’occhio. Posso tenere il libro un’altra... ventina di giorni, diciamo?» «Perché non prende invece Gli anziani e il problema del sesso?» disse lei sospirando stancamente. «Potrei
avvolgerglielo in un foglio di carta marrone.» D: TELEFONO. Un famoso specialista di malattie cardiache ha apertamente attaccato le donne e l’uso che fanno del telefono con la prolunga. Sostiene che questo strumento, peraltro comodo, sarebbe causa de a) l’allargamento innaturale dei fianchi, b) i disturbi alla circolazione più diffusi, c) la perdita del primato sugli uomini riguardo alla longevità. Dottore, i casi sono due. O lei non capisce nulla di condizionamento da telefono, oppure ci sta prendendo per il nostro grasso e sfatto culo di donne. Al primo squillo del telefono si verifica un’immediata risposta condizionata da parte dei bambini, che si precipitano al galoppo verso l’apparecchio per rispondere. Mostratemi una donna dotata della stessa prontezza di riflessi e che porti abitualmente scarpe da ginnastica e io vi mostrerò una donna che riesce abitualmente a rispondere al proprio telefono.
Non appena la mamma si sistema comodamente con la cornetta in mano, i bambini entrano in azione con la perfetta organizzazione di un esercito alle manovre, marciando al suono della loro canzonetta preferita. E comincia il carosello: frigoriferi che si spalancano, sportelli di credenze che sbattono, bambini che volano per aria trascinati con corde improvvisate dai fratelli maggiori, lamette da barba che si materializzano per incanto, bambini sconosciuti che entrano in fila indiana dalle porte e dalle finestre, odori di smalto per le unghie e benzina che si spargono nell’aria, e in tutto quel marasma uno dei piccoli riesce a issarsi sul televisore e a fare lo spogliarello! Non c’è niente come lo squillo del telefono, per elettrizzarli e metterli in moto. Alcune madri non cedono... piuttosto che interrompere la
conversazione telefonica preferiscono agitare una mano e puntare il dito, picchiare il pugno sul tavolo e puntare il dito, fischiare e puntare il dito, prendere in mano una mazza e puntare il dito. A tutto vantaggio della circolazione. Altre madri preferiscono emettere gridolini strozzati, con le mani sopra il ricevitore. Non riescono a far finta di niente. Dopo tocca a loro distribuire gli sculaccioni, ripulire il pavimento dallo zucchero, gonfiare il palloncino, spegnere il fuoco, asciugare l’acqua versata, e di corsa! A tutto vantaggio della circonferenza dei fianchi. Alcune utenti del mezzo telefonico sono vere e proprie esperte di pantomima. Una volta venni completamente ipnotizzata dallo spettacolo di una donna che mimava le seguenti frasi: «Tra un minuto mi alzo e vi tiro un ceffone», e poco dopo, «tra un minuto mi alzo e vi tiro due ceffoni». Lei sola conosceva il numero magico al quale avrebbe smesso di agitarsi forsennatamente per alzarsi e somministrare una sana cinghiata alla prole. Alcune madri hanno perfino provato a mettere un cestino pieno di giocattoli vicino al telefono. Naturalmente i bambini sono troppo intelligenti per cadere in una trappola così ovvia. Se anche riusciste a far svolazzare per la stanza Mary Poppins attaccata a un ombrello, i bambini non smetterebbero mai di far rotolare le cipolle sul pavimento o di fare i gargarismi con il candeggiante per darle un’occhiata. Non credo che le donne superino gli uomini in longevità, dottore. É solo che a loro la vita sembra più lunga.
Freddo e calorie Alle prese con il ciclo depressivo del periodo invernale, non c’è niente che possa demoralizzarmi quanto la domanda a cui un gruppo di autorità nel campo della moda esige una risposta: «Siete pronte per il bikini della prossima estate?» Adesso te ne racconto una buona, Charlie. Non ero pronta nemmeno per il bikini dell’estate scorsa. Ho una certa difficoltà con queste cose, sinceramente. Vedete, per anni ho avuto cura della mia linea basandomi sulla premessa che «la gente grassa è gente felice». Ho mangiato come un maiale, per arrivare alla felicità, e sono stata via via contenta, allegra, sorridente, solare, gaia, spiritosa, vivace, sfavillante, esultante, felice e sportiva, e se aspettavo ancora un po’ sarei diventata anche leggermente isterica. Solo ora scopro che secondo un gruppo di esperti la felicità dei ciccioni è un mito. «La gente grassa non è affatto felice. É solo grassa e frustrata.» Avrei preferito che mi dessero la notizia quando ero appena «contenta». Una volta anch’io avevo sessanta centimetri di vita. Avevo dieci anni, a quel tempo. Se ben ricordo, le mie misure erano 60-60-60. Non sono una stupida. A dieci anni sapevo benissimo che con una figura come quella non avrei mai potuto essere felice, e così cominciai a mangiare per consolarmi. Alle scuole superiori mi concedevo uno spuntino tutte le volte che riuscivo a a) percorrere tutta la strada dalla scuola fino a casa senza calpestare nemmeno una delle crepe sul marciapiede, b) sillabare Ohio alla rovescia, c) ricordare la combinazione dell’armadietto da ginnastica. Dopo il matrimonio guadagnai quindici chili in nove mesi, il che sembrava indicare che o ero incinta o stavo andando forte con gli spuntini. Si scoprì che ero incinta. Il mio nome
figura nelle riviste di medicina come quello dell’unica donna che sia mai riuscita ad aumentare di peso durante il parto. Mio marito, naturalmente, tentò di farmi vergognare di me stessa attaccando una foto di Ann Margret sullo sportello del frigorifero con una scritta incisiva: «Attenta alle calorie!» Non ci ha più provato, comunque, dopo una puntata in un centro commerciale la primavera scorsa, puntata che coincise con un’apparizione di Mr. Universo in persona. «Credevo che fossimo venuti qui a cercare un tappeto per la camera da letto», disse seccamente. «Visto uno di quei muscoli, li hai visti tutti», grugnì. «Sono sposata da diciotto anni e non ho ancora avuto il bene di vederne uno», dissi alzandomi in punta di piedi. «Adesso lasciami vedere com’è questo Mr. Universo.» La tenuta da lavoro di Mr. Universo consisteva in una maglietta nera molto attillata e calzoncini corti. Se i muscoli fossero passati di moda avrebbe sempre potuto trovar lavoro sulla spiaggia, a tirar sabbia in faccia ai fusti sdraiati al sole, urlando: «Ehi, stecchino!» Salì sulla predella e la mascella mi cadde di colpo. «Grida pure, ma a bocca chiusa», sussurrò mio marito. «Sembra che ti sia fatta cadere un peso sui piedi.» «Hai mai visto tanti muscoli tutti insieme in vita tua?» ansimai. «Quella maglietta ha i minuti contati. E senti cosa dice. Ci vogliono solo pochi esercizi al giorno per farsi tutto quel ben di Dio. Ehi, adesso si sta toccando l’orecchio con un ginocchio. Ce la fai, tu, a toccarti l’orecchio con un ginocchio?» «E perché cavolo dovrei fare una cosa del genere?» sospirò lui. «Le ginocchia non parlano mica. E poi, sarei imbarazzato, se fossi come lui. Dovrei rifarmi il guardaroba. E non sopporterei di esser fissato in quel modo dalla gente.»
«Ho toccato un punto debole, eh?» «Ti sbagli», disse lui con enfasi. «È solo che non sono un bagnino.» «Certo che non sei un bagnino. Ricordi l’estate scorsa, in piscina, quel bambino che voleva prendere a prestito il tuo salvagente e tu non avevi nessun salvagente?» «Allora, vogliamo cercarlo o no, questo tappeto per la camera da letto?» ruggì lui. «Non prima che tu ammetta che non saresti mai capace di saltare due metri, sollevare cento chili con una mano sola e saltare a pie pari una freccia trattenuta con entrambe le mani.» «OK, d’accordo, non sono Mr. Universo. E allora?» «E allora quando torneremo a casa per prima cosa tirerai giù quella foto di Ann Margret dallo sportello del frigorifero.» «Va bene. Sai, ai miei tempi avevo due belle braccia muscolose. Guarda qui. Adesso fletto i muscoli. Visto? Che cosa te ne pare, eh?» Personalmente ricordo di aver visto rigonfi più i grossi nella mia besciamella, ma quando si è vinta la guerra, perché perdersi in banali scaramucce? Credo che il problema della maggior parte delle donne che vogliono mettersi a dieta sia superare il lunedì senza scoraggiarsi. Anch’io sono sempre a dieta, di lunedì. Di solito per via di qualche spiacevole incidente accaduto la domenica, per esempio, un bambino che dice: «La mamma non sta più nella cintura di sicurezza. Dovremo inchiodarla al sedile, di questo passo, vero?» E così che un lunedì ho preso la decisione di registrare le mie sofferenze. Diario di una dieta del lunedì Ore 8: Eccoci qua. Operazione dieci chili. Ho telefonato a Laura e le ho raccontato che cosa ho mangiato a colazione. Le
ho raccomandato di non perdersi quell’articolo su Selezione della mamma: «Come la signora M, di St. Louis, e riuscita a perdere dieci chili mangiando 23 involtini di cavolo al giorno». 12,30: Mi sono turata il naso e ho buttato giù una tazza di brodo. Ho telefonato a Laura e le ho detto che si notava già una certa differenza. Non ho più quella sensazione di spessore in vita. Mi sento piena di energia e riesco a infilarmi i pantaloni senza battaglie. Le ho promesso che le regalerò il tailleur grigio. Tanto, tra qualche giorno mi penderà di dosso. 16,00: C’è un articolo, su Calorie (la rivista per la gente abituata a infilarsi in bocca qualunque oggetto commestibile nel raggio di alcuni chilometri) in cui si suggeriscono decine di fantastici menu per persone che devono star attente alla linea. Come stavo dicendo a Laura qualche minuto fa, noi madri dobbiamo fare in modo che i membri della famiglia ricevano nutrimento sufficiente a fornire al corpo tutta l’energia necessaria senza per questo trasformarsi in orsetti lavatori. Stasera per cena avremo carne magra, piselli freschi e un cestino pieno di fette biscottate e frutta. 16,30: Ha telefonato mio marito per dire che farà tardi per cena. I piselli freschi avevano un’aria un po’ squallida e così ho aggiunto qualche fungo fritto e un po’ di panna liquida. Dopotutto, chi ha detto che i bambini debbano soffrire solo perché hanno una mamma volitiva? 16,45: Ho mangiato le fette biscottate... fino all’ultima briciola insipida e rinsecchita! (Ora che ci penso, non riesco più a trovare il cestino.) Fortunatamente avevo un po’ di pasta per i biscotti, in frigorifero, e così ci ho aggiunto del burro e ho fatto uno spuntino. La rivista dice che quando si comincia a leccar via la cera dai mobili ci si può permettere qualche piccolo extra. 17,00: Be’, forse quella stupida frutta nella fruttiera
potrebbe andar bene per Robinson Crusoe, ma a me piace solo sopra una bella crostata. Tra cinquanta minuti esatti sarà pronta, con un bello strato di crema sopra. Chi crede di essere, mio marito? Paul Newman? 17,30: I bambini mi hanno appena chiesto che cosa sto facendo. Sto mettendo in forno qualche patata, altrimenti il sugo andrà sprecato, ecco cosa sto facendo. É questo il guaio coi bambini di oggi. Metà del pianeta va a letto affamata, la sera, e loro si aspettano che butti nella spazzatura una bella salsiera piena di sugo di carne. I bambini sono dei tremendi egoisti. Davvero. 18,00: Mi è scesa la pressione. Mi si sta gonfiando lo stomaco. Ci vedo doppio. Ho aggiunto alla cena due contorni e una grossa pizza capricciosa. Quella stronza di Laura ha avuto il coraggio di telefonarmi per chiedermi se può avere anche la camicetta del tailleur grigio. Laura è una ragazza simpatica, ma ha la pessima abitudine di attaccarsi al telefono per raccontare qualunque sciocchezza le passi per la testa. Ho detto ai bambini di dirle che non potevo andare al telefono. Stavo ascoltando i dischi della Dieta lampo. 18,30: È arrivato mio marito. Gli sono andata incontro sulla porta e gliene ho dette quattro. Se non fosse per quella sua abitudine di voler mangiare, quando torna dall’ufficio, potrei essere ancora la silfide che ha sposato alcuni anni fa. Ha avuto il coraggio di far finta di non sapere di cosa stessi parlando. No, non credo di esser pronta per il bikini della prossima estate. Dio sa se ci provo, a uniformarmi agli ultimi dettami della moda, ma diciamoci la verità, sono una perdente. Quando riuscii finalmente a farmi crescere un bel paio di tette, qualche anno fa, scoprii che erano passate di moda. Quando i miei
fianchi riuscirono finalmente ad avere la forma di un’anfora, cominciò la moda «Bastoncino». Quando, poco tempo fa, scoprii di avere anch’io un punto vita, arrivò la moda del trapezio. Ebbi un breve attimo di gloria quando i pubblicitari decisero di sfruttare ulteriormente le donne senza seno, sostenendo che erano quelle dotate del quoziente d’intelligenza più alto, ma poi qualcuno si affretto a rivelare che una stella del cinema, che di certo quel problema non l’aveva, possedeva un quoziente di 135 e mi fregò per sempre. Ecco la mia carrozzeria, ammesso che ve ne importi, dittatori della moda. Riconosco che non è gran che. Spalle: Ne ho due. Disgraziatamente non sono simmetriche. Una è un po’ più alta dell’altra, cosa abbastanza comune, mi si dice, tra le casalinghe abituate a portare bambini grassi, pesanti sacchetti della spesa e catene dell’automobile. Diaframma: Se riesco a rassodare i muscoli prima dell’estate, forse potrò usarlo come vassoio per gli spuntini. Occhi: Ci sono donne miopi che hanno l’aria sexy. Io ho l’aria miope. Non ditemi cosa devo fare delle mie sopracciglia. Ho fatto parecchi esperimenti, col risultato di sembrare Bela Lugosi con la nevralgia del trigemino. Vita: Dev’esserci, da qualche parte. Fianchi: Eccoli. Non me li sono mica fatti in un giorno, ragazzi, quindi non aspettatevi miracoli. Al momento, non riuscirei a saltare dalla finestra, in caso di incendio. Ginocchia: Mettiamola così . Una volta, a una festa, il poeta del quartiere le definì con queste parole: bacchette da rabdomante che riuscirebbero a cavar acqua dal deserto del Sahara. Gambe: Vi siete mai chiesti dove siano finiti gli scarti di Marlene Dietrich? Fegato: Pochissimo.
Vi dirò una cosa. Se non riesco a dosare le calorie prima di giugno, andate al mare senza di me. Al ritorno, venite a trovarmi e vi offrirò una bella fetta di torta fatta in casa, con uno strato di fragole fresche cosparse di zucchero, a galla in un mare di panna appena montata.
5 marzo – 6 maggio Voglio essere qualcosa di più di un bel musetto…
Il talento è una gran cosa. Pochi di noi possono essere come quell’ottimista che, ricevuta in regalo una stalla piena di letame, cominciò a correre avanti e indietro gridando: «Lo so che c’è un cavallo nascosto da qualche parte, qua dentro». A volte mi vien da chiedermi dov’ero quando distribuivano il talento. A cucire vestiti da sera per Barbie? A ritagliare angioletti dalla carta igienica? A preparare pasticcini dietetici per Giovani esploratrici grassocce? Come mai ci sentiamo così stupide? Così fuori del mondo? Così insicure? A volte mi capita di guardarmi allo specchio, accarezzare i bigodini torreggianti sulla mia testa, esaminare attentamente la febbre sul labbro superiore, luccicante di crema al cortisone, e sussurrare a me stessa: «Voglio essere qualcosa di più di un bel musetto. Voglio dare il mio contributo alla società. Mi piacerebbe, per una volta, alzarmi in piedi durante una riunione genitori-insegnanti e dire: ‘Propongo che la riunione venga aggiornata fino a quando ci saranno argomenti più pressanti da discutere che non l’eccedenza di pomodori in scatola alla mensa, e filmini più interessanti di Non temete, l’ENEL pensa sempre a voi!’». Per una volta vorrei che uno sconosciuto alto e bruno mi guardasse come se non mi fossi dimenticata di mettere il deodorante sotto le ascelle. Per una volta vorrei avere una vera pelliccia da strascicare sul pavimento con aria indifferente. (Non quei 218 conigli che mi metto per andare al club.) E invece? Non sono nemmeno riuscita a trarre vantaggio da una puntata all’istituto di bellezza di Mr. Miriam. All’improvviso mi ritrovai in un magico salone tappezzato di specchi, circondata dalla più raffinata eleganza, con un bel fularone sulla testa, la gonna a pieghe, le scarpe da tennis e... oh, Dio mio! No! Non i calzini da Giovane esploratrice! «Ha un abbonamento?» mi chiese la ragazza che mi venne
incontro tutta sorrisi. «A che? A Selezione?» «No, l’abbonamento settimanale coi nostri esperti.» Scossi la testa. «Allora cosa c’è? Non si è mica tagliata la frangetta da sola con le cesoie, vero?» mi chiese con aria sospettosa. «Non ha mica tentato di tingersi i capelli con quattro applicazioni di acqua ossigenata? Oppure si è addormentata sotto il casco mentre si faceva la permanente in casa?» «Oh no», dissi io. «È solo che vorrei una bella messa in piega! Sa, da quando è nato il piccolo mi sento un po’ depressa e ho pensato che...» «Oh», disse la ragazza dolcemente, «e quanto ha il piccolo?» «Ventiquattro anni», risposi.
Dato che non ero una cliente fissa dell’istituto, mi rifilarono Miss Melania, che aveva preso il diploma di estetista tre giorni prima. Con Miss Melania mi sentii subito rilassata, come un gatto in una stanza piena di sedie a dondolo. In realtà lei non disse una parola. Si limitò a trafficare coi miei capelli come se stesse condendo l’insalata. Alla fine chiamo Mr. Miriam per fargli vedere che cosa aveva trovato. Entrambi furono d’accordo nel dichiarare che avevo le doppie punte, un sacco di forfora, che ormai il mio scalpo non riusciva più a secernere niente e che era troppo tardi anche per una cura di fiale alla cheratina. «Sono davvero così secchi, i miei capelli?» chiesi incredula. «Se fossi in lei starei lontana da quei tipi abituati a buttar via la cicca della sigaretta senza guardare dove va a finire», disse Miss Melania senza l’ombra di un sorriso. Poi si mise a massaggiare, pettinare, ammorbidire, arrotolare, spazzolare, stirare e spruzzare. Il trattamento durò un paio d’ore. «Perché negarlo?» dissi, dando un buffetto sulla guancia alla mia immagine riflessa. «Sei meglio di Raquel Welch.» Miss Melania chiuse gli occhi come per affidarsi a un’entità superiore. Non esito ad ammettere che mi sentivo un’altra donna, mentre attraversavo la stanza tappezzata di moquette, con le spalle dritte, la testa alta. Sentivo gli occhi di tutte le altre donne seguirmi stupefatti. «Mi scusi, cara», disse Miss Melania, «ma si sta trascinando dietro tutto il rotolo della carta igienica... le è rimasto impigliato nel tacco. Vuole una mano a districarlo?» Avevo intenzione di abbonarmi all’istituto, ma dopo quell’episodio... Ecco un esempio delle cose che mi succedono. Perfino i miei figli sanno che non ho nessun talento. Una
volta potevo dir loro qualunque cosa, sicura che mi avrebbero creduto. Avevo sempre la risposta pronta. «Mamma, che cosa ci fa il topo, con tutti quei dentini?» Io sorridevo con l’aria di chi la sa lunga e rispondevo: «Be’, infila delle collane che poi vende a Tiffany per una caterva di soldi». «Che cos’è una caterva, mamma?» «Cara, cerca di capire», dicevo, fingendo uno stordimento, «quanta genialità credi che la mamma riesca a travasare nella tua testolina in un giorno solo?» E così via. Io ero la loro massima autorità in materia di sistema solare, Bibbia, storia, matematica, lingue, belle arti, il passaggio a nordovest, turboreattori e freni idraulici. Ero perfino riuscita a convincerli che i semafori cambiavano colore quando io soffiavo forte e dicevo: «Su, diventa verde». (É vero, i miei bambini non sono mai stati dei geni.) Poi di recente mia figlia mi ha chiesto: «La sai la capitale del Mozambico?» «No, ma quella degli Stati Uniti è...» «Mamma», ha detto lei con una certa freddezza, «lascia perdere.» Quello fu solo l’inizio. Un giorno dopo l’altro i piccoli sadici cominciarono a smontare il castello della mia sapienza. Non sapevo dire in francese: «Mi scusi, signore, ma lei sta pestando la zampa del mio coccodrillo». Non sapevo risolvere i problemi del tre semplice. (Ero perfino all’oscuro dell’esistenza di un tre composto.) Non conoscevo la marca della macchina sportiva parcheggiata davanti a casa, e non sapevo quanto fosse alto Muhammad All. Non avevo mai letto Furore, la cavalla assassina. Non sapevo nemmeno che il generale Stonewall Jackson mangiasse in piedi per digerire meglio. Disperata, scrissi all’università di Bennington, nel Vermont, che offriva, così mi era sembrato di capire, una serie di corsi che sembravano fatti apposta per me.
Signori, ho appreso con molto interesse che intendete organizzare un corso, in aggiunta a quelli offerti normalmente dal vostro programma, su «La noia del mestiere di casalinga». Dato che con ogni probabilità la vostra città sarà invasa da parecchi milioni di casalinghe a bordo di autocarri, carri armati, macchine, aerei, treni, monopattini, risciò, biciclette e skateboard, mi affretto a presentare domanda di iscrizione. Ritengo di essere in possesso delle qualifiche necessarie. Ho tre figli, ostili e intellettualmente superiori, un marito che ama il suo lavoro e suona la chitarra, e una casa che mi deprime da morire. Piango molto. Non so mai cosa fare del mio tempo. Ne spreco un sacco. Quando sono in macchina ad aspettare i bambini fuori dalla scuola, per esempio, trascrivo il chilometraggio, lo moltiplico per i miei anni, sottraggo il numero dei guantini che trovo dietro il sedile e divido il tutto per il numero dei miei passeggeri. Qualunque sia il numero risultante, è quello dei biscotti che mi concedo prima di cena. Le faccende domestiche non mi stimolano, come invece succede ad altre donne di mia conoscenza. Le trovo sempre intente a fabbricare oggetti utili e interessanti servendosi di calze di nylon smagliate e del cartone delle uova. Il mese scorso ho piantato un chiodo lungo dieci centimetri nella parete sopra il lavandino per infilarci i conti da pagare. Quando ho suggerito alle mie amiche di fare la stessa cosa, dato che mi pareva una buona idea, mi hanno consigliato di uscire di più. Certe volte ho l’impressione che l’inverno duri quindici mesi. Ho anche tentato di iscrivermi a diverse organizzazioni, ma nemmeno questo sembra aver contribuito a risolvere i miei
problemi. Lo scorso anno scolastico sono stata eletta tesoriera dell’associazione genitori-insegnanti. Pare che io abbia esagerato con la distribuzione di tesori, perché mi hanno invitata a presentare le mie dimissioni con una lettera molto educata, che diceva: «É carino da parte sua voler far felici i bambini, ma a volte la troppa felicità uccide». Voi dite che il corso che si terrà a Bennington si propone di aiutare le casalinghe «le cui capacità intellettuali sono state minate alle fondamenta da ore a dir loro interminabili passate a lavorare come domestiche, infermiere, poliziotte e cuoche». Perfetto. Il programma non specifica le materie che verranno trattate durante il corso, ma Spero proprio che comprendano «Bugie e altri argomenti stimolanti» da usare alle cene, alle feste, alle gite e alle riunioni del consiglio di classe. Mi piacerebbe anche approfondire le mie conoscenze di «Astrologia da salotto». Ho deciso di non frequentare un corso di autoipnosi perché mi sembrava pericoloso guidare in quello stato. Disperatamente vostra, Una casalinga annoiata Inutile dire che la mia domanda d’iscrizione arrivò quando il corso era già al completo e che io continuo a sentirmi inadeguata e insicura. Perché? Lo spiega l’atteggiamento di mio marito nei miei confronti. L’altra sera mi ha portato fuori a cena. Ci stavamo divertendo come matti, quando ha avuto la buona idea di osservare: «Certo che non è difficile capire quali sono le coppie sposate e quelle di fidanzati». Smisi di leccare il rivolo di burro fuso che mi scorreva giù per il braccio e dissi: «Che razza di spiritosaggine stai tirando fuori?»
«Guardati intorno», disse lui. «La vedi quella ragazza deliziosa che guarda dolcemente negli occhi il suo ragazzo? É una fidanzata. Adesso dai un’occhiata al tavolo vicino. Quella donna ha imburrato sei fette di pane e le sta passando intorno al tavolo in senso orario. Tra poco si metterà a tagliare la carne nel piatto di tutti i clienti nel raggio di sei tavoli e poi comincerà a raccogliere gli stuzzicadenti delle olive col fiocchetto da portare a casa ai bambini. Ecco, quella è una moglie, senza passibilità di dubbio. É facile distinguerle. Le mogli ballano di rado. Si limitano a starsene sedute e buttar giù salatini come se le portate principali fossero passate di moda. Le fidanzate escono ‘a cena’. Le mogli vanno fuori ‘a mangiare’.» Per tutto il percorso fino a casa, con il sacchettino di plastica pieno di insalata mista fuori dal finestrino per non far sgocciolare l’olio sulla gonna, non feci che pensare a quello che aveva detto mio marito. Era vero. Le donne sposate si fossilizzavano. Alle feste si ritiravano sempre nel soggiorno a rivivere le doglie del parto e a scambiarsi ricette col tonno, mentre gli uomini girellavano per la cucina sviscerando argomenti di importanza basilare, quali scioperi, differenze razziali, guerre. «Perché non parlate di queste cose anche con noi?» chiesi a mio marito. «Quali cose?» «Le guerre, i problemi dell’economia, le Nazioni Unite.» Fece una smorfia. «Ricordi a quella festa, quando dissi che Taylor era nel Vietnam?» Annuii. «E tu mi chiedesti se c’era anche Burton con lei?» Annuii. «Ecco perché.» «Non è giusto», urlai. «Lo sai che non ho presenza di spirito, alle feste. La conversazione allargata non è il mio forte.»
«Me ne sono accorto», ribatté lui. «Salti sulla prima sedia che vedi come se fosse imbottita di calamite e non ti alzi più. Te ne stai lì seduta a guardare le caviglie che ti si gonfiano.» «Le feste sono ridicole», replicai. «L’altra sera è stato tremendo. Sai quel tuo amico, lo chiamerò il Dentone, perché non saprei come descriverlo con maggior efficacia... be’, sai cosa mi ha detto? ‘L’ho cercata tutta la sera. Che cosa ha letto di bello, da ultimo?’» «E allora?» «Allora niente. Non mi guardava nemmeno. Girava gli occhi per tutta la stanza, con la testa che sembrava la luce rossa di una macchina della polizia. E quando gli ho detto che avevo letto Le cause e gli effetti dell’eritema da pannolini, ha osservato: ‘Ah! Fantastico! Ho letto alcune recensioni interessanti di questo libro sui giornali di New York!’ Mi ha abbracciato tutto contento e se n’e andato.»
«E Larry Brown? L’ho visto parlare con te.» «Vuoi dire Mr. Boccadellaverita?» «Vorrei che la smettessi di appiccicare questi stupidi soprannomi ai miei amici.» «Mi stavo gustando un Martini bello ghiacciato quando lui mi ha detto: ‘L’inquinamento dell’acqua non la preoccupa?’ Mi sono strozzata col Martini. ‘Vuol dire che il mio Martini è inquinato?’ ho detto alzando il bicchiere. E lui: ‘Nel mio laboratorio c’è un campione di robaccia puzzolente e viscida, residui melmosi che sembrano catarro verde raggrumato. Be’, quella roba si infiltra nell’acqua che beviamo. Se la vedesse, le si rizzerebbero i capelli in testa’. ‘Anche solo sentirne parlare non mi aiuta certo a ingoiare un pezzetto di paté che mi si è piantato in gola e non va più né su né giù ho detto io.» «Sai qual è il tuo guaio?» disse mio marito. «La distrazione! Ricordi quella volta che mi hai afferrato per la
manica e hai cominciato a strepitare che non vedevi l’ora di andartene e piantar lì tutte quelle mummie imbalsamate?» «Be’, mi ero dimenticata che eravamo noi a dare la festa. Un errore del tutto comprensibile.» «Dovresti uscire di più. Far qualcosa che renda le tue giornate interessanti. Che ti dia un buon argomento di conversazione la sera.» Ci aveva azzeccato. Che cosa facevo, tutto il giorno? L’unico diversivo della giornata di ieri, per esempio, è stato uno scambio di bombolette spray che mi ha permesso di non preoccuparmi dello stato di infiammazione delle narici che ho sotto le ascelle per ventiquattr’ore. Nessuna meraviglia, quindi, che mio marito non volesse mai conversare con me. Dissi ad alta voce, sulla difensiva: «Le donne sarebbero più sicure di se stesse se ci fossero tanti Viktor Syomins a questo mondo!» «E chi è Viktor Syomins?» chiese lui. Mi stava ascoltando, se non altro. «Viktor», spiegai, «è un russo poco conosciuto, la cui moglie frequentava l’università di Mosca, finche un giorno il professore le disse: ‘In quattro anni, è stata bocciata a ben sedici esami, e non ha imparato niente’. Ora, qualunque marito americano avrebbe guardato in faccia la moglie e detto: ‘Parliamoci chiaro, amore, le donne hanno il cervello leggero, lo sanno tutti’. Ma non Viktor. «Viktor fece irruzione nell’ufficio del professore e gli disse: ‘Lei darà la laurea a mia moglie, se no...’ Il professore rispose ‘Chepuka’, che credo voglia dire ‘sua-moglie-ha-il-cervello-diun’ameba’. Viktor comunque non si perse d’animo e disse: ‘Lei ha insultato mia moglie’, e gli diede un pugno sul naso. «Il fatto che il processo contro Viktor, per lesioni aggravate, si terrà fra tre mesi non ha alcuna importanza», conclusi con rabbia. «Quello che importa è che lui considera sua moglie qualcosa di più di un bel musetto. La considera una
persona dotata di cervello. Hai sentito? Di cervello! Allora, la vuoi sentire o no, la storia esilarante di come mi sono spruzzata lo spray del raffreddore sotto le ascelle, stamattina?» Dopo un attimo di silenzio, mi ha sorriso. Ce l’hai sempre tu l’ultima parola, eh?» Non che sia una gran prova di talento, ma credo proprio di averlo trovato, il cavallo nella stalla.
Il sentiero scosceso verso l’autorealizzazione A un certo punto nella vita, tutte le donne imboccano il sentiero dell’«autorealizzazione». Questo può significare un investimento di dollari 3.95 in dischi di ginnastica dimagrante, un breve corso di ebraico parlato, esercitazioni quotidiane di bridge per riuscire finalmente a far fuori gli avversari di sempre, una serie di lezioni di decorazione floreale Mau Mau, oppure un salto indietro nel tempo in un’università. Questi corsi di solito raggiungono lo scopo. Riescono a tirar fuori la donna dalle pareti domestiche, a fornirle una ragione di vita, un sogno a cui aggrapparsi nei momenti di scoraggiamento, a costringerla a pensare un po’ a se stessa, tanto per cambiare. E le forniscono anche qualche spunto di conversazione per le serate col marito. («Avresti dovuto esserci! Stavo per cadere nel forno di cottura delle ceramiche! Adesso qui al mio posto ci sarebbe un bel portacenere!») In breve, le impediscono di fossilizzarsi.
Prendete la mia vicina di casa, Marta. Marta è quella che di solito si definisce una «brava madre». Quando il pediatra le raccomandò di usare un linguaggio infantile, se voleva comunicare coi suoi bambini, Marta non ci pensò due volte a mettersi carponi sul pavimento sbavando e gorgogliando come se non avesse mai fatto altro in vita sua. «Bu, uh, ba, ba, ba.» Qualcuna di noi le espresse i propri dubbi in proposito, ma lei disse che si trattava di una nuova teoria, e che era decisa a fare il tentativo per il bene dei suoi figli. Questo, dieci anni fa. Oggi i figli di Marta parlano come professori universitari. É lei che non riesce a liberarsi dell’abitudine di balbettare sillabe senza senso. Per esempio, l’altra sera ha detto a suo marito: «Ti ho preparato il pigiamino. Adesso bevi il tuo muu-muu, poi dai un bacetto a mamma e vai su a fare la nanna». Tom, il marito di Marta, l’ha guardata con calma e ha detto: «Marta, ho pensato che forse dovresti farti dare un’occhiata alla laringe. Ho l’impressione che tu stia regredendo. Hai mai preso in considerazione l’idea di frequentare un corso di lingua?» Marta l’ha guardato, offesa e spaventata. Non si era resa conto di aver dimenticato le più elementari regole del discorso. É così che ha deciso di procedere a un programma di rieducazione linguistica che ha chiamato «Una parola al giorno». Si tratta di una trovata semplicissima. Tutte le mattine Marta tira giù il dizionario enciclopedico e lo apre a caso. Chiude gli occhi e punta il dito su una parola qualunque. Secondo le regole da lei stessa stabilite, dovrà usare quella parola almeno cinque volte, in una frase qualunque, prima del calar del sole. Il nostro cuore sanguinava per la povera Marta. Senza scherzi. Spesso era impossibile infilare la parola-del-giorno in una conversazione qualunque. Come per esempio «mosca tsetse». Marta la tirò in ballo a una colazione tra amiche. «Oh, ma
quella è una mosca tse-tse!» «No», disse freddamente la padrona di casa, «è un’uvetta, e ti pregherei di abbassare la voce, mentre servo il budino.» Un’altra volta, a un cocktail, disse al principale di suo marito: «Stamattina sono stata ‘supina’ fino all’arrivo del postino». All’occhiata stupefatta dell’uomo, aggiunse in fretta: «Non è una parolaccia, sa? È un aggettivo che significa sdraiata». Di solito non era molto difficile scoprire la parola-delgiorno tra le altre, bastava la frequenza con cui Marta ne faceva uso, a fornire un indizio sicuro. Ricordiamo ancora tutte questa frase: «Da ultimo i miei problemi sono veramente infinitesimali, e allora tutte le mattine mi dico: ‘Marta, sei troppo giovane per preoccuparti di cose infinitesimali come queste. Di questo passo ti prenderai un’influenza infinitesimale!’» (Tre volte, ancora due prima del calar del sole!) Col fatale aumentare dei problemi domestici e familiari, divenne chiaro che la povera Marta non riusciva più a trovare il tempo di leggere sul dizionario il significato delle parole che sceglieva. E così capitava di sentire frasi come questa: «É da tanto che desidero imparare a giocare a clavicola». Oppure: «Non riesco mai a vincere, a Monotonia. I bambini si comprano subito Viale dei Giardini e Parco della Vittoria, e a me che cosa resta?» Abbiamo sentito dire che la poveretta ha mosso l’ultimo passo sul sentiero dell’autorealizzazione la sera in cui ha chiesto al marito: «Sei riuscito a pigolare la causa di quella povera Miss Brown in ufficio, oggi?» É stata la stessa Marta a dirci che a quel punto suo marito ha deciso: «Marta, ricomincia pure coi tuoi muu muu e popò e ninne nanne. Mi piacevi di più quando non riuscivo a capire una parola di quello che dicevi».
Ecco uno degli inconvenienti dei tentativi programmatici di autorealizzazione. La gente comincia a strafare, e prima di rendersi conto di quello che sta succedendo comincia anche a prendersi sul serio. É quello che e successo alla povera Emy Boccaloni. Emy era una fanatica del golf. L’avevamo conosciuta a un corso di golf per casalinghe che si teneva all’oratorio. Per noi il golf era una cosa da fare con le mani mentre chiacchieravamo. (Per tutte, tranne che per le fumatrici, che non avevano bisogno di muoversi dalla sala ritrovo.) Ma Emy era diversa. Tutte le volte che giocavamo in quattro, era sempre lei a insistere per segnare il punteggio a penna. Le sue mazze non erano mai arrugginite o incrostate di gomma da masticare usata. (Non dimenticherò mai l’espressione di orrore che le si dipinse in volto il giorno in cui mi vide ripescare un pannolino-mutandina dalla sacca.) Insisteva sempre per giocare secondo le regole. Era una bella noia. Noi ragazze ci divertivamo a movimentare un po’ il gioco, di solito. Per esempio, se ci si dimenticava di dire, «posso, mammina?» prima di dare la mazzata iniziale, si era penalizzati di un punto. Chi beccava l’anatra che galleggiava sullo stagno e le faceva fare quac, poteva saltare la sedicesima buca. Eccetera. Queste regole facevano diventar matta la povera Emy. Un giorno arrivò sul campo tutta eccitata. «Ho trovato il modo di migliorare il mio punteggio», disse. (Tirammo un sospiro di sollievo: aveva deciso di barare, come tutte noi.) Invece: «Ho appena letto l’articolo di un ginecologo inglese che dice che le donne incinte giocano a golf meglio di quelle non incinte. Ha condotto un’indagine su un campione allargato e ha concluso che il punteggio delle donne incinte è di gran lunga migliore». «Non starai mica pensando di...» dicemmo in coro,
trattenendo il fiato. «Se per vincere la coppa dell’oratorio è necessario avere il pancione», disse, «chiamatemi pure mamma.» Durante i primi mesi di gravidanza Emy non fece faville, sul campo da golf. Aveva la nausea. La sua sacca, di solito scrupolosamente pulita, era piena di briciole di crackers, e una volta baste farle vedere un pezzo di pizza perché smettesse subito di giocare. Ci piantò in asso alla quinta buca, senza ripensamenti. All’inizio dell’autunno ebbe qualche noia col gonfiore alle caviglie, e così fu costretta a tenere al minimo l’assunzione di sale e le partite di golf. «Ma aspettate, aspettate che venga la primavera, e vedrete che roba», disse. Vedremo. Per Emy, cercare di colpire la pallina era come tentare un atterraggio su una portaerei senza radar. Non riusciva a vedersi la punta dei piedi, figuriamoci la pallina. Era troppo incinta. La settimana scorsa ci siamo fermate a casa di Emy, andando al golf. (Ricomincerà a giocare appena il piccolo sarà un po’ cresciuto.) Abbiamo tirato in ballo l’indagine di quel buon dottore inglese. «E chi è costui?» ha chiesto una delle ragazze. «Un medico», ha spiegato Emy, «che ha condotto un’indagine allargata sul rapporto donne-golf. Ecco la sua foto e l’articolo ritagliato.» Guardammo incredule. Non c’erano dubbi. Era lo stesso uomo che avevamo visto giocare dietro di noi il giorno in cui ci divertivamo a studiare lo spruzzo del sistema di aspersione e avevamo deciso che chi si bagnava doveva riportare il carrello agli spogliatoi a marcia indietro. Ragazzi, che tipacci gli uomini. Non sanno stare agli scherzi. Devo ammettere di avere imboccato anch’io il sentiero dell’autorealizzazione, a intervalli regolari. Qualche anno fa mi
accorsi che non solo avevo cominciato a parlare coi pesci dell’acquario, ma anche a litigarci, di tanto in tanto. Come dissi alla segretaria che registrava le iscrizioni ai corsi serali delle scuole superiori: «Voglio acquisire conoscenze speciali e la sicurezza che di solito le accompagna. Non voglio andarmene da questo mondo senza aver compiuto qualche impresa che testimoni della mia esistenza quaggiù. Il corso sui ‘Cinquecento modi di preparare un hamburger’ è già al completo?» Lo era. Mi suggerì di iscrivermi a un altro corso: «Dipingiamo insieme». Le spiegai che ero una principiante. Lei mi assicurò che «Dipingiamo insieme» era un corso per dilettanti che non avevano mai tenuto un pennello in vita loro. Avrebbe dovuto specificare dove non l’avevano mai tenuto: tra le dita dei piedi... dietro le orecchie... perché era chiaro che in tutti gli altri modi l’avevano tenuto, eccome, il dannato pennello. La mia prima compagna di banco fu una bionda alta e snella che per prima cosa aprì con uno scatto una cassetta contenente colori a olio del valore di almeno novantanove dollari e cinquanta cent. Issò la tela sul cavalletto come una vela maestra sull’albero, e venti minuti dopo aveva già finito di schizzare e colorare una veduta impressionistica del Grand Canyon in otto sfumature di viola. «E lei che cosa sta facendo?» mi chiese, senza distogliere gli occhi dalla tela. «Oh, niente di speciale», dissi io. «Solo qualcosa che avevo voglia di disegnare da tanto.» Afferrò il mio album con gesto deciso. «Cos’è? Un pupazzo di neve su un iceberg?» La mia seconda compagna di banco era una donna di una certa età che confessò subito di non vedere una tela da anni. Ma io non sono mica scema. Indossava un camicione tutto
macchiato di colore, e probabilmente a casa aveva una sua impalcatura personale da cui ritoccava il soffitto della Cappella Sistina il sabato e la domenica. «E qui che cosa c’è di bello?» gorgogliò, afferrando il mio album. «la finestra di una cucina, vero? Non deve etichettare le cose, mia cara. Così sminuisce l’importanza del lavoro. Certo, se posso darle un suggerimento, le tendine sono un po’ rigide e ampollose. Dovrebbero ricadere con maggiore morbidezza.» «Be’, di solito le mie ricadono con morbidezza, devo ammetterlo», dissi, «ma questa volta ci ho messo troppo appretto. Il piccolo ci è inciampato e si è rotto una gamba.» La mia terza compagna di banco fu una giovane sposa in attesa del primo figlio. «Com’è andata con la natura morta di vaso e frutta?» mi chiese timidamente. «Be’, non molto bene», dissi, tirando fuori un foglio di carta con qualche puntino sparso qua e la. «Ma dove sono le banane, le mele e l’uva?» «Le hanno mangiate i bambini.» «E il vaso?» «Il cane l’ha fatto cadere dal tavolo.» «E quei puntini cosa sono?» «Mosche.» Detesto avere compagne di banco. Le chiacchiere mi distraggono dal lavoro.
Disturbi di cui parlerei al mio medico se non mi venisse a costare un occhio della testa A: POSSESSIVITE ACUTA. «Dottore, ho un problema. Da ultimo provo sempre un feroce senso di possesso. Voglio un armadio tutto mio, un cassettone che nessun altro possa aprire, ed effetti personali che appartengano solo a me. Non mi fraintenda, mi piace dividere tutto con la mia famiglia, tutto tranne il rotolo di scotch. Mi capisce?» Lui sorrise. «Credo di si. Perché non mi spiega meglio com’è cominciata?» «Credo di aver notato i primi sintomi di questo disturbo una sera a cena. Stavo mangiando un fico. Presi un morso e lo deposi sul piatto. Quando feci per riprenderlo, vidi che uno dei bambini se lo stava infilando in bocca. ‘Quello era il mio fico’, dissi, e cominciarono a tremarmi le labbra. ‘Prendine un altro’, disse il piccolo con un gran sorriso. ‘Non ne voglio un altro’, ripetei ostinata. ‘Quello era il mio fico e tu non avevi nessun diritto di prendermelo!’ Lui ridacchiò: ‘Lo so che era il tuo fico’. ‘E allora perché l’hai preso?’ urlai. ‘Perché sono perfido e disadattato’, urlò lui di rimando. «Da quel momento in poi, dottore, ho vissuto nell’ossessione che i miei effetti personali venissero usati da altri senza permesso. Ho scoperto che i bambini usavano la mia matita per gli occhi per scriver giù i messaggi del telefono. Che i miei orecchini di giaietto erano finiti a far da occhi all’uomo
di neve. Che la mia sciarpa di pizzo era diventata la stola di una stupida Barbie. Che le pinzette per le sopracciglia erano servite da bisturi per sezionare una rana. Perfino che la mia mascherina da notte era stata trasformata in fionda e partecipava alle manovre militari in giardino. Non posso nemmeno descrivere il senso di risentimento che cominciai ad accumulare. Alla fine comperai una vecchia, grande scrivania in cui riporre tutti i miei effetti personali. Era meravigliosa. Aveva quarantacinque tra scompartimenti, cassetti e pannelli segreti, e un ripiano che, se non si sapeva come sistemarlo, cadeva giù e tranciava il braccio di netto ai ficcanaso. Trasferii tutte le mie proprietà in quella scrivania, come una talpa in previsione di un lungo inverno. Per un po’ le cose non andarono male. Poi cominciarono a mancarmi alcuni oggetti. Le graffette, per esempio, a una a una. Il cotone idrofilo, un batuffolo dopo l’altro. E gli elastici. (Li nascosi perfino in una vecchia scatola di lassativo.) Ma sono stanca, dottore. Non ce la faccio più.»
Lui sorrise. «Lei soffre di una psicosi diffusa, denominate ‘desiderio-di-ritorno-al-nubilato’, quando poteva godere di una certa indipendenza e di parecchi diritti. Succede, dopo diciott’anni di matrimonio. Adesso le scrivo una ricetta.» Si alzò in piedi, tolse il cuscino dalla sedia, aprì la lampo e tirò fuori una chiave. Andò al sesto mattone del caminetto, lo rimosse, tiro fuori una scatola e la apri con la chiave. «Il ricettario», disse. «Se non lo nascondo, l’infermiera lo usa per i messaggi del telefono.» Capisco», dissi. B: CULO PER TERRA. «Dottore, secondo i dati statistici nazionali, io guadagno un dollaro e cinquantanove cent all’ora. Niente mutua e previdenza. Vitto e alloggio, una volta a settimana una gita al negozio di elettrodomestici, dove posso
ascoltare tutti i dischi che voglio, e aspirina a volontà, quanta riesco a ingoiarne. Il mio problema è il lavoro domenicale. Sono l’unico membro della famiglia a lavorare di domenica. É sempre la stessa solfa. Tutti girano per casa in pigiama, leggono i fumetti a piedi nudi, si rotolano sui letti come un branco di romani della decadenza in attesa che arrivi Yvonne De Carlo col suo vassoio di frutti tropicali.» «E lei invece?» «Io invece giro come una trottola per la casa a preparare pasti, rifare letti, cercare guanti scompagnati e liberare le uscite di sicurezza dall’accumulo di oggetti che le ostruiscono.» «E gli altri non collaborano?» «No. Mangiano e guardano la televisione. Un mattino li ho trovati intenti a seguire la rubrica degli agricoltori. Volevano piantare marijuana in giardino e non sapevano come concimarla.» «E cosa succede se lei si siede per un attimo e cerca di rilassarsi?» «Il piccolo si infila un’ape nel naso. Si cospargono a vicenda di insetticida. Spesso leccano pennelli sporchi di vernice. Nove su dieci degli incidenti domestici capitano di domenica. Una volta riuscii ad appisolarmi. Mio marito mi svegliò dicendo: ‘Ti stai annoiando? Andiamo a pulire il garage’.» «E le serate?» «Le serate sono il momento dei ricordi. Si ricordano di aver bisogno della bandiera americana riposta in soffitta per la recita del giorno dopo. Quando è l’ora del bagno si ricordano del compito di matematica e viceversa. Si ricordano delle venticinque tortine glassate di rosa da portare al picnic della scuola. Ma quello che mi infastidisce veramente è
l’atteggiamento che ho assunto da un po’ di tempo a questa parte. Domenica scorsa ho fatto una cosa tremenda, dottore. Li ho tirati tutti giù dal letto alle sette urlando: ‘Svelti, che farete tardi a scuola’. Si sono messi a girare nel vialetto, a vari stadi di choc.» «Non c’è ragione di sentirsi in colpa per questo», disse lui magnanimo. «Abbiamo tutti una soglia oltre la quale non riusciamo a sopportare lo stress. Quello che deve fare e cercare di non pensarci.» «Non posso, dottore. Se sapesse che cos’ho intenzione di fare domenica prossima!» C: ALITOSI ALLA COLLA. «É successo l’altra mattina, dottore. La donna delle pulizie mi si è avvicinata e ha detto: ‘Lei è libera di licenziarmi, se vuole, ma devo dirle che ha l’alito che puzza di colla’. «‘Ma è impossibile’, ho detto io, ‘mi lavo i denti tre volte al giorno.’ Lei ha indietreggiato ostentatamente, barcollando, e ha detto: ‘Non Basta’. In cuor mio sapevo che aveva ragione, ma è più forte di me. Come la maggior parte delle casalinghe, alcuni anni fa ho ceduto al fascino dei tagliandi. Da principio si trattò di un innocente passatempo. Raccogliemmo un paio di album di tagliandi e chiedemmo un set da croquet per i ragazzi... poi altri tre o quattro album ed ecco la falciatrice per papa... e alla fine, con sette o otto album, mi procurai un rasoio speciale per le gambe... tutte cose di cui avevamo veramente bisogno. «Poi un giorno leggemmo sul giornale la storia di uno zoo di New York che si era procurato un gorilla con 5.400.000 tagliandi. Il solo fatto di leggere di tutti quei tagliandi mise la famiglia in uno stato di eccitazione febbrile. Ci radunavamo
intorno al tavolo, dopo cena, e ci mettevamo a far congetture su quello che avremmo potuto procurarci aumentando il consumo di benzina, olio, copertoni, tergicristalli e occhiali da sole e servendoci alla stazione di servizio di Bernie, che distribuiva tagliandi a pacchi. ‘Tra tre anni’, urlò mio marito, ‘saremmo in grado di comperare il Metropolitan.’
«Nostro figlio calcolò che se fossimo riusciti a convincere anche i medici, gli avvocati e il ministero della Sanità a emettere tagliandi, avremmo potuto raccoglierne tanti da guadagnarci un fine settimana in Kenia a caccia di rinoceronti. Eravamo tutti pazzi di desiderio. Uno dei bambini si ripromise di cominciare a raccogliere tagliandi per farsi dare in cambio l’Empire State Building, l’altro la figlia maggiore di Richard Nixon... un terzo una scatola di costruzioni per mettere insieme una rampa di lancio per missili da giardino. Io personalmente volevo una lunga visita alla casa di riposo che ospitava Cary Grant. Le possibilità erano folli e illimitate.
«Da quel giorno in poi il nostro modo di far acquisti cambiò radicalmente. Ci capitava spesso di restare senza benzina, nel tentativo di arrivare a una stazione di servizio che emettesse il tipo di tagliandi che volevamo. Compravamo cibi che non piacevano a nessuno per la stessa ragione. Disperati, cominciammo perfino a frequentare una chiesa di recente istituzione, dall’altra parte della città, dove si distribuivano centoventi tagliandi a funzione a ciascun fedele. (I1 nostro Dio, adesso, è un pollo bianco e marrone con un raggio di sole che gli esce dal petto.) Lo so che sembra ridicolo, ma ho incollato 1563 album di tagliandi. Sono pronta a scommettere che nemmeno Paul Getty è arrivato a tanto, con la sua collezione di francobolli. Facciamo i turni per sorvegliarli ventiquattro ore al giorno, e li contiamo una volta alla settimana. Di tanto in tanto insceniamo un allarme in caso di incendio, in modo da essere pronti a evacuare i preziosi album in men che non si dica. In caso di allarme nucleare, le istruzioni sono: riempire i serbatoi di acqua potabile e mettere in salvo i tagliandi. Sono posseduta dai tagliandi, dottore. Che cosa ne pensa?» Il dottore batté lentamente la matita sulla scrivania. «Se proprio vuole il mio parere, penso che lei sia una matta innocua col fiato puzzolente di colla, ecco cosa penso. Si può sapere che cosa diavolo crede di procurarsi con 1563 album di tagliandi?» «Ancora cinque pagine, dottore», dissi freddamente, «e questo edificio sarà mio. Se fossi in lei, avvertirei gli editori di mandare le riviste a cui abbonato a un altro indirizzo!» D: ALLERGIA ALLE MACCHINE CARICHE DI BAMBINI. «Vede, dottore, tutti i bambini vedono la propria
madre come un simbolo di qualcosa... della torta di mele, di un profumo piacevole, di un bacio leggero su un ginocchio sbucciato. «I miei figli vedono in me quattro ruote, un motore e una leva del cambio. Per loro sono Biancaneve con la chiavetta dell’accensione. Peter Pan nella nuvola di fumo azzurro del tubo di scappamento. Mary Poppins con quindici carte di credito per la benzina. «La gente non fa che parlare dei poveri uomini obbligati a fare i pendolari. Ma loro almeno seguono un percorso ben preciso, con l’unico inconveniente di qualche automobilista indisciplinato e di qualche dozzina di macchine della polizia camuffate da cespugli di spirea. «Ma noi donne con le macchine cariche di bambini! Ci becchiamo i cestini della colazione in testa mentre stiamo segnalando per svoltare. Siamo costrette a battere strade sconosciute tra i prati, alla ricerca del nuovo campo da football. «Le dirò francamente, dottore, ho guidato tante macchine piene di bambini, in vita mia, che ormai tiro scappellotti alle mie amiche, se mi capita di accompagnarle da qualche parte. Questa faccenda dei bambini in macchina ha cominciato a darmi fastidio un paio di settimane fa. Mi sono fermata a un semaforo rosso e cinque bambine sono saltate dentro la macchina. Una di loro ha detto: ‘Carol, di’ a tua madre di svoltare a destra, alla prossima’. La bambina di nome Carol ha detto: ‘Non è mia madre. Credevo che fosse la tua’. ‘No’, ha detto la voce di prima, ‘la mia porta gli occhiali. Oppure è mio padre, a portare gli occhiali? Ehi, ragazze, questa qui è la madre di qualcuno? ‘ «‘Quella nuca ha un’aria familiare’, ha detto una delle bambine. ‘Per caso, di recente le è capitato di accompagnare un gruppo di ragazze che avevano perso un cocker al canile
municipale?’ Scossi la testa. «‘Ho trovato’, disse un’altra. ‘Lei è quella che ha riportato indietro la spazzatura all’ultimo campeggio delle Giovani esploratrici! Adesso ricordo, non si poteva seppellirla perché era tardi. Quando è venuta a prendere il suo gruppo, le hanno rifilato anche la spazzatura da riportare indietro. Mi dispiace, ma non l’ho riconosciuta subito. Sa, con tutte quelle mosche nella macchina, l’altra volta!’ Io feci un cenno affermativo col capo. Quanto tempo è passato dal giorno in cui ho scongiurato mio marito di concedermi quattro ruote tutte mie? Una macchina avrebbe restituito indipendenza alla mia vita squallida, avrebbe aperto vie di comunicazione con il mondo della cultura e dei divertimenti. Stavo per liberarmi dalle catene della routine domestica. E cos’è successo, invece? «Lasciai giù le ragazze e caricai due piccoli passeggeri, due bambini che riportavo sempre a casa dall’asilo il mercoledì pomeriggio. ‘Io ho cinque anni’, uno disse all’altro. ‘Chissà quanti ne ha quella lì!’ (Nota: i bambini piccoli si riferiscono sempre all’autista di turno usando la terza persona, mai la seconda. Questo distrugge il rapporto impersonale autistapasseggero.) ‘Ho otto anni!’ urlai d’impulso. «‘Credi davvero che abbia otto anni?’ chiese l’altro. «‘Sono grande per la mia età, aggiunsi io, disperata. «‘Mia madre è grande come lei e ha trentadue anni’, disse il primo. «‘Spesso i grandi si comportano in modo strano’, disse il secondo bambino. «‘Si’, replicò il primo, ‘ma comunque è sempre meglio che andare a piedi!’»
E: DOLORI DI IDENTITA. «Tanto vale che glielo confessi prima che venga a saperlo da qualcun altro, dottore. Ho trovato la mia identità. «Lei non può capire cosa questo significhi per me. Persone che ho considerato amiche per anni mi gridano dietro: ‘Bugiarda, traditrice’. Alcune di esse hanno inscenato una manifestazione di protesta nel viale di casa mia. So già che mi chiederanno di restituire il distintivo del club ‘Betty Friedan’. Eppure non posso farci niente. «Prima di tutto non ho mai legato molto col movimento per l’uguaglianza dei diritti delle donne. Dopo la spazzatura da portar fuori, le valvole saltate da cambiare, l’erba da falciare e i cespugli di rose da concimare, qualunque altra conquista in fatto di uguaglianza mi avrebbe mandato dritta al manicomio. Lei deve sapere che io sono il tipo che alla richiesta di un contributo per il gruppo locale in favore del salario alle casalinghe risponderebbe: ‘Ha già dato mio marito’. «Non so. Anche prima ho cercato in tutti i modi di adeguarmi alla mistica della femminilità, ma non sono mai riuscita a ottenere grandi risultati. Quando la casa era ancora il paradiso della donna io continuavo a girare per le stanze in disordine strascicando le ciabatte e dicendo: ‘Chi sono? Dove sono? Dove sto andando?’ Il solo risultato che ottenni fu quello di spaventare a morte la piazzista della Avon. Una sera arrivai a dire a mio marito: ‘Sai una cosa, credo di aver perso la mia identità, e lui senza alzare gli occhi dal giornale rispose: ‘Probabilmente l’hai messa insieme alle chiavi della macchina, ammesso che tu sappia dove sono’. «Quando parlai a mia madre del ‘conflitto edipico e dei problemi di rivalità coi fratelli che avevano ormai radici profonde nella mia personalità’, lei disse: ‘Che razza di linguaggio da usare con la propria madre!’
«Poi, un giorno, accadde il miracolo. Squillò il telefono e qualcuno disse: ‘Ciao, Erma’. Dottore, i miei occhi si riempirono di lacrime come quelli di Ben Cartwright in Bonanza quando gli si azzoppa il cavallo. ‘Come mi hai chiamata?’ chiesi lentamente. La voce ripeté quel nome. Ecco fatto. Quella doveva essere la mia identità. Frugai con ansia febbrile fra i documenti che tenevo nel portafoglio e tirai fuori un mazzetto di carte di credito, il tesserino dell’Associazione donne contro la vivisezione, quello della biblioteca e la patente di guida. Portavano tutti lo stesso nome. Corsi in camera da letto e cominciai a frugare nei cassetti. C’erano vecchie ricevute firmate da me, fazzoletti con le cifre e copie di libri con la dedica: ‘A Erma’. Finalmente avevo scoperto la mia identità. Poi vidi una cartolina sul pavimento. Era indirizzata alla signora Erma Bombeck, maestra biscottiera delle Giovani esploratrici. Non solo avevo scoperto chi ero, ma anche che cosa facevo. Facevo la cuoca per un gruppo organizzato a livello nazionale! All’improvviso fui invasa da un senso di orgoglio e benessere, dottore. Il mio problema era risolto. Solo che adesso non ricordo più dove ho messo le trenta scatole di biscotti che ho confezionato per il picnic delle Giovani esploratrici!»
La sindrome depressiva da tassazione Ho conosciuto solo due uomini che si divertivano a pagare le tasse. Uno fregava il governo e riusciva sempre a farla franca. L’altro aveva un senso dell’umorismo tutto particolare: era il tipo che avrebbe messo su uno stand di collane sotto la ghigliottina, ai tempi della Rivoluzione francese. Assistere un malato di sindrome depressiva da tassazione non è divertente. Nel migliore dei casi «come vivere col proprio marito durante la compilazione del modulo 740» è qualcosa di paragonabile a una raffinata tortura cinese. Io l’ho fatto per anni, e queste sono le lezioni che ho imparato: 1. Non tentar mai di convincere a parole il proprio marito a reagire alla depressione causata dall’imminente scadenza del termine ultimo entro cui presentare la denuncia dei redditi. L’ultima donna che osò avvicinare il marito a meno di tre metri dicendo con un sorriso, «ringrazia il Signore che godiamo tutti di buona salute», è ancora ricoverata nel reparto cronici della clinica ortopedica. Non sempre saggezza e buon senso hanno la meglio sulla sindrome depressiva.
2. Non suggerire mai al proprio marito di presentare l’infame modulo con qualche giorno di anticipo. Non c’è nulla che provochi una recrudescenza dei sintomi depressivi come trovarsi intrappolati tra una folla di contribuenti volonterosi che sperano di evitare la ressa dell’ultimo giorno. Meglio lasciare che stringa amicizia col vicino durante le dodici ore o giù di lì di coda che dovrà farsi per avvicinarsi allo sportello dell’ufficio postale prima della chiusura il giorno fatidico, accompagnato da un coro di cittadini indignati che cantano We shall overcome seduti sui gradini dell’ufficio postale. 3. Tenere lontani i bambini. Durante le settimane che precedono il giorno fatale essi cessano di essere individui con un nome. Diventano automaticamente Familiare a carico n. 1, Familiare a carico n. 2 e Familiare a carico n. 3. Il padre snaturato non fa altro che sommare mentalmente le cifre investite in apparecchi dentari, corsi di ginnastica, iscrizioni a palestre sportive, corsi di belle arti, tasse scolastiche, indumenti, vitto, alloggio, divertimenti, vitamine, assicurazioni varie. Una
volta resosi conto del fatto che con seicento dollari al mese non riuscirebbe a mantenerli nemmeno a pane, acqua e marmellata, il suo risentimento raggiunge il livello di guardia. 4. Cercate di prevedere le giornate nere. Quando lo vedrete praticamente sepolto da mucchi di assegni annullati, ricevute, memorandum e moduli, offritevi con entusiasmo di farvi operare di calcoli al fegato al più presto per aumentare la cifra delle spese mediche deducibili. Promettetegli di adottare una ballerina orfana del Crazy Horse, di fare un’ingente donazione al club del polo, di effettuare investimenti disastrosi, di collezionare pesanti perdite a scopone scientifico, di comperare un grattacielo a credito. Soprattutto, siate pronte a fornire spiegazioni su ogni spesa effettuata, dagli anti-influenzali alle lezioni di nuoto di vostra figlia, o almeno a discuterle dettagliatamente. «Mi spieghi come può una persona sana di mente arrivare a spendere 175 dollari di lezioni di nuoto?» gridò lui, con le vene gonfie sul collo. «Con 50 dollari potrei assumere Mark Spitz per dar lezioni private alla bambina nella vasca da bagno.» «In realtà dieci settimane di lezioni alla piscina dell’oratorio sono costate solo 4 dollari, ma poi si sono assommati alcuni extra, e così...» «Quali extra?» «Be’, 49 cent di tappi per le orecchie.» «Restano ancora 170 dollari e 51 cent.» «Il parcheggio. Credo di aver speso 35 dollari di parcheggio.» «35 dollari?» «Ho parcheggiato in una zona soggetta a rimozione forzata. Poi una sera siamo rimasti giù in città, dopo la lezione, siamo andati a cena e al cinema, e... 10 dollari in tutto.»
«Restano sempre 125 dollari e 51 cent.» «Circa 12 dollari sono andati via in mance.» «Altre rimozioni forzate?» «No, ho dovuto pagare i ragazzi perché non giocassero con la carta igienica delle toilette e non si mettessero a schettinare sui pavimenti dell’atrio. Li ho praticamente comperati. Dopotutto non potevo fare una figura del genere con le altre madri. Anch’io ho il mio orgoglio.» «Allora, orgoglio: 12 dollari», disse, meditabondo. «Si, e non dimenticare i copriletti. Vado così di rado in centro che non ho potuto fare a meno di passare a dare un’occhiata a una svendita di copriletti. Ne ho comperati due. 24 dollari e 73 cent.» «Restano 88 dollari e 78 cent.» «Be’, 15 dollari sono andati in medicine quando la piccola si è dimenticata di asciugarsi i capelli e ha preso il raffreddore. Se ti preoccupa il fatto che non abbia consumato tutte le pillole, posso sempre mettergliele nei panini della colazione.» «Non fare la spiritosa», disse lui. «E gli altri 73 dollari e 78 cent?» «Dio mio, non so, ho avuto un sacco di spese. Le etichette col nome per gli asciugamani, la nuova borsa di plastica per i costumi, il fanalino di coda del furgone delle poste che ho tamponato... e non dimenticare i tappi per le orecchie.» «Quelli li abbiamo già calcolati... 49 cent, ricordi?» disse lui, bagnando la penna biro con la lingua. Ridere delle tasse? Preferirei prendere a sberle Heidi davanti a un gruppo di bambini.
A proposito di malattie RACCONTATA DA LEI: In realtà non vedevo l’ora che Leo tornasse dall’ospedale, anche se non si era ancora perfettamente rimesso, dopo il piccolo intervento chirurgico cui era stato sottoposto. Avremmo fatto colazione con calma la mattina, insieme, ci saremmo gustati, sempre insieme, una tazza di caffè caldo verso le undici, avremmo sfogliato vecchi album di fotografie e magari ci saremmo divertiti a fare deliziosi duetti, come quando eravamo fidanzati. Non so che cosa sia andato storto. Io andavo su e giù coi vassoi come una cameriera addetta all’angolo buio di un night club. Non facevo altro che sprimacciare cuscini, portare avanti e indietro cartelle di documenti, cambiare lenzuola. Venivo continuamente convocata in tutte le stanze della casa. Naturalmente, Leo non è mai stato capace di sopportare il dolore. Non riuscii ad abbandonare il suo capezzale per più di un minuto, quando si tagliò un dito con un foglio di carta, nel lontano ‘59. Il dottore disse che si era ripreso solo grazie alla forza e al coraggio che ero riuscita a comunicargli. «Te l’ho detto che sono stato sveglio per tutta la durata dell’operazione?» gridava giù per il corridoio. «Si!» «Ti ho raccontato di quell’orda di vampiri che veniva a togliermi il sangue a tutte le ore del giorno e della notte?» «Si!» Alla fine della prima settimana cominciò a chiedermi di cercare i numeri di telefono dei suoi vecchi commilitoni, di tirar fuori lo Scarabeo, di scoprire a quanto ammontava l’assicurazione della macchina (fra gli altri progetti di ricerca) e di far tornare in vita il ficus che ci eravamo dimenticati di
innaffiare durante il tragico periodo della degenza. (Lo spiegherai tu, alla mamma, che hai lasciato morire il suo regalo durante la mia prima assenza da casa in due anni! Avanti, spezzale pure il cuore, se hai il coraggio!) «Mi senti,» gridava. «Mentre ti diverti a girare per il quartiere, vedi di fare un salto in biblioteca a prendere un libro su come si diventa sceneggiatori. Mi hai sentito? Potremmo sfondare in TV, io e te messi insieme!» Alla fine della seconda settimana aveva quasi recuperato completamente le forze. Girava per casa tutto il giorno. Fu così che scoprì che non ero capace di disporre razionalmente le provviste sugli scaffali della dispensa, che c’era puzza di cadavere in lavanderia e che quello di cui la famiglia aveva veramente bisogno era un bel programma di lavoro organizzato al minuto secondo, con turni e tutto il resto. L’ultima settimana fu probabilmente il momento migliore, per lui. Era affetto da sindrome «di comunicazione», ovvero da messaggite acuta. «Di’ a Ed, giù al garage, che se non rimette a posto quel motore tanto vale che si rassegni a spingere la macchina fino a Detroit, col naso rotto che gli farò appena riuscirò a uscire da questo letto. Capito? Per quanto riguarda Clark, giù all’ufficio, digli che ho già avuto a che fare coi tipi come lui, e che se crede di riuscire a farmi le scarpe, mentre giaccio a letto malato, gliela faro vedere io. Ricordagli cos’e successo nel lontano ‘48.» «Che cos’e successo nel lontano ‘48?» gli chiesi, pazza di curiosità. «Niente, ma Clark non se lo ricorderà di certo. E un’altra cosa. Prendi per il collo quel tipo che hai assunto per falciare il prato e digli che non voglio un campo da golf, davanti a casa, solo un prato nor-male.»
Io lo so perché il buon Dio ha deciso di far fare i bambini alle donne! Gli uomini avrebbero immediatamente trovato qualcuno a cui delegare il compito. RACCONTATA DA LUI: In realtà non vedevo l’ora di stare un po’ tranquillo a casa con Doris per aiutarla a superare l’attacco di influenza. Se un uomo non è in grado di occuparsi della casa e dei figli in caso di necessita, che razza di uomo è, mi sono sempre detto. Non so che cosa sia andato storto. Dio sa se non ho cercato di fare del mio meglio, date le circostanze. Misi un po’ d’ordine in cucina, ma quando aprii il ripostiglio e vidi gli scaffali foderati di carta di giornale con titoli a caratteri cubitali tipo WILSON DECIDE L’INTERVENTO! capii che avrei avuto un bel daffare. Radunai i ragazzi e li misi sotto. Doris è troppo indulgente con loro. «Perché diavolo vostra madre tiene i cioccolatini nel forno?» chiesi. «Per nasconderli», risposero loro. «Adesso ragazzi portate questo spiedo su in soffitta. La mamma lo usa solo per le feste nazionali. Datemi quelle mandorle salate che le metto sullo scaffale qua in basso... così è più facile raggiungerle.» I ragazzi si scambiarono un’occhiata d’intesa. «Dov’è il caffè?» chiesi bruscamente. «Nel cassetto del tavolo, papa.» «Che cosa c’e di male a metterlo nel barattolo con la scritta C-A-F-F-É?» «Niente, papa, ma la mamma ci tiene il P-O-P-C-O-R-N, là dentro.» Stavamo facendo un buon lavoro, badate bene, quando sentimmo un urlo disumano provenire dalla camera da letto:
«Perché non andate fuori a rotare le gomme della macchina, si può sapere? Oppure potreste fabbricare lampade coi vecchi birilli del bowling, o...» Eccetera. Ecco la ricompensa di tutta quella fatica. Doris è un po’ viziata. Sviene all’idea di cambiare una gomma. Non voglio criticarla proprio adesso che è costretta a letto dalla malattia, ma in frigorifero c’erano avanzi così vecchi che una delle casseruole mi saltò addosso e comincio a succhiarmi il sangue. «Se non ti decidi a sbarazzarti di quegli avanzi», la avvertii, «sarai costretta a fondare una casa farmaceutica, per utilizzare le muffe.» «Chi era al telefono?» urlo lei. «Il preside. Non preoccuparti.» «Che cosa voleva?» insiste. «Niente. Mi ha spiegato che cosa dice il regolamento della scuola a proposito delle pantofole.» Doris grugnì. «Perché i bambini sono andati a scuola in pantofole?» «Perché non riuscivano a trovare le scarpe. Devono essere sulla lavatrice, ma non possiamo avvicinarci prima delle sette. Abbiamo calcolato che verso quell’ora dovrebbe esserci l’alta marea, poi l’acqua comincerà a ritirarsi.» «Vuoi dire che è uscita l’acqua dalla lavatrice?» L’innocentina. Gliel’ho detto cinquanta volte di mettere i calzini e la biancheria piccola in un sacchetto, altrimenti vanno a ostruire il tubo, ma lei non mi ascolta nemmeno quando parlo. Non mi sono neanche sentito dire «grazie» per aver girato un giorno intero di porta in porta a raccogliere dati per la sua «Ricerca sulle cause del sudore ai piedi», né per aver accompagnato in macchina quindici Giovani esploratori a visitare la locale fabbrica di gelati. Se solo Doris si decidesse a organizzare il lavoro domestico come gli uomini organizzano quello d’ufficio, non
dovrei perdere tanto tempo a rimettere a posto le cose. Tutto quello che ho fatto e stato di far scivolare un bigliettino sul suo tavolino da notte e di chiederle se per favore poteva rispondere alle seguenti domande: 1. Come si aziona il tritarifiuti? 2. Come si fa a spegnere l’audio del lattaio? 3. Come si fa a cancellare una bandiera confederata tatuata sulla fronte di un bambino piccolo? 4. Qual è il numero di telefono di tua madre? 5. Qual è il numero di telefono dei vigili del fuoco? Non c’era ragione di tirare un urlo e di cominciare a vestirsi in fretta e furia con aria esasperata. Spesso mi chiedo perché mai il buon Dio abbia affidato alle donne il compito di mettere al mondo i bambini. Noi uomini ci saremmo subito organizzati e saremmo riusciti a sfornarne tre in quattro mesi e mezzo.
7 maggio – 9 luglio Come faccio a liberarmi?
«Mi scusi», disse il lattaio dandosi un colpetto educato al berretto, «ma credo che lei abbia messo il biglietto sbagliato nella bottiglia, stamattina. C’è scritto: ‘AIUTO! Sono prigioniera di un idiota armato di chiave inglese in una casa dove manca l’acqua corrente da tre giorni. Come faccio a liberarmi?’» «É la prima volta che fa questo giro, vero?» gli chiesi. «Si, signora», disse lui, con gli occhi che cercavano un buco nella siepe di tassi attraverso cui filarsela. «Questa sembra una richiesta d’aiuto», disse, esitando. «Io le bottiglie le riporto alla centrale, dove le sterilizzano e le riempiono di nuovo di latte. Non vado mica a buttarle nel lago Erie o qualcosa del genere.» «Lo so!» dissi, irritata. «È solo che sono sposata con un fanatico del bricolage, e una volta ogni tanto devo pur fare qualche tentativo di fuga!» Quel lattaio non capiva niente di matrimoni moderni. Lo capii guardandolo scappare di corsa in direzione del furgone. Certi matrimoni sono scritti in cielo con polvere di stelle. Altri in terra con comune polvere da cortile. Il mio appartiene a quest’ultima categoria, lo scoprii due settimane dopo la cerimonia. Mio marito tornò a casa con un’espressione estatica in volto e due scatole di sigari sotto il braccio. Corse giù nel seminterrato, le inchiodò insieme, le dipinse di verde scuro e le battezzò «vetrinetta». Nonostante avessero tutta l’aria di due scatole di sigari inchiodate insieme, trasudanti briciole di tabacco, dovetti ammettere che avrebbero fatto bella figura in una sala del Metropolitan. Quando mostravo la casa agli ospiti, mi soffermavo a lungo davanti alle scatole per spiegarne l’utilità, esclamando che se avessi saputo che mio marito era un tal genio del bricolage l’avrei sposato nella culla.
Come al solito, esageravo un po’. Ma come facevo a sapere che, incoraggiato dal successo ottenuto, avrebbe aperto un portello nella porta di servizio per far entrare il cane, senza pensare a come avrebbe fatto poi a tener fuori la neve? Come avrei potuto sospettare che la prossima mossa sarebbe stata quella di costruire intorno ai bidoni della spazzatura una staccionata così alta che bisognava catapultare il contenuto della pattumiera in aria e sperare per il meglio? Come potevo sospettare che gli insegnamenti ricevuti al corso di applicazioni tecniche della scuola media sarebbero diventati il suo vangelo?
Prima ci fu il periodo degli armadietti e degli scaffali. Tutti gli oggetti di uso comune dovevano avere il loro bravo contenitore che li nascondesse alla vista, o comunque essere attaccati da qualche parte, ammassati su qualche sporgenza, nascosti da qualche marchingegno. In garage c’erano scaffali
fino al soffitto, pieni di barattoli di vernice disseccata, vecchi contenitori di caffè e targhe di automobili ormai finite tra i rottami. Costruì armadietti per il televisore, le librerie, lo stereo, la lavatrice, il bar, i vestiti dei bambini, le coperte, le lenzuola, la macchina da cucire e i detersivi. Una mattina scesi dal letto con gli occhi ancora chiusi e feci per stiracchiarmi e sbadigliare. Prima che riuscissi a riportare le braccia lungo i fianchi, mi trovai a sostenere cinque scaffali coi libri di cucina e la collezione di elefantini di vetro. In seguito scoprii che non dormiva mai sopra un progetto finito. Acceso di entusiasmo per un programma inteso a migliorare le nostre condizioni di vita, spargeva per la casa alcune decine di scale a pioli, apriva una miriade di barattoli di vernice, li sistemava accuratamente in posizioni il più possibile precarie e arrotolava le tende sul divano. Poi sorrideva, si metteva la giacca e diceva: «Vado un attimo in biblioteca a fare una ricerca sulla pulce tropicale. Non toccare niente fino al mio ritorno». In altre occasioni, però, l’immaginazione gli veniva meno. Si limitava ad allontanare il fornello dalla parete, a staccare lo sportello del forno, a mettere a mollo tutti gli aggeggi del bagno nel lavandino della cucina, previamente riempito di aceto, e a dichiarare: «Io non posseggo un seminterrato pieno di attrezzi, come tutti gli altri. Faccio del mio meglio con il piccolo falegname dei bambini e una serie di strumenti che ho fabbricato da solo con ossa e pelle di bufalo. Se non si ha lo strumento giusto per un certo lavoro, non si possono mica fare miracoli». Dopo un po’ la notizia che nella mia casa albergava un fanatico del bricolage diventò di dominio pubblico. Eravamo quei due con le zanzariere alle finestre durante l’inverno e le barriere antineve durante l’estate. Seminavamo l’erba nel prato
davanti a casa in gennaio e decidevamo di alzare l’antenna del televisore durante un temporale. Mio marito affrontava anche i lavoretti più semplici con la grazia di una mandria di bufali davanti a un incendio della prateria. «Mi chiedevo se tu potessi infilare la spina nella presa dietro la lavatrice», dissi una sera. «Vediamo un po’», disse lui esaminando la situazione. «Primo, ho bisogno della mia Enciclopedia del bricolage, volume 8. Vammela a prendere, per favore. Cerca sotto la P, Prese elettriche. Poi cerca i guanti di amianto, gli occhiali e il casco giallo. Salterò sulla lavatrice con un sol balzo, e...» «Spaccherai la manopola dei programmi con un sol colpo», dissi seccamente. «Senti, è meglio che faccia da me», aggiunsi. «Sono più piccola e forse riuscire a infilare il braccio...» «Questo e un lavoro da uomini», disse lui con decisione. «Tu vai a spalare la neve davanti a casa e lasciami fare.» «No, resterò da queste parti, in caso decidessi di infilare le dita nella presa e finire come Cheryl Chessman.» Lui saltò sulla lavatrice, si sporse verso la presa e infilò la spina per metà, facendo saltare il circuito della cucina. Scioccato (letteralmente), cadde dalla lavatrice, finendo dentro la vasca di plastica piena di indumenti con lo sporco difficile. Il casco volò per aria e andò a colpire una bottiglia di alcool su uno scaffale. La bottiglia, cadendo, si schiantò sullo scaldabagno a gas. Nel tentativo di rialzarsi, restò impigliato con la cintura nell’asse da stiro e il ferro a vapore precipitò a terra fumando. Congiunsi le mani e chiusi gli occhi in preghiera. «Signore, fa’ che non decida mai di andare in pensione.» Per colmo d’ironia, molte donne mi invidiano questo marito faccio-tutto-da-me. «Se non altro fa qualcosa!» ha detto
la nostra nuova vicina. «Dovresti ringraziare il cielo.» Io ho sorriso. «Ti dispiace spostarti da quella sedia? Non voglio disturbarti, ma vedo una gamba di mio marito spuntare attraverso il soffitto e non vorrei che ti cadesse addosso. Sai, è un po’ timido.» Un’espressione leggermente preoccupata si dipinse sul volto della donna, mentre lui urlava giù dal buco nel soffitto: «Erma! Segna col gesso le parti non pericolanti di questo pavimento, così la prossima volta non metterò il piede in fallo!» «Io credo che sia una cosa meravigliosa», continuò imperterrita la vicina, «affrontare tutti i problemi che sorgono nell’andamento della casa insieme, senza interferenze di estranei. Vi ho visto in giardino... tu tagliavi l’erba, lui potava la siepe, tu lavavi la macchina, lui puliva il cruscotto... una cosa meravigliosa!» Restai in silenzio per un attimo, poi avvicinai la mia sedia alla sua. «Lascia che ti sveli un segreto. Le donne deboli e indifese mi sono sempre state antipatiche. Probabilmente in fondo in fondo le invidio perché riescono ad addestrare gli uomini adulti come cani da riporto, e poi non sopporto che vengano a tastarmi i muscoli sotto il vestito da sera, alle feste del sabato. «Se rinasco, voglio essere una di quelle donne fragili e indifese che svengono davanti a una lattina di antigelo. D’altra parte è tutta colpa mia. Sono stata io, appena sposata, a dire, vedendo mio marito alle prese con la falciatrice: ‘Se vuoi azionare quella falciatrice, tesoro, farai meglio ad attaccare la candela, aprire il condotto della benzina in modo da mandare il combustibile fino al distributore, e tirare la valvola dell’aria. Poi, se proprio vuoi stare in quella posizione, sarà meglio che ti appoggi all’albero, altrimenti perderai l’equilibrio’.»
«Fantastico», disse lei, asciugandosi la fronte con un fazzolettino di pizzo. «Non tanto», dissi io. «Da quel momento in poi mi è stata affidata la gestione esclusiva della falciatrice. Sono anche stata incaricata di riparare i tubi che perdono, pulire la ventola della lavatrice, riparare le corde per stendere i panni, fare i sentieri in giardino, aggiungere l’antigelo nel radiatore e lavare la macchina.» «Dio mio», sussurrò lei, «io non capisco proprio niente di macchine... riesco appena ad accendere quelle lampadine piccole... le... le... non mi viene il nome...» «Luci di posizione», suggerii. «A proposito, com’è che ti chiama sempre tuo marito?»
«Morbido micino?» «Ecco, proprio. Mio marito mi chiama Maciste, come il mulo che avevano in Corea. Sei tu quella che ha visto giusto.
Scommetto che non ti capita mai di dare il fertilizzante sul prato, di cambiare le valvole saltate, di sgorgare il lavandino, di lavare il bidone della spazzatura con la pompa o di appendere le tende ai sostegni.» Lei buttò indietro la testa, mostrando la gola liscia, bianca come il latte, e rise. «Be’, sai, mi gira la testa solo a salire sul marciapiede.» «Prendiamo oggi, per esempio. La lavatrice è intasata. Posso fare due cose: telefonare all’agenzia Ladrocinio e aspettare le loro magiche chiavi inglesi, o cercare di ripararla da sola.» Lei fece un timido sorriso. «Scommetto che è la turbopompa, a essere intasata. Devi solo rimuovere il pannello posteriore, togliere il pulsometro, staccare il termopiffero e usare un supertubo per togliere la sporcizia. Poi applichi un nuovo ciclocilindro, con una chiave inglese pneusonica n. 4 e puoi ricominciare a fare il bucato. Semplicissimo!» «Brutta bugiarda! Saresti capace di dirigere la General Motors da una cabina telefonica. Fai finta di essere fragile e indifesa, eh? E tutta una commedia. E che cosa ottieni in cambio? Solo qualche anello di brillanti, vacanze fuori stagione, piccole stole di visone e un marito che ti corre dietro con la lingua di fuori. Lo sai che l’ultima volta che ho visto mio marito corrermi dietro con la lingua di fuori è stato quando ho dimenticato di frenare la macchina mentre la lavavo in cima a una salita? Credi che sia troppo tardi per me? Pensi che una donna sopra i trentacinque possa ancora imparare a diventare fragile e indifesa?» Lei sorrise. «Certo. Puoi cominciare chiedendo a quel tesoro del lattaio di farti un grosso favore e buttare la tua bottiglia col bigliettino nel lago Eire, se non lo disturba troppo...»
Il fanatico della vita all’aria aperta Mi hanno sempre lasciato credere che un matrimonio riuscito si basa sulle cose che i componenti la coppia hanno in comune. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere che Liz Taylor, parlando di uno dei suoi primi matrimoni, ha dichiarato che l’unica cosa che lei e il marito di turno avevano in comune era la misura dei maglioni. L’ovvia conclusione e la seguente: i maglioni non sono più quelli di una volta. In realtà, sono le cose che i componenti la coppia non hanno in comune a tenere in piedi il matrimonio. All’inizio della mia avventura matrimoniale (durante la luna di miele, per la precisione), scoprii di essermi legata per la vita a un fanatico della vita all’aria aperta. Seduta nell’unica stanza di un capanno da pesca sul lago delle Trote iridate, dissi, giocherellando col bouquet di tuberose: «Che cosa vuoi? Me o un luccio di quindici chili?» In seguito persone amiche mi hanno spiegato che avrei dovuto scegliere un pesce più piccolo. Quella faccenda dei quindici chili doveva aver posto al mio malcapitato marito un traguardo irraggiungibile. Gli uomini detestano le mogli ambiziose. Col passare degli anni le cose sono andate continuamente peggiorando. Per tutto l’inverno mio marito è affetto da quella che nella cerchia degli iniziati viene comunemente definita «febbre del pesce». Passa il tempo ad affilare ami, a escogitare
esche complicatissime, a leggere Il paradiso del pescatore e Lenze in agguato con un’attenzione che non mette mai nello sfogliare il New York Times, e mi segue per tutta la cucina per mostrarmi la nuova mossa del polso nella quale si è esercitato per tutta la mattina. I suoi stivali da guado (che gli arrivano alle ascelle, così se gli entra l’acqua è sicuro di annegare all’istante e non dopo una lenta agonia) restano appesi in garage, lustri e a portata di mano come il cappello di un pompiere. Tutte le volte che un compagno pescatore lancia il grido fatidico di «arrivano le trote!» con voce un po’ isterica, lui afferra gli stivali e corre incontro alle poverette. In realtà io le trote non le ho mai viste arrivare. Di certo non fino all’esca. In teoria i torrenti «pullulano» sempre di trote. In pratica io li ho visti pullulare solo di pescatori frustrati. Le ragioni che costoro adducono quando i pesci proprio non vogliono saperne di abboccare sono tali da superare qualunque immaginazione. 1. I pesci non abboccano perché l’acqua è troppo fredda. 2. perché l’acqua è troppo calda. 3. perché è troppo presto. 4. perché è troppo tardi. 5. perché nuotano in profondità. 6. perché non si sono ancora riprodotti. 7. perché è la stagione dell’amore. 8. perché motoscafi e sciatori li spaventano. 9. perché sono avvelenati dall’inquinamento. 10. perché il livello del fiume si è abbassato. 11. perché ormai abboccano solo alla gomma da masticare e ai chiodi ricurvi. 12. perché qualche principiante ha lasciato cadere in
acqua il cestino con l’esca e si sono rimpinzati come maiali. 13. perché da quando i democratici sono al potere hanno deciso di scioperare. Quando il campeggio all’aria aperta diventò il simbolo della felicità coniugale, capii che mio marito non avrebbe avuto pace fino a quando non mi avesse avuta tutta per se sotto una tenda, cosparsa di spray contro le zanzare e chiusa in un sacco a pelo, tra i boschi dove si rincorrono cervi e daini. Ho rivissuto quella prima vacanza in tenda migliaia di volte, nella mia mente. (Mi hanno detto che solo l’elettrochoc potrebbe aiutarmi a dimenticarla una volta per tutte.) Ho cercato di capire perché fu un fallimento. Primo, credo che avessimo visto troppi film di Walt Disney e ci aspettassimo dagli animali più collaborazione di quanta essi fossero disposti a fornirne. Secondo, diversamente dalle altre famiglie, la nostra non possiede gli istinti primari necessari alla sopravvivenza. Va già bene quando ci viene in mente di abbassare i finestrini della macchina per non soffocare.
lo personalmente mi ero opposta all’idea di piantare la tenda sotto una pioggia scrosciante. Pensavo che ci avrebbe messi tutti di cattivo umore. In realtà andò così: avevamo appena finito di piantare l’ultimo paletto, quando sentimmo un passante dire alla sua compagna: «Guarda che roba, Lucilla, è più inclinata del Titanic prima di colare a picco». Subito mio marito mise fuori la testa dalla tenda e ribatté: «Nemmeno lei si regge bene in piedi, amico, e non certo per colpa del vento». Non ho difficoltà ad ammettere che ci vollero due bagnini per placare la contesa. Da quel momento in poi, l’intero stabilimento balneare comincio a chiamarci «quelli della tenda pazza». Certo che la pioggia non fu un problema da poco... per tutti i quindici giorni che passammo sulla spiaggia. Ricorremmo a una serie di stratagemmi per ridurre il disagio al minimo. «Non per fare la guastafeste», dissi un pomeriggio, «ma credo che la tenda e il tempo stiano mettendo a dura prova i miei nervi.» «E perché mai?» chiese mio marito.
«Ho passato la mattinata a contare i granelli di sabbia nel panetto di burro.» «Ma i ragazzi si divertono un mondo», disse lui. Aveva ragione. Passavano il tempo a esaminare i bulbi capillari alla luce della pila, si tagliavano le unghie a vicenda, mangiavano cracker nei sacchi a pelo degli altri, si divertivano a staccare le etichette dai barattoli, prendevano il tempo ai campeggiatori che vedevano entrare nei bagni e scrivevano cartoline a casa, raccontando a tutti che il posto era una «cannonata». Il sedicesimo giorno ci capito un colpo di fortuna. Una donna isterica nella tenda accanto alla nostra apprese via transistor la notizia dell’arrivo di un uragano. Io mi pettinai e mi misi un filo di rossetto. Era la prima volta che uscivo dalla tenda da due settimane. Seduta in macchina, coi piedi spinosi di uno dei bambini appoggiati alle costole, sentii qualcuno dire dal sedile posteriore: «Sopravvivremo, vedrete». Prima di uscire aveva avuto l’idea di prendere con se due barattoli senza etichetta. Uno conteneva mini-Wurstel da cocktail, l’altro detersivo. Il diciottesimo giorno comincio a farsi strada in noi la certezza che ormai non ci restavano che tre alternative: a) rinforzare la tenda in modo da poterci stare sotto in piedi, b) farci accorciare le gambe in modo che non misurassero più di un quarto della nostra altezza totale, c) filare via con la macchina. I bambini votarono per andare a visitare un allevamento di daini a circa trenta chilometri dal campeggio. Era una di quelle piccole imprese commerciali dove si paga all’entrata, si viene ammessi nel recinto e ci si trova circondati da daini e folle di altri visitatori. C’era anche un negozio di souvenir che vendeva portacenere di madreperla, una giostra che costava dieci cent e
faceva venire il vomito ai bambini e un baracchino dei popcorn. Comperammo una scatola di pop-corn a testa e ci accingemmo a trascorrere un sereno pomeriggio tra quegli animali tranquilli dagli occhioni dolci. Quando sentii un dolore acuto alla schiena, sussurrai a mio marito: «Stronzo». La seconda volta mi irritai alquanto. Mi voltai di colpo e vidi due occhioni dolci e scuri e due zoccoli appoggiati al risvolto della giacca. Pare che il pop-corn facesse impazzire di desiderio le miti bestiole. L’intero branco ci fu addosso in un batter d’occhio: ci urtavano, ci spingevano, ci brucavano. Spinsero uno dei bambini in un angolo e lo circondarono, l’altro finì nella polvere, singhiozzante, e mio marito comincio a piroettare sulle punte come una ballerina classica per sfuggire agli attacchi. Ci dichiarammo tutti d’accordo nel ritenere la tenda una soluzione di ripiego, ma era sempre meglio di un branco di daini affamati. Dopo tre settimane, subentrò un sano processo di adattamento. Sbattere la biancheria contro uno scoglio per lavarla, camminare con le mutande piene di sabbia, fare il bagno in una pentola da un litro, erano diventate cose di ordinaria amministrazione. Spesso, la sera, col fuoco acceso e una tazza piena di caffè bollente tra le mani, nel silenzio della notte, ci si sentiva come ai primordi della creazione. I bambini, occupati ad ascoltare i fruscii degli animali nel bosco e a guardare le scintille che si alzavano nel buio disegnando forme fantastiche, dimenticavano di litigare tra loro. Niente telefono. Niente piazziste della Avon. Niente televisione. Niente falciatrici. Niente riunioni di comitati. Niente aspirapolvere. Solo silenzio. Pace e silenzio. Ma una sera il silenzio e la pace finirono. Una roulotte lunga almeno otto metri scivolò nella radura accanto alla nostra tenda. Sentimmo le voci degli occupanti rompere il silenzio.
«Fred, non voglio fare la schizzinosa, te lo giuro, ma senza generatore è ridicolo pensare di restare in questo campeggio. Come faccio con la macchinetta del caffè, la coperta termica e il fornello?» «I tuoi problemi risolvili da te», urlò Fred. «Io ho già il mio daffare a pensare al rasoio e allo shaker per i Martini!» «Be’, Spero proprio che ci siano una lavanderia a gettoni e l’acqua calda nei bagni...» «E un molo di attracco», aggiunse lui, «e una piscina per i bambini. Senza piscina, si ammaleranno. Lo sai com’è fredda l’acqua del lago.» «Hai controllato se passano a ritirare la spazzatura tutti i giorni? Non voglio un sacco di animali strani intorno alla roulotte. Non sono venuta qui a far vita primitiva per ritrovarmi a lottare contro orde di animali. Che cos’è mai questo rumore tremendo?» «Dobbiamo essere vicini alla spiaggia. Il rumore delle onde mi farà impazzire, durante la notte. Hai portato i sonniferi, Peg?» «Certo, caro. perché non tiri fuori la tenda da spiaggia con la zanzariera e ti metti ad ascoltare la radio? Intanto io cercherò di mettere insieme qualcosa di buono da bere. Non credo che il proprietario dell’emporio, che assomiglia al vecchietto dei film western, abbia mai sentito parlare di cubetti di ghiaccio in vita sua.» Mi girai verso mio marito. «Senti, togliamo l’ultimo paletto rimasto alla tenda e domattina partiamo per Paradiso Blu. Ho sentito dire che il lago lassù ‘pullula’ di pesci che ti vengono a mangiare in mano come i daini dell’altro giorno.» Lui sorrise. «Ti è venuta la ‘febbre del pesce’, eh?»
É estate, e ancora una volta nostra figlia, la gazzetta del Middle West, ha cominciato a emettere bollettini quotidiani per informare la cittadinanza dei nostri progetti per le vacanze. Ho ricevuto una telefonata da una donna che abita due isolati più in giù e voleva che portassi i suoi saluti alla sorella che sta in Messico, un’altra da una coppia di vecchietti in pensione che volevano un cestino di pompelmi dalla California, e giusto ieri una delle suore infermiere dell’ambulatorio vicino a casa mi ha chiesto di portare i suoi saluti al papa. In realtà, io sono per le vacanze separate: noi da una parte e i ragazzi dall’altra. Oppure, come ha detto ieri la mia amica Joan di suo fratello e sua cognata: «Odiano i bambini, e si sarebbero separati anni fa, ma hanno deciso di stare insieme per amorevole mutuo soccorso». C’è qualcosa nel fatto di infilare cinque persone in una macchina, con nient’altro da fare che tollerarsi a vicenda, che porta alle scorrettezze più atroci, al linguaggio più scurrile e a sferrare pugni sul naso. C’è chi preferisce viaggiare nel portabagagli. Ognuno degli individui intrappolati nell’abitacolo persegue il proprio benessere senza curarsi di quello degli altri. I bambini, per esempio, si divertono a parlare per ore e ore dell’ultima toilette nella quale si sono fermati, sillabando i messaggi stilati col rossetto sulle pareti della medesima. Poi di solito decidono di giocare alla «auto roulette». Si tratta di un gioco precario che consiste nel calpestarsi, spintonarsi e mettersi le dita negli occhi a vicenda per vedere chi riesce a stare vicino al finestrino. Nonostante i resoconti entusiastici dei genitori sugli sfoghi di orticaria scoppiati ai loro figli per l’eccitazione di trovarsi finalmente davanti al Grand Canyon, noi siamo costretti ad ammettere che ai nostri non gliene frega un accidente. Il loro interesse e diretto per lo più verso parchi dei divertimenti,
negozi di souvenir, minigolf, zoo con negozi di souvenir, lunapark con bancarelle di souvenir, ristoranti col banco dei souvenir, monumenti nazionali con negozi di souvenir e parchi nazionali con l’angolo dei souvenir. Ho l’impressione che se dirigessimo l’automobile verso il Lincoln Memorial, ci arrampicassimo sulla gamba del presidente e gli apparecchiassimo il picnic in grembo, uno dei bambini direbbe subito: «Attenti, ragazzi, da qualche parte ci dev’essere un motel con piscina riscaldata e un bel negozio di souvenir». Il desiderio compulsivo di comperare una barcata di souvenir prima di arrivare alla periferia della nostra città aveva ormai assunto aspetti così preoccupanti che fummo costretti a stabilire una serie di regole esplicite. Fate tesoro delle nozioni di storia imparate a scuola. Non fatevi fregare da qualche buontempone che pretende di vendervi il duplicato esatto della penna biro usata da Melville per scrivere Moby Dick. (Con qualche dollaro in più siamo riusciti a mettere le mani sulla macchina per scrivere usata da Thomas Jefferson per la Dichiarazione di Indipendenza.) Aguzzate il cervello. Guardatevi dagli indiani che vendono termocoperte, autentici kimono giapponesi fabbricati in Virginia e magliette con la faccia del presidente e della First Lady. (La salsa per il lesso fabbricata secondo un’antica ricetta Sioux l’abbiamo comprata, ma le magliette... via!) Scegliete un souvenir che vi ricordi un posto preciso. I bambini di solito incontrano difficoltà in proposito. Insistono per comperare magliette che proclamano «SONO UN ALCOLIZZATO. IN CASO DI EMERGENZA PAGATEMI UNA BIRRA», davanti alla baia di San Francisco. Rifiutatevi di pagare prezzi esorbitanti per oggetti che potreste tranquillamente comperare nella vostra città. Prendete per esempio quel piccolo Frankenstein che abbiamo comperato
nel Tennessee... quello con la cordina che si tira e gli cadono i pantaloni e diventa tutto rosso in faccia... tre dollari e novantacinque senza le pile. Con quei soldi avrei potuto comperare uno stupendo cuscino di satin delle Montagne Rocciose con la scritta: «Non c’è sale come quello delle lacrime di una madre». Per ultima cosa, accertatevi che il souvenir che state per comprare possa viaggiare senza problemi. Una volta comprammo un cestino di pesche della Georgia e fummo costretti a viaggiare ininterrottamente per quarantott’ore per non farci mangiar vivi dalle mosche. Un’altra volta siamo dovuti stare tutti e cinque sul sedile davanti, per non creare problemi di territorialità con un coccodrillino su quello posteriore. Subito dopo i bambini, il vero problema di ogni viaggio è il padre. Non gli passa nemmeno per la testa di fare un bel viaggio per rilassarsi e guardare il panorama. Per lui si tratta semplicemente dell’occasione buona per dimostrare che la sua macchina riesce a compiere imprese degne di un Concorde. Appena al volante, si trasforma nella controfigura di Steve McQueen in Bullit. Per prima cosa ci sono i grafici che insiste nel tenere per calcolare il chilometraggio, il consumo di olio e benzina e le spese varie. Di solito quei grafici finiscono con l’essere adibiti ai seguenti usi: a) avvolgere gomme americane masticate a lungo, b) schiacciare insetti abbastanza incauti da avventurarsi sul parabrezza, c) debitamente contraffatti, far morire d’invidia i vicini che hanno appena comprato a prezzi esorbitanti una macchina nuova che divora un litro al minuto. Poi insisterà per farvi fare da «navigatore», e cioè perché leggiate e interpretiate le carte stradali. Per accontentarlo, dovete innanzitutto tener presente che avete a che fare con un
maniaco, un automobilista che pretende di arrivare alla fine del viaggio tre ore prima di essere partito. Detesta il traffico intenso, le deviazioni, i caselli delle autostrade, i limiti di velocità e le grandi città con più di cinquanta abitanti. Dipende da voi prevedere tutti questi ostacoli e aiutarlo a evitarli a ogni costa. In breve, ha un comportamento ostile. Troverete la carta stradale nel cassetto del cruscotto, di solito malamente piegata. Sarà anche un po’ vecchiotta (subito dietro a Boston c’è una zona segnata «foresta vergine»). Una volta che dissi a mio marito che eravamo arrivati a destinazione, lo vidi guardare dal finestrino, battere ripetutamente la testa contro il vetro e lo sentii con le mie orecchie accusarmi di aver spostato il Mississippi due stati più in la. Un altro problema non da poco è convincere il guidatore a fermarsi per mangiare. Con la scusa che il cibo degli autogrill è infame e costoso, vi nutre di promesse sulle delizie che troverete alla Mecca del viaggiatore, alcune centinaia di chilometri più in la. Con lo stomaco dilatato e i denti affilati dal gran masticare le cinture di sicurezza, arrivammo alla Mecca del viaggiatore per scoprire che era composta da una stazione di servizio, un cane randagio in mezzo alla strada e uno stand tutto illuminato che vendeva coni gelati caldi. Ci mettemmo a guardare il cane con cupidigia. Dato che questo vuol essere un resoconto accurato del modello di comportamento del viaggiatore medio, non posso trascurare di parlare di «mamma». Mamma sale in macchina e, come un evangelista con il gregge finalmente riunito sotto la tenda, non riesce a resistere alla tentazione di infierire su un pubblico praticamente prigioniero. E attacca con la disciplina. Ammetto di aver attraversato un intero stato, ignorando monumenti nazionali, curiosità naturali, paesaggi da cartolina,
facce scolpite nelle montagne e branchi di bisonti, senza chiudere per un attimo la bocca, intenta a elencare i misfatti dei bambini dal terzo mese di vita in poi. Il mio sermone intitolato Allora, bambini, chi e lo spiritoso che ha acceso il riscaldamento?» duro per tre stati. A volte alle mamme viene concesso di guidare, ma solo nelle seguenti condizioni: 1) alle cinque di pomeriggio nel traffico di città con più di 25.000 abitanti, 2) a mezzanotte su strade di campagna non segnate sulla carta, 3) sulle autostrade in costruzione coi segnali di deviazione rovesciati a terra, 4) durante un uragano su un’autostrada a otto corsie, con un minimo di velocità di cento chilometri all’ora. Per colmo di ironia nessuno di noi riesce mai a rendersi conto di che razza di vacanze abbiamo passato fino a quando siamo tutti seduti in fila a guardare i filmini. Nei filmini nascondiamo la testa sotto le ascelle, balliamo la giga, ci comportiamo come Toro Scatenato sul ring, tiriamo giù rami di alberi e li indichiamo col dito come se avessimo scoperto la cura per l’artrite. C’è una stupenda sequenza di mio marito ritto sulla testa intento a togliersi un amo da una chiappa e a vomitare oscenità dentro la macchina da presa. Tutti gli altri si tengono la pancia dal ridere. Ce n’è un’altra di me con gli sci d’acqua nuovi ai piedi, che sparisco sotto un’isoletta di ninfee e non torno più a galla. E poi c’è l’eccitante sequenza di uno dei bambini che vomita su una barchetta da pesca al largo della Florida e noi che gli stiamo addosso offrendogli panini di salame e maionese. Quando la guardiamo ci scompisciamo veramente dal ridere. Se andremo in vacanza quest’anno? Potete scommetterci. Crediamo fermamente che almeno una volta all’anno la famiglia debba concedersi una pausa dalla vita quotidiana per apprezzare finalmente il buon cibo, la casa comoda, i negozi
vicini e il paesaggio mozzafiato... al ritorno, dopo due settimane di cupa convivenza. Devo ricordarmi di iscrivere i ragazzi al campeggio estivo della scuola prima che scadano i termini. Ricordo ancora com’e andata l’anno scorso: Mr. Eugenio Esasperati, direttore del campeggio per ragazzi «Scoramento» Città Caro Mr. Esasperati, la posta del pomeriggio mi ha portato l’opuscolo del vostro campeggio estivo per ragazzi «Scoramento». Non so se si ricorderà di me. L’estate scorsa ho mandato mio figlio al suo campeggio per un paio di settimane. (É un bambino biondo, coi calzini così sporchi che stanno in piedi da soli.) La sua assenza da casa è stata per noi così riposante e rilassante che Mr. Bombeck avrebbe voluto che le scrivessi prima di Natale, per esser sicura di trovar posto. (Voleva anche che le ricordassi che lui ha combattuto anche per la sua di libertà, durante la seconda guerra mondiale, ma a me non piace far pressione sulle persone e farle sentire in obbligo.) Da principio abbiamo preso in considerazione il suo campeggio per via del nome facile da ricordare. L’estate prima avevamo mandato il ragazzo a un campeggio con un nome tanto difficile che per tutto il tempo continuammo a ricevere lettere dal capo di una riserva di Piedi Neri nel Nord Dakota che ci ringraziava profusamente per i biscotti e i calzini puliti. Spero che il suo assistente, Mr. Bley, si sia rimesso, e possa tornare a lavorare al campeggio quest’estate. La notizia della sua malattia mi ha molto sorpresa, dato che mi era sembrato un giovane tanto robusto il giorno in cui avevo accompagnato mio figlio al campeggio. Vincere la bandiera
per aver tenuto pulita la latrina sembrava significare molto per lui. Peccato che sia stato costretto a rinunciarci dopo solo una settimana. Dovrà abituarsi ad avere a che fare con ragazzi vivaci, non è vero? Mi sono proposta di farla partecipe dei divertentissimi racconti di mio figlio sulle attività del campeggio. Ci scrisse che quando qualcuno continuava a parlare dopo il coprifuoco, gli altri ragazzi avevano il permesso di dargli un cazzotto. Se non la smetteva nonostante la punizione, il sorvegliante poteva dargli un secondo cazzotto. Mi chiedo che cosa sarebbe il mondo senza la fantasia dei bambini. Tra parentesi, probabilmente si è trattato di una svista, ma il ragazzo non ha mai ricevuto il trofeo conquistato lanciando a undici metri di altezza una frittella surgelata. Mi era sembrato di capire che fosse una specie di record, per il campeggio. (Anche se in realtà la sua intenzione era quella di tirarla in testa a uno dei ragazzi più grandi durante la preghiera serale, quella frittella.) A noi non piace vantare l’intelligenza e l’abilità dei membri della famiglia, ma devo confessare che abbiamo lasciato uno spazio per quel trofeo nell’armadietto in corridoio, vicino al suo certificato di nascita e a un attestato rilasciato dal medico della scuola che lo dichiara in possesso di dieci decimi di vista... finora non ha compiuto altre imprese degne di menzione. É mai riuscito a risolvere il mistero dei costumi da bagno scomparsi? Mio figlio era sconvolto, all’idea di bagnarsi nudo. È un ragazzo così sensibile! La prego di confermarmi al più presto l’accettazione del mio tesoro al campeggio dell’estate prossima. Sinceramente...
Cara Mrs. Bombeck, Ci ricordiamo perfettamente di suo figlio. Lo stato di salute di Mr. Bley è in continuo miglioramento, ormai gli permettono di ricevere visite la domenica, in numero limitato, s’intende. Accludiamo alla presente il trofeo vinto da suo figlio e ci dispiace di non aver provveduto con maggior sollecitudine. Il mistero dei costumi da bagno scomparsi è stato risolto alla partenza di suo figlio, con una semplice perquisizione del suo armadietto. Le iscrizioni al campeggio dell’estate prossima sono state chiuse poco prima di Natale. Sinceramente, Eugenio Esasperati, direttore
Rimbrotti e lamentele Come ha detto l’altro giorno ai giornalisti quella donna arrestata per aver ucciso il marito con un colpo di pistola durante il ricevimento nuziale: «Nessun matrimonio è perfetto». Dopo aver letto l’articolo e aver cercato di capire come mai si fosse portata una pistola al ricevimento di nozze, ho cominciato a chiedermi invece perché avesse deciso di ucciderlo così presto. Di certo non avevano ancora avuto la possibilità di affrontare i grossi problemi della convivenza, quelli contro cui gli psicologi continuano a metterci in guardia: la capacità di comunicazione, il rispetto per il coniuge, la sincerità, la sollecitudine, i suoceri, i soldi, i bambini. In realtà il vero problema del matrimonio sono quelle piccole, insignificanti differenze che vi spingono a chiudervi in bagno, a dormire sul divano del soggiorno, a passare una settimana da vostra madre, a portare i ragazzi al mare, a rifugiarvi nel bar più vicino, a buttarvi tra le braccia del lattaio o della piazzista di detersivi. Uno dei pochi modi di esprimere la vostra irritazione per queste piccole differenze è quello di mettervi a brontolare, tormentando il coniuge per le ragioni più assurde. Ho sempre detto che metà delle liti di questo paese sono causate da sciocchezze come una zanzara in camera. É la pura verità. I guai cominciano quando diventa evidente che tra i coniugi esiste questa semplice differenza: uno dei due dorme tranquillo con la stanza piena di zanzare, l’altro non riesce assolutamente a convivere con una sola zanzara nella stanza. Di solito questa scoperta non viene effettuata se non durante la prima estate di matrimonio. Quando arriva il momento della resa dei conti, però, la rissa che si scatena fa sembrare la seconda guerra mondiale uno scontro con pistole ad acqua.
Di solito, ma non sempre, è la donna a non sopportare quel ronzio acuto e insistente nelle orecchie. Immediatamente butta via le coperte, illumina la stanza a giorno, si alza in piedi sul letto e annuncia: «Mark, non possiamo dormire con una zanzara nella stanza. Mark! Mark! Non possiamo dormire con una zanzara nella stanza». Di solito Mark si riscuote da un sonno profondo e borbotta: «Tieni duro, Tim, vado a cercare aiuto. Non possiamo lasciarcelo scappare, peserà quindici chili!» «Svegliati», gli viene ordinato. «Non sei a pesca. Stiamo dando la caccia a una zanzara. Su, prendi questo giornale e vedi di non mancarla!» «Senti», dice lui tra il supplichevole e l’assonnato, «perché non la lasci perdere e torni a dormire? Che cosa vuoi che ti faccia una zanzara?» «Fa un sacco di rumore e porta la malaria», dichiara lei recisamente. Lui grugnisce: «Se prendo la malaria posso stare a casa dal lavoro e continuare a prendere lo stipendio. Non sanno cosa farsene di impiegati febbricitanti». «Aspetta un attimo», dice lei tutta eccitata, «credo che sia finita in bagno. Svelto, chiudi la porta.» «Adesso posso tornare a dormire?» chiede lui. «No, credo che ce ne sia un’altra. Questa stupida carta da parati. Impossibile distinguere qualcosa, su quello sfondo, specialmente di notte. La odio! Eppure... l’ho vista contro il cuscino un attimo fa. Eccola... svelto! L’hai mancata! Per uno che gioca a baseball, a golf, e becca le teste dei bambini al volo tutte le volte che ce n’e bisogno, hai una mira schifosa!» «É la tua zanzara, Grande Cacciatrice Bianca! Ammazzala tu!» dice lui. «E come ha fatto a entrare, eh?» ritorce lei. «Te lo dico io
come ha fatto. É passata attraverso quelle zanzariere che hai fatto tu.» «Be’, allora vuol dire che è stata a dieta per parecchio tempo», urla lui di rimando. «E un’altra cosa», grida lei. «Tua madre non aveva il diritto di venire al nostro matrimonio vestita di nero.» «Ecco, sempre questa storia», dice lui. «Non ha niente a che vedere con le zanzare.» «Ti piacerebbe dormire tutto solo in questa giungla infestata da malattie?» «Dormirei nello stomaco di un coccodrillo, pur di sfuggire a questa illuminazione da luna-park!» tuona lui. «OK, Mark», conclude lei, furiosa. «Te lo sei voluto. Vado a dormire in soggiorno. Se vuoi passare la notte a dar la caccia alle zanzare, affar tuo!» Subito dopo il problema delle zanzare, viene quello della coperta termoelettrica. Quando le coperte termoelettriche vennero immesse sul mercato, l’ideatore, di certo una mente poco brillante, ci attaccò un solo pulsante di controllo e lasciò il resto a Dio. Vi sfido a infilare qualunque coppia felicemente sposata sotto una termocoperta con un solo pulsante di controllo e a trovarli intenti a scambiarsi il buongiorno nella fredda luce del mattino. Sinceramente, non vedevo un tal pomo della discordia dai tempi del giudizio di Paride. Proprio la settimana scorsa una coppia di amici carissimi, Wanda e Lester Felicetti, si sono separati dopo l’acquisto di una di quelle coperte. Una sera Wanda si stava preparando per andare a letto, quando Lester le disse bruscamente: «Hai intenzione di metterti quella camicia da notte scollata e senza maniche?» «Be’, non è mia abitudine andare a letto con la giacca a
vento», rispose lei con un sorriso tirato. (Wanda è una ragazza spiritosa.) «Se hai intenzione di mettere quella coperta al massimo anche stanotte, sarà meglio che te lo tolga dalla testa», disse lui deciso. «Ieri ho sognato di esser stato preso dai tedeschi. Mi hanno torturato per tutta la notte.» Lei sorrise. «Sempre esagerato. La coperta non era al massimo. La sera prima l’avevi regolata tu e io non ho chiuso occhio per il freddo. La sai una cosa, Lester, se avessi sospettato che ti piaceva dormire a temperature polari, non ti avrei mai sposato. C’è qualcosa che non va in un uomo che crede di essere un pinguino.»
Questi sono pettegolezzi, beninteso, ma mi hanno raccontato che i due continuarono a litigare tutta la notte. Lester disse: «Mi sento come il pranzo di un Mau Mau, con questa coperta... letteralmente!» E Wanda rispose: «Sempre
meglio che sentirsi come un quarto di manzo nella cella frigorifera!» Lester replicò con un «Qualcuno vuole una fetta di pane tostato?» E Wanda sparò: «Benvenuti sull’Everest!» Dopo una notte insonne, i due decisero che il loro matrimonio non poteva funzionare e fissarono un appuntamento coi rispettivi avvocati. Proprietà, liquidi e bambini vennero divisi con freddezza ed efficienza. Senza problemi. Poi Lester chiese: «Chi si tiene la coperta termoelettrica?» «A che cosa potrebbe servirti?» urlò Wanda. «Otterresti lo stesso risultato dormendo coi piedi fuori della finestra.» «E tu? Basterebbe che ti bagnassi due dita e le infilassi in una presa, per avere la temperatura a cui sei abituata!» infierì lui. A questo punto si mise di mezzo l’avvocato e suggerì loro di comprarsi una coperta termoelettrica con due pulsanti di controllo. Disse che la coperta con un pulsante solo se la sarebbero presa lui e sua moglie. La loro causa di divorzio verrà discussa la settimana prossima, almeno così ho sentito dire al club. Sinceramente, due cose sono state lì li per far naufragare il nostro matrimonio, il congelatore e il conto corrente in banca. Ora, so già che cosa state per dire. State per arrivare alla conclusione che io ho comperato un congelatore costosissimo senza dir niente a mio marito e che non faccio altro che staccare assegni di conto corrente per spese che non possiamo permetterci. Non è così. Anche queste sono solo cosucce sulle quali inevitabilmente si impiantano discussioni tormentose. Per esempio, sono tre anni che discutiamo di quel congelatore. É pagato dall’agosto dell’anno scorso. Comunque, io volevo quel congelatore a ogni costo, non potevo nemmeno contemplare l’idea di vivere un altro
«raccolto» senza di esso. Volevo conservare un po’ di granturco dolce, i fagiolini, il melone, le pesche e le fragole. E così mio marito acconsentì all’acquisto. Durante la prima settimana pulii e spezzai quindici chili di fagiolini. Li scottai, li feci raffreddare, li infilai nei sacchetti di plastica, poi dentro le scatole su cui segnai la data: 5 giugno. Alla fine di giugno, avevamo consumato quindici chili di fagiolini. La stessa cosa accadde con le carote e il granturco. Non importa quali quantità di verdure io riuscissi a infilare in quel congelatore: venivano immancabilmente consumate nello spazio di una settimana. In autunno comperai una cassetta di mele. Le pelai, levai il torsolo, le scottai, le feci raffreddare, le infilai nei sacchetti di plastica, poi nelle scatole, misi le etichette. Venne fuori un chilo di roba. Qualcuno calcolò che quelle mele mi fossero costate venti dollari al chilo, compresa la mano d’opera (calcolata sul minimo sindacale delle mondine). Un giorno mio marito decise di dare un’occhiata al congelatore. Trattenni il fiato. «Vediamo un po’, che cosa c’è in questo cassetto?» chiese scherzosamente. «Palle di neve», dissi piano. «I bambini le hanno fatte quest’inverno e così adesso che è estate abbiamo una bella scorta di palle di neve fresche su cui non ci sarebbe assolutamente possibile contare se avessimo solo quel vecchio scompartimento nel frigorifero.» «E quei sacchetti marrone, che cosa contengono? Bistecche? Filetti? Braciole?» «Tiepido, tiepido», dissi io, sbattendo lo sportello. «Tiepido quanto?» chiese lui, riaprendolo. «Interiora di pollo», dissi io. «Interiora di pollo!» «Esatto», spiegai. «Tu dici sempre che non devo buttarle
nella pattumiera fino al giorno della raccolta dell’immondizia, e io ho pensato di tenerle in fresco, nel frattempo. Poi mi sono dimenticata di tirarle fuori.» «E questa? É proprio quello che sembra?» chiese lui stancamente. «Sì, una pila da transistor. Qualcuno mi ha detto che se si mettono nel congelatore si ricaricano da se.» «Allora in definitiva io ho rinunciato alle sigarette per questo», gemette lui. «È per questo che mi sono dipinto i talloni di nero di modo che nessuno si accorgesse che avevo i calzini coi buchi. É per questo che non ho rinnovato l’abbonamento a Selezione... ecco dove sono finiti i miei sudati risparmi! In un mucchio di palle di neve congelate, pile da transistor e interiora di pollo!» «Non ti sembra di esagerare un po’?» «Tu devi essere pazza», mi accusò lui. «È una fortuna che non ti sia cercata un marito col computer! Ti avrebbero assegnato il fratello di King Kong!» Vorrei poter dire di aver riempito il congelatore di costolette di qualche bestia non meglio identificata e di aver nutrito felicemente la famiglia per alcuni mesi risparmiando abbastanza da comprarmi un visone, ma non posso, non posso proprio. Pensai che se non avessimo litigato per quelle interiora di pollo, avremmo litigato per qualcosa di molto più serio. Per quanto riguarda il conto corrente, si tratta semplicemente di una questione di «ordine». Durante il primo anno di matrimonio, aprimmo un conto corrente con doppia firma. Il mio primo libretto sembrava opera dell’amanuense di un convento benedettino. Cifre chiare, precise, in inchiostro nero, leggibili a chilometri di distanza. Col passare dei mesi cominciai a scarabocchiare, abbreviare e riempire i margini di note. Poi a rimettere a posto
date e cifre di depositi con un uso frenetico di frecce e freccine. Alla fine, un giorno mio marito si decise a dire: «Domani ti apro un bel conto tutto tuo in un’altra banca. Ti piace l’idea? Avrai un bel libretto di assegni che cominciano dal n. 1 e un sacco di matrici pulite da riempire». Con la nuova banca fu la stessa storia, solo che lì gli impiegati non avevano il minimo senso dell’umorismo e non si divertivano coi bigliettini che attaccavo agli assegni. («Tesoro, tenga questo assegno in fresco fino a lunedì, la prego. I soldi nuovi sono ancora umidi.») Ricorremmo a un’altra banca che mi rilasciò un altro libretto di assegni. Col tempo cominciai ad andare in giro in cerca di banche come uno sfrattato in cerca di una casa nuova. Posso dirvi senza pensarci sopra un attimo quali banche hanno le biro che non scrivono, quali gli sportelli difettosi, quali i vasetti di primule sulle scrivanie. In una filiale particolarmente scorbutica ricevetti un avviso intimidatorio a mettere sugli assegni la stessa firma che avevo depositato. «Com’è la firma che hai depositato?» indagò mio marito. «Henry Ford», dissi io. Stramazzò su una sedia, proprio quello che si meritava per aver dubitato di me. Un’altra volta si infiammarono perché sbagliai il numero del conto corrente su una distinta di versamento. Cominciò una specie di terzo grado. «Ma si può sapere che numero ha usato, invece del suo?» Cercai di ricordare. «Forse quello del codice fiscale... oppure quello del club... oppure quello del passaporto... o forse era il telefono di mia madre?» Le cose cominciarono ad andar meglio quando mio marito si decise a imparare a decifrare le mie abbreviazioni. Per esempio, TIR significava Totale In Rosso, stava cioè a indicare la cifra che dovevo alla banca dopo aver distrattamente emesso
quell’assegno a vuoto, due mesi prima. DMB significava Differenza fra Me e la Banca, stava cioè a indicare la differenza tra la cifra del saldo che risultava dai miei calcoli e quella che risultava dai calcoli della banca. Si sbagliavano spesso. SCS significava Spesa Che Scotta, e stava a indicare l’emissione di un assegno consistente per un acquisto che mio marito avrebbe senza dubbio considerato scriteriato. Altre abbreviazioni erano in effetti di difficile comprensione. «Che cos’hai scritto qui? Pannolini... dollari 71. Ma se non abbiamo un figlio da otto anni!» grugnì. «Oh, che sbadata!» dissi. «Ho dimenticato di precisare che si trattava di pannolini per la bambola della piccola.» «71 dollari di pannolini per la bambola?» «No, no... erano 17 dollari! Ma ho fatto un errore e ho riempito un assegno per 71. Pero ho detratto solo 17 dollari, dal saldo, perché ho pensato che la commessa del negozio avrebbe capito che si trattava di un errore. Nessuno compera tanti pannolini per una bambola!» Andai in rosso e fummo costretti a cambiare banca. Ho visto più banche di Jesse James, dal giorno del mio matrimonio. D’altra parte, se mio marito voleva per moglie un genio della finanza, avrebbe dovuto darsi da fare a cercarselo, e non impalmare la prima sottana che gli era capitata a tiro. Suppongo che dovrei deplorare l’abitudine della coppia media alla lamentela e al borbottio, ma non ho nessuna intenzione di farlo. Qualche tempo fa l’Istituto delle relazioni familiari ha osservato che le mogli farebbero bene ad astenersi dalla lamentela in tre particolari momenti della giornata: a colazione, prima di cena e al momento di coricarsi. Ma come! Quali altri momenti restano a una povera moglie per far valere le sue ragioni? Una lite spontanea può
essere piuttosto stimolante dopo una giornata passata a giocare a Monopoli con i bambini. Ravviva la circolazione del sangue, libera le orecchie otturate, aumenta la prontezza di riflessi e fornisce l’occasione di usare parole quali: insidioso, sovversivo, ostentato, carcerazione, ambiguo, fazioso, incombente, e altre delle quali nemmeno voi conoscete il significato ma che si possono pronunciare impunemente in presenza dei bambini. E poi, è eccitante. Dopo qualche anno di matrimonio le lamentele diventano sempre le stesse. La routine acquista lo stesso carattere di ripetitività delle gag dei telefilm del pomeriggio. Ce n’è una che piace a mio marito e che si intitola: «Dov’è finito il sale?» Ovvero, come la chiamano i bambini: «La grande tragedia americana». Potrei servire globi oculari in tazza, indossando il topless, e lui non mancherebbe di gridare: «Si può sapere cosa deve fare un poveraccio per avere la saliera in tavola?» Anch’io ho le mie gag preferite, che recito di tanto in tanto. C’è «Questa casa è una colonia penale», «Non sapevo che fossi allergico all’erba quando ti ho sposato», e «Com’è che gli altri uomini sembrano sempre usciti da una pagina di Vogue e tu giri come un manovale delle ferrovie durante la Grande Depressione?» Qualche lamentela e alcuni borbottii fanno bene al matrimonio. Io la vedo così: o si va avanti a lamentele per cinquanta o sessant’anni, oppure si va al ricevimento di nozze armate di pistola.
10 luglio – 5 settembre A che cosa servono le mamme se non a soffrire?
Di tutte le emozioni che prova una madre nel corso della sua carriera, nessuna la fa sentire così stupendamente ignobile quanto quella denominata «A che cosa servono le mamme se non a soffrire?» Naturalmente, non succede tutto nello spazio di una giornata. É uno stato d’animo a cui si arriva lentamente, attraverso tutta una serie di perfide battute su se stessa. Per esempio, a un certo punto le vien da osservare: «Potrei essere Giovanna d’Arco sul rogo, con lingue di fiamme intorno alle caviglie, e Johnny penserebbe solo ad arrostirci le salsicce». Oppure: «Se fossimo sul Titanic e restasse un solo posto sulla scialuppa di salvataggio, Jean si metterebbe a correre come una lepre per battermi sulla lunghezza». Alla fine, al colmo dello scoramento, la madre riassumerà la propria condizione con una frase: «Potrei giacere moribonda sul marciapiede, e Eddie non smetterebbe per un attimo di giocare a palla». L’immagine di se stessa madre devota e incompresa assume dimensioni sempre più drammatiche, fino a provocare un processo di identificazione della poveretta con la vecchina che pulisce pavimenti di notte per mandare il figlio all’università, o con la disgraziata senza denti che vende violette a piedi nudi nella neve. In apparenza le donne si vergognano di questo stato d’animo. Sono restie ad ammettere che un bambino nato da un atto d’amore, allevato nel rispetto dell’innocenza e curato con tanta dolcezza possa ridurle a un tal punto di frustrazione da risvegliare fantasie da melodramma. Accusano la società, il sistema scolastico, il governo, la propria madre, il ginecologo, il marito ed Ethel Kennedy, colpevoli di non essersi spiegati bene sulle conseguenze della maternità. Nessuno le ha preparate al compito che le attendeva e sono certe di sbagliare tutto.
In genere si sono limitate a mescolare un po’ di «come diceva sempre mamma» a una generosa porzione di «come diceva sempre papa», e a rivolgere una fervente preghiera al Signore lassù perché i bambini non rubassero i copertoni del vicino, approfittando dell’incertezza dei genitori sulla prossima mossa da compiere per far di loro dei cittadini ben educati. Mi si rinfacciano sempre le mie deficienze di madre, sulla base del fatto che ho frequentato un corso di psicologia infantile tenuto da un professore la cui unica esperienza in fatto di allevamento era stata quella di tenere un cucciolo di cocker. Ovviamente gli sfuggiva la differenza. All’età di due anni i miei bambini avevano imparato la tecnica del riporto, e io li ricompensavo sempre con un biscotto. A quattro anni avevano imparato a sedersi sulle zampe posteriori, ad ansimare con la lingua di fuori e a far la guardia ai piccoli. Bastava un’inflessione della mia voce. A cinque anni abbaiavano al lattaio. Fu allora che mi accorsi della differenza tra gli scopi che loro si proponevano e quelli che mi proponevo io. Mi decisi quindi a riporre il mio manuale di psicologia infantile e a sostituirlo con una copia tutta cincischiata di Delitto e castigo. Adesso sono l’unica madre del quartiere che viene minacciata di ricorso all’autorità costituita tutte le volte che si china per baciare uno dei propri figli: «Se osi alzare un dito su di me, chiamo il mio avvocato». Ecco cosa dicono. Poi una mia amica mi ha parlato di un sistema che funziona egregiamente coi suoi figli. Si chiama «Aspettate che torni vostro padre». Per un po’ ha funzionato anche con i miei. Se non altro mi ha aiutato a superare un serio attacco di ulcera gastrica. Ma un giorno ho sentito i miei figli discutere sull’opportunità di «rinunciare a papà per tutta la Quaresima» o «prestarlo a qualche bambino bisognoso» come fioretto, e ho sentito una stretta al cuore.
Ne abbiamo parlato, loro padre e io, e alla fine siamo giunti alla conclusione che allevare i bambini era un lavoro di equipe. Dovevamo dividerci le responsabilità. Abbiamo compilato una lista di errori che girerebbe due volte intorno al busto di Anita Ekberg, non ultimi quelli riguardanti l’educazione sessuale. L’educazione sessuale di un bambino è un problema delicato. Nessuno di noi vuole fare sbagli in questo campo. Ho sempre avuto il terrore di finire come quella donna della barzelletta, che alla domanda «da dove vengo io, mamma?» rispose con una lunga disquisizione sul meccanismo del concepimento e della nascita, in termini strettamente scientifici, solo per sentirsi dire, con un’occhiata perplessa: «Ah! Me lo chiedevo proprio, visto che Mike viene dal Connecticut». Io e mio marito discutemmo a lungo e giungemmo alla conclusione che la cosa migliore da fare era spiegare i misteri e le meraviglie del ciclo riproduttivo mediante esempi tratti dall’affascinante mondo degli animali. Comperammo una coppia di pesci rossi e un minuscolo acquario. Avremmo dovuto comperare due coppie di pesci rossi e una cisterna. Dopo un po’, la conversazione alla tavola della colazione assunse più o meno questo tono. «Che cosa succede di nuovo nella nostra Peyton Place subacquea?» chiedeva mio marito. «La signora Rossetti è di nuovo in stato interessante», dicevo io. «Metti un po’ di sale nell’acqua. Pare che serva da medicina a tutte le loro malattie», borbottava lui. «Papà», diceva nostro figlio, «in stato interessante significa incinta!» «Ci risiamo!» sbottava mio marito mandando di traverso un boccone. «Non è possibile organizzare qualche passatempo
per quei pesci? Una bella squadra di palla a volo o qualcosa del genere?» Dopo il primo acquario, fummo costretti a comprarne un secondo, e pareva proprio che non dovesse finire lì. «Stai imparando qualcosa dalla tua esperienza coi pesci rossi?» chiesi sollecitamente a mio figlio un pomeriggio. «Oh si», disse lui. «Sono proprio bestiole carine!» «Voglio dire, hai osservato il comportamento del maschio e della femmina? Hai capito mediante quale processo si riproducono? Il ruolo della madre nel processo di riproduzione?» «Oh, certo», disse lui. «Senti, non è stato un po’ difficile per te decidere quale dei tuoi bambini mangiare appena nato?» Comperammo un terzo acquario e lo riempimmo prontamente di acqua salata. Occupanti: una coppia di cavallucci marini. «Ora, desidero che prestiate particolare attenzione al comportamento della femmina», spiegai. «Direi che non le ci vorrà molto a restare in stato interessante, e con un po’ di fortuna potrete assistere al meccanismo del parto.» «La femmina non c’entra, mamma», disse mio figlio pelando una banana. (Repressi un sorriso. Per fortuna avevamo deciso per tempo di occuparci della loro educazione sessuale!) «Ridicolo», dissi. «Le femmine c’entrano sempre.» Il maschio cominciò a metter su peso. Mi sembro che avesse anche le caviglie gonfie. Il ventitré del mese diventò mamma. «Interessante», osservò mio figlio. «Spero proprio di partorire sulla terraferma, quando verrà il mio momento. Non riuscirei mai a trattenere il fiato sott’acqua abbastanza a lungo.» Fregati. Sapevo che avremmo sbagliato tutto. Se volete proprio sapere la verità, non ci andata molto
bene nemmeno col problema della rivalità tra fratelli. Corre voce che il novanta per cento dei genitori ricoverati in manicomio debba la loro attuale condizione alla rivalità tra i loro figli: sono stata io a mettere in giro la voce. Comincia con una serie di indizi insignificanti. Per esempio, la bambina di quattro anni infila una banana nella bocca del fratellino appena nato e gli sussurra minacciosa: «Chiudi il becco, piccolo mostro, altrimenti ti sbatto fuori di qui». Oppure il bambino di otto anni butta giù con un ceffone la sorellina di due dal cavallo a dondolo con l’avvertimento: «Sara meglio che la pianti di far cigolare quell’aggeggio, altrimenti ti succederà di peggio». Dopo un po’ si arriva al punto che i bambini si mettono a misurare la loro fetta di carne col regolo, per esser sicuri di ricevere un trattamento equo, come previsto dalla Convenzione di Ginevra. Al momento di decidere chi avrà l’unica ciliegia della macedonia, si fanno rappresentare da un avvocato. Il comportamento ostile tra fratelli, comunque, raggiunge di solito il culmine alla tavola della cena. FIGLIO: Eccola! Ricomincia. PADRE: Ricomincia a far cosa? FIGLIO: A canticchiare. FIGLIA: Non sto canticchiando. FIGLIO: Certo che stai canticchiando. Ecco, papa, guarda, sta canticchiando. Lo capisco dalle vene del collo. Lo fa in modo che nessuno tranne me possa accorgersene. Solo per farmi dispetto. PADRE: Io non sento niente. Mangia la bistecca. FIGLIO: Com’e che l’osso tocca sempre a lui? PADRE: Che differenza fa? L’osso non si mangia mica, no? SECONDO FIGLIO: E allora com’è che anche l’altra
volta l’osso l’avete dato a me? Non è giusto! La carne tocca sempre a lui. FIGLIA: L’ultima oliva è la mia. Tu hai avuto l’ultimo cubetto di ghiaccio e tu la bicicletta per il tuo compleanno, quindi l’ultima oliva tocca a me. PADRE: Che razza di logica! Sembra di essere a tavola con un branco di mafiosi. (Rivolgendosi alla madre.) Come fai a startene 1i seduta senza dire niente? Hai sentito che roba? MADRE: Ho preso due Valium. Questa sembrava la sola cosa da fare, fino a qualche tempo fa, ma poi alcuni amici ci confessarono di esser riusciti a eliminare la rivalità tra fratelli alla tavola della cena. Li ascoltammo parlare di pace, amore e tranquillità per tutta la durata del pasto. Che cosa aveva fatto il miracolo? Un nuovo gioco chiamato «Oggi tocca a me». Era molto semplice. A ciascun membro della famiglia veniva assegnata una serata tutta per se a tavola, durante la quale toccava a lui stabilire l’argomento della conversazione e condurla. In questo modo tutti avevano l’occasione di dir la loro, e prima o poi ciascun bambino poteva parlare della cosa che lo interessava di più. Fui costretta a riconoscere che «Oggi tocca a me» sembrava un gioco migliore di quello con cui ci eravamo dilettati fino a quel momento, chiamato «Processo di Norimberga». Anche il nostro era un gioco piuttosto semplice. Aspettavamo di esser tutti radunati intorno alla tavola, poi, subito dopo la preghiera, cominciavamo a mettere i bambini a confronto con tutti i crimini che avevano commesso da quando avevano cominciato a gattonare. Tiravamo fuori di tutto, maleducazione, parolacce, biciclette abbandonate davanti al garage, calzini sotto il letto, esplorazioni della pattumiera, sperpero di denaro nell’acquisto di denti da Dracula e
qualunque altra cosa ci venisse in mente. Di solito prima del dolce un paio di loro cominciavano a singhiozzare perdutamente nella purè abbandonata nel piatto e a supplicarci di mandarli all’orfanotrofio. Decidemmo quindi di provare con «Oggi tocca a me». «Stasera parlerò dell’amicizia», disse il più grande. «Non parlare con la bocca piena», intervenne suo padre. Lui inghiottì e continuo: «Il mio amico più caro, il migliore, il più vicino al mio cuore, il primo della lista, la mia Ferrari in fatto di compagni, è Charlie». «Charlie chi?» lo interruppe qualcuno. «Non so come si chiama di cognome», disse lui, scrollando le spalle. «Charlie e basta.» «Be’, ragazzo mio», sospirai. «Io direi che se hai davvero instaurato rapporti di amicizia alla Eurialo e Niso con qualcuno, faresti meglio a interessarti del suo cognome.» «Chi è Eurialo e Niso?» chiese una vocetta. «Ehi, zitta», disse il relatore, «il tuo turno viene domani. Comunque, oggi il mio migliore amico, Charlie, ha vomitato in classe...» «Mamma!» strillò una voce. «Devo proprio star qui seduto ad ascoltare storie di vomito mentre mangio?» «Parlaci di qualche altro amico, tesoro», disse mio marito in tono supplichevole.
«Be’, il secondo della lista, il secondo nel mio cuore, la mia Porsche del momento è Scott. Oggi Scott è corso dietro al bidello per chiedergli un secchio, dato che Charlie aveva vomitato e...» «Per favore!» grugnì l’intera tavolata. «Be’, è la mia serata», insiste il relatore, «e questi sono i miei amici. Se io devo adattarmi a star qui seduto a sentirvi parlare delle vostre stronzate, fareste meglio a rassegnarvi e ad ascoltare anche le mie.» «Vorrei che ci fosse qui Charlie a mangiare questa purè fredda al mio posto.» «Sì, va bene, quando toccherà a te parlare mi metterò a canticchiare.» «Va bene, bambini, basta così», li interruppe mio marito. «A proposito di pure, chi ha lasciato una bicicletta rossa proprio davanti al garage, stasera? E già che ci siamo, chi di
voi ha nascosto l’innaffiatoio?» (A me, sottovoce.) «Aspetta un attimo a servire il dolce, mamma, prima devo chiarire alcune cosette. Il telefono, per esempio. Sono stufo di andare nella cabina all’angolo tutte le volte che devo fare una telefonata urgente...» Francamente, non credo che il problema della rivalità tra fratelli troverà una soluzione in questo periodo storico. Specialmente dopo aver letto i risultati di un’inchiesta condotta tra campioni di fratelli e sorelle sulle cose che amavano o non amavano l’uno dell’altro. Ecco alcune delle ragioni del sentimento di disprezzo che generalmente nutrivano nei confronti del rivale. «É mio fratello.» «Mi saluta quando mi incontra per la strada con i miei amici.» «É una bambina.» «Gira sempre per casa quando ci sono anch’io.» «Si da un sacco di arie.» «É una bestia schifosa.» «Crede di sapere tutto.» Un solo fratello si espresse favorevolmente nei confronti della sorella. Scrisse: «A volte, quando fa il bagno, usa un buon deodorante». Permettete che vi chieda come si fa a organizzare un pasto serale decente con queste premesse. Un altro grave problema dei genitori e la definizione di status. Cambia da un anno all’altro, cominciando da «ho cinque anni e la mia mamma mi permette di star alzato a guardare il film di mezzanotte», e finendo con «io faccio la seconda media ma ho già il nome sulla guida del telefono». La faccenda e un po’ ridicola, lo ammetto, ma purtroppo è un altro dei tanti dispiaceri riservati in esclusiva alle madri. Un bel problema per una madre che ha deciso di non misurare la felicità dei propri figli col metro di un’altra madre. Proprio il mese scorso sono venuta a sapere che l’ultimo degli status symbol da tirar fuori al tavolo del bridge è l’entità delle cure dentarie prodigate al proprio o ai propri figli. Incredibile? Non proprio. Più otturazioni hanno subito i disgraziati, più
apparecchi sono costretti a portare, più fluoro sono obbligati a ingerire, più ragioni ha la madre di vantarsi del proprio stato sociale. Se il dentista vi dice che il piccolo ha bisogno di una dentiera, coraggio, vuol dire che siete «in». Ecco una conversazione che ho sentito per caso e che illustra il fenomeno in tutte le sue sfaccettature. «A proposito di denti», disse una biondina. «Vieni un po’ qui, Tim. Apri la bocca, Tim.» La lampada da tavolo illuminò la cavità orale di Tim, sprigionando scintille metalliche. «Ecco qua», disse la biondina con enfasi, «questa è la mia stola di visone. D’altra parte, se non li fanno le madri, i sacrifici… E credete che il piccolo me ne sia grato? Affatto.» «Questo non è niente», disse la sua amica. «Vieni qui, Liz. Fai vedere l’apparecchio alla signora.» Liz buttò indietro la testa con gesto automatico e spalancò la bocca. Sembrava l’interno di un negozio di ferramenta. «Ecco qua», disse la madre, «ecco dov’è finito il mio viaggio in Europa. Che ne dici?» «Credo che ci preoccupiamo troppo per il loro futuro dentario», disse la prima. «Dopotutto non possiamo mica fare come quelle madri della TV sempre a brontolare: ‘Non mangiare le caramelle, pulisciti i denti dopo mangiato...’» «Aspetta di vedere che cosa metterò in bocca a Tim il mese prossimo», disse la biondina in tono confidenziale. «Resterai a bocca aperta. É un aggeggio nuovo, costosissimo, credo che ce ne siano solo una dozzina in circolazione in tutto il paese. Io e Tim saremo tra i primi ad averlo.» «Che cos’è?» chiese l’altra, trattenendo il fiato. «Prometti di non dirlo a nessuno?» (Sottovoce.) «Si tratta del dente parlante.» «Il dente parlante?» «Proprio così. Infilano sei trasmettitori in miniatura,
ventotto componenti elettrici di altro tipo e due batterie ricaricabili in quello che sembra un normalissimo ‘ponte’ di un primo molare. Poi, mentre il bambino mastica, il dente parlante trasmette tutta una serie di informazioni al dentista su quello che ha mangiato e sulle cause della degenerazione della sua dentatura.» «Una spia nel dente! Fantastico. Credo che ne prenderò subito uno per Liz. Potrebbe attaccarci la radiolina a transistor ed eliminare quel brutto filo che le spunta dall’orecchio. La musica le uscirebbe dai denti. Pensa alla faccia che faranno i suoi compagni di scuola!» «Be’, io ho pensato di far mettere un’antenna a quello di Tim. così magari riuscirà a ricevere quella nuova rete via satellite e ad avere notizie fresche dall’estero.» «Ecco dove andranno a finire le nuove fodere per le poltrone del salotto per cui stavi risparmiando... ma d’altra parte, a che cosa servono le madri se non a sacrificarsi?» La sofferenza materna... privilegio o costrizione? Chissà. Io so soltanto che quando lo spettacolo del vostro dolore non riesce più a evocare empatia nei vostri figli, è arrivato il momento di prender fermamente posizione, buttare indietro la testa, assumere un’espressione decisa e, come consigliava sempre il mio vecchio professore di psicologia infantile, dare un bello strappo al guinzaglio!
Può darsi che io sia un’ingenua... Ragazzi, può anche darsi che io sia un’ingenua, ma allora cosa dire di quelle donne che arrivano barcollando al pronto soccorso, sicure di aver mangiato il contenuto deteriorato di una scatoletta, e partoriscono due gemelli un paio d’ore dopo? Confrontate col loro avvelenamento da cibo avvolto in una doppia coperta rosa, lo guardano sconvolte e commentano: «Ma se non sapevo nemmeno di essere incinta!» Io sono un tipo sospettoso. E credo che anche loro debbano averlo avuto, qualche sospetto, a un certo punto, accorgendosi di non vedere più la punta dei piedi, di non riuscire più a infilarsi dietro il volante della macchina, di non poter indossare altro che tende con uno spago intorno al collo. Vero, certe donne ingrossano meno di altre, durante la gravidanza, ma le sole donne che conosco a cui viene la pancia concava sono le modelle e le attrici della televisione. Non ho mai potuto guardarne una senza odiarla! Io lo so come fanno, gli operatori della moda. Inchiodano queste modelle incinte di due settimane in un modello di Parigi e cercano di convincere la casalinga media che anche le modelle diventano madri senza per questo assomigliare a sacchi di patate. In televisione è ancora peggio. Prendete le serie di telefilm, per esempio. È raro che una di quelle attrici cambi guardaroba. Oh, può darsi che accusi mal di schiena, stanchezza, nausea e caviglie gonfie, ma non demorde, continua imperterrita a indossare deliziosi chemisier e gonne affusolate. Mi sono anche accorta che di solito le gravidanze dei telefilm si risolvono in otto o nove settimane, un bel progresso rispetto ai soliti nove mesi. Alla fine, durante la nona settimana (con la pancia
rigonfia di cotone idrofilo) la ragazza accusa un inizio di doglie. È appena uscita dall’istituto di bellezza ed è pronta per il parto. Il bambino non si vede mai. La ragazza a) lo perde, b) lo da in adozione, c) non vuole vederlo mai più. Per non creare problemi con la legge, severissima in fatto di minori sul set.
É logico aspettarsi un atteggiamento del gene-re da un mezzo di comunicazione di massa specializzato in situazioni irreali, ma nella vita vera le cose andrebbero più o meno come nei film dell’Uomo Ombra, con William Powell e Myrna Loy. MYRNA: William, avrei dovuto dirtelo prima, ma il fatto è che avremo un bambino. WILLIAM: (Scottandosi le dita col fiammifero acceso.) Un bambino? E quando?
MYRNA: Domani. WILLIAM: Ma perché non me l’hai detto prima, tesoro? MYRNA: Avevo paura che ti arrabbiassi. Sei sorpreso? WILLIAM: Non riesco a crederci. Ecco perché c’è quella culla coi volant in camera da letto... ecco perché da un po’ di tempo a questa parte cucino sempre io... ecco perché hai preparato la valigia... adesso comincio a capire. Ma come facevo ad accorgermene prima? Ti trovavo sempre lì, seduta su quella sedia, un giorno dopo l’altro... MYRNA: Non riesco più ad alzarmi, da questa sedia. WILLIAM: Hai bisogno di qualcosa? Un bicchier d’acqua? Un ginecologo? MYRNA: Solo di una mano per alzarmi da questa sedia. (Si alza in piedi, con venti chili abbondanti distribuiti sulla deliziosa figurina di nove mesi prima, le spalle buttate indietro, le gambe divaricate.) Davvero non hai avuto nemmeno un sospetto, tesoro? Su, ora puoi anche dirmelo. WILLIAM: Storie. Sei sempre la ragazza che ho sposato. Di recente mi sono molto interessata alla storia di una casalinga di Londra che ha rivolto critiche esplicite a una famosa casa automobilistica inglese per via della posizione del volante, troppo basso per le madri in attesa costrette a guidare la macchina. L’ufficio stampa della casa automobilistica ha replicato seccamente: «Perché mai le donne incinte dovrebbero ostinarsi a guidare l’automobile?» Proprio la risposta che ci si aspetterebbe da un ingegnere scapolo ancora convinto di esser stato portato dalla cicogna. In realtà, le donne incinte non dovrebbero ostinarsi a guidare l’automobile. Potrebbero usare la motocicletta, cavalcandola di fianco, oppure lo skateboard, o potrebbero aprire l’ombrello e dire tre volte Mary Poppins. Resta il fatto che le automobili costituiscono una parte essenziale della vita
di una donna, e rinunciarci per sei mesi di fila equivarrebbe a tornare a dondolarsi sulla veranda per tutta la gravidanza. So di che cosa sto parlando. Prima che le automobili americane venissero dotate di volante mobile, ebbi un’esperienza traumatica, della quale sono riuscita a parlare soltanto a trenta o quarantamila dei miei amici più intimi. Stavo entrando nell’undicesimo mese di gravidanza (io e il dottore avevamo idee diverse su questo punto) e dovevo andare al supermercato a comprare una confezione di gelato da due chili e un filone di pane. Avevo spinto indietro il sedile fino in fondo, il che creava un piccolo problema. Non riuscivo più a raggiungere il pedale dell’acceleratore o del freno, e così ero costretta a guidare accovacciata. Ma in quella posizione non riuscivo a vedere attraverso il parabrezza, e quindi ero costretta a mettere la testa fuori del finestrino. Tutte le volte che lo facevo, andavo a sbattere contro qualcosa. Non importa. Arrivai al supermercato, parcheggiai la macchina col muso in avanti e ne uscii senza incidenti. Al ritorno, vidi due macchine parcheggiate di fianco alla mia. Aprii uno spiraglio nella portiera e mi apprestai a entrare, pancia avanti. Restai incastrata tra il bracciolo della portiera e il volante. Non potevo più andare né avanti né indietro. Ora, provate a ridere. Avevo la pancia incastrata e il gelato si stava sciogliendo. Cominciarono a formarsi capannelli di curiosi. Diedi uno strattone all’indietro e mi liberai. Con aria indifferente, aprii uno degli sportelli posteriori della macchina e mi infilai dentro, come se stessi aspettando l’autista. Ora il problema si riduceva nel tentare di passare dal sedile posteriore a quello anteriore. Piegata in due, con la faccia contro il finestrino di dietro, tentai di rotolare sopra lo schienale del sedile anteriore. Feci un buco nel sacchetto del pane col portacenere.
Umiliata, mi lasciai ricadere sul sedile per esaminare con calma la situazione. Come si fa ad andare dal direttore di un supermercato a chiedergli di annunciare all’altoparlante che la giardinetta nera targata... dev’essere immediatamente spostata perché blocca una pancia? Leccai via il gelato dalle dita appiccicose e decisi di fare un altro tentativo. Mi sarei calata pian piano sul sedile anteriore. Stava andando tutto bene, quando un’altra delle mostruose protuberanze di cui sembrava ormai costituito il mio corpo sfiorò il clacson. Un bambino puntò il dito e disse: «Mamma, quella donna seduta sul clacson deve avere un bambino?» Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Non essere ridicolo, bambino! Sto solo portando in giro quello di un’amica che ha l’influenza.» Tutte le volte che mi sentivo depressa per via della mia condizione, pensavo alla nota a pie di pagina di un’inchiesta pubblicata dal periodico del1’Istituto di studi demografici. (L’avevo trovato nella sala d’aspetto del mio medico. Era meglio di Selezione.) Diceva che una donna austriaca aveva praticamente battuto ogni record, mettendo al mondo sessantanove figli, tutti tipo pratica burocratica, in copia carbone, e perfino in tre copie. Ecco com’era andata: PARTI Quadrigemellari Trigemellari Gemellari
N. 4 7 16 TOTALE:
TOTALE 16 21 32 69
Pensavo spesso a quella donna. Anche senza averla mai vista, è possibile dedurre molte cose da questi dati. Di certo si tratta di una donna che fa le valigie a occhi chiusi, dopo
ventisette ricoveri. E che non ama perder tempo. In caso di parto non gemellare, probabilmente si sarebbe limitata a telefonare. Dev’essere una donna abituata a guardare in alto, dato che non ha potuto guardarsi i piedi per ventisette anni di vita. Il bruciore di stomaco dev’essere per lei una condizione normale, mentre di certo gli abitini a maglia sono qualcosa di cui sa per sentito dire. Con ogni probabilità, le è ormai venuto a mancare ogni senso dell’umorismo. Durante il roseo periodo del fidanzamento, mentre faceva col marito progetti per il «dopo», alla frase, «tesoro, avremo trentun maschietti per papà e trentotto femminucce per la mamma», deve aver risposto, arrossendo, «sei il solito burlone, Karl». Al ventinovesimo, trentesimo e trentunesimo bambino, senza dubbio deve aver considerato con terrore la prospettiva di far la solita telefonata a mamma per dirle che era di nuovo incinta. Dopo il quarantatreesimo, il quarantaquattresimo e il quarantacinquesimo, deve aver deciso di sfogliare le pagine gialle, in cerca di nomi, ecco perché il quarantaseiesimo si chiama Aufwiedersehen & C., bottiglieria. Alla nascita del cinquantunesimo e del cinquantaduesimo, dev’essersi presentato il problema delle feste di compleanno con gli amichetti. Una volta raggiunto il sessantesimo, di certo dev’esser stato un problema ricordare non di chi era il compleanno, il sabato seguente, ma di quanti. Mi figuro tutta una serie di problemi, con sessantanove bambini in casa. Distribuire i numeri la mattina per la precedenza in bagno, convincere la sartoria dell’esercito a fare anche vestiti da bambini, sostituire la parola «visita» con «invasione», e spiegare con tatto a quei due bambini dai capelli rossi che si sono sbagliati di famiglia e hanno vissuto con degli estranei per due anni.
Proseguendo nella lettura dell’inchiesta, si scopre che la donna media ha la capacità potenziale di dare alla luce qualcosa come venti figli senza tener conto della possibilità di parti multipli. Quindi, se ora siete al livello medio - 2,7 figli per famiglia - bisogna che voi e vostro marito vi diate parecchio da fare, per esser menzionati in una nota! Nessuna storia di maternità è completa al giorno d’oggi senza due fatidiche parole: «La Pillola». Io tendo a esser d’accordo con la scritta che ho visto sul furgone di un servizio lavatura pannolini la settimana scorsa. Mentre il furgone sfrecciava attraverso la città a una velocità da multa, ho intravisto altre due parole dipinte sul retro: «Quale Pillola?» In realtà in questo paese ci sono due fieri avversari della Pillola, entrambi uccelli. Primo, gli europei stanno organizzando una campagna su vasta scala per la protezione della cicogna. Per impedirne l’estinzione, tutti i cittadini francesi aderenti all’iniziativa tengono almeno una cicogna in cucina, di modo che non prenda il raffreddore, hanno organizzato un comitato di volontari che aiutano i malcapitati uccelli a non invischiarsi nei fili dell’alta tensione e nelle antenne della televisione, e a un certo punto hanno perfino creato un ponte aereo per trasportare i piccoli dall’Algeria alla Francia. E come credete che gli uccelli, grati di tante premure, abbiano deciso di ricompensare i cittadini francesi? Trasferendosi a Chicago, Los Angeles, New York, Denver e Philadelphia, naturalmente. In effetti questa storia mi innervosisce molto. Mi faccio prendere dal panico tutte le volte che vedo una colomba posarsi sul davanzale di Clara. L’altro uccello che impedisce la diffusione della Pillola tra le donne americane è il piccione. Con l’aumentare sconsiderato della popolazione, le scuole sovraffollate, la carenza di alloggi,
la mancanza di cibo, e la minaccia della disoccupazione, il governo ha deciso di distribuire la pillola anticoncezionale ai piccioni, perché possano controllare il numero delle covate. Suppongo che se siete un pedone abituato a camminare sotto i cornicioni possiate anche considerarla un’iniziativa lodevole, ma in realtà i piccioni non hanno mai chiesto l’intervento del governo a questo proposito. Di recente, strisciando sul cornicione piuttosto stretto del Palazzo di Giustizia, ho avuto modo di intervistare un portavoce della categoria su questa storia della Pillola. «Be’, se la gente non ci vuole di torno, perché non lo dice chiaramente?» tubò il piccione. «Non ne posso più di questo tira e molla. Quando siamo emigrati dalle campagne in città, gli abitanti hanno cominciato a darci addosso. Naturalmente sono stati severamente criticati dalla SPA... no, non è una società per azioni, mia cara, sto parlando della Società Protettrice degli Animali. «Poi hanno cominciato a spruzzare insetticidi di tutti i tipi sui davanzali e sui cornicioni per costringerci ad andarcene. Alla fine sono ricorsi alle scariche elettriche. Se pensate che prendere la scossa non sia una tragedia, si vede che non avete provato di recente a cambiare stazione radio nella vasca da bagno. «No, credo veramente che ora abbiano esagerato. Oh, suppongo sia vero che noi ci riproduciamo a un ritmo sostenuto. Ma d’altra parte non abbiamo altro da fare tutto il giorno se non svolazzare sopra le macchine parcheggiate e sporcare le statue del parco.» Gli domandai che cosa consigliava alle donne di questo paese, riguardo alla Pillola. «Tutto quello che posso fare e spiegar loro come noi ci siamo trasformati in una minaccia. Ci siamo concentrati nella
zona centrale della città, dando l’impressione di essere in numero esorbitante.» «OK», dissi, «riferirò alle donne.» Più ci penso, comunque, più mi convinco che la fertilità, o l’assenza di essa, non dipende da una pillola, un diagramma o un consultorio, ma dalla predisposizione delle donne alla maternità. Per esempio, provate a comprarvi un costume da bagno, a mettervi a dieta, a spendere venti dollari per una guaina così stretta che potete seguire il percorso della colazione passandoci sopra un dito e... voilà! Gravidanza! Oppure, misure ancora più drastiche: lasciate scadere il libretto della mutua, comperatevi una macchinetta sportiva a due posti, adottate un bambino. Ve lo siete voluto. Maternità istantanea. Se avete seriamente intenzione di limitare le nascite nella vostra famiglia, dovreste seguire questi accorgimenti: 1. Se siete una giovane madre, non disfatevi dei camicioni del settimo mese, dello sterilizzatore, dello scalda-biberon, del lettino, del passeggino, dei pannolini, delle mutandine di plastica e dei succhiotti ancora utilizzabili. Se vi viene la tentazione di buttarli via per mancanza di spazio, scavate un buco sotto la casa, piuttosto. 2. Non programmate in settembre le vacanze d’estate al lago Erie o a New York. Tutta una serie di statistiche dimostra che donne ansiose di salire a piedi in cima alla Statua della Liberty si sono ritrovate durante le vacanze così incinte da riuscire a malapena a stare sul ferry senza farlo capovolgere. 3. Resistete alla tentazione di iscrivervi a corsi diurni di pittura o serali di letteratura all’università locale. Non c’è modo più sicuro di tornare ad assaggiare con la punta della lingua il passato di verdura. 4. Non fatevi allettare dalle offerte del mercato del lavoro
prima dei sessant’anni. Ricordate. Le strade della fertilità partono tutte dall’ufficio di collocamento... specialmente per chi si preoccupa di indagare su ferie e pensione. 5. State attente alle spese. Fare un acquisto a rate, stipulare un mutuo per una casa è come sventolare un drappo rosso davanti alle corna di un toro. 6. Non innamoratevi degli sport acquatici, come sci d’acqua, barche a vela costose o pesca subacquea. Potreste non esser più in grado di goderveli, e vi fareste prendere da una depressione insuperabile. 7. Non rilasciate dichiarazioni pubbliche al tavolo del bridge su argomenti tipo: «L’ultima l’ho chiamata Galera. E non dico altro!» Oppure: «Hai sentito di Fanny! E ha quarantadue anni!» Può darsi che sia un’ingenua, ma non sono scema!
La disincantata Una volta una donna mi ha inchiodata in una toilette di Detroit e mi ha detto: «Non vedo l’ora che i suoi figli crescano. Chissà che divertimento sarà allora scrivere delle loro avventure». La donna, ovviamente una sadica che si divertiva a bazzicare le toilette pubbliche in cerca di guai, non precisò quale fosse l’età in cui allevare un bambino comincia a diventare una cosa divertente. Io sto ancora aspettando. Quando i bambini erano molto piccoli, immaginavo sempre il momento in cui si sarebbero seduti ai miei piedi dicendo: «Non alzare nemmeno una di quelle tue dita artritiche, mamma. Lo so anch’io dove sono le tue forbicine. Vado a prendertele». Sinceramente non riesco a ricordare un periodo storico in cui la popolarità dei genitori sia stata tanto in ribasso. I nostri figli si barricano dietro porte chiuse e ne emergono solo allo squillo del telefono. La «telefonomania» probabilmente è una conseguenza del nostro comportamento. Ci accorgemmo, parecchio tempo fa, che alcuni dei nostri amici avevano un vero problema coi figli, riguardo al telefono. (Una coppia aveva l’uso del telefono solo dalle quattro alle sei e mezzo del pomeriggio, nei mesi con la R.) E così decidemmo che quando i nostri figli sarebbero stati abbastanza grandi da indicare il telefono e dire «mamma, che cos’è quello?» avremmo risposto «è la macchina delle carie. Basta toccarla e rivela qualunque carie in qualunque dente». (Gli raccontammo anche che le bistecche di filetto facevano male ai bambini, ma questa è un’altra storia.) La storia della macchina delle carie cominciò a far acqua il giorno in cui nostra figlia scoprì che alzando la cornetta e componendo qualche numero poteva mettersi in contatto con altre migliaia di macchine delle carie in tutto il mondo. Da allora non l’ho più vista girare senza la
cornetta appoggiata sull’orecchio. La parola chiave coi bambini nell’età della crescita (esistono forse bambini che non siano nell’età della crescita?) sembra essere «comunicazione». Se siete capaci di leggere i movimenti delle labbra, non avete problemi. Comunque, se dovete competere con i disk-jockey locali, che riversano chiacchiere continue nelle loro orecchie attraverso la cuffia di ascolto, la faccenda può diventare seria. Noi abbiamo risolto il problema pagando la stazione radiofonica locale perché trasmetta messaggi personali: «La settimana scorsa abbiamo traslocato». «Il compleanno di papà e in settembre.» «Allora, adesso riesci a pronunciare bene la S?» Naturalmente è impossibile vivere in mezzo a tutti quei decibel senza esserne sfiorati. Non sapevo che il rumore potesse diventare un modo di vita fino al giorno in cui andai ad aprire la porta e un giovane mi disse: «Mi scusi, signora, sto facendo una ricerca fra le giovani madri per vedere se anch’esse si trovano d’accordo con un ingegnere dell’Arizona sul fatto che la musica rock sia causa di sordità fra la popolazione adolescente». «No, niente abbonamenti ad altre riviste... riceviamo già abbastanza carta straccia da attizzare i camini di una residenza stile Via col vento per tutto l’inverno.» «No, signora», disse lui, alzando la voce, «lei non mi ha capito. Non sono un piazzista. Vorrei la sua opinione sulla nuova teoria degli esperti di acustica. Pare che il rock, o comunque la musica che piace agli adolescenti moderni...» «Oh, quaderni! Lei vuol sapere se ne abbiamo bisogno! No, direi di no... sa, i ragazzi non scrivono mai niente... passano il tempo ad ascoltare quella dannata musica. Vede, abbiamo quattro radio in casa. Verso le quattro di pomeriggio il rumore qua dentro è paragonabile a quello dell’assemblea delle
Nazioni Unite che canta una serenata in quattro lingue alla Cina Rossa. Tutto quello che posso fare è nascondermi sotto il lavandino con una manciata di cachet e buttarne giù il più possibile, e anche così...» «Signora», disse lui guardandomi bene in faccia. «Non voglio venderle niente. Sto solo facendo un’inchiesta. Mi dica, lei ha dei figli adolescenti?» «Se vuole che capisca, giovanotto, deve muovere bene le labbra, mentre parla», spiegai, «e andar piano.» «OK», disse lui. «Lei ha dei figli adolescenti? «Credo di si», dissi esitando. «Non sono quei cosi con un rigonfio sul fianco a forma di radiolina a transistor, gli occhi sempre chiusi e una cordicella che collega il fianco all’orecchio?» «Esatto», disse lui, senza fare una piega. «Quello che lei ha descritto è proprio un adolescente. Ora, ha notato difetti di udito, nel suo esemplare, da quando si è messo ad ascoltare tutta quella musica rock?» Ci pensai su. «No, non mi sembra. É tutto come prima. Non risponde a semplici richieste quali ‘metti in ordine la tua stanza’, ‘cambia quei pantaloni’, ‘vai a rispondere alla porta’. D’altra parte sembra capire benissimo frasi di altro tipo, come ‘hai sentito cos’è capitato a...’, ‘a proposito di quei cinque dollari che mi hai chiesto...’ e ‘potremmo mettere a letto i piccoli e andar fuori a cena...’» «Allora si è accorta che tutti quei decibel hanno indebolito l’udito di suo figlio?» «Scusi, ma devo rispondere al telefono.» «Io non lo sento suonare», disse lui. «É sempre così, dopo che ho ascoltato per tre ore la Premiata Fonderia di Timpani. Lo sa che questo gruppo una volta ha registrato il singhiozzo del chitarrista e ha venduto due
milioni di dischi? Ha detto qualcosa, ragazzo mio? Le ho già spiegato che deve sillabare bene le parole e non voltarsi mentre parla. E vada un po’ più piano!» Subito dopo la musica rock, una cosa che lascia secchi tutti i genitori che conosco sono le pettinature dei figli. Nella nostra famiglia tutto cominciò quando nostra figlia disse che voleva farsi crescere i capelli. Da quella stupida che sono pensai che volesse farseli crescere sulle spalle. Come facevo a sapere che invece si sarebbe trasformata in un pastore bergamasco e che avrei dovuto scostare le tendine per guardare di che colore aveva gli occhi al momento del rinnovo della carta di identità? Sinceramente, la cosa mi dava parecchio sui nervi. «Sei sveglia, là sotto?» chiedevo, socchiudendo gli occhi in cerca di un pezzetto di pelle in quella foresta di peli. «Se sei sveglia, batti due colpi sul tavolo.» Ogni tanto mi capitava di non vedere quel pelo muoversi per un po’. Mi facevo prendere dal panico e correvo a tastarle il polso. Allora sentivo una voce uscire dalla foresta: «Mamma, ti prego, sto parlando al telefono!» Per quanto ne sapevo, poteva averci un giradischi e un amico, là sotto. A volte si pettinava in modo che si riusciva a vedere almeno un occhio. Quell’occhio mi seguiva per la stanza, immobile, senza un battito. Spesso mi trovavo a parlargli. Un giorno arrivai alla conclusione che aveva più l’aspetto di un ciclope che di un essere umano e mi avventurai a darle un suggerimento: «Perché non ti tagli i capelli?» Vidi la cortina aprirsi, un paio di labbra emergere all’improvviso e dire: «Stai scherzando! Diventerei lo zimbello della scuola. Nessuno si taglia più i capelli». Mi si offriva un’occasione insperata. La afferrai al volo. «Ecco. Potresti lanciare una nuova moda. Essere diversa. Non c’è assolutamente niente di più bello e femminile a questo
mondo che un caschetto di capelli corti, puliti, con qualche ricciolino in fondo e una frangettina appena accennata. Vedrai, ti farai notare da tutti, come una rosa in dicembre. Ti prego, per la prima volta in vita tua, abbi il coraggio di essere donna.» Ci pensò su tre settimane. Poi le vidi gli occhi: luccicavano di sentimento sotto la frangetta corta che le permetteva di distinguere di nuovo la luce del giorno dalle ombre della notte. Ammetto di essermi sentita orgogliosa di me stessa. «Sembri proprio una ragazza, adesso. Non mi sorprenderebbe che le tue compagne di scuola cominciassero a imitarti. Quel caschetto! È così femminile... così diverso!» Eravamo in fila davanti al baracchino degli hamburger, quando li sentimmo. Una coppia di anziani signori. Si misero a fissare i jeans strettissimi di mia figlia, i suoi stivali, il giubbotto e i capelli corti. La fissarono per tre minuti buoni. Poi chiocciarono: «Guarda quel ragazzo! Disgustoso! Che razza di madre deve avere, se gli permette di andare in giro conciato a quel modo!» Sarò felice quando rivedrò crescere la selva. Almeno sarà uno solo, l’occhio che mi segue tristemente per la casa. Quello che vorrei fare è prendere per il collo quella donna di Detroit e costringerla a dirmi quando pensa che comincerà il divertimento. O forse e già cominciato: l’altra sera, a tavola, quando i ragazzi si sono scambiati una serie di osservazioni sul nostro conto con l’alfabeto muto; o ieri, quando uno di loro ha chiesto al padre se non era un po’ vecchio per quella camicia hawaiana; o forse prima ancora, quel giorno in cui mio figlio mi puntò addosso una pistola perché avevo osato salutarlo mentre giocava a palla coi suoi amici. Di questi tempi non mancano certo le teorie sull’allevamento dei figli. Trattateli come bambini, dicono. Trattateli come adulti. Trattateli da pari a pari. Trattateli da
amici per la pelle. OK, il giorno in cui i miei figli smetteranno di farmi notare che Doris Day ha tre anni più di me e ne dimostra dieci di meno, mi deciderò a considerarli miei alleati. Intanto però, ditemi, quando comincia il divertimento?
Riflessioni di fine estate Per me la fine dell’estate è come l’Anno Nuovo. Rappresenta la fine di un periodo di libertà e spensieratezza, di sabbia e sole, di bibite fresche in gola, di piedi nudi e abbronzatura. Eppure aspetto con ansia il periodo dei programmi e degli appuntamenti, dei libri nuovi, delle matite temperate di fresco, del vento d’autunno, dell’efficienza, dell’organizzazione e della routine. Sono tristemente conscia del passare del tempo, mentre allungo sottane e pantaloni, e scarto maglioni con le maniche che arrivano sopra il gomito. Il tempo passa e io vorrei fermarlo per un attimo, quanto basta per dire ai miei figli che cosa desidero per loro e perché di tanto in tanto mi metto a urlare. Quell’attimo non c’e mai, naturalmente. Devo competere con gli UFO Robot, le partite di baseball, l’ultimo disco rock, gli amici del cuore, la raccolta delle figurine e la bicicletta nuova del ragazzo della porta accanto. Quindi devo tenermeli per me, i teneri pensieri... Troppo in fretta... andate troppo in fretta. Non abbiate tanta ansia di barattare il biberon col rossetto. Avrete appena finito di costruire un’automobile da corsa con le cassette della frutta e due skateboard che mi toccherà di comperarvene una vera. Vi verrà voglia di esplorare il mondo prima che abbiate finito di esplorare il cortile di casa. Vi riempirete le magliette di cotone idrofilo invece di aspettare che il buon Dio ve le riempia di qualcos’altro. Lasciate fare al tempo! Non buttate via l’infanzia come un buon cappotto diventato un po’ piccolo. L’infanzia è una fase necessaria della crescita, come tutte le altre. L’infanzia è il periodo in cui ci si può misurare addosso la maturità per vedere se va bene o sta un
po’ larga, se è dolce o amara, se ha un buon profumo o riempie i polmoni di una sostanza acre che fa tossire. L’infanzia è dividere un lecca-lecca con tanti amici prima di scoprire che esistono i germi. L’infanzia è non sapere che le case costano denaro. É andare a letto d’estate coi piedi sporchi tra lenzuola pulite. É pensare che chiunque abbia più di quindici anni sia un «matusa». É assorbire nuove idee, conoscenze e persone come una spugna gigante. L’infanzia è quel periodo della vita in cui «competizione» significa baseball e «responsabilità» il cane da portar fuori. Vorrei insegnarvi a trovare la felicità dentro di voi. Ma non so da dove cominciare.
Vorrei insegnarvi a essere conformisti. Proprio così, conformisti! Vorrei che deste un bacio alla nonna quando entrate in soggiorno, anche se siete in compagnia di un amico. Vorrei che imparaste a parlare apertamente di Dio e del vostro amore per Lui. Vorrei che conferiste dignità alle cose in cui
credete e che imparaste a rispettare quelle in cui non credete. Vorrei che diventaste adulti bisognosi di amicizia e capaci di meritarsela. Vorrei che vi piacesse aver le scarpe pulite, abbottonare il colletto della camicia, almeno qualche volta, e star dritti e guardar la gente negli occhi quando vi parla. Ci sono momenti in cui si ride e momenti in cui si piange. Vorrei che sapeste distinguerli. Vorrei che diventaste persone semplici, sì, persone semplici, pure di cuore, che, se proprio devono manifestare per qualcosa, lo facciano dicendo che cosa vogliono, non che cosa non vogliono. Ho tanta paura che crescendo vi trasformiate in esseri sofisticati e cinici, pronti a considerare Martin Luther King uno stupido idealista, Gandhi un vecchio ruminante e il vecchietto che si alza per lasciare il posto in autobus alle signore lo scemo del villaggio. Vi prego, mettetevi a piangere quando vedete una foto del muro di Berlino, o di un bambino affamato, o di un villaggio distrutto dalla guerra. Forse mi sto preoccupando per niente. Sembra che durante gli ultimi anni la bandiera abbia smesso di essere un simbolo, per la gente. L’anno scorso mi è capitato di leggere qualcosa che aveva a che fare con la bandiera solo un paio di volte: una volta si trattava di una bandiera bruciata davanti alla nostra ambasciata, in qualche paese straniero, la seconda di un fabbricante di biancheria intima denunciato da un’associazione di reduci per aver osato confezionare mutandine a stelle e strisce. Vi prego, cercate di capire che cosa significa la bandiera, di amarla. Portatevela addosso, se necessario. E poi, ricordate che esiste un sentimento chiamato compassione. É strano, nessuna madre dimentica mai il momento in cui il bambino abbandona il suo piccolo mondo egocentrico per accorgersi della presenza degli altri. Ricordo
quando il piccolo aveva sei anni. Un giorno, tornando da scuola disse: «Ho bisogno di un vecchio spazzolino da denti e del camioncino con cui giocavo da piccolo». «Non dirmi», dissi ridendo, «che ti è venuto in mente di fabbricare un centrotavola per il pranzo di Pasqua.» «No», disse lui. «Stiamo combattendo la guerra nel Vietnam.» «Con uno spazzolino da denti e un camioncino?» «Mamma», disse lui pazientemente, «tu non capisci. Lascia che ti spieghi. Vedi, noi stiamo combattendo una guerra in un posto chiamato Vietnam, e c’è gente laggiù che non ha niente per pulirsi i denti. Non hanno bisogno di soldi. Hanno solo bisogno di spazzolini da denti. Posso prendere il tuo?» «Be’, non credi che dovremmo mandargliene uno nuovo?» «Giusto», disse lui. «E poi c’è il camioncino... non voglio quello tutto rovinato, ci vuole qualcosa che possa piacere a un soldato.» Mi uscirono quasi gli occhi dalle orbite. «Che possa piacere a un soldato? Vuoi dire a un bambino vietnamita, no?» Questa volta fu lui a sgranare gli occhi. «Vuoi dire che ci sono anche i bambini, in Vietnam? Nella guerra?» «Nel bel mezzo della guerra», spiegai. «Adesso vai a scegliere il camioncino.» Lo trovai seduto sul pavimento con un camioncino in grembo, immerso nei suoi pensieri. «Non credevo che ci fossero anche i bambini, nella guerra», disse. «Sono in pochi a saperlo», risposi io. «Be’, e che cosa fanno i bambini tutto il giorno mentre i soldati combattono?» «Fanno finta che la guerra non ci sia.» «Giocano in un’altra lingua?» «No, il linguaggio del gioco è universale.»
«Diventerò anch’io un soldato, da grande?» chiese solennemente. «Spero di no. Perché?» «Perché è davvero un brutto scherzo mandare un pacco a un bambino e lasciare che lo apra e scopra che dentro c’è uno stupido spazzolino da denti e un camioncino usato. É veramente un brutto scherzo.» Se solo potessi esser sicura che i bambini capiscono le lezioni di vita e imparano le più importanti. Come faccio a spiegar loro cos’è una delusione? Eppure ne avranno. E ne soffriranno, ne saranno sconvolti, dovranno fare i conti con se stessi e la fiducia che avranno nelle proprie capacita, forse ne usciranno incapaci di prendere altre iniziative. Ma non morranno. Di delusione non si muore. In realtà se ne esce fortificati, adulti. Voglio che ascoltino il tuono. Per apprezzare la calma dopo la tempesta. Voglio che sbattano il muso per terra, qualche volta, perché diventino orgogliosi di saper camminare a testa alta. Voglio che imparino a convivere con le parole: «No! Non puoi! Hai sbagliato! Non so!» E anche: «Ho sbagliato». Gli adulti dicono sempre ai ragazzi: «Questo è il periodo più bello della vita». Lo è? Non so. A volte li guardo bene in faccia, questi adulti, quando dicono una frase del genere. Sembrano seduti sull’otto volante con lo stomaco pieno di zucchero filato e patatine fritte. Avrebbero voglia di scendere e vomitare in pace, ma tutti continuano a dir loro che è così divertente. Non pensate che non capisca le vostre paure, la vostra ansia. La gioventù non è immune da delusioni e dolori. Nessuno lo è Si comincia ad aver paura il giorno in cui si nasce: paura del bagnetto, di far pipì a letto, del buio, di cadere dalla schiena
del papà giocando a cavalluccio, degli sconosciuti che fanno gli spiritosi e vi buttano per aria, della fame, dei rumori, degli spilli nei vestiti. Poi si continua con i mostri, con i genitori che potrebbero non tornare mai più, con le sbucciature sulle ginocchia e con gli incubi. La scuola non fa altro che aumentare l’ansia. Paura di non riuscire a farsi degli amici, di essere interrogati e non saper rispondere, di non fare in tempo ad arrivare alla toilette, di non piacere alla baby-sitter, di perdere l’amore dei genitori quando arriva un fratellino. Crescendo, le paure si moltiplicano. Paura di non esser bravi a scuola, di non farcela negli sport, di perdere gli amici, di non essere accettati, di non avere la macchina, paura della guerra, del matrimonio, di non far carriera, di non far soldi, di non piacere all’altro sesso e di non riuscire a prendere il diploma. La paura è una cosa normale. L’abbiamo tutti. I genitori più di ogni altro. Perché sono responsabili della vita che hanno dato. Ci sono tante cose da insegnare, e il tempo passa così in fretta... Quella ventata d’aria fredda era il preludio di un altro autunno oppure è stato uno dei bambini che mi e schizzato accanto per correre a guardare Mazinga?
Fuori dal nido Lo chiamiamo «il piccolo». Pesa venti chili, arriva comodamente alla piastra del fornello e riesce a tirare il pallone a duecento metri di distanza con un calcio. Chissà perché ho la sensazione che
continueremo a chiamarlo «il piccolo» anche quando avrà quarant’anni, cinque figli e la testa come una palla da biliardo. Oggi è una giornata speciale. È il primo giorno di scuola del «piccolo». Non so perché mi sento così irritata. Un attimo fa gli ho urlato dietro: «Sbatti un’altra volta quella porta, ragazzo, e ti spedisco in un collegio del Nebraska senza indirizzo del mittente». Un attimo dopo me lo sono stretto al petto dicendo: «Scappiamo insieme, tesoro, io e te soli, nel paese della cuccagna, dove i bambini non crescono mai e stanno sempre con le mamme». Questa dovrebbe essere una mattinata felice. Ricordo le promesse che ho fatto a me stessa lavando tutti quei pannolini e schizzandomi il latte del biberon sul polso alle due di notte, sei anni fa. «Pazienza», dicevo a me stessa. «Quando tutto questo sarà finito resterò a letto fino a tardi la mattina, faro colazione con qualcuno che non mangi la carne col cucchiaio, perderò quei sette chili in più, mi faro la manicure, imparerò a giocare a bridge e me la squaglierò da questa trappola che chiamo casa e che in realtà è la mia prigione.» Continuai ad accarezzare questo sogno nonostante i morbilli, le fratture, le tensioni, i traumi, il dottor Spock e l’asilo infantile. E adesso che sta per avverarsi, mi sento in colpa. Che cosa sto facendo? Sto mandando il «piccolo» a imparare a far di conto quando non gli si è ancora rimarginata la ferita del cordone ombelicale. Come posso pensare al mio piacere quando lui vive di insicurezza? Come fa lo stato dell’Ohio a sapere che mio figlio è pronto per andare in prima? Che cos’è per loro? Un certificato di nascita e di vaccinazione. Lo guardo e vedo un sorriso... una smorfia. Vedo due gambette corte che non riusciranno mai ad arrivare alla
fontanella dell’acqua senza l’aiuto di uno sgabello. Vedo due manine grassocce che non riusciranno mai a tener stretta una saponetta. Vedo un caschetto di capelli rossi che non arriva nemmeno alla cintola di suo padre. Vedo un bambino piccolo che in tre anni d’asilo non e mai andato a far pipì perché non voleva ammettere di non saper distinguere le due parole, MASCHI e FEMMINE, sulle rispettive porte. Avrei dovuto prepararlo meglio a questo momento. Invece di perdermi coi vari Babbi Natale e Colombe di Pasqua e Topolini del dentino e Mary Poppins. Avrei dovuto spiegargli le realtà fondamentali dell’esistenza: la tolleranza, la compassione, la generosità, l’onestà. Da oggi in poi il suo mondo si allargherà. Un’esistenza cominciata in una culla, allargata a una casa, spinta dal possesso di una biciclettina fino a un paio di isolati intorno, adesso superera quei confini. Dovrò dividerlo con un’altra donna, con altri adulti, con altri bambini, con altre opinioni, altri punti di vista. Non sarò più io a dirgli tutto. Adesso sono alle sue spalle, pronta a guidarlo da una nuova posizione. Chi è questa donna che passerà con lui più ore al giorno di me? La prego, Miss Scribacchini o qualunque sia il suo nome, gli conceda la pazienza e la gentilezza di cui ha bisogno. Lo rassicuri con un bel sorriso e un grembo accogliente. La prego, non sia troppo carina né troppo intelligente, altrimenti mi verranno i complessi. Un biglietto. Forse dovrei attaccargli un bigliettino alla maglietta per esser sicura che lei capisca cosa deve fare. Potrei scrivere: «Cara Miss Scribacchini, affido alle sue amorevoli cure mio figlio, che è un po’ timido e molto ostinato. Che ancora non riesce a sbrigarsela con le chiusure a lampo e coi bottoni del golfino. Che fa il 3 alla rovescia ma è pieno di buona volontà. Sono pronta a denunciarla per ritenzione di
affetto, se necessario, ma per il momento, che Dio la benedica!» Un biglietto. Non c’è tempo per nessun biglietto. É arrivato l’autobus della scuola. Com’è grande. Perché mai mandano sempre gli autobus più grandi a prendere i bambini più piccoli? Se n’è andato. Non si è nemmeno voltato a salutarmi. Perché l’ho trattato così male per tutta l’estate? Ho avuto cinque estati, per trattarlo male, e ho scelto proprio questa. É strano, se ci si pensa. Si passano sei anni della propria vita a preparare un bambino per la scuola e all’improvviso si viene rimpiazzate da una sconosciuta e da una colazione da trentacinque cent. Com’è silenziosa, questa casa. É quello che ho sempre desiderato, no? Una casa silenziosa. Mi chiedo per chi siano le mie lacrime. Odio ammetterlo, ma devono essere per me stessa. Temo di aver paura. Che tipo di donna sono mai? Diventerò la tipica madre che gira per la casa annoiata e insoddisfatta, pronta a raccogliere il primo paio di calzini sporchi dal cestino del pane per singhiozzarci dentro «il mio bambino, il mio bambino!»? Mi metterò a spolverare e lucidare freneticamente per finire tutto entro le dieci e sedermi a bere caffè, in attesa che il grosso autobus giallo depositi la mia covata sul marciapiede e mi permetta di riprendere a correre avanti e indietro come un robot programmato? I bambini continueranno a essere il mio deterrente? La scusa per non metter mai il naso fuori casa? Ho intenzione di dedicare tutta la vita al loro benessere? Oppure saprò fare come la pettirossa della primavera scorsa? Che razza di momento, per pensare ai pettirossi. L’ho vista, quella pettirossa incinta, lavorare tutta la primavera col suo compagno per costruire il nido, poi deporre le uova e
covarle. E un bel giorno nacquero i piccoli, e sia lei che il padre non ebbero più un attimo di tregua, sempre a cercar cibo per quei beccucci spalancati dentro il nido. Alla fine arrivò il giorno in cui li misero tutti in fila e i piccoli volarono via a uno a uno. Dapprima esitanti, timorosi, bisognava spingerli fuori dal nido. Poi cominciarono ad andare su e giù come aeroplanini teleguidati sfuggiti al controllo. Si stancavano, a battere le ali. Alcuni tentavano atterraggi improbabili. Altri traballavano sui rami all’abbaiare dei cani e ai tentativi dei gatti di afferrarli. Ma la madre non si spostava di un millimetro. Si limitava a guardare, a osservare, con quegli occhietti neri che non perdevano un movimento. Un giorno dopo l’altro i piccoli cominciarono a volare di più a volare meglio, a volare più lontano, finche arrivò il momento in cui furono pronti a prendere il loro posto nel cielo insieme ai genitori. Pensai alle mie amiche, a quelle sagge quanto i pettirossi. Anche loro spingevano i figli fuori dal nido, e dopo poco i piccoli imparavano a contare sulle proprie ali e se ne andavano. Uscivano dal bozzolo di un’esistenza fatta di sonnellini e pane e marmellata per trasformarsi in meravigliose farfalle. Per queste donne il suono della campanella della scuola è stato un segnale. Sono partite in quarta, hanno trovato lavori di responsabilità, si sono trasformate in membri attivi della comunità, hanno rivelato talenti che hanno sorpreso tutti quanti (comprese loro stesse), e si sono date da fare a rimettere ordine nella loro vita e a cercare di ringiovanire d’aspetto. L’autobus? Arriva troppo presto. Eccolo che salta giù dalla predella urlando, tutto eccitato: «Ce l’ho fatta!» É un autobus così piccolo. Perché mandano un autobus così piccolo per ragazzi tanto grandi? Oppure... forse è lo stesso di stamattina, e nel frattempo mio figlio è cresciuto?
Credo che oggi siamo cresciuti un po’ tutti.
Nonna (s.f.), madre del proprio padre o della propria madre Il ruolo della nonna non è mai stato ben definito. Alcune siedono sulla poltrona a dondolo, altre fanno il surf, altre ancora hanno una brillante carriera di cui occuparsi. Alcune hanno i capelli bianchi. Altre puliscono il forno. Altre portano la parrucca. Alcune vedono i nipotini almeno una volta al giorno (e a loro non basta). Altre, una volta all’anno (ed è già troppo). Una volta ho condotto un’interessante inchiesta in un gruppo di bambini di otto anni, sulle nonne. Facevo tre domande. Primo, cos’è una nonna? Secondo, che cosa fa? Terzo, che differenza c’è tra una nonna e una mamma? Le risposte alla prima domanda furono piuttosto prevedibili. «É vecchia (sugli ottanta), aiuta in casa, è gentile e carina, ed è la mamma della mamma o la mamma di papa (a seconda di quale delle due vedevano di più).» Anche le risposte alla seconda domanda risultarono piuttosto ovvie. I bambini si erano accorti che le nonne lavoravano a maglia, lavavano i piatti, pulivano il bagno, facevano torte fantastiche; un buon numero di intervistati rivelò anche che spesso la nonna puliva loro le scarpe. Fu la terza domanda a stimolare una vera e propria reazione nei bambini. Ecco un riassunto delle differenze tra la
mamma e la nonna. «La nonna ha i capelli grigi, vive sola, mi porta in giro e mi lascia andare in soffitta. La nonna non mi sculaccia e dice alla mamma di smettere, se la becca a farlo. La mamma mi sgrida di più. La mamma è sposata. La nonna no. «La nonna va a lavorare mentre la mamma non fa niente. La mamma mi fa le iniezioni, invece la nonna mi regala le rane. La nonna abita lontano. La mamma mi ha messo al mondo. La nonna ha sposato il nonno e la mamma il papa. «La nonna dice sempre ‘non uscire, fa freddo’, la mamma invece ‘va’ un po’ fuori, ti fa bene’.» Ed ecco l’argomento decisivo. Su trentanove bambini intervistati, un totale di trentatre ha dichiarato di associare la parola «amore» alla nonna. Uno ha sistemato la questione con una frase indicativa: «La nonna mi ama sempre». Tutto questo, credetemi, non mi sorprende affatto. Nelle rare occasioni in cui mia madre è venuta a tenere i bambini in mia assenza, mi ci è voluta la frusta per riuscire a restaurare l’ordine, dopo la sua partenza. «La nonna è formidabile», dicono sbadigliando alla tavola della colazione. «Ci ha dato da mangiare pizza, coca cola e pop-corn caramellato. Poi abbiamo visto il film con Anita Ekberg. Poi abbiamo giocato a Monopoli fino al tuo ritorno. Ha detto che quando ere piccola tu non volevi mai andare a letto. Sapevi a memoria la sigla di chiusura dei programmi.» «Vi ha detto anche che avevo ventotto anni, a quei tempi?» scattai. «La nonna ha detto che venticinque cent al giorno non sono una gran cifra. Ha detto che guadagneremmo di più se scappassimo di casa e andassimo a lavorare come volontari nei paesi sottosviluppati. Ha detto che tu spendevi almeno un dollaro alla settimana solo di croccante.» «Be’, in realtà», dissi con una smorfia, «la nonna non ha
più la memoria di una volta. Era severissima, credo non mi abbia mai dato più di dieci cent alla settimana, e dovevo anche comprarci i quaderni e le matite.» «Certo che la nonna è meravigliosa. Ci ha detto che hai nascosto lo skateboard dietro i cappelli nel tuo armadio. Ha detto che le sembrava uno scherzo da prete. Che cos’è uno scherzo da prete, mamma?» «È quando la nonna vi dice dove ho nascosto lo skateboard, bambini.» «Mamma, è vero che un giorno hai portato a scuola una rana viva? E poi è vero che una volta giocando al parrucchiere hai tagliato tutti i capelli alla zia Olivia? Ragazzi, che roba! Fantastico!» Mi guardarono con un’ammirazione che non avevo mai visto prima nei loro occhi. Naturalmente rimproverai la mamma per la sua indiscrezione. «Senti», dissi, «sei una linguaccia, e per di più hai una memoria da far schifo. Adesso i bambini credono che io sia una superdonna, solo perché ho rapato la zia Olivia. Che razza di immagine credi che sia questa, per una madre?» «La stessa che avevi tu di me, grazie alla nonna», disse lei. E allora ricordai la nonna. Che tipo. In effetti, non ho mai potuto guardare una foto di guerra coi kamikaze giapponesi, dritti in cuffia e occhialoni, col foulard bianco svolazzante, brindare alla loro ultima ora di vita con un bicchiere di sakè, senza pensare ai sabati pomeriggio in città con la nonna.
Salivamo sulla sua Chevrolet coupé rossa e gialla, e saltavamo in prima sopra il raccordo dei tram, dove la nonna prendeva posto in fila tra i vagoni. Data la rigorosa concentrazione che ci voleva a rimanere sulle rotaie, e le innumerevoli fermate che eravamo costrette a fare, la conversazione veniva tenuta al minimo. Ogni tanto un passante nervoso bussava al finestrino per salire, al che la nonna gridava arrabbiata: «Se volessi dei passeggeri, suonerei la campanella!» Una volta che osai chiedere perché non viaggiassimo in mezzo al lento traffico del sabato come tutte le altre macchine, la nonna replica: «Ragazza, tu non capisci, là fuori si rischia la vita». La prima tappa in città era sempre dal gommista. Non riuscivo a capire perché. Parcheggiavamo nello spazio riservato ai clienti e la nonna attraversava l’edificio fresco. Dava un calcio a qualche copertone, ma non ne comperava mai nemmeno uno. Un giorno mi spiegò: «il giorno in cui avrò un copertone nuovo sarà anche quello in cui perderò il miglior posteggio gratuito della città». Io non possiedo né il coraggio né l’astuzia della nonna, nel
traffico. Ma ho pensato a lei, l’altro giorno, seduta al volante, incastrata tra due macchine in fila nel traffico cittadino dell’ora di punta. «Ehi, signora», urlò una voce dalla macchina vicina, «vuol fare una scommessa? Un quarto di dollaro soltanto. Stiamo scommettendo sul minuto esatto in cui le scoppierà il radiatore. Due minuti o quindici secondi, scelga.» Ragazzi, la nonna sì che avrebbe saputo come zittirlo! Avevamo fatto un patto, io e la nonna. Lei non mi trattava come una bambina e io non la trattavo come una mamma. Rispettavamo le regole. Io non sbattevo le porte e non rispondevo male, e lei non mi sculacciava e non mi faceva la predica. La nonna mi trattava come un’adulta. Mi lasciava fare i biscotti con le mani sporche... strimpellare sul piano solo perché ne avevo voglia... cogliere i pomodori ancora verdi... usare le sue mollette per i panni per scavare in cortile... cogliere i fiori per fare una collana. La nonna viveva in una casa «divertente». Con le stanze tanto grandi che ci si poteva schettinare. C’erano centomila gradini su cui giocare, un gran portico che era un invito per le fresche brezze estive, e dove si poteva stare per ore e ore senza che nessuno ti venisse a cercare. E tutt’intorno una cancellata nera di ferro. Quello che mi piaceva di più, comunque, era sentire la nonna parlare di mia madre, perché quella che lei descriveva era una mamma che non avevo mai visto, che non conoscevo. Non sapevo che, quando la mamma era bambina, un giorno era venuto il fotografo per fare il ritratto a lei e alla zia su un carrettino col pony. Non avrei mai immaginato che avessero dovuto dar loro una moneta per convincerle a star ferme. Nella foto la mamma piange e morde la moneta. Era una moneta da dieci cent, e lei voleva quella grossa, da cinque, che era stata data alla sorella. Chissà perché, ero convinta che la mamma
sapesse distinguere le monete da dieci cent da quelle da cinque fin dalla nascita. La nonna mi raccontò che una volta la mamma era stata sgridata dal preside perché aveva scritto sul frontespizio del libro di matematica: «In caso d’incendio, buttatecelo dentro». Non nutrii mai tanto rispetto per lei come il giorno in cui venni a sapere di questa storia. Dalla nonna venni a sapere che la mamma era stata bambina e aveva compiuto lo stesso percorso che stavo compiendo io. Pensai che fosse «super». Che razza d’immagine, eh, per una madre? Se potessi ricominciare da capo, non tornerei mai a casa della nonna, dopo la sua morte. Nessuno dovrebbe fare queste cose. Perché la splendida casa spaziosa si era raggrinzita, con gli anni. I meravigliosi gradini su cui avevo giocato per ore erano rotti e patetici. C’era una gran tristezza, nelle viti incolte, nella vernice scrostata, nella cancellata di ferro che sbandava sotto il peso degli anni. Il grande portico era un «mostro» architettonico e alla fine venne pietosamente abbattuto dal piano di rinnovamento urbanistico. Le nonne sono al di la di ogni descrizione. Davvero. Occupano un posto unico nella vita di un bambino. Possono dividere con voi il giogo della responsabilità, rilassarsi e divertirsi coi bambini in un modo che non era stato loro possibile coi propri figli. E possono gioire della consapevolezza che il seme da loro gettato nella vita darà frutti per generazioni a venire.
6 settembre – 2 novembre Non facciamone una tragedia
Parecchi anni fa decisi di vivere secondo una mia massima. Non so dove l’avessi imparata, forse da qualche bardo immortale che si divertiva a scarabocchiare sulle pareti delle toilette, ma per me fu una vera e propria terapia. Tanto per cominciare, mi preoccupavo sempre moltissimo. Per tutto. Mi preoccupavo per le finestre della veranda: chissà se l’assicurazione avrebbe pagato, in caso qualcuno le avesse centrate con un pallone. Mi preoccupavo per quel povero diavolo in televisione che faticava a trovare una risposta alle domande da un milione. Mi preoccupavo che i Beatles perdessero i capelli. Mi preoccupavo per i libri della biblioteca da restituire, in caso io e mio marito fossimo partiti insieme per «il gran viaggio senza ritorno». Con i bambini piccoli, le cose peggiorarono. Di notte mi alzavo e andavo a mettergli loro uno specchietto sotto il naso per vedere se respiravano ancora. Mi preoccupavo perché sputavano più cibo di quanto riuscissero a inghiottirne. Cominciai a vedere germi dappertutto. Quando cambiavo i pannolini, lavavo le manine anche a loro, tanto per essere sicura. Quando partivamo per una vacanza, la macchina sembrava il carrozzone di un circo, piena degli oggetti più impensati. Rabbrividivo tutte le volte che i piccoli bevevano il latte da qualche tazza che non avesse il loro nome scritto copra. Poi, chissà come, nacque lo slogan che mi salvò: «Non facciamone una tragedia». La mia vita cambiò completamente. Imparai a ignorare tutte le cose su cui non potevo intervenire direttamente. Quelle su cui potevo intervenire, invece, le numerai, le classificai, e le infilai nei rispettivi scompartimenti. Smisi di preoccuparmi e imparai a rilassarmi. Smisi di spaventare a morte i bambini, di notte, con quella storia dello specchietto. Scoprii che potevo portarmi dietro
tutto quello che serviva ai piccoli per il fine settimana in una borsa da viaggio, e imparai a lasciarli bere anche dalle borracce, se necessario. Per quanto riguarda i germi, una sera feci un esperimento, e scoprii con grande delizia che un succhiotto recuperato tra i fondi di caffè nella pattumiera poteva esser rapidamente sciacquato con l’acqua calda e ficcato in bocca al piccolo urlatore senza conseguenze irreparabili. Vi dirò anzi che il piccolo dimostrò di apprezzare il nuovo sapore.
Smisi di preoccuparmi di Mao Tse-tung, della popolazione dell’India, dei rifiuti buttati nel Grand Canyon dai turisti e dell’inquinamento che minacciava la piscina di plastica dei bambini in cortile. Smisi di preoccuparmi di quello che sarebbe successo se avessi osato indossare i tacchi alti sotto i pantaloni. Prima pensavo che Miss Eleganza mi avrebbe citato per danni alla categoria. O che Life potesse mandare un fotografo travestito da orso bianco a seguirmi per la strada, allo scopo di immortalare lo scempio degli scempi. Oppure che sarei apparsa
sulla copertina di Time come «la donna che ha scosso l’America alzandosi da terra di sette centimetri». Tentare di seguire la moda era come passare la vita a correr dietro a un treno senza mai prenderlo, oppure svegliarsi la mattina e accorgersi che e ancora ieri. È vero. Se si vuol comprare un tailleur primaverile, bisogna decidersi in febbraio. Un costume da bagno, in marzo. I vestiti per la scuola, in luglio. La pelliccia, in agosto. Vi ho mai raccontato di quella volta in cui cedetti al folle desiderio di comprarmi un costume da bagno in agosto? La commessa, avvolta in un vestito di lana con le maniche lunghe, che la faceva sembrare la regina delle nevi, mi guardò disgustata. «Di certo lei ha voglia di scherzare», disse. «Un costume da bagno in agosto!» «Proprio così», dissi io con decisione, «e non ho intenzione di uscire da questo negozio fino a quando non l’avrò trovato.» La ragazza si strinse nelle spalle, impotente. «Ma lei si renderà conto di certo che non teniamo un costume da bagno in magazzino dal primo di giugno. Il tre di giugno c’è stata la svendita dell’Elefante bianco... senza offesa... e in pochi giorni ci siamo disfatti... pardon, abbiamo piazzato tutti i nostri costumi da bagno.» «Allora, vuol farmi vedere qualche costume da bagno», dissi, «oppure devo andare in giro a raccontare a tutti che prendete i vostri specchi dal baraccone della donna spaghetto al luna-park?» «La prego, signora, abbassi la voce. Adesso citofono al direttore. (Sottovoce.) «Mr. Evans, c’è qui una pazza che insiste per comprare un costume da bagno... si, proprio così. Un costume da bagno. Gliel’ho detto. Che aspetto ha? É strana. Indossa un vestito rosa senza maniche, ha una borsetta bianca e
scarpe (uh!) bianche. Sono d’accordo con lei, Mr. Evans, ma come faccio a spiegarglielo? Molto bene.» (A voce alta.) «Mr. Evans dice che lei dev’essere una donna di molto buon gusto, signora, quindi le daremo un colpo di telefono a febbraio, quando riceveremo i primi costumi da bagno della prossima stagione. Contenta?» Ora, in condizioni normali a quel punto avrei cominciato a saltare su e giù, picchiandole la borsetta sulla testa. Invece mi limitai a sorridere e dissi: «Certo, tornerò in febbraio, e mi premurerò di sguinzagliare una bella tarma incinta nel reparto pellicce di Mr. Evans!» Non avevo nessuna intenzione di farlo, naturalmente, ma cosa potevano saperne, loro, delle intenzioni di una pazza che portava scarpe bianche in agosto? Smisi di preoccuparmi al momento di staccare dalle fodere delle poltrone l’etichetta che diceva: STACCARE QUESTA ETICHETTA É UN REATO PERSEGUIBILE A NORMA DI LEGGE. Smisi di preoccuparmi dell’estinzione della foca monaca e dell’infiltrazione di sommozzatori comunisti attraverso lo stretto di Bering. Smisi di prendere sul serio tutte quelle stupide teorie sul trauma causato ai bambini più piccoli dai vestiti smessi dai fratelli. Voglio dire, ogni madre dotata di un minimo di cervello sa che i vestiti per bambini sono di tre misure: «Un po’ grande, ma crescerai», «Giusto giusto, goditelo finche dura», e «Un po’ corto, piega le ginocchia». Fu proprio l’anno scorso, credo, che a casa nostra accadde uno strano fenomeno: tutti i vestiti dei bambini erano «Giusti giusti, godeteveli finche durano». Stando ai calcoli approssimativi che ho fatto, un evento del genere non si verificherà mai più nello spazio della mia vita. Ora, credete che i bambini apprezzassero il fatto di avere maniche che
arrivavano giuste giuste sotto il polso? Oppure orli che non erano ne minigonne ne strascichi? Macché. «Sarò il solo bambino in prima media a portare stivali bianchi coi gattini.» «Di che ti lamenti? Io sarò il solo capoclasse costretto a portare una camicetta rosa coi pizzi.» «Ma stiamo scherzando con questo cappello? Va bene che crescerò, ma che razza di testa credi che mi verrà?» Cercavo di razionalizzare il mio modo di vestirli, pensando che da grandi si sarebbero fatti grasse risate al ricordo. É un’abitudine curiosa, questa di passarsi i vestitini tra fratelli. Il primogenito si becca tutti i vestiti nuovi, ma non può muovere un passo senza sentirsi dire: «Non strapparlo, non sporcarlo, non sudarci dentro, non trascinarlo sul pavimento. Deve durare a lungo». I bambini di mezzo si beccano vestiti più leggeri, per via dei ripetuti lavaggi, con le asole sfrangiate e un po’ lisi sul sedere. Il «piccolo», che Dio l’aiuti! Squallidi pannolini grigi, golfini lavati per sbaglio con l’acqua calda, pigiami metà di un colore e metà di un altro, e quella giacca a vento «che mi è costata un’occhio, ai suoi tempi». (Nessuno sembra ricordarsi con precisione quali tempi.) Traumi! Sciocchezze! Non ho mai visto nessuno ridere di cuore come certi adulti al ricordo dei vestiti che erano stati costretti a portare da bambini per via di questa abitudine. Le mutande troppo lunghe infilate nelle scarpe per dar l’impressione che fossero ghette; gli stivali della mamma pieni di carta di giornale per non ballarci dentro; la prima neve, quando si usciva di casa acconciati come profughi vittime delle organizzazioni caritatevoli. E sono sicura che i bambini, diventati adulti, ricorderanno con un senso di calda nostalgia le annate in cui i vestitini erano «Giusti giusti». Ho smesso di preoccuparmi del fatto che la lucina del
frigorifero si spenga o meno, quando chiudo lo sportello... o di quello che può pensare il cane quando mi vede uscire dalla doccia... o del fatto che i francesi preferiscano la Tour Eiffel alla Statua della Libertà. Mi sono perfino adattata all’anticonformista di famiglia, al bambino ribelle... nonostante sia tuttora convinta che all’ospedale abbiano fatto uno scambio. In tutte le famiglie ce n’è almeno uno. Si tratta del genietto che si fa chiudere dentro l’asilo, la sera, perché non si decide a uscire dalla toilette senza aver scoperto dove finisce l’acqua, dopo aver tirato lo sciacquone. quello che si allontana da casa all’insaputa di tutti e finisce col braccio incastrato in un tubo del cantiere edile quattro isolati più in la. É quello che non sa che farsene dei giocattoli comprati al negozio e preferisce fabbricare tunnel con le scatole dei fiocchi d’avena. Si becca più sberle di tutti i suoi fratelli messi insieme. A scuola prende una nota dopo l’altra, perché sogna a occhi aperti, perché ha sempre le manine sporche, perché non ce la mette tutta. La cosa sembra non interessarlo assolutamente. Costantemente preso dai suoi progetti, non si accorge che il resto della famiglia sta impazzendo, e continua ad arrivare tardi a tavola, ad andare a letto coi calzini e le mutande per risparmiare tempo la mattina, a tagliare l’erba davanti a casa solo se ha urgente bisogno di soldi per comprarsi qualche complicatissima valvola. Una volta era per me fonte di costante preoccupazione. Se fosse stato un genio, mi sarei sentita intimidita. Se fosse stato un po’ tardo gli avrei dimostrato la mia comprensione. Ma il fatto che non fosse ne l’uno ne l’altro riusciva solo a confondermi, lasciarmi perplessa e mettere la mia pazienza a dura prova. Ero piena di trepidazione per l’avvenire di questo bambino,
che non solo sembrava aver scarso contatto con la realtà, ma addirittura col terreno dove posava i piedi. Con la sua testardaggine e l’insaziabile curiosità, avrebbe percorso i sentieri della grandezza e della fama, come Michelangelo o Winston Churchill? Mi sforzavo di crederlo. Oppure avrebbe trovato la sua fetta di felicità vagando con la testa tra le nuvole, vivendo di entusiasmo, fantasia e filosofia del carpe diem? Poi un giorno lo vidi descritto con chiarezza in un brano di Henry David Thoreau. Diceva: «Se un uomo non riesce a stare al passo coi suoi simili, significa forse che sente una musica diversa. Lasciate che segua la musica che sente». Smisi di suonare la mia musichetta conformista e tentai di captare la sua. La sua andatura era un po’ più rilassata, le priorità del suo programma un po’ diverse. Per esempio, guardare uno schiacciasassi che attraversava la strada aveva la precedenza sul bagno da fare. Finire di fabbricarsi un paio di trampoli aveva la precedenza sulla cena. La scoperta di una covata di pettirossi in giardino era più importante della pagina di storia su Colombo che scopriva l’America. Non mi ero resa conto di quanto fossi ormai sintonizzata sulla sua musica fino all’altro giorno. Stavo parlando con la donna che avrebbe dovuto venire a tenere i bambini per qualche giorno, mentre io andavo fuori città con mio marito. Mentre parlavamo, entrò il piccolo anticonformista. Ora, se fosse stato un bambino normale, avrebbe avuto in mano un bicchier d’acqua. Dato che invece era diverso, portava un bicchiere alto e stretto con due cubetti di ghiaccio, la ciliegina e una fettina d’arancia. Credete che mi lasciassi prendere dal panico? Niente affatto. Respirai forte, sorrisi alla donna orripilata e dissi «Ho deciso di non far più una tragedia, di cosette del genere». Al che lei rispose ansimando: «Vuol dire che per lei un
bambino di sei anni che comincia a bere alle due del pomeriggio è una cosa da niente?» e scappò via come un razzo. Be’, non sarebbe rimasta più di un giorno, comunque, in una casa come la nostra.
L’uomo e la sua macchina Svegliai mio marito da un sonno profondo. «Di nuovo quell’incubo», dissi. Lui sbadigliò: «Quale incubo?» «Quello della First Lady che bussa alla nostra porta e ci chiede di sbarazzarci di quelle macchine scalcinate che teniamo nel viale.» «Ma le hai detto che le usiamo ancora?» chiede lui assonnato. «Sì. E lei ha fatto una faccia preoccupata e ha detto che dovremmo chiedere aiuto alla pubblica assistenza. Ha detto anche che quei mucchi di rottami davanti alla casa hanno inferto un duro colpo al suo programma ‘Fate bella l’America’ e che, non importa quali siano le nostre idee politiche, dovremmo amare il nostro Paese. Poi è svanita.» «Mi sembra una buona idea.» «Svegliati. Dobbiamo parlare di quelle macchine. Sono un pugno nell’occhio. Dovremmo cambiarne almeno una, e credo proprio che debba essere la tua.» «Sciocchezze», brontolò lui. «Ho passato un intero sabato a ritoccare le macchie di ruggine con la vernice nera.» «Su un fondo grigio topo, difficile non vederle», replicai. «Ha un’aria così chiassosa, con tutti quegli adesivi sul lunotto posteriore, BENVENUTI A ROCK CITY, ATTENZIONE BIMBO A BORDO... perché non togli almeno quello? il bimbo ha sedici anni.» «Se tolgo qualcosa il lunotto va in pezzi.» Sbadigliò di nuovo. «Credo che sia stato quel tubo di scappamento tutto arrugginito, a dare nell’occhio. Potremmo almeno riattaccarlo con un po’ di fil di ferro.»
«OK, domani prendi un po’ di quel filo che tiene su le maniglie di casa e usalo per il tubo di scappamento. Puoi anche rinforzare le pedane, se vuoi.» «Sì, e credo che darò una lucidata alle cromature intorno ai fare e cambierò le lampadine. Dovrebbe avere un aspetto più decente, dopo.» «Bene, già che ci sei, perché non fai qualcosa anche per la tua, di macchina? Non è quel che si dice un modello da Grand Prix, sai?» «Be’, ci passano venti o trenta bambini la settimana, in quella macchina. Che cosa ti aspetti?» «Non so. Quello che so invece è che la compagnia di assicurazione si è rifiutata di rinnovare la polizza. Hanno risposto alla nostra richiesta con una lettera cortese ma ferma, e ci hanno mandato in omaggio una cassetta del pronto soccorso. Le molle dei sedili sono in uno stato tale che se non ci fossero le cinture di sicurezza bisognerebbe guidare seduti sul tetto. Lo sportello del cruscotto non c’è più, i finestrini posteriori non vanno né su né giù e per accendere la radio ci vogliono le pinze. E si può sapere chi ha avuto la buona idea di scrivere sulla portiera ‘Non toccare! Chiunque voglia aprire la portiera lo farà a proprio rischio e pericolo’? Sai, la cosa migliore che potremmo fare per la First Lady sarebbe nasconderle tutt’e due dietro una staccionata.» «È proprio quello che ci ha suggerito lei», dissi io con calma. «Allora è deciso», sospirò lui, tirando su le coperte. «Adesso ti dispiace spegnere la luce e lasciarmi dormire?» Lo ignorai e frugai nello scaffale dietro il letto alla ricerca di un libro che mi aiutasse a riprender sonno. Ne scelsi uno che mi sembrava particolarmente adatto all’occasione. Era uno di quei libri pieni di statistiche risultanti dalle inchieste promosse
da industrie e istituti di ricerca per scoprire quali sono le motivazioni che spingono le persone ad acquistare le cose che acquistano. Per esempio, venni a sapere che la gente compera i congelatori perché è emotivamente insicura e ha bisogno di avere in casa una maggior quantità di cibo di quello che riuscirebbe comunque a mangiare. Poi mi drizzai a sedere sul letto. Lì, davanti a me, c’era il capitolo che spiegava perché mai gli uomini comprano determinati tipi di macchine. Diceva che secondo i risultati dell’inchiesta bastava che i rivenditori mettessero in vetrina una decappottabile per avere capannelli di uomini dalla mattina alla sera. Poi compravano tutti berline. Perché mai? Gli psicologi studiarono il problema e arrivarono alla conclusione che le decappottabili erano il simbolo dell’amante. Erano vistose. Facevano sgranare gli occhi. Attiravano l’attenzione. Gli uomini le guardavano pieni di desiderio, sognavano un po’ a occhi aperti, sbavavano. Ma alla fine il buon senso e la ragione prevalevano: capivano che la decappottabile non era per loro, e comperavano la berlina. La berlina era il simbolo della moglie, la ragazza acqua e sapone, senza grilli per la testa, la madre dei loro figli. In confidenza, da una «berlina» all’altra, vi dire che la cosa mi infastidì. Specialmente quando cominciai a pensare alle donne... pardon, macchine, che mio marito si era scelto in passato. La nostra prima macchina, che lui ovviamente identificava con me, era, non c’è bisogno di dirlo, una berlina nera usata, bruttina, trascurata, con un finestrino rotto (dalla mia parte) e lo sportello del cruscotto che saltava via a ogni sussulto, più uno spiritosissimo adesivo sul paraurti che diceva: «Non baciatemi». Era un buon mezzo di trasporto, sicuro, nonostante alzasse
parecchio il gomito e non potesse passar davanti a una stazione di servizio senza fermarsi a buttar giù una bella sorsata da venti dollari. Era calda d’estate, fredda in inverno e asmatica in tutte le stagioni. La nostra prima macchina nuova, nel 1951, era una prova evidente che io con gli anni non ero cambiata affatto. Era dignitosa come un carro funebre... niente cromature, niente extra e niente sciocchezze. Credo che nessuna tigre degna di questo nome si sarebbe fatta beccare a infilarsi in quel motore nemmeno morta. Comperammo un’altra macchina nuova nel 1955. Solo il colore e la rateazione erano diversi. Saltai fuori del letto e andai a guardare dalla finestra. E se davvero gli uomini sceglievano le macchine come le mogli? Quella là fuori era una macchina con cui si poteva avere una relazione? Era una macchina da berretti sportivi e foulard di seta al vento? Che cos’era, un’amante, o una madre in calzoni e scarpe da tennis?
Sul viale c’era la nostra macchinetta straniera a buon mercato che vantava la stessa forma da anni. Quel pezzettino di cromatura rimasto sul paraurti era tutto arrugginito per via del sale sulle strade in inverno, e intorno al parabrezza c’era un asciugamano di carta perché si era rotto il termostato e il calore era intenso. il colore era grigio topo. Svegliai mio marito con uno scrollone. «Domani andiamo a comperare una macchina nuova. Voglio una macchina pazzesca, scomodissima.» «Sei matta?» grugnì lui ancora addormentato. «Ormai ci ho speso troppi soldi, in quel vecchio catorcio, per lasciarla andar via così. É perfetta, a parte il problema della carburazione. E poi è comodissima.» «Questa è una cosa tremenda, da dire a una donna», dissi io singhiozzando, e mi addormentai. Probabilmente ce l’avrei ancora quella squallida immagine di me stessa nel vialetto di casa, se non mi fossi fatta investire dal furgone della nettezza urbana. Come dissi a mio marito, riportandogli la macchina tutta intera tranne per il paraurti, i fari e il coperchio del baule: «É la fine, mio caro. Questa macchina è la vendetta di Hitler sull’America, dobbiamo comperarne un’altra. Non posso guidare una macchina con cui non riesco affatto a comunicare». «Te l’ho detto almeno cento volte», disse lui. «Questa macchina non capisce una parola d’inglese. Esegue solo ordini impartiti in tedesco.» «Ho provato anche col tedesco», dissi io. «Ho visto quel furgone della nettezza urbana far marcia indietro e le ho detto: ‘Das ist ein furgone della nettezza urbana, cretina, andiamocene di qua’.» «E cos’è successo?» «Non è successo niente. Sono rimasta lì come una scema
ad aspettare che il furgone ci venisse addosso. Ho cercato di suonare il clacson, ma ha fatto un pip, pip, come se si stesse scusando. Tra parentesi, mi si è rotto in mano. L’ho messo nel cassetto del cruscotto.» «E poi?» «Ho esaurito il mio tedesco, ecco cos’è successo. Il furgone non aveva ancora capito che ero là dietro e ha continuato a far retromarcia. Ho provato con tutte le parole di tedesco che sapevo: glockenspiel, pumpernickel, Marlene Dietrich. Ho perfino cantato due volte O Tannenbaum. É stato allora che mi è venuto addosso per la seconda volta. Non ci ho visto più Ho dato un gran colpo alle spie del cruscotto e ho detto: ‘Du bist ein mezza calzetta, ecco cosa sei. Un altro colpo di quel furgone e saremo pasta da Wurstel’. Proprio in quel momento l’autista del furgone è uscito fuori e ha detto, sorpreso: ‘Pensavo di aver urtato un terrapieno’. Immaginati la mia umiliazione!» «Non preoccuparti», disse mio marito, «credo che riusciremo a ripararla.» «Ripararla!» urlai. «Non oserai davvero farla riparare? Non dopo quello che mi ha fatto. Pensa ai vantaggi di una macchina grossa. Basta contorsioni per infilarsi nel sedile, come serpenti in un sacco a pelo. Basta occhialoni contro gli schizzi di fango nei giorni di pioggia. Basta massaggi ai piedi gelati mentre si cambia marcia. «Pensa che meraviglia sorpassare le macchine in salita. E guidare con le gambe stese in avanti, invece che in posizione fetale. Potremmo finalmente parlarle nella nostra lingua. Basta con tutti quegli ‘a proposito, com’è che dici quando vuoi che la macchina faccia marcia indietro?’» «Mutter, bitte», disse lui. «Che vuol dire?» dissi io con un gran sospiro.
«Ti prego, mammina!» «Capisco. Domani comperiamo una macchina nuova.» Non me n’ero mai accorta prima, ma dev’esserci un cordone ombelicale che lega l’uomo alla sua macchina. É uno dei rapporti più possessivi, protettivi e paterni che si possano immaginare. Uniti da trenta mesi di cambiali, i loro cuori battono all’unisono fino a quando la macchina viene mandata al mercato dell’usato e sostituita con un nuovo modello sul quale l’uomo riversa tutto il suo amore. Il libro aveva ragione, naturalmente. Mio marito scivolò al posto di guida della macchinetta sportiva in vetrina, insinuando il braccio sullo schienale con aria furtiva. Accarezzò il volante e il cruscotto con una tenerezza tutta speciale. (Mi sembrò anche di vederlo dare un pizzicotto alle frecce di segnalazione.) Poi fece un sospiro rassegnato, tornò verso il modello di serie esposto nel salone e disse: «Dobbiamo pensare anche ai bambini». Fui contenta di notare che la mia immagine aveva subito un considerevole miglioramento. La macchina aveva una radio che non ci metteva dieci minuti ad accendersi. Aveva un volante ubbidiente e freni pronti. E il colore era rosso scuro. (Mio marito mi fece notare che si intonava perfettamente alle mie vene varicose.) Poi, come al solito, esagerai. Una sera gli chiesi la macchina in prestito. Fu come se gli avessi chiesto in prestito la protesi dentaria. «Non c’è proprio un altro mezzo di trasporto, per arrivare al club del bridge?» mi chiese. «Si», dissi, «potrei rivestirmi le braccia di noccioline e sperare che uno stormo di piccioni mi porti in volo fin laggiù, ma non so come far loro capire l’indirizzo. Preferisco la macchina, devo confessare.»
Mi accompagnò con riluttanza alla porta. «Ce l’hai la patente? E le chiavi di scorta? Soldi? Testimoni?» Sorrisi. «Non voglio mica sposarla, la macchina, solo guidarla fino al club.» «Allora ti devo spiegare come ci si comporta con questo modello», cominciò a dirmi pazientemente. «Il motore è freddo. Certe macchine hanno bisogno di aria, all’avviamento. Questa no. Odia l’aria! Capito? Tutto quello che devi fare è tirare la levetta di un tratto infinitesimale, poi spingere l’acceleratore fino in fondo e lasciarlo andare un po’, poco. OK? Non troppo in fretta. Contemporaneamente giri la chiavetta e piano piano richiudi l’aria. Capito?» Se gli si concede un minimo di attenzione... se non si crolla subito addormentati, per esempio... si lancia anche in lunghi discorsi pieni di frasi sibilline: «Attenta a quel suo delicato bauletto... la massima attenzione al tergicristallo perché... se apri il finestrino fallo con delicatezza, come se stessi rimestando la panna montata...» Mi infilai al posto di guida e lui scagliò una freccia. «Non spingere, e ce la farai.» Spensi il motore. «Non spingere che cosa e ce la faro fino a dove?» «Non spingere l’acceleratore e ce la farai fino alla prossima stazione di servizio. L’indicatore dice che non c’è più benzina, ma io so che ce n’è abbastanza per arrivare alla pompa, specialmente se riesci a fare gli ultimi cento metri in folle. Oh, e se il motore si spegne, cerca di riaccenderlo piano, con delicatezza... e niente aria, mi raccomando.» L’uomo e la sua macchina... la ama e la protegge dal primo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, e se a quelli di Detroit venisse in mente di sfornare un modello capace di attaccare i bottoni e ridere alle barzellette idiote, ragazze, per noi sarebbe
finita!
Organizzazione, ragazze Il gioco si chiama «lavoriamo tutte insieme». Lo si gioca dal mese di settembre al mese di maggio: migliaia di donne che svolgono milioni di ore di lavoro volontario all’anno per decidere se mettere pomodori freschi o in scatola nella salsa degli spaghetti per la colazione mensile del club, o se e meglio dipingere di rosso o di viola le uova del pranzo di Pasqua dell’associazione genitori-insegnanti. Alcune donne si rendono perfettamente conto dell’eccesso di organizzazione, della tediosità dei particolari, dell’assurdità di tenere riunioni di tre ore e più, ma razionalizzano la volontà di partecipare sottolineando la giustezza della causa. Altre dimostrano subito una certa impazienza nei confronti delle socie attive ma confusionarie, dei monologhi noiosi e interminabili, e dell’atteggiamento generale, che si può riassumere nella frase: «Perché fare oggi quello di cui si può tranquillamente discutere per altre tre ore mercoledì prossimo?» Questo tipo di lavoro ha un effetto terapeutico su un sacco di donne, bisogna riconoscerlo. Le costringe a infilarsi la guaina e a uscire di casa per trovarsi con altre donne. Dà loro qualcosa a cui pensare oltre al problema degli avanzi da riciclare e delle macchie di pennarello da lavar via dalle camicie. Guardiamoci in faccia. Il governo non potrebbe mai permettersi di pagare i servizi forniti gratuitamente da questi gruppi di donne, nemmeno se desse fondo a tutto l’oro della
riserva. A me piacciono le donne che si dedicano a queste cose. Alcune delle mie migliori amiche fanno parte di un sacco di club. La settimana scorsa ne ho perfino invitata una a colazione. Alcune mi piacciono più di altre. Le organizzatrici dei trattenimenti, per esempio. Ho sempre avuto un debole per loro. Quelle di noi abituate a tener conferenze si sono dichiarate d’accordo nell’ammettere che queste organizzatrici meriterebbero un posto speciale in paradiso, dove splende sempre il sole, si smettono di contare gli anni dopo i trentatré, e si siede alla destra di Robert Redford. Di tutti gli incarichi, quello della donna che sceglie di scovare modi per intrattenere le socie del club per un anno intero è il più sottovalutato. Le capita anche, tra l’altro, di dover far bella figura con le vecchie colonne dell’organizzazione, che si fanno vive una volta all’anno, in occasione dell’anniversario della fondazione, e che sono di solito troppo orgogliose per mettersi l’apparecchio acustico in pubblico. («La conferenziera era una donnina deliziosa, ma sussurrava, praticamente.») costretta ad avere a che fare coi gruppetti di puritane, che trovano parecchio da ridire sul trattamento inflitto dalla conferenziera a La lettera scarlatta. («Quella donna! Incapace! Ha trattato la A della protagonista come un pezzo di bigiotteria!») Deve sbrigarsela con le nuove arrivate che fanno pressione perché si organizzi un gruppo di «degustazione di vini». («Se non ti dispiace, prima della riunione sulla distribuzione dei fondi, mia cara.») Mentre le socie del club e le responsabili delle altre attività passano un’estate tranquilla, la nostra eroina non riesce a dormire più di un paio d’ore per notte. Oh, sì, la presidente passa qualche serata ansiosa a rigirarsi nel letto, nel tentativo di decidere se farsi togliere l’appendice ai primi di settembre, per
passare la patata bollente alla vicepresidente. E in realtà la vicepresidente guarda con sospetto le manovre della presidente, incline a credere che quella vipera sia pronta a farsi ricoverare in ospedale piuttosto che adempiere alle sue funzioni come dovrebbe. La segretaria, d’altro canto, è in uno stato pietoso, dato che ha avuto occasione di partecipare soltanto a una riunione, prima di venire eletta. Poi c’è la responsabile della corrispondenza, che deve ancora rispondere alla lettera che le ha mandato sua madre tre anni prima per chiederle se pensava di far bene a iscriversi a uno di questi club. E c’è la tesoriera, completamente nevrotizzata, alla disperata ricerca di un modo per convincere suo marito a darle una mano col bilancio. Ma la nostra eroina no. Lei mercanteggia imperterrita col direttore di un grande magazzino per convincerlo a organizzare una sfilata di moda per donne coi fianchi larghi. Tempesta di telefonate la presidente sulla linea rossa al grido di: «La First Lady non ci sta, per venti dollari... devo provare con Mrs. Bush?» Combatte la battaglia dei personaggi in vacanza, dei numeri di telefono assenti dall’elenco e delle conferenziere che non vogliono prendere impegni a lunga scadenza. E probabilmente si vede già protagonista di una scena tipo quella a cui ho assistito recentemente, con la nostra eroina che dice: «Liz, non ti vedo a una delle nostre riunioni da un bel po’. Sono certa che oggi e stato il richiamo della nostra conferenziera, Mrs. Bombeck, a farti decidere». Al che Liz replica in tono seccato: «Bombeck! Signore Iddio, credevo avessero detto Steinbeck!» Un’altra di queste donne con cui mi sento molto solidale è l’organizzatrice a tempo indeterminato delle feste di beneficenza. Una donnina dolce, del tutto incapace di dire no. Trascinata dalle adulazioni, spinta da un rigurgito di fiducia in
se stessa, si e imbarcata in un mare di torte fatte in casa e ceramiche dipinte a mano. So di cosa sto parlando. Parecchi anni fa ci son cascata anch’io. Il dottore sostiene che tra breve riuscirò ancora a sentire lo squillo del telefono senza perdere la testa. Vorrei esserne sicura anch’io. Una delle prime cose che l’organizzatrice della fiera di beneficenza deve arrivare a capire è dove siano finite tutte quelle donne che solo una settimana prima le giravano intorno in cerchio, tenendosi per mano e cantando «Perché è una brava ragazza...» a gola spiegata. Le loro offerte generose: «Io metterò trenta barattoli della mia famosa gelatina di ribes» e «Alla lotteria ci penso io», si sono trasformate in frasi tipo: «Vuoi scherzare? Quest’anno il ribes non è nemmeno maturato» e «Tesoro, lo sai che non riuscirei a vendere ghiaccio nel deserto, figurati i biglietti della lotteria». Presa dalla disperazione, la poveretta finirà col trasformarsi nella classica pupa del gangster, pronta a tutto pur di procurarsi delle aiutanti. Mi è capitato di sentire, dietro la macchinetta del caffè, conversazioni da far rizzare i capelli. «Va bene, Eloisa, tu rifiuta di occuparti della fiera di beneficenza e io racconterò a tutti che te la fai col dentista del bambino. Guarda che non sto bluffando. E sul fatto che la lotteria sia stata data in appalto a Jeannie Crabitz non si discute. É una questione tra me e lei.» Anche la famiglia della disgraziata risente pesantemente dell’incarico. Richieste lamentose tipo «papà, quando viene a trovarci, la mamma?» ottengono spesso risposte acide, tipo «dovrebbe farsi viva mercoledì sera, per scongelare i pranzi per il resto della settimana». Con l’avvicinarsi della fiera, la febbre sale, mentre la casa va assumendo tutte le caratteristiche fisiche del rinnovamento
urbano. «Non riesco a dormire», protesta il marito, barcollando, sulla porta del soggiorno. «Ho il letto pieno di bocchini di plastica e ghirlande hawaiane.» «Be’, ficca tutto nell’armadio», risponde stancamente lei. «Cosa?» sibila lui. «E quei poveri pesci rossi là dentro, sopra i barboncini di peluche e i ventagli giapponesi?» Gli ultimi due giorni sono i più selvaggi. I premi della lotteria sono stati spediti per sbaglio in un altro stato... il comitato della cucina si dimette in massa e le cuoche decidono di rivolgersi la parola solo la domenica in chiesa... ci sono forti probabilità che Babbo Natale non riesca a rimettersi dalla sbornia in tempo per far felici i bambini. Ogni telefonata è un trauma: «Insiste per offrire un pullover di angora taglia 54, e io mi rifiuto di tenerlo nel mio stand»... «I miei cetrioli sott’aceto sono stati richiesti dallo stand delle Specialità campagnole, quindi se adesso li vogliono anche in cucina che si mettano in fila»... «Niente gare di pingpong per i bambini. L’anno scorso mi sono beccata quarantotto palline in mezzo alla fronte e ho avuto l’emicrania per una settimana.» Ripulito il pavimento della palestra dalle ultime tracce di pop-corn, restituiti gli ultimi servizi di bicchieri decimati, spedito il pullover taglia 54 ai missionari, qualche disgraziata novellina non trova di meglio da fare che esclamare in completa buona fede: «É stata una fiera bellissima». Ancora non lo sa, la povera innocente, ma di lì a un anno toccherà a lei, l’ambito incarico di organizzatrice. Uno dei club più zelanti che conosco è quello delle Donne Giardiniere. Non riescono a capire che alcune di noi nascono con l’istinto di piantare i bulbi dei gladioli alla rovescia. Altre si sono rassegnate a una vita senza letame e innaffiatoio. Moltissime sono convinte che il pollice verde è una malattia
della pelle. Non fraintendetemi. Io nutro il massimo rispetto per le Donne Giardiniere. Specialmente dopo quello che è capitato a me e a mia madre un Natale. Avevamo deciso di procurarci da noi le decorazioni floreali, non potevamo credere che ci volesse tutta questa abilità per infilare qualche ramo secco in un vaso!
«Ehi, sono sicura che ci hanno preso per due campagnole appena arrivate in città a vendere le uova», disse la mamma. «Pensa un po’. Sette dollari e novantacinque per un rametto di vischio, un paio di pigne secche e qualche bacca di agrifoglio. Con quarantanove cent di vernice dorata, possiamo farne una carrettata, di questa roba.» Forse fu il miraggio di quella carrettata di decorazioni a convincerci a metterci al lavoro. O forse, ripensandoci, può darsi che uno dei ragazzi avesse lasciato aperto il tubetto della colla e noi ne avessimo inalata tanta da farci sballare. Comunque, il fine settimana seguente, io e la mamma ci incamminammo per i boschi come Hansel e Gretel.
Scoprimmo che le code di gatto crescevano soltanto nelle paludi dove la melma arrivava alle ginocchia. I rami con le foglie secche più belle erano sempre in cima agli alberi. Per non parlare del vischio, raggiungibile solo con l’elicottero. Potemmo anche renderci conto di persona del fatto sorprendente che le bacche dell’agrifoglio spuntano solo in mezzo al cespuglio. Non ho intenzione di umiliare mia madre raccontando del triste spettacolo che diede mettendosi a urlare istericamente in mezzo a un groviglio di rovi, con una biscia che le strisciava sulle scarpe da tennis e un mazzetto di comuni foglie secche stretto al petto. (Basti dire che la sentii urlare, con gli occhi alzati al cielo: «Ti prego, Signore! Se mi aiuti a uscir viva di qui, comprerò anche il tacchino, dorato e già pronto!») Credo che i risultati della nostra piccola escursione possano essere illustrati con maggiore chiarezza dalla seguente tabella delle spese che fummo costrette a sostenere per non farci taglieggiare dai negozi dei fiorai. Spese 1 barattolo di vernice dorata $ 1 barattolo di vernice argentata $ 5 litri di solvente (usato per togliere le macchie di vernice dal pavimento della veranda) $ 1.25 1 rivestimento per tavola da stiro (nota per i dilettanti: mettere le foglie tra i fogli di carta oleata, prima di passarci sopra il ferro da stiro) $ 1 paio di scarpe da ginnastica $ 1 maglione (abbandonato vicino alla tana delle bisce) $
0.69 0.69
2.00 4.00 5.95
Lavatura e pulitura interno macchina Parcella medica (per morso di biscia non velenosa) Medicine (idem) Multa per ritardata restituzione alla biblioteca del libro Fiori secchi: guadagno e divertimento Sedute psichiatriche TOTALE
$
2.00
$ $
5.00 3.57
$ 0.62 $ 500.00 $ 525.77
Non è che io mi rifiuti di apprezzare il talento delle Giardiniere, é solo che insistono per convertire tutte le amiche al loro credo. Ce n’è una in particolare che non mi lascia mai in pace. Non fa che staccare le foglie morte dalle piante che tengo in casa, e tasta continuamente la terra nei vasi, per vedere se mi ricordo di innaffiarle. Mi rende nervosa. «Che cos’è successo al rampicante che ti ho regalato per il tuo compleanno?» mi ha chiesto l’altro giorno. «Si è arrampicato sotto terra per sbaglio ed è morto», ho risposto. «Te l’ho detto mille volte», ha sospirato lei, «che le piante sono come persone, come bambini. Bisogna dar loro un po’ d’acqua, un po’ d’amore e molta comprensione. Questa si che è bella verde! Che cos’è?» «Una cipolla che ho dimenticato lì nove settimane fa. É marcita, ma ha fatto tutti quei bei germogli verdi.» «Sei tremenda. Davvero», ha borbottato. «Dovresti iscriverti al club delle Donne Giardiniere. Così potresti avere uno scambio di idee con le altre socie.» «Appartengo già a un club. Si chiama Appassisci e muori», replicai. «Appassisci e muori?» disse, spalancando gli occhi. «Non
credo di averne mai sentito parlare.» «Siamo un gruppo di donne respinte dal club delle Giardiniere... ci raduniamo il primo lunedì del mese... e rispondiamo all’appello illustrando l’ultimo fallimento in fatto di giardinaggio.» «Mi stai prendendo in giro.» «Niente affatto. Non è facile entrare a far parte del club. Una delle ragazze c’è riuscita piantando girasoli alti due metri nei vasetti sul davanzale della cucina, al posto dei gerani. Un’altra ha fatto un’aiuola di fiori di plastica... in inverno. Io chiamo tutti i fiori Semper Fidelis. É la sola frase di latino che so. Sono una delle socie più stimate.» «Incredibile. Non ho mai sentito parlare di questo club.» «Ci divertiamo un mondo. All’ultima riunione Maybelle Begonia ci ha fatto vedere una serie di diapositive del suo giardino. Brullo come Cape Kennedy. Chi riusciva a vederci un’erbaccia si beccava un premio. Vuoi sentire il nostro slogan?» «No, grazie», disse lei, fingendo di sentirsi male. «Sempre unite, dalla futilità alla fertilità.» «Oh cielo. Devo proprio andare. Come va la vite americana?» Sorrisi. «Ha dato un vino delizioso.» Ah, i club... il rifugio della casalinga in cerca di alternative ai panini di burro e marmellata e al balbettio dei bambini. Se vi infastidisce l’idea di tutte quelle capacita manageriali nascoste e sprecate, non per apatia, ma perché le donne non sono disposte a pagare il prezzo della noia, potreste cercare di attirarle alle vostre riunioni più facilmente di quanto pensiate. Basterebbe: 1. Scegliere la presidente perché ha stoffa, non perché possiede l’insalatiera più grossa e un sacco di sedie pieghevoli.
2. Impedire alle nonne e alle neo-mamme di portare alle riunioni lampo i bambini. (Perquisite borse, reggiseni, guaine e ombrelli.) 3. Lasciate perdere la democrazia. Usate il regolamento interno della General Motors, altrimenti i vostri bambini moriranno di fame in attesa del vostro ritorno. 4. Quando vedete troppe caviglie gonfie e mani arrossate dal manico delle borsette, aggiornate la riunione. 5. Organizzate riunioni brevi e intense, e cercate di concludere. Non mi sorprenderebbe che tutte le donne intelligenti abboccassero come pesci!
Antiquariato e anticaglie Quando io e mio marito arriviamo a una fiera dell’antiquariato, si sente un gran scalpiccio di piedi e i mercanti si sussurrano l’un l’altro: «Avanti, Ted, ficca un geranio in quel vasetto della senape. Abbiamo un paio di acquirenti». In parte la colpa di tutto questo è nostra. Ci mettiamo lì a bocca aperta, con gli occhi di fuori, coi mazzetti di dollari in mano come se fossimo appena arrivati in città a comprare il fertilizzante. Almeno una volta mi è capitato di precipitarmi su un grosso oggetto di metallo urlando: «Che cos’è? Una lampada art déco?» «No», rispondeva qualcuno pazientemente, «è una fontanella dell’acqua del 1970.» Ci siamo imposti un regolamento. Se si tratta di un oggetto sul quale si può dormire, dentro il quale si possono piantare fiori, col quale si può giocare, se è incorniciabile, mangiabile,
suonabile, discutibile, noi lo compriamo. Poi esiste una categoria di oggetti che speriamo possano venir buoni in futuro. Per esempio: un angelo di gesso senza un piede, una lavatrice giocattolo con la manovella, uno scalpello per incidere le lapidi tombali, una collezione di bottoni con le scritte più svariate per la campagna elettorale. Un’estate, nel Maine, comperammo una scacchiera ammuffita per due dollari. Restò nel garage, appesa a un chiodo, a perseguitarci come la cattiva coscienza, per ben due anni, prima che mio marito si decidesse a tirarla giù, dipingerla di un bel rosso vivo, montarla su una piattaforma rotante e battezzarla «vassoio girevole». «Questo oggetto rivoluzionerà il nostro modo di mangiare», disse. «Niente più svenimenti e languori in attesa che i bambini si decidano a passare il piatto. Niente più ferite da coltello o forchetta. Niente più inutili conversazioni alla tavola della cena.» Mise il vassoio sul tavolo, ci sistemò sopra le varie portate e lo fece girare. Sembrava una roulette grassoccia. «il successo di questo aggeggio», continuo, «si può riassumere in due parole: state all’erta. Quando il vassoio si fermerà davanti al vostro piatto, prendete il cibo che vi trovate di fronte. Avete otto secondi per infilzare o scodellare il cibo e mettervelo nel piatto. Non verranno concesse dilazioni. Io fischierò, e il vassoio ricomincerà a girare. In questo modo avremo tutti il piatto pieno di cibo caldo e pronto da mangiare in circa trentotto secondi, calcolando gli errori. Capito bene?» Avevamo capito. La prima sera le varie portate non erano state disposte nell’ordine giusto e così mangiammo spaghetti sopra il sugo e fragole sotto la torta. Mio marito promise che avrebbe rimediato a quell’inconveniente la sera successiva. Poi ci fu il problema delle sporgenze. Cioè, un piatto troppo grande, o un bricco col manico, o anche una patata fritta troppo grossa, andavano inevitabilmente a urtare contro i bicchieri e le
bottiglie, rallentando il movimento del vassoio e ritardando la cena di almeno cinque secondi rispetto all’orario programmato. Bisognava ricominciare da capo. «Va bene, gente, ho notato che questa volta c’è stata un po’ di confusione. I colpevoli sanno chi sono. Ora, tutti insieme, spostate i vostri bicchieri. Uno, due, tre, via!» Dopo un paio di settimane cominciai a notare un cambiamento drastico. Pesavo un paio di chili di meno e il movimento rotatorio del vassoio mi ipnotizzava per parecchi minuti, favorendo ogni sorta di imprese proibite dei bambini. Feci quello che avrebbe fatto mia madre... rubai il fischietto a mio marito! Altri acquisti si rivelarono più o meno utili quanto la scacchiera. Una stupenda seggiolina a dondolo del 1890 crollò addosso al piccolo quando tentò di sedercisi sopra, e da allora viene evitata da tutta la famiglia come una puntura di penicillina. L’organo che avrebbe dovuto fornire l’occasione di stare insieme alla famiglia causò invece notevoli disaccordi in seno alla medesima. Ma come dire una cosa del genere a un poveretto che ha perduto due amici e acquistato un’ernia del disco trasportandolo in corridoio? Aggiungete un conto di centoquaranta dollari per la sostituzione delle canne e per impedire ai mantici di diventare asmatici del tutto, e vedrete che vi passerà la voglia di fare del sentimento. «E dove lo mettiamo?» chiesi. «Pensa un po’», rispose lui, «una ciotola di pop-corn, un cestino di mele sugose e noi tutti a braccetto a cantare Oh Susanna. Non ti vengono i brividi?» «Ho detto: ‘Dove lo mettiamo?’» «Ricordo ancora qualche strofa di Quel mazzolin di fiori.
Se prometti di non declamare a voce troppo alta ti lascerò recitare qualche poesia sullo sfondo, la domenica.» «Non possiamo tenerlo in corridoio. Ce l’ho sul piede.» «E pensa ai matrimoni», divagò lui. «Pensaci. Vasi di... come si chiamano quei fiori delle spose?» «Fiori d’arancio. E levami questo coso dal piede.»
L’organo, con le volute, i pannelli decorati, i pedali rivestiti e i candelabri venne battezzato «Il mucchio» e sistemato in salotto. Il suo soggiorno in casa nostra fu piuttosto breve. Gli ospiti cominciarono a dire che tra l’organo, le candele e i fiori si sentivano vagamente a disagio. (Il fatto che l’unica canzone che mio marito ricordasse fosse Oh Susanna non fu certo d’aiuto.) «il mucchio» venne confinato nella nostra camera da letto. Diventò il tabernacolo vivente dei conti da pagare, delle lettere inevase, delle cravatte da smacchiare, delle vecchie carte stradali, delle chiavi di scorta della macchina e degli spiccioli con cui ormai non si comprava più
niente. Ogni tanto io e mio marito andavamo a sbatterci contro, con conseguenze disastrose per i nostri stinchi. Fu così che decidemmo di spostarlo nella stanza della TV. Ci restò due giorni. Un urlo di protesta si alzo dai giovani telespettatori ammassati nella stanza, costretti a leggere le labbra degli attori per capire qualcosa tra il frastuono dei pedali e l’ansimare dei mantici. «Il mucchio» fini sulla veranda, dove sviluppò un fischio al mantice dovuto all’umidità. Finì i suoi giorni in cucina. Il nostro è un problema doppio. Servire cinque persone sedute intorno a un organo, e vivere nel costante terrore di uno spontaneo levarsi del coro di Oh Susanna. Francamente, è quasi impossibile instillare nei bambini un minimo di rispetto per i mobili antichi. Gli urli tipo «via i piedi da quel tavolino! Non ce la fa più a reggersi!» o «non sedetevi su quella cassapanca. Sta andando in pezzi!» li lasciano confusi a borbottare: «Dev’esser diventata pazza!» Nei mercatini, la domenica, fanno osservazioni sarcastiche su «questa robaccia», e finiscono col comprarsi un sacchetto di vecchie stringhe di liquirizia che poi mi sputano in mano disgustati. Quelli di noi che non hanno una bisnonna con una soffitta ben fornita o un accordo speciale con un mercante che legge tutti gli annunci mortuari, sono costretti a procurarsi i pezzi di antiquariato nel modo più problematico, e cioè nei negozi dei rigattieri. La mia simpatia per i rigattieri risale a un periodo anteriore a quello della mia passione per i mobili antichi. Da bambina abitavo a pochi isolati da un negozio dell’usato. Era fuori della zona residenziale di lusso e vi vigeva la legge del più forte. Io riuscivo a setacciarlo in quindici minuti a piedi nudi, senza trascurare nessuna sedia di vimini sfondata, nessun vecchio
barattolo, nessun paralume macchiato. Quando mi sposai mi sembrò logico comperarci i mobili per la mia nuova casa. Naturalmente, non tutti i negozi dell’usato esercitano su di me la stessa attrazione. Di certo non quelli snob. Con l’esperto e tutto. Non sono affatto divertenti. L’esperto vive in un capanno e passa le giornate a pulire e ammucchiare vecchi mattoni, a sistemare nelle scatole vecchi strumenti per sapere dove trovarli, a catalogare a modo suo gli altri oggetti e a leggere Casabella. Di solito vi viene incontro alla macchina e vi saluta con un allegro «in che cosa posso servirla?» Quando voi dite «volevo solo dare un’occhiata», vi segue dappertutto alitandovi sul collo, facendovi notare che quella vecchia cucina economica potrebbe diventare un ottimo pezzo d’arredamento, con qualche pianta verde infilata nel forno, oppure spiegandovi che la gabbietta di bambù che vi fa impazzire era di proprietà di un uccello di Chicago che dormiva moltissimo. Comunque io continuo imperterrita a cucire le trapunte patchwork da lasciare in eredità ai miei figli, nelle calde giornate d’estate, e a far collezione di vecchi spilloni da cappello. Hanno un’aria micidiale, ma sono fantastici per scassinare la serratura del bagno quando qualcuno resta chiuso dentro. Come faranno i miei figli a dividersi tutti questi tesori alla mia morte, è un problema che non mi riguarda.
Palle e palloni La notizia che durante questa stagione le reti televisive trasmetteranno un numero record di partite di football ha
causato tra le casalinghe della nazione reazioni piuttosto violente. Alcune donne del quartiere residenziale di Pascoli Silenziosi, nel Connecticut, hanno infranto gli schermi televisivi col manico della scopa. Un gruppo di casalinghe della California ha attirato l’attenzione dell’intero paese con i suoi «Drive-in psichiatrici» aperti ventiquattro ore su ventiquattro. Lo sforzo più notevole è stato compiuto da un gruppo di donne della Virginia, che hanno infranto le finestre della First Lady con un pallone, a cui era attaccato un biglietto che diceva semplicemente: «Le piacerebbe che sua figlia passasse il fine settimana con uno di questi?» Ho avuto un breve scambio di idee con un gruppo di donne dell’Ohio. «Non sono le parecchie centinaia di partite a livello nazionale, il bersaglio della nostra protesta», ha detto la portavoce. «Quello è solo l’inizio. Aggiungeteci le partite locali, quelle dello stato, e vedrete che non ne verranno trasmesse meno di dieci o dodici ogni fine settimana. Questo significa più o meno un marito sprofondato in poltrona, simile a una spugna usata, circondato da tappi di bottiglia.» Il cielo sa se gli uomini sono tra gli esemplari più loquaci della specie. Ho appena letto alcune statistiche che sostengono che l’americano medio non pronuncia più di sei parole al giorno, in casa. Non solo, l’unica speranza di aumentare il numero di parole pronunciate da queste centinaia di migliaia di estroversi sarebbe un accurato massaggio quotidiano ai muscoli della laringe. Anche prima o dopo la stagione del football, l’uomo medio affronta il ritorno a casa la sera con il distacco di un piazzista. Mette la macchina in garage, controlla che la caldaia funzioni nella speranza di trovare un lavoretto per passare la serata, si cambia, mangia, e si ritira nel soggiorno, dove si mette a
leggere il giornale e a schiacciare i pulsanti del televisore in media ogni otto secondi. Rimane in uno stato di totale apatia fino a quando il rumore del suo respiro difficoltoso pone fine a un’altra magica serata. Il livello di frustrazione delle donne che vorrebbero scambiare quattro parole con qualcuno che non abbia problemi di dentizione è estremo. Alcune accettano le serate silenziose e ne fanno un modo di vita, altre cercano disperatamente di cambiare le cose. Una donna tentò di scusarsi alla tavola della cena per il comportamento dei bambini... che stavano facendo una danza di guerra Sioux sulla purè sparsa per terra. Il marito alzò di colpo gli occhi dal piatto, lancio un’occhiata ai bambini e strillò: «Vuoi dire che sono tutti nostri?» (Sei parole.) Uno dei tentativi più deludenti per cominciare una conversazione consiste nella frase: «Hai passato una buona giornata, caro?» Un marito di mia conoscenza reagiva sempre dando un calcio al cane, un altro diventava pallido e non riusciva a formare le parole, un altro ancora strappava a metà la cravatta coi denti. Poi c’erano quelli che guardavano fisso davanti a se come se non avessero sentito la domanda. Soltanto uno, stando a quello che mi hanno riferito, forme una risposta verbale. Era questa: «Sta’ zitta, Clara». Ci sono donne che ne studiano di tutti i colori per provocare una reazione verbale. MOGLIE: Sai che cosa c’è per cena? Coda alla vaccinara con cime di rape, crocchette di cipolle in salsa bianca e un uccello del paradiso cotto nel grasso di pavone. MARITO: Ho mangiato le stesse cose a colazione. (Sette parole!) MOGLIE: C’è un altro, Lester. Parliamone con calma, da
persone civili. MARITO: Aspetta che finisca Carosello. (Quattro parole.) MOGLIE: La settimana scorsa mi sono rotta una gamba, Mark. Aspettavo che te ne accorgessi. Vedi come sono diventata brava, con le grucce? MARITO: Allora vai a prendermi un po’ di pane. (Otto parole, ma era un po’ distratto.) «Quando comincia la stagione del football le cose vanno molto peggio», disse una biondina. «Mio marito si siede davanti al televisore alle otto del venerdì e non si muove per tutto il fine settimana. Non distoglie mai lo sguardo. Io gli dico ‘vuoi mangiare, Ed?’ e lui niente, non risponde. Gli dico ‘vieni a letto, Ed?’ e lui niente, non risponde. L’altra sera gli ho detto ‘c’è qui quella tizia che vuol comprare i bambini, Ed’. Non ha fatto una piega. Finalmente gli ho tastato il polso. Era lentissimo.» «Lo so cosa vuoi dire, tesoro», disse una brunetta. «Il mio Fred mi dice: ‘Abbiamo bisogno di un televisore a colori. Quest’anno trasmetteranno ottantatre partite a colori’. E io gli dico: ‘Se ti va di vedere tutto quel sangue rosso e quei lividi blu, fai pure. A me gli uomini piacciono con tutti i denti a posto’. Si arrabbia davvero. Ascolta la partita della scuola locale alla radiolina, segue la partita dello stato con un occhio e la nazionale con l’altro e urla: ‘Fai star zitti quei bambini!’ Noi non abbiamo bambini.» «E se vi passa per la testa di imitarli, lasciate perdere!» disse un’altra voce. «Io seguivo sempre le partite, all’università, e mi piaceva molto. Ma la TV rovina tutto. Prima le sintesi delle partite più importanti della settimana prima. Poi le previsioni per quelle della settimana dopo. Quando finalmente
comincia la partita, bisogna vederla prima in ripresa diretta, poi al rallentatore, alla moviola e in replay. Dopodiché si passa a un’altra rete per vedere se le riprese sono migliori. Durante l’intervallo c’e il commento della prima parte, seguito da interviste a una serie di personaggi che hanno un sacco di cose da dire sul gioco della prima parte e altrettante previsioni da fare sulla seconda. Alla fine, ci godiamo il riassunto del commentatore, illustrato da spezzoni di riprese, e quindici minuti buoni di risultati di tutte le partite a livello locale, statale e nazionale.» «E allora che cosa si può fare?» chiese qualcuna. «Dobbiamo organizzare una rappresaglia», disse la sposina schioccando le dita, come colta da un’improvvisa ispirazione. «Ecco cosa faremo. Obbligheremo la rete televisiva a trasmettere Peyton Place mezz’ora prima. Esigeremo il riassunto, illustrato da brevi sequenze, dell’episodio del giorno precedente, seguito da un’anticipazione delle vicende del successivo. Poi un’intervista al vecchio Peyton e al nipote, tanto per dare un po’ di succo alla trasmissione. «Durante l’episodio, verranno trasmesse al rallentatore le scene salienti, alla moviola quelle piccanti e in replay le scene violente. Dopodiché via a un’altra intervista, fatta da una commentatrice in deshabillé. Durante l’intervallo qualche sequenza della prima parte con un commento che spieghi anche che cosa potrebbe succedere nella seconda. «Alla fine dell’episodio, un commentatore maschio riassumerà in breve tutti i matrimoni, i divorzi, gli interventi chirurgici e le avventure mondane dei vari personaggi.» «Vedrete che funzionerà», disse una brunetta tranquilla. «Sono così disperata che ho incominciato a parlare coi miei figli.»
3 novembre – 1 gennaio L’olandesina
Mi succede sempre, a novembre. Non so perché. Vengo presa da un attacco di domesticite. Grave. Non mi par vero di girare in grembiulino bianco inamidato, fare il pane in casa, stirare le lenzuola e farmi il sapone da me. Passerei il tempo a battere i materassi, a rammendare gli stracci della polvere, a dar la cera al vialetto di casa e a far conserve di tutti i tipi. Spolvero forsennatamente il tavolino del salotto e ci metto sopra un bel vaso di fiori e tutte le copie di Vogue e Bazaar che riesco a trovare intatte. In breve, faccio schifo. L’ho definita la «sindrome dell’olandesina». L’attacco non dura mai più di due giorni. Poi riesco appena a ricordare quello che ho fatto e perché. Tutto quello che so, è che di solito, quando torno in me, sono seduta davanti ai fornelli a mescolare zuppa di tartaruga e a leggere «Come togliere la cacca di piccione dalle corde per la biancheria». Quasi sempre mi chiedo dove sono. L’attacco del novembre scorso ha avuto una serie di effetti sconcertanti. Quando tornai all’abituale stato di disordine e sporcizia, scoprii che avevo cambiato la disposizione dei mobili in tutte le stanze, che ormai sembravano altrettante stazioni degli autobus. Incurante dei consigli degli esperti, avevo lavato le fodere delle poltrone nella lavatrice. Sembravano fatte su misura per il salotto di Barbie. Scoprii di essere andata in città e di essere tornata con venti metri di velluto rosso per fare copriletti. Dio sa che cos’altro avrei comprato, se avessi posseduto una macchina da cucire. Mi raccontarono che avevo radunato la famiglia, avevo messo tutti in fila sul prato e avevo insistito per dare inizio alle operazioni di concimazione con un leggero anticipo sulla primavera. Poi avevo costretto i bambini piccoli a battere i tappeti. Mai vista tanta schifosa efficienza in vita mia. I mobili brillavano, le finestre scintillavano. Avevo perfino tolto le
graffette dal barattolo del tè per riempirlo di tè. Ho parlato con le altre donne di questo strano fenomeno, e tutte mi hanno assicurato che si tratta di una cosa normale. Il desiderio di ordine viene risvegliato dall’arrivo dell’aria fredda, viene aumentato dall’attesa delle vacanze di Natale, e viene incentivato da un gigantesco senso di colpa dovuto al fatto che coi bambini a scuola ci si sente smodatamente allegre. C’è un modo rapido per tornare all’abituale disordine: la doccia fredda. So di essere una confusionaria, perché una volta ho risposto a tutte le domande di un quiz di Cosmopolitan che si proponeva di stabilire chi fosse «una brava moglie», una «buona madre» e una «perfetta padrona di casa». La «buona madre» si riferiva al marito chiamandolo «papà» e andava in sala parto con un registratore per immortalare le proprie sofferenze e farle risentire ai figli il giorno del loro matrimonio. Io non avevo mai fatto né una cosa né l’altra. La «buona moglie» dava da mangiare bistecche e carciofi al marito e hamburger e patate fritte ai bambini. La «perfetta padrona di casa» sistemava da sola il seminterrato per farne un’accogliente stanza da giochi e piangeva tutte le volte che qualcuno versava un po’ d’acqua sulle piastrelle della cucina. Non avevo mai fatto nemmeno queste cose. Secondo i risultati del quiz, non appartenevo a nessuna delle tre categorie. In effetti, nel quiz della perfetta padrona di casa feci cinque punti su cento, e solo perché cambiavo la carta nella gabbia del canarino con una certa regolarità. Ciò, che rende questa confessione veramente incongrua è il fatto che quindici anni fa avevo una mia rubrica su un giornale tre volte alla settimana. Davo consigli su come tenere la casa. Se ben ricordo, un giorno scivolai fuori del mio ufficio per qualche minuto, per andare alla macchinetta del caffè. Al mio ritorno scoprii che il comitato di redazione aveva deciso di
affidarmi quella rubrica. (Tra parentesi, il giornalismo è l’unica professione al mondo praticabile solo con un assaggiatore alle proprie dipendenze. C’è sempre qualche collega pronto a propinarti una discreta dose di arsenico nel caffè di metà mattina.) In breve, mi avevano fregato. La battezzai «Operazione straccio della polvere» e cominciai a elargire alle massaie della città consigli su come mantenere un atteggiamento positivo nei confronti dei lavori domestici, in modo da non diventare irritabili e brontolone in famiglia. Assicurai loro che se avessero seguito il mio programma trisettimanale di pulizia, sarebbero riuscite a restaurare l’ordine nelle loro case e ad avviarsi danzando su pavimenti scintillanti verso un futuro radioso. (Credo di aver promesso loro prosperità, la fine della seconda guerra mondiale, e un rimedio infallibile contro le slogature da pavimenti tirati a lucido, ma nessuna si prese mai la briga di citarmi per danni.) Quello che veramente mi stupì fu la serietà con cui le donne prendevano le faccende domestiche. Per alcune di esse era un modo di vita. Arrivavano quotidianamente suppliche lamentose: «Come si pulisce l’alabastro?» (Signora, non sapevo che gli uccelli si sporcassero.) «Come faccio a impedire che l’acqua dello straccio mi vada giù per il braccio, quando lo strizzo per lavare i pavimenti?» (Faccia l’operazione a testa in giù, signora.) «Esiste un modo di togliere le macchie di cioccolata dalle poltrone imbottite?» (No, signora, ma si può sempre prendere il battipanni e rifarsi sul piccolo mostro che ha avuto l’idea di mettersi a mangiare la cioccolata sulla poltrona.) Dopo una serie di telefonate arrabbiate di donne che avevano provato le mie palline di paraffina nell’acqua per migliorare la consistenza del chintz (una di esse sosteneva che se le sue tende avessero avuto lo stoppino avrebbe potuto usarle come candele) promisi al redattore capo di fare
esperimenti di persona, a casa mia, prima di dare consigli dalle pagine del giornale. La mia casa cominciò ad aver l’aria frenetica di Cape Kennedy prima di un lancio. Inventai un miscuglio per pulire le pareti che fece quasi saltare in aria la casa. Sperimentai l’efficacia di centinaia di campioni di detersivo per piastrelle: dopo un po’ non ebbi più piastrelle su cui fare esperimenti. Avevo tanti campioni di guanti di gomma che ormai li portavo nelle occasioni più disparate: per pulire la lavatrice come per stringer la mano agli ospiti. La mia rubrica di utili consigli per la casa continuava, una settimana dopo l’altra. Se la tenda della doccia manda odor di muffa, prendete un paio di forbici e tagliatela via, tanto nessuno si prende mai la briga di tirarla, quando si lava. Per pulire i tasti del pianoforte, infilate ai bambini un paio di guanti di camoscio con le punte imbevute di acqua pulita. Riusciranno lo stesso a fare i loro esercizi e avrete il vantaggio di tasti sempre perfetti. Per togliere le incrostazioni di gomma da masticare, raschiatene via il più possibile e poi ammorbidite quello che resta con chiara d’uovo. Meglio una macchia di chiara d’uovo che una di gomma da masticare. Almeno non ci si resta attaccati. Lo sterilizzatore dimenticato sul fuoco e bruciato sul fondo potrà servire egregiamente da casco spaziale per i bambini più grandi. I gatti di polvere sotto il letto costituiranno una sicura fonte di divertimento per i bambini più piccoli. (E anche per i suoceri, i vicini maligni e gli insegnanti in visita.) La fine dell’«Operazione straccio della polvere» non sorprese nessuno. Venni candidata al premio nazionale per redattrici di rubriche femminili. Seduta alla tavola del
banchetto di chiusura, tremavo, in attesa dei nomi delle vincitrici. Se fossi stata una di loro, avrei avuto come ricompensa un’altra annata di consigli fruttuosi, se fossi stata esclusa dalla rosa delle vincitrici, non avrei più potuto andare alla macchinetta del caffè senza tremare per la paura che durante la mia assenza mi affibbiassero qualche altro incarico altrettanto prestigioso. Inutile dire che non fui tra le vincitrici. Il mercoledì seguente mi annunciarono che da quella settimana in poi avrei «creato» le didascalie delle foto degli avvenimenti mondani della città. «La sposa si avvia all’altare al braccio del padre» e altre amenità del genere. Parecchi anni dopo, quando diedi le dimissioni per dedicarmi completamente alla famiglia, scoprii che il segreto di una casa pulita era l’incentivo. Che stupida a non averlo capito prima! Per pulire la casa a fondo bisognava avere una buona ragione, semplicissimo. A casa nostra di solito la ragione si poteva riassumere in una parola: festa. Quando non riusciamo più a sopportare il caos imperante, facciamo una cosa semplicissima: telefoniamo a una trentina di amici, invitandoli a una festa. Poi cominciamo a darci da fare. Mio marito butta giù un paio di pareti, dà all’armadietto della cucina la tanto sospirata seconda mano di vernice, cambia il filtro della caldaia, cambia le lampadine saltate cinque anni prima, riempie di stucco buchi e fessure e spazza il vialetto. Ai bambini viene dato l’incarico di esplorare il giardino e gli armadi dei giocattoli in cerca di pezzi di argenteria, di spazzar via cianfrusaglie di ogni tipo da sotto i letti, di liberarsi di qualche decina di pattumiere piene di bottiglie e di restituire i libri della biblioteca. Anch’io ho il mio daffare. Buttar via i bicchieri della Nutella e sostituirli con un vero servizio, rimpiazzare le piante
morte e moribonde con nuovi germogli appena comprati al vivaio e naturalmente compilare il menu e la lista degli invitati. I nostri ricevimenti sono memorabili. C’è sempre qualche ospite che resta attaccato all’armadietto appena ridipinto e dev’esser liberato a furia di solvente. Poi qualcuno accende un bel fuoco nel camino spazzato di fresco e solo quando gli ospiti cominciano a correr fuori tossendo ci ricordiamo che abbiamo dimenticato di pulire la cappa. Poi c’è sempre uno spiritoso che si mette ostentatamente a esaminare la parete traballante del soggiorno, insinuando che forse la soffitta è stracolma. Il «giorno dopo» di solito si da il via all’operazione «pulizia della soffitta». Ora, lasciate che vi dia un consiglio. Se il vostro matrimonio non è più che saldo, lasciate perdere la soffitta. Noi di solito affrontiamo il problema, ma d’altra parte siamo stati più volte citati sul Cosmopolitan nella rubrica «È possibile salvare questo matrimonio?» Di solito caliamo la scaletta che porta in soffitta... e Dio sa se si tratta di un’impresa da poco, il giorno dopo una festa movimentata. Poi diamo insieme la scalata alla vetta a lungo inviolata. Dopo un bel po’ di ore passate a rovistare lassù, mio marito attacca: «Stabiliamo una linea di condotta, per cominciare: niente sentimentalismi su questa roba». «Be’, senti chi parla! Ma se conservi ancora l’annuario dell’università di tuo padre, un paio di calzini della seconda guerra mondiale e la raccolta di figurine degli animali che facevi a sei anni.» «Sono oggetti rari», spiega lui. «Io sto parlando di cose inutili, da scartare. D’ora in poi chi vorrà conservare qualcosa dovrà attenersi al regolamento che andremo a stabilire.» Ci sediamo sulla cassa con la scritta «Maschere da carnevale ammuffite». «Ora», continua lui, «tutti gli oggetti che non si possono indossare, incorniciare, vendere o
appendere all’albero di Natale vanno fuori di qui! Capito?» Due ore dopo trascinammo quattro oggetti pietosi sul marciapiede: un hula-hoop rotto, il calendario di una linea aerea col pilota in casco e occhialoni, un barattolo di vernice vuoto e una gomma di bicicletta spezzata in due. «È ridicolo», ruggì lui, trascinandosi su per la scaletta della soffitta. «Passiamo gli oggetti in rassegna a uno a uno. Questo cos’è, per esempio?» «L’inventario della casetta sul lago.» «Quale casetta?» «Quella che compreremo un giorno. Al momento possediamo: un divano per il soggiorno, una lampada montata su un birillo da bowling, sei piattini di plastica coi personaggi di Walt Disney, due veneziane, e una sedia impagliata.» «E questo cos’è?» sospirò lui. «Questa è la mia assicurazione contro la maternità involontaria. I miei vecchi vestiti pre-maman, lo sterilizzatore, il vasino, il lettino smontabile, il seggiolone e il seggiolino per la macchina. Prova a toccare questa roba, e ce ne pentiremo entrambi amaramente.» «E queste porcherie cosa sono?» «Roba tua. Vecchie targhe d’auto, a cominciare dal 1937, vecchi sacchi di fertilizzante, un falcetto arrugginito, una foto della tua squadra preferita con l’autografo di tutti i giocatori, il dizionario medico foderato con carta di giornale, fumetti del 1953, diciotto lattine vuote di antigelo, una scatola con la scritta ‘Vecchi filtri per la caldaia’ e una scatola di esche che cerca disperatamente di dire qualcosa.» «OK», disse lui, «io non alzo un dito. Metti tutto fuori sul marciapiede e chiama il robivecchi.»
Feci un largo sorriso. «Il robivecchi. Vuoi scherzare? Dov’è finito il vecchietto che andava di casa in casa frugando tra i bidoni della spazzatura in cerca dello scatolone pieno di oggetti scartati? Dove sono finiti i camion d’agenzia che arrivavano nel vialetto prima che si avesse il tempo di riappendere la cornetta? Oggigiorno, ahimè, la raccolta della roba vecchia è diventata una vera e propria arte.» E non esageravo nemmeno un po’. Sapevo per esperienza che era più facile mettere in piedi una seconda famiglia che liberarsi di una vecchia altalena. Se avete in casa una vecchia scala con un paio di pioli in meno, assumete solo imbianchini di temperamento avventuroso e senza famiglia a carico, piuttosto che cercare di cambiarla. Se avete una vecchia auto che non parte più, nel viale, trasformatela in una serra di orchidee: è più facile che convincere un rivenditore a venire a prenderla. Il giorno in cui passano i camion dell’agenzia, io comincio a girare intorno al garage come un banditore frustrato, a
disporre la mia merce nel modo più attraente e a sistemare faretti dietro gli oggetti di plastica per fame risaltare i contorni. «Ehi, avanti, avanti. Oggi ho un sacco di occasioni», urlo. «Un servizio di sottobicchieri, un vestito da sposa taglia 44 usato solo una volta, una scatola di vecchi barattoli da marmellata che farebbero impazzire un collezionista e una bracciata di attaccapanni ancora in età produttiva. Sempre che chi li vuole si prenda anche questo letto. «Il letto non lo vuole? Allora le dico cosa farò. Ci butto sopra anche due paia di pattini, una canna da giardino e una pentola a pressione. Non basta? Va bene, signore, lei mi sembra una persona di buon senso. Come offerta speciale, questa settimana, le darò uno shaker quasi nuovo, trentacinque numeri arretrati di Playboy e una Natività dipinta a mano. Sempre che lei si prenda anche il letto. «Ma, signore, lei vuole veramente troppo. Per dimostrare che voglio comunque favorirla, ho intenzione di rovinarmi: aggiunga anche un girello e un materassino di gomma. Questa è la mia ultima parola. Dopotutto, questo letto è in ottimo stato. È stato usato solo da una vecchietta di Pasadena che soffriva d’insonnia. Come, a chi vuol darla a bere? Lei, me l’ha data a bere. Questo letto l’ho comprato alla sua rivendita per dieci dollari, e la storia della vecchietta me l’ha raccontata lei.» «La tua è una storia commovente», disse mio marito, «ma che cosa ce ne facciamo di tutta questa robaccia?» Mi strinsi nelle spalle. «La portiamo di sotto e cominciamo a diramare inviti per un’altra delle nostre feste.»
Ancora un "ha ha ha"
e ti gonfio la faccia di schiaffi «Che importa se è o meno della misura giusta? Tanto verrà di certo a farselo cambiare, dopo le feste. Billie Joe, se ti fai investire da un camion, la prossima volta ti lascio a casa! Perché mi sono messa questi stivali? È un sistema infallibile. Tutte le volte che mi metto gli stivali vien fuori un sole splendente! La vuoi smettere di tirarmi per la manica? Li ho comprati il gennaio scorso, i cartoncini di auguri, è solo che non ricordo più dove li ho messi. Roba di scarto. Tirano sempre fuori tutti gli scarti di magazzino, a Natale. Hai visto quell’uomo? Mi ha dato uno spintone. «Non fermarti a guardare le vetrine. Devo ancora fare tutti i dolci, decorare la casa, avvolgere i regali, imbucare i cartoncini... il postino! Ho dimenticato di comprare un regalo per il postino. Ragazzi, a Natale la gente perde davvero la testa! Ehi, hai visto quella? Io sono arrivata prima, ma lei mi è passata davanti con una faccia tosta incredibile. Dovrebbero distribuire i numeri, come all’ospedale. Così i soliti furbacchioni starebbero calmi. «Non mi importa che la scatola sia perfetta, qualunque scatola andrà bene. E non mandatemela. Lasciate che me la porti in autobus. Spiegherete voi al poliziotto che mi chiederà perché occupo un’intera fila di sedili che il vostro fattorino non poteva consegnarla. Code... code... tra un po’ bisognerà mettersi in coda anche per morire... Billie Joe, sei un po’ grandino per Babbo Natale, non ti pare? Non credere che non sappia perché vuoi metterti in fila... per una stupida caramella. Ti metteresti in fila anche se distribuissero mal di testa. «Quale musica? Non sento nessuna musica. Credo che a
zio Walter darò un po’ di soldi. Che si compri quello che vuole. Gli sono sempre piaciuti i soldi. In effetti, qualunque altra cosa gli si regali, non è mai contento. E poi, i regali! Vorrei che la facessimo tutti finita, con questa storia. Io mi becco sempre un sacco di roba a buon mercato in cambio di oggetti splendidi, comunque. Mi fanno male i piedi. Una penserebbe che esistesse ancora qualche gentiluomo disposto ad alzarsi e cedere il posto a una signora. La gente è diventata egoista, e se ne frega delle buone maniere. Non sento nessuna musica. «Mi è tornato il mal di testa. Vorrei potermeli togliere, questi stivali. Credo che siamo pronti per... aspetta un minuto, Billie Joe. Ho dimenticato il regalo per il compleanno di Linda. Non è incredibile? Due regali, ecco che cosa si guadagna a nascere il giorno di Natale. Adesso dovrò tornar su al quarto piano e affrontare di nuovo tutta quella folla. Tu aspettami qui con i sacchetti, e non metterti a girare per i banchi, hai capito? Non ha senso girare come matti per questo posto. Ragazzi, ci vuole un bel coraggio a compiere gli anni proprio il giorno di Natale. Non conosco nessuno che avrebbe la faccia tosta di nascere proprio il giorno di Natale. Che cos’hai detto, Billie Joe?» «Ho detto: ‘Io qualcuno lo conosco’.»
Vischio e caprifoglio La mia idea di una decorazione natalizia come si deve consiste nell’illuminare il tetto con fili di lampadine colorate, appendere sulla veranda festoni di sempreverde, addobbare il giardino con abeti pieni di giocattoli, la porta del garage con un
Babbo Natale grandezza naturale e la cassetta delle lettere con un elfo con un fumetto in bocca che dice «Buone Feste». Mio marito invece pensa che decorare la casa per Natale significhi sostituire la lampadina da quaranta watt del portico con una da sessanta. «Ti comporti come se io odiassi il Natale o qualcosa del genere», disse, sulla difensiva. «Ma come, se nessuno si eccita quanto me, all’idea delle feste natalizie.» «Si, mi sono accorta che ti ecciti moltissimo quando vedi tutte quelle macchine fermarsi e i bambini indicare la nostra casa a bocca aperta dicendo: ‘Uauu, guarda, una lampadina da sessanta watt nel portico!’» «Il tuo problema», continuò lui, «è che devi sempre strafare. Se solo ti accorgessi di quant’è elegante la semplicità! Ma no! Non hai pace fino a quando non riesci a mandarmi la sul tetto, in mezzo alla tormenta, con un filo di lampadine colorate tra i denti.» «Non voglio parlarne. Da quando hai deciso di lasciar perdere l’assicurazione reduci di guerra sei diventato intrattabile. Ma dimmi, che colpa ne hanno i bambini?» «Perché devi dire delle stupidaggini del genere? E adesso dove vai, con quelle lampadine?» «Vado ad appenderle ai rami nudi dell’abete nel giardino.» «Spero che siano impermeabili. Ricordi quell’anno in cui appendesti tutti quegli uccellini d’argento ai rami? Credo che non dimenticherò mai lo spettacolo che vidi alzando gli occhi dal piatto della colazione: i diavoletti piumati mi si disintegrarono sotto gli occhi. Era come guardare i loro intestini snodarsi.» «Hai raccontato questa storia almeno un migliaio di volte. Queste lampadine sono impermeabili.» «Robaccia... robaccia!» disse, frugando nelle scatole.
«Non ho nessuna intenzione di morire congelato là fuori nel tentativo di appendere questa robaccia ai rami degli alberi.» «Lo so. Tu sei il tipo che a Natale regalerebbe pattini a rotelle a un bambino zoppo.» «Ce l’hai una scala?» «Non ne ho bisogno. Ho deciso di mettere uno sgabello sopra una cassetta della frutta.» «Lo sapevo», disse lui, «non ce la facevi a sopportare di vedermi qui seduto al caldo. Dovevi per forza coinvolgermi nelle tue manie di grandezza. Va bene, tanto vale che la facciamo finita subito. Primo, farò uno schizzo dell’albero e calcoleremo quante lampadine blu, dorate e rosse ci vorranno per ottenere l’effetto giusto.» «Devi sempre rovinare tutto», brontolai, «tu e la tua mania di programmare. Te l’hai mai detto nessuno che stare con te è divertente come baciare un barbuto con l’herpes sotto il vischio?» «Adesso ti dirò come faremo», urlò lui, schizzando fuori della poltrona. «Quest’anno faremo tutto con la massima semplicità. Metterò una lampadina da sessanta watt nel portico e poi ci metteremo tutti intorno a cantare ‘Bianco Natale’. Sai, ho idea di essere l’unico, qua dentro, a sapere a memoria anche la seconda strofa... ecco che cosa ve ne importa del Natale, in realtà!»
Jingle bells, jingle bells... Se c’è un uomo personalmente responsabile dello stato dei bambini di questo paese, questi è il dottor Spock. Quello che voglio dire è che quest’individuo è il grande padre bianco di qualunque genitore sia mai stato alle prese con una bacinella di suffumigi e un bambino di tre anni, o con l’attacco isterico di una bambina di due. Devo confessare che c’è stato un tempo in cui, se il dottor Spock avesse consigliato di usare pannolini con una gamba sola, non avrei esitato a dargli retta. Adesso però esagera. Ha detto che Babbo Natale non esiste e ha invitato noi genitori a comunicare ai bambini la lieta novella. «Bambini, tenetevi forte», dissi. «Il dottor Spock dice che Babbo Natale non esiste e che non avrei mai dovuto portarvi a vederlo in carne e ossa, per prima cosa, perché il suo comportamento è strano e anche i suoi vestiti. Non solo, stimola in voi il deplorevole istinto dell’avidità.» Si guardarono, chiaramente stupefatti. «Non è vero», disse uno. «Tu lo sai che Babbo Natale esiste, proprio come sai che ci sono le fatine che ballano sul prato.» «Piantatela, bambini. Vi ho detto che Babbo Natale è un’esperienza sconvolgente. Non può esistere un Babbo Natale.» «Certo che può esistere, basta volerlo», dissero cauti. «Non so», replicai io, esitando. «E vero che ha la capacità di creare un’atmosfera magica e di render la gente felice e generosa. Inoltre la sua esistenza allontana lo spettro della disoccupazione per le renne e gli elfi. Però costringe anche vostro padre a spendere più di quanto possa permettersi e tutti
noi a girare per i tetti con fili di lampadine tra i denti. Non so più cosa credere. Ho sempre avuto tanta fiducia nel dottor Spock!» «L’hai mai visto, il dottor Spock?» chiese uno dei bambini. «No, ma... adesso piantatela! Lo so che esiste. Il problema è, come faccio a continuare a credere in un Babbo Natale che si paracaduta da un elicottero nel parcheggio di un centro commerciale, si rompe una gamba e finisce all’ospedale?» «Be’, e secondo te dove dovrebbe andare poveretto, con una gamba rotta?» chiese un altro dei bambini. «La questione, bambini, è questa: Babbo Natale è un uomo in carne e ossa, e gli uomini in carne e ossa non vanno in giro a infilare il pancione nelle canne fumarie.» «Certo che è un uomo in carne e ossa», spiegarono i bambini. «Altrimenti come avrebbe fatto a mangiare tutti quei biscotti che gli hai lasciato sotto l’albero l’anno scorso?» «Giusto», dissi io, tutta eccitata, «è venuto davvero, l’anno scorso, e mi ha lasciato quella stupenda giacca di velluto nero che vostro padre non si sarebbe mai sognato di comprare, lo so di certo. Volete sapere una cosa? Io credo nell’esistenza della First Lady, eppure anche lei veste in modo strano. Credo anche nell’esistenza dell’ufficio delle tasse, eppure non la si può certo definire un’istituzione filantropica. Ragazzi, Babbo Natale esiste!» Mentre il sipario si chiudeva su questa scenetta familiare, il piccolo di sette anni si chinò a sussurrare all’orecchio del padre: «Ehi, papa, diventa sempre più difficile convincerla, col passare degli anni!» Memorandum per: Mr. Kravitz, preside Da: Virginia Coraggiosi
Rif: Recita natalizia Quest’anno la recita natalizia si terrà un po’ tardi. Probabilmente il 23 gennaio, se la data è di suo gradimento. Nonostante un comitato entusiastico si sia occupato dell’organizzazione della recita fin da ottobre, ci sono dei problemi. Tanto per cominciare, parecchi membri del comitato hanno insistito per ridurre a musical la storia della Natività. A un certo punto abbiamo assistito allo spettacolo dell’arrivo dei tre Re Magi, in calzamaglia nera, danzanti al ritmo di «Oh When the Saints...» Ricorda com’eravamo tutti eccitati alla notizia della donazione di un asinello «vero»? Il nostro bidello, comunque, non condivide l’eccitazione generale. Anche se con un linguaggio meno delicato, ha dichiarato che se l’animale non impara a uscire dalla palestra per fare i suoi bisogni entro il 23 gennaio, dovremo tornare al vecchio asinello di cartapesta o accettare le sue dimissioni. Ha detto anche (sto citando alla lettera) che il puzzo della bestia non si dissiperà dalla palestra in tempo per il saggio di ginnastica di fine maggio. Abbiamo anche avuto seri problemi con la scelta degli attori. Sono stata costretta ad assegnare la parte di Maria, madre di Gesù, a Tommy Rompiglioni dato che i suoi genitori hanno fornito l’asinello. Tommy si rifiuta di indossare una parrucca, il che potrebbe causare un po’ di confusione tra il pubblico, ma penso di risolvere il problema con una piccola nota sul programma. I costumi forniti dalla ditta noleggiatrice, la «Belzebù» del New Jersey, non sono arrivati che tre giorni fa. Ovviamente c’è stato un errore. Invece di trenta divise da soldato romano ci hanno mandato trenta costumi rosa da coniglietta col pompon dorato. Dopo averne fatti indossare una decina ai nostri
piccoli attori, mi sono resa conto che qualcosa non andava. Io e Miss Dale non abbiamo potuto fare a meno di immaginare la faccia del povero uomo d’affari che si è trovato sulle ginocchia un aitante soldato romano invece di una bella ragazza in calzamaglia. Siamo ancora alle prese con gli operai incaricati di costruire una tribuna speciale per i genitori che vogliono fotografare o filmare la recita. Abbiamo ritenuto opportuno prendere questo provvedimento dopo la spettacolare caduta nella mangiatoia di Mr. Traballoni, l’anno scorso. Con la tribuna speciale, i genitori saranno liberi di sporgersi a loro piacimento, senza timore di spiacevoli incidenti. Detesto chiederle una cosa del genere, ma potrebbe fornire la sua opera di mediazione nei confronti di Mrs. Garganella? Ha minacciato il comitato incaricato dei rinfreschi di fornire una quantità illimitata dei suoi famosi babà al rum. Lei ricorderà lo stato dei bambini alla fine della giornata, l’anno scorso, ne sono certa. Inoltre, dato che due dei nostri pastorelli sono affetti da diarrea, le inoltriamo rispettosa domanda affinché posponga la recita al 23 gennaio.
Mariti e regali Lo spostamento d’aria che avvertirete domani, 24 dicembre, durante le ore di punta, e che vi causerà una certa sensazione di panico, sarà semplicemente dovuto all’enorme massa di mariti che si riverserà in città alla ricerca di un regalo di Natale per quella... come si chiama? insomma, la madre dei
loro figli. Il marito coscienzioso non mancherà di procurare alla consorte l’articolo da lei menzionato in luglio in un attimo di sconforto: «Quello di cui ho assolutamente bisogno per continuare a vivere in questa casa è uno sturalavandini degno di questo nome!» Orgoglioso, sicuro di essere il marito più sollecito e premuroso dell’intera città, si precipiterà a comperare il prezioso oggetto e ad avvolgerlo accuratamente in carta argentata. Resterà stupefatto quando la moglie glielo schiaccerà sulla bocca. Altri chiederanno consiglio alle giovani segretarie, che leggono tutte le riviste di moda e sanno che la felicità è una camicia da notte osé. A seconda del tipo, la moglie a) restituirà la camicia da notte per comprarsi un tostapane elettrico, b) farà un sorriso entusiastico e la indosserà a letto sotto il cappotto, oppure c) andrà a dare un’occhiatina alla segretaria, tanto per sapere. Ma per lo più i mariti vanno alla deriva in un mare di stupore e confusione, annusano profumi, palpano lustrini, sempre all’erta in cerca di una donna della stessa taglia della moglie. Non chiedetemi perché il mio cuore si intenerisce al pensiero di questi disperati. Forse è l’atmosfera natalizia che rende tutti più buoni. Forse è il mio tenero cuore di mamma. Forse ho davvero dimenticato l’orrido regalo che ho trovato nella calza l’anno scorso: un buono per un vaccino antinfluenzale all’ambulatorio vicino. Comunque, alcune delle mie amiche mi hanno chiesto di compilare una «guida agli acquisti» per mariti imbranati. Primo, le donne non sono mai quello che sembrano. C’è la donna che vedete e la donna nascosta. Il regalo, compratelo per la donna nascosta.
Esteriormente, le donne sono parecchie cose diverse. Sono esseri frugali che mettono da parte i sacchetti usati del pane e ripongono l’antigelo in lavanderia durante l’estate. Sono esseri dotati di senso pratico che comperano sempre accessori neri che vanno con tutto e si tagliano i capelli da sole. Sono esseri prudenti che raccolgono l’acqua piovana in una bacinella e si portano il pop-corn da casa quando vanno al cinema. Sono esseri pudichi che si coprono le ginocchia nude coi cuscini del divano. Alcune ancora non osano fumare davanti alla madre. Sono quindi responsabili, coraggiose, fiduciose, leali e sincere? Signori, cercate di guardare sotto la superficie. Nascosta la sotto c’è la donna che canta duetti con Barbara Streisand e finge che Yves Montand stia cantando per lei. Che si nasconde nel bagno a fare esperimenti col trucco. Che indosserebbe pigiami Palazzo per ricevere gli ospiti, se non temesse di far venire le convulsioni a tutti. Che legge gli annunci erotici sui giornali quando crede che nessuno la guardi. Che amerebbe dar da mangiare ai bambini alle quattro per poi cenare in pace col marito, se non fosse sopraffatta da sensi di colpa. Che vorrebbe dipingere, scrivere romanzi e guadagnare uno stipendio. Questo è tutto quello che ho intenzione di dirvi, signori. Cercate di usare il cervello, adesso! Avete solo poche ore per imparare a conoscere vostra moglie. Se credete ancora che un bel cestino da lavoro sia il regalo giusto per lei, fatti vostri!
Lasciatevi guidare dalla fede Ho aspettato fino alla fine del libro per dirvi perché l’ho scritto. Ho pensato che se non l’avete lasciato a metà vi meritate una spiegazione. Se invece non siete riusciti a finirlo, pazienza. La decisione di scriverlo risale alla prima volta che vidi la scrittrice Faith Baldwin in una foto a tutta pagina su una rivista. Dichiarava: «É una vergogna che poche donne si dedichino alla scrittura». Replicai ad alta voce: «Ben detto, Faith». Lei mi guardò dritta negli occhi e disse: «Se sei una donna che vuole qualcosa dalla vita, non seppellire il tuo talento sotto montagne di piatti sporchi. La scrittura sarà per te un importante sollievo emotivo e un modo di esprimerti, per non parlare del guadagno extra. Non sei costretta ad andare in ufficio con la testa sempre da un’altra parte, ai bambini, al tempo — forse pioverà, chissà se ho chiuso le finestre — per fare qualche soldo. (Questa mi piacque.) Anche stando in casa, puoi sperimentare l’autorealizzazione.» Faith, mi hai convinta. Mi annoiavo un po’, a casa. (Un po’? Chi voglio prendere in giro?) E così cominciai a scrivere sull’argomento che conoscevo meglio: la casalinga. Francamente, non credo che esista argomento di maggior successo, nel campo editoriale. In televisione viene dipinta come una donna stravolta dall’alito cattivo, con le ascelle puzzolenti, le mestruazioni irregolari, capace solo di fare un caffè schifoso. Nelle riviste di carta patinata, viene colpevolizzata perché non è capace di essere chic in sala travaglio, perché si dimentica di mordicchiare l’orecchio al marito per distoglierlo dalla partita in Tv e perché non si decide mai a dare deliziose cenette in piedi per trenta persone o più.
Nei fumetti, è la svampita di turno. Nei circoli eruditi, l’eccezione. Nei film, la casalinga è sempre quella coi capelli castani e senza tette. Gli autori di canzoni la ignorano completamente. É l’automobilista perennemente distratta, la madre isterica, la regina di un mondo di elettrodomestici che non funzionano. (Anche grazie a idraulici ed elettricisti le cui promesse valgono quanto la parola di Giuda.) Se si lamenta, è nevrotica. Se non si lamenta, è stupida. Se sta a casa coi bambini, è una mammona noiosa e iperprotettiva, che non riuscirà a staccarsi dai figli fino a quando avranno quarantotto anni. Se li lascia soli per andare a lavorare, è egoista, ambiziosa, e i suoi figli impareranno presto a scrivere parolacce su muri immacolati. Faith però dimenticò di dirmi della macchina da scrivere usata che si fermava tutte le volte che pioveva e non batteva il 7, la s e la o. Non mi disse che avrei dovuto allestire una scrivania in fondo al letto e che archivi e cartellette avrebbero finito con lo straripare in bagno. (Nemmeno l’ufficio delle tasse ci ha creduto. Stanno ancora esaminando la mia detrazione di dollari dieci per una nuova tenda da doccia nel mio studio.) Non mi disse dei bambini che sarebbero venuti a leggermi sopra la spalla per commentare «e questa sarebbe una battuta? Che spirito di patata!» o che mi avrebbero interrotta ogni cinque minuti per raccontarmi che se si bagnava un asciugamano e lo si strizzava, ci volevano esattamente quattordici gocce per riempire l’ombelico della sorellina. Non mi disse delle difficoltà a tenere una rubrica sul giornale: i periodici non conoscono vacanze, raffreddori o infezioni renali. Disse solo: «Descrivi scene e situazioni che solo una casalinga a tempo pieno può conoscere... bambini, incidenti domestici, problemi di organizzazione».
Da principio cominciai a scrivere solo per una donna. Me la immaginai abbastanza giovane, con troppi bambini e poca pazienza, quattro anni di università alle spalle e cinquanta di mani screpolate e capelli disordinati davanti. Nessuna delle immagini popolari sembrava adattarsi a questa donna. Non aveva mai un momento per sé, eppure si sentiva quasi sempre sola. Si preoccupava più per la diarrea del piccolo di dieci mesi che per le imprese del presidente Mao. E il grande ME (Mondo Esterno) era leggenda, per lei. Dopo un po’, cominciai a immaginare altre donne, mentre scrivevo. La donna senza figli che riempiva di regali i piccoli delle amiche, le adolescenti col filo della radiolina che spuntava dall’orecchio e i capelli sugli occhi, la signora di mezza età che restava senza fiato tutte le volte che qualcuno la definiva tale, e la ragazza di carriera che si faceva prendere dal panico tutte le volte che tornavano di moda i vestiti col punto vita e la cintura. («Dio solo sa che cosa mi è cresciuto sotto quei camicioni, in tutti questi anni.») Attraverso la rubrica del giornale e la posta, scoprimmo di aver tutte qualcosa in comune. Si trattava, essenzialmente, di terapia di gruppo. Loro scrivevano: «Tesoro, fai qualcosa per quella foto in cima alla pagina. Hai l’aria di una cinquantenne a cui il ginecologo ha appena comunicato che è incinta!» Oppure: «É a me che alludevi, vero, quando hai parlato di quella donna tanto ossessionata dalla pulizia da lavarsi le mani prima di cambiare il pannolino al bambino?» A volte però la loro fiducia non conosceva limiti. «Erma, sei la sola donna a cui permetterei di andare a letto con mio marito. Dice che per lui sei come una vecchia amica.» Altre lettrici erano un po’ più brusche. «Chi credete di essere, voi ragazze di carriera, sedute alla vostra bella scrivania a dire a noi casalinghe cosa dobbiamo fare?» Oppure, qualche
intellettuale: «Ragazza, meglio che torni a lavare i piatti!» Di queste donne e altre, è fatto il mio libro. Rappresentano la miriade di umori, situazioni, frustrazioni e umorismi di cui è fatta la casalinga. Quando mio figlio venne a sapere che stavo scrivendo un libro, la sua reazione fu questa: «Non sarà mica un libro porno, vero?» Mi girai di scatto e risposi: «Ragazzo, nessuno censurerà questa roba, nemmeno le bibliotecarie dei conventi di clausura». Poi però la cosa comincio a preoccuparmi. Tranne per quel breve paragrafo sull’educazione sessuale di nostro figlio, nel quarto capitolo, ho sempre scritto come se il sesso e la donna sposata non avessero niente a che vedere tra loro. Per esser del tutto sincera, vi dirò che non sapevo cosa dire, del sesso. Sono cresciuta in un’epoca in cui la sola parola sesso era bandita da ogni tipo di letteratura. Non potei leggere la Bella addormentata fino a dodici anni compiuti, perché mia madre non la vedeva tanto giusta, la storia del bacio del risveglio. Venni a sapere che il National Geographic aveva anche le fotografie solo a quattordici anni: prima mio padre le ritagliava via per non farmele vedere. Ricordo, naturalmente, di aver preso un paio di romanzi d’amore dalla biblioteca e di averli nascosti sotto la copertina di Senza famiglia. L’eroina di solito si chiamava Ortensia, o Carlotta, ed era «imbronciata, selvaggia, indomabile, viziata, ricca e bellissima». Aveva sempre labbra sensuali. (Credetti che significasse una belle febbre sul labbro fino a quindici anni.) il protagonista di solito si chiamava Rodolfo, era ostinato, duro, con la mascella quadrata, e faceva le dichiarazioni d’amore con voce rauca. Quando arrivavo ai paragrafi in cui Ortensia e Rodolfo, o Carlotta e Alfonso, si abbracciavano appassionatamente, di solito gli occhi mi uscivano dalle orbite. Poi era sempre la stessa storia: «Le fiamme nel caminetto
languirono e si spensero». Non so quanti libri abbia letto in cui «le fiamme nel caminetto languivano e si spegnevano» immancabilmente, lasciandomi in uno stato di totale ignoranza e frustrazione. Non avevo la più pallida idea di quello che succedeva quando finalmente il fuoco si spegneva. La colpa della mia ignoranza è tutta di queste scrittrici rosa! Non ho mai permesso a mio marito di leggere il manoscritto. Dato che non c’è sesso nel libro, bisognerà pure che provochi qualche denuncia, per farmi pubblicità, e chi potrebbe citarmi per danni con più ragione del sant’uomo con cui convivo? Potrei darmi un sacco di arie e dire che ho scritto il libro per dare della casalinga una nuova immagine, realistica e sincera. Potrei diventare sentimentale e dire che ho scritto il libro perché quattro uomini mi hanno detto che potevo farcela, anche se io ero sicura del contrario. C’è Glenn Thompson, il redattore capo del Journal Herald di Dayton, che mi ha aiutato a uscire dalla cucina, e a cui va il merito di qualunque successo io abbia avuto finora. C’e Tom Dorsey, il direttore di Newsday Special, che prese sotto le sue ali una scrittrice le cui credenziali erano costituite unicamente da firme (illeggibili) sugli assegni e liste della spesa. E poi c’è, non ultimo, mio marito, Bill, che quando mi butto ai suoi piedi e lo supplico di dirmi cosa pensa di quello che scrivo, ha la saggezza di tacere. Comunque, per essere sincera, devo ammettere che ho scritto questo libro per il modello originario... la donna abbastanza giovane, con troppi bambini e poca pazienza, con quattro anni di università alle spalle e cinquanta di mani screpolate e capelli disordinati davanti. Sapevo che se non avessi seguito il consiglio di Faith e non avessi cominciato a ridere di me stessa, avrei finito col piangere amaramente.
Finito di stampare nel mese di luglio 1981 per conto della Longanesi & C. dalla AGEL s.r.l. di Milano Printed in Italy