ARSEN REVAZOV SOLITUDINE 12 (Odinochestvo-12, 2005) Capitolo Uno Qualche volta, mentre mi aggiro per il mio appartamento...
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ARSEN REVAZOV SOLITUDINE 12 (Odinochestvo-12, 2005) Capitolo Uno Qualche volta, mentre mi aggiro per il mio appartamento con la sigaretta in mano, fantastico di essere uno che ha avuto il dono di rinascere, magari come agente dei servizi segreti. Immagino di venir sbarcato da una nave e di saltare su un acquascooter, a venti chilometri dalla riva, con nelle tasche dei bermuda (già, perché ne indosso un paio con la lampo) una carta di credito senza limiti di spesa, 500 dollari protetti da una pellicola di polietilene e una patente registrata in Florida. In Florida la patente la danno a chiunque, senza difficoltà. L'ho avuta anch'io, senza muovermi da Mosca, per trecento dollari attraverso un ufficio legale. E così, a tutto gas, come un vero macho, me la filo fino a tre chilometri dalla riva, la distanza consentita, per poi raggiungere a nuoto una spiaggia filippina o cingalese. M'incammino sotto un caldo torrido verso un luogo civilizzato. Qualche chilometro sui sassi lo posso percorrere, malgrado sopporti poco il disagio fisico. E finalmente una birra gelata, delle sigarette, dei sandali, degli shorts, una maglietta, una crema solare. Comincio lentamente a riprendermi. Al tramonto raggiungo la città, cerco una stanza in un hotel e compro tutto il necessario: vestiti, un orologio, una borsa da viaggio, un kit per la rasatura, lo spazzolino. E, naturalmente un lettore cd, dei dischi e due o tre libri. Poi torno in albergo; un whisky doppio al night, e a letto a dormire. La giornata è stata pesante. E domani mi attende una missione da compiere. A questo punto la mia immaginazione va in tilt. "Domani" è un concetto piuttosto nebuloso. So all'incirca come trascorrerò la prima parte della giornata. Noleggerò un'auto alla Hertz o all'Avis, mi comprerò un cellulare per ristabilire i contatti e riferire del successo della prima fase della missione. Ma cosa farò nella seconda metà della giornata, proprio non riesco a immaginarlo. D'accordo, pranzerò in un ristorante esotico, e poi? Quali sono i miei obiettivi? E diciamocelo, a chi verrebbe mai in mente
di scegliere come agente segreto uno come me? Quanto potrebbe sopravvivere qualunque Intelligence se distribuisse carte senza limiti di spesa a degli scombinati par mio, spedendoli a spassarsela dall'altra parte del globo? La mia immaginazione rischia di impallarsi come un computer scadente. Meglio cambiare registro. Ora non mi resta più nessuna missione da compiere, ma prima ce l'avevo, e anche terribilmente difficile, eppure l'ho portata a termine con successo. Adesso invece mi nascondo da certi loschi e potenti individui che ho fregato e ho fatto uscire dai gangheri. Attualmente mi trovo in esilio. E Dio sa quando riuscirò a rivedere i miei, le mie donne, i miei amici. Non sono più il direttore e il contitolare di un'agenzia pubblicitaria, con uno staff composto da tre manager e un'assistente - tutte donne, a parte me. Agenzia che peraltro fatica a tirare avanti. Ora sono ricercato. Dall'Interpol, dalla mafia di Solncevo, dalla CIA, dall'FSB. Devo aver rotto le scatole, non a uno solo, bensì a più servizi contemporaneamente. Per esempio a quello di Pietroburgo o all'MI6 o all'MI5. Chissà quale sarà il più cazzuto... E devo aver pestato i piedi anche all'FBI. Altrimenti sarei rientrato nel loro programma federale per la protezione dei testimoni. Che storia romantica e avvincente! E se io, in questa mia nuova vita stereotipata fatta di anonimato, spiagge, isole coralline, hotel e voli transcontinentali, anelassi a dissolvermi come il poeta Orazio? Se trovassi il modo per mettermi in contatto con le mie amiche e i miei amici devoti, e qualcuno di loro venisse a farmi visita? Allora ce ne andremmo in discoteca sotto il cielo dei Tropici, con le palme inghirlandate di lampadine accese sopra le nostre teste. Berremmo dei cocktail colorati sulla riva dell'oceano. E di tanto in tanto un'onda sfacciata lambirebbe i nostri piedi coi suoi tiepidi spruzzi. Poi ce ne torneremmo nelle nostre camere a stripparci al sound di un vecchio brano dei Gipsy Kings: Bamboleo, bambolea! Porque mi vida, yo la prefiero vivir así... No tiene pardon de dios Tu eres mi vida, la fortuna del destino Un el destino desamparado
Lo mismo yo que ayer Lo mismo soy yo1 . I vicini busserebbero alla parete. Già mezzanotte e mezza. E io mi avvicinerei all'impianto per spegnere. Ma l'approssimazione della mia fantasia mi ha stufato. E poi sono stanco. Scuoto delicatamente la testa per liberarmi di questo delirio. Non c'è bisogno della psicanalisi per capire che sono esaurito, che l'idea di dover chiedere un altro prestito per l'affitto dell'ufficio mi devasta. Mi tornano in mente le parole del penultimo cliente di oggi, insoddisfatto dell'agenzia e di me. Mi hanno dato la nausea. E dalla nausea all'ansia di fuga, il passo è breve. Potrei guardare il calcio su NTV, ma oggi giocano i francesi, e non è che straveda per loro, perciò è meglio che me ne vada a letto, magari dopo un bel whisky per dormire meglio. Mi porto Dovlatov e mi addormento in sua compagnia. Di solito è così che faccio. Quella di stasera è solo l'ultima di una serie infinita di serate tutte uguali. Prendo la bottiglia di Teacher's e me ne verso nel bicchiere l'equivalente di una dose doppia - naturalmente secondo il mio metro, ben diverso da quello utilizzato da quegli spilorci dei night-club. Non molto tempo fa avevo deciso di specializzarmi in qualche campo e mi ero comprato un ponderoso volume dal titolo Whisky scozzese. Le illustrazioni erano belle, ma leggerlo era una noia mortale. A volte rimpiango di non essere un alcolista: un alcolista sa sempre esattamente cosa vuole. Io no. A volte i soldi, altre una famiglia felice o l'amore ideale, o poter bere con gli amici o, semplicemente, poter bere. "Amore, portami del vino e della frutta!" - "Sei proprio sicuro, tesoro?" - "No, meglio un bicchiere di vodka e un cetriolino." A volte vorrei chiarire definitivamente i miei rapporti con Maša. Maša ha lunghi capelli biondo cenere e una piccola gobba sul naso che rende delizioso il suo profilo. Lavora come redattrice in una casa editrice scientifica dimenticata da Dio e dagli sponsor. Ed è una fotografa, quasi professionista. Alcune sue foto - archi, ponti, fiori e un castello scozzese - le ho per1
Bamboleo, bambolea! Perché la mia vita, preferisco viverla così. Non c'è perdono da Dio. Tu sei la mia vita, la sorte del destino. Nel destino abbandonato, lo stesso di ieri, lo stesso sono io.
sino appese in casa. E poi io e Maša andiamo a letto insieme. Lei dice di amarmi, ma si rifiuta categoricamente, già da due anni, di lasciare suo marito. Lui si chiama German. Poco artistico, dal mio punto di vista. Intendo dire il nome. A ogni modo, io sono terribilmente geloso. Prima che divorziassimo, la mia prima (e finora unica) moglie mi spiegava che la mia gelosia deriva dal mio istinto di competizione. Ma esistono uomini che sono gelosi se altri approfittano delle loro donne, e vanno in bestia proprio come se un estraneo, senza tante cerimonie, si servisse del loro spazzolino. Quanto a me, ritengo che gli uomini, per la maggior parte, soffrano di gelosia perché amano soffrire. E di solito non si limitano a essere masochisti, sono anche paranoici. Ho l'impressione che in me si sia dissolto ogni istinto di competizione. In compenso, però, la paranoia abbonda. E, come si sa, anche ai paranoici può capitare di essere tenuti d'occhio davvero. So perfettamente che ogni sera Maša va a letto con suo marito. Una volta le ho domandato se scopano spesso. La risposta è stata evasiva. Allora le ho chiesto come lo fanno. Che cosa si dicono. Come si spogliano, come si comportano. Se lo fanno sempre alla stessa maniera o se variano. Naturalmente non ho avuto nessuna risposta. E quando cerco di immaginarmelo io, mi vengono i brividi. Di tanto in tanto ho il desiderio di mandare al diavolo Maša, e qualche volta l'ho anche fatto, ma lei torna sempre. Telefona come se niente fosse. Passa da me al lavoro, con la scusa di chiarire il nostro rapporto. E ricomincia tutto daccapo. Dopo un po' le do l'ennesimo ultimatum, esigo che mi dica quali sono le sue intenzioni. Ma non è questo che conta. Quella che per me è quasi una questione di vita e di morte, per lei è solo una domanda retorica. Vive con German. E non tanto perché lo dice, ma perché è con lui che vive davvero. Lo so che Maša sta male. Che questa storia la fa impazzire, tanto quanto fa impazzire me. Anche di più. Lo capisco che è una tragedia, in senso letterario. Che se uno si distrugge per amore, si distrugge davvero. Che è inutile sognare un happy end. Eppure... tutto può appianarsi. Nell'adolescenza è successo anche a me di amare due, a volte tre persone contemporaneamente. Niente di grave. Siamo sopravvissuti. Ma ultimamente amo una donna che mi ama meno di quanto io ami lei. Sarà la vecchiaia? Ne dubito. Da vecchi, si vede ogni cosa con occhio lucido e disincantato.
Quando medito sulla mia età, mi viene in mente che una volta avrei voluto sfruttare i talenti avuti da Dio. Ma, a giudicare dall'atteggiamento di Dio, tutto ciò a cui ero predestinato devo averlo ormai realizzato da un pezzo. Maša sostiene che non avrei dovuto abbandonare la medicina, che così facendo è come se avessi tradito me stesso. Può essere. Tutti tradiscono se stessi, prima o poi. E di chi è la colpa? In quell'epoca tumultuosa, all'inizio degli anni '90, nessuno di quelli del mio giro avrebbe pensato di tradire se stesso. Allora sembrava che tutti avessimo disimparato a vivere. Dopo la facoltà di medicina trovai subito lavoro in una casa editrice medica perché lo stipendio che mi offrivano era dieci volte superiore a quello che avrei avuto all'ospedale dov'ero stato assegnato. Ben presto la casa editrice fallì e così trovai posto in un'agenzia pubblicitaria, specializzata in prodotti farmaceutici. In realtà si trattava di una copertura per un traffico di stupefacenti che venivano sottratti ai malati di cancro. A tirarmi fuori di lì fu un mio compagno di scuola, Matvej. Per un po' mi barcamenai tra lavoretti vari, che ruotavano sempre intorno al marketing, dalla raccolta pubblicitaria per gli elenchi telefonici ad altri orrori simili, capaci di intossicarti la vita. E alla fine Matvej e un altro mio vecchio compagno di scuola, Anton, mi aiutarono ad aprire un'agenzia pubblicitaria per conto mio. Se mi guardo indietro, a trent'anni suonati, quest'agenzia di quattro persone, me compreso, mi sembra il massimo a cui potessi aspirare. Non è poi tanto male. Io ne sono il capo e anche il fondatore. Certo, i soldi scarseggiano, ma c'è gente che non possiede né soldi, né agenzie. E c'è anche chi muore di fame. O per un amore infelice. Le due cose separatamente, si capisce: o di fame o per un amore infelice. In compenso, a molti miei conoscenti non manca niente. Una famiglia felice. Denaro. Bambini. Una vita sociale brillante. Me ne frego, manca solo che aggiunga l'invidia a tutti i miei difetti e finirò col diventare un mostro. Mi faccio un doppio whisky, e poi un altro ancora, finché mi accorgo che non riesco più a seguire le notizie sulla CNN con la dovuta partecipazione. Che me ne importa delle elezioni a Timor Est? Ma soprattutto, cosa gliene importa alla CNN? Meglio andare a letto. Mentre mi lavo i denti mi sforzo di non guardarmi allo specchio. Anche se alcune donne sostengono di trovarmi attraente. Ma cosa vuol dire poi? Tutto e niente. Una volta ho chiesto a Maša come mi trova. E lei mi ha ri-
sposto che ogni volta che mi guarda mi trova assente. C'è da picchiare la testa contro il muro. Con questi pensieri poco allegri mi addormento. Come sempre, senza sogni. Mi svegliò il cellulare. Guardai l'orologio e capii che non era dal lavoro che mi chiamavano: alle otto in ufficio non c'è ancora nessuno. Misi a fuoco il nome, Matvej, e risposi con voce rauca: «Sì». Chi è Matvej? Un mio amico. E poi? Il resto non ha importanza 2 . È ricco, figo e indolente. Al lavoro (o meglio, a quello che Matvej considera il suo lavoro) prima delle due lui non arriva mai. Una volta gli ho chiesto se, a comportarsi così, non temeva di andare in fallimento. Lui mi ha risposto che, innanzitutto, non temeva nulla; che, in secondo luogo, era meglio evitare gli ingorghi del mattino, e che lui, infine, era un azionista di minoranza in tutte le società. E di solito un azionista di minoranza viene tenuto un po' ai margini degli affari. Matvej non mentiva, perché la sua occupazione preferita sono le donne. Ma non le puttane delle saune per vip o le troiette dei locali alla moda. E nemmeno, Dio ce ne scampi, le star del pop nuovorusso. Ad attizzarlo sono solo le donne inaccessibili. L'amore eterno: senza sapere neppure bene cosa significhi e perché ne abbia bisogno, è questo che va cercando. O meglio, che significhi trascorrere tutta la vita insieme e morire insieme nello stesso identico istante, questo gli è chiaro. Ma da lì a capire se la donna che ha per le mani è proprio quella che fa per lui, è un'altra faccenda. E non riuscendo mai a stabilirlo con certezza, Matvej sperimenta. Ora ha perso la testa per Ol'ga Jur'evna Soboleva, la direttrice finanziaria, con tanto di master in economia, di una delle sue società, la Wander2
I suoi genitori erano due diplomatici sovietici, costretti a comportarsi come degli ipocriti (perlomeno con lui, con il figlio). Lui si era legato alla banda dei ljubercy. Era stato un po' con loro, poi si era defilato. E aveva fatto bene: la volontà e il cervello non gli mancavano. La banda si era sciolta come neve al sole. Nell'ultima fase parossistica del regime i genitori l'avevano introdotto nel commercio dei metalli pregiati, dopo di che se l'erano sfangata andandosene in pensione. Matvej aveva superato con onore la prova della ricchezza e, una volta ripresosi dal whisky e dalla cocaina, si era accorto di non aver dilapidato proprio tutto. Gli rimanevano un 10-15% di azioni in una trentina di bizzarre piccole società, dai trasporti alla mia agenzia. E un'altra società che gestiva grazie a questi strani introiti.
lust Cyprus Ltd., come ho appreso dal suo biglietto da visita, quando Matvej me l'ha presentata, ufficialmente per lavoro. Ol'ga doveva avere da noi il rendiconto finanziario. Lei, da brava ragazza in carriera, manifestava un certo interesse nei riguardi di Matvej, ma essendo anche una ragazza seria e accorta, non si spingeva fin dove lui avrebbe desiderato. La cosa però sembrava soddisfare pienamente entrambi. Doveva trattarsi di una leggera forma di sadomasochismo. Una coppia su tre non si sposa, da noi in Russia. Io e Anton siamo da sempre i suoi confessori e consiglieri. Una volta, qualche anno fa, durante una delle nostre consulenze (la ragazza di allora si chiamava Tais'ja), avevo espresso i miei dubbi sul fatto che Matvej fosse davvero innamorato. Allora lui si era tolto in silenzio l'orologio e aveva allungato verso di me il polso girandolo: «Sei un medico, sentimi il polso». Gli avevo misurato il battito: 140. Nel medesimo stato di apparente relax avrebbe potuto anche trovarsi al pub York sulla Trubnaja, in attesa del primo boccale della sua amata Guinness. Da allora gli avevo creduto e gli avevo fornito, per quanto potevo, i miei preziosi consigli, che talvolta si erano rivelati persino efficaci. Come quando aveva avuto a che fare con una ragazza del segno dello Scorpione, decisamente sulle sue, e io gli avevo suggerito di architettare tutta una commedia. La messinscena doveva articolarsi in tre mosse. Prima mossa: ottenere un passaporto per l'estero per la scorpioncina. E questo per Matvej era abbastanza semplice. Le aveva promesso di aiutarla a ottenere il visto d'ingresso per la Comunità Europea. Seconda mossa: stanare la scorpioncina di casa e non farla rientrare nemmeno di sera. Matvej si era servito come pretesto delle imminenti festività di maggio. Terza mossa: portare la bella in aeroporto con sé con una scusa qualunque, per esempio, un pacco in arrivo da ritirare. Il piano prevedeva che l'epilogo sarebbe avvenuto lì, in aeroporto. Matvej avrebbe esibito i biglietti, i voucher per un hotel a cinque stelle sull'isola di Rodi, i passaporti presi preventivamente (il visto la scorpioncina già l'aveva) e avrebbe pronunciato il discorso preparato in precedenza. E, all'obiezione finale: «Ma non ho niente con me!», lui avrebbe replicato che il necessario l'avrebbero comprato al Duty Free dell'aeroporto di Seremet'evo e, dopo una pausa significativa, che il resto l'avrebbero acquista-
to insieme più tardi nelle boutiques dell'hotel. L'operazione era stata preparata sotto la mia supervisione fin nel dettaglio. Il discorso conclusivo era stato così riassunto da Matvej nel suo taccuino: Una cosa così accade solo 1 (una) volta nella vita. Se il nostro rapporto ha una pur minima chance di continuare, questa è la chance da cogliere. Mal che vada, ci faremo una bella vacanza. In ogni caso, sarà un'avventura, qualcosa da ricordare. In Grecia è attivo il Gsm e puoi ricevere tranquillamente le chiamate di genitori e conoscenti (Matvej non si era preso la briga di elencarli), e rispondere eventualmente ad alcune delle loro domande. È già pronta una Bmw Z3 a due posti, cabriolet (la scorpioncina adorava la Bmw, la Formula 1 e Schumacher). L'unico rischio poteva consistere in un rifiuto categorico. In questo caso a Matvej non restava che l'ultima mossa: infilare la bella in un taxi e partire da solo per Rodi per cercare, in quei quattro giorni paradisiaci, la sua nuova musa. Ma non c'era stato il tempo per i rifiuti. La scorpioncina era svanita nel nulla, cosa che aveva lasciato il suo boyfriend completamente rintronato, con tutti i suoi spiedini e i divertimenti pianificati. E tuttavia non credo che lei abbia mai avuto dei rimpianti, perché una cosa è un boy-friend virtuale e un'altra una storia da sogno. Tanto più con Matvej. I suoi resoconti sul caffè col cognac nella minuscola taverna greca ombreggiata dalle foglie dei platani, nelle pause tra una visita al tempio di Afrodite e una al palazzo dei grandi maestri, facevano invidia persino a me e ad Anton. Anton, altro vecchio amico, è un personaggio alquanto bizzarro 3 . 3
Dopo aver terminato la facoltà di matematica all'MGU, era emigrato in Israele, come molti allora. Così, anziché proseguire le sue ricerche nel campo della teoria dei numeri (mi piacerebbe proprio sapere che cos'è), si era messo a inventare nuovi metodi per la mungitura delle vacche, la raccolta delle arance e la coltivazione dei cactus. Alla fine, com'è ovvio, si era iscritto al dottorato e l'aveva persino terminato, ma poi era tornato in Russia perché non se la sentiva di restare in I-
Conoscendo personalmente molti oligarchi dei tempi passati e di quelli recenti, alle volte ci raccontava succosi aneddoti sull'ambiente dei veri nuovi ricchi. Una di queste storie mi aveva particolarmente colpito perché aveva a che fare, in certo qual modo, anche con il mio lavoro. Era accaduto prima della crisi del 1998 al Festival internazionale della pubblicità di Cannes. Due oligarchi pubblicitari concorrenti, di cui Anton non aveva fatto il nome, che però non era difficile da intuire, avevano deciso, all'insaputa l'uno dell'altro, di trascorrere le vacanze sulla Costa Azzurra, portando con sé da Mosca una dozzina di prostitute e due dozzine di compagni di bevute. Era il periodo in cui si cominciava appena a imparare come ci si gode il vero denaro. E, naturalmente, gli oligarchi avevano deciso di noleggiare uno yacht. Che poteva fare una combriccola come quella in Costa Azzurra? Guardare gli spot pubblicitari? Uno aveva noleggiato lo yacht a Monaco e l'altro ad Antibes. All'inizio le loro occupazioni non erano diverse da quelle di tutti gli altri: cognac, cocaina, orge, nuotate e bagni di sole. Ma a un certo punto, scoperta la rispettiva identità, uno aveva telefonato dallo yacht per vantarsi con l'altro delle sue vacanze, e l'altro aveva risposto che anche loro non se la cavavano poi così male. Allora all'oligarca di Antibes era venuta l'idea di far visita all'imbarcazione del rivale. Era stata calcolata la rotta dello yacht, che puntava dritto su Montecarlo. Al capitano, un francese, era stato ordinato di seguire la stessa rotta e di avvicinarsi all'imbarcazione del rivale. Il capitano aveva portato lo yacht a una distanza di sicurezza e non intendeva avvicinarsi oltre, nel rispetto delle norme. I passeggeri a bordo, per l'effetto del cognac, della cocaina e della presenza del capo, avevano cominciato a fare gli sbruffoni. Il primo a essere gettato fuori dall'imbarcazione era stato proprio il capitano, perché d'intralcio. Ma subito gli era stato lanciato un salvagente. Noi russi non siamo gente che abbandona chi è nei guai. sraele o di trasferirsi ancora più lontano, negli Stati Uniti o in Canada. In Russia si era occupato di marketing, facendo immediatamente carriera e diventando direttore della più grande corporation russa di computer, l'Hi-Tech Computers. Nel marketing e nella pubblicità era una sorta di Ogil'vi. Stringeva accordi come Tayllerand. Conduceva una vita mondana degna di una rockstar o di un leader politico della Duma.
Nel frattempo quelli dello yacht di Monaco, riconosciuti i passeggeri di Antibes, avevano cominciato a sbracciarsi allegramente. Al secondo tentativo gli aggressori avevano avuto la bella idea di accostarsi, andando a cozzare violentemente contro il bordo dell'imbarcazione nemica. Il colpo aveva lasciato un po' perplessi i passeggeri dello yacht di Monaco. Ma aveva sorpreso ancor più quelli di Antibes, che al grido di «All'arrembaggio!» avevano assaltato lo yacht rivale e gettato tutti in acqua. Uomini e donne. Il pubblico che passeggiava a riva era rimasto basito: in uno dei luoghi più rispettabili del mondo, di fronte al Grand Casino, dove il numero di Rolls parcheggiate supera quello della loro produzione annua, era in corso uno scontro degno di una battaglia navale! Un vero assalto piratesco. Corpi gettati in acqua, invocazioni d'aiuto. Di lì a un paio di minuti il combattimento era concluso e quelli di Antibes, ottemperando alla legge russa dell'ospitalità, avevano cominciato a lanciare in acqua cognac, cioccolato e giubbotti di salvataggio. Del gruppo di Monaco era rimasto solo il capitano, che s'era comportato in modo del tutto disonorevole, coprendo di vergogna la bandiera francese: s'era rinchiuso nella sua cabina e da lì minacciava di chiamare la polizia. Dopo cinque minuti erano arrivati i poliziotti con le zattere di salvataggio e avevano cominciato a tirar fuori tutti dall'acqua. Qualcuno era stato arrestato e subito dopo rilasciato. Al capitano gettato in mare da quelli di Antibes era stato corrisposto un indennizzo, altri querelanti non ce n'erano. Ciò che divertiva soprattutto Anton era il fatto che la squadra femminile si fosse particolarmente distinta nell'assalto per la sua aggressività. «Questo perché erano delle troie» aveva sentenziato Anton, concludendo la storia. Tuttavia, verso le avventure sentimentali di Matvej, Anton aveva un atteggiamento serio. Parecchie volte, dopo l'ennesimo rimbalzo di Matvej, si era precipitato da lui in piena notte per farlo bere e dimostrava di cavarsela molto meglio di me con le sue disavventure amorose. Ma, a sentire lui, oltre alla storia tira e molla con la direttrice finanziaria, Matvej non aveva attualmente altre storie degne di nota. In ogni caso, Matvej di mattina non era in vena di confessioni. «Sì, Matvej» pronunciai nel ricevitore, senza avvicinarlo all'orecchio. «È successo qualcosa?» «Non hai saputo niente del Chimico?» disse Matvej con una voce che tradiva, nell'intonazione, un'impercettibile e innaturale solennità. Come a
un funerale. «No, che gli è successo?» «Il Chimico è morto.» La voce di Matvej agì come un'iniezione di adrenalina. Mi svegliai di colpo e balzai giù dal letto. Capitolo Due Benché non fossimo più tanto giovani, finora non era ancora morto nessuno della nostra compagnia. Il cielo era stato benigno con noi. La vita scorreva. Ci si innamorava, ci si sbronzava, si straviziava e negli intervalli di tempo si lavorava. Qualche volta avevamo degli scontri, ma nessuno era mai morto. E qualche altra volta mettevamo al mondo dei bambini. La morte la conoscevamo solo dai film di guerra. Il Chimico si chiamava in realtà Il'ja Donskoj e, come spiegava il soprannome, eccelleva in campo chimico. Con strumenti di fortuna poteva sintetizzare nitroglicerina, Lsd o cianuro di potassio. Alto, allampanato, con barba e baffi alla Lennon 1969, aveva portato per lungo tempo i capelli lunghi. Li aveva tagliati solo di recente, rasandosi la testa tranne che per un buffo triangolino scolpito sulla nuca. Aveva sposato una ragazza di origine burjata, una buddista di nome Lilja, figlia di un professore di microbiologia di Pietroburgo, che aveva deciso di riscoprire le sue radici. E come John Lennon o, forse, proprio ispirandosi a lui, il Chimico si dilettava con sostanze psichedeliche e allucinogene. L'eroina non l'aveva mai provata. La cocaina e l'erba non le apprezzava, perché stordivano. E non era mai caduto in nessuna forma di tossicodipendenza. Alcuni anni prima, dopo aver letto Pelevin e Castaneda, aveva provato dei funghi. Aveva cominciato ad alludere a una misteriosa forma di conoscenza, senza però fornire altri particolari. Dopo i funghi aveva preso del calipsol. Fu allora che lo sentii parlare dell'esistenza di un mondo parallelo. Un po' lo sfottevamo, anche se in realtà il suo lavoro all'MNJ Pharmaceuticals suscitava in noi una certa ammirazione, perché era il solo fra noi a essere retribuito per il suo sapere e non per la sua capacità nel manipolare gli individui, allo scopo di rifilare loro qualche prodotto o servizio, o, peggio ancora, per la sua abilità a rubare e spartire poi la torta.
Di recente mi aveva fornito il suo appoggio e io avevo ottenuto dei discreti ingaggi dal suo gruppo farmaceutico. Aveva categoricamente rifiutato qualunque ricompensa, accettando solo una bottiglia di Hennessy XO, che ci eravamo bevuti insieme con sua moglie Lilja nell'appartamento di Jasenevo. Era accaduto solo due mesi fa. E il Chimico non aveva proprio nessuna intenzione di morire. Al contrario, pensava di intraprendere insieme con Lilja un viaggio in Giappone, per raggiungere un monastero buddista nel nord del Paese. Le spiegazioni che aveva fornito in merito a quel monastero erano piuttosto laconiche. Si era limitato a dire che laggiù sapevano meglio di noi com'è fatto il mondo. Impietrito dalla notizia della sua morte, come improvvisamente ottuso, non riuscii a replicare alcunché di sensato. Dall'altro capo del filo, Matvej imprecò, spiegando che nemmeno lui si raccapezzava. Lilja l'aveva appena chiamato sussurrando nel ricevitore che Il'ja era morto, poi aveva riagganciato. Lui l'aveva richiamata sul cellulare, chiedendole dove si trovasse. Lei, sempre sottovoce, aveva risposto: «A casa». E ora Matvej stava andando da loro. Anton era stato avvertito. Dissi che li avrei raggiunti e cominciai a vestirmi. Mi misi al volante, malgrado la sera prima avessi alzato un po' il gomito. Lo stridio dei tergicristalli mi trapanava il cervello. Nell'ora di punta, nell'ingorgo moscovita, quasi mi scontrai con un'ambulanza. Finalmente arrivai e suonai al citofono. La porta dell'appartamento era aperta. Mi vennero incontro Lilja, distrutta, e due uomini cui si leggeva in faccia che erano dei poliziotti. Giacche scialbe, camicie scure e sgualcite senza cravatta, scarpe non lucidate. Uno di loro compilava dei verbali, l'altro si aggirava per l'appartamento, toccando vari oggetti che si trovavano sugli scaffali. Aveva al collo una macchina fotografica. Vedendomi si ravvivò. «E lei chi è?» chiese, senza salutare. «Io? Un conoscente. Che è successo?» Ho sempre evitato di fare lo sbruffone con la polizia. Per questo non gli risposi a tono e, per ogni evenienza, minimizzai la mia amicizia con il Chimico. «Ora chiariremo ogni cosa. Il suo amico è morto.»
«Come?» «Gli hanno tagliato la testa.» «Come, la testa, e con cosa?» Mi sentii mancare e mi sedetti sullo sgabello. «E di solito, secondo lei, come succede?» «Non saprei. È finito sotto un tram?» «No, hanno usato un coltello.» Mi rivolsi a Lilja: «Sai dirmi cosa è successo?». «Ero appena tornata col rapido da Pietroburgo. Avevo fatto visita ai miei.» Fissò il biglietto sul tavolo davanti al detective. «Entro in casa, Il'ja è disteso sul letto. Senza testa. Con le braccia serrate sul petto. E tra le mani tiene una candela benedetta. Intatta. Cioè, mai accesa. Ho chiamato il pronto soccorso e Matvej. Mi sono messa a cercare la testa. Avevo l'impressione che se l'avessi trovata... Del resto, non ha importanza, non l'ho trovata. È arrivata l'ambulanza e anche loro... Hanno portato subito via Il'ja, dopo averlo fotografato.» Lilja parlava molto lentamente, con un filo di voce. I due sbirri l'ascoltavano con attenzione. Avrei voluto confortarla, per quanto possibile. «Adesso arriva Matvej. C'è anche Anton con lui.» «Grazie.» «Ma perché?! Lilja, chi può essere stato? Dei malviventi? Dei ceceni?» «Non lo so.» «In che rapporti era con loro?» «Non lo so.» «Giovanotto, per il momento lasciamo stare le domande! Può mostrarci i documenti?» Il detective che fino a quel momento era stato occupato con i verbali mi fissò con uno sguardo inespressivo. Gli allungai la patente. Cominciò a trascrivere. In quel momento entrarono Matvej e Anton. Il detective abbandonò le sue carte, fece un mezzo giro sullo sgabello e quasi m'investì: «Egregio signore, la prego di tacere e di mettersi a sedere tranquillo!». Mi indicò una sedia, incastrata tra il frigorifero e il tavolo da cucina, e subito il suo tono divenne paterno e bonario. «E voi, signori, in che rapporti siete con il defunto, e tra di voi?» Intuii che i pesi si ridistribuivano, a nostro vantaggio, e a un tratto rammentai che Anton non è solo uno dei miei migliori amici, ma è anche mio cognato. I suoi erano una coppia bizzarra. La madre, una principessa Trubeckaja,
a soli sedici anni, nel 1946, aveva deciso di far ritorno in Russia da Londra perché, ai suoi occhi di patriota, a differenza dell'Impero britannico, che si stava sgretolando, la Grande Madre Russia aveva conquistato mezzo mondo. Il padre era ebreo, e non solo un ebreo, ma un fisico geniale rilasciato nel 1956 dai campi staliniani. Lì, se non altro, aveva avuto la fortuna di conoscere proprio la principessa, che era passata da Londra al gulag, dove faceva la lavapiatti. Anton era venuto al mondo in seguito, quando i suoi avevano già superato i quaranta. Com'erano riusciti dei genitori così a non rovinare il loro primogenito? Il tratto distintivo di Anton era la nobiltà. Una nobiltà di tipo inglese, trattenuta, schiva. E forse era proprio perché temeva quel suo sguardo giudicante, che Matvej non aveva mai ucciso nessuno. La facoltà di matematica aveva aggiunto a una formazione classica equilibrio, giudizio critico e la capacità di non crollare ubriaco dopo una sola bottiglia. S'era sposato giovane, a vent'anni, e per di più, per ragioni a me assolutamente incomprensibili, con mia sorella Dina. Fino al giorno in cui non mi confidò i suoi progetti matrimoniali, non ero stato neppure sfiorato dall'idea che tra loro potesse esserci qualcosa. Il mio rapporto con Dina illustra alla perfezione la celebre storiella del lapsus freudiano 4 . Dina, che ha un anno più di me, era introversa, viziata, il suo atteggiamento pretenzioso, fondato su una sua presunta superiorità intellettuale, mi esasperava. Poi l'esasperazione era passata e io ero risultato essere meno cretino di quanto ci si sarebbe aspettati, ma questo non ci aveva riavvicinato. Aveva una mente straordinariamente dotata. La sua logica sfiorava il paradosso schizofrenico: «Se il numero degli universi esistenti è infinito, allora devono esistere anche infinite varianti di fenomeni» aveva detto una volta in cucina, parlando tra sé. «E allora?» avevo chiesto io, aspettandomi il trucco. «Pensa alle metagalassie.» «Io non credo in un universo senza...» «Che c'entra qui la fede, idiota! Quasi certamente l'infinito non esiste, punto.» Poi, quando vidi la fotocopia di un articolo inglese sui tachioni, le parti4
«Ieri con mia moglie ho fatto un lapsus davvero freudiano.» «In che senso?» «Be', eravamo a pranzo e volevo chiederle di passarmi il pane, e invece sono sbottato: "Sei una troia, una puttana, mi hai rovinato la vita!".»
celle che si muovono più velocemente della luce, la cui esistenza, a detta dell'autore dell'articolo, non contraddiceva né la teoria della relatività, né la concezione sulla quarta dimensione spaziale di Minkovskij, posto che queste particelle si muovano a ritroso nel tempo, compresi che io e Dina non potevamo trovare un linguaggio comune. Men che meno riuscivo a capire cosa le passasse per la testa, e nel cuore. Non ascoltava musica. Non leggeva libri che esulassero dalle sue inclinazioni. Nemmeno di fantascienza. Non aveva amici. E siccome aveva avuto l'idea di iscriversi all'Istituto di fisica, ogni discorso tra noi era chiuso. Tutto ciò che potevamo condividere, oltre ai geni e ai nostri genitori, erano gli scontri in cucina sulla routine quotidiana. «Anton,» gli avevo detto onestamente quella volta «è una vera stronza. E forse...» «Lo so» aveva risposto Anton. «Quelle di fisica sono tutte così.» «Ma proprio te la devi sposare?» «Tua sorella ha qualcosa di molto speciale...» «Davvero? Interessante...» «Non c'è niente di interessante. Se fossi un po' più intelligente, le vorresti bene anche tu» aveva detto di colpo Anton, per troncare il dialogo. Ma quand'è che si era innamorato di lei? Non li avevo mai sentiti parlare per più di tre minuti. E, all'improvviso, avevo avuto un'illuminazione: «E gliene hai parlato?». «Sì, molto brevemente. Ieri.» «E lei che cosa ha detto?» «Che per il momento non ha nulla in contrario.» «È nel suo stile. Ma... avete avuto una storia?» «Non abbiamo avuto nessuna storia. Soprattutto... nel tuo stile.» «Stop! Vuoi dirmi che hai chiesto la mano di una ragazza che non solo non ha convissuto con te per parecchi anni, ma che neppure ti sei mai portato a letto?» Anton si adombrò. Mi accorsi di aver esagerato e cercai di cavarmela. «Era mio dovere avvertirti. Be', con il carattere che si ritrova, potrebbe anche cercare di essere un po' più simpatica. Il cielo mi perdoni se parlo così di mia sorella.» Sviscerai la situazione anche con Matvej, ma lui si limitò a commentare: «Quando hai una ragazza non solo simpatica, ma anche intelligente, andarci a letto non è soltanto un'esperienza piacevole, ma anche interessante». Allora non capii se questa fosse una considerazione sua o se l'avesse rubata
a qualcuno. Anton aveva capito che cosa stava succedendo fin dal primo istante: «Ci hanno detto che è morto un nostro amico. Io sono Anton Epštejn. Questo alla mia destra è Matvej Bugaev. E alla mia sinistra c'è Iosif Mezenin. Se non le è di disturbo, si presenti anche lei.» «Capitano Novikov, detective in servizio» pronunciò lentamente e malvolentieri lo scribacchino, guardandoci dall'alto in basso. «Il suo compagno qui dice di essere un semplice conoscente di Il'ja Donskoj, mentre lei afferma invece che siete amici. Chi ha ragione?» interloquì il fotografo. Decisi di portare il discorso su un piano più costruttivo, tanto più che mi sentivo a disagio per aver rinnegato la mia amicizia col Chimico. «Deve perdonarci, ma non siamo ancora riusciti a riprenderci. Vogliamo capire anche noi che cosa è accaduto e siamo pronti a collaborare per quanto possiamo.» «Che cosa è accaduto? Il vostro conoscente è morto. Gli hanno tagliato la testa. Di più non sappiamo, per ora.» «È morto... per questo?» «Ancora non possiamo dirlo con certezza.» Lo scribacchino ci esaminò di nuovo. «Ma, a giudicare dalla scarsità di sangue, la testa devono avergliela tagliata dopo. Sarà l'autopsia a stabilirlo.» A sentir pronunciare quelle parole mi assalì un senso di nausea, anche se durante i sei anni in cui avevo frequentato l'istituto di medicina avevo assistito a varie autopsie. Ma al primo seminario di medicina legale del quarto anno avevo ricevuto una bella lezione. Mentre aspettavamo il docente nel suo studio, ci eravamo messi a esaminare le fotografie di diversi tipi di suicidio che erano disseminate sulle pareti. Alcuni scatti erano troppo in primo piano, come se a prenderli non fossero stati degli sbirri, ma dei sadici pervertiti. Era entrato il docente, la lezione era cominciata. Ci eravamo rilassati un poco e una delle nostre tre studentesse modello aveva domandato con la sua vocina sottile chi fosse la persona su cui avremmo eseguito l'autopsia dell'indomani. «Neppure il diretto interessato lo sa ancora» aveva replicato con un certo stupore il docente. «Ragazzi, non si tratta dell'obitorio di un ospedale, ma di un obitorio giudiziario, perciò lui è vivo quanto noi. È probabile che nemmeno sospetti che per domani è prevista la sua autopsia.»
Un discorsetto da far venire i brividi, persino quando si hanno alle spalle parecchi anni di medicina, lezioni di anatomia e altre delizie simili, come i turni al pronto soccorso. Lilja, che non aveva fatto altro che misurare con passi inquieti il minuscolo appartamento di due locali, ingombro di armadi, scatole, comò e scaffali, a un tratto si avvicinò e ci chiese: «Gradite del tè?». «Ma no, non è il caso» le disse lo scribacchino, addolcendosi. «Adesso le faremo qualche domanda. Le dà fastidio se fumo?» chiese poi, fissando Lilja con una certa apprensione. Lei non rispose ma gli sistemò davanti un piccolo posacenere bianco. Ci fecero sedere separati. Il fotografo si occupò di Anton e Matvej, avendo evidentemente deciso che, dal momento che erano arrivati insieme, dovevano aver concordato una versione lungo il tragitto. Lo scribacchino sedette invece in cucina, accanto a me e a Lilja che, con il suo biglietto da viaggio e la testimonianza dei genitori e dei capitreno, non figurava di certo tra i sospetti. «Cominciamo da lei, Iosif. Il suo patronimico?» «Jakovlevič. Ma può chiamarmi anche solo con il nome.» «Il nome e il patronimico sembrerebbero ebrei. Il suo cognome invece è russo?» Non sopporto domande simili, ma se lo scopo del detective era quello di confondermi e di farmi parlare, non posso biasimarlo. «Mi hanno chiamato così in onore del nonno. Lui era ebreo. Le due nonne e l'altro nonno invece erano russi.» «Russi, molto bene. Ma io dicevo così, tanto per dire. Ecco la domanda: dov'era lei, Iosif Jakovlevič, ieri sera e stanotte?» «A casa. Ho letto, lavorato e guardato la tv. C'era una partita di calcio: Bordeaux-Nantes. Poi sono andato a dormire. Ho bevuto del whisky» aggiunsi incidentalmente. «E non c'è nessuno che possa confermarlo?» «Nessuno.» «Proprio nessuno?» disse, ravvivandosi. «No, eccezion fatta...» replicai, improvvisamente allarmato, «per il mio provider.» Dovetti spiegare brevemente che si poteva verificare se dal mio computer ero entrato in internet e in quali siti avevo navigato. Lo scribacchino prese diligentemente nota di tutto ciò che avevo detto. Seguì un lungo interrogatorio, tedioso e inconcludente, con domande
che spaziavano dal perché facessi un lavoro che esulava dalla mia specializzazione, occupandomi invece di cazzate, a quando avevo visto il Chimico l'ultima volta, e se non faceva uso di alcol o stupefacenti, se avevamo avuto dei contrasti e, soprattutto, se avevo dei sospetti su qualcuno. No, non sospettavo di nessuno. Non conoscevo persone che non facessero uso di alcol e, se anche simili salutisti esistevano, non figuravano fra le mie frequentazioni. Riuscii a glissare sugli stupefacenti. Giurai che il Chimico non aveva legami con gruppi caucasici, né con altri gruppi, anche se non mi era stato richiesto di giurarlo. Ma non era finita: mi toccò descrivere allo scribacchino la mia serata del giorno prima minuto per minuto. Stavo collaborando scrupolosamente e diligentemente all'indagine quando dalla stanza vicina si udì Matvej gridare: «Cazzo, non capisco perché continuiate a menarla con queste stronzate! Quanto dovrete andare avanti ancora a sfracellarci le palle?». Tacqui, aspettando con un certo terrore la replica del poliziotto. La risposta del fotografo mi sorprese piacevolmente. «Se non indaghiamo intanto che le tracce sono ancora fresche, tutti gli indizi andranno perduti rapidamente» recitò con voce inespressiva, come leggendo chissà quale manuale o regolamento. «E allora, su, avanti, interrogate i vicini! Correte a stampare l'elenco delle telefonate! Prendete le impronte! Interrogate i colleghi di lavoro! Accompagnate Lilja all'obitorio per l'identificazione!» A quel punto Matvej si fermò: Lilja non poteva essersi sbagliata. Una moglie riconosce il proprio marito anche se è senza testa. Anton aveva seguito lo sfogo di Matvej con la solita aria scettica. «Matvej, questa è la polizia di Mosca, quella vera! Non siamo in una fiction televisiva.» «No, Anton, no! Anche loro possono, se vogliono e noi, cazzo...» Matvej lanciò a tutti i presenti un'occhiata furiosa, «li costringeremo.» Nel frattempo io e lo scribacchino eravamo già passati dalla cucina alla stanza da letto. Il fotografo, senza ribattere, si alzò. Firmate le deposizioni, lo scribacchino disse, con serietà quasi solenne: «Grazie per aver collaborato alle indagini». Si avviò, con il collega dietro. «Noi andiamo. Il nostro numero di telefono l'avete. Se vi viene in mente qualcosa, chiamate.» Ora bisognava pensare a Lilja, tenerla occupata. Le domande della poli-
zia, che sono senz'altro la terapia migliore per uno choc, l'avevano in qualche modo distratta. Ora occorreva mettersi in contatto con i genitori del Chimico, che erano in vacanza all'estero, e con i genitori di Lilja, che avevano promesso di arrivare col primo volo da Pietroburgo. Chiamare le pompe funebri. Fare le prime cinque telefonate, che ne avrebbero provocate inevitabilmente altre venticinque. Era toccato anche a me quand'era morto mio padre. Allora ero stato efficiente, estremamente gentile, intelligente, composto, calmo e attento. La reazione l'avevo avuta solo dopo il funerale. Una reazione che non auguro a nessuno... In una pausa tra una telefonata e l'altra avevo chiesto a Lilja: «Lilja, ma tu ci capisci qualcosa?». «No» aveva risposto lei, con lo stesso tono con cui si risponde «sì». Avevo fatto un gesto sconsolato con la mano. Le tracce fresche vanno bene per dei detective. Verso le sei di sera s'erano assiepate tantissime persone, più di quante l'appartamento ne potesse contenere. Alcune le conoscevo, altre le vedevo per la prima volta. Odio l'atmosfera dei funerali. Il mormorio delle voci, lo scuotere di teste. Quel misto di farsa e tragedia. Me ne andai alla chetichella, persuaso che almeno una quindicina di persone restava a prendersi cura di Lilja, inclusi Matvej e Anton. Arrivai a casa distrutto e mi buttai sul letto. Mi misi a fissare il soffitto. Il soffitto era vuoto, ma tornavo lentamente in me. Una testa tagliata. Una candela accesa tra le dita irrigidite. Questo era morire? Smettere di vedere, di muoversi? Che razza di delirio. All'improvviso mi ricordai di una brevissima canzone dei Beatles. Una canzone d'addio dell'ultimo album: And in the end the love you take is equal to the love you make5 . Chissà se il Chimico aveva ricevuto dell'amore. E se ne aveva dato in cambio. La stessa sera, molto tardi, mi chiamò Anton. «Come stai?» «Non bene. Nient'affatto bene. E tu? Sei ancora da Lilja?» «Sì.» «C'è anche Matvej?» 5
E alla fine l'amore che ricevi equivale all'amore che dai.
«Sì.» «Come sta Lilja?» «Resiste. Come una roccia.» «Brava.» «Sa qualcosa, ma non ne vuole parlare.» «Cosa sa, Anton? Adesso non sono in grado di connettere. Parliamone domani, perdonami.» «Certo.» Non mentivo. Le gambe mi dolevano come dopo aver sollevato venti tonnellate in un centro di fitness. Finii una bottiglia, nonostante la nausea, e trascorsi il resto della notte in preda ai peggiori incubi. Due giorni dopo ci furono i funerali. E la cremazione. La bara, naturalmente, non venne lasciata scoperta. Finalmente capii perché non amo il profumo dei fiori ammassati in uno spazio chiuso: lo associo decisamente alla morte. Detesto la morte. Poi ci fu il banchetto funebre. Io ero con Maša, Anton con Dina e Matvej con la sua direttrice finanziaria, una biondina sexy. Dissi che il Chimico era il più sapiente di noi tutti. Gli astanti annuirono e bevvero alla sua memoria. Non mancò la discussione di rito sul tema "esiste un'altra vita dopo la morte", che vedeva il fronte dei credenti opposto a quello degli scettici e dei materialisti. Dispute, esempi, argomentazioni. Una signora sentenziò con convinzione: «Insomma, che ci sia o no qualcosa nell'aldilà, è impossibile scoprirlo!». Anton, che era stato in silenzio fino ad allora, la fissò assorto e commentò: «Scoprirlo è impossibile. Però ci tocca». Quando i primi invitati cominciarono ad andarsene, Anton ci chiamò in disparte e ci mostrò una copia del referto dell'autopsia: «Dove te lo sei procurato?» gli domandammo. Ma non c'era bisogno di spiegazioni. Lui poteva procurarsi tutto ciò che voleva. Ecco quel che leggemmo: «Il decesso è stato provocato da un improvviso arresto cardiaco. Non si sono riscontrati segni di soffocamento. Né sono state rinvenute tracce di sostanze tossiche note, di percosse o emorragie che abbiano potuto provocare il decesso. La testa è stata recisa a morte avvenuta». Il referto mi sembrò strano, anche se dai nostri medici legali ci si può aspettare di tutto. «Forse si tratta di un'organizzazione criminale. Magari Il'ja aveva raffi-
nato degli stupefacenti per loro e poi non si sono messi d'accordo...» ipotizzò Matvej, corrugando la fronte. «Se fossero stati dei criminali, gli avrebbero lasciato la testa» fece notare Anton. «E poi, quella candela tra le mani... Sembra un omicidio rituale. Peccato che Lilja non voglia parlare.» «È tutto molto strano» conclusi. Tornammo a tavola. Non ci sembrava corretto continuare le nostre analisi in presenza delle signore. Anton promise che avrebbe tampinato la polizia, anche se nemmeno lui credeva che si potesse risolvere un caso di omicidio su commissione. Le due settimane seguenti fui impegnato a risolvere i soliti problemi finanziari dell'agenzia. Lavoravo, cercavo di persuadere i clienti, elaboravo progetti per ottenere prestiti e proroghe sull'affitto. E la morte del Chimico passò in secondo piano. Continuava a esistere, ma solo come incubo nel mio inconscio. Ero sovraccarico di lavoro, e la cosa non mi dispiaceva. Tutto ciò di cui avevo bisogno erano degli incarichi continuativi per otto-diecimila dollari al mese, per poter pagare almeno l'affitto dell'ufficio e lo stipendio alle mie collaboratrici. Ma di incarichi continuativi non ne avevo. I clienti potenziali, inoltre, ci sfinivano, sparendo nel nulla dopo averci costretto a elaborare proposte in cui se ne andava magari una settimana di lavoro. Gli ultimi erano stati giorni particolarmente pesanti. Arrivavo a casa distrutto. Mi vedevo con Maša di rado, ma la cosa non sembrava affliggerla, presa com'era dall'ennesima sequela di scenate col suo German. Con Anton e Matvej non mi ero più visto, comunicavamo solo attraverso le mail e il telefono. Anton diceva che l'indagine era a un punto morto. Alla commemorazione dei nove giorni dalla morte del Chimico non partecipai, adducendo come scusa degli impegni di lavoro, ma diedi la mia parola che a quella per il quarantesimo non sarei mancato. Capitolo Tre «Forse non ho capito bene» confessai candidamente. «Lei vuole che diffondiamo le parole "Deir el-Bahari", "calipsol", "solitudine" e anche le cifre: "222461215"? Questo attraverso la stampa, la televisione e internet, con la maggior frequenza possibile?» «Proprio così» rispose. «E vi pagherò per questo.» La somma non era male. Cinquemila dollari per il rating mensile e altri
500 dollari per ogni volta che quelle farneticazioni sarebbero comparse sui media. «Ma potrebbe spiegarmi a cosa le serve?» «Non posso spiegare più di quanto non le abbia già detto.» E non aveva detto nulla. A ogni modo, neppure se gli affari fossero andati bene avrei rifiutato l'incarico, benché le parole "Deir el-Bahari" mi ricordassero la Cecenia, l'11 settembre e Beslan. Ma gli affari andavano male, anzi andavano nel peggiore dei modi. E, dalle mie valutazioni, con questo cliente avremmo potuto guadagnare, senza particolari sforzi, diecimila dollari al mese. Il cliente sedeva quasi immobile, con le mani appoggiate sulla scrivania, come il coniglio della Duraceli. Nell'insieme aveva un aspetto poco gradevole. Basso, con le orecchie grandi, senza un accenno di sorriso. Capelli di un biondo slavato, tracce di calvizie. Il suo completo di colore viola, la rigidità dei gesti e l'aspetto esageratamente curato e lindo mi divertivano. Ma trovavo ancor più spassosa la ragione per cui si era rivolto a noi: a quanto pare eravamo l'agenzia pubblicitaria più piccola tra quelle che figuravano nell'elenco della Moscow Business Telephone Guide. La presenza di un modesto organico, che per gli altri clienti rappresentava il nostro maggiore handicap, faceva invece proprio al caso di Fëdor Fëdorovič Podgorel'cev (sul suo biglietto da visita, sotto al nome, figurava solo un numero di cellulare scritto di sghembo). Questo, a sentir lui, avrebbe dovuto garantire la privacy del suo incarico, un fattore di estrema importanza. Aveva telefonato al mattino, riuscendo subito a sorprenderci; non accadeva spesso che ci telefonassero, se non in occasione di ispezioni fiscali. Senza grandi preamboli o presentazioni, aveva detto che voleva commissionarci un certo lavoro, ma prima voleva sapere quante persone lavoravano da noi e il nome del direttore generale, ossia il mio. Considerato che, se davvero interessato, avrebbe comunque visto il nostro ufficio di due locali, non mi era sembrato il caso di esagerare. Gli avevo risposto che eravamo in cinque, per poi affrettarmi ad aggiungere che potevamo contare su una schiera di collaboratori esterni e affidabili subappaltatori. Aveva promesso che sarebbe comparso di lì a una mezz'ora ed era stato di parola, materializzandosi in ufficio in tempi brevissimi. Ora era di fronte a me, a ripetermi che non poteva aggiungere nulla a quanto aveva già detto da quella che mi sembrava un'eternità. «Va bene, ma avrei ancora un'ultima domanda. Da quanto capisco il suo obiettivo è quello di influenzare l'opinione pubblica mediante la diffusione
di queste parole» corrugai la fronte «e di queste cifre, divulgate in modo subliminale, trasversale. Ma perché proprio in modo subliminale? Perché non usate una pubblicità diretta? Affittate una decina di spazi pubblicitari e scriveteci sopra quello che volete!» «Non possiamo utilizzare una pubblicità diretta. Questo attirerebbe su di noi un interesse che non vogliamo.» «Ma potete fare una pubblicità del tutto anonima! Tramite noi, per l'appunto.» «Glielo ripeto...» La voce di Fëdor Fëdorovič era monotona in modo esasperante e strideva come un'antipatica sveglietta sovietica. Una sveglietta degli anni Settanta, perché quelle vecchie, grandi, di metallo, coi martelletto in cima, hanno un suono assai più gradevole. «D'accordo. Un'ultimissima domanda.» Da parecchio ormai i miei zelanti collaboratori continuavano a farmi segno che avevo ancora a disposizione due o tre domande al massimo. «E se i giornalisti dovessero fiutare qualcosa? Come facciamo a sistemare la faccenda? Cosa ci inventiamo, come gliela condiamo?» «Gliel'ho già detto, se i giornalisti fiuteranno qualcosa, lei si ritroverà in guai seri, più seri di quanto possa immaginare. Le ricordo che ha firmato l'accordo di riservatezza.» Non mentiva, l'avevo firmato fin dall'inizio dell'incontro. Era un accordo decisamente bizzarro e all'inizio mi aveva messo in allarme, finché la mia attenzione non era stata catturata dall'abito e dalla cravatta del mio ospite e l'ansia era svanita. Il documento, sputato dalla stampante in condivisione, recitava a lettere cubitali: «Io sottoscritto, Iosif Mezenin, sono autorizzato ad accedere a informazioni riservate e mi assumo tutta la responsabilità della loro diffusione». L'avevo firmato con un'alzata di spalle, altrimenti FF non avrebbe neppure aperto bocca e non mi avrebbe mostrato il suo biglietto da visita. Ora cominciavo a pentirmene. Avevo l'impressione che fosse approdato da noi non tanto perché eravamo l'agenzia pubblicitaria più piccola, quanto perché eravamo senz'altro la più sprovveduta. Una buona metà di quelli che aveva contattato doveva averlo già mandato al diavolo direttamente al telefono, mentre gli altri l'avevano fatto di persona, non appena adocchiato il suo abito viola e quello strano documento. «Che genere di guai?» chiesi, animandomi. Ne avevo abbastanza.
«Spero di non dover tornare mai più sulla questione della sua incolumità personale. Solo lei dev'essere a conoscenza dell'incarico, e nessun altro: nessun altro collaboratore, nessun giornalista, nessuno. In tal caso né lei, né noi avremo dei problemi.» Mi adombrai. Sono molto comunicativo e non posso sopportare i segreti. Ragiono meglio quando posso discutere di una cosa con qualcuno. O, per dirla filosoficamente: "Come faccio a sapere ciò che penso se non sento ciò che dico?". A dirla tutta, oltre a essere comunicativo, sono anche del tutto inaffidabile. Perciò la sera stessa mi trovai con Anton al pub Think-off sulla Smolenka e gli spiattellai tutta la storia. «Comunque i soldi te li ha dati» sottolineò Anton. È già qualcosa. «Be', ci mancava pure che non mi pagasse! Con le sue deliranti scritte e il suo "Deir el-Bahari"! Ha sborsato buono buono i suoi cinquemila dollari e non ha voluto nemmeno la ricevuta. Ma quale sia lo scopo, è un mistero.» Anton esaminò attentamente le tre parole e le cifre che avevo trascritto sul tovagliolino. «Un mistero. Oppure si tratta di codici PNL, programmazione neurolinguistica. O di una campagna pubblicitaria occulta. Segnali.» «Mi gira la testa. Per il momento mettiamo da parte il misticismo e partiamo dalla PNL. Non ne so molto, anche se, data la mia professione, dovrei saperne di più...» «È una tecnica che consente di agire sul sistema nervoso mediante determinati codici. È per questo che viene chiamata PNL.» «Questo lo so, ma come si presentano questi codici?» «Sono i più diversi. Ti faccio un esempio: parli con un cliente e gli dici che è davvero in forma e che ha dei figli meravigliosi, sempre che tu prima l'abbia convinto a mostrarti le loro foto. È ciò che si chiama stabilire un "orientamento positivo". E mentre crei questo orientamento positivo, sfiori in un certo modo la sua manica. È ciò che viene definito "fissaggio o ancoraggio". E così, quando gli dici: "Non le sembra, Ivan Ivanyč, che sia ora di firmare il contratto?", in quel preciso momento gli sfiori la manica e raggiungi il risultato che ti eri prefissato.» Anton fece una breve pausa per scorrere il menu e poi alzò gli occhi su di me. «Ma puoi anche non raggiungerlo, dipende dalla persona con cui hai a che fare.» «O dalla compagnia...»
«Che c'entra qui la compagnia?» disse Anton, aggrottando la fronte. «Di che compagnia parli?» «Niente, dicevo così... È una sorta di citazione. Poco tempo fa, mentre eravamo in volo verso Pietroburgo per promuovere un cliente produttore di birra, io e i colleghi dell'agenzia ci eravamo messi a discutere del fatto che a nessuno di noi fosse mai capitato di scopare in aereo, ma la nostra Ljuba, la ragazza della reception, una di idee molto aperte, di colpo ha detto: "Io l'ho fatto". E tutti: "E allora?". "Niente di speciale. Uguale alle altre volte. Dipende tutto dalla compagnia." Scusami, ti ho interrotto. E allora, la PNL?» «Che effetto ti fanno tutti quei "calipsol" e quelle "solitudini"?» «Mi esasperano. Non mi piace sentirmi programmato, manipolato.» «Be', già» sospirò Anton. «In effetti, l'azione dovrebbe essere invisibile, impercettibile, altrimenti non è più PNL, ma lo spot di un detersivo. Tra l'altro, la PNL viene spesso utilizzata anche nella pubblicità. Quando è applicata nella sua forma più primitiva non è dannosa, perché la gente normale può ancora sottrarsi.» «Per esempio?» «Nel caso delle scelte indotte, quando susciti in un consumatore un bisogno che per lui non è necessario... "D'ora in poi potrete comprare 'Ice' col coperchio rosso oltre che con quello verde!"» «E questa sarebbe PNL?» «Un classico. Eccoti un altro esempio: le "domande". L'obiettivo è quello di condizionare attraverso una domanda-slogan del tipo: "Preferite Fresco Bucato o il pentolone d'acqua bollente?". Che sta per: "Bollite ancora i vostri panni? Basta, da oggi ci pensiamo noi!". Da lì, in un secondo tempo, si può passare a: "Preferite Fresco Bucato o la graticola?".» Mi misi a riflettere. Ormai avrei dovuto essere un esperto in questo campo, ma non mi era mai venuto in mente di poter manipolare le persone, attraverso la pubblicità, facendone degli zombie. Anton continuò. «La performance più elevata per chi deve applicare la PNL consiste nel riuscire a programmare le persone attraverso i suoni. Avrai certo notato che alcune parole hanno un suono cupo e altre un suono allegro. Ecco, per esempio, "sarcasmo" ha un suono abbastanza cupo, mentre la parola "ironia" uno allegro. Ma se una semplice combinazione sonora può influenzare l'umore, intervenendo abilmente è possibile influenzare le persone in modo decisamente più serio. Soprattutto i soggetti maggiormente predisposti.»
Ricominciai a riflettere. Mi ha sempre stupito come le persone che portano lo stesso nome presentino anche un'evidente affinità di carattere. Le Marine, per esempio, sono irrequiete, quasi irruenti, e con la puzza sotto il naso, le Maše caparbie, spirituali e profonde. Le Olghe intelligenti, concrete e molto determinate. Le Vere sono amabili e tranquille. Le Nataše romantiche, elusive, il loro fascino deriva proprio da questa insicurezza che tanto piace agli uomini. Il problema sono le Aleksandre, che fin da piccole vengono chiamate, come i loro omonimi maschi, Alik, o Saša o Šurik, il che influenza inevitabilmente anche il loro carattere... Ne consegue che l'affinità di carattere è collegata all'influenza che il suono del proprio nome produce sulla psiche fin dall'infanzia, e quello del proprio nome è il suono che una persona sente di più nei primi anni di vita. E, tra l'altro, anche il più amato. Si potrebbe quasi scriverci sopra una tesi: Da Freud alla programmazione neurolinguistica. «Già!» dissi, riemergendo dalle mie elucubrazioni. Anton guardava intento un videoclip e con la mano mi indicò il televisore: «Guarda!». Era forse il primo video nella storia della musica rock: Strawberry fields forever. Allungai il collo: i televisori al Think-off sono molto in alto e sullo schermo i Beatles danzavano lentamente attorno a un piano da cui erano state tolte tutte le coperture in legno e facevano colare della tinta dall'alto sulle corde, girando tutt'attorno. Avevo ascoltato quella canzone centinaia di volte, ma non avevo mai visto il video. Ascoltai la parte del flauto, nervosa, dolce, intelligente, come se la sentissi per la prima volta. «A dire il vero non è un video» disse Anton. «I video non esistevano ancora, è una scena tagliata di Magical mistery tour, ma è fantastica!» «Sì» confermai. «E il flauto è uno schianto!» «Sì, il flauto è notevole e il testo fa il suo effetto. Un classico della cultura psichedelica, anche se i Beatles non hanno mai studiato programmazione neurolinguistica, ma il flauto non è male anche in For No One, ti ricordi?» Me lo ricordavo. Allora, pensando per la prima volta che mi sarei separato per sempre da Maša, mi ero sdraiato sul pavimento, mettendo For No One decine di volte di seguito: And in her eyes you see nothing. No sign of love behind the tears cried for no one.
A love that should have lasted years6 . Non aveva telefonato per due giorni, cosa che nel nostro rapporto non era ancora mai accaduta e io, senza alzarmi, azionavo il telecomando facendo suonare sempre quella stessa traccia di Revolver. Mi veniva da piangere dalla disperazione, e quella canzone non faceva che amplificare la mia angoscia. Sarà per questo che sono tanto indulgente verso le pene d'amore di Matvej. You stay home, she goes out. She says that long ago she knew someone, but now he's gone. She doesn't need him 7 . «Il Chimico amava Lennon» mi rammentai tutt'a un tratto. «Già, il Chimico» replicò Anton, sospirando profondamente. «Gli sbirri non hanno fatto ancora nessun nome.» «Matvej ha giurato di stargli addosso.» «Lo conosci Matvej, è un duro, ma subito dimentica. E poi che possono fare gli sbirri... Quanti sono i casi di omicidio su commissione che vengono risolti, qui in Russia?» A un tratto mi venne un'illuminazione. «Anton, il calipsol!» «Già... Il calipsol, il Chimico se lo iniettava. Il Chimico è stato ucciso per qualche ragione che non conosciamo e in un modo molto misterioso e tu hai ricevuto uno strano incarico. Vuoi dirmi che vedi un nesso tra le due cose?» «Proprio così.» «Ma il Chimico non si faceva di chetamina?» «È la stessa cosa, la stessa sostanza, solo con un nome diverso.» «Torna in gioco l'ipotesi della campagna pubblicitaria occulta. Un gruppo farmaceutico, produttore di calipsol, vuole incrementare le vendite di stupefacenti tra le nuove generazioni.» «Anton, non è possibile! Un'importante compagnia occidentale intenta a 6
E nei suoi occhi non vedi nulla. Nessun segno d'amore dietro le sue lacrime, versate per nessuno. Un amore che avrebbe dovuto durare degli anni. 7 Tu resti a casa, lei esce. Dice che molto tempo fa conosceva una persona, ma ora quella persona non c'è più. E non ne ha più bisogno.
fare una campagna pubblicitaria occulta per gli stupefacenti?» «L'esterofilia era già stata condannata cinquant'anni fa dal compagno Stalin. Lo sa bene mia madre, che si è fatta proprio per questo otto anni di detenzione. Queste gigantesche corporation sono dei mostri, solo che preferiscono non pubblicizzarlo, se non è necessario. Peggio dei gruppi farmaceutici ci sono solo i produttori di tabacco. Sono quasi delle organizzazioni criminali.» «Anton, rispetto la tua filosofia no-global, ma che interesse avrebbe avuto un gruppo farmaceutico di livello internazionale a uccidere il Chimico?» «La domanda è la seguente: ma non saranno proprio quelli della MNJ Pharmaceuticals, che si rivolgevano al Chimico come esperto, a produrre il calipsol?» «Si può controllare facilmente.» «Controlla. Tu hai ancora dei contatti in campo medico. Non sai qual è l'effetto del calipsol?» «Che effetto fa? So che viene usato come anestetico per interventi veloci come l'aborto. O una lussazione o l'estrazione di un dente. Se si dimezza di cinque volte la dose, anziché provocare un sonno profondo, il narcotico causa un temporaneo torpore, accompagnato da strane allucinazioni.» «Insomma, il calipsol è un allucinogeno come l'Lsd?» «No, non come l'Lsd. Con l'Lsd hai una percezione alterata della realtà circostante, mentre il calipsol ti trasporta in un altro mondo.» «Interessante...» «Esiste una tecnica per lasciarsi andare. Si fa buio in casa, si spengono tutte le luci della stanza e se ne lascia accesa solo una, molto piccola. Poi si mette un po' di musica, classica. Preferibilmente musica d'organo. Dopo di che ci si inietta il calipsol e ci si sdraia sul letto.» «È necessario iniettarselo?» «Sì, è necessario. Si può farlo sottopelle, oppure intramuscolo, come fanno i soldati.» «I soldati?» «Sì, i soldati. Se un soldato viene ferito o subisce un attacco con gas, deve immediatamente iniettarsi nella coscia, anche attraverso i pantaloni, un anestetico o l'antidoto. O qualunque atropina.» «Non scherzerei con roba così, amico. Tu l'hai provato?» «Sì, me lo procurava il Chimico. L'ho provato tre o quattro volte, tanto tempo fa. Non è pericoloso, non dà assuefazione. Non c'è rischio di overdose, la dose terapeutica è cinque volte maggiore.»
«E le sensazioni?» «Sai, è strano. Non si sballa. Nessuna euforia. L'umore non migliora. All'inizio ti sembra di essere morto, anche se non fa paura, o almeno, non troppa. Poi cominci a levitare prima sopra il letto, poi sopra la città e infine sopra la Terra. E vedi la Terra da un'altezza assolutamente cosmica, ma in modo del tutto nitido, soffusa da una luce arancio-ambrata, come se fosse illuminata dai fanali notturni di un viale. Poi, all'improvviso, ti ritrovi per tua volontà sottoterra, dentro catacombe ben attrezzate. Tutt'attorno a te hanno inizio delle misteriose cerimonie, simili a dei riti di massa. Ha luogo un rituale lungo, complesso, raffinato, di cui tu sembri essere il protagonista. Alla fine ti rendi conto di essere finito non in un altro mondo ma, più esattamente, in un'altra parte di questo mondo. E ti accorgi che con gli esseri che vi dimorano puoi comunicare, ma in un modo diverso da quello in cui comunichiamo io e te. Attraverso il pensiero o attraverso impercettibili movimenti degli occhi e delle sopracciglia o onde sonore diffuse mediante uno strano liquido. E, in quel momento, la musica che hai messo all'inizio del tuo trip assume la forma di lunghe onde marroni che si prolungano in una serie di gallerie in fuga. Te lo immagini? La musica assume forma e consistenza.» «La musica diventa tridimensionale?» «Sì, proprio così. Come una fuga di archi scuri, di varia altezza e ampiezza. E poi c'è un'altra cosa interessante: se c'è qualcun altro che si è bucato insieme a te, hai l'impressione di poterci entrare in contatto, ed è un vero sballo, perché quando il viaggio finisce, ricordi tutto e potresti anche metterti a parlare col tuo compagno e ricordargli di come avete comunicato. A volte ti sembra di poter fare degli esperimenti, indovinare un numero, per esempio. O comunicare un numero a qualcuno che si è bucato nello stesso momento, ma dall'altra parte della città. O del mondo. E poi, finito il viaggio, controllare se sei riuscito a comunicarlo davvero. Ma l'essenziale è che, dopo l'esperienza del calipsol, è come se ti restasse l'idea che la morte non esiste, ma che esiste invece un altro mondo, parallelo.» Anton sedeva, estremamente concentrato. Io lo fissai, proseguendo la mia analisi: «Se davvero il gruppo farmaceutico del Chimico diffondeva la pubblicità occulta del calipsol, allora la questione è sorprendentemente semplice: il Chimico l'avrà scoperto, e loro l'hanno ucciso, tagliandogli la testa per confondere le acque, per depistarci. O per spaventare Lilja. Un bel quadretto, no?». «No, non credo che ci siamo» mi smentì Anton con assoluta sincerità.
«Tu hai parlato anche di una sostanza affine, prodotta da un altro gruppo farmaceutico. Come hai detto che si chiama? Chetamina? E poi non sappiamo ancora se la MNJ Pharmaceuticals produca davvero calipsol. Bisogna prima verificare. E poi, ammesso che lo produca, che c'entra Deir elBahari? E la parola "solitudine"? E quella serie insensata di numeri? Che cifre sono?» «222461215.» Anton trascrisse i numeri su un tovagliolino e si mise a disegnare qualcosa. «Va bene» replicai, senza darmi per vinto. «Se la tua versione è quella giusta e si tratta di un messaggio cifrato, a chi è diretto? A tutti simultaneamente? Loro vogliono che appaia dovunque.» «A chi è in grado di decifrarlo.» «Certo non noi. E se avesse qualche significato mistico?» «Non è escluso. Il committente potrebbe essere un ricco psicopatico con idee deliranti. Ma non vedo il legame con la morte del Chimico. Temo che per stasera non riusciremo a risolvere questo rompicapo, abbiamo troppo pochi indizi. S'è fatto tardi. Dina mi aspetta.» «Quanto all'esistenza di una relazione, pensaci. Abbiamo un incarico e una morte misteriosi. E un anello di congiunzione: il calipsol. Domani cercherò di scoprire chi produce questa droga e guarderò in internet dove ci porta Deir el-Bahari.» «Ottima idea. Fai una ricerca su Deir el-Bahari, io penserò alle cifre. Chissà che i miei cinque anni di matematica non diano qualche frutto. Ci sentiamo per telefono.» E dopo che ebbe pagato con la carta per entrambi (era più ricco di me e la cosa non mi creava complessi), Anton entrò nell'ascensore azzurro del Think-off e scese a pianterreno. Restai ad ascoltare la musica e a finire la birra. Nick Cave e PJ Harvey cantavano insieme la loro misteriosa Henry Lee. Rabbrividii, mentre cercavo di concentrarmi sul testo. Io, Anton e Matvej avevamo studiato inglese a scuola, facendo pratica sui testi delle canzoni. Io, che ero stato educato dai miei genitori sulla triade classica dei nostri cantautori (Galič, Okudžava e Vysockij, una vera piramide: il primo perfido, il secondo buono e il terzo forte, tutti e tre geniali), avevo cominciato a capire che il vero rock aveva molte affinità con la canzone d'autore. Solo che il rock è meglio. Le parole, però...
Allora non sapevamo che il rock è molto più di una sintesi di musica e parole. E pensavamo l'opposto, che la musica più le parole equivale all'amore. A quel tempo non c'era ancora internet, e non si sapeva dove reperire i testi, per questo ci era di grande aiuto la ragazza di Matvej, di nome Alka-Palka, che aveva vissuto a Londra una decina d'anni e conosceva l'inglese non peggio della Thatcher. E siccome Alka era spaventosa come la bomba atomica, non disdegnava la nostra compagnia d'intellettuali in erba. Ci segnalava gli errori di interpretazione e ci aiutava a tradurre le frasi in slang. Da allora, per me era diventato automatico tradurre i testi, ma su Henry Lee mi concentravo per la prima volta. Lie there, lie there, little Henry Lee Till the flesh drops from your bones For the girl you have In that merry green land Can wait forever for you to come home8 . Mi figuravo i brandelli di carne che si staccano dalle ossa... Ma io non avevo nessuna ragazza in nessuna merry green land che mi avrebbe aspettato dopo la morte. Mi strinsi nelle spalle e me ne tornai a casa, alla mia solitudine. Capitolo Quattro Il mattino seguente chiamò Anton per chiedermi se avevo cominciato a indagare su Deir el-Bahari e dirmi che quello stesso giorno partiva per gli Stati Uniti, dove sarebbe rimasto una settimana. Gli chiesi dove fosse diretto di preciso. Redmond, fu la risposta. «Che c'è di tanto urgente a Redmond?» mi informai per non urtare Anton con il mio disinteresse. A dire il vero, le mie nozioni sulla geografia degli Stati Uniti sono alquanto scarse. «A Redmond c'è la Microsoft» spiegò Anton. «Il quartier generale. Mi hanno invitato per un'intervista, cioè per un colloquio. Mi faranno un test, o qualcosa del genere.» «Ah, hai già deciso di lavorare per il mostro occidentale? Da ieri hai già 8
Resta lì, lì dove giaci, piccolo Henry Lee, fino a che la carne non ti cadrà dalle ossa. Perché la ragazza che hai in quella gaia terra verde può aspettare in eterno che tu torni a casa.
cambiato opinione su di loro?» Era una provocazione abbastanza crudele, la mia. A differenza di noi, Anton aveva ancora dei princìpi. Restò impassibile. «È un mostro intellettuale. Non produce alcolici, né tabacco.» «Guarda un po'. Be', sai, sulla Microsoft si potrebbero fare discorsi di ben altro tenore. Hanno bisogno del tuo cervello?» «Mi hanno invitato per parlare di questo. Il viaggio è a carico loro.» «E il visto?» «Ho quello che dura cinque anni.» «Ah, già, i miei complimenti allora» dissi. «Devi essere uno davvero figo, se non possono farti il test a Mosca.» Gli augurai buon viaggio. La vita continuava. All'improvviso avevano cominciato ad affluire più soldi. Pagai l'affitto con i dollari di FF e mi misi a lavorare all'incarico. La sera del primo giorno mi resi conto che da solo non ce l'avrei mai fatta. C'era un grosso lavoro da fare coi giornalisti, complicato dalla stranezza dell'obiettivo da raggiungere. Venni meno alla parola data a FF per due volte e convocai nel mio ufficio Volpina, la mia vice. Aveva poco più di quarant'anni. Ero certo che fosse a conoscenza del soprannome datole dai collaboratori dell'agenzia. Occhietti piccoli, busto stretto, naso appuntito, cervello fino, carattere d'acciaio e una buona dose di caparbietà e stronzaggine: il ritratto di una volpe in forma umana. Ogni tanto pensavo che non le sarebbe stata male anche una bella e folta coda. Nel suo lavoro era strepitosa. Di solito lavoravamo in tandem: io creavo problemi all'agenzia, lei li risolveva. Una volta ci stavamo scervellando su un incarico complesso e al tempo stesso idiota. Una piccola banca, ormai defunta, la Banca Paveleckij, aveva deciso di aprire una filiale a Mosca e ci aveva chiesto di invitare i giornalisti a un party d'inaugurazione per dare risonanza all'avvenimento. I giornalisti non avevano nulla a che fare con la banca e non era possibile pagarli per costringerli a scrivere di quel memorabile evento, destinato a sconvolgere la vita finanziaria russa. Innanzitutto la cosa non ci garbava affatto, soprattutto a me. Non tanto perché rappresentasse un'offesa verso i miei elevati princìpi di etica professionale, ma perché avrebbe irritato anche i giornalisti delle testate economiche più prestigiose. Inoltre, nei rari casi in cui un giornalista è disposto ad accettare qualcosa dalle agenzie pubblicitarie, si tratta sempre di somme piuttosto ingenti; sporcarsi le mani per degli spiccioli non è cosa degna.
Perciò escogitai questa soluzione: per l'inaugurazione della nuova filiale avremmo fatto arrivare in banca un pinguino imperatore, vivo, dallo zoo di Mosca, come nella famosa storiella9 , naturalmente sponsorizzato dalla Banca Paveleckij. I giornalisti avrebbero così avuto la possibilità straordinaria di brindare con un pinguino, di fotografarlo sulla poltrona del presidente della banca e di distrarsi un po'. E noi avremmo beneficiato di un immancabile ritorno pubblicitario. L'idea era stata mia, ma a venderla alla banca e ad accordarsi con il direttore dello zoo per il pinguino ci aveva pensato Volpina, che con successo aveva portato felicemente a termine l'incarico. Il pinguino imperatore mi arrivava alla cintola, e ci fissava come uno strano uccello, cosa che del resto era. Tenuto al guinzaglio, sbatteva le pinne, emanando odore di pesce e lanciando strani versi gutturali, con gran divertimento di tutti. Morale: i giornalisti non ci avevano piantati in asso e la banca ci aveva pagato. Informai rapidamente della questione Volpina, senza menzionare né il Chimico, né la mia conversazione con Anton. Dissi che un folle straricco voleva divertirsi un po' reclamizzando le parole "calipsol", "Deir elBahari", "solitudine" e le cifre "222461215", diffondendole sulla stampa, in televisione, alla radio e in internet, e per di più in forma strettamente riservata, in modo che i giornalisti non mangiassero la foglia. Aggiunsi che il committente pagava molto, e in contanti, ma non gli piacevano le domande. Volpina protestò per la posizione intransigente di FF, ma perché si zittisse mi bastò ricordarle che la curiosità faceva molte più vittime tra le fanciulle dell'amore. Elaborammo rapidamente un piano d'azione. Avremmo prodotto da soli, con le nostre forze, dei testi interessanti per le trenta testate più prestigiose: articoli, recensioni, giudizi, interviste. Per i giornalisti andava pur predisposto del materiale! Se fossimo riusciti a trovare un tema attraente e aves9
L'autista di un furgone-frigorifero, che sta trasportando due pinguini allo zoo di Mosca, ha un guasto al congelatore. L'autista chiede aiuto a uno sbirro. Lo sbirro consiglia: «Faccia andare al massimo il condizionatore e li trasporti allo zoo più presto che può». Alla fine del turno, lo sbirro incrocia di nuovo il furgone che sta riportando indietro i due pinguini. Imbestialito, lo ferma e inveisce: «Ma doveva portarli allo zoo!». Il guidatore, candidamente sorpreso, gli spiega: «Ma allo zoo siamo già stati, al Planetario pure, ora andiamo alla dacia».
simo scritto il testo al posto del giornalista, era assai probabile che lui non avrebbe trovato nulla da obiettare e l'avrebbe pubblicato senza toccarlo firmandolo col proprio nome. Dopo tre giorni il nostro delirante messaggio era comparso almeno una ventina di volte, di cui una persino in televisione. Volpina completò, con il suo tocco scaltro, l'operazione. Trovò dieci contesti assolutamente indipendenti dalla nostra azione in cui veniva usata la parola "solitudine" e senza alcun imbarazzo li trascrisse come fossero stati diffusi da noi. Per esempio: «La solitudine di Cuba in seno all'Onu è una diretta conseguenza della linea politica seguita da Fidel Castro». Questa piccola trovata portò alla nostra agenzia un introito supplementare di cinquemila dollari. Divulgare le altre parole era complicato senza un nostro intervento. "Deir el-Bahari", essendo una località turistica egiziana piuttosto nota, era relativamente facile da menzionare, tutt'altro accadeva con "calipsol", termine che poteva essere infilato solo in articoli sull'aborto o sulle tossicomanie. Il problema maggiore lo creavano le misteriose cifre, ma devo ammettere che ce la cavammo egregiamente. Trasformandole in contrassegni di ipotetici dossier, anomali numeri telefonici composti da dieci cifre o numeri ICQ, riuscivamo a farle comparire. Qualche volta ci inventavamo dei fatti accaduti il 22.2.46 alle ore 12.15, di solito riferiti all'inizio della Guerra Fredda, come, più nello specifico, il 22 febbraio 1946, giorno in cui il diplomatico americano George Kennan aveva spedito da Mosca alla Casa Bianca il famigerato "Lungo telegramma" di ottomila parole. A detta di molti studiosi sarebbe stato proprio il "telegramma", dove si analizza il discorso elettorale di Stalin, e non il discorso di Fulton di Churchill, ad aver segnato l'inizio ufficiale della Guerra Fredda. Ho avuto modo di leggere il testo del "telegramma" e lì si trovano già indicate, a mio avviso, in maniera molto semplice e chiara, tutte le contraddizioni della politica nazionalista della Russia e le sue ripercussioni. FF non ci deluse e pagò puntualmente per la seconda volta. Esaminò le fotocopie, le stampate e il monitoraggio e sborsò altri undicimila dollari. Cominciavo a sentirmi ricco. Dopo aver liquidato i creditori, mi restavano ancora seimila dollari. Non avevo mai guadagnato tanto in vita mia. Volpina, che per la prima volta era riuscita a mandarmi davvero in visibilio, ricevette da me un inaudito premio di tremila dollari. Quando la guardai contare le banconote, compresi quanto sia vero il famoso detto popolare: «Niente rischiara il viso di una donna quanto i soldi». Ma, al di là
dello scherzo, avevo l'impressione che Volpina cominciasse a nutrire per me un po' più di rispetto. Nei ritagli di tempo, continuavo senza fretta le mie ricerche. Inserivo le parole "Deir el-Bahari" in tutti i motori di ricerca, da Altavista a Yandex, confidando soprattutto su Google e analizzando la maggior parte dei risultati. Quasi sempre approdavo all'Antico Egitto, cosa che non mi dispiaceva affatto, poiché da molto tempo desideravo trovare un pretesto per approfondire le mie sommarie nozioni scolastiche su quella antica civiltà. Lessi volentieri alcuni articoli poco noti sulla "maledizione dei faraoni", anche se non credevo nelle maledizioni. Tanto più che non esisteva alcuna relazione tra Deir el-Bahari e Tutankhamon, la scoperta della cui tomba era costata la vita a Howard Carter e ai poveri archeologi da lui guidati sullo scavo. Deir el-Bahari si ricollegava invece a un'altra importante figura, Hatshepsut, la prima donna-sovrano del mondo, vissuta un centinaio d'anni prima di Tutankhamon e Nefertiti. Ben presto intuii che dall'Antico Egitto affiorava una certa magia nera, delittuosa. Gli antichi greci e i romani avevano una mitologia affine, in cui il mondo ultraterreno era minuziosamente descritto ma che, pur contemplando i sacrifici umani e il cannibalismo, di cui tracce sono giunte sino a noi, non chiamava in causa una magia nera. Con gli antichi egizi il discorso era più complesso; non era mai stata rinvenuta traccia di sacrifici umani. Ma come avevano fatto ad assegnare a π un valore con un'approssimazione così precisa? Mediante una cordicella posta su un cerchio tracciato sulla sabbia? E come avevano fatto a orientare le piramidi e le sfingi in direzione della luce con un'esattezza che spaccava il minuto, se non il secondo? E come potevano conoscere il peso degli atomi di svariati elementi? Da dove avevano tratto le formule per calcolare, con migliaia d'anni d'anticipo, le eclissi solari e lunari? Come riuscirono a correggere il calendario caldeo, determinando la lunghezza dell'anno con una precisione al minuto? Mistica. E forse non solo... Una mistica che non sembrava avere nessuna relazione diretta con Deir el-Bahari, ma forse indiretta sì. Allora decisi, dal momento che mi apprestavo a immergermi nell'Antico Egitto, che sarebbe stato interessante scoprire qualcosa su colui dal quale discendeva il mio nome, Giuseppe. Quello dei "fratelli". Il figlio di Giacobbe. Capostipite di due delle dodici tribù di Israele. Dopo esser stato
venduto dai fratelli, in Egitto aveva fatto una folgorante carriera, per ben due volte di seguito. Ma non trovai niente di più di quanto non fosse scritto nella Bibbia e in Thomas Mann. E niente che mettesse in relazione Giuseppe con Deir el-Bahari. Le tribù che discendevano da lui erano in seguito scomparse senza lasciare traccia. No, con Deir el-Bahari Giuseppe non c'entrava nulla, anche se da alcuni era ritenuto uno stregone e da altri un mago, e così Tutankhamon, di cui nessuno sapeva nulla prima di Carter. Insomma, dopo una settimana di ricerche ero giunto alla conclusione che Deir el-Bahari era semplicemente un luogo senza legami né con la Cecenia, né con Al Qaeda. Tradotto dall'arabo, significava Monastero del Nord, dal nome di un monastero copto costruito nei primi secoli della nostra era. I copti discendevano direttamente dagli antichi egizi. Un popolo quasi dimenticato, ma con una storia straordinariamente ricca. Quando la fortuna dell'Antico Egitto declinò, furono conquistati dai persiani, poi da Alessandro il Macedone e quindi da Giulio Cesare. Fu sotto i romani che abbracciarono il cristianesimo. Successivamente furono conquistati dagli arabi. E fu a quel punto che divennero un'etnia separata. La schiacciante maggioranza degli egiziani adottò la religione islamica e si mescolò agli arabi. I copti, a differenza del resto della popolazione, rimasero cristiani e, grazie a ciò, consentirono all'antico sangue egizio e all'antica lingua egizia di sopravvivere. Poi l'Egitto fu conquistato dai turchi, e quindi da Napoleone e ancora in seguito dagli inglesi, ma questo influì ben poco sul destino dei copti. Senza conoscere la lingua copta, fra l'altro, Champollion non avrebbe mai potuto decifrare l'iscrizione della Stele di Rosetta. Malgrado la loro fede in Cristo, i copti non sono né cattolici, né ortodossi e, benché abbiano chiamato la loro chiesa Chiesa Ortodossa Copta, sono monofisiti. Non hanno accettato le tesi del Secondo Concilio di Efeso e non riconoscono la natura umana di Cristo, ma solo quella divina. Oltre alla Chiesa copta, l'unica Chiesa monofisita rimasta, per quanto ne so, è quella armena. Molti teologi contemporanei sostengono che la liturgia copta sia la più vicina a quella paleocristiana (i copti erano stati battezzati dall'apostolo Marco), poiché la Chiesa copta non aveva subito né il peso del potere politico di Roma, né l'influenza della cultura di Costantinopoli. I copti decisero di edificare il monastero di Deir el-Bahari accanto al tempio di Hatshepsut. Secondo fonti egiziane, il monastero era stato di-
strutto quasi subito dopo la sua edificazione, vale a dire trecento anni dopo, mentre il tempio, pur avendo quasi duemila anni di più, gli sopravviveva ormai da oltre millecinquecento anni. A colpire nelle descrizioni erano soprattutto le sue dimensioni: duecentocinquanta metri di lunghezza. Gigantesche terrazze su tre piani. Terrazze che dominavano le montagne. Il fulcro del tempio, l'altare di Amon-Ra, era situato in uno spazio scavato tra le rocce. Scavando il tempio e i siti adiacenti, gli archeologi si erano imbattuti in strane scoperte. Il tempio era stato edificato in onore di un'imperatrice il cui nome non era stato rinvenuto in nessun bassorilievo né a Tebe, né a Menfi. E il nome non era menzionato neppure nell'elenco dello storico Manetone, tra quelli dei faraoni del Nuovo Regno. La genealogia di Manetone suonava come l'inizio del Vangelo di Matteo: Kesem generò Iakhmes, Iakhmes scacciò gli Hyksos e generò Amenhotep I, Amenhotep I generò Thutmose I e la di lui moglie Iakhmesit, Thutmose I generò Thutmose II, Thutmose II generò Thutmose III che conquistò tutto il mondo e generò Amenhotep II. E nessuna Hatshepsut. Tutti gli archeologi si erano stupiti del fatto che la maggior parte delle statue che ritraevano l'imperatrice giacesse in posizione orizzontale subito dietro il recinto del tempio, a una profondità di tre metri sotto le fondamenta, quasi le sacre immagini fossero state sepolte. Esaminai le riproduzioni del volto di Hatshepsut che riuscii a trovare in internet. Erano almeno una ventina. Hatshepsut aveva occhi a mandorla, un naso sottile e sensuale con una piccola gobba, una piccola bocca e il viso ovale, allungato e dolce, che terminava con un mento minuto e rotondo. Restai sorpreso dall'espressione dei suoi occhi. Era come se dicessero: "Sono bella e intelligente. Pronta a tutto: al potere, all'amore, alla morte. All'assenza dell'amore e della morte". Stampai le fotografie e me le misi davanti. Ero stupito: in un terzo delle sculture era raffigurata con un sembiante di donna, con la veste, sotto la quale si disegnava nitidamente il seno. Nelle altre, malgrado l'innegabile somiglianza, Hatshepsut era raffigurata come un uomo. La barba posticcia, il perizoma, il petto nudo, assolutamente piatto. E le insegne del potere imperiale, incluso lo scettro col serpente a due teste, simbolo, per quanto ne sapevo, dell'unità tra Alto e Basso Egitto. In un sito americano di egittologia avevo letto dei commenti sulla scena
di un bassorilievo a cui nessuno da principio aveva prestato attenzione. Secondo le leggi vigenti sarebbe stato considerato pornografia. Non avevo mai sentito parlare prima dell'esistenza di bassorilievi pornografici, e per di più nell'antichità. Forse gli unici erano quelli indiani. Il bassorilievo s'intitolava Scena del concepimento della grande regina Hatshepsut per opera dei genitori, il faraone Thutmose e la sua consorte Iakhmesit. Affinché non ci fosse dubbio alcuno che Thutmose I e lakhmesit, con le gambe avvinghiate, fossero intenti a fare l'amore, il bassorilievo recava anche un'adeguata descrizione: "Il re del Sud e del Nord, elargitore di vita, sorprende la regina a letto nel sontuoso palazzo. Destata dallo sfavillio dei diamanti del faraone, ella si stupisce quando Sua Maestà le si accosta ponendo il suo cuore su quello di lei e apparendole nel suo sembiante divino. Ed ecco ciò che dice la consorte del re, madre del re, lakhmesit, al cospetto della grandezza del faraone: 'È nobile scorgere il tuo sembiante quando ti unisci con la mia maestà. La tua rugiada m'inonda tutte le membra!'. Poi quando la maestà divina ha soddisfatto il suo desiderio, il re di entrambe le terre le dice: 'Hatshepsut!', che significa Prediletta tra le amate. 'Questo in verità sarà il nome di mia figlia giacché la mia corona appartiene a lei affinché regni su entrambe le terre e su tutti coloro che vi dimorano'.". Ero giunto a una conclusione. Nell'elenco dei faraoni non veniva menzionata. Le statue erano state sepolte. Il loro sesso era incerto. Era chiaro che la figura della regina era avvolta dal mistero. Cominciai a indagare senza troppe speranze di riuscire a far luce su episodi che erano avvenuti centocinquant'anni prima dell'esodo degli ebrei dall'Egitto, trecent'anni prima della Guerra di Troia e milleduecento anni prima della conquista dell'Egitto da parte di Alessandro il Macedone. Ossia più di tremila e cinquecento anni fa. Avevo l'impressione che la vicenda fosse legata alla questione della successione al trono dei faraoni. Gli egizi consideravano i loro imperatori figli e discendenti diretti del Dio-Sole Ra. Per serbare la purezza del sangue reale e sposarsi solo tra pari, i figli del faraone, i fratelli e le sorelle contraevano matrimonio tra di loro. I figli nati da queste unioni tra consanguinei erano ritenuti i successori legittimi. Gli altri figli del faraone, nati dalle concubine, erano invece ritenuti dei sanguemisti, e se erano presenti discendenti più legittimi, non potevano avanzare nessuna pretesa al trono. L'imperatrice Iakhmesit, madre di Hatshepsut, era a tutti gli effetti una
figlia del Sole, ma il padre della principessa, Thutmose I, era invece un sanguemisto e perciò era legittimato al trono dal suo legame con la moglie. Nove mesi dopo la scena descritta nel bassorilievo del tempio, dai due era nata la figlia Hatshepsut. Thutmose I aveva avuto altri figli prima di lei. Il primogenito, che portava il suo stesso nome, Thutmose, era stato da lui concepito con una concubina vent'anni prima, e in quanto figlio di una concubina, possedeva meno diritti di Hatshepsut, ma in quanto erede maschio, ne possedeva di più. E Thutmose I e Iakhmesit non avevano altri figli viventi. Thutmose I era un perfetto faraone. Durante i suoi trent'anni di regno aveva raddoppiato il territorio controllato dall'Egitto, conquistando il Sinai e la Palestina e trasferendo in una sola volta dalla Siria uno straordinario numero di schiavi, oltre ventimila. Ma il giorno della morte della sua regale consorte Iakhmesit, fu detronizzato, malgrado la fama che le sue conquiste gli avevano procurato. Il merito dei suoi successi fu attribuito alla figlia sedicenne, discendente diretta del Sole. Il faraone subito si persuase che la figlia non agiva autonomamente, e in questo non si sbagliava. Da che mondo è mondo, anche nelle monarchie più tiranniche e assolute, c'è sempre un margine d'azione per la politica e l'Egitto del Nuovo Regno in questo non faceva eccezione. Durante il regno del faraone si fronteggiavano due partiti, quello dei sacerdoti e quello dei militari, in un bellicoso equilibrio salvaguardato dal faraone. A capo del partito dei sacerdoti stava il sommo sacerdote di Amon-Ra, Senemut, di non elevati natali, che sovrintendeva a tutte le faccende del faraone. L'intelligenza, la determinazione e l'ostinazione gli avevano consentito una brillante carriera a palazzo. Senemut aveva mosso una serie di accuse nei confronti di Thutmose I. In primo luogo, che il paese era ormai stufo di guerre e di sangue. In secondo luogo, che la gestione dei saperi occulti si trovava nelle mani dei sanguemisti (anche se è arduo capire a che cosa gli egizi precisamente si riferissero con questa definizione). Infine, che il partito dei sacerdoti lamentava finanziamenti inadeguati. Non sappiamo chi fosse a capo del partito dei militari, ma doveva essere un personaggio di scarsi meriti, dato che il suo nome non è stato tramandato dalla Storia. Il rispetto delle leggi da parte del faraone e del popolo egizio era sorprendente. Il faraone-trionfatore Thutmose I accettò la propria illegittimità, affiorata alla morte della consorte, e rinunciò al trono, oltretutto non in favore del primogenito Thutmose II (dato che i sacerdoti insistevano sulla purezza del sangue), bensì in favore della giovane figlia.
All'epoca, Thutmose II aveva ormai 36 anni e parecchi figli. Il maggiore, Thutmose III, illegittimo proprio come lui, era stato concepito con una concubina e aveva 14 anni. Dopo l'ascesa al potere di Hatshepsut a Deir el-Bahari, accanto al vecchio sepolcro dell'ormai dimenticato faraone, si cominciò a costruire il tempio dell'imperatrice, dedicato ad Amon-Ra. A dirigere la costruzione del tempio furono Senemut e il suo più caro amico e aiutante, Hapuseneb, sommo sacerdote del Sud e del Nord. Uno dei principali scopi della costruzione di un tempio era quello della conservazione delle spoglie del defunto per la vita ultraterrena, della cui esistenza gli egizi erano assolutamente convinti. Inoltre la loro conoscenza della vita oltremondana si estendeva fino ai suoi più minuti dettagli. L'immenso elenco di domande e di risposte nel momento del giudizio divino corrisponde da solo a centocinquanta pagine di un nostro testo contemporaneo e comprende i nomi completi, le biografie e gli attributi di quarantadue divinità, i cui compiti interagiscono sinergicamente. Gli egizi conoscevano a memoria la topografia dei Campi dei Giunchi, la terra della beatitudine eterna, la meta felice da raggiungere dopo la morte. Sulla mappa dei Campi dei Giunchi avevo contato almeno una settantina di nomi e toponimi diversi. Ma un altro fine della costruzione del tempio di Hatshepsut fu quello della consacrazione del potere della regina anche in quel luogo fisico. La legittimità del potere non era una questione da poco e proprio per questo, senza attendere la conclusione dei lavori del tempio, fu realizzato l'insolito bassorilievo con la scena del concepimento e della nascita di Hatshepsut dai genitori legittimi Thutmose I e Iakhmesit, affinché fosse chiaro a tutti chi deteneva più diritti di successione. Tuttavia per i faraoni non esisteva occupazione più importante della guerra. In Egitto il faraone era anche capo supremo dell'esercito. La prima, e relativamente facile, impresa di Hatshepsut fu la spedizione contro gli Amaleciti, una tribù di nomadi selvaggi che abitava il Sinai. Hatshepsut si mise al comando della spedizione e prese con sé come aiutante Hapuseneb, abile e capace uomo di Stato, lasciando Semenut a governare il paese. La spedizione militare fu preparata in tutta fretta, secondo una strategia che ricordava quella napoleonica e che consisteva nel giungere in loco, attaccare a sorpresa i nemici e solo dopo decidere delle sorti della battaglia. Il piano fallì. Hatshepsut, pur trovandosi in un territorio sconosciuto,
non si preoccupò della ricognizione, e peggio, disseminò i convogli per parecchi chilometri. Il quindicesimo giorno dall'inizio dell'impresa da dietro una collina spuntarono i nomadi. Hatshepsut restò disorientata e non riuscì a dare ordini precisi e tempestivi ai soldati, finendo per trasformare l'azione da aggressiva in difensiva. Un nutrito esercito di soldati, che non aveva fatto in tempo a indossare l'armatura, né tantomeno a schierarsi, fu sterminato dall'attacco della cavalleria leggera nemica. La stessa imperatrice, che utilizzava un carro non suo, privo di insegne imperiali, nel trambusto riuscì a mettersi in salvo con Hapuseneb. Alla notizia dell'umiliante sconfitta - esito al quale gli egizi non erano ormai più abituati - per opera di una tribù di nomadi, a Tebe si scatenarono i tumulti. E, dopo il ritorno dell'imperatrice, cominciò a rafforzarsi ben presto a palazzo l'influenza del partito dei militari, che aveva ora non solo un carattere antisacerdotale, ma anche antifemminista. A capeggiare il partito era un nipote di sangue di Hatshepsut, il giovane Thutmose III. L'élite egizia aveva compreso che non era più il caso di affidare a una donna le sorti dell'Egitto in un'epoca di espansionismo militare e di continue azioni belliche. Thutmose III, alleandosi con il nonno, il vecchio Thutmose I, ottenne che l'imperatrice venisse deposta. Il risultato fu conseguito da nonno e nipote mediante un abile espediente politico: si diffuse la voce che Hatshepsut e Semenut erano amanti. Non si sapeva che impatto avrebbe avuto, ma la voce aveva fondamento. Gli egizi erano disposti a tollerare che il loro faraone fosse una donna. E anche a tollerare la vergognosa sconfitta subita per opera di una tribù di selvaggi. Ma che una donna che incarnava l'essenza divina andasse a letto con un uomo che non discendeva dal Sole, questo superava ogni limite consentito. La cosa li indignò. Al potere tornò Thutmose I. E qui s'infittisce il mistero intorno alla figura di Hatshepsut. Perché lei rimase in vita. Thutmose I concesse la vita e la libertà a lei e al suo amante e li spedì entrambi in esilio a Menfi. Una clemenza inaudita per i tempi. Soprattutto nel caso di un faraone che poteva contare su una cinquantina o sessantina di eredi e che avrebbe potuto tranquillamente disfarsi dei più scomodi e pericolosi. E di un faraone che faceva di tutto per entrare nella Storia e che durante un'azione militare aveva trucidato tutti i prigionieri insorti, almeno diecimila, con l'eccezione del figlio di un signorotto locale che aveva portato a Tebe con sé come trofeo per tagliargli personalmente la gola nel corso di una cerimonia solenne sulla piazza principale, organizzata per cele-
brare il suo trionfo. La storia di Hatshepsut mi era costata cinque giorni di ricerche in internet in tutti i link accessibili, senza dare nessun utile esito. Da principio ero sicuro che proprio nella vicenda della donna faraone si nascondesse, chissà perché, il legame tra il Chimico, FF e Deir el-Bahari. Non capivo che cosa si potesse scoprire dietro un monastero copto, già in rovina millecinquecento anni fa. Alla fine sul monastero avevo avuto ragione: non c'era niente da scoprire. E mi ero sbagliato ad accanirmi nel cercare qualche mistero dietro Hatshepsut. Dopo ulteriori indagini, avevo anche capito che la MNJ Pharmaceuticals non aveva nulla a che fare con la produzione del calipsol. O, meglio, usando il linguaggio degli sbirri, sapevo che «era stato appurato che l'attività professionale della vittima non costituiva un movente per l'omicidio». Alla fine della settimana tornò Anton. Non l'avevano assunto alla Microsoft. Gli avevano detto che era in gamba, ma non al punto da reclutarlo su due piedi, e l'avevano messo in lista d'attesa. Al mio invito a brindare mi spiegò che avrebbe trascorso il week-end in famiglia. Non insistetti. La vita continuava con la solita monotonia, alleviata solo da qualche momento di svago. Mi vedevo saltuariamente con Maša e frequentavo pub alla mia portata. Una volta m'imbattei in una canzone quasi dimenticata e comprai l'album della band Anno bisestile. Me lo portarono alla cassa: Le nostre madri in elmo e corazza Si battono per la loro vecchiaia, I nostri figli dicono parolacce, e noi non esistiamo quasi più. Avremmo potuto fare le spie, Avremmo potuto fare del cinema. Come uccelli stiamo sui rami E affolliamo i metro. Tuttavia quelle storie sull'Egitto mi avevano disorientato, non avevo nessuno con cui parlarne: Anton lavorava come un matto, Matvej era tutto preso dalla sua direttrice finanziaria. Perciò decisi che era venuto il momento di andare da Lilja per appurare cosa sapesse lei di Deir el-Bahari. Tanto più che erano ormai nove giorni che non andavo a casa del Chimico.
Domenica mattina telefonai. Lilja mi disse che mi aspettava. Capitolo Cinque Per strada ripensai a come c'eravamo conosciuti io e Lilja. Eravamo in vacanza a Koktebel'. Faceva un caldo atroce. Di giorno la temperatura raggiungeva i quarantacinque gradi. Trascorrevo le mie vacanze laggiù dopo lo studio e avevo l'impressione d'essere finito in una Gehenna infuocata a espiare i miei peccati, che non potevano essere che gravi: stravizi, sbronze e depravazione. L'aria condizionata non esisteva a Koktebel'. Di giorno, al mare, ce la si cavava ancora, ma di notte per riuscire ad addormentarsi bisognava scolarsi una bottiglia di vodka tiepida del posto. O, ancor peggio, del samogon, la vodka distillata in casa. Non c'era altro modo di sfuggire all'afa notturna. Perciò di giorno ci aggiravamo rintronati e nervosi. Eravamo un bel gruppetto di una mezza dozzina di ragazzi, compresi il Chimico, Anton e Matvej. Solo maschi. Accettavamo malvolentieri le ragazze nella nostra compagnia: preferivamo innamorarcene a distanza. Meglio non mischiare le cose: gli amici fanno in fretta ad abituarsi a una ragazza fissa, e quando poi magari vi lasciate e lei si mette con un ragazzo di un'altra compagnia, la vostra separazione diventa un affare di Stato. È probabile che lei continui a frequentare gli stessi posti, lanciandoti tristi occhiate quando vi incrociate, mentre gli altri la guardano come se avesse una malattia incurabile. E tu non sai più cosa fare. Non sai se fuggire per sempre per non scoppiare in singhiozzi o se tornare sui tuoi passi e provare a rimetterti con lei per un po' (ma come si fa a far tornare anche l'amore?). Insomma, non è una situazione facile: ti rimetti con lei e ti ritrovi sposato. Per tutti noi, a eccezione di Anton, non c'era nulla di più temibile del matrimonio (tanto più che alcuni di noi, tra cui io, l'avevano già provato). Certo, esistevano anche la galera, le malattie serie e la morte dei propri cari, ma sembravano eventi improbabili, e quindi meno spaventosi. Il matrimonio era visto come un tradimento della causa comune. E non importava che non ci fosse alcuna causa comune. Come Anton avesse potuto sposarsi con Dina e continuare a far parte della nostra compagnia, per me restava un mistero, la cui chiave era forse l'indifferenza sovrana di mia sorella verso il mondo intero. Lasciava tran-
quillamente che Anton venisse a Koktebel' a spassarsela in serate scatenate che puntualmente si concludevano, nei luoghi più incredibili, solo il mattino del giorno dopo. E tutto questo malgrado il più bello di noi tre fosse proprio lui, Anton. Di statura alta, al di sopra della media, aveva capelli biondi, occhi tristi di un azzurro intenso e un viso allungato. Per quella sua combinazione di sguardo triste e saldi princìpi morali (dopo le nozze, per esempio, si era convinto, con nostro costernato stupore, che bisognasse evitare i tradimenti coniugali) l'avevamo soprannominato per un po' Athos. Su di noi, invece, i princìpi morali non avevano presa. Rimorchiare non era un atteggiamento ideologico, ma una necessità dettata dalla nostra natura. Perciò, la prima sera che il caldo si placò, decidemmo di andare a ballare, non tanto per ballare, quanto per incontrare qualche signorina in vacanza o qualche bellezza locale. Così, senza impegno. La «Komsomol'skaja Pravda» allora lo definiva un "atteggiamento anticameratesco nei confronti delle ragazze". Matvej sembrava il più provato da quella settimana di caldo. Si mise a tampinare la signorina sbagliata, nemmeno una signorina, ma una troietta del posto, che trascorreva l'estate in compagnia di un boss locale. Un tizio alto, leccato, con le labbra sottili impiastricciate di bucce di semi da masticare. Ancora una volta, ad attirare Matvej non era stata la bellezza della ragazza, ma la sua inaccessibilità. Quando la invitò per la terza volta di seguito a ballare un lento, la tensione si tagliava a fette. La signorina avrebbe dovuto rifiutare, ma chi abbandonerebbe un torneo indetto in suo onore? Naturalmente, per mettersi a posto la coscienza, gli aveva domandato sorniona a voce alta: «Sicuro che non ti sei ancora stufato?». E in risposta era giunta la voce di Matvej, calda e sicura: «Io, piccola, non mi stufo mai». Cercai di raggiungere i nostri per convincerli a squagliarsela prima che fosse troppo tardi. Quasi tutti acconsentirono subito, ma fermare Matvej era impossibile. La tiepida vodka della Crimea gli aveva rammollito il cervello. Per far conoscere alla sua fiamma le vette dell'underground moscovita, Matvej costrinse il dj a mettere su Il vento della spazzatura («Vuoi sentire, piccola, cosa si ascolta adesso a Mosca?»). Al rifiutò del dj, che aveva preso alla lettera il nome della band, Crematorio, e non riusciva a credere che esistessero gruppi con un nome simile,
Matvej tolse dalla tasca una cassetta e un rublo e glieli passò di soppiatto, con un'espressione significativa sul volto. Il dj, ignaro della tresca, prese la cassetta. La ragazza non era certo quella giusta, ma la canzone era indovinata: Tu sì hai cervello, mentre io sono un idiota E non importa chi di noi farà le carte Anche se avrò fortuna io E mi arriverà un asso, tu avrai un jolly. Ci restavano solo pochi minuti, perché subito dopo Il vento della spazzatura due aborigeni strabevuti si avvicinarono al dj, che comunicò con voce affannata che la discoteca stava per chiudere. Mi guardai intorno. La pista da ballo era circondata da tutti i lati da una fitta siepe spinosa. Dietro la siepe si alzava un'alta rete metallica, simile a quelle dei campi da tennis. C'era una sola uscita, dal cancello. Lo piantonavano una dozzina di ceffi con le camicie annodate sopra la pancia, secondo la moda locale. Alcuni tenevano in mano cinture arrotolate. Uno dei nostri cercò di farsi largo, mischiandosi alla folla. Con uno spintone lo bloccarono, dicendo che «era rimasto ancora qualcosa da discutere». La richiesta era stata preceduta da uno sguardo emblematico: lento, indifferente, indagatore. Uno sguardo poco gradevole. «Vabbè» disse Matvej, riprendendosi dalla sbornia. «Non sono poi così tanti.» Ci fissò come per sondarci, come un colonnello prima della battaglia. La discoteca si andava svuotando sotto i nostri occhi. Il flirt era finito. La gente sentiva l'avvicinarsi della tempesta e si allontanava a passi energici. «Noi siamo in sette e abbiamo cinture e tirapugni» constatò Anton con voce piatta. «Nessun coltello, però.» Afferrai il braccio di una ragazzina dagli occhi sottili, che a giudicare dalla maglietta bianca e nera con John Lennon non doveva essere del posto, e le dissi di avvertire la polizia. La ragazza mi fissò attentamente e, uscita dal cancello, corse via. Dopo quindici secondi la pista era completamente vuota. Guardai le panchine disposte sul perimetro: erano imbullonate all'asfalto. Svellerle da terra per armarsene era impossibile. Gli aborigeni invasero la pista, noi istintivamente ci disponemmo a semicerchio, spalla contro spalla. «Fermi! Mettiamoci d'accordo!» cercò di trattare il Chimico.
«Prima, capellone, ti rasiamo a zero, e poi ci mettiamo d'accordo.» Uno dei trogloditi, smettendo di trafficare col cancello d'ingresso, si ficcò in bocca le quattro dita della mano e fischiò molto forte. Non accadde niente. Il gruppo dei selvaggi distava una quindicina di metri da noi, stringeva i pugni e faceva roteare le cinghie senza muoversi. Anton decise di assumersi l'iniziativa di trattare col gruppo e si avvicinò, tendendo le braccia spalancate, come il Salvatore nel famoso dipinto L'apparizione di Cristo al popolo, per mostrare le sue intenzioni pacifiche. Non aveva fatto in tempo ad aprire bocca che subito incassò un diretto alla mascella. Con le braccia non era riuscito a bloccare il colpo. Nello stesso istante sentimmo un rumore alle nostre spalle. Da dietro la rete arrivavano altri aborigeni; sbucavano dai cespugli muggendo, senza pronunciare una parola, si rimettevano in piedi e correvano nella nostra direzione. Non riuscii a calcolare il numero dei rinforzi locali, una quindicina forse. Insomma, ci ritrovammo attaccati frontalmente e dalle retrovie. La nostra unità si disperse. La battaglia era perduta. Si trattava di una formale sconfitta. La pista cominciò a muoversi. Tutti si misero a correre come se stessero giocando una partita di rugby. Quelli che correvano menavano le mani. Quelli già a terra venivano calpestati. A pestare Anton erano in sei. Lui resistette per una ventina di secondi sulle gambe e poi cadde, per fortuna in un angolo della pista, dove per gli aggressori era più difficile dispiegare le forze. Matvej fece una mossa geniale: ancora in piedi, riuscì a scavalcare i cespugli, graffiandosi tutte le gambe ma preservando il resto. Io non ero stato praticamente sfiorato, la mia corporatura non eccitava l'ardore bellico dei miei avversari. Correvo per la pista, scansando i bastardi che incidentalmente mi aggredivano e prendendo colpi di striscio alla mascella e al petto. Poco prima di partire per Koktebel' avevo letto un romanzo alla moda di Kaledin, Quarta compagnia Strojbat. Mi aveva sconvolto la scena in cui le due compagnie si affrontano in un combattimento mortale al suono di Girl, che proviene da un altoparlante. Immaginavo un ragazzo di diciannove anni con l'uniforme militare russa mentre fracassa il cranio a un coetaneo, mentre dall'altoparlante escono le note di: Ah, girl, girl... Quella sera, invece, era tutto terribilmente antimusicale. Il respiro affan-
noso di decine di individui che corrono, lo strusciare dei passi sul terreno, il rumore ovattato dei colpi, interrotti da brevi grida di dolore sul nostro fronte e da un energico «tieni fermo il capellone!» o «stacca il rosso dalla siepe!» sul fronte nemico. Ma ormai non si distinguevano più neppure i fronti, era un'unica mischia. Al Chimico era andata peggio che a tutti gli altri. In primo luogo era alto e forte, e quindi attirava l'attenzione dei suoi aggressori. Inoltre aveva i capelli lunghi, cosa che a quel tempo rappresentava una trasgressione. E la teppaglia ha sempre bisogno di legittimazioni da parte della società, mentre sfoga il proprio odio col pretesto di ripulirla. Perciò al Chimico le avevano date di santa ragione. Dopo due minuti di quel massacro, mentre il Chimico era a terra sotto la panchina e in dieci si erano messi a calpestarlo, ebbi un'illuminazione. Corsi verso di lui, gli presi il polso e mi misi a urlare con quanto fiato avevo in gola: «L'avete ammazzato! Hanno ammazzato un uomo! Il polso non batte più! Mi sentite, l'avete ammazzato! Un'ambulanza, subito! Hanno ammazzato un uomo! Il polso non batte più! Chiamate un dottore, presto! Hanno ammazzato un uomo!». Il Chimico mi aveva capito al volo: non respirava e non si muoveva. Trenta secondi dopo sulla pista non c'era più nessuno, tranne noi. Mi sedetti sulla panchina e fissai il fanale. Ondeggiava imperturbabile. Sospirai e scossi la testa. Ci alzammo, cercando di scuoterci. L'occhio destro di Anton era rosso e visibilmente gonfio. Matvej si era liberato dai cespugli, e si teneva con le mani i testicoli, imprecando a voce alta. Il Chimico strisciò fuori lentamente da sotto la panchina. Lo aiutai a rimettersi in piedi e a scuotere via parecchi mozziconi. Aveva l'aria assente, il sangue gli colava dal naso e il labbro inferiore era gonfio e sporgente: faceva pena guardarlo. In quel momento scorgemmo la ragazza dagli occhi sottili che era corsa via. Si avvicinava con passo incerto. «Ho chiamato la polizia. Ma non verrà. Mi hanno detto che dobbiamo cavarcela da soli. Non sapevo che fare... Ci ho pensato un po'... Avevo paura che voi...» «Non ha importanza» le dicemmo. «Anzi è persino meglio così. A che servirebbe adesso la polizia?» «E quelli del posto dove sono finiti?» chiese timidamente la ragazza, Lilja.
Le spiegammo ogni cosa e la prendemmo con noi. Il Chimico versava in pessime condizioni; oltre a sintomi evidenti di commozione cerebrale, aveva anche un terribile ematoma blu sullo stinco. Il mattino seguente ce ne andammo a Jalta, per non sfidare la sorte. Trascorremmo il resto della vacanza nella civiltà. Il caldo si era attenuato. Ci curavamo le ferite sulla tranquilla spiaggia cittadina. Mentre l'accudiva, Lilja s'infatuò del Chimico e lui di lei, o forse della sua saggezza zen. Il Chimico era sempre stato attratto dalle filosofie mistiche. Poi lei se ne tornò a casa, a Leningrado, e noi a Mosca. Il Chimico quasi tutte le settimane andava a trovarla e ogni tanto ci portava con lui. L'immenso appartamento del padre di Lilja, un accademico, lo consentiva. Frequentavamo il caffè Saigon. Ci accanivamo a trovare impercettibili differenze tra gli abitanti delle due capitali, cercandole anche là dove non c'erano. L'anno seguente il Chimico e Lilja si sposarono e Lilja si trasferì a Mosca. Raggiunsi facilmente nella città semideserta la loro casa e suonai al citofono. Il microfono si mise a sibilare, ma non si udì una parola. La serratura scattò. Uscendo dall'ascensore, vidi che la porta era aperta, come il giorno in cui era morto il Chimico. Entrai. Suonava un disco di Cesaria Evora. A volume minimo. Strofinai indeciso i piedi sullo zerbino davanti alla porta. «Lilja!» Nessun rumore, nessuna risposta. Entrai. Lilja, socchiudendo gli occhi già simili a fessure, era rannicchiata sul divano. Indossava un maglione a collo alto e dei jeans neri. Era circondata a destra e a sinistra da grandi cuscini variopinti che sfiorava appena coi gomiti. Oi tonte sodade Sodade sodade Oi tonte sodade Sodade sem fim 10 . La canzone era finita. Alzò su di me lo sguardo e m'indicò in silenzio la cucina. Interpretai il suo cenno come un invito ad andare in cucina a prepararmi il tè. Attaccò il pezzo successivo. Mi ricordai di quando, alcuni anni prima, a Lisbona, ero entrato in un negozio di dischi e avevo chiesto di darmi qual10
O solitudine, solitudine totale, solitudine senza fine.
cosa che somigliasse a Cesaria Evora. Il commesso mi aveva scrutato con aria triste e aveva risposto: «Non l'abbiamo. Non può esserci niente che somigli a Cesaria Evora». Mi preparai il tè in una scomoda tazza alta e stretta. Non ce n'erano altre. Mi sedetti in un angolo e mi misi a guardare Lilja. Fissava lo spazio davanti a sé, appoggiata all'arazzo giallo e rosso appeso alla parete. Sull'arazzo cavalieri medievali con stivali dalle lunghe punte e berretti altrettanto appuntiti montavano i loro cavalli sullo sfondo di mura merlate che cingevano una minuscola città. Cesaria continuava a cantare la sua sofferenza d'amore. La sua voce triste e struggente ti faceva rammentare i tuoi momenti migliori. Restammo seduti così una quindicina di minuti, finché il disco non finì. «Be', come stai?» le chiesi. «Così» rispose, stringendosi nelle spalle. «E i tuoi?» «Male, grazie.» «Lilja, chi ha ucciso il Chimico?» Pronunciai questa frase fissandola attentamente. Le domande retoriche erano finite. «Chi doveva farlo.» Non volse neppure lo sguardo nella mia direzione. «Ma chi?» Lilja scosse la testa. Non capii se fosse desiderio di non parlare o di non pensare. «Lilja, è stato a causa delle droghe? Della chetamina, del calipsol?» Si strinse nelle spalle. «Deir el-Bahari?» chiesi, sorpreso al suono della mia stessa voce. Le sfuggì un grido rauco e rivolse lo sguardo su di me. Per qualche secondo ci guardammo, come in quel gioco che si fa da bambini in cui vince chi non abbassa lo sguardo per primo. Non ho mai amato questi giochi. Temo gli sguardi altrui, per questo distolsi il mio. Ma non dissi una parola. «Perché hai detto "Deir el-Bahari"? Sono stati loro a dirtelo?» «"Loro..."» Ero allibito. «Come "loro"? Lilja?! Cos'è questo delirio? Che sta succedendo? Che c'entra Deir el-Bahari?» «Spiegami come hai saputo di Deir el-Bahari...» «Solitudine» risposi per metterla alla prova.
«Solitudine?» ripeté Lilja, che non aveva evidentemente capito. «Calipsol, Deir el-Bahari, solitudine.» Cercai di assumere l'aria di uno che conosce la vita e lanciai a Lilja uno sguardo che doveva essere penetrante. Ma con gli sguardi penetranti non me la sono mai cavata tanto bene... «Solitudine» ripeté Lilja assorta e scosse la testa in segno di diniego. Allora io, che mi ero ripromesso fermamente di tacere, infransi per l'ennesima volta la promessa fatta a me stesso e raccontai brevemente a Lilja di FF e delle mie scoperte su Hatshepsut. «Ecco» conclusi. «Io ti ho detto tutto. Ora tocca a te.» Lilja scosse la testa. Cominciavo a sentirmi ingannato. «Lilja!» esclamai in tono severo. «Tuo marito, il mio caro amico, è stato ammazzato da qualche pazzo bastardo e io ho ricevuto uno strano incarico. Per me esiste qualche legame. E tu sai qualcosa. Nella fattispecie su quello che non avrei dovuto dire. Cerca di ricompensare il mio affetto.» «L'affetto non può essere ricompensato. La gente non si innamora per gratitudine. Devo riflettere» disse lentamente Lilja. «Allora rifletti» l'autorizzai, andandomene in cucina a versarmi una seconda tazza di tè. Ne bevvi metà, ma Lilja non aveva ancora pronunciato una parola. Allora decisi di farle io stesso le domande. Forse si sarebbe lasciata andare e avrebbe spifferato tutto. «Lilja, la MNJ Pharmaceuticals produce il calipsol? O delle droghe affini? La chetamina...» «Non so, no. Non mi pare.» "Uno a zero" pensai io. Era la prima risposta esatta. Meno male che Lilja almeno non mentiva. «E il Chimico ne faceva spesso uso?» «Qualche volta. Non troppo spesso. Una volta al mese. Non è la frequenza a contare, ma l'intensità.» «Che c'entra l'intensità? E non hai mai notato niente di strano prima...» «Lui era sempre strano. Siamo tutti strani quando ci trasformiamo. E ci trasformiamo spesso.» Avevo l'impressione che Lilja non giocasse a fare la scema, ma che cercasse di interpretare la lezione zen del "concedere senza concedere". Cercavo di ponderare le sue risposte, ma non mi riusciva. «Ma almeno ti diceva qualcosa?» «Parlava sempre poco. Devo riflettere.»
Non amo ricevere rifiuti dalle donne. Anche se si tratta di informazioni. L'unico mezzo che può aiutare a vincere i rifiuti delle donne è l'alcol. Ma era impossibile proporre a Lilja di bere. Intensificai l'interrogatorio. «E che cosa c'entra la regina faraone?» «La regina faraone?» «Hatshepsut.» «Quale Hatshepsut? È la prima volta che la sento nominare. Non so, forse non c'entra nulla. Anche se il nome... No, non so.» «Lilja, perché mi prendi per i fondelli? Hai sussultato quando ho pronunciato la parola "Deir el-Bahari".» «Be', e allora?» «Non ci capisco nulla. Che cosa c'è dunque in quel luogo? Un tempio? Un monastero? I copti?» «I copti» ripeté Lilja pensosa. «Forse ci sono i copti. L'epoca dei templi e dei monasteri è passata.» Capii che non avrei ottenuto nessun risultato. «Di quanto tempo hai bisogno per riflettere?» «Non so. Qualche giorno, forse. Non lo so, davvero.» Alzò su di me uno sguardo colpevole, come un cane intelligente che ha fatto pipì sul tappeto. Capii che il cane doveva avere qualche problema. I cani quando sono sani non si comportano così. «Ti chiamo nei prossimi giorni.» «Chiamami» rispose lei, annuendo rassegnata. Così si annuisce in banca quando minacciano di annullarti la carta di credito, se non depositerai subito la somma dovuta. La salutai e mi allontanai. «Già, così tu non hai nessuna idea di cosa possa significare la parola "solitudine"?» le chiesi ormai sulla soglia. «La terza parola?» «"Solitudine"? Non so, credo sia una guida all'azione.» Lilja sorrise tristemente e fece un gesto di saluto con la mano. Guardai la sua figura esile. Nella luce vivida della porta mi sembrò un uccellino nero. Senza aspettare l'ascensore, scesi a piedi le scale. Qual era la mia guida all'azione? Telefonai ad Anton: «L'incarico di FF e la morte del Chimico sono legate». E gli riferii il mio sconclusionato dialogo con Lilja. «Interessante» disse Anton. «Interessante.» «Interessante? Ti ringrazio, Anton. Almeno non ti è sembrato ridicolo.
Ci ammazzano un amico e tu cominci finalmente a trovare la cosa interessante.» Anton fece una pausa che andava interpretata come: "Caro Iosif, tu mi colpevolizzi, senza prima esserti adeguatamente informato, perciò non ti rispondo". Ma tacqui anch'io, anziché rispondere, e così Anton, scegliendo accuratamente le parole, disse: «Mi stai proponendo un piano d'azione strategico? Mi sembra che siano gli eventi stessi a indicarci come agire». «Sì, è vero, partiamo da FF e Lilja. Ma meglio cominciare da Lilja. Domani, andiamo tutti e tre da lei a parlarle.» «Va bene» disse pensoso Anton. «Domani ci incontriamo tutti e tre per decidere cosa fare e se decidiamo che è il caso di andare da Lilja, ci andiamo insieme.» «E oggi?» «Oggi Matvej porta la sua direttrice da qualche parte fuori città.» La mia auto procedeva lentamente verso casa senza che quasi me ne accorgessi. Al diavolo Lilja e tutte le sue risposte zen! In questo modo non mi aveva detto nulla, mentre io le avevo spifferato tutto. Avvilente. Del resto, lei si era tradita con quell'esclamazione. Chissà che cosa aveva voluto dire. Mi consolai al pensiero che in tre saremmo riusciti a tirarle fuori qualcosa di più. Ma che cosa poteva avere a che fare FF con il Chimico? Per riordinare le idee, passai dal caffè dell'OGI ai Čisty prudy. La domenica è quasi deserto. Salii al primo piano a dare un'occhiata alla libreria. Comprai Murakami, Perez-Reverte e Dovlatov. Chiesi se avessero libri sui copti, ma non ne avevano. Scesi nel sotterraneo. All'OGI c'è un'illuminazione molto appropriata. Giallo-ambrata. Sotto quella luce il casino del locale sembra eterno. Mi piace l'OGI, con le sue lampade appese sopra i vecchi tavoli. Sorseggiai un whisky e mi misi a leggere Dovlatov, ma dopo ogni sorso allontanavo il libro per pensare a Lilja. Decisi che Maša, con il suo intuito, poteva essermi d'aiuto, ma lei detestava che la chiamassi nei giorni festivi. I giorni festivi li trascorreva nella sua famiglia imperfetta. Quando la chiamavo in un momento inopportuno s'imbarazzava e abbassava la voce. Il timbro ricordava il sibilo di un serpente, cosa che non le si addiceva per niente. Uscii dal sotterraneo sulla strada e feci il numero. Ma questa volta mi rispose gioiosa. Voleva dire che German non era nei paraggi. Le dissi che volevo vederla. Rispose che mi avrebbe raggiunto in
centro in un'ora. «Non tardare, altrimenti mi troverai ubriaco» le raccomandai. Era quasi sera e il locale si riempiva di gente. Qualcuno cercò di mettersi a sedere al mio tavolo. Opposi resistenza come potei. Continuai a leggere Dovlatov. Mi rassicurava. Come la canzone California Dreaming che avevano messo nella sala attigua: All the leaves are brown And the sky is grey... California dreaming On such a winter's day... 11 . Il bizzarro sfasamento del testo con quella musica solare che evocava cieli azzurri californiani aggiungeva alla gioia un senso di attesa. Non so perché, ma pensai che ci fosse qualcosa che accomunava Dovlatov e i Mamas & Papas. M'immersi nella lettura. Entrò Maša, sedette sulla sedia che avevo gelosamente custodito per lei e cominciò a esaminare il menu. Sapevo che detestava quel locale per via del troppo fumo, del pessimo servizio e dell'atmosfera terribilmente desolante. Maša mi giurava che i suoi collant dopo l'OGI erano sempre smagliati. Ma il suo innato senso aristocratico (nella famiglia di Maša per trecento anni tutti gli uomini avevano servito nell'esercito con un grado non inferiore a quello di generale) le impediva di criticare lo squallore del locale. Avevo deciso di affrontare l'argomento solo a casa, nel mio territorio, perciò le dissi conciliante: «Ho bevuto, non me la sento di mettermi al volante...». «È una scusa. La tua macchina non si riesce a guidarla nemmeno da sobri.» In realtà il mio maggiolone VW cabriolet 1969 era elegante, essenziale, bello, affidabile e consumava poco. Nessuno avrebbe mai pensato che il titolare di un'agenzia pubblicitaria lo usasse per fare economia: lo usava perché quello era il suo stile. Un po' alla Woodstock, sex, drugs and rock'n roll. Tutti mi avevano dissuaso dal comprarlo, tranne Anton. Matvej, che guidava una Range-Rover, mi disse che mi avrebbe prestato lui i soldi e di 11
Le foglie sono tutte marroni e il cielo è grigio... Sognando California in questa giornata invernale...
non fare cazzate. Gli avevo risposto che l'amore non si compra. Maša sosteneva che, quando un'auto ha più anni di lei, guidarla è pericoloso. Ribattevo che un'auto invecchia più lentamente. Insomma, non mi ero pentito. Il mio maggiolone era piuttosto solido e non aveva alcuna intenzione di andare in pezzi per strada come sostenevano gli scettici. Nessun comando idraulico. Lo sterzo era perfetto per farsi i muscoli e i freni... Ma i freni, si sa, li hanno inventati i vigliacchi. In compenso, quando con pochi gesti rapidi abbassavo la capote, qualunque ragazza che mi sedesse accanto restava senza fiato. Forse al pensiero che avrei spogliato anche lei con la stessa sicurezza. Maša ordinò alla cameriera che avanzava pigramente verso di noi dei chačapury georgiani e un calice di vino. Cominciai a raccontarle tutto. Il whisky mi aveva definitivamente liberato da ogni vincolo sottoscritto nell'accordo. Ciò che le dissi non le piacque affatto. «Che ne pensi?» le chiesi. «Cosa devo pensare?» disse Maša. «Hai avuto l'incarico da un imbecille ricco che va pazzo per l'occultismo. Che c'entra questo con il Chimico? Tanto più che la causa della sua morte non è il calipsol, ma i ceceni. Chi se non loro potrebbe seminare il terrore e tagliare teste?» «Che dici, Lilja ha sussultato quando ho pronunciato il nome "Deir elBahari" e mi ha chiesto da chi l'avevo saputo.» «È una tua impressione. Lilja si sente in colpa per la morte del Chimico. Se ne è andata a Pietroburgo per qualche motivo, lasciandolo solo in balìa di quei mostri. Desiderava che tu la assolvessi ed è a questo che è servito il tuo racconto.» «Ma non vorresti parlarle?» «Che cosa dovrei dirle? Che tu sei uscito di testa? Ascolta, anche German ogni tanto si buca. È stato il Chimico a iniziarlo. E come se la passa? È vivo e vegeto. Senza nessuna Deir el-Bahari per la testa. Finiscila, hai capito? Finiscila! Rilassati e occupati del tuo lavoro. Chissà quando ti ricapiterà l'occasione di mettere da parte dei soldi per la prima rata dell'appartamento.» Le risposi citando il detto popolare che dice che non si possono mica guadagnare tutti i soldi del mondo, che una parte bisogna pure rubarla. Ma dove avrei potuto rubarla io? La pregai di non arrabbiarsi. Maša mi rassicurò: non era arrabbiata, ma per lei era ora di andare e mi chiese di accompagnarla a casa. Feci resistenza, le dissi che avevo bevuto,
che preferivo restare ancora un po' e lasciare l'auto lì dov'era, ma che da gentleman l'avrei messa su un taxi. Lei mi fece un inchino da geisha. Poi si allontanò senza voltarsi. Continuai a leggere e a bere, e quando il whisky finì me ne tornai a casa in auto perché quando sono ubriaco faccio meno fatica a guidare che non a camminare. Grazie al cielo, gli sbirri per strada mi lasciarono in pace. Mi ripromisi di non mettermi mai più al volante ubriaco. Il lunedì arrivai al lavoro insolitamente presto. Non ero riuscito a dormire per la sbornia. Per tutta la mattina lavorai sul monitoraggio delle parole di FF. Volpina era stranamente silenziosa. Non scherzava, né mi lanciava frecciate, si limitava a guardarmi con circospezione. Lo attribuii al premio che le avevo dato. Quando ci mettemmo a esaminare le nostre ultime operazioni, squillò il telefono. Era Ljubocka, perciò premetti il tasto del vivavoce. «È l'ufficio della Procura.» Sussultai e subito tolsi il vivavoce. Certe telefonate mi spaventano. Non ne viene mai niente di buono. Alzai gli occhi su Volpina. Lei non si mosse. Fui costretto a rendere più esplicito il mio sguardo con un: «Potrei restare da solo?». Volpina si alzò malvolentieri e uscì. «Ljubocka, chi è? Che cosa vuole da me la Procura?» «È un tizio che dice di chiamarsi Novikov. Dice che lei lo conosce.» Il capitano Novikov, alias lo scribacchino, era l'investigatore che seguiva il caso del Chimico. Me lo feci prestare. «Signor Mezenin, possiamo incontrarci?» «È successo qualcosa?» «Pare di sì. Quando può passare da noi?» «Ma che è successo?» «Meglio non parlarne al telefono.» Decisi di andare immediatamente. Non posso sopportare l'attesa quando ci sono dei guai. In auto misi Bregovič, che avevo comprato da poco su consiglio di Anton. La voce bassa e roca era quella di Iggy Pop, che non cantava neppure, ma si limitava a illustrare in modo efficace una situazione. I know that you have got the time Coz anything I want, you do.
You'll take a ride through the strangers Who don't understand how to feel12 . E poi un cupo, profondo ritornello, chiuso da un bizzarro coro slavo. In the death car we're alive13 A-a-a-a-a-a-a-a-a. Capitolo Sei Entrai nella Procura. La luce spuria e diurna dei lampadari ronzanti. Il linoleum strappato. Le porte in similpelle. L'albo dei lavoratori meritevoli. Il poliziotto di vigilanza copiò i dati del mio passaporto e con voce impastata da ubriaco masticò fra i denti: «Ventotto». «Come? Ho il numero ventotto?» «Ufficio ventotto. Primo piano.» L'ufficio ventotto mi ricordava quello del mio padrone di casa: poco accogliente, scialbo, piuttosto buio. Lo scribacchino alzò la testa. Aveva delle borse sotto gli occhi. I casi erano due: o lavorava molto o beveva troppo. «Salve» mi salutò, socchiudendo un po' gli occhi, come se da me irradiasse una luce. «Grazie per essere venuto. Abbiamo avuto un bel da fare qui...» «Che è successo?» «Lilja Donskaja, la moglie del suo amico, è morta. La versione ufficiale è che si tratti di suicidio. È stato rinvenuto un biglietto.» Fui preso da una sensazione molto sgradevole, come se mi avessero cacciato in bocca dell'ovatta facendomi seccare di colpo la gola. Scossi la testa, cercando di muovere la lingua. Mi appoggiai con il braccio allo schienale della sedia e sedetti, senza aspettare l'invito. Poi, come Matvej, cercai di sentirmi il polso. E finalmente mi decisi ad aprire la bocca. «Ieri sono stato da lei.» «Sì?» disse lo scribacchino, nient'affatto sorpreso. «A che ora?» «Di giorno. Tra le dodici e le due. Posso avere dell'acqua?» «Certo» mi allungò un bicchiere con dell'acqua. «E che cosa avete fatto?» 12
So che hai tempo perché quello che voglio, lo fai. Andrai a fare un giro fra sconosciuti che non capiscono cosa devono provare. 13 Nel carro funebre noi siamo vivi.
«Abbiamo parlato. Le ho chiesto qual era secondo lei la causa della morte del Chimico, cioè di Il'ja. Che cosa ne pensava...» «E lei che cosa ha risposto?» "Stop!" disse dentro di me una voce distinta e chiara. "Stop!". Trasalii e decisi di ubbidire. «Mah, in pratica nulla... Che non ci si raccapezzava. Si può fumare qui?» «Prego.» Decisi di usare la sigaretta come time-out per concentrarmi. Mi venne subito in mente una storiella idiota: la Russia sta perdendo 4 a 0 col Brasile e un cronista russo, ottimista, commenta che non bisogna arrendersi. Che non è ancora tutto perduto. È solo il quindicesimo minuto di gioco. Osservavo la mia vita partire per la tangente. Una vita così piacevole, tranquilla, a Mosca! Il lavoro, le relazioni sociali, le storie d'amore, il cinema, i libri, il calcio. Alla fine della sigaretta ero in preda al terrore e avevo voglia di raccontare tutto a chiunque mi capitasse a tiro, allo scribacchino, al direttore dell'FSB, ad Anton e Matvej, per liberarmi di ogni responsabilità e addossarla a qualcun altro. Perché mi ero lasciato invischiare da FF? Perché avevo sottoscritto quel documento idiota? Fuck, fuck, fuck. E adesso che cosa dovevo fare? Fuggire da FF ed esigere delle spiegazioni? Raccontare tutto alla polizia? Telefonare a Maša e inveire contro di lei per il suo scetticismo idiota? La sigaretta era finita. E non so perché, forse, così, solo per guadagnare tempo, dissi in tono lamentoso: «Su, andiamo insieme nel loro appartamento e vediamo un po' cosa troviamo». «Ma noi siamo già stati là e non abbiamo trovato niente d'interessante. Se la perizia legale confermerà il suicidio, allora è fuor di dubbio: si tratta di depressione. E poi dal biglietto non sembrava molto in sé.» «Un biglietto? E cosa c'era scritto?» «In teoria non sarei tenuto a mostrarglielo. Comunque, eccolo.» La vita ha molteplici forme. La morte non esiste. Raggiungerò ll'ja. Là gli sono più necessaria che quaggiù. Miei amati genitori, perdonatemi, se potete. Vi prego di non cercare eventuali responsabili della mia morte. Le capsule di cianuro le ha preparate mio marito con le sue mani. Lilja
P.S. Chiedete scusa, da parte mia, alla vicina. "La vicina... I genitori saranno straziati dal dolore" pensai, ma a voce alta dissi tutt'altro. «Non è che non fosse in sé. È che si preoccupava che nessuno potesse venir incolpato per il veleno.» «Questo è vero, ma l'inizio del biglietto?» «Allora, andiamo?» ripetei in tono volutamente lamentoso. La testa aveva ricominciato a funzionare. «Be', andiamo. Aspetti, prendo i sigilli per l'appartamento.» Quando entrammo, non avevo ancora idea di che cosa cercassi. Accesi il computer e imprecai. L'hard-disk era stato riformattato. Lilja era una ragazza ordinata. Aprii la scrivania. Lo scribacchino mi controllava in silenzio. Nella scrivania c'erano un mucchio di dischetti, cassette, fotografie, orologi rotti, calcolatrici, penne, matite, ciondoli e cianfrusaglie varie. Niente d'interessante. "Noi lasceremo in eredità agli archeologi molti più oggetti che non gli egizi" pensai. "Eccetto i coltelli, le stoviglie e i monili, tutti i loro oggetti erano in legno e in tessuto. I nostri invece sono tutti di plastica, ferro, alluminio." Gli archeologi non mi sono mai piaciuti perché i loro scavi si concentrano soprattutto sulle tombe. Capisco che nelle tombe venisse custodito qualunque tipo di oggetto e, soprattutto, che il passato si conserva sotto terra, ma sono pur sempre tombe... Lo sguardo mi cadde sul lampadario che pendeva dal soffitto. Mi avvicinai all'hi-fi ed esaminai che musica era stata messa. Cesaria Evora era stata tolta. Al suo posto c'era un disco di Johann Sebastian Bach, Famous Organ Works. «Dobbiamo trovare la fiala di calipsol e la siringa» dissi. «Allora cominceremo a capirci qualcosa.» «Cosa?» si stupì lo scribacchino. Ma si unì nelle ricerche. Controllai sotto il letto e in bagno. Dopo un minuto lo scribacchino mi raggiunse dalla cucina, fissandomi come il dottor Watson fissa Sherlock Holmes. Teneva in mano una salvietta con all'interno una fiala vuota e una piccola siringa. «Trovato» disse. «Nella spazzatura in cucina. Come ha fatto a indovinare?» «Mi aveva detto di fare uso di calipsol. Una droga molto rara.» «E questo che cosa cambia nell'indagine? Non è comunque suicidio?»
«Sì. Prima si è iniettata il calipsol, poi si è distesa sul letto, ha abbassato la luce e ha messo della musica. Quando il calipsol ha cominciato a fare effetto, ha preso la capsula di cianuro. Cinque minuti dopo la capsula è stata assimilata. Ecco tutto.» Mi congedai dallo scribacchino, deciso a non dire mai più una parola di troppo a nessuno. Spiegai che il ritrovamento della siringa e della fiala confermava senza ombra di dubbio la versione del suicidio, che la depressione era la causa evidente e che in ogni momento del giorno e della notte ero a sua disposizione per incontrarlo e per parlare di qualunque argomento. Telefonai ad Anton in ufficio e gli dissi che Lilja era morta e che stavo andando da lui. Avevo una voce tale che non osò ribattere. Mi disse che avrebbe chiamato Matvej e che dovevo raggiungerlo direttamente al caffè di fronte all'ufficio, facendomi capire che era meglio adottare una certa riservatezza. Entrai nel caffè. Anton e Matvej sedevano l'uno di fronte all'altro. Gli occhi di Anton erano torvi. Matvej era chino sul tavolo. Mi rivolse una domanda a bruciapelo, senza curarsi della cameriera: «Sei sicuro che si tratta del tuo FF?». «Cosa posso dire... E poi non è il mio FF...» «Dammi il suo cellulare.» «Aspetta, Matvej, ragioniamo.» Leggermente allarmato, guardai Anton. Sedeva assolutamente imperturbabile, come se la cosa non lo riguardasse. Mi strinsi nelle spalle e dettai il numero di telefono di FF. Matvej si accinse subito a comporlo sulla tastiera. «Fermo!» Finalmente Anton era intervenuto. Lo lasciai fare, incapace com'ero di gestire quella combinazione di sangue freddo e di forza fisica che in Matvej è un tratto caratteristico, in grado di entusiasmarmi e atterrirmi allo stesso tempo. «Matvej!» «Che c'è?» Matvej fissava Anton con il suo sguardo chiaro, stupito. Conoscevo quello sguardo: preludeva allo scatenarsi dei lati più oscuri della sua personalità. «Propongo per prima cosa di elaborare un piano, senza mettere in diffi-
coltà il nostro Iosif con telefonate idiote a un numero che, in teoria, dovrebbe conoscere solo lui.» Anton era calmo, imperturbabile. Subito mi sentii meglio. Matvej capì, mi guardò e posò il telefonino sul tavolo. Anton continuò come se niente fosse: «Ma prima di qualunque piano, ragazzi, è necessario che rispondiamo a una semplice domanda: dobbiamo davvero farci coinvolgere in questa storia, e se sì, perché? Vi ricordo, se per caso l'aveste dimenticato, che i morti non risorgono». «Io sono con voi» mi affrettai a dire. In compagnia dei miei amici, la paura mi era quasi passata e aveva ceduto il posto al timore di venir scambiato per vigliacco. «Tu sei invischiato in questa storia già ben più di noi.» «Ragione di più» replicai spavaldamente. «Anton, non capisco di che stiamo parlando. Hanno ammazzato il nostro amico. Dovremmo aver messo tutto sottosopra già da due settimane senza lasciar fare a quegli sbirri rimbambiti. E adesso anche la morte di Lilja. Se ci fossimo dati da fare, lei sarebbe ancora viva. Capisci quel che dico? Viva.» «Basta, Matvej, abbiamo capito.» «Allora, Anton, dillo su. Perché ci torturi?» «Gli assassini non saremo certo noi a scovarli. Ma comincio a trovare la vita triste e noiosa, dopo queste morti.» Iniziammo col definire le linee fondamentali dell'indagine: il Chimico e Lilja, la MNJ Pharmaceuticals, i copti e, naturalmente, FF. Sul fronte del Chimico e di Lilja c'era ben poco da fare, considerato che, se esistevano dei documenti, erano stati di sicuro cancellati da Lilja insieme all'hard-disk. Tuttavia, restava ancora la posta sul server del provider, che forse era ancora possibile rintracciare grazie ai contatti di Anton. Rammentai agli altri il monastero buddista in Giappone, dove il Chimico aveva intenzione di andare. Ma Anton disse che non si può abbracciare l'immensità e che non vedeva che cosa c'entrasse il monastero. Sulla MNJ Pharmaceuticals promise di assumere tutte le informazioni possibili. Certe mostruosità si potevano trovare negli elaboratori della sede e lui lì aveva i suoi contatti. Non illimitati, ma giusto quelli che servivano per carpire delle informazioni. Sarebbe costato del denaro, ma la questione finanziaria l'avremmo affrontata in seguito. Anche la pista copta, quasi sicuramente, era un'assurdità. Ma come scio-
gliere l'enigma? La cosa comportava un viaggio in Israele, dove aveva sede uno dei più importanti patriarcati della Chiesa copta. Toccava a me partire: Anton non poteva abbandonare il lavoro e Matvej doveva indagare su FF. Ero felice di quel viaggio imminente, senza sapere neppure io bene il perché. FF era naturalmente il boccone più accessibile e più ghiotto. Anton e Matvej avrebbero cercato di far luce sulla sua biografia, sui suoi legami e sui suoi eventuali capi. Organizzare un pedinamento e intercettare le chiamate del suo cellulare era la strategia ideale. A quel punto Anton si adombrò. A suo avviso, con questi obiettivi, il nostro budget poteva essere insufficiente. Ci avvicinavamo al cuore della questione. Un'indagine privata costava denaro, e parecchio, nel corrotto sistema russo. E anche un semplice viaggio a Gerusalemme non erano certo briciole, almeno per me. Fui il primo a puntare: «Potrei metterci cinquemila euro. Quelli usciti dalle tasche di FF». «Vedo» disse Anton «purtroppo di tasca mia.» «Rilancio» fece Matvej. «Metterò tutto quello che serve.» «Allora inauguriamo l'operazione» disse Anton. «Bisogna trovarle un nome» proposi io. «Deir el-Bahari» propose Matvej. «È serio, efficace.» «Sarà serio, ma ti si attorciglia la lingua» obiettai. «Solitudine è meglio. È una parola che non abbiamo ancora decodificato.» «È troppo triste» disse Matvej, scuotendo la testa. «E per niente tosta.» «Solitudine 12» propose Anton. «Meno triste, e più tosta.» «Perché 12?» «Così, suona meglio. Come Catch 22. O M16. E poi il 12 è un numero fortunato.» Eravamo tutti d'accordo. «Avrei tre proposte» continuò Anton. «La prima è che mi sembra che Iosif dovrebbe smetterla di andare in giro a parlare di questo caso con tutti, amici e non. O perlomeno, con chi non ne è al corrente.» «Ma che dici, Anton» lo interruppi offeso. «Smettila di cianciare a destra e a manca» tagliò corto Anton. «Hai già vuotato il sacco con Maša, Volpina, Lilja, Matvej e con il sottoscritto. E non è poco. E non è escluso che questo sia costato la vita a Lilja. Spero che tu abbia risparmiato almeno l'inquirente. La seconda proposta è di dotare ciascuno di noi di un cellulare usato con la connessione a internet, che uti-
lizzeremo solo per comunicare tra noi. La terza è che adesso saliamo nel mio ufficio. C'è un individuo bislacco, si chiama Anton Nosik. È un mio vecchio amico israeliano. Lui si picca di capire qualcosa di internet ed è venuto qui da noi per un seminario. Per insegnare ai nostri lavativi. Tra breve il seminario sarà finito e così potrà farci vedere come si usa un programma di posta elettronica protetto e quali sono i parametri di ricerca da usare nei siti non raggiungibili da motori tipo Google. Con i nuovi cellulari potremo già comunicare con e-mail più protette. È tutto. Andiamo. Ho preparato un pass anche per voi.» Mi sentivo decisamente meglio. In fondo era bello poter contare su degli amici. Degli amici pronti a vendicare i loro amici. Era un bene poter smettere di aver paura e di mugugnare, poter rialzare la testa e attaccare. In questo stato di leggera esaltazione entrammo nello stabile dell'Hi-tech Computers e salimmo al sesto piano, dove lavorava Anton. Nosik si rivelò un amabile individuo, di una trentina d'anni o poco più. Aveva occhi grandi e tristi, dita lunghe e sottili e una kippah azzurra fissata alla testa rasata con quelli che sembravano pezzi di scotch biadesivo. Nosik ci tenne una breve lezione sulla posta elettronica protetta, senza mai ricorrere al lessico normativo. Diciamo, anzi, che era difficile cogliere quelle poche parole che non fossero «fanculo», «cazzo» e «fottuto». Io e Anton ascoltavamo deferenti, annuendo con la testa. Matvej sedeva con l'aria assente. «E se provano lo stesso a intercettarci?» chiesi timidamente. «Noi ci fottiamo tutto quello che non possono fottersi loro. E se loro non possono fottersi quello che ci fottiamo noi, fanculo a tutti quanti.» «Limpido» commentò Anton. Non sono certo un puritano bigotto e non mi dispiaceva che Nosik fosse uno così alla mano e disponibile. Dalla lezione avevo capito che bisognava connettersi in internet, prima telefonando con una carta internazionale perché non si visualizzasse il numero e poi collegandosi al provider attraverso la scheda di rete. E che non bisognava aprire nessuna casella di posta elettronica a pagamento ma, al contrario, aprirne una free su mail.ru. Per perdersi nella massa degli utenti. E non utilizzare in nessun caso nelle e-mail parole attraverso cui i servizi segreti avrebbero potuto intercettare utenti sospetti, tipo «stimolatore» o «ritardante». Nosik ci illustrò anche parecchie modalità di ricerca utili, ai limiti dell'hackeraggio. Si trattava soprattutto di motori di ricerca non legali,
formattati con software speciali, basati sul cracking delle password. Ben presto il nostro esperto smise di farci lezione sulla comunicazione protetta per passare a parlare della vita protetta in senso lato. L'ampiezza delle sue conoscenze e la leggerezza con cui le divulgava mi lasciarono folgorato. Poteva parlare di sesso protetto per passare subito dopo agli investimenti protetti, alle droghe non pericolose, ai sistemi di prevenzione del suicidio o degli incendi. Lasciammo la lezione sentendoci dei veri duri, pervasi da un senso di totale sicurezza e impunità. «Interessante. E Nosik parla così con tutti?» «Se dipendesse da me, parlerei anch'io così. Solo le parolacce non perdono il loro significato anche quando si continua a ripeterle ossessivamente» osservò Matvej. Tornammo al caffè per definire il piano d'azione in base al quale due giorni dopo avrei dovuto volare fino a Gerusalemme per un incontro con la più importante comunità copta della città. Anton e Matvej si sarebbero occupati della questione FF. Avevo l'impressione di essere stato dirottato sulla parte meno interessante del piano, ma, d'altra parte, ero stato io a insistere sui copti. E a quel punto capii perché desideravo tanto andarmene da Mosca. Non tolleravo l'idea di dover assistere ad altri funerali. Quei mormorii. Quell'odore. Era troppo. Per parlare coi copti non c'era bisogno di essere documentati sulla realtà israeliana. Per comunicare sarebbe bastato l'inglese. L'incontro sarebbe stato organizzato da un conoscente israeliano di Anton, lo scrittore e giornalista Arkan Kariv. Anton lo chiamò dal cellulare e, dopo una breve conversazione, disse che potevo fermarmi da lui. Questo mi avrebbe consentito di risparmiare sull'albergo e di entrare in contatto con l'ambiente bohémien della comunità russo-israeliana. Ero stato una sola volta in Israele e non avevo mai avuto contatti con israeliani di madre lingua russa, fatta eccezione per la guida. E tanto meno con degli artisti. A Gerusalemme poi non ero mai stato. Quando il nostro gruppo era partito per l'escursione a Gerusalemme io ero rimasto al mare. La sacralità del luogo che avrei dovuto visitare, mescolandomi a greggi di turisti pronti a trattare sul prezzo di un'ampollina di acqua santa, mi faceva sentire a disagio. Mi ero ripromesso di tornarci da solo. Prima o poi. Trascorsi una buona metà del giorno seguente in ambasciata per ottene-
re, grazie all'intercessione di Anton, un visto urgente. E l'altra metà al lavoro a testare la posta elettronica protetta, a cercare notizie sui copti e a controllare i testi pubblicati per FF. Maša, alla notizia della morte di Lilja, cambiò tono di voce e mi esortò a essere ragionevole. La sua impudenza mi frastornò e le ricordai che negli ultimi tempi i miei amici avevano cominciato ad avere qualche piccolo problema: due di loro, ad esempio, erano morti. Perciò le consigliai di mettere ordine nella sua vita privata prima di immischiarsi nella mia. Maša, com'era ovvio, si offese e io, com'era ovvio, ben presto mi pentii delle mie parole, ma non la richiamai, deciso a tenere una linea dura. Durante l'intervallo passai da un'agenzia a comprare il biglietto per Tel Aviv. Ricordandomi delle parole di Matvej, dissi a Volpina che andavo con la mia ragazza in Turchia per qualche giorno. Mi fissò con aria torva. L'effetto benefico del premio era finito. Capitolo Sette Kol od balevav p'nimah Nefesh Yehudi homiyah Ulfa'atev mizrach kadimah Avin l'Tzion tzofivah. Od lo avdah tikvatenu Hatikvah hat shnot alpavim L'hivot am chofsi b'artzenu. Eretz, Tzion, v'Yerushalyaim 14 . Ero seduto sul sedile del pulmino che mi portava dall'aeroporto a Gerusalemme e ascoltavo il cd che avevo appena comprato: Jerusalem 3000. Alcune canzoni erano uno sballo, in particolare questa, che aveva anche un bel titolo, The hope, e che ascoltavo per la terza volta. Era un genere da far invidia anche a Bregovič e trasmetteva una sensazione di consapevole, disperata tristezza. Alla ragazza in uniforme militare che mi sedeva accanto con in mano un 14
Finché nell'intimo ci sussurra l'anima ebraica e, verso le terre d'Oriente, il nostro sguardo è rivolto a Sion, non è ancora persa la speranza, la speranza di duemila anni, di essere un popolo libero nella nostra terra, di Sion e Gerusalemme.
minuscolo M-16 s'intravedeva la spallina del reggiseno. Più tardi mi fu spiegato che si trattava del nuovo stile militar-chic. Mi aspettavo che le israeliane fossero tutte delle more di carattere, ma questa era una castana vera con un carré alla moda e occhi verdi che si intonavano con il colore della divisa. Chissà se anche la biancheria veniva assegnata in dotazione insieme all'uniforme... Non feci alcun tentativo di attaccar bottone, per la mia innata ritrosia quando mi ritrovo al cospetto di rappresentanti dell'altro sesso. Ma fu la ragazza a rivolgermi la parola, avendo sentito che il brano era finito. Mi tolsi la cuffia. «Le piace il nostro inno nazionale?» «Il vostro inno?» chiesi a mia volta. «Quello che ho ascoltato era l'inno di Israele? Ma non era un brano folk?» «Certo. È il nostro anthem nazionale: Hatikvah.» La bella ragazza in uniforme era affabile. Mi disse di chiamarsi Miri, che era nata a Gerusalemme e che ora viveva con i genitori in un piccolo insediamento nella Giudea. Le risposi che la Giudea l'associavo automaticamente alla Bibbia e anche a Giuseppe Flavio. «Be', sì,» fece lei «tutt'intorno sole, aria, montagne. Una bellezza ultraterrena.» «Manca molto a Gerusalemme?» «Siamo vicini. Ancora venti minuti.» «E probabilmente siamo vicini anche a Dio...» dissi io. Miri rispose con una barzelletta sulle chiamate locali15 . E in quel momento cominciarono davvero le montagne. La luce era cangiante. Il panorama fantastico. All'improvviso Miri esclamò: «Look!». Guardai davanti a me e mi lasciai sfuggire un'esclamazione. 15
Il Papa, a colloquio con il presidente degli Stati Uniti nello studio ovale, vede un magnifico telefono in avorio, oro e diamanti. «Mai visto un telefono simile...» «Lo uso per parlare con Dio.» Il Papa allora pensa: "Però, ne servirebbe uno anche a me!" e chiede il permesso di fare una telefonata. «Ma certo, prego,» dice il presidente «solo che un minuto di conversazione costa 250.000 dollari.» Il Papa, comunque, può permetterselo. Parla per mezz'ora, poi ringrazia il presidente, chiede al suo segretario di pagare, si accomiata e se ne va. Un anno dopo è ospite del primo ministro israeliano. Vede lo stesso telefono: «Le serve per parlare con Dio?». «Sì.» «Posso usarlo?» «Ma certo!» Il Papa parla per mezz'ora: «Quanto le devo?». «Ma niente, ci mancherebbe che accettassi dal Papa un dollaro!» «Come?!» «È la tariffa per le chiamate locali.»
Non pensavo che il mondo potesse essere così bello. Davanti a noi, lungo la strada serpeggiante verso le montagne, comparve una tripla fila di casupole dorate. Gerusalemme si faceva a ogni curva sempre più vicina. Finalmente, il pulmino fece il suo ingresso in città e, sul lato sinistro della strada, scorsi, quasi a picco sulla roccia, l'anfiteatro, tra i resti di un antico villaggio. «È uno scavo archeologico?» «No, è una vergogna nazionale» disse Miri. «Una vergogna nazionale?» ripetei, stupefatto. «In mezzo a tanta bellezza?» «È Dir-Yassin, un villaggio arabo. Durante la guerra d'indipendenza uno dei nostri reparti partigiani entrò in questo villaggio e lo distrusse, trucidando tutti: donne, vecchi, bambini. E da allora il villaggio è rimasto così, come monito...» Il pulmino raggiunse la stazione centrale degli autobus. Miri si congedò da me e sparì. Ci restai male, non avevo fatto neppure in tempo a chiederle il numero di telefono. Poi, quando capii che «Miri» era il diminutivo di «Miriam» (sembra incredibile che la Vergine Maria potesse chiamarsi «Miri» nella sua vita terrena), decisi che era destino. Le Marie o Mase saranno anche belle, ma con loro era venuto il momento di chiudere. Tutt'intorno, un clima di vivacità sbracata. Guardai uno straccione di una cinquantina d'anni con i jeans laceri e lunghi capelli grigi. Suonava con la chitarra una canzone di Vysockij cantandola come lui. Da quanti anni ormai, Da quanti anni, Va in modo sempre uguale, Niente vodka mai, niente soldi, E non potrà cambiare... Nella custodia della chitarra c'erano delle monete. Lasciai cadere uno shekel. Lo straccione disse con un accento zigano: «Thank you, Sir» e mi fissò incuriosito. Sorrisi e andai in cerca di un taxi. Un quarto d'ora dopo ero nel vecchio quartiere Katamon. Il profumo delle erbe, dei fiori, degli alberi e dell'aria di montagna mi frastornava. Eppure mi trovavo nel centro della città! Scossi la testa incredulo, salii al primo piano e suonai alla porta.
Al principio udii abbaiare furiosamente. «Via, Krysja, via!» si sentì in risposta. La porta si aprì e una splendida cagna terrier dal pelo lungo mi si avventò contro. Dietro di lei veniva un uomo calvo, alto, allampanato, con gli occhiali cerchiati di metallo e una faccia da serial killer. Almeno, io me l'immaginavo così, un serial killer. «Lei è Iosif?» mi accolse in tono caloroso, cordiale. «Benvenuto, entri, la prego.» «Grazie. Lei è Arkan?» puntualizzai. «Sì» rispose, esaminandomi con attenzione. «Su, entri, entri.» Sussultai. Con quegli occhiali sembrava uscito dall'infermeria di una prigione. Evitavo di guardare la sua testa calva. Ma i suoi occhi intelligenti e colpevoli miglioravano l'impressione. Come quando una donna dice: "Mio figlio è preciso e identico a me: intelligente, tranquillo. Ma gli occhi sono quelli di mio marito: colpevoli, sfuggenti...". Arkan mi offrì del caffè, rafforzando in me la convinzione che gli amici di Anton non potevano essere dei maniaci. Non riesco a credere che un serial killer possa offrire del caffè; dei cioccolatini sì, ma del caffè no. Mentre lui preparava il caffè mi guardai intorno. Mi piace vedere come vive la gente. Proprio di fronte alla porta d'entrata c'era una grande panca a inversione usata come attaccapanni per un cappello da cowboy e un asciugamano. Nella stanza, che fungeva contemporaneamente da ingresso, cucina e salotto, erano ammucchiate delle scatole di cartone semiaperte. Gettando un'occhiata a una di esse, scorsi dei libri, dei dischi e delle cassette, tutti mescolati alla rinfusa. Su una piccola seggiola erano ammonticchiati jeans, calzini, mutande, maglioni e camicie, che facevano pensare che Arkan non possedesse un armadio. L'arredo era piuttosto essenziale, non come usa da noi a Mosca; il divanetto rosso peloso sul quale sedevo, una sedia con i braccioli - dove, dopo aver gettato a terra jeans e maglioni, sedette Arkan - e un tavolino scrostato su cui, presumibilmente, sarebbe stato servito il caffè. In compenso il caffè era denso, profumato, e offerto in minuscole tazzine. Mi guardai intorno ancora una volta. «Un appartamentino accogliente» commentai, cercando di far conversazione. Ma dovevo aver detto qualcosa di sbagliato. «Accogliente?!» Arkan si guardò intorno spaventato, curvandosi ancora
di più. «I miei amici lo chiamano l'anti-Louvre.» «L'anti-Louvre?» «Be', sì. Semplice, ma sporchino.» Sorrisi per gentilezza allo scherzo dei suoi amici e decisi di passare a un tema meno rischioso. «Anton mi ha detto che può aiutarmi a mettermi in contatto la comunità copta.» «Aiutarla? Non saprei, ma ci posso provare. I copti sono gente molto chiusa. Non si lasciano avvicinare da nessuno, ma ho un conoscente, un prete armeno, Varkes. Credo che frequenti qualche prete copto. Posso chiederglielo. E che cosa devo dirgli, se me ne domanda la ragione?» «Be', gli dica che si tratta di un'importante questione teologica.» Mi ricordavo del divieto di Anton e avevo deciso di tenere la bocca ben chiusa. Arkan si fece pensoso. «E se ci dessimo del "tu"?» «Va bene» acconsentii io, cauto. Arkan mi promise che avrebbe fatto tutto ciò che poteva. Il giorno seguente avrebbe chiamato Varkes. E forse, in qualche modo, lui ci avrebbe aiutato. A ogni buon conto, domani era un altro giorno. Intanto, bisognava pensare a oggi. Presto sarebbe stata sera e l'ospite moscovita doveva scegliere come divertirsi. Purtroppo, date le modeste condizioni di Arkan, esistevano praticamente solo due possibilità: o fumare dell'erba lì nel suo appartamento con i suoi amici o andare a fumarla dai suoi amici. In ogni caso i suoi amici non vedevano l'ora di conoscere l'amico moscovita di Anton, astro nascente del mondo pubblicitario russo. Per poco non mi strozzai sentendo quelle parole, ma feci finta di niente. Ragionai a voce alta sulla sua proposta, dicendo che ero stanco per il viaggio e che forse era meglio restare lì, nell'appartamento, anche se certo mi sarebbe piaciuto vedere come vivevano i suoi amici. La vita quotidiana della gente m'incuriosisce sempre molto. Mi intriga sapere, per esempio, come si lavavano i denti i nobili nel XVIII secolo, ammesso che se li lavassero. O come si vestivano i marinai sulle caravelle di Colombo quando faceva freddo. E sarei felice di poter penetrare nella casa di un antico egizio dell'epoca di Hatshepsut. Solo per vedere che mobili aveva. Mi lavai e mi cambiai, consapevole del fatto che mi sarebbe toccato es-
sere la star della serata. Ma non andò così. La star non ero io. Né Arkan. Né l'assistente della Knesset, Pini, dall'aspetto conigliesco, che di nome faceva Pinkhas Bar-Zeev, ma in un'altra vita, col passaporto russo, si chiamava Pëtr Volkov. Né Vanja e Manja, la coppia venuta da PetropavlovskKamčatskij, che aveva avuto la bella pensata di dimenticare quasi completamente il russo. E neppure l'israeliano Roni, che aveva avuto invece l'idea d'imparare un po' il russo. E neppure l'erba. La stella della serata era l'infermiera Anja, una classica bellezza russa dalla lunga treccia. Non fino alla vita, certo, ma pur sempre una treccia. Nemmeno a Mosca avevo mai incontrato bellezze del genere. Parlava lentamente, con calma, e ti fissava in modo aperto, affabile, con certi occhi profondi e attenti... Chiamai Arkan in disparte. Il che significava nella minuscola camera da letto. «Arkan,» gli dissi «Anja è davvero bella!» «Sì, è bella davvero!» annuì Arkan. «Ma è... ehm... libera?» «Come tutti noi» disse Arkan con un sospiro. «E dove le portate qui le ragazze, quando volete far colpo?» «A Eilat» disse deciso Arkan. «Le ragazze le portiamo a Eilat. È un posto cazzuto e la strada è da sballo. Vanja e Manja arrivano giusto da lì, adesso te lo spiegano loro.» Su richiesta di Arkan, Vanja e Manja, interrompendosi l'un l'altra e cercando di parlare con me in un russo vero, mi raccontarono di questa romantica strada che si estendeva per trecentocinquanta chilometri e che chiamavano «via notturna da Gerusalemme a Eilat». «Esci da Gerusalemme, dopo aver gettato un'occhiata ai merli e alle torri della Città Vecchia, illuminati dalla luce dorata, e, nell'arco di venti minuti e dopo trenta chilometri, scendi giù per la collina e ti ritrovi nel punto più basso della terra. Arrivato al cartello "Gerico a sinistra, 6 km", svolti a destra e vedi il mar Morto.» «Se scendi dall'auto, in principio ti sembra di venir sommerso da un'immensa quantità di stelle bassissime. Poi ti rendi conto che stai guardando la Via Lattea, ma così nitida come non l'hai mai vista in vita tua.» «Il silenzio che ti circonda ti fa venire in mente degli stupidi pensieri e ti chiedi se non sia il luogo più profondo della terra e il più importante. Del resto, quali pensieri non verrebbero in mente in questa zona del globo terrestre? Tutto dipende da come sei stato educato negli anni della giovinez-
za, dalla musica che hai ascoltato lungo la strada... E, certo, dalla compagna di viaggio che hai scelto.» «La strada procede solitaria, serpeggiando tranquilla, e il mare resta alle spalle. E a questo punto davanti a te si profila luminosa un'immensa nave. Si avvicina lentamente, finché non diventa chiaro che navi così grandi non esistono. Soprattutto nel deserto. La nave, da prua a poppa, è inghirlandata con file di lampadine e vibra tutta di bagliori. Quando la vedi per la prima volta, ti fa uscire di testa. Ma anche questo dipende dalla musica e dalla compagna di viaggio.» «Percorsi un po' di chilometri, ti rendi conto che non è affatto una nave, ma una fabbrica. Probabilmente per la lavorazione dei minerali del mar Morto. Ma qualcuno l'ha illuminata con parecchie migliaia di lampadine. È come se mani ignote avessero deciso di rischiarare con queste file di lampadine il cuore del deserto. Poi, gli ultimi segni di presenza umana scompaiono.» «Dopo esserti stupito davanti al cartello che indica il biblico luogo dal nome sospetto di "Sodoma", prosegui per un'ora e mezzo attraverso il deserto buio e spopolato.» «E quando al centro del deserto la musica finisce e la tua compagna si è quasi assopita, ti ritrovi in un incredibile luogo chiamato "101 km" e ti fermi.» «Un complesso edilizio molto strano. Un ristorantino all'aperto, un minimarket, un giardino con folli sculture e un piccolo zoo. Nello zoo ci sono asini, cammelli, coccodrilli, serpenti e lucertole. La maggior parte degli animali dorme, dato che è già notte. Alcuni ansimano nel sonno. Il barista ti racconta che nel terrarium vive l'unico serpente albino a due teste, il serpente più velenoso sulla faccia della terra.» «Intorno allo zoo è in funzione una minuscola ferrovia, con vagoncini che sembrano fatti per bambini.» «Dopo aver dato un'occhiata alle sculture fuse da rozze verghe di ferro, cominci a meditare sul destino dell'uomo decapitato che trasporta nella carriola la sua testa. Ti guardi intorno e scopri che lì all'addiaccio non dormono solo le belve, ma anche degli uomini. Sdraiati su amache, appese un po' ovunque in giardino.» «Tu e la tua compagna bevete un caffè e continuate il vostro viaggio. Altri 101 chilometri che sembrano volare in un lampo ed ecco Eilat. E finalmente il mar Rosso! Spiagge notturne, cocktail tropicali e un piccolo confortevole hotel. E, l'indomani domattina, meraviglie subacquee, un bagno
con i delfini e ristoranti beduini con narghilè e marijuana quasi legale.» Il racconto di Vanja e Manja mi impressionò. Mi sembrò che fosse giunto il momento di distrarsi un po' dalla storia con Maša e German. Meditai su quanto tempo e denaro avrei avuto a disposizione per questo viaggio, capii al volo che non c'erano problemi e mi chiesi se Anja avrebbe accettato. Mi venne un'idea. Mi sarei offerto di accompagnarla a casa. E, una volta là, la risposta sarebbe stata chiara. Glielo chiesi e lei acconsentì. Ottimo segno. A piedi erano circa trenta minuti. Cominciai col dire ad Anja che qui mi piaceva tutto, soprattutto la democraticità della società israeliana, dove lo scrittore e giornalista disoccupato Arkan poteva fumare erba con l'assistente di un deputato della Knesset, senza pregiudizi e senza che risultasse inappropriato... All'improvviso si udì un fragore. Un sibilo di pneumatici e il ruggito di un motore. Un fascio di luce da destra a sinistra. Anja mi afferrò con forza e mi scaraventò tra cespugli di rosa canina, dove caddi goffamente, a braccia spalancate. A pochi centimetri da noi sfrecciò una lunga e bianca Mercedes. Si sentì odore di gomma bruciata, di frizione incandescente e di olio lubrificante. Rossi bagliori si dispersero in lontananza. Non era chiaro se fossi disteso sui cespugli o se vi fossi appeso. Cercavo qualcosa di adeguato da dire. «Non ci si annoia qui da voi.» Tentai di sollevarmi. Il cespuglio mi pungeva da tutte le parti. La guancia mi sanguinava. "Sangue, Sudore, Olio lubrificante": non so perché mi venne in mente il titolo del giornale «SSO» presso il quale Anton aveva sbarcato il lunario come redattore, quando faceva il suo dottorato in Israele. «Taci, ti prego,» sussurrò Anja «taci e non muoverti.» Continuavo a penzolare sui cespugli, ma ora cominciavo a stufarmi. Cercavo di guardare Anja. Una gag completamente idiota. «Adesso, posso?» cercai di proferire. «I soliti teppisti!» «Non erano teppisti!» rispose Anja in tono quasi normale, ma come soprappensiero. «Terroristi arabi?» «Quali terroristi! Gli arabi a quest'ora dormono. Era... come si dice da voi... una provocazione. Perché l'auto stava lì ferma, quando l'abbiamo superata, ma dentro non c'era nessuno. Strano, segno che qualcosa non andava. Dobbiamo chiamare un taxi.»
«Manca molto ancora?» «Cinque minuti.» «Be', allora...» «Dobbiamo chiamare un taxi.» Prese il telefonino e pronunciò qualche parola. E, mentre valutavo se fosse il momento giusto per invitare Anja a Eilat e meditavo sulle capacità di osservazione dell'infermiera e sulla sua reazione, arrivò il taxi. Due minuti dopo raggiungevamo casa sua. Anja era rimasta in silenzio ma, salutandomi, mi aveva detto con voce calma e normale: «Cerca di fare attenzione». Mi riempii i polmoni d'aria, ma non ce la feci. Chissà perché le risposi: «Va bene, se il cielo vorrà, ci rivedremo» e tornai indietro con lo stesso taxi. Il tassista non volle i miei soldi e mi spiegò che Anja aveva già provveduto. E così in Israele le infermiere non solo ti salvano la vita, ma ti pagano anche il taxi. Mi sentii uno stupido, ma che senso aveva pagare il tassista una seconda volta? Quando mi vide, Arkan cominciò a darsi da fare. Insistette per mettermi dello iodio sul braccio e confermò che non facevano mai attentati terroristici a quell'ora. «Dovevano essere dei teppisti. Dei teppisti arabi. Volevano solo spaventarvi. Non è piacevole, ma succede.» Mi ringalluzzii. Ero così eccitato che non avevo alcuna voglia di dormire. «Arkan, è da molto che vivi in Israele?» «Da quindici anni.» «E com'è la vita qui?» «La vita scorre a Mosca o a New York come a Gerusalemme. Perché la vita scorre non in un Paese o nell'altro, ma dentro di te. In realtà Israele è una piccola provincia, e anche piuttosto povera, per i parametri europei, soprattutto adesso che c'è la guerra. La gente è pigra e chiassosa. I politici ottusi e pronti a vendersi. La piccola comunità russa provinciale e noiosa. Il russo l'hanno dimenticato, ma l'ebraico non vogliono studiarlo.» «Ma tu ce l'hai, una vita sociale?» «Sì, ce l'ho, ma limitata. Così limitata che gli amici e i nemici sono le stesse persone.» L'ascoltavo con diffidenza perché già da un pezzo ero innamorato di Israele, della sua leggenda di nazione costruita da tre generazioni su un deserto paludoso e salato. E poi le guerre vinte da Israele contro Paesi le cui popolazioni insieme superavano cento volte la sua, se non di più...
Sharon non mi sembrava un politico ottuso e corrotto, ma il generale erede di Îukov e Guderjan, che, alla guida delle sue tre brillanti divisioni corazzate, e senza il sostegno della fanteria, aveva deciso le sorti delle guerre. E poi il romanticismo inquieto e commovente dei kibbutz: lavoro, natura, amore, lavoro. La quotidianità delle guerre annuali. Il terrore, che aveva insanguinato la società israeliana, senza piegarla. I coloni mi ricordavano gli ultimi eroi del selvaggio West. La fondina di cuoio sul fianco e la kippah al posto del cappello da cowboy. L'Hi-Tech israeliano. Programmatori geniali che guadagnavano centinaia di migliaia di dollari l'anno. Lungo la strada, la guida ci aveva mostrato i trenta grattacieli costruiti a Tel Aviv negli ultimi dieci anni. E Arkan parla di palude, stupidità, tasse, spocchia. E il romanticismo? D'altra parte, lui ci capisce di più. Arkan non desiste: «All'inizio, quando siamo arrivati, era come entrare in una fiaba. La nostra fiaba sionista. Eravamo tutti giovani e felici di essere fuggiti dal comunismo e dai genitori. Studiavamo l'ebraico, ci iscrivevamo all'università, ci mettevamo in affari, scrivevamo poesie e racconti. Poi cominciò il delirio dei matrimoni... Passavamo da un amore all'altro. Ci rubavamo a vicenda mogli e amanti. Poi anche questo ci venne a noia. Ci mettemmo a crescere bambini, anche se questo non mi riguardava, a lavorare e ad accumulare soldi. Ma qui è difficile accumulare soldi, al contrario, ci si riempie di debiti. Ci riempimmo tutti di debiti...». Arkan si guardò intorno con aria significativa. «Poi qualcuno è tornato da voi, in Russia.» Mentre Arkan lo diceva, mi rammentai Anton e Nosik. «Qualcun altro se ne è andato negli Stati Uniti. E quelli che sono rimasti soffrono di nostalgia. E oggi per te fanno la fila.» «Fanno la fila?» ripetei con stupore. Nessuno aveva mai fatto la fila per me. «Per quale romantico scopo?» «Perché mai dovrebbero avere uno scopo romantico? È arrivata una persona nuova. Tutto qui. Qui è davvero come in campagna. O, meglio, su un'isola semideserta. Qualunque fonte di informazione in carne e ossa è sempre meglio di internet e della televisione. E nessuno ovviamente fa la fila, è un modo di dire. Ma quando ho detto che sarebbe arrivato un amico moscovita di Anton, tutti hanno cominciato ad autoinvitarsi. E si sono portati dietro persino la loro erba.» Non apprezzavo lo scetticismo antisionista di Arkan.
«A ogni modo,» dissi «qui da voi si sta bene e ci si sente liberi.» «Sì» disse Arkan, dopo una pausa di riflessione. «Qui da noi si sta bene e ci si sente liberi. Ma tutto è misero e privo di senso.» Mi rattristai. La leggenda non era stata sfatata, le erano stati aggiunti semplicemente dei commentari. L'essenziale era che non l'avessero distrutta, ma che l'avessero solo interpretata. «È ora di dormire» decretò Arkan. «Il mattino ha l'oro in bocca.» Mi preparò il letto sul divanetto rosso, in cui entravano solo 150 dei miei 175 centimetri, ma il jet lag, gli ospiti e la Mercedes mi avevano talmente provato che subito crollai. Passai magnificamente la notte. Al mattino Arkan sistemò sul tavolino traballante due tazzine di caffè fumante. Apprezzai questo risveglio, e, dopo essermi lavato e vestito, cominciai la mia giornata battendo cinque volte di seguito Arkan a backgammon. Poi mi accorsi che era ormai l'una e che la mia indagine si era arenata. Arkan si mise a chiamare Varkes, ma nessuno rispondeva. Giocammo altre tre partite. Arkan ne perse due su tre. Nell'intervallo preparò dell'altro caffè e chiamò ancora Varkes. Varkes non c'era. Cominciavo a innervosirmi. «E se andassi da solo?» chiesi preoccupato. «Ti manderebbero a quel paese» mi dissuase Arkan in tono indifferente. «Smettila di agitarti. Qui non sei a Mosca. Qui sei nel Levante. La natura mediorientale è contemplativa e flemmatica. Il tuo Varkes si farà vivo. Dove vuoi che sia sparito?» Cominciavo a stare un po' sulle spine. È il mio atteggiamento abituale quando non faccio quello che devo. Forse una reazione al mio debito karmico. Ero insofferente e rifiutai di giocare l'ennesima partita con Arkan, cosa che palesemente lo indispettì. Cinque minuti dopo Arkan rifece il numero e all'improvviso prese a parlare in ebraico. Mi stupii. Quando ebbe finito di parlare, mi spiegò che gli armeni di lì non parlano il russo e che si mostrano diffidenti anche verso gli armeni dell'Armenia, dato che vivono separati da quasi duemila anni. Disse che Varkes sarebbe andato dal capo della Chiesa copta di Gerusalemme, Marcos Khakim, e che avrebbe richiamato tra un'ora. Nella Città Vecchia è tutto vicino e i problemi si risolvono velocemente. Anche questo è il Levante. Mi calmai un poco e continuai a battere Arkan a backgammon. Dopo un'ora esatta squillò il telefono e Arkan disse che Marcos Khakim mi aspettava quel giorno stesso nella Città Vecchia, nella cappella copta della
chiesa del Santo Sepolcro. Magnifico nome per un luogo d'appuntamento. Arkan mi spiegò come trovare la basilica e mi disse di domandare della cappella copta agli agenti che stazionavano lì di guardia. Uscimmo insieme. Arkan diretto verso la sua banca, per risolvere i problemi accumulati in quindici anni. Giunsi davanti alla porta di Giaffa in taxi, la superai, e, dopo aver gettato un'occhiata alla Torre di David, mi ritrovai tra file di mercanti arabi che vendevano croci di legno, vecchie monete, narghilè, carte geografiche e carte da gioco, acqua benedetta, sandalo, servizi da caffè, terra santa, cartoline e ogni altra meraviglia del Mediterraneo arabo di influenza cristiana. Orientandomi con la carta e la guida, raggiunsi la chiesa del Santo Sepolcro, cercando di sentirmi come un crociato. Mi aspettavo di trovare sul luogo della crocifissione di Cristo qualcosa di maestoso, che potesse competere con la moschea di Al-Aqsa, costruita sul luogo dell'ascensione di Maometto, ma restai deluso. La chiesa del Santo Sepolcro mi parve un edificio piuttosto basso, buio e rozzo. All'ingresso stavano tre poliziotti israeliani in giubbotto antiproiettile e perfetta tenuta da combattimento. Prima di raggiungere la cappella copta, decisi di passeggiare per il tempio. Dopo cinque minuti mi ero definitivamente perso. A un tratto ebbi la sensazione che lo spazio s'inclinasse. Girando a destra dall'ingresso scesi dei gradini di pietra consumati. Sui muri lungo la scala erano state incise delle croci dalla forma un po' incerta e di dimensioni diverse, dalla scatoletta di fiammiferi al pacchetto di sigarette. Le sfiorai con l'indice della mano. Sembrava che a inciderle fossero stati i crociati, fieri della conquista di Gerusalemme. Mi rammentai di una leggenda che veniva tramandata nella nostra famiglia, secondo la quale nel 1945 mio nonno aveva inciso sul Reichstag, con un proiettile della sua pluridecorata pistola Walther, la più breve di tutte le parolacce russe. Giunsi in una sala senza finestre che doveva evidentemente trovarsi sottoterra. Sul pavimento e sulle icone si distinguevano dei caratteri inequivocabilmente armeni. Scesi ancora più in basso, e lì la sala era invece illuminata da vetrate attraverso cui penetrava, incredibilmente, il sole. Svoltai, risalii di nuovo e andai a destra. Mi ritrovai inaspettatamente in una piccola cappella simmetrica. Il pavimento pulito, la luce vivida, un elegante organo appoggiato alla parete, arredo moderno, panche lustre. Su
di esse sedevano a riposarsi dei turisti europei. Attraversai la cappella e mi ritrovai in una piccola sala buia che ricordava una di quelle catacombe dove si riunivano segretamente i primi cristiani. Muri di rozza pietra, il pavimento di terra battuta. Il piccolo altare annerito, un po' sghembo. Nessuna finestra, né anima viva. In fondo alla sala, illuminata da un'antica lampada, s'intravedeva nel pavimento un buco scuro. Infilai la mano: il vuoto. Vi gettai un sassolino. Il tonfo della caduta si prolungò per una decina di secondi. Uscendo dalla catacomba scorsi una vetrina dentro cui stava uno sperone roccioso, illuminato da un'intensa luce. Doveva essere il Golgota. Sopra, sul lato opposto, si trovava una scala. Salii sul Golgota e me ne stetti un po' in meditazione. Ma ero distratto dai turisti, che si fotografavano nelle pose più assurde e inimmaginabili: stavano in ginocchio, dando le spalle all'altare, con la faccia incollata alla macchina fotografica, e ficcavano il braccio destro giù in profondità, per poi ritrarlo. Davanti al sorriso di trionfo di un turista contorto veniva il motivato sospetto che Cristo fosse morto invano. Alla fine capii che infilavano il braccio in un foro speciale per toccare il Golgota. Tornai verso l'uscita, mi avvicinai a un poliziotto e gli chiesi dov'erano i copti. La chiesa cominciava ad affascinarmi. La geometria euclidea lì non era di casa. Attraversai una porta obliqua, finii su una scala angusta e mi ritrovai in una lunga sala dove sedevano degli uomini bassi e magri di pelle nera, in lunghe vesti beige. Non mi notarono neppure. Attraversata la sala, finii all'esterno, sul tetto del tempio. La prima cosa che scorsi fu della biancheria appesa ad asciugare sui fili. Lenzuola, mutande, camicie. Un intero bucato candido. Mi avvicinai cautamente al bordo del tetto e mi accesi una sigaretta. A giudicare dalla quantità di mozziconi, non dovevo essere il primo. La chiesa del Santo Sepolcro, eretta sul luogo della morte di Gesù, non era un luogo scontato, banale. Finita la sigaretta, decisi che al destino non si sfugge, e mi misi a cercare Marcos Khakim. La cappella copta mi piacque subito. I muri erano tutti intonacati, senza affreschi. Sul muro di fronte all'entrata c'erano delle icone e una lampada. Le icone somigliavano a disegni infantili o a quelli naïf di Pirosmani. Le figure piatte, i volti enormi, senza dettagli minuti. Gli occhi grandi che ti guardavano fisso. Superai dei gruppi di persone in preghiera in lunghe vesti bianche. Erano tutti scalzi, ma con dei copricapo. Mi rivolsi a qualcuno di loro e feci il
nome di Marcos. Un uomo si alzò, invitandomi a seguirlo con un gesto. Era, Marcos, un vecchio magrissimo, con indosso una camicia bianca e un copricapo marrone che mi ricordava per la foggia quello dei reclusi di Auschwitz. Sorse subito un problema. Marcos non parlava l'inglese. Conosceva il greco, la lingua della comunicazione interconfessionale, l'arabo e il copto. Allora chiamò un ragazzino di circa tredici anni e tutti e tre ci trasferimmo in una piccola stanza con le pareti intonacate. Lungo una di queste passava una tubatura dell'acqua sottile e arrugginita, da cui stillavano piccole gocce. Marcos sedette su una poltrona scura con braccioli che sembrava il piccolo trono di un imperatore in esilio e mi fece accomodare, se così si può dire, su una minuscola panchina di legno. Il ragazzino restò in piedi. Cercavo di usare delle frasi estremamente semplici per farmi capire e per agevolare la traduzione. Lo schema della nostra conversazione fu più o meno il seguente. Io: «Ho bisogno di aiuto. Sono morte due persone: il mio amico e sua moglie, e ho l'impressione che questo abbia qualche relazione con il monastero di Deir el-Bahari o con la regina faraone Hatshepsut». Lui: «Come sono morti?». Io: «Il mio amico per una causa ignota. Quando lo hanno trovato, in casa sua, era disteso sul letto con la testa tagliata. Sua moglie si è suicidata un mese dopo». Lui: «E cosa c'entra Deir el-Bahari?». Io: «Qualche giorno dopo la morte del mio amico è venuto da me uno strano individuo, chiedendomi di far pubblicare sui giornali le parole Deir el-Bahari, calipsol, solitudine e le cifre 222461215». Dopo che ebbi pronunciato il numero e il ragazzino l'ebbe tradotto, mi sembrò che il viso olivastro di Marcos, già così affilato e smunto, lo diventasse ancora più. Chiese di ripetere il numero un'altra volta. Il ragazzo traduceva e lui ripeteva: two - snav two - snav two - snav four - ftou six - coou
one - uej two - snav one - uej five - tiou. Mi sembrava di parlare con Thutmose I. Marcos scosse la testa e disse qualche parola al giovane interprete. Questi, rivolto a me: «Non uno, due: dodici». «Dodici?» «Sì, metsnav.» «Sì, metsnav» rispose cupo Marcos. "Proprio come la nostra operazione" pensai. «E "uno cinque", non gli dice nulla» spiegò il ragazzo. «Non importa. Ma che significato ha quel numero, anche senza il quindici?» «Alcuni lo chiamavano il numero della vita.» «Il "numero della vita"?» Marcos fissò il cielo e rispose alla mia domanda con un'altra domanda, disegnando nell'aria un triangolo. «L'uomo che è venuto da te aveva la testa rasata, così?» Io, ripetendo meccanicamente il suo gesto, risposi: «Sì». Dopo aver taciuto per un minuto e avermi guardato fissamente, Marcos aggiunse: «È un uomo importante. Un uomo empio. Un hat». Io: «Un hat? Che cos'è un hat?». Lui: «Gli hat sono uomini empi. Non sono quasi degli uomini. L'apostolo Marco scrisse il Vangelo e battezzò il nostro popolo. Gli egiziani abiurarono gli antichi dèi e accettarono Cristo e costruirono un monastero a Deir el-Bahari, accanto al tempio di Hatshepsut. Ma quei monaci erano degli eretici e si diedero il nome di "hat" in onore della regina faraone. Si sposavano con le proprie sorelle. E tagliavano la testa ai nemici. Facevano sacrifici umani. Noi distruggemmo il monastero, li scomunicammo e li scacciammo dall'Egitto, ma non scomparvero. La Chiesa di Roma trovò delle iscrizioni degli hat in lingua copta e allora si rivolse alla nostra Chiesa. Ma noi non prestammo loro aiuto: i romani sono degli eretici. Non posso dire di più». Io, speranzoso, domandai: «E quanto tempo fa la Chiesa romana si rivolse a voi?». Lui: «Si parla di trenta generazioni or sono».
Io chiesi, deluso: «È tutto? Ma cosa significa allora il numero?». Anziché rispondere, si fece uno strano segno della croce col palmo della mano e poi l'alzò pronunciando le parole «Ntof ou nutipe», e tacque. Capii che era ora di andarsene. Mi voltai a guardare il ragazzo: «This is a blessing» spiegò. Mi alzai, ringraziandolo, e mi allontanai con la sua benedizione. L'udienza non era durata più di cinque minuti. Alla porta di Giaffa mi fermai, indeciso se prendere il taxi o tornare a piedi. Notai con stupore che la paura, che non mi aveva mai abbandonato negli ultimi tempi, era sparita. Giusto per mettere alla prova la sorte e i terroristi arabi, camminavo lentamente. In piazza Sion incontrai il mio amico mendicante dai lunghi capelli grigi. Questa volta cantava come Sachrin. Non aver fretta di spararci alla schiena, C'è sempre tempo. Lasciaci finire le nostre danze, Lasciaci finire la nostra canzone, Non aver fretta di chiuderci gli occhi. Anche così amiamo il buio, e ci sferza le guance la vite, inebriandosi della nudità. Ascoltai la canzone fino alla fine e finalmente l'apprezzai come meritava. Lanciai uno shekel nella custodia della chitarra e, cercando di orientarmi con la carta, me ne andai a piedi verso casa. Il materiale su cui riflettere non mi mancava. Capitolo Otto Tornai da Arkan e cercai di mettermi in comunicazione con la base. Non era affatto semplice. Anton non rispondeva al numero segreto di cellulare. Chiamai Matvej. Stesso risultato. Allora me ne infischiai della sicurezza e li chiamai ai soliti numeri. Non rispondeva nessuno. Telefonai a Maša. La trovai freddina e formale. Mi chiese dei miei piani e mi augurò buona fortuna. Mi indispettii. Telefonai a mia madre e le dissi che andava tutto bene. Arkan rientrò e mi cucinò delle bistecche. Finito di mangiare, cercai di nuovo di chiamare Anton e Matvej, senza risultato. Avevo dei cattivi presentimenti. Arkan e io ci rimettemmo a giocare a backgammon. Ricominciavo a vincere. A un certo punto il mio cellulare segreto prese a trillare.
«Anton, alla buon'ora! Cos'è successo, in nome del cielo? Perché né tu né Matvej rispondevate?» «È successo qualcosa a Matvej.» Ebbi un tuffo al cuore. «Cosa, di nuovo?!» dissi moscio. «Sì, di nuovo!» disse Anton contrariato. «Un'altra delle sue crisi sentimentali! La sua direttrice. Non può vivere senza di lei. È sull'orlo di una crisi isterica. Come si dice, la storia si ripete, ma per i cretini può ripetersi anche tre volte di seguito. Sono appena stato al cinema con loro...» «Anton!» persi il controllo. «Io qui rischio la vita. Sono stato investito per strada da una Mercedes. Il patriarca della Chiesa copta, il pastore spirituale del più antico popolo della Terra, ritiene che la mia vita sia in serio pericolo, e tu mi parli dell'ennesima crisi finanziario-sessuale di quel martire della fica?» «Ehm... da quale Mercedes sei stato investito? Che cosa ti ha detto per spaventarti il patriarca copto?» Gli raccontai della mia avventura notturna e gli riferii il mio colloquio con Marcos. Quando gli dissi che bisognava partire subito per Roma, Anton si rianimò. «Magnifica idea. Ti manderò in aiuto Matvej. Tutti e due dovreste già avere il visto. Così nella Città eterna potrai salvare il nostro vecchio amico dalle sue pene d'amore.» «Anton, non è dei visti che abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di contatti in Vaticano.» Anton tacque. A quanto pare, non aveva accesso all'agenda del Papa, e sarei certo rimasto sconcertato del contrario. «Cerca in internet» disse. «Nei motori di ricerca di Nosik. Intanto ci penserò su. Ci sentiamo stanotte.» «Come va con FF?» «Niente da fare. Abbiamo setacciato tutte le strutture, non risulta da nessuna parte. Anche il cellulare è intestato a un altro. Localizzare e intercettare le telefonate costa un'infinità di soldi, perché si tratta di un'operazione decisamente illegale. E poi è probabile che quel telefono lo usi soltanto per comunicare con la PR Technologies. Sul server devono esserci le registrazioni. Delle e-mail di Lilja non è rimasta traccia. Di solito non tengono le e-mail eliminate dagli utenti, per non occupare troppo spazio. Domani a Roma Matvej ti racconterà tutto nei particolari. Buona fortuna!» «Anche a te...»
Bevvi il caffè che mi aveva preparato premurosamente Arkan e feci il numero di Anja. Il telefono era staccato. Allora, con aria colpevole, guardai Arkan e mi sedetti al suo computer. Lui non si contrariò, capì di dover rimandare l'attività giornalistico-creativa a più tardi, e si mise a programmare la sua vita privata in vista della serata. «Senti,» gli dissi quando era ormai sulla soglia «sapresti spiegarmi come mai la nostra generazione, che pure ha raggiunto un'età più che adulta, non è ancora riuscita a organizzare la propria vita personale su basi solide? Perché tu, io, Matvej e altre brave persone come noi cerchiamo di assomigliare a ogni costo a dei lupi solitari? E anche se ci mettiamo a convivere con delle donne, comunque non le sposiamo? Solo Anton ha raggiunto la felicità coniugale. Ma la sua è un'eccezione che conferma la regola. Perché dev'essere così?» «Sai, ci ho pensato anch'io.» Arkan si fermò sulla soglia e si levò persino il cappello da cowboy dal cranio calvo. «Il fatto è che non siamo soddisfatti delle nostre vite in generale. Con ogni donna, immaginiamo di dover ricominciare a vivere una nuova vita, e temiamo che, se mettessimo la testa a posto, dovremmo rinunciare ai nostri sogni di nuove esistenze. Ma questi sogni ci sono così cari perché crediamo nella vita eterna.» «Davvero? Io, invece, penso che sia dovuto alla società in cui viviamo. Libertà, egoismo, menefreghismo hanno prevalso sui valori tradizionali. Soprattutto sui valori familiari. Residui degli anni Sessanta. Woodstock. Sex, drugs and rock'n roll. Tra l'altro, per quelli della generazione degli anni Sessanta, noi siamo quelli degli anni Ottanta.» «E hanno ragione» disse tristemente Arkan e se ne andò, portando con sé l'ennesimo sogno di una nuova vita. Mi immersi nella navigazione in internet e visitai almeno cinque dei motori di ricerca segnalati da Nosik. Digitando "hat" in caratteri latini uscivano parecchi link. Provai anche con "khat, hath, khath", ma non ne sortì nulla di interessante. Entrai in un sito di hacker dove si vantavano di poter forzare il sistema informatico di qualunque organizzazione. Digitai come parola chiave "Vaticano". Il sito rispose: «No problem, la soluzione della vostra richiesta comporta decine di migliaia di ore di ricerca, per ottenere la risposta versate la somma di 250 dollari e fornite il numero della vostra carta di credito». Non m'importava dei soldi, ma capii che si trattava di un bidone per navigatori ingenui e uscii da quel sito furfantesco.
In compenso nel sito dell'Università del Cairo trovai un interessante articolo - per fortuna non in arabo - interamente dedicato ad Hatshepsut, purtroppo incompleto. Finora non mi ero mai imbattuto in articoli scientifici anonimi. Lessi con avidità che il primo governo di Hatshepsut non era durato a lungo. La regina, tuttavia, aveva fatto in tempo a costruire il tempio di Deir el-Bahari e, nelle immagini che la raffiguravano, presentava dei tratti decisamente femminili. Thutmose I, il primo re Lear della storia, era morto due anni dopo la detronizzazione dell'ingrata figlia. La ribelle Hatshepsut, ancora in vita, era decisa a reimpadronirsi del potere e aveva fatto una mossa inaspettata. Prima dei funerali del padre, mentre il corpo del faraone condottiero era ancora immerso nel balsamo, aveva fatto innamorare di sé entrambi i pretendenti, Thutmose II e Thutmose III, padre e figlio, e, rispettivamente, fratello e nipote di Hatshepsut. E si era offerta come sposa a entrambi i pretendenti, mettendosi all'asta. Le trattative si erano svolte con la mediazione di Hapuseneb. La sua mossa era stata vincente. Chi avesse acconsentito a prendere in moglie la ventenne Hatshepsut - il quarantenne Thutmose II o il diciottenne Thutmose III -, avrebbe avuto il potere effettivo sull'Egitto e i suoi figli sarebbero stati eredi legittimi, poiché nelle loro vene scorreva il sangue del dio Sole. In tal modo Hatshepsut non solo salvava la propria vita appesa a un filo, ma acquisiva anche il potere. Thutmose III, che era un giovane romantico, le aveva offerto ben più del padre. Le aveva promesso di conquistare il mondo e, con il denaro accumulato, di far erigere in suo onore un tempio della grandezza delle tre piramidi di Cheope. Ma la regina, che non mancava di un sano pragmatismo, aveva fatto vincere Thutmose II, che aveva acconsentito a non immischiarsi in alcunché e aveva autorizzato Hatshepsut a ultimare la costruzione del suo tempio. Le nozze erano state celebrate. Thutmose III, innamorato focoso e in preda alla rabbia, aveva chiesto il comando dell'esercito e di essere spedito nel Nord. Il comando, però, non gli era stato dato. L'Egitto aveva cessato tutte le sue campagne militari ed era cominciato un periodo di tranquillità. Nei templi fioriva la scienza. L'arte dell'imbalsamazione prosperava. Tutte le discipline progredivano, compresa la geografia. Vennero disegnate carte dell'Egitto e dei Paesi confinanti e progettate grandi città, cosa che non sorprende dal momento che era cominciata un'intensa attività commerciale. Per la prima volta dai Paesi stranieri non
arrivavano trofei di guerra, bensì merci, schiavi inclusi. Hatshepsut aveva costituito un fondo di diamanti che aveva consentito d'incrementare considerevolmente il volume delle operazioni commerciali. Una delle prime spedizioni, guidata da Senemut, era stata quella nel lontano Punt, localizzabile nell'India occidentale di cui si conservava sulle pareti del tempio una minuziosa descrizione. Hatshepsut era cambiata e la sua immagine acquisì sembianze maschili. Ora veniva ritratta con la barba posticcia, il petto piatto e nudo e lo scettro col pomo di diamanti. Thutmose II non l'osteggiava e si comportò, come aveva promesso, in modo tranquillo e discreto, ma morì di lì a qualche anno senza lasciare un erede legittimo. Senemut prese il suo posto nell'alcova della regina, confermando in tal modo tutte le dicerie che circolavano sul suo conto. Ma il popolo egizio non manifestava scontento, perché prosperava. Serenità e benessere durarono per tutti i diciotto anni del regno di Hatshepsut. La costruzione del tempio fu ultimata. I bassorilievi del primo periodo del regno di Hatshepsut, mutilati dal padre e dal fratello, non vennero toccati, e solo in alcuni punti Hatshepsut fece ripristinare il proprio nome. Poi Senemut morì e dopo circa sei mesi anche la regina scomparve, all'età di trentanove anni. Hapuseneb fece scavare sotto il tempio un sottopassaggio segreto lungo ottocento metri, che conduceva al piccolo sepolcro di Hatshepsut, situato nella Valle dei Re. Chiuse l'accesso con un masso di pietra e lo mimetizzò. A quell'epoca ormai non si costruivano più le piramidi, facile preda dei ladri. Ma non furono i ladri a profanare la tomba di Hatshepsut. Thutmose III, una volta conquistato il potere, si comportò in modo assai bizzarro. Fatti simili non accadevano da tempi immemorabili, dall'Antico Regno dei primi faraoni, e non si sarebbero più ripetuti fino all'ultimo faraone dell'ultima dinastia, guarda caso una donna, di gran lunga più popolare di Hatshepsut: Cleopatra. Per cominciare Thutmose III fece uccidere Hapuseneb, proibendo che venissero celebrati i funerali rituali e solenni. Il corpo dell'aiutante e amico di Hatshepsut fu dato in pasto alle iene perché la sua anima non trovasse pace nel regno dei morti. Poi Thutmose III, sempre allo stesso scopo, fece distruggere la tomba di Senemut e tutto ciò che poteva ricordare Hatshepsut: la sua tomba, tutte le sue immagini e gli oggetti in cui veniva rappresentata nel tempio e negli archivi di palazzo. Fece sotterrare le sue statue a tre metri di profondità.
L'anonimo autore dell'articolo ipotizzava che presumibilmente Thutmose I aveva risparmiato la vita di Hatshepsut e Thutmose III cancellato ogni traccia della sua memoria per la stessa ragione: Hatshepsut era la depositaria di saperi occulti che avrebbe confidato a non iniziati, forse a Senemut, a Hapuseneb e al suo giovane e brillante discepolo Duamutef. In seguito Thutmose III divenne il più grande condottiero dell'Egitto, pur intraprendendo la sua prima campagna militare all'età di trentasette anni. La battaglia contro l'armata siriaco-palestinese a Kadesh (cinquanta chilometri a nordovest di Gerusalemme) fu da lui vinta in modo geniale. Avendo saputo che l'armata nemica era appostata dietro una rupe, nella valle antistante la città, guidò il suo esercito attraverso una gola così stretta che i suoi ventimila soldati furono costretti a penetrare in fila indiana, trascinando i carri a braccia e con le corde. Il nemico aveva visto sbucare l'esercito egizio direttamente dalla montagna e, incerto se attaccare, fintanto che gli egiziani erano usciti dalla gola e si erano tutti schierati, aveva perso la battaglia quando la pesante cavalleria aveva attaccato con i carri al centro, spezzando la fanteria. Durante i suoi quarantadue anni di regno Thutmose III vinse altre sessanta battaglie, benché gli egizi non disponessero di macchine d'assedio e dovessero conquistare ogni città combattendo corpo a corpo. Nessun successore di Thutmose III, nei 3500 anni successivi, riuscì a estendere oltre i domini egizi, che comprendevano Libia, Sudan, Egitto, Arabia Saudita, Israele, Libano, Siria, Giordania e Iraq. L'articolo dell'anonimo autore dell'Università del Cairo aveva risposto a quasi tutti i miei interrogativi. Eccetto uno. Perché per colpa di Hatshepsut un gruppo di monaci copti aveva tradito Gesù per dar vita a una setta eretica? Forse proprio a causa di quei saperi occulti? E perché sempre quell'attrazione per il proibito, che persiste fin dalla cacciata dal Paradiso terrestre? Ero lì a scervellarmi sui possibili legami tra la regina faraone e i copti eretici, quando al mio cellulare segreto chiamò Anton. «Sei riuscito a penetrare nel sito del luogotenente di Dio sulla terra?» «No, mi sembra che tutti questi sistemi di hackeraggio per non iniziati non siano altro che una stronzata.» «Allora segnati questo numero.» «È quello del papa?» «No, del capo della polizia segreta del Vaticano.» «Complimenti... E il telefono di Dio in persona non ce l'hai? Perché altrimenti potrei chiamarlo direttamente da qui. Tariffa agevolata, come nel-
la barzelletta, sai?» Trascrissi il numero di «padre Joseph» (eravamo omonimi!) e chiesi: «Devo chiamarlo padre Joseph?». «Sì, e parlagli in inglese. Dovresti avere ancora dei soldi, se non sbaglio. Matvej si metterà in contatto con te quando atterrerai a Roma, cioè domani sera. Cerca di essere lì per allora. Bye-bye.» Avevo appena lasciato la chiesa del Santo Sepolcro e domani sarei stato in Vaticano, non riuscivo a crederci. Quasi senza rendermene conto ero scivolato nel campo della religione. Il programma di Eilat con Anja era cancellato. Tanto più che lei non aveva neppure risposto al telefono. Di whisky Arkan non ne aveva, però aveva del brandy. Me ne versai mezzo bicchiere, tracannai un bel sorso e crollai sul divanetto rosso. E il mattino seguente, dopo aver ringraziato Arkan di tutto e aver infilato le mie cose nella borsa, salii sul taxi che avevo prenotato, diretto all'aeroporto. Uscii da Gerusalemme lungo la stessa strada dalla quale ero giunto, e che ora mi avrebbe portato a Roma. Tutte le strade portano a Roma. L'importante è scegliere quella giusta. La mia, adesso, era meravigliosa. Mi sistemai più comodamente, presi il lettore cd e mi misi a cercare la musica più adatta alla miriade di persone, eventi e città che avrei conosciuto. Il whisky, lo stress, ancora il whisky. E ieri sera il brandy. Forse gli Auktsion andavano bene. Misi il loro cd. Riparati la testa con la mano, Mai che trovi pace, Sempre qualcosa che ti manca, Sempre qualcosa che non torna, Sempre a non farti ingannare, Sempre così, Eh, sempre così. "Dovrò imparare dai giapponesi la tecnica della meditazione" pensai. "Altrimenti non riuscirò a resistere a lungo a tutta questa tensione e prima o poi commetterò qualche sciocchezza, se non l'ho già commessa. Ma ormai non ha alcuna importanza, meglio non voltarsi indietro. Tanto più che negli ultimi tempi mi sento franare la terra sotto i piedi e la sensazione del terremoto con le sue scosse d'avvertimento mi è ormai divenuta familiare. Ci sono persone che abitano in zone a rischio sismico, eppure vivono tran-
quille. Anzi, una delle regole dei samurai che abitavano nella zona sismica di Tsunemoto recitava così: 'Non stare tutto il tempo in guardia. Crediti già morto'." Mi scossi dalle mie meditazioni quando il taxi era ormai in aeroporto. Cinque minuti dopo avevo comprato un biglietto per Roma. Il volo sarebbe partito di lì a un'ora e mezza. Raggiunsi il bar, presi un tè e mi misi a telefonare a Mosca a Volpina, a Maša e ad Anton. Volpina mi disse che era tutto a posto. L'incarico era in progress e FF non era più comparso. Si coglieva una nota di insofferenza nella sua voce maligna, come se dicesse: "Tu te ne stai lì a spassartela in Turchia, mentre io sono qui a sfacchinare per te". Decisi di non badarci e mi sforzai come meglio potevo di farle i miei elogi. Poi telefonai a Maša. Aveva un tono più affettuoso del giorno prima e mi disse persino che sentiva la mia mancanza. Quindi chiamai Anton, il quale mi confermò che Matvej sarebbe arrivato a Roma verso le otto di sera e che aveva prenotato per noi una stanza all'hotel Gallia. «Se ho capito bene, la direttrice di Matvej molto banalmente non vuole dargliela, è così?» «Qualcosa del genere, ma non sono certo che sia poi così banale.» «Allora spero che tu abbia prenotato una camera twin beds, e non con letto king size, nel caso che tutt'a un tratto diventi pericoloso...» Anton disse che me la sarei vista io con le camere una volta arrivato. Chiusi la comunicazione e andai al banco del check-in. Già a Mosca mi avevano avvertito che la vigilanza si accaniva sui passeggeri in partenza e che bisognava rispondere prontamente, senza confondersi. Mi si avvicinò un'affascinante biondina in uniforme che, vedendo il mio passaporto, disse in russo, storpiando le lettere: «Bon gi-iorno». Dopo averlo aperto e aver letto il mio nome, annuì e intimò: «Mi segua. Prenda la sua borsa». La cosa non mi piacque molto. Tutti gli altri passeggeri venivano controllati lì dov'erano. La seguii. Entrammo in una piccola stanza, nella quale sedevano alcune persone con la divisa da poliziotto, e la biondina si rivolse all'uomo col rombo più grande sulle mostrine, facendo un cenno nella mia direzione. Poi si occupò della mia borsa e la posò su uno speciale tavolino metallico. Cercai di distogliermi dai cattivi pensieri seguendo il movimento delle sue mani. Dopo quarantacinque secondi ogni oggetto era stato tolto, tastato e controllato. Si avvicinò e passò lungo il mio corpo una bacchetta che si mise a suonare in prossimità del lettore di cd e delle chiavi. La poliziotta accese il lettore e
subito lo spense, toccò le chiavi e con la testa fece un cenno negativo all'ufficiale col rombo. Quindici secondi dopo tutte le mie cose erano tornate al loro posto. L'ufficiale venne verso di me e mi chiese se parlavo inglese. Poi si scusò dicendo che non voleva procurarmi dei fastidi, ma che era arrivata una telefonata nella quale si diceva che trasportavo dei dispositivi per un attentato terroristico. Con ogni probabilità si trattava di un errore e il controllo lo confermava, ma lui doveva farmi comunque alcune domande. Risposi a tutte (chi ero, da dove venivo, di cosa mi occupavo, dove avevo vissuto in Israele, qual era il motivo della mia venuta e ancora una decina di altre domande che a mio avviso non c'entravano nulla, per esempio, sulla nonna, che aveva sposato il nonno ebreo). Dopo di che mi chiesero se non avevo nulla in contrario a lasciare le mie impronte digitali. Così, per ogni evenienza. Non avevo nulla in contrario. Poi si scusarono ancora una volta e mi domandarono se avevo idea di chi avesse potuto chiamarli. Dissi che non riuscivo a immaginarlo. Non avevo alcuna voglia di coinvolgere la polizia israeliana in questa faccenda. Perciò tacqui sull'episodio della Mercedes. Dissi che probabilmente si trattava di uno scherzo. L'ufficiale fece un sorriso forzato. Chiesi da dove veniva la telefonata. Rispose che veniva da un telefono pubblico. «Allora era di certo uno scherzo» dissi io. «Posso andare?» «Buon viaggio!» rispose lui, perplesso. Uscii, maledicendo il guaio in cui mi ero cacciato. "L'essenziale è non andar fuori di testa" dissi a me stesso. "Tra cinque minuti berrai il tuo whisky al bar e ci penserai su." Ma una cosa era cercare di essere razionali e l'altra esserlo davvero. Le mani mi tremavano. Una mano voleva chiamare Anton, ma decisi che prima bisognava riprendersi. Al Duty Free comprai una bottiglia di plastica di Bell's e al bar ordinai una Coca-Cola. Il whisky cominciò a fare effetto. Telefonai. Anton mi ascoltò fino in fondo e mi pregò di calmarmi. «Anton,» replicai io «ma come faccio a stare tranquillo, se mi danno la caccia? Sul serio. La Mercedes non era uno scherzo. Ho paura. Capisci, ho paura! Molto probabilmente presto daranno la caccia anche a te. Preparati!» Ma Anton era giunto molto più in là di me nell'arte del samurai. «Non va così male. Non vogliono ammazzarti. E anche se mi sbaglio e vogliono farlo davvero, ti rassicurerà sapere che sono dei coglioni. Non solo non sono riusciti a farti fuori, ma neppure a trattenerti in Israele. Se invece la loro
intenzione è quella di spaventarti, allora hanno raggiunto il loro scopo, e questo significa che non c'è niente di serio che ti minaccia. O si vuole spaventare o si vuole uccidere. Del resto, hai ragione: la tua situazione è piuttosto sgradevole.» «Anton, i tuoi sillogismi sono affascinanti! Adesso secondo te io dovrei vivere senza sapere da che parte arriverà il colpo, né da chi!» «E allora? Un sacco di gente molto ricca e influente vive così, in Russia.» «Sì, lo so, e a causa del loro denaro e del loro potere soffrono di ipertensione, impotenza, e hanno figli infelici. E dire che hanno anche le guardie del corpo!» «Ma noi lo sappiamo che spesso non servono a niente. Contro il destino non c'è scampo. Calmati, va' a Roma. Accompagno Matvej all'aeroporto e durante il tragitto lo informo di tutti i cambiamenti nei nostri piani.» «D'accordo e, mentre pensi ai nuovi piani, non dimenticarti della tua Dina e dei figli che verranno. Non dimenticare che sono sangue del mio sangue. Stai bene.» Dopo un minuto fu annunciato l'imbarco. Pagai la Coca e me ne andai. In aereo bevvi un altro sorso di Bell's, presi le cuffie avvolte nel polietilene, poi ci ripensai, le riposi e m'infilai quelle del mio lettore cd. Sempre in giro, sempre in giro, Nell'estate luminosa, Senza ricordare, né dimenticare, E nemmeno tu sai perché, Tanto non vincerai mai, Sempre così, Eh, sempre così, Chissà dove... Capitolo Nove Atterrai a Roma un'ora prima di Matvej, cambiai i dollari in euro, andai all'Irish pub e, sorprendendo me stesso, ordinai una Guinness. Di solito non amo la birra, soprattutto la scura e amara Guinness. Stabilii che, dopo tutti i traumi e gli sconvolgimenti subiti, nella mia psiche cominciavano a manifestarsi dei cambiamenti. A partire dai gusti. All'ora concordata chiamai Matvej e gli dissi dove mi trovavo. Dieci minuti dopo, entrava nel bar.
Raramente avevo visto Matvej in quello stato. I suoi occhi esprimevano un'angoscia disumana e sulle guance aveva una barba rossa di tre giorni. Capii che i miei problemi psicologici e metafisici passavano in secondo piano. «Che ti succede, Matvej?» gli chiesi affabile. «La vita non è stata tenera con te?» «'Fanculo tutto quanto» rispose Matvej, sedendo al mio tavolo. «Certo lei è una grandissima troia, ma io sono un coglione.» «D'accordo, raccontami della tua direttrice.» «Che cosa vuoi sapere di preciso?» «Fa lo stesso. Aprimi il tuo cuore da innamorato. En passant ti racconterò delle complicazioni che abbiamo col nostro piano, dato che dovremmo essere qui in missione. Hai avuto le istruzioni?» «Sì, le ho avute» disse Matvej, con un profondo sospiro. «Be', lei è molto sexy.» Pausa. «Somiglia a un ragazzo...» «Oh, però...» «No, ha l'aspetto di una ragazza, ma dentro è come se fosse un ragazzo. Le piacciono tutti gli sport estremi: le corse d'auto, il paracadutismo, il parapendio. È intelligente, e certo è consapevole della sua intelligenza e la usa in modo spregiudicato. È del segno del Serpente. E di carattere è un serpente al cubo. Calcolatrice. Intollerante. Molto chiusa. Molto crudele. Non apprezza il genere maschile. E i maschi ai quali piace, non li considera.» «Mio Dio, Matvej! Da quand'è che ti piacciono gli angeli? Per una così non si può non soffrire! E non hai scoperto aspetti più oscuri della sua anima? Che so, qualcosa di marcio, corrotto?» «L'amore è malvagio.» «L'amore, come si sa, è malvagio, ma non tanto quanto vorrebbero i coglioni. Scusa se ti ho interrotto. Insomma, qual è il problema?» «Il problema è che lei non mi ama.» «Scusa, puoi ripetere?» «Non mi a-m-a.» «Vuoi dire che non te la dà?» «Me la dà, ma sarebbe meglio che non me la desse. Te l'ho detto: non mi ama.» «Matvej, e come credi che dovrebbe manifestare il suo amore una serpe al cubo come lei? Quelle così non si concedono. E non ti dicono paroline dolci. E che vuol dire: "Sarebbe meglio che non me la desse"? Cosa fa, ti
morde dopo?» «Qualcosa del genere. Resta immobile.» Mi trattenevo a stento dal ridere. Meno di ventiquattr'ore prima avevano cercato di uccidermi e meno di sei di sbattermi dentro, e lei restava "immobile"? «Matvej, ma allora è inglese! Ho letto il libro di un francese che aveva sposato un'inglese e diceva che le inglesi a letto restano immobili. Le educano così nei collegi. Ladies don't move. A dire la verità, il libro era vecchiotto e i francesi sono sciovinisti...» «Lei non è inglese. Non mi permette di abbracciarla, né di baciarla. Tiene le braccia serrate sul petto. Se cerco di baciarla sulla guancia, capisci sulla guancia! - lei dice: "No". Non posso farle niente!» «Amsterdam. Una prostituta del quartiere a luci rosse. No kisses, no hands. E allora perché te la dà?» «È quello che mi chiedo anch'io. Lei dice che è perché io ne ho molto bisogno. Perché è da un pezzo che ci conosciamo e io non posso farne a meno... Insomma, per rispetto verso di me.» «Le hai detto di sentirti il polso?» «Sì, questo le ha fatto effetto.» «Matvej, ma è assurdo! Ma tu le hai fatto notare che il suo è un atteggiamento contraddittorio? Curare è curare e ammazzare è ammazzare, sono due cose diverse. Sì, è una di carattere, non c'è che dire. Se vuoi scoparmi, prego, accomodati, ma tutto il resto, scusami, ma non posso... Originale! E questo sarebbe fare sesso? A me non si drizzerebbe nemmeno.» «Anche a me ogni tanto non si drizza. Lei mi fa uscire di testa. E più esco di testa e meno mi diventa duro.» «Ma tu che cosa vorresti da lei? Che si dimenasse e ti baciasse per dimostrarti il suo amore?» «Io vorrei che lei fosse il mio amore.» «Capisco. All you need is love. Sei proprio finito... D'accordo, andiamo prima in albergo. Ci mediterò sopra strada facendo.» «Te ne prego, ne ho davvero bisogno. Dall'esterno è tutto più chiaro. E poi tu t'intendi molto più di me di donne.» «Dottore, lei non dice la verità.» «O perlomeno, loro ti si attaccano...» Mi stupiva fino a che punto Matvej non capisse. Pagammo e ci avviammo verso il parcheggio dei taxi. «L'unica donna di cui avrei bisogno non mostra alcun attaccamento per
me, e delle altre me ne infischio ormai da un pezzo» dissi io dopo un po'. Quando il nostro taxi raggiunse il centro mi riscossi dai miei pensieri su Maša, Matvej, la sua direttrice e tutte le altre idiozie. Questa sì che era vera fusion: la rutilante boutique di Armani a sinistra, la chiesa di Santa Maria Antiqua a destra e la Colonna Traiana davanti. Un gruppo di turisti americani in shorts puntava sulla colonna, mentre nel medesimo istante dalla chiesa usciva un prete magro e slanciato, in tonaca, una divisa che da oltre cinquant'anni era sempre la stessa, e se ne andava per la propria strada. Guardando i fari che si sforzavano di rischiarare la colonna, riuscendoci solo in parte, pensai che i romani sbagliavano a fare economia sull'illuminazione delle loro meraviglie. Ce ne sarebbero state di cose su cui far luce, a Roma! Finalmente il taxi raggiunse l'hotel, ci registrammo velocemente alla reception, portammo i bagagli in camera e scendemmo al bar. Matvej desiderava continuare la sua seduta con me anche durante la serata e io mi rassegnai. «E così la nostra associazione di volontariato prosegue a grande richiesta le sue sedute psicoterapeutiche. Tutto quello che avreste voluto sapere sulla vostra direttrice finanziaria e non avete mai osato chiedere. Tra l'altro, è da un pezzo che vi conoscete, vero?» «Sì, già da quattro anni. Da prima che fosse sposata. Si è separata sei mesi fa.» «Ed è da tutto questo tempo che cerchi di averla?» «Sì, più o meno intensamente.» «Ma io credevo che con lei filasse ormai tutto liscio. Forse è una crisi passeggera.» «La crisi è cominciata la settimana scorsa. Mentre l'aiutavo in casa, mi sono tagliato una mano. Ho aperto l'armadietto dei medicinali e ci ho trovato dei preservativi. Lei e io non usiamo preservativi, non li abbiamo mai usati.» «Non è bello ravanare negli armadietti altrui. È un po' come frugare nelle borsette delle sconosciute. E se li tenesse lì per le sue amiche?» «Non fa ridere. Gliel'ho chiesto esplicitamente. Lei ha sbuffato e mi ha detto che se sfioro un'altra volta questo tema, tra noi è finita. Dopo di che ho perso la testa. Allora ha qualcun altro, ho pensato. Dev'essere sicuramente così.»
«E ne sei geloso?» «"Geloso" non è la parola giusta. Mi sento distrutto.» «E allora dei due scopi che sarebbe sensato prefiggersi, mandare definitivamente al diavolo la direttrice o ottenere da lei quello che desideri, quale prendiamo in considerazione?» «Il secondo.» «Era quello che pensavo. Peccato, il primo era il più nobile, perché più difficile, e ti saresti guadagnato onore, felicità e indipendenza. Ma l'amore, com'è noto, priva l'uomo della ragione. D'accordo... E così, l'obiettivo numero due: conquistarla. Per questo dovrai faticare un bel po'.» «Sono già sei mesi che fatico.» «Ma non fatichi nel modo giusto. Se in sei mesi non è riuscita ad amarti così come sei, vuol dire che non ti amerà mai. La tua unica chance è cambiare. Smettere di essere te stesso. Per esempio, aumentare di volume.» «Sarebbe a dire?» «L'hai detto tu stesso che le piacciono i fisici atletici.» «Già, sembra di sì.» «E allora, gonfia i muscoli. Imbottisciti di anabolizzanti. Fatti dei bei bicipiti. Elimina la pancia.» «Mi prendi in giro?» «No, non ti prendo in giro. Ma se conti che lei possa scoprire in te delle virtù nascoste, sei tu che prendi in giro te stesso. Tutto quello che Ol'ga doveva scoprire in te, l'ha già scoperto. E non è che le vada molto a genio... Perciò devi diventare un altro. Attenzione, non devi solo cambiare la tua immagine. Questo va bene per i consulenti dei politici. Devi cambiare sul serio.» «Ma da che punto di vista dovrei cambiare?» «Da ogni punto di vista. Tanto, non hai niente da perdere. Mettiti a bere come me e Anton, e lei correrà da te perché le fai compassione. Arruolati come mercenario per la Cecenia, e lei correrà da te perché ti ammira.» «Ma lei non merita tanto!» «Certo, è ovvio. Allora torniamo all'obiettivo numero uno.» «Sono d'accordo. Vedi, cambiare è una soluzione troppo complicata.» «Naturale. Un obiettivo difficile può implicare una soluzione non troppo facile, tanto più se la situazione si è cristallizzata. Il vostro rapporto, scusa, si è invelenito. Si è prosciugato. Si è incancrenito e fa male come la gotta. Ma, se insisti, ho per te una terza soluzione. Semplice ed elegante, assolutamente naturale. Per la verità, non sono del tutto sicuro che ti possa aiuta-
re.» «Quale?» «Accetta tutto come viene. Il sesso con le braccia serrate sul petto, il suo non amore per te, gli altri suoi uomini. Gioisci di tutto: sarà un problema in meno 16 . E, anche se non ti garantisco i risultati sperati, posso ipotizzare che la situazione diventerà più piacevole.» «Va bene» disse Matvej, fissando il bicchiere con un'espressione di immenso stupore sul viso. «Ci proverò. Quindi, o la soluzione numero due, vale a dire cambiare, o prendere tutto come viene, giusto?» Fissai anch'io il bicchiere di Matvej senza trovarvi niente di interessante. Spostai il bicchiere, poi lo rimisi al suo posto. «Sì, hai capito perfettamente. E ora passiamo alle questioni serie.» Elencai i fatti che avevo appurato e gli confidai le congetture più improbabili. Matvej fece una smorfia scettica. Da lui, che cosa si voleva? Poi mi chiese di raccontargli di nuovo del calipsol. Delle allucinazioni e del mondo parallelo. E infine mi sbalordì. «Ricordi» mi chiese «quando cinque anni fa andai in Ecuador?» «Sì, certo» risposi io. Matvej allora era all'apice del successo nel business dei metalli e aveva deciso di buttare quindicimila dollari per visitare le miniere di rame dell'Ecuador. Pensai che le miniere fossero un alibi, e che semplicemente, con la scusa degli affari, volesse darsi all'avventura esotica dall'altra parte del pianeta. Con una puntata nella Terra del Fuoco, all'isola di Pasqua e alle isole Pitcairn. «Ottimo. Arrivammo fino al bacino del Rio delle Amazzoni, dove vive la tribù degli Shuar, indios cacciatori di teste. Dovresti ricordartene, te ne avevo parlato. Uccidono i nemici con frecce avvelenate, che lanciano da cerbottane lunghe tre metri, simili a fucili ad aria compressa. Poi tagliano loro le teste. E, sa il diavolo come, le riducono alla misura di un pugno, in modo che conservino le proporzioni e anche l'espressione del volto. Queste teste sono dette tsantsas. Nessuno conosce il segreto di questa porcheria.» «Mi ricordo, Matvej. Ce ne avevi persino portata una, con le labbra cucite. Le ragazze per poco non svenivano.» 16
Il presidente di un kolchoz arriva all'assemblea con quaranta minuti di ritardo. Sale sulla tribuna per parlare e getta il colbacco sul pavimento con stizza: «E va bene, porca..., un problema in meno!». Dalla sala qualcuno gli chiede: «Che c'è, Petrovič? Hanno portato il mangime?». «No, il c... ha smesso di funzionare.»
«Già. A causa di un'alluvione, restammo bloccati in un villaggio indio per una settimana. E io ebbi modo di studiare i loro usi e di ascoltare i loro racconti. Gli Shuar sono convinti che la vita diurna pulluli di fantasmi e di miraggi e che la verità esista solo nei sogni. Nel sogno persino i nemici dicono la verità, perché non sono oppressi dal proprio corpo. E, dato che durante il sonno normale di sogni se ne fanno pochi, bisogna sollecitarli con metodi artificiali. A tal fine esiste una pozione speciale che si ottiene spremendo le radici di mandragora. Provoca un senso di torpore, e visioni. Proprio come quelle che, secondo il tuo racconto, si hanno prendendo il calipsol.» «Ascolta, sono così tanti i popoli che fanno uso di sostanze stupefacenti che ti passa la voglia di elencarli tutti. Pensa solo a Castaneda.» «E quali sono quelli che fanno uso di un veleno che non lascia tracce?» «Che non lascia tracce dopo aver fatto effetto?» «Sì, esattamente così. Gli Shuar mangiano qualche volta animali avvelenati senza cuocerli. Li ho visti con i miei occhi abbattere grosse scimmie con le loro cerbottane: crollano a terra un istante dopo che la freccia le ha colpite. E un minuto dopo la loro carne viene mangiata, completamente cruda. Mi verrebbe da dire ancora tiepida. Mi veniva da vomitare. Chiesi alla guida come fosse possibile. La freccia era avvelenata e loro mangiavano come se niente fosse. La guida mi rispose che il veleno agisce istantaneamente e altrettanto istantaneamente scompare. E al Chimico non hanno trovato nulla nel sangue, vero?» «Devo confessare che sei riuscito a stupirmi. Solo gli Shuar ci mancavano. E allora?» dissi, già piuttosto rintronato dalla stanchezza e dal whisky. «L'allucinogeno che provoca uno stato di torpore, la testa tagliata, il veleno che non lascia tracce, tutto collima, ma che deduzioni si debbano trarre non so.» «Che gli Shuar discendono dagli antichi egizi o viceversa. Ma questo non è un tema da affrontare oggi. Su, andiamo a dormire.» Lasciammo il bar e salimmo nella nostra stanza. I letti erano separati e, grazie al cielo, Matvej non russava. Il mattino seguente, ancora prima di far colazione, passammo dal Business Center dell'hotel a controllare la posta. Anton aveva mandato una mail. Era piuttosto lunga, così decidemmo di stamparla. Durante la colazione (a base di prosciutto, pane fresco, burro, marmellata e caffè) ci mettemmo a leggerla.
La parte di Anton era breve. «Cari partecipanti all'operazione Solitudine 12, vi giro la mail di un mio vecchio conoscente che potrebbe combinarvi un appuntamento in Vaticano. A quanto pare, siete sulla pista giusta. Spero che i fatti che vi esporrà si rivelino utili. Agite secondo il piano e tenetemi aggiornato. Se avete tempo, visitate il sito http://www.vatican.va, troverete molte informazioni che potranno esservi d'aiuto. Il vostro Anton. PS. Mi piace molto l'idea di collaborare con i servizi segreti vaticani. Chi, se non loro, può avere una conoscenza precisa di tutte le sette e di tutti i culti religiosi?» Più oltre seguiva il messaggio dell'amico di Anton. «Ciao! Non ci crederai, ma il fatto di non averti mandato a quel paese come avrei dovuto, si è rivelato, inaspettatamente, una saggia decisione. Ho diffuso il tuo testo attraverso i nostri canali, come ti avevo promesso. Dopo aver letto il nome "hat", Crespo, il capo della polizia segreta vaticana, si è precipitato a telefonarmi per chiedere notizie su di voi. Ho raccomandato nel modo migliore i tuoi amici. Spero di poterli conoscere per convincermi che non mi sono sbagliato. Al loro arrivo a Roma devono chiamare Joseph. Sarà lui a organizzare tutto. In ogni caso, gira ai tuoi amici questa mail perché sappiano con chi hanno a che fare. Padre Joseph è uno dei più autorevoli collaboratori del Pontificio Istituto Missioni Estere. Joseph è americano e ha lavorato per la CIA. Ovviamente, è cattolico. Sembra il prototipo di padre Quart di La pelle del tamburo di Arturo Pérez-Reverte. Il suo capo, il direttore del Pontificio Istituto Missioni Estere, è monsignor Crespo, il cardinale Crespo. Ed è assai probabile che sia presente anche lui all'incontro. Sono dei duri e non amano far cerimonie. Si definiscono la "mano sinistra del Signore", ma potete fidarvi di loro. Entro limiti ragionevoli, s'intende. E se vuole incontrarli anche un secondo cardinale, di' loro di acconsentire senza riserve. È l'uomo più autorevole del Vaticano, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della
Fede, un tempo Congregazione della romana e universale Inquisizione. Con tutte le conseguenze del caso... Non dite nulla oltre il necessario e, soprattutto, non fate il mio nome. Potrebbe nuocervi. E se verranno ammessi alla Corte pontificia, allora il mio consiglio è di guardarsi intorno. In nessun'altra parte del mondo vedranno mai quadri, affreschi e interni simili. Un saluto da parte mia alle guardie svizzere. Il tuo Dema.» «Ma chi è questo Dema? Da dove sbuca questo vecchio amico di Anton che non l'ha mandato a quel paese, quando invece avrebbe dovuto?» La voce di Matvej era sconsolata. «Non avvilirti, Anton è pieno di amici...» «E noi?» «Non essere geloso. Noi siamo suoi amici. Allora, che faccio, chiamo Joseph?» «Sì, chiamalo» disse con un sospiro Matvej. «Però il colloquio con lui sarò io a gestirlo. Ho più esperienza. Tu sei troppo tenero. Spiattelli tutto subito senza cavarne niente in cambio. Tu fai le domande, è meglio. Ok?» Acconsentii, stringendomi nelle spalle. Effettivamente Matvej vantava una lunga esperienza di colloqui con tutte le carogne possibili. Feci il numero di padre Joseph e lui propose d'incontrarci al caffè Greco in piazza di Spagna mezz'ora dopo. Ci mettemmo a cercare un taxi e di lì a poco sedevamo nel caffè ad ammirare le vedute di Roma appese alle pareti. Feci conoscenza anche del busto di Vittorio Emanuele, che non mi piacque: mi sembrava così noioso e legittimo da risultare del tutto inappropriato all'Italia. Avevamo appena cominciato a discutere del perché i turisti avessero sempre l'impressione che Cesare, Mussolini e Berlusconi si addicessero agli italiani, mentre gli italiani se ne dicevano nauseati, che all'improvviso si levò una voce: «Good morning, gentlemen!». Capitolo Dieci Padre Joseph era un uomo alto, sui quaranta, con l'aspetto da boxeur. Indossava un abito nero con una camicia nera dal colletto rigido. Attento, calmo, con un'espressione imperscrutabile e un taglio di capelli molto corto e moderatamente aggressivo. Si sedette al nostro tavolo e, dopo uno scambio reciproco di sorrisi, ebbe
inizio il nostro dialogo. Padre Joseph cominciò col chiederci se ci piaceva il locale, dopo averci spiegato che allo stesso tavolo al quale sedevamo noi adesso s'erano seduti un tempo Giacomo Casanova, Ludwig di Baviera, Byron e Stendhal. Eravamo pervasi da un senso di ammirazione per quel luogo, benché allora non avessi idea di chi potesse essere Ludwig di Baviera. Sfiorai il tavolino, dicendo che non dimostrava proprio i suoi duecento e passa anni. Finalmente entrammo in argomento. Matvej riassunse la questione in tre punti, senza aggiungere particolari: le due morti, l'incarico avuto dall'agenzia pubblicitaria, i copti. La prima domanda di padre Joseph coincideva con ciò che mi aveva chiesto la sera prima Matvej. Perché proprio Roma? «Be',» disse Matvej «a quanto pare, non ci sbagliavamo, se in ventiquattr'ore siamo riusciti a ottenere udienza da un personaggio così altolocato.» Fissai padre Joseph. Lui sogghignò. «Sì,» disse «questa faccenda suscita in noi un interesse particolare e anche un po' di preoccupazione.» «Ed è stato incaricato proprio lei di occuparsene?» Annuii con soddisfazione. "Bravo, Matvej, spremilo! Ora Joseph sarà costretto a dirti che anche i cardinali sono interessati alle nostre modeste persone." «Sì» disse Joseph. «Sono stato incaricato proprio io. Di solito sono io a occuparmi di questioni delicate come questa, ma non è escluso che anche altri personaggi altolocati del Vaticano vogliano incontrarvi.» «Accordiamoci sulle regole del gioco, allora» disse Matvej. «Noi abbiamo i vostri stessi motivi di preoccupazione. Il nostro interesse è comune e quindi non dobbiamo giocare l'uno contro l'altro. Condivideremo con voi le informazioni in nostro possesso e voi farete altrettanto con noi. E poi concorderemo insieme un piano d'azione.» "Sveglio il ragazzo!" si leggeva nello sguardo di padre Joseph. Ebbi l'impressione che, benché tenesse gli occhi socchiusi, esaminasse comunque il nostro abbigliamento. Eravamo vestiti da turisti. Io portavo dei jeans azzurro chiaro e una camicia alla moda di tela ruvida, quasi di sacco. Matvej aveva dei jeans blu scuro e una camicia di seta bianca. «Bene,» disse padre Joseph «ci scambieremo le informazioni. Solo su questa faccenda, ovviamente, e non su altre. Ma... dal momento che la richiesta viene da voi, allora a voi la prima mossa, gentlemen!»
«Il mio amico, nonché suo omonimo, Iosif, le spiegherà tutto meglio di me.» E Matvej, socchiudendo gli occhi, ammiccò con aria sorniona nella mia direzione. Dopo quindici minuti di resoconto e altre due tazze di caffè, padre Joseph si scusò, snocciolò qualche frase in italiano nel telefonino e poi ci propose di visitare il Palazzo apostolico. «Per adempiere alla mia parte nel nostro accordo, sarebbe per me un onore invitarvi...» Non avevamo nulla in contrario. Dema aveva ragione: eravamo attesi da Crespo, il capo del Pontificio Istituto Missioni Estere, e dal Grande Inquisitore, ossia il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Cercammo di pagare i caffè, ma Joseph sorrise e firmò semplicemente il conto. Per il cameriere questo era più che sufficiente e ci avviammo verso l'uscita. «E la mancia?» chiesi timidamente. «Il Vaticano non lascia mance» disse padre Joseph, sorridendo. «I russi invece sì» disse Matvej, e lasciò una banconota da dieci euro. Ci infilammo nella Bentley nera parcheggiata dietro l'angolo e dopo dieci minuti oltrepassammo i cancelli del Vaticano. Una guardia svizzera con la divisa gialla, blu e rossa e il berretto scuro ben calcato ci fece un cenno di saluto con la sua alabarda. Salimmo una scala e percorremmo vari corridoi, attraverso una fuga di ambienti e di pavimenti in marmo dai raffinati mosaici dai toni biancoazzurri. Affreschi e dipinti a olio alle pareti. Ripide scale dalle volte dipinte e corrimano di ghisa cesellati. Mentre procedevamo, mi accorsi che non avevo la più vaga idea di come si dicesse in inglese "Eminenza". Matvej si limitò a sbuffare quando glielo domandai. Uno dei corridoi terminava in una piccola sala semicircolare. Nella sala si trovava una massiccia scrivania di legno scuro, coperta da un panno verde. E sulla scrivania un monitor a cristalli liquidi, due telefoni, ciascuno munito di una trentina di tasti, e un set di cancelleria. "Che perforatrici interessanti" pensai. Avevo sempre amato gli oggetti di cancelleria sontuosi. Dietro la scrivania sedeva un uomo di circa trentacinque anni, con indosso una tonaca nera dal colletto viola. Sul capo portava una papalina nera. Ci fermammo. Padre Joseph s'inchinò in silenzio. L'uomo nero pigiò un tasto sul telefono, bisbigliando qualcosa. Mi guardai intorno. Matvej si avvicinò a una parete e vi si appoggiò contro. Poi mi chiamò, accennando a
una scultura. «Potresti tradurre, per favore?» Sia Anton sia Matvej ritenevano, chissà perché, che bastasse un anno frettoloso di latino per diventare degli specialisti di filologia classica. O perlomeno per tradurre dal latino senza bisogno di vocabolario. Io, naturalmente, li avevo assecondati e ora la mia vanità mi faceva sentire a disagio. E mi toccava dar conto a Matvej del mio latino maccheronico. Senza troppe speranze alzai gli occhi e lessi l'iscrizione scrostata a lettere d'oro sotto la piccola statua della Vergine Maria: «Ave Maria gratia plena dominus tecum / benedicta tu in mulieribus / et benedictus fructus ventris tui Jesus». Decisi che bisognava dirottare l'attenzione di Matvej dal testo sulla scultura. La Vergine Maria era splendida: dolce, appassionata, come in trepida attesa. Dissi nel tono più semplice e naturale di cui ero capace: «È l'Ave Maria, la preghiera; invece la scultura sembrerebbe...». «Lo vedo anch'io che è una preghiera. Puoi tradurmela?» Cominciava a essere un tantino imbarazzante. Allora, per mettermi la coscienza a posto, mi misi a cercare qualche parola nota, oltre ai sostantivi (gratia, benedicta, fructus). L'associazione di quelle parole mi era familiare fin dall'infanzia più remota. La nostra balia. La dacia. Una precoce sera invernale. Avevamo appena preso il tè coi biscotti e ce ne stavamo andando da qualche parte. Nel cielo che imbruniva volavano grandi uccelli. Una chiesetta. Ecco, ecco, ci sono: Esulta, o Vergine, madre di Dio. L'Ave Maria è praticamente la stessa preghiera. Mi misi a fissare Matvej e cominciai a tradurre, non dal latino, ma dallo slavo ecclesiastico. Matvej mi guardava con timore reverenziale per la mia sapienza misteriosa. Allora, tanto per salvaguardarmi, con voce imperturbabile aggiunsi: «È come la nostra Esulta, o Vergine, madre di Dio, solo che è in latino. Lo scisma tra le nostre due Chiese non è stato poi così radicale. Le preghiere sono rimaste le stesse». Padre Joseph ci fece segno di seguirlo. Immensi soffitti a volta. Una teoria di alte e strette finestre su entrambi i lati. Librerie che dividevano lo spazio. Un tavolo fratino dietro cui potevano sedere una ventina o una trentina di persone. E affreschi, affreschi, affreschi su tutte le pareti. Niente tele in cornici dorate. Solo affreschi. Nello studio in cui giungemmo, anche se, a essere corretti, quel locale avrebbe dovuto chiamarsi salone, si trovavano due individui. Di quello più lontano da noi, a sinistra, proprio di fronte a una finestra, si scorgeva solo
il profilo. Stranamente era tutto vestito di bianco. Una silhouette immobile, leggermente curva sullo sfondo azzurro-cielo della finestra. L'altro invece mosse qualche passo nella nostra direzione. Indossava una sottana nera col bordo color porpora. Mi fece pensare a un procuratore. Dimostrava una sessantina d'anni e portava i capelli a spazzola (probabilmente in Vaticano si usava così), occhiali dalla sottile montatura d'oro e stivaletti neri assai bizzarri con lunghe stringhe, che spuntavano dalla sottana. Sulla mano aveva un anello, con un rubino smisurato. La bianca silhouette alla finestra fingeva di non vederci. Gesticolava con le bianche ali, come se stesse discorrendo con qualcuno. Padre Joseph fece un inchino. Un inchino rapido, deciso e professionale. Era come piombare nel Medioevo, ma decisi che una stretta di mano doveva essere inappropriata (dato che sembrava che le mani andassero solo baciate), e feci un inchino a mia volta. Con l'angolo dell'occhio riuscii a vedere che Matvej faceva lo stesso. Il procuratore annuì appena in risposta a tutti e tre, facendo segno di accomodarci. Dopo esserci scambiati un'occhiata, sedemmo. Il procuratore sedette di fronte a noi. Democrazia vaticana. «Buon giorno» disse il procuratore, e sorrise quasi turbato. Per il suo sorriso e il suono leggermente gutturale della voce poteva ricordare un umile prete italiano dei tempi di Petrarca che avesse appena confessato in una locanda uno sfortunato cavaliere francese morto in viaggio di cancrena e avesse ora deciso di conferire con noi per sapere come andava e se poteva esserci d'aiuto. Anche se il rubino e la porpora color sangue creavano una certa distanza tra noi. Seguì una breve presentazione, durante la quale il cardinale in bianco non si mosse dalla finestra. Padre Joseph riassunse in modo molto chiaro ciò che gli avevamo raccontato. Il mio resoconto di quindici minuti al caffè fu sintetizzato in tre. «In che cosa possiamo esservi utili, signori?» Sentendo la voce del procuratore si aveva l'impressione che volesse sinceramente aiutarci. «Desideriamo sapere chi ha ucciso i nostri amici. Chi sono gli hat?» «Una società segreta e, in un certo senso, un popolo.» «Com'è possibile?» «Sono il prodotto di matrimoni tra consanguinei avvenuti nell'arco di parecchie migliaia di anni. I membri della Confraternita, così hanno chiamato la loro società segreta, devono generare figli dai loro fratelli e dalle loro
sorelle.» «E che scopi si prefiggono quelli della Confraternita? Qual è loro missione?» «Diffondere il male. Far scorrere lacrime e sangue. Ma di ciò sono al corrente solo i membri della Confraternita destinati ai ranghi più elevati. Quelli dei ranghi inferiori si ritengono eletti dal popolo e credono che il loro scopo sia la tutela dei saperi occulti. Qualcosa che avrebbe a che fare con la vita ultraterrena. Ma sono soltanto delle pedine. Noi reputiamo, invece, che il loro effettivo compito sia quello di conservare la stabilità della Confraternita. Occupare posti chiave all'interno della società per condizionarne le scelte politiche e finanziarie. E, ovviamente, la Confraternita li sostiene con tutti i suoi mezzi, esigendo da loro in cambio solo due cose: l'obbedienza incondizionata e il mantenimento del segreto. Le pene in caso di trasgressione sono estremamente dure.» Fece una pausa. «Estremamente dure.» «E a quale scopo dovrebbero diffondere il male e far versare lacrime e sangue?» «Questo non lo sappiamo per certo. Non credo che vi persuaderebbe l'argomento di un loro inconfutabile legame col diavolo.» Matvej appariva irritato. Non amava confrontarsi con un potere a lui superiore. «Riteniamo che la Confraternita abbia assunto la sua forma attuale all'inizio della nostra era e proprio nel monastero di Deir el-Bahari, e da allora esso è da loro considerato un luogo sacro. Ma le radici vanno ricercate in qualche sapere occulto di cui erano depositari i sacerdoti dell'Antico Egitto.» «Non i sacerdoti, ma i faraoni.» «I faraoni?» Il procuratore e Joseph ci guardarono stupiti. Riferii brevemente ciò che ero riuscito a scoprire su Hatshepsut. Mi ascoltarono con attenzione, ma dissentirono. «Dalle notizie in nostro possesso, erano i sacerdoti a essere i depositari dei saperi occulti, anche se il fatto che tra gli animali sacri degli hat compaia il serpente a due teste, simbolo del potere del faraone, potrebbe rendere fondato anche il vostro punto di vista.» «Il serpente albino?» «Perché albino?» «Perché da alcuni conoscenti ho appreso che in una zona lungo la strada
fra Tel Aviv ed Eilat vive un serpente albino a due teste.» Il procuratore aggrottò le sopracciglia e padre Joseph prese nota del luogo. Decisi di fare finalmente la domanda che mi aveva angosciato per tutto quel tempo: «Che interesse avrebbero gli hat a far pubblicare parole in codice come "calipsol", "Deir el-Bahari", "solitudine"? E che cosa significano le cifre "222461215?"». «Forse è più facile partire dai numeri. Negli ultimi quindici anni sono stati analizzati dai nostri computer più avanzati e ora possiamo affermare con certezza che non conosciamo il loro significato. Il discorso sui codici invece è più complesso. È probabile che si tratti di formule magiche o di loro frammenti. Abbiamo fondati motivi di ritenere che nel Medioevo la maggior parte dei sedicenti stregoni e streghe - e oggi ci si accusa di eccessiva crudeltà nel loro annientamento - avesse legami molto stretti con gli hat. È probabile che, attraverso la pubblicazione di questi codici, gli hat cerchino di esercitare un controllo sulla società. Anche se non sappiamo in che modo.» «Come sono organizzati gli hat? Quali sono i gradi di iniziazione?» «Tre, come minimo, ma è probabile che siano anche di più. Il capo della Confraternita ha il titolo di Gesser dei Gesser. Non sappiamo dove sia attualmente e non è escluso che si trovi in Russia.» Mi venne in mente la storiella sullo Spirito Santo e la Russia17 , ma alzai la testa come se niente fosse e aggrottai stupito le sopracciglia. Il procuratore, fingendo di non notare nulla, proseguì imperterrito: «Una strada che porta rapidamente al potere. Enorme disponibilità di denaro. Organi di polizia corrotti. Ignoriamo ovviamente il suo nome civile. Gli hat hanno copiato il nostro schema gerarchico: dal papa, attraverso i cardinali, gli arcivescovi e i vescovi, giù giù fino ai sacerdoti semplici. E del resto il nostro modello organizzativo,» soggiunse con un ghigno compiaciuto «è stato copiato da tutte le organizzazioni del mondo». Pensai che Anton avrebbe trovato interessante lavorare per un'organizzazione costruita a immagine e somiglianza della Chiesa cattolica romana. «Avete mai avuto notizia di legami tra gli hat e la tribù degli indios 17
Il Padre, Il Figlio e lo Spirito Santo discutono su dove sia meglio trascorrere il Ponte di maggio. Il Padre dice: «Io di vacanze non ne ho. Devo andare in America per lavoro». E il Figlio: «Io devo andare in Terra Santa a visitare le tombe dei miei genitori». E lo Spirito Santo: «Io vado in Russia!». Gli altri due esclamano: «A fare che?». E lui: «Mah, non so... Vado a dare un'occhiata. Non ci sono mai stato...».
Shuar che vivono nel bacino del Rio delle Amazzoni e sono detti anche "cacciatori di teschi" perché fabbricano come souvenir teste miniaturizzate?» Matvej, che era stato a lungo senza parlare, fissando i prelati del Vaticano, tutt'a un tratto s'intromise nella conversazione. I prelati si scambiarono un'occhiata. Il Procuratore si strinse nelle spalle. Decise di rispondere padre Joseph. Parlò lentamente e più cautamente del solito. «Non abbiamo notizie di un legame diretto tra gli hat e gli Shuar. Attualmente si trovano laggiù due nostre missioni, nella zona del fiume Upanga, nell'Est dell'Ecuador. Che tipo di legame vedete con gli hat?» «Elementare, gentlemen! Gli Shuar usano un veleno che non lascia tracce nell'organismo. Si tratta di una pianta che provoca effetti simili a quelli del calipsol. La radice di mandragora. E anche loro tagliano le teste. Poi le mummificano e le miniaturizzano. E oltre tutto nessuno sa come ci riescano.» I prelati si scambiarono occhiate significative. Padre Joseph fissò con aria interrogativa il procuratore. Costui annuì quasi impercettibilmente. «Bene, lei ha fatto un po' di confusione con i nomi. Gli Shuar sono chiamati "cercatori di teste" e non di teschi. Nella testa tagliata e mummificata, il teschio non c'è più. Gli Shuar tagliano le teste e poi praticano un taglio sottile lungo la pelle, la levano delicatamente, cuciono il taglio, cuciono le labbra, conciano la pelle e la imbottiscono con piccole pietre bollenti. La affumicano per parecchie settimane e la testa si riduce.» «Sembra conoscere bene i costumi degli Shuar» disse Matvej, sinceramente stupito, dimenticandosi ormai di mantenere la sua immagine di interlocutore scafato. «Ero convinto che il mistero delle teste miniaturizzate fosse rimasto irrisolto.» «Ci troviamo nello studio del prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.» Il procuratore indicò con la testa la silhouette bianca di cui ormai avevo dimenticato l'esistenza. «Tutte le superstizioni e tutti i rituali legati agli Shuar sono per noi oggetto di inconfutabile interesse.» A quel punto la candida ombra si voltò verso di noi e, sollevando un poco la sottana, ci raggiunse, sistemandosi alle spalle del procuratore. Sul petto gli brillava una croce d'oro. Aveva il viso lungo, quasi affilato. La fronte alta e occhi scuri, profondi. «Ho qualche domanda per voi, gentlemen.» Il Grande Inquisitore, alias prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, parlava a voce bassa, con un leggero accento tedesco.
«Ho l'impressione» disse, guardando i presenti con aria alquanto contrariata «che spetti a noi interrogarvi, come nei tempi andati, anche se ora non mandiamo più al rogo nessuno.» Capii che si trattava di uno scherzo, benché il tono della sua voce fosse estremamente serio e nessuno sorridesse. Annuimmo docilmente. «Per quale ragione vi siete fatti coinvolgere in questa faccenda?» «Un nostro amico è morto e dopo di lui anche sua moglie.» «Dovrebbe essere la polizia a occuparsi di tali faccende, e non degli amici.» «Ma la polizia russa non è in grado di far niente se noi...» «E voi come fate a dimostrare di non avere legami con gli hat?» Volse il suo sguardo indagatore su tutti i presenti. Però, che talento! Il silenzio calò, come per un ordine. O almeno tutti ci zittimmo per un minuto buono. Un minuto di silenzio è un tempo lunghissimo, soprattutto se non si sta seppellendo nessuno. Ciò che mi disturbò di più fu che, dopo le parole del cardinale in bianco, tutti smisero di guardarsi. Capii per la terza volta di seguito in due giorni che la situazione mi stava sfuggendo di mano e imprecai mentalmente all'indirizzo di Anton e del suo amico Dema. Ma, del resto, Dema ci aveva avvertito... «Noi non abbiamo nessun legame con gli hat» si levò inaspettatamente la voce di Matvej. «Ci hanno affidato una campagna pubblicitaria. Hanno ammazzato i nostri amici e ci hanno contattato.» Il cardinale, senza finire di ascoltare, prese a parlare in latino. Il procuratore e Joseph lo ascoltavano. Il procuratore con aria stanca, Joseph con attenzione. Il suo discorso durò per qualche minuto. Io, naturalmente, non capii una parola. Poi si voltò bruscamente verso di noi, dicendo: «In nomine Domini», e si allontanò di nuovo verso la finestra. Ebbi l'impressione che la minaccia si stesse allontanando e che l'incontro si avviasse alla conclusione. «Possiamo contare sulla vostra collaborazione per gli sviluppi futuri dell'inchiesta?» «No.» Che "no" perentorio, aggressivo! «Ma...» Il procuratore aveva perso la sua aria bonaria da prete medievale. I suoi occhi si erano fatti gialli e crudeli. La sua voce rauca aveva un tono imperioso.
«Non immischiatevi in questa faccenda. Si tratta di una questione complessa, insidiosa. Il vostro amico e sua moglie non resusciteranno. Riposino in pace. Il vostro cammino terreno non è ancora concluso, non dovete troncarlo per inseguire futili conoscenze. Come dice l'Ecclesiaste: "In multa sapientia multa sit indignatio et qui addit scientiam addat et laborem". Ossia: "Dov'è molta sapienza, v'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore". Lei è sposato?» disse, rivolto a me. «No» risposi turbato. «Male. E lei?» disse, rivolgendo uno sguardo severo a Matvej. «Neppure io.» «Male anche per lei. Sposatevi, mettete al mondo dei figli e lasciate perdere gli hat.» Padre Joseph si alzò, come a dire che con questo l'udienza era terminata. «Potrei farle un'ultima domanda?» «Ma certo...» Avevo l'impressione che stesse per aggiungere: «...figliolo». «I copti sostengono di essere stati interrogati da voi centinaia di anni fa su argomenti inerenti agli hat, è vero?» «Sì. Circa ottocento anni fa, in un monastero dell'Italia del Nord, si verificò un increscioso episodio che aveva a che fare con gli hat. Purtroppo, allora, i copti non poterono aiutarci. Riuscimmo a fermare quella piaga solo nel XIII secolo. Allora eravamo più forti. Assai più forti. Ma, lasci che le dia un consiglio,» questa volta suonava davvero come un consiglio e non come una minaccia «lasci perdere questa faccenda. Non si immischi. Lasci che a occuparsene siano organizzazioni molto più serie, anche se, come avrà visto, i risultati non sempre sono ottimi.» «E allora, tutta la vicenda di Davide e Golia?» dissi, decidendo di scherzare. «Si trattava di altri tempi, di un altro Paese e di un altro popolo.» Fece una pausa, coprendosi per un istante gli occhi, come per ricordare qualcosa. «Forse la storia che più le si addice è quella di Giuseppe e dei suoi fratelli.» «Ma io non ho fratelli!» «Non importa. Rilegga la Genesi 37-50. Le auguro buona fortuna!» Ci inchinammo e uscimmo. Il cardinale bianco non si voltò neppure. Padre Joseph ci accompagnò fino all'ingresso principale. Matvej disse che desiderava esaminare i documenti medievali sui copti. Padre Joseph esitò, ma Matvej, con fare perentorio, persino aggressivo a
mio modo di vedere, gli rammentò del nostro accordo al caffè. «Va bene, vi spedirò il documento di cui parlava Crespo. Ma mi sembra che non sia più attuale da qualche centinaio d'anni. Si tratta tutt'al più di un monumento letterario, una sorta di novella gotica.» «Se sono i documenti più recenti che avete sugli hat e intendete condividerli con noi, allora siamo d'accordo. Sia la vostra coscienza a decidere.» «A esser sinceri, non è che anche voi abbiate messo a disposizione chissà quali nuovi dati sugli hat. I soliti misfatti, e di dimensione non certo universale... È strano che nelle vostre indagini vi siate spinti così lontano da arrivare fino a noi.» «È strano che intendiate aiutarci mettendoci a disposizioni solo delle fonti letterarie.» «Così come a noi non è servito il vostro aiuto, neppure a voi servirà il nostro, né quello di chiunque altro, se seguirete il nostro consiglio di abbandonare tutto.» Ciononostante prese nota dei nostri indirizzi e ribadì che ci avrebbe spedito la "Novella gotica", avvertendoci che, naturalmente, era scritta in latino. Matvej lo tranquillizzò, dicendogli che io conoscevo perfettamente il latino. Padre Joseph mi guardò con stupore, ma evitò di approfondire la questione. S'inchinò e si voltò di scatto, come ubbidendo a un ordine, e sparì nei corridoi del Palazzo apostolico. Ci avviammo verso una direzione a me ignota, ciascuno immerso nei propri pensieri. «Questi qua vogliono che ci defiliamo, ma per quale motivo?» sbottò a un tratto Matvej. «Sono in ansia per noi, tutto qui.» «È poco credibile. Perché ci avrebbero convocato allora? Avevamo già raccontato tutto a quel padre Joseph al caffè.» «Non saprei. Perché?» «Per esaminarci e decidere se potevano avere a che fare con noi.» «E quindi?» «Ci hanno esaminato e hanno deciso che non è il caso. Non ci tengono in nessun conto, capisci?» «Matvej, ma...» «Si sbagliano, cazzo. Eccome, se si sbagliano. E quando capiranno di aver sbagliato, ci faranno le loro fottute scuse.» «Matvej, io però ho l'impressione che abbiano ragione. Pensano che pos-
siamo fare ben poco contro una società segreta che è almeno tre volte più antica persino del nostro non giovanissimo Paese. Tanto più adesso che sappiamo chi ha ucciso il Chimico e Lilja...» «No, noi non sappiamo chi ha ucciso il Chimico e Lilja, intendo dire chi li ha veramente uccisi. E nemmeno sappiamo perché siano stati uccisi da questa Confraternita del cazzo, ma quel che è peggio è che questi del Vaticano non credono che noi siamo in grado di fare qualcosa contro gli hat, mentre noi possiamo. Eccome se possiamo, contro questi fottuti bastardi, e anche contro tutti quanti.» Non provai neppure a discutere con Matvej, che aveva completamente sbarellato, anche se, a essere sinceri, la sua reazione mi aveva stupito. Ero l'unico a ritenere conclusa la nostra missione, e per di più conclusa definitivamente. Non senza fatica, e affrontando dei rischi, avevamo indagato, con qualche felice intuizione, sull'organizzazione che aveva commissionato l'assassinio dei nostri amici, ma non spettava a noi pronunciare la sentenza e farla eseguire! Per questo esisteva gente appositamente preparata... E poi avevo ancora nell'orecchio il sibilo del pneumatico della Mercedes bianca sull'asfalto. A ogni modo di tutto ciò a Matvej non dissi nulla, in attesa di una circostanza più propizia. Il volo per Mosca era previsto per il mattino dopo. Di tempo ce ne restava ancora parecchio. Ce ne andammo a passeggio per Roma. In un negozio di dischi, comprai, su consiglio di Anton, l'album Celtic women. Dato che non avevo niente da fare, lo misi nel cd-player e cominciai ad ascoltarlo. Come era già implicito nel titolo, a cantare erano solo voci femminili. Di primo acchito, non fosse stato per l'aura pagana e la lingua assolutamente incomprensibile, l'avrei detto molto simile agli spirituals americani, ma poi quell'intima, intensa essenza pagana aveva avuto il sopravvento sulle qualità sonore. Di più non riuscivo a dire. Soprattutto per il brano An Gabhar Ban. Poi pensai che forse ascoltare musica celtica a Roma fosse stupido e che sarebbe stato meglio mettere Celentano, o, al limite, L'italiano di Toto Cutugno. Ma capii che sbagliavo. Che cosa c'era di più adatto dei celti per Roma? L'unico popolo che aveva occupato Roma quando ancora era all'apice della sua gloria militare... I vandali e i goti l'avevano sconfitta quando era ormai fiacca e in declino e aveva visto di tutto. Mentre i celti erano un popolo giovane, vigoroso e ardito. Tanto più che della musica latina non era rima-
sta traccia, mentre la musica celtica sopravviveva ancora. Sa tsean ghleann thiar a bhi si raibh Go dti gur fhas na hadharc' uirthi Bliain is cead is corradh laethe Go dtainig an aois go trean uirthi Bhi si gcro bheag ins an cheo Go dtainig feil'Eoin is gur ealaigh si Thart an rod san healach mor Gur lean a toir go gear uirthi.. 18 . Era quasi sera. Matvej propose di cercare un pub o un night-club. Voleva distrarsi. Io declinai. Allora tornammo al caffè Greco, cenammo e rientrammo in albergo. Alla reception confermammo i biglietti per il volo del mattino dopo. Matvej aveva un'aria molto seccata e per poco non fece una scenata alla ragazza italiana dagli occhi neri e dalle lunghe gambe che aveva scritto il suo cognome in modo errato: Buhaev, anziché Bugaev. Pensai che dormire era fuori discussione e ce ne andammo al bar. Matvej ordinò un cognac. Io non avevo alcuna voglia di alcolici e presi un tè verde. «Allora tu sei dell'idea di battersela?» chiese cupo Matvej. «Be', se è il Papa in persona a consigliarlo... Ascolta, loro hanno più esperienza di noi, più mezzi e più denaro. Per loro è più facile combattere gli hat. Più facile, capisci? A ciascuno il suo compito.» «Sì, capisco... ma non concordo.» «Matvej, sentiamo che cosa ne dice Anton. Domani saremo a Mosca e valuteremo il da farsi.» Ci ritirammo nella nostra camera. Matvej svuotò in un minuto tutti gli alcolici del minibar, chiamò il room service, forse per ordinarne altri, e mise un cd dicendo che s'intitolava Odio tutte le femmine e gli hat. Matvej ubriaco e la sua direttrice mi avevano stufato e andai a farmi una doccia. Avevo letto in qualche libro giapponese che l'acqua fredda ritempra e quella calda rilassa, mentre quella appena tiepida tonifica. Nel bel mezzo delle abluzioni, squillò il telefono dell'albergo. Erano le undici secondo il 18
Lei fin da piccola si era sempre attenuta alle regole, finché non cominciò a suonare il corno e a capire che cent'anni erano lunghi da passare. Così il giorno di san Giovanni fuggì giù per la strada. E tutto sarebbe andato bene, se non l'avessero inseguita...
fuso di Roma e l'una secondo quello di Mosca. Un po' tardi. Chiusi il rubinetto per riuscire a sentire e gridai: «Matvej, se è il room service, digli di aggiungere anche un tè verde, mi hai sentito?». «Sì, adesso glielo dico!» udii in risposta. Capii che al malcapitato che telefonava sarebbe andata male: Matvej era di umore combattivo. Oltre al room service e ad Anton, nessun altro avrebbe dovuto telefonare. Ma ben presto decisi che Anton avrebbe chiamato molto probabilmente sul telefonino e che per il room service la conversazione si stava protraendo troppo a lungo. Perciò avevo voglia di uscire per sentire con chi conversava Matvej. Ma quello che sentii già dentro il bagno, mi fece balzar fuori con la velocità di un proiettile. Le parole di Matvej suonavano così: «Ma quale cazzo di avvertimento? Di', credi di spaventarmi? Sono io che ti mando un avvertimento, lercio caprone! E non provare a ritelefonare, capito? Hai capito, o no?». E a quel punto Matvej buttò elegantemente giù il ricevitore e si gettò su una poltrona, accendendosi una sigaretta. Dato che la mia atletica corsa dal bagno si era trasformata in un balzo poco tempestivo, Matvej si mise a esaminare esterrefatto il mio corpo nudo. «Matvej,» dissi piano, cercando di tornare alla normalità, «con chi stavi parlando?» «Che cazzo ne so. Con un coglione. Pensava di parlare con te. Aveva intenzione di spaventarci, il bastardo.» «Ah... non era Anton... E cosa... ti ha detto?» Parlavo lentamente, in tono suadente, quasi bisbigliando. Ero terrorizzato. «Che io, cioè tu, sei andato troppo oltre e che spera che due avvertimenti mi siano, cioè ti siano, sufficienti. Che non ce ne sarà un terzo. Insomma, una stupida provocazione. Non restava che reagire in modo inequivocabile e rispondere.» Annuii in segno di gratitudine per la risposta esauriente e sentii correre per tutto il corpo, non ancora asciutto, un brivido di freddo. «Grazie, Matvej. Mi sei stato molto utile e sei stato utile anche alla nostra operazione...» Poi presi il telefono, cercai il numero di FF e lo composi, pensando affannosamente a ciò che avrei detto. "Dirò che è squillato il telefono, che non ho fatto in tempo a rispondere e che un mio amico ubriaco ha preso il
ricevitore. E, se è stato lui a chiamare, porgerò le mie scuse per l'incidente." Non avevo fatto neppure in tempo a pensare a perché dovessi chiamare proprio lui qui da Roma, che subito udii la voce metallica di una segreteria che mi comunicava che «l'abbonato non era in casa o non era al momento raggiungibile». Allora uscii sul balcone per non farmi sentire da Matvej e chiamai Anton. Dapprima mi scusai per l'ora, quindi lo ringraziai per avermi mandato in soccorso Matvej e gli dissi che ero sicuro che il viaggio gli fosse servito. Poi esplosi. Anton sopportò la mia scena isterica. Valutando la situazione, commentò: «Che incubo!». E, in tono conciliante, aggiunse: «D'accordo, tornate a Mosca e aggiusteremo tutto. Vengo a prendervi domani. Non uccidere Matvej nel sonno». «Niente male, niente male come battuta. Anche il suo necrologio ti riuscirebbe divertente. Buona notte!» Non sapevo davvero più che pesci pigliare. Stetti sul balcone un altro quarto d'ora a meditare sulla Città Eterna. Osservavo il Colosseo illuminato, cercando d'immaginare quanti gladiatori vi avessero perso la vita. Se, a detta di Tacito, dovevano essere una cinquantina al giorno, e i giorni dedicati ai giochi un centinaio a stagione, si arrivava a una media di cinquemila l'anno. Questo significava mezzo milione in cento anni. Un bel modo di passare il tempo, quello del Colosseo. Poi me ne tornai in camera. Matvej non c'era. In compenso un tizio in camicia bianca e pantaloni neri stava piantato lì in mezzo alla stanza con in mano un vassoio coperto da un tovagliolo bianco. Per un secondo i nostri sguardi s'incrociarono. Il mio, spaventato e nervoso, e il suo freddo, indifferente. Lo sguardo di una persona che esegue il proprio lavoro. Pensai che era venuto il momento di chiudere gli occhi. Morire con gli occhi aperti è un privilegio destinato alle persone davvero coraggiose. L'uomo disse: «Your order, Sir» e tolse il tovagliolo, scoprendo quattro bottigliette di Hennessy VSOP, in fila come soldatini. Respirai di sollievo e mi sedetti in poltrona. L'uomo mi porse un foglio, che firmai senza guardare, e scomparve. Mi guardai attorno. Matvej dormiva acciambellato sul divano nell'angolo. Tracannai d'un fiato una bottiglietta di Hennessy. E poi una seconda, una terza, e la quarta. Presi il cd-player e misi i Nirvana. Chissà perché il cd partiva con Sliver, forse la più devastante e la più freudiana canzone dei Nirvana, anche se lì c'era tutto Cobain.
That's what I did, I killed my toe, Grandma take me home Grandma take me home19 . Una volta, a Londra, al mercato delle pulci di Camden, avevo visto la riproduzione in cera della testa di Cobain, bucherellata di proiettili. Il calco era realistico fino alla nausea. Il mento non rasato, la pelle gialliccia, mezzo cranio saltato, il grigio cervello fluttuante nella scatola cranica, i capelli intrisi di sangue, un occhio che ti guardava stupito e l'altro solo una voragine blu scuro. Quanti anni aveva? Ventisette? Il maresciallo Lannes, uno dei brillanti marescialli dell'esercito napoleonico, eroe di Austerlitz, diceva: «Un ussaro che è arrivato ai trent'anni, non è un ussaro, ma una merda». Lui stesso morì in Spagna all'età di trent'anni. Prima della campagna di Russia. D'accordo, l'età del maresciallo Lannes io l'avevo già superata. Era ora di tornare a Mosca. Capitolo Undici Durante tutto il viaggio di ritorno Matvej tacque con aria colpevole. Cercavo di mantenere un'espressione severa, cosa che non mi era affatto difficile dato che non ero riuscito a dormire. Anton era venuto a prenderci. «Tutto a posto?» chiese. Mi limitai a bofonchiare. «Si va al Baskerville» disse Anton. «È un magnifico ristorante inglese.» «Perché, esiste una cucina inglese? Con il pudding si esaurisce tutto il loro contributo al patrimonio culinario dell'umanità. Ah, già, dimenticavo il porridge...» «Perché sei così negativo, Iosif?» Dopo aver ordinato, Anton dispiegò accuratamente il tovagliolo sulle ginocchia, incitandoci: «Su, raccontate!». Matvej mi lanciò un'occhiata speranzosa e capii che toccava a me iniziare. «A uccidere il Chimico sono stati gli hat. Una società segreta che si fa chiamare la Confraternita. Ha una lunga storta e dei princìpi poco chiari, 19
È quello che ho fatto, ho ucciso il mio ditone, Nonna portami a casa, Nonna portami a casa.
ma sembra molto potente e pericolosa. Il Vaticano si rifiuta di aiutarci e ci consiglia di smetterla con la nostra attività investigativa. Dagli hat mi sono già arrivati alcuni suggerimenti il cui significato non è diverso da quello dei consigli dei copti e del Vaticano, ma la cui forma è assai più persuasiva.» Ero stato volutamente conciso per avere il diritto di riprendere la parola anche successivamente. «Ho tre considerazioni da fare» esordì Matvej. «La prima è che il Vaticano si rifiuta ufficialmente di aiutarci, ma padre Joseph ha promesso che ci manderà qualche testo in latino medievale. Penso che dovremmo attivarlo di più. La seconda è che hanno ammazzato un nostro amico, sua moglie si è suicidata e noi non possiamo tirarci da parte e far finta di niente. E anche se possiamo, non dobbiamo. La terza è la seguente: quelli della Confraternita ci minacciano? Tanto meglio! È probabile che non minaccino solo noi, ma tutti quanti.» Matvej lanciò un'occhiata espressiva agli scarsi clienti del ristorante. «Credo che non ci si debba arrendere senza aver prima combattuto.» Vi fu una pausa. Guardai Anton, continuando a sperare in un esito positivo. «Combattere non è così semplice. Ieri ho ricevuto la risposta dalla Microsoft. Mi assumono negli States» disse pensieroso Anton. «Mi tocca andare là, a Redmond, per i tre mesi del training. Parto domattina. Credo che Iosif abbia ragione. Non capisco come possiamo lottare da soli contro un'organizzazione del genere. Da un lato, non abbiamo più mosse da fare, e dall'altro un'offerta come quella della Microsoft non si può certo buttar via. Così propongo di differire la battaglia fino al mio ritorno e nel frattempo di mantenere le posizioni conquistate.» Dalla gioia mi venne un'idea: «Io sto con Matvej. Non ci arrenderemo senza combattere. Passeremo il caso alle autorità competenti». «Che intendi dire?» «Occorre redigere un documento che ricostruisca dettagliatamente la nostra indagine, inclusi gli indizi, le scoperte, le supposizioni, per spedirlo, oltre all'FSB in Russia, ai principali servizi segreti del mondo: CIA, M16, Mossad, ecc. Chi c'è ancora? Non sono un esperto. Se questa Confraternita è un'organizzazione terroristica internazionale, che siano i servizi segreti a occuparsene. Dopotutto, è il loro lavoro. Anton, tu dovresti avere i contatti giusti per diffonderlo e per evitare che venga scambiato per il delirio di un pazzo paranoico e buttato via.»
«I contatti li ho, ma non voglio utilizzarli per questo. Il documento, se va scritto, dev'essere anonimo, altrimenti gli hat, che hanno sicuramente i loro uomini anche lì, nei servizi segreti, potrebbero intercettare i miei contatti e arrivare fino a noi. E i servizi segreti utilizzarci come esche, mentre gli hat finirebbero col tagliarci la testa.» «Anton, ma non eri stato tu a proporre l'operazione Solitudine 12 e l'indagine?» «Sì, ma mi sono sbagliato. Ci ho ripensato. Sono un branco di psicopatici. Dietro potrebbe esserci anche una corporation farmaceutica corrotta. Si tratta di un'organizzazione internazionale temuta anche dalla polizia segreta vaticana. La situazione è più seria del previsto.» «D'accordo» dissi, guardando Matvej che scuoteva la testa insoddisfatto. «Il documento dev'essere anonimo, ma chi deve redigerlo e spedirlo? E come mi devo comportare con FF?» «Scrivilo tu stesso. Sei tu che hai svolto l'indagine. Non devi inviarlo. Spediscilo alla mia cassetta postale segreta, me ne occuperò io. Con FF non fare mosse. Comportati come se niente fosse. È tutto ragazzi, è ora di andare. Devo prepararmi per il viaggio. Vi accompagno a casa.» Uscimmo. In auto Matvej, neanche a farlo apposta, disse proprio ciò che pensavo anch'io: «Sai, Anton, per tutta la vita ho creduto che quello più...» s'impappinò, cercando le parole «...prudente di noi fosse Iosif, e ora capisco di essermi sbagliato». «Certo, ti sbagliavi. Iosif già una volta, tanto tempo fa, si era comportato da eroe, in Crimea, salvando il Chimico dai trogloditi in discoteca. Sono io quello prudente. Io ho Dina.» Nella voce di Anton si coglieva una nota strana. Ebbi l'impressione che dietro il suo abituale scetticismo si nascondesse questa volta un non so che di falso. Era ancora più cupo e pensieroso del solito. «Ma non importa» disse Matvej. «Io non ho proprio nulla da perdere. Ho perso anche la direttrice.» Mi sentivo più sollevato. Non ebbi più paura. La storia si concludeva. E, chissà perché, avevo l'impressione che anche con FF avrei risolto tutto senza problemi. Lui avrebbe fatto finta che non fosse successo niente. E io a mia volta avrei fatto lo stesso. Presi coraggio e lo chiamai sul cellulare. «Fëdor Fëdorovič! Torno ora dalla Turchia. Sono stato qualche giorno in vacanza. Come procedono le nostre cose? Tutto a posto?» «Sì, per ora sono soddisfatto» disse con la sua voce monotona. «Le ho girato altri dodicimila dollari.»
«Be', perfetto. Vuol passare a prendere la ricevuta?» «No, non subito, tra un po'. Lavori tranquillo!» «Tante belle cose.» Chiusi con sollievo la chiamata. «Fa finta che vada tutto bene.» «Com'era previsto» osservò malinconico Anton. «Vuol dire che non può fare a meno di te. Forse non gli hai rotto abbastanza le scatole con le tue indagini. Ecco, siamo arrivati. Vuoi che ti aiuti a portare i bagagli?» «No, ce la faccio. Ciao, Matvej! Buon viaggio, Anton!» Abbandonai la borsa da viaggio in mezzo alla stanza e feci il numero di Maša. Maša promise di passare. Poi parlai con Volpina. Volpina confermò che filava tutto liscio. I soldi erano stati accreditati sul conto. I testi venivano pubblicati. I giornalisti non sospettavano di nulla. Avevamo assunto un'altra ragazza per trecento dollari al mese per il monitoraggio dei testi. Così ora il nostro staff era composto da quattro persone, me escluso. Volpina aveva un tono più che scostante. Mi chiese perfidamente se avessi trascorso bene le vacanze. Le risposi che non ero mai stato così bene in vita mia. Era sul punto di sibilare qualcosa, ma io la salutai affabilmente e m'infilai nella vasca da bagno per togliermi di dosso la polvere del viaggio. Per apparire a Maša un perfetto padrone di casa, preparai una veloce cenetta. Una zuppa di piselli in busta alla quale aggiunsi condimento, spezie e del prosciutto rimasto in frigorifero, che tagliai a dadini. Riuscii persino a fare un salto dal fruttivendolo sotto casa a comprare uva, fragole, pere e un'anguria. Maša arrivò. Mi aveva portato in regalo una camicia bianca di Armani, in stile lingerie da ussaro. Col colletto aperto e le maniche ampie. Restò deliziata dal pranzo, o meglio dalla zuppa. Il secondo non c'era e passammo subito alla frutta. «Com'è stato il viaggio?» «Istruttivo.» Le raccontai rapidamente di Gerusalemme e del Vaticano. Le spiegai perché avevamo deciso di farla finita con tutta la storia, addossando tutta la colpa ad Anton. Maša approvava pienamente la decisione di Anton. «Ascolta,» le dissi «ma perché ti sei comportata così da stronza al caffè dell'OGI? Non credevi neppure a una parola. Non facevi che criticare. Eppure avevo ragione anche allora!» «Allora tu eri un cretino, e lo sei anche adesso. Ero molto in ansia per te.
L'avevo capito subito che la faccenda era preoccupante. E volevo cercare di fermarti per quanto potevo.» «Ma perché non l'hai detto subito?» «Alle mie parole sei scattato su come un gallo da combattimento.» Mi faceva piacere che fossero già in due nel medesimo giorno a ritenermi coraggioso. E più che coraggioso. Misi a conoscenza Maša dell'idea che mi era appena venuta, e cioè che in fondo tutta quella storia della pubblicazione non fosse altro che una forma di reclutamento. «È improbabile» disse Maša. «Perché cercare di incrementare un'organizzazione in un modo così strambo? Credo che sia un metodo per manipolarci tutti quanti. Non eri stato tu a parlarmi di PNL, di programmazione neurolinguistica?» «Maša, capisci, io dovrei continuare la campagna, aiutarli a manipolare e a reclutare degli innocenti! Davvero il denaro non ha odore?» «Rifiutati di farlo, se vuoi. Ma adesso che finalmente cominciavano ad arrivare dei soldi e io ero felice per te...» Ricordai una frase piuttosto cinica pronunciata una volta da Anton a proposito di Maša: «Verrà da te solo quando avrai dei soldi. Ma la sua non è troiaggine innata, è che lei, come ogni donna, ha bisogno di stabilità e sicurezza. E nella nostra epoca e nel nostro mondo queste cose si raggiungono con il denaro. Perciò non fare come Matvej, cerca di lavorare e guadagnare!». Allora mi ero messo a discutere, cercando di dimostrare che Maša se ne infischiava del denaro, che a tenerla legata a me erano delle ragioni incomprensibili, ma Anton non faceva che scuotere la testa. Be', se Anton aveva ragione, ora a causa di Maša avrei dovuto mettermi al servizio del diavolo. Nel senso letterale del termine. E di una sedicente organizzazione denominata la "Confraternita" e dei suoi oscuri scopi... Ma, in fondo, chi è stato a mettermi in guardia sull'indegnità di questi scopi? Degli ex inquisitori, gli stessi che hanno mandato al rogo Giordano Bruno. Che hanno costretto Galileo ad abiurare. Che hanno torturato la madre di Uylenspiegel. Che hanno bruciato dei poveri indios. Gli stessi che ora mi proibiscono di mettermi le dita nel naso! E se fosse proprio la Confraternita degli hat, e non la Chiesa di Roma, a operare per la salvezza degli uomini? Telefonò Matvej, dicendo che si trovava nelle vicinanze, evidentemente per autoinvitarsi.
«Vieni, ti aspetto» risposi contento. «Però non sono solo» mi disse in tono enigmatico. «Vuoi dire che c'è anche la tua direttrice?» «Sì.» «Be', perfetto. Anch'io sono qui con Maša. Staremo come in famiglia.» «Giusto» disse Matvej un po' intimidito. «Proprio come in famiglia.» Dopo una ventina di minuti erano da noi e prendemmo insieme il caffè, che avevo preparato alla maniera di Arkan. Mi misi a osservare la direttrice con più attenzione del solito, cercando di immaginare come dovesse essere a letto. Tenera, rotonda, indifferente, con le braccia serrate sul petto. Non sembrava male. Il sex appeal non le mancava e quella fredda passività a letto le donava. Cercai di indovinare se fosse così intelligente come la dipingeva Matvej, ma era difficile, perché per lo più taceva, limitandosi di tanto in tanto a sorridere. Matvej strisciava ai suoi piedi, come un masochista davanti al proprio signore e padrone. Era un quadro divertente e curioso. «Ol'ga, vorresti un pezzetto di torta? No? E dell'uva? E qualche fragolina? A te piacciono le fragoline...» «Certo» dissi io, non riuscendo a controllarmi. «A tutte le ragazze piacciono le fragoline.» Matvej mi guardò come se volesse incenerirmi. Riuscii a trattenere le risate e abbassai gli occhi con aria innocente. Ci mettemmo a discorrere di varie sciocchezze. Matvej ci raccontò di un divertente episodio accaduto in una delle sue boutique. Subito guardai la direttrice. Da un lato, l'espressione di Matvej «la mia boutique» non la turbava ma, dall'altro, lei sapeva meglio di me e di Maša che Matvej era proprietario solo del quindici per cento della boutique. Ol'ga restava assolutamente impassibile. Come una sfinge. Per tutto il tempo non pronunciò più di cinque frasi, anche se mi meritai da parte sua due o tre sguardi molto penetranti. Speciali. Femminili. Di apprezzamento. Si era fatto tardi. Maša si preparava a tornarsene a casa. Da German. La cosa mi rattristò, ma ci accordammo per rivederci l'indomani mattina, domenica, e così mi sentii più sollevato. Ol'ga ci chiese di darle un passaggio e Matvej e io decidemmo di fare un salto al Casinò per distrarci un po'. Mezz'ora dopo attraversavamo il ponticello del Golden Palace, meglio noto con la sigla "GP", camminando al di sopra dei pesci che accoglievano
gli ospiti. Era stata una trovata originale sistemare un grande acquario con pesci enormi sotto i piedi dei clienti, nonché scegliere un décor cinese rosso lacca e servire consumazioni gratis. Del resto, tempo prima, avevo calcolato che un whisky al Golden Palace mi costava ben quaranta-cinquanta dollari. Ma a molti assai di più. Il fatto è che cerco sempre di non portare con me al Casinò più di trecento dollari e non bevo mai meno di cinque, sei whisky. Il whisky al Golden Palace era effettivamente caro. Decisamente caro. Del resto, come notava Matvej, osservando le allampanate, eleganti puttane che si aggiravano nella zona del bar, il sesso gratis si trovava solo nelle topaie. Al Casinò non vincevo praticamente mai, o comunque di rado. Perciò fino ad allora il mio budget non mi aveva consentito di andare al GP più di una volta al mese. Ma adesso che le cose si mettevano bene, ero venuto a cuor leggero. Appena entrati, perdemmo in un batter d'occhio i bonus d'ingresso e ci guardammo intorno. Era tutto come sempre: qualche vietnamita naturalizzato russo, qualche bandito civilizzato, dei giocatori professionisti, visitatori in trasferta o ospiti nella capitale, mogli di nuovi russi e imbranati del ceto medio come me e Matvej. In definitiva, la solita calca, tanto che era difficile raggiungere i tavoli. Ci sistemammo al tavolo del poker. Andava tutto come previsto. Di lì a una mezz'ora cambiai il secondo centone, poi la fortuna cominciò a girare dalla mia parte, distribuirono le carte e feci colore. Un'ora dopo la fortuna mi aveva abbandonato e cambiai il terzo centone. Matvej, che nel frattempo aveva lasciato settecento dollari alla roulette, cinquecento dollari al black jack e qualche migliaio di rubli alle slot-machine, si preparava ad andarsene a casa, imprecando sulla malasorte in generale e su quella al Golden Palace in particolare. Gli feci un cenno di saluto e mi sedetti al tavolo della roulette. La pallina non aveva fatto in tempo a fare il primo spin che udii: «Ciao, Iosif!». Alzai gli occhi e mi voltai. Accanto a me sedeva un grasso maiale dagli occhi gonfi, le guance cascanti e i capelli come setole. Il maiale si chiamava Sergej Starikov. Per qualche tempo avevamo lavorato insieme alla PR Technologies. La sua mansione consisteva nel procacciare nuovi clienti. Come un uomo con un aspetto simile potesse andare in cerca di clienti, proprio non me lo figuravo.
Oltre all'aspetto, non irrilevante, aveva anche un'altra caratteristica esasperante. Una propensione patologica a mentire. Le sue menzogne avevano lo scopo di far accrescere la sua importanza agli occhi dell'interlocutore. Gli avevo sentito raccontare della sua laurea all'Harvard Business School; del padre, alto funzionario del FSB (il nuovo KGB), che avrebbe potuto offrirci gratis la sua protezione; del fratello, un investitore molto ricco, disposto a comprare un quarto delle azioni della PR Technologies per un milione di dollari. Qualche volta mi ero lasciato travolgere dal delirio di Starikov perché non capivo che senso avesse mentire in un modo così assurdo e per un tempo così effimero. Forse dipendeva solo dalla sua incontenibile smania di suscitare anche solo per un attimo l'ammirazione altrui. Sei mesi fa Volpina l'aveva licenziato. Era successo quando lui aveva promesso (grazie al cielo, solo a voce) a una piccola agenzia turistica di mandare in onda uno spot di 45 secondi sul prestigioso canale ORT in prima serata, nel corso di Vremja, il notiziario. Non ero dispiaciuto per Starikov e non mi ero messo a discutere. Mi ero limitato a osservare, in presenza degli altri collaboratori, che un maiale e una volpe non avrebbero mai potuto trovare una lingua comune. Poi mi ero ricordato di una storiellina su un gatto e un cane, e con questo la vicenda del licenziamento di Starikov si era chiusa 20 . Ma oggi il mio umore era talmente alle stelle che mi rallegrò anche la vista di Starikov. Tanto più che Matvej se n'era andato e io non amavo giocare da solo. Starikov cercò di farsi prestare venti dollari e lo mandai cordialmente a quel paese, dal momento che di dollari me ne erano rimasti solo cento. Non se la prese affatto. Si limitò a star seduto e a puntarmi con quei suoi occhietti, fingendo di fare il tifo per me, ma interpretando la parte in modo estremamente falso. Ma la sua ipocrisia non mi disgustava, perché dal momento della sua apparizione la fortuna aveva cominciato a girare nel verso giusto. Solo per ridere, anziché i soliti due dollari, ne puntai dieci su un numero e l'azzeccai, guadagnandone trecentocinquanta. Dieci minuti dopo riluceva tra le mie mani il "dischetto" proibito e ma20
C'erano una volta un gatto e un cane che vivevano insieme in perfetta armonia. Avevano il loro giardino con l'orto, i loro cetrioli, i loro pomodori, ma non avevano figli. Allora andarono insieme dal veterinario. Il veterinario li visitò a lungo e poi disse: «Sentite, perché mi scocciate? Voi non potete avere figli!». «Ma perché?» «Perché siete due femmine!»
dreperlaceo della fiche da cinquecento dollari e io ricevevo le congratulazioni entusiastiche di Starikov. Mi ficcai in tasca il dischetto e continuai a giocare con i trecento dollari che mi rimanevano al tavolo del poker. Starikov, naturalmente, s'infilò dietro di me. I croupier che smontavano, finito il turno, ritiravano le mance, indipendentemente dalle vincite o dalle perdite, ma solo per i loro nomi segnati su vistosi badge, che tenevano agganciati al petto. A ricevere più mance furono Maša e Zanna. A Grigorij e Sergej non sganciai un granché. A Ol'ga, da cui avevo avuto un full house, diedi solo cinque dollari, spiegando che la ragazza di un mio amico si chiamava Ol'ga anche lei e che restava immobile (a quanto pare il whisky cominciava a farmi effetto). La mia fortuna continuava anche a poker. E a quel punto prestai naturalmente a Starikov cento dollari e, quando finirono, altri centocinquanta, perché la sua presenza mi stava portando un'inaudita fortuna. Sentendo Lady in black, l'unica canzone degli Uriah Heep che amo davvero, alzai gli occhi. Al primo piano era cominciato lo strip-tease. Ma di quello m'infischiavo, era la musica a eccitarmi. Pregustai il mio incontro con Maša il mattino dopo (gli incontri mattutini con la propria amante sono sempre struggenti), decisi che la canzone era profetica e ordinai senza indugio un altro whisky. She came to me one morning One lonely Sunday morning Her long hair flowing In the midwinter wind. I know not how she found me For in darkness I was walking, And destruction lay around me, From a fight I could not win21 . In quel momento avevo già bevuto almeno quattro whisky doppi. Le vincite mi avevano spinto a pensare che ero proprio un duro e che era ormai ora di passare dal whisky al cognac. Un'idea assolutamente idiota, perché al GP il cognac è semplicemente una porcheria. Io e Starikov be21
Venne da me un mattino, Un solitario mattino di domenica, con i lunghi capelli mossi dal vento invernale. Non so come mi trovò, perché camminavo nel buio e attorno a me era la devastazione di una battaglia che non potevo vincere.
vemmo cento grammi di cognac a testa. In condizioni normali un cognac come quello mi avrebbe fatto star male. Ma questa volta mi sentivo bene. O, almeno, così mi sembrava. Starikov commentò che era una fortuna che mi avesse incontrato proprio quel giorno perché lunedì doveva vedere uno straordinario cliente da cui si poteva ottenere un incarico per mezzo milione, non di dollari, bensì di euro, che lui non ce l'aveva affatto con me per il licenziamento, perché aveva capito che era stata Volpina a combinare tutto, e che aveva sempre nutrito per me il massimo rispetto e la massima ammirazione. M'intenerii e gli proposi di brindare con dello champagne alla nostra riappacificazione. Ci portarono due calici. Di che marca fosse quello del Golden Palace nemmeno lo rammento, i miei ricordi successivi sono come le schegge di un vetro rotto che non ha senso reincollare. Tornammo al tavolo della roulette. E lì le cose non andarono più tanto bene. Poi Starikov prese tutte le mie fiche, eccetto i dischetti di riserva che avevo nascosto in tasca e, dicendo che oggi era il suo giorno fortunato, puntò tutto sul nero. Uscì il rosso. Perdemmo più di quattrocento dollari. Mi sembrò una prepotenza e la mia benevolenza cominciò a trasformarsi in ira. Dopo un po' scoprii che, di tutta la ricchezza accumulata, mi restava solo una fiche da cento dollari. Dopo di ciò presi a imprecare contro Starikov in un modo così violento e a voce così alta che arrivò la vigilanza del Golden Palace e ci consigliò molto gentilmente di smettere di giocare e di andarcene a casa. Ma io ormai non volevo più sentir ragioni, cosa che mi accade di frequente quando bevo troppo. Dissi a Starikov: «Ecco, adesso, coglione, pagherai per tutto il casino che hai combinato. Andiamo a casa mia, così mi racconterai del tuo cliente da mezzo milione di euro, e se menti, come tuo solito, ti staccherò le orecchie». Non che avessi davvero l'intenzione di tagliare le orecchie a chicchessia, ma l'alcol, e la boria con cui Matvej il giorno prima aveva risposto agli hat, mi avevano reso un po' troppo spavaldo. Per di più Starikov mi permetteva di comandarlo a bacchetta, sopportando tutto senza protestare. Andammo da me. Non avevo whisky in casa, ma in compenso scovai una bottiglia di vodka non fredda e del vino rosso. Versai tutto in un cartone di succo di pomodoro, aggiunsi del pepe, agitai, e dissi che il Bloody Mary era pronto. Sulla camicia di Starikov comparve una bella macchia di un rosso vivo, perché avevo scordato di chiudere il cartone prima di agitar-
lo. La macchia, dalla consistenza, sembrava rientrare nella categoria di quelle ineliminabili. «La mia camicia...» si mise a piagnucolare Starikov. «Io ci cago sopra, alla tua camicia!» ribattei io con decisione, imbrattandomi immediatamente con la stessa schifosa mistura rossa e tiepida la camicia da ussaro che mi era stata appena regalata da Maša. «Ma perché vuoi cagare sopra la mia camicia?» disse spaventato Starikov. «Ma che vuoi, non lo vedi che me la sono sporcata anch'io? E poi, quando saremo diventati ricchi, te ne comprerò dieci, bastardo, di camicie così.» Mi sembrava di avere delle difficoltà ad articolare le parole e decisi di parlare con frasi semplici e brevi. Il problema di come mantenere un certo autocontrollo quando si è ubriachi mi aveva sempre affascinato, ma ora non avevo l'energia di concentrarmi. «E la cravatta?» domandò diffidente Starikov. «Anche la cravatta...» «La cravatta la userò per strozzarti, se mi hai ingannato con quel tuo cliente... Bevi, bastardo!» Evviva il sapone profumato E la corda lanuginosa... Mi tornarono in mente a un tratto i versi del poeta israeliano Gendelev, amico di Anton. «Ma cosa c'entra la corda?» chiese, senza capire, Starikov, irrigidendosi. «Sono versi, idiota! Non te l'insegnavano la poesia laggiù, ad Harvard?» «No» rispose Starikov risentito. «Mi insegnavano il marketing.» «Perché sono tutti dei porci. E anche tu sei un porco. Un porco da mercato.» Quel che seguì affondò in una nebbia alcolica. Starikov disse che lui era un duro e che avrebbe chiamato subito suo padre che lavorava per i servizi, il "cekista", e che io l'avrei pagata per quel casino. Gli intimai di chiamarlo, ma Starikov rispose di non avere con sé la rubrica. Gli dissi che, se un bastardo come lui aveva davvero un padre cekista, allora doveva sapere il suo numero di telefono a memoria. Starikov minacciò di venire di notte a tagliarci la gola nel sonno, perché un uomo rispettabile non poteva tollerare certi oltraggi. Io risi e gli dissi che ormai era mattino (erano quasi le cinque) e che era stato un piacere conoscere un uomo così rispettabile pronto a tagliare la gola alla gente nel sonno. I coltelli, nel caso, poteva trovarli in cucina, ma che se ne faceva un porco dei coltelli? In fondo era un peccato che lui fos-
se un porco e non un montone. Un montone avrebbe sempre potuto incornarmi! Insomma, era una scena disgustosa e poco artistica. In tutta la mia vita non mi ero mai comportato in un modo così ripugnante. Finimmo di bere il tiepido succo nel cartone. Dopo un po' notai che Starikov aveva perso definitivamente conoscenza a tavola, come cristallizzato. E che russava come un verro. Odio quelli che russano e cercai di trascinarmi fino al letto, ma le pareti cominciarono a ruotarmi tutt'intorno. Provai un senso di nausea e perciò tornai nella posizione iniziale, cercando di scendere dalla sedia. Scivolai giù lentamente, strusciando con i gomiti la parete che fluttuava via, e crollai addormentato. Al terzo colpo di bastone nello stomaco mi costrinsi ad aprire gli occhi. Il bastone era in realtà la canna di un kalashnikov e apparteneva a uno sbirro, in divisa d'ordinanza completa, giubbotto antiproiettile compreso. Dietro di lui stava un secondo sbirro, analogamente equipaggiato. Anche lui con il kalashnikov puntato pigramente nella mia direzione. Per l'appartamento si aggiravano altri individui. «In piedi, cittadino!» «Che ora è?» riuscivo appena a muovere le labbra. Voltai la testa e vidi che erano le otto e mezza. «Ma che è successo?» «Ha ammazzato un uomo, ecco cosa è successo! In piedi, presto!» «Cosa?!» avevo solo la forza di muovere la testa. «Cittadino, non faccia l'idiota, si alzi! Lei ha ucciso un uomo. Si guardi, ha la camicia tutta sporca di sangue!» Cercai di alzarmi, appoggiandomi alla parete. Con qualche sforzo ci riuscii. La camicia da ussaro era davvero tutta insanguinata. «Braccia alzate!» Alzai le braccia e subito scattarono le manette. Mi sedetti sulla sedia. «Ti ho detto di stare in piedi!» Lo sbirro si mise di colpo a strillare come se lo stessero scannando. «Vieni qui!» Andai in anticamera. Si accalcava una folla di persone. Alla mia comparsa, si aprì un varco. Sul pavimento giaceva un corpo sul quale era stato buttato negligentemente un lungo sacco nero con la lampo. Dal sacco spuntavano i piedi con le scarpe quadrate di Starikov. Lo sbirro sollevò il sacco. Starikov aveva sul volto un'espressione di grande stupore. La gola era stata tagliata nel mezzo da parte a parte. La testa era talmente inclinata che appariva per due terzi staccata dal collo.
«Lo riconosce?» «Sì» dissi io. Desideravo terribilmente che tutto si dissolvesse. Desideravo di potermi sedere di nuovo contro la parete e addormentarmi, e di far sparire, o almeno rimandare, questa scena. Anche solo per cinque minuti. «Chi è?» «Sergej Starikov.» «E che rapporti aveva con lei?» Alcuni individui mi fissavano in silenzio. Il mio appartamento era invaso da sconosciuti. Fissavano tutti stralunati la mia camicia. La testa mi faceva incredibilmente male. Avevo una gran voglia di bere. «Un mio... conoscente.» PARTE SECONDA Capitolo Dodici Un film tridimensionale e delirante. Un vertiginoso horror. Togliti la camicia frocio schifoso / ma come faccio a togliermela con le manette / cazzo, toglitela, bastardo / ma si strappa / e chi cazzo se ne frega, basta / parola d'onore non è colpa mia / sei veramente un cazzone, o ci fai? / posso fare una telefonata? / telefonerai dalla centrale, l'ultimo proiettile è per l'avvocato, aha-aha / ragazzi, ma io non c'entro, credetemi / a noi non ce ne fotte un cazzo, chiudetelo in gabbia / ho voglia di bere / fattelo versare dal giudice istruttore / ho voglia di fumare / non siamo in albergo / basta che mia mamma non venga a saperlo / sul pavimento, dove se no / quanto devo aspettare ancora / oggi è domenica / lasciatemi almeno fare una telefonata, ve la pago / questo devi chiederlo al giudice. Affondai in uno stato di torpore, lì sul pavimento della gabbia insieme a due prostitute ucraine minorenni che, con tutte le migliori intenzioni, cercarono di convincermi che, se avevo il certificato di residenza, ero in regola e quindi mi avrebbero rilasciato di lì a poco. Io, sbronzo fradicio, sonnecchiavo sul pavimento. Quando mi ripresi, le ragazze non c'erano più. E io avevo perso l'unica possibilità di contatto con il mondo civilizzato. La testa mi scoppiava a ogni minimo rumore: dei passi, una porta sbattuta, il borbottare del poliziotto di turno. Finalmente la serratura della gabbia scattò e dopo un minuto entravo nell'ufficio del giudice, che appariva molto simile a quello in cui, meno di una settimana prima, lo scribacchino mi
aveva informato della morte di Lilja. Il procuratore incaricato del caso era giovane e di pessimo umore per esser stato strappato di casa la domenica. Occhi color fiordaliso e capelli color grano. Diede un'occhiata alle carte, si presentò come procuratore capo Igor' Vasil'ev e si accertò attraverso le mie parole che io fossi veramente io e che non ci fossero stati scambi di persona. «Ebbene, signor Mezenin, racconti!» «Potrei avere dell'acqua e una sigaretta? E queste manette sa...» «Certo. Si metta a suo agio!» Se il gioco dei ruoli di solito era quello tra giudice buono e giudice cattivo, a me invece ne era toccato uno spiritoso. Mi tolse le manette con la sua chiave e poi mi versò dell'acqua da una caraffa di vetro in un bicchiere sfaccettato (quando si dice un classico: un residuo della dotazione statale). Esternai le mie impressioni. Lui sogghignò, allungandomi una sigaretta. «Sì, è acqua del rubinetto. La polizia non ha i soldi per l'acqua minerale.» «E una pastiglia per il mal di testa, si può avere?» «Sì, si può avere anche quella. Ma ha intenzione di parlare?» «Certo, che ho intenzione. Però prima mi dia qualcosa per il mal di testa.» «Prenda, è un'aspirina russa, va bene lo stesso?» «Magnifico!» Decisi di non prestare attenzione alle sue frecciate. «Lei mi dice "Magnifico", eppure ogni tanto qualcuno ci accusa di sadismo. Ci accusano di usare il sistema della rondine con i sospettati, facendoli sdraiare sul pavimento a pancia in giù con braccia e gambe legate ben strette. O quello dell'elefante, infilando ai detenuti una maschera antigas e costringendoli ad accovacciarsi a terra e a contorcersi, o di picchiarli sulla testa con mazze da baseball.» Lanciò un'occhiata a quella che giaceva in un angolo. Pensai che chiedergli se giocava a baseball avrebbe guastato sul nascere i nostri rapporti. Il giudice ci aveva preso gusto e proseguì: «Ma io penso che dipenda tutto dalla persona con cui si ha a che fare. Se è una brava persona, allora perché non parlare come tra esseri civili? Anche se di solito si tratta di belve criminali. Ma questo non riguarda lei. Si vede subito che lei è una persona distinta. Vuol dire che ci si può intendere, che ci si può mettere d'accordo, non è così?».
«Proprio così. La penso esattamente come lei. Ci si può mettere d'accordo. Anzi, bisogna mettersi d'accordo!» «Bene, dal momento che la pensa come me e io ho esaudito tre delle sue richieste, ora tocca a lei esaudirne una. Mi racconti tutto quello che è successo. Ah, voglio avvertirla: il nostro non è un interrogatorio, ma solo una conversazione. Non registrerò alcun verbale. E non accenderò alcun registratore.» «Capisce, non è che sia successo qualcosa in particolare. Io e il mio conoscente siamo tornati dal Casinò. Abbiamo bevuto. Io mi sono addormentato. Mi sono risvegliato e nel mio appartamento c'era la polizia. E lui era riverso per terra nel corridoio con la gola tagliata.» «E non si ricorda cos'è successo durante il sonno?» «Non è successo niente. Ricordo esattamente come mi sono addormentato. Non avevo voglia di raggiungere il letto, non ne avevo la forza. Per questo mi sono addormentato lì in cucina.» «E il suo conoscente?» «Si è addormentato anche lui. Sul tavolo.» «Allora, vuol dire che il suo conoscente è stato sgozzato nel sonno. Succede anche questo. Ci si ubriaca, se ne combinano di cotte e di crude e poi non si ricorda più nulla. Non e lei il primo, né sarà l'ultimo. Quando si lavora alla polizia se ne vedono di tutti i colori. Per esempio, una nonnina di ottant'anni ha preso a martellate il marito nel sonno fino a ucciderlo. E anche lei non ricordava più nulla. Arteriosclerosi. Vecchiaia.» «Però, la nonnina! Ma io non ho l'arteriosclerosi. Se fosse successo qualcosa, me ne ricorderei.» «Ascolti che cosa le dico, signor Mezenin. Oggi è domenica e mi rincresce perdere il mio tempo con lei. A essere sinceri, me ne infischio che lei si ricordi o no qualcosa. In stato di ubriachezza una persona può non ricordarsi più un cazzo. Ricorda di essere stato ubriaco?» «Sì, me lo ricordo.» «Magnifico. È registrato anche nel verbale. Non c'è bisogno di provarlo. Di indizi ce n'è fin sopra ai capelli, anche senza bisogno che lei si ricordi. Per qualunque tribunale. Almeno per il Consiglio d'Europa. Il coltello non è suo? Lo è. E il sangue sul coltello? È quello del defunto. L'appartamento è il suo? È il suo. E chi è stato trovato nell'appartamento? Il defunto. La camicia di Armani coperta di sangue è la sua? Lo è. E il sangue sulla camicia di chi è? Ora, lei è un uomo intelligente. Ci pensi bene: se adesso stiliamo il suo atto di confessione, per il tribunale questo costituisce un'atte-
nuante. E se lei, supponiamo, avesse ucciso in preda a un raptus? Forse potrebbe anche cavarsela. Insomma, dipende tutto da lei. Al suo posto, mi sforzerei di ricordarmi qualcosa.» «Mi scusi, Igor', qual è il suo grado? Altrimenti non so come chiamarla.» «Il mio grado è tenente colonnello. Ma è meglio che mi chiami "superiore". Presto riceverà ogni spiegazione in cella, se non ci mettiamo d'accordo.» A quel punto rise della stupidità umana e della mia incapacità di comprendere la fortuna che mi era capitata. «Suvvia, cerchiamo di trovare un accordo! Naturalmente io non ho ucciso nessuno. Ma, per non procurare ulteriori fastidi né a me né a lei, sono disposto, per così dire, a ricompensare materialmente il suo lavoro.» «Corruzione di un pubblico ufficiale in servizio» osservò Vasil'evFiordaliso, guardando il soffitto. «Purtroppo, cittadino Mezenin, non le servirà a nulla. Se mi sono scomodato a venire qui di domenica non è mica per niente. Avrebbe potuto starsene chiuso in gabbia fino a lunedì. Da noi può essere trattenuto per accertamenti anche una settimana. Ma mi hanno chiamato i superiori dicendo che devo riservare al suo caso un'attenzione speciale. Speciale. Evidentemente, i parenti del defunto hanno qualche aggancio. Perciò non potrei far nulla, anche volendo. Però mi dispiace, umanamente parlando. Lei ha ucciso un uomo e ora spera di farla franca corrompendo un pubblico ufficiale. Ma si tratta pur sempre di un uomo. Di una creatura di Dio. E lei gli ha tagliato la gola, anche se in stato di ubriachezza...» «Ma io non l'ho neppure sfiorato!» «Questo me l'ha già detto. Insomma, se non vuole sforzarsi di ricostruire, né simulare, un raptus è affar suo. Noi non abbiamo intenzione di torturarla. Già così gli indizi sono sufficienti. Non ci serve nessuna confessione.» Mi guardò con aria allegra e prese a scrivere velocemente. Io cercai di escogitare ancora qualcosa. «E potrei fare una telefonata?» «No, non si può, finché non avrò redatto il verbale del suo arresto e lei non l'avrà firmato.» E tornò a guardarmi con aria ancora più allegra. «È una procedura lunga?» «Dipende da lei. Io ho ancora da scrivere per una mezz'ora.» «Non intendo firmare niente senza il mio avvocato!»
«Ha diritto a un avvocato solo dopo l'arresto. Per il momento lei è privo di ogni diritto. È qui solo per un colloquio informale con me. Quando avrà firmato il verbale, potrà godere di tutti i diritti di un arrestato. La trasferiremo al centro di detenzione provvisoria. Là avrà almeno un letto. Potrà recuperare il sonno perduto. Avrà un avvocato. Ma se non firmerà, resterà in cella per accertamento d'identità.» Mi lanciò un'occhiata perfida. «Vorrei che per lei le cose andassero nel verso migliore! Ma possiamo farle andare anche nel verso peggiore! Altro che, se possiamo!» «No, facciamole andare nel verso migliore.» «Allora la smetta di intralciare il mio lavoro. Dobbiamo farla finita con queste ciance.» «E se firmo, potrò telefonare?» «Sì, potrà! Basta che firmi.» «E dopo aver firmato l'impegno a non lasciare il mio luogo di residenza, non potrò più allontanarmi?» «Signor Mezenin, lei mi ha stufato!» Per una mezz'ora Vasil'ev-Fiordaliso si occupò della stesura del verbale, rivolgendomi di tanto in tanto qualche domanda formale. Poi mi passò il verbale: quattro pagine coperte da una calligrafia minuta e fitta. Decisi che non avrei rifatto l'errore commesso firmando l'accordo di riservatezza per FF e lessi tutto con attenzione. Nel verbale non c'era nulla di interessante. C'era scritto che mi trovavo in stato di ubriachezza e che non ricordavo nulla. Firmai ogni pagina del verbale, poi lessi e firmai anche un altro documento, in cui si diceva che non ero stato sottoposto a nessuna pressione e che firmavo di mia spontanea volontà. «Be', ecco» disse Fiordaliso, felice della mia arrendevolezza. «Ora è ufficialmente sotto arresto perché sospettato di omicidio volontario ai danni di persona indifesa. La pena prevista dall'articolo 105 comma 2b del codice è la reclusione da otto a venti anni.» «Cosa? Contro una vittima indifesa? E questa è un'aggravante?» «Altro che, se è un'aggravante. Di solito è prevista una pena dai tre ai dieci anni, ma in questo caso si va dagli otto ai vent'anni.» Lo sguardo di Fiordaliso ormai non era più solo allegro, ma scanzonato, come se gli fosse riuscito uno scherzo davvero figo. Cominciai a capire che cosa intendeva mio nonno quando diceva: "A quelli non devi credere. E non confessare mai nulla. Ricordalo sempre, non crederci mai e non confessare mai nulla. M-a-i". Fiordaliso, rallegrandosi ulteriormente per la mia aria sconvolta, si mise
a spiegare: «Ma non è stato lei a deporre che la vittima si era addormentata in preda a intossicazione alcolica acuta? E di essersi reso conto che si trovava sotto un tale effetto?». «Ma anch'io ero sotto l'effetto della stessa intossicazione. E non è ancora svanito adesso.» «Già. E anche questa risulta una circostanza aggravante. Tanto, che cosa cambia? Il tribunale sovietico è il tribunale più umanitario del mondo. Sistemerà tutto. Io però le consiglio di confessare e di addurre il raptus. È l'articolo 107. E prevede la reclusione fino a tre anni. Ma è tardi... Da questo momento lei ha diritto di chiedere un avvocato, di non testimoniare contro se stesso e in generale di non firmare deposizioni.» Mi rilassai un po'. Pensai che aveva fatto male Fiordaliso a scherzare tanto. Ora non credevo davvero a nessuna delle sue parole: con o senza circostanze attenuanti mi avrebbero addossato l'omicidio comunque. «E adesso che ne sarà di me?» «La trasferiranno al centro di detenzione provvisoria, dove verrà trattenuto finché il procuratore o il giudice non daranno la loro autorizzazione all'arresto o non adotteranno un'altra misura preventiva. Poi verrà trasferito al SIZO, al carcere giudiziario. E ci saranno il processo, e la Siberia.» Fiordaliso sorrise affabilmente. «E adesso posso telefonare?» «Sì, può, ma si sbrighi.» A quell'ora Anton si trovava in aereo e così decisi che bisognava chiamare Matvej. Ero sicuro che, dal momento che le cose andavano tanto storte, non avrebbe nemmeno risposto. Ma, grazie al cielo, mi sbagliavo. Forse le cose non andavano poi così male. «Matvej,» dissi «mi hanno arrestato accusandomi di un omicidio che ovviamente non ho commesso.» «Dove sei?» Matvej, da che ricordavo, non aveva mai avuto una voce tanto sorda e rauca. «Per ora al RUVD, al distretto di polizia di zona, dagli sbirri. Ma presto mi trasferiranno non so neppure io dove.» «Che cosa devo fare?» La sua voce sembrava quella di un grosso animale ferito. Cupa, disperata. «Per prima cosa devi riprenderti. Poi cercare di scoprire dove mi trasferiranno e mandarmi tutte le cose che mi servono: cibo, soldi, sigarette, li-
bri. Trovare con urgenza un normale avvocato. Devi farti dare da Volpina i ventimila dollari che ho guadagnato con FF e adoperarli per farmi scarcerare.» «Non devi neppure pensare ai soldi. Troveremo quello che serve.» «Perfetto. Telefona a mia mamma, a Maša e a tutti quelli a cui può interessare la notizia. Di' che mi hanno arrestato per errore e che presto mi rilasceranno.» Matvej, a quanto pare, si era ripreso, ripeté le mie istruzioni e mi disse di stare tranquillo. Che lui avrebbe rivoltato mezza Mosca. E che l'avrebbero pagata cara. «Cerca di stare tranquillo anche tu» gli dissi. Poi telefonai a Volpina. Fiordaliso stringeva le labbra spazientito, facendo appello alla mia coscienza. Volpina, alla mia richiesta di consegnare dei soldi a Matvej, reagì in modo inatteso. Disse che ci avrebbe pensato. Le chiesi che cosa c'era da pensare. Se ne venne fuori con una sciocchezza: e se fosse stato necessario restituirli al cliente? Alzai la voce. Lei disse che si sarebbe data da fare, ma dal suo tono intuii che si sarebbe impegnata a non farli avere a Matvej. Questo mi mandò su tutte le furie. «Che c'è, problemi in ufficio?» chiese solidale Fiordaliso. «No, nulla, sistemerò ogni cosa. E adesso che mi succede?» Mi rimisero le manette e mi trasferirono al centro di detenzione provvisoria, che non si trovava chissà dove, ma proprio presso il carcere giudiziario. La porta si chiuse. La mia cella era di due metri per tre. Mi guardai intorno. Una porta. Pareti verniciate di verde. Uno sgabello avvitato al pavimento. Una lampadina sul soffitto. Una tavola di legno come letto. Un rubinetto direttamente sul water mezzo rotto, maleodorante. Nessun materasso. Nessuna traccia di finestre. Cominciavo a capire che non mi rimaneva più niente. Né abiti, né sigarette, né giornali, né carta e penna. Nulla. La tavola era stata incisa con qualche oggetto acuminato. Lessi qualche motto del folclore carcerario. Mi colpì solo una scritta. Chi non ha ancora visto l'aldilà, lo vedrà. E chi l'ha visto, non se ne dimenticherà. Mi stesi sulla tavola e cercai di addormentarmi. Ci riuscii con sorprendente facilità. Sognai che Maša mi diceva: "È normale che tu sia in prigio-
ne. È persino romantico. Tutti dovrebbero provare che cosa significa". E io le rispondevo: "A sentirti, si direbbe che tutti debbano provare tutto nella vita. Inclusa la propria morte...". Mi svegliai dopo qualche ora e capii che avevo voglia di mangiare, di fumare e di muovermi. Mi misi a bussare alla porta. All'inizio cautamente. Poi più forte. Quando anche questo non servì, cominciai a picchiare con quanta forza avevo. Cinque minuti dopo arrivò un sergente infastidito. «Cosa vuoi?» «Senti, amico, ho voglia di fumare. E come siete messi qui col mangiare?» «La grana ce l'hai?» «No, non mi hanno permesso di prenderla con me. Mi hanno detto che mi rilasciavano subito.» «Niente grana, niente sigarette.» «Ascolta, quando me la porteranno, te la darò.» «Allora ne riparliamo quando te la porteranno.» «Chiama questo numero e l'avrai.» Gli dettai il numero del cellulare di Matvej e il sergente uscì. Dopo dieci minuti tornò, dicendo che il telefono era scollegato e che il suo turno era finito. Mi sedetti sul tavolaccio e cercai di riflettere. Sul momento non riuscivo neppure a concentrarmi, ma dopo un po' cominciai a prenderci gusto. 1. Se mi trovavo qui a causa degli hat, allora non tutto era perduto. Almeno ero vivo. (Mi corse un brivido lungo la schiena, quando pensai che Starikov si trovava ora nel freddo obitorio del tribunale. Non avevo mai provato simpatia per lui, ma certo non gli avrei mai augurato la morte.) 2. Se invece mi trovavo qui per un folle concorso di circostanze, disperarsi non aveva senso. Avevo amici e denaro, e non avevo ucciso nessuno. A dire il vero, Fiordaliso aveva parlato di un coltello... E di una camicia sporca di sangue... Bisognava far luce. Starikov era stato ucciso da qualcuno: ma non era il tipo per cui valga la pena sporcarsi le mani di sangue. E di tutto quel sangue (rabbrividii, ricordando l'enorme pozza di sangue sul pavimento e gli schizzi sulla tappezzeria). E se fosse stato per invidia? Forse Starikov si era sbronzato e aveva deciso di fare seppuku? Ma allora avrebbe dovuto cominciare dalla pancia. Solo un samurai ben addestrato avrebbe potuto tagliarsi la gola per due terzi.
3. Rimaneva la versione secondo cui Starikov sarebbe stato ucciso da me. Supponendo che mi si fosse avventato contro, io avrei preso il coltello uccidendolo. Ma ora non ricordavo più nulla. Il forte stress più l'alcol avevano provocato la rimozione di quel ricordo traumatico. Tanto più che Starikov aveva minacciato di tagliarmi la gola. Per scherzo. Ma qui entrava in gioco il fattore genitori di Starikov. Lui aveva pur fatto delle allusioni al padre cekista. E Fiordaliso aveva detto che i suoi superiori gli avevano ordinato di riservare un'attenzione speciale al caso. Ma potevano esserci stati contemporaneamente sia l'intervento dei genitori di Starikov, sia quello degli hat. Sotto questo profilo, la situazione si presentava davvero pessima. Provando a fare un bilancio: contro di me c'erano i misteriosi hat e la polizia di Mosca; dalla mia parte: Anton, ora fuori Mosca, e Matvej, non del tutto capace d'intendere e di volere. E, naturalmente, Maša e mia madre, ma non è che loro potessero fare molto... Alla PR Technologies erano in atto dei cambiamenti. A conti fatti, per me il bilancio era negativo. Come sempre. All'attivo c'erano poi tre morti. Il Chimico, Lilja e Starikov. Chiusi gli occhi e cercai di visualizzarli tutti e tre. Dopo un minuto riaprii gli occhi. In quella sequenza Starikov non c'entrava decisamente nulla. E se al buio l'avessero scambiato per me? Su questa nota dolente conclusi che la luce della mia cella sarebbe rimasta perennemente accesa, che non mi avrebbero mai dato da mangiare, e che chi desiderava mangiare poteva dormire, come la guardia rossa della storiella su Lenin22 . Doveva essere martedì. In quella cella senza finestre avevo perso la cognizione del tempo. Tutto il lunedì l'avevo trascorso ad aspettare. L'avvocato, il giudice istruttore, il sergente, chiunque. Non si era vista anima viva. Nella mia cella non avevano messo nessun altro. Avevo perso la calma e la facoltà di ragionare. Sussultavo a ogni passo nel corridoio. Mentre gli sbirri, al contrario, non reagivano affatto alla mia presenza. Non potevo neppure proclamare lo sciopero della fame in segno di protesta, perché non 22
Lenin passa in rassegna le sentinelle davanti allo Smol'nyj. «Compagno, da quanto giovni non mangi?» «Sette, Vladimir Il'ic!» «Subito a dovmive!»
mi davano da mangiare. Quando chiedevo del pane, gli agenti tacevano con aria enigmatica. Cominciavo a uscire di testa. Dov'era Matvej? E se avessero fatto qualcosa anche a lui? E mia madre? Che ne era di lei? La fame, lo spazio claustrofobico della cella, la luce che non si spegneva mai. La totale indifferenza verso la mia esistenza come abitante del pianeta e cittadino russo. Capivo che mi tenevano sotto pressione. Ma non riuscivo assolutamente a spiegarmi il perché. Il martedì, quando mi sembrò che fosse ormai sera, sentii di colpo un'irresistibile nostalgia per la mia casa. Cominciai a tempestare di pugni la porta e a gridare: «Fatemi uscire di qui, bastardi! Esigo un avvocato! Siete stati voi a dirmi che ho diritto a un avvocato!». Per una decina di minuti nessuno reagì, poi entrarono due sbirri con i manganelli e mi diedero una bella ripassata, imprecando sottovoce e spiegandomi che mi avrebbero insegnato come ci si doveva comportare. Picchiavano forte, ma senza odio. Come se stessero battendo un tappeto. Poi uscirono. Cominciarono a farmi male i reni e non avevo la forza di muovermi. Stavo disteso e mugolavo: «Bastardi, bastardi». Per il dolore, calde lacrime mi rigavano il viso. Così si era concluso il martedì. Sentivo che stavo per impazzire. Non c'era più alcuna traccia di romanticismo nella mia prigionia. Mercoledì mattina la porta della cella si spalancò, mi prelevarono e mi condussero da Fiordaliso. Tutto il mio corpo era dolorante e mi trascinavo a malapena. Fiordaliso evitava il mio sguardo. Si limitò a dire seccamente: «Ecco l'ordinanza per il suo arresto. Firmi qui per conoscenza». «E l'avvocato? Lei mi aveva promesso un avvocato...» «Al SIZO, al carcere giudiziario, avrà un avvocato.» «Non firmerò più niente. Non voglio firmare!» «Non le conviene gridare con me, altrimenti...» Chiusi subito il becco, ricordando come si era conclusa la scenata isterica del giorno prima. Ma, evidentemente, a Fiordaliso la mia firma non serviva un fico secco. Mi trascinarono via, ma non mi portarono in cella, bensì in un cortiletto interno. "Per fortuna che nella nostra epoca non fucilano più" pensai. "Almeno, non così in fretta." Nel cortiletto c'era una Uaz un po' rimaneggiata. Con delle sbarre ai finestrini ricoperti di vernice opaca. Mi sistemarono lì dentro, o meglio mi ci ficcarono, perché nel furgone c'erano almeno quindici uomini. Tutti non
rasati, sporchi e maleodoranti come me. Quasi tutti avevano dei bagagli, tranne me. Dal momento che gli sportelli non si chiudevano, uno sbirro li spinse con tutto il corpo e poi li sistemò con un bel calcio. Neanche a farlo apposta, io mi trovavo accanto allo sportello, che mi ammaccò le costole mentre si chiudeva di scatto. Partimmo. Durante il viaggio un tossico ebbe una crisi di astinenza e si mise a vomitare. La puzza e il caldo trasformarono il furgone in una camera a gas nazista. Non c'era nessuna possibilità di aerazione. Dopo quaranta minuti di questo incubo arrivammo a Matrosskaja Tisina. Cominciava la procedura di accettazione. La metà di noi era di origine caucasica o transcaucasica. Gli sbirri storpiavano i cognomi e i fermati, perlopiù, parlavano male il russo e non riconoscevano il proprio nome. Dopo l'appello, ci misero tutti in una stanza, grande quanto un'aula scolastica. Saremo stati più di cento: la stessa concentrazione che si trova su un treno del metró all'ora di punta. Molti fumavano. Qualcuno si chinava per dar fuoco a degli stracci e, in un boccale di alluminio, preparava il čifir, il tè fortissimo e concentrato proibito dal regolamento. Il locale era invaso dal fumo. Una scena surreale, che si protrasse per cinque ore. Cinque ore in quello spazio ristretto, senz'aria. Quando mi passarono una sigaretta, il fiammifero non si accese neppure. Mancava l'ossigeno. Mi toccò accendere da un'altra sigaretta. Finalmente, cominciarono a chiamare a gruppi di venti per la perquisizione. La perquisizione. Una camera con la luce elettrica. Un tavolo di zinco su cui veniva rovesciato tutto il contenuto dei vari bagagli. Le cose si mischiavano alla rinfusa, i detenuti cominciavano a gridare l'uno contro l'altro. Io, che non avevo nulla, me ne stavo in un angolo e osservavo con orrore tutta la scena. A un tratto venne intimato un ordine: «Spogliatevi tutti. Toglietevi mutande e calzini! Tutti nudi!». Cominciammo a spogliarci, anche se su sei degli addetti alla perquisizione tre erano donne. Fui uno degli ultimi a obbedire e un'addetta m'inveì contro. Gli indumenti venivano gettati sul pavimento e calpestati da tutti. Poi ci misero in fila ed ebbe inizio l'ispezione. Avevo sempre pensato che i bagni sulfurei dell'inferno fossero il frutto della fantasia di mistici medievali. Ma l'ispezione di uomini nudi a Matrosskaja Tisina, pieni di lividi, ferite, tatuaggi, ascessi, era davvero come l'inferno. Solo dopo una mezz'ora ci permisero di sollevare i nostri indumenti da terra e indossarli. Ci presero le impronte digitali. Poi ci fotografarono. Una
vecchia poltrona sgangherata. Due pose. Il fotografo componeva su una cartelletta le lettere di plastica del cognome. Poi ci fu la visita medica, in un piccolo locale, non più grande della carrozza di un treno, diviso da una grata. Il medico stava dietro la grata, l'arrestato dall'altra parte. Qui mi spaventai davvero. Gli aghi, di dimensioni gigantesche, con cui intendevano prelevarmi il sangue erano già stati usati. Forse decine di volte. Sugli aghi c'erano tracce di sangue ormai secco. Dopo averli osservati per un minuto mi convinsi che avevo ragione: una volta adoperati, venivano rimessi nella stessa bacinella da cui erano stati presi, senza nessuna remora. In preda al terrore allungai il braccio attraverso la grata, guardando l'ago entrare nella mia vena e pensando che in quell'istante, con il pretesto di controllare se fossi malato, mi stavano contagiando con il virus dell'Aids. L'ago penetrò nella pelle. Mandai un urlo per il dolore allucinante, cosa comprensibile: gli aghi monouso, utilizzati continuamente, si spuntano. Dopo la visita medica ci radunarono nella stanza dell'accettazione: dopo le tartine al caviale nero del Golden Palace ricevevo per la prima volta del cibo. O meglio, qualcosa di simile: un pezzo di pane nero. Mal cotto. Ma dopo tre giorni di digiuno il suo gusto era quello di una succulenta bistecca. Grazie al cielo, l'acqua fredda non mancava. Quelli più esperti di noi dissero che non ci avrebbero smistato nelle celle fino al mattino e io, scorgendo un angolo libero, mi ci fiondai, acciambellandomi sul pavimento nudo, senza traccia di materassi, coperte o lenzuola. Il mio corpo, dopo le percosse continuava a dolorare, ma ormai mi ero quasi abituato. Al mattino il gruppo di cui facevo parte venne trasferito nelle celle, attraverso chilometri di corridoi interminabili. Camminammo per una trentina di minuti. Fin dal giorno prima mi avevano avvertito che, entrando in una cella, si deve salutare dicendo: «Salute, balordi!»; per il resto è meglio evitare di fare sfoggio di espressioni gergali, dato che le autorità non amano molto chi parla la lingua della mala. Meglio usare un linguaggio sobrio e pacato. Senza troppa spavalderia. Quando entrai nella cella dissi: «Salute, balordi!» e mi sentii soffocare. Capitolo Tredici La prima cosa che colpisce in una cella comune è la mancanza d'aria, nel vero senso della parola. File di brande, tra le quali, nella penombra, brulica
una massa di uomini seminudi. A una temperatura di non meno di quaranta gradi. Nessuna forma di ventilazione. La sensazione è quella di essere finiti in una sauna dove sulle pietre ardenti abbiano versato - anziché aromi all'eucalipto e birra -, sudore, tabacco scadente, cibo riscaldato, stracci bruciati, merda e qualcosa di inedito per il mio olfatto (forse pomata al mercurio o antrace). Scoprii poi che nella nostra cella comune si ammassavano centodiciassette persone in sessanta metri quadri. E questo non era ancora il limite massimo. Tutta la cella era attraversata da fili e corde. Al posto delle pareti e delle porte, lenzuola lacere e asciugamani cercavano di creare un'illusione di isolamento. Guardai i materassi mezzi marci, sui quali i reclusi potevano dormire a turno. Ne toccai uno cautamente. Era umido e viscido. «Allora, brav'uomo, seguimi dal Sorvegliante» mi disse qualcuno, e fui condotto dietro un lenzuolo nell'angolo destro in fondo alla cella. Qui erano appese delle mensole, fabbricate con scatole di sigarette, su cui poggiavano diversi libri. Sussultai quando, insinuandomi tra le brande, scorsi un essere spaventoso alto almeno due metri, con la testa rasata e completamente tatuato; aveva un'espressione assolutamente ottusa e bestiale sul volto ed era immerso nella lettura di Harry Potter. Sembrava il prigioniero di Azkaban. Nell'"angolo bello" c'erano un piccolo frigorifero e un televisore in bianco e nero. Il tavolo era coperto da una tovaglia fatta di sacchetti di polietilene incollati. M'interrogarono a lungo. Erano in due a farmi le domande: uno era il Sorvegliante, che dall'aspetto poteva avere sessant'anni ed era un uomo tarchiato, ancora forte, con parecchi denti d'oro e una corona tatuata sulla mano. Indossava la divisa di calcio della nazionale russa. Mi disse che dovevo chiamarlo "Sorvegliante". Il secondo era soprannominato "Sostegno". Dimostrava una cinquantina d'anni e aveva un aspetto assolutamente anonimo, o, come si dice, non presentava alcun segno particolare. Ti bastava girarti per dimenticarti com'era fatto il suo volto. Indossava un accappatoio leggero. Gli altri che sedevano con noi tacevano, non s'intromettevano nella conversazione e non facevano domande. Quelli che m'interrogavano ostentavano rispetto e benevolenza. L'articolo che mi era stato imputato era più che onorevole. Come aveva evidenziato il Sorvegliante: «Il 105 con tutte le delizie annesse (omicidio con circostanze aggravanti)». Raccontai tutto
di me, sorvolando naturalmente sul ruolo che avevano avuto gli hat nella mia vita. Mi diedero da mangiare, mi insegnarono come ci si lavava (per questa funzione, in un angolo della cella, dietro un lenzuolo con stracci appositi, era stata approntata una piccola bagnarola; l'acqua si scaldava col bollitore e poi si procedeva con i catini), mi aiutarono a fare il bucato (a questo erano preposti dei detenuti di grado più basso, appositamente istruiti) e mi assegnarono un posto del tutto dignitoso nelle brande. Sulla fila superiore, non lontano dal Sorvegliante. E, quello che più conta, senza rotazione. Cioè interamente mio. Gente esperta commentò che al primo "passaggio" non poteva andare meglio. Alla fine di quella giornata - mentre intorno continuavano il baccano e gli schiamazzi e io mi rigiravo sul materasso umido, schiacciando le pulci che mi strisciavano lungo il corpo -, capii che, se centodiciassette persone potevano sopravvivere per un arco di tempo lungo e spesso indefinito in un locale di non più di sessanta metri quadri, significava che Lilja aveva ragione. La vita può assumere le forme più diverse. Non lontano, i tram continuavano a circolare, e i moscoviti normali a lavorare, ubriacarsi, riposarsi e scopare. Ero recluso esattamente a un chilometro dal posto in cui ero nato e cresciuto. Ascoltavo il gergo della cella e mi stupivo di capire quasi tutto... «Detenuto Mezenin!» «Presente, signore!» «Aria.» In otto giorni, al carcere giudiziario, avevo capito che se ti dicevano "aria", significava che eri convocato dal giudice istruttore o dall'avvocato e che si trattava di una visita all'interno della prigione; "cambio di stagione" che si trattava del tribunale, del distretto di polizia, e, in generale, di un trasferimento; "fare le valigie", che ti trasferivano in un'altra ala o in un altro campo, o che ti rilasciavano. «Braccia dietro la schiena. Due passi avanti, marsch!» Non mi avevano messo le manette. Buon segno. I soliti chilometri di corridoi scarsamente illuminati. Le scale, le celle, le porte con le grate. Durante il tragitto incontravamo dei carrelli con la brodaglia, oppure altri detenuti sotto scorta che venivano portati a lavarsi e pestavano allegramente i piedi: insomma, la prigione viveva la sua vita. Mi guardavo intorno, facevo il pieno di aria fresca (be', relativamente fresca) e di nuove impressioni.
«Ma dove andiamo, superiore?» «Andiamo e basta. Alt!» Scattò la serratura di una porta. Entrai in una cella, piccola, vuota (solo un lavandino e una branda) e abbastanza pulita. «Perché devo stare solo, superiore?» La porta sbatté senza risposta. Mi sedetti sul tavolaccio. Avevo ormai cominciato ad abituarmi alla prigione. Persino l'atmosfera, resa incandescente dal caldo e da centinaia di anime in pena, straziate, tormentate, aveva smesso di sembrarmi esplosiva. Solo due condizioni mi opprimevano: l'assoluta mancanza di notizie dal mondo libero e l'inattività forzata. Gente esperta mi aveva spiegato che convocavano di rado per gli interrogatori, soprattutto nei casi ritenuti facili, e che non concedevano visite più di una volta al mese. Ma questo non spiegava la mancanza di notizie. E l'assenza dell'avvocato. Nella cella comune, avevo combattuto l'ozio come tutti quanti: socializzavo, giocavo a domino e a backgammon e mi sforzavo di leggere. La biblioteca del carcere offriva una scelta più che decorosa di libri: da Akunin a Jakobson. Ciò che mi stupiva era l'innumerevole quantità dei volumi dedicati all'arte della divinazione, dai libri dei sogni, ai manuali di chiromanzia e cartomanzia. A quanto pare i detenuti erano gente superstiziosa, che aveva però bisogno di predizioni concrete. Di sapere quando ci sarebbe stato un processo, in quale data, a quale campo sarebbero stati destinati, e così via. Molto seguito aveva l'interpretazione dei sogni. In prigione si dorme molto e si fanno sogni particolarmente vividi. Mi era accaduto, in quanto persona acculturata, che mi venisse chiesto qualche volta di interpretare il significato di questo o di quel sogno, ma mi ero reso conto che interpretazioni vaghe non erano ben accette, mentre delle frasi troppo concrete bisognava poi rispondere, ed era meglio prendere diplomaticamente le distanze dal responso. Ciononostante mi era stato affibbiato il soprannome di Profeta, assegnato solitamente solo ai capi o ai raccomandati. Accadde dopo che ebbi interpretato un sogno freudiano di Sostegno in cui lui doveva pulire con un temperino spuntato dei cetrioli insanguinati. Mi guardai intorno, cercando di capire perché mi avessero trasferito in una nuova cella e che cosa sarebbe stato di me in futuro. Era chiaro che in isolamento mi sarebbero venuti a mancare le sigarette (nel mio pacchetto
ne restavano solo tre), la vodka, del cibo tutto sommato normale, i libri, il contatto con gli altri e il sostegno morale. D'altra parte, questa non era certo una cella di rigore. Era ben asciutta e quasi confortevole. La porta stridette. «Trenta minuti. Se ci sono problemi, bussi.» Nella cella entrò Ol'ga, la direttrice finanziaria. Indossava una severa camicetta bianca, una giacca nera stretta in vita e una gonna nera appena sopra il ginocchio. Il suo completo ricordava una divisa femminile nazista. E donava molto ai suoi capelli biondi. Balzai in piedi dallo stupore. La porta sbatté, il chiavistello cigolò con fragore. «Be', salve, deportato!» «Salve, Ol'ga. Non esistono più i deportati. I canali sono già stati tutti scavati, sono un detenuto in attesa di giudizio. È stato Matvej a mandarti al suo posto?» «È una lunga storia. Dimmi piuttosto come stai...» «Io, meglio di tutti. Come in villeggiatura. La compagnia è splendida, il servizio ottimo!» «Dal tuo aspetto si direbbe proprio così. E io che pensavo di trovarti depresso e coperto di pidocchi...» «Non sempre si capita nella cella giusta. Io ho socializzato con i ragazzi. A quanto pare sono utile alla comunità: racconto delle storie, interpreto i sogni. Ma dov'è Matvej?» «In ospedale.» Di Matvej Ol'ga preferiva chiaramente non parlare. Si sedette sulla branda e subito scattò in piedi. Sui suoi collant era comparsa una smagliatura. Mentre rifletteva su che cosa fare, dal soffitto le cadde una goccia su un ginocchio. Alzò la testa. Cominciai a capire che cosa trovasse di eccitante in lei Matvej. La totale noncuranza verso il suo sex appeal. Non lo esibiva. Non la metteva a disagio, né tantomeno lo nascondeva. Era come se non se ne accorgesse. E in questo non c'era nessuna posa. Al contrario. Dio m'è testimone, risvegliare i sensi di questa donna non doveva essere impresa da poco, e non molti vi si sarebbero cimentati. Non so chi avrebbe potuto, a parte Matvej con il suo sangue freddo. A me, veramente, era parso strano che venisse in visita in prigione con quella divisa nazista, ma, a ben guardare, Ol'ga doveva vestirsi sempre così al lavoro e probabilmente era venuta da me in una pausa tra un appuntamento d'affari e l'altro. Distolsi a fatica lo sguardo dalle sue gambe, forse un po' grosse ma molto seducenti. Lei sistemò il lenzuolo e sedette accanto a me sulla branda.
«Non te la senti di raccontarmi qualcosa di Matvej?» «Matvej si trova in manicomio. È uscito di testa.» «Spero che tu stia scherzando!» «Ti sembra che la mia voce sia allegra?» Quale fosse il tono normale della sua voce mi era difficile capirlo, dato che Ol'ga parlava di rado. «La tua voce è perfetta. E se la userai anche per raccontarmi di Matvej, te ne sarò estremamente grato.» «Certamente! Matvej, dopo aver parlato con te, mi ha chiamato. Quando sono arrivata da lui, girava per casa, raccogliendo le cose da portarti. In due parole mi ha detto delle vostre avventure. Non è che ci abbia capito molto. Poi si è precipitato al distretto di polizia. E io l'ho seguito. Ci hanno cacciato. Non hanno voluto prendere niente, dicendo che ti avevano già trasferito. Dove, non lo sapevamo. Ci hanno detto di telefonare il lunedì in procura.» «Hanno mentito, i bastardi! Sono rimasto là tre giorni.» «Allora hanno mentito. Poi ho deciso d'incontrarmi con una persona che poteva esserti d'aiuto. Ma non potevo portare Matvej con me perché questa persona... Be', insomma, non potevo. Matvej è andato su tutte le furie, mi ha preso a male parole, è saltato sulla sua Range Rover, ed è partito a tutto gas. Ho cominciato a chiamarlo ogni due ore. Ma non ha più risposto né al telefono di casa, né sul cellulare. E così fino a tarda notte. Allora ho chiamato la polizia, poi gli ospedali. Alla fine ho scoperto che si trovava al centro di disintossicazione. Si era sbronzato in un bar. Poi aveva distrutto la macchina e divelto un tabellone pubblicitario, senza far vittime, grazie al cielo. E, quando sono arrivata al centro di disintossicazione, era in pieno delirio. Urlava che ascoltavano le sue parole, che leggevano i suoi pensieri, che gli avevano avvolto intorno al collo dei serpenti a due teste e che presto l'avrebbero decapitato.» «Ma, lo sai, è tutto vero!» Ol'ga mi fissò con aria diffidente e proseguì: «Gli sbirri avevano chiamato il pronto soccorso psichiatrico. E gli avevano già fatto un'iniezione calmante. Io l'ho accompagnato. I medici non hanno creduto alla storia dei serpenti a due teste e hanno emesso la diagnosi di demenza tremens, con sindrome paranoica». «Delirium tremens.» «Già, fa lo stesso. L'hanno ricoverato. Ho dato dei soldi ai medici perché fosse meglio seguito. È tutto.»
«No, non è tutto. E adesso come sta?» «Meglio, dicono. Dorme venti ore al giorno. E, quando si sveglia, piange. Non fa che ripetere che è tutta colpa sua perché se n'è andato dal Casinò lasciandoti solo.» «Come "dicono"? Tu non l'hai visto?» «Sono andata da lui l'altro ieri. Non mi hanno lasciato entrare. Non l'ha visto neppure Anton.» «Come, non hanno fatto entrare neppure Anton? C'è da impazzire. Aspetta, ma non era in America?» «È tornato per il week-end quando ha saputo che cosa vi era successo. È arrivato sabato sera ed è ripartito lunedì. Ci siamo incontrati. Mi ha dato questo biglietto per te.» «E allora, perché non dici niente?» «Mi hai subissato di domande su Matvej.» Presi la busta e l'aprii, c'erano trecento dollari in banconote da dieci. Scelta intelligente. Grazie, Anton. Ficcai le banconote nelle tasche e nelle scarpe. Poi lessi il biglietto. Era la calligrafia di Anton. Grossa, tonda, assai poco leggibile: «Resisti! Non confessare nulla. Farò tutto ciò che posso. Matvej si rimetterà. Dai a Ol'ga un biglietto per me. Tuo Anton». «Bene, ora capisco. E come sei riuscita a venire qui?» «Ho dei contatti.» «Chi? Quella persona da cui non hai voluto portare Matvej e a causa della quale lui si è ubriacato, ha distrutto l'auto ed è finito col delirium tremens?» «Proprio lui. Spero di non avere colpa per ciò che è successo.» «Non sai come stanno Maša e mia madre?» «Anton mi ha detto che corrono da un avvocato all'altro e che sono già state spellate di un bel po' di quattrini. E senza effetto, come vedi.» Mi allarmò la parola "corrono". Quando Maša comincia ad occuparsi di qualcosa si può stare assolutamente tranquilli. Nessuno sa darsi da fare meglio di lei. Tuttavia, senza alcun risultato. Almeno per il momento. «A proposito, non sai come mai non mi mandano un avvocato?» «Perché il tuo rientra tra i casi speciali. Mi piacerebbe sapere come hai fatto a riuscirci...» Mi chiedevo se Ol'ga non fosse venuta appositamente per scoprirlo. «Grazie ai serpenti a due teste e alle decapitazioni. Ma non sono discorsi da fare in cella.» Lei reagì con indifferenza al mio rifiuto.
«Come mai non mi chiedi perché sono venuta qui?» Decisi che era venuto il momento di comportarsi da idiota. «Mah, credevo che fossi venuta a farmi visita e a portarmi delle notizie e il messaggio. Ma perché sei qui, Ol'ga?» «Perché voglio che tu torni libero.» «E che te ne fai della mia libertà?» «Voglio potertela togliere.» Era una mossa inaspettata, ma decisi di approfondire: «Vuoi sposarmi? E mi stai proponendo di barattare la mia attuale prigionia con un'altra?». «Magari fosse tutto così semplice. Ma tu mi piaci.» L'aveva detto con una tale disinvoltura! Come se avesse deciso tutto già da un pezzo, ma, comprendendo che si trattava per me di una novità, fosse disposta a spiegarmi pazientemente ogni cosa... Allora, Ol'ga, tutto sommato, si serviva del suo sex appeal. «Io ho Maša e tu hai Matvej...» «Nessuno "ha" nessun altro.» «Ma Ol'ga, tu e Matvej... insomma, tu e lui...» cercavo di scegliere un'espressione non sconveniente e un po' elegante «...non fate l'amore insieme?» «Se così si può dire...» Ol'ga sorrise un po' perfida. Sapevo che non si poteva dire così. Ma capivo che per stregarti, o farti persino uscire di senno, Ol'ga non aveva bisogno di acrobazie erotiche. «Matvej ti ama. Vuole il tuo amore. E io...» «Sì, me li ha persino riferiti i tuoi consigli. Ma sono generici, lasciano il tempo che trovano. Perché non rispondono a una domanda di fondo: e dopo? Matvej mi respingerà non appena mi avrà avuta. E lui questo lo sa. E lo so anch'io. E lui sa che io lo so.» «Va bene, lascia che ti abbia avuta, e poi ti respingerà. Che cosa vuoi da me?» Mi balenò in mente un pensiero orribile. «Ti hanno forse mandata loro? Calipsol, Deir el-Bahari, solitudine, 222461215?» «Ma che ti succede, hai anche tu il delirium tremens? Non ti propongo un baratto. Tu mi piaci. Ti aiuterò. Disinteressatamente. Senza chiedere nulla in cambio. Nemmeno di fare l'amore con me. Ho già avuto modo di notare altre volte che la gente mi attribuisce un eccessivo pragmatismo.» A un tratto colsi nella sua voce una nota di stanchezza. Era la prima manifestazione di qualcosa di vagamente umano. Ma se continuava così... Guardai la branda. Che numero! Immaginai come mi avrebbero guardato
quelli della cella, se mai qualcuno mi avesse creduto. In prigione si raccontano le fandonie più incredibili sulle donne. L'unico sesso si pratica tra froci, di solito di notte, di nascosto. Il frocio più anziano della cella, detto "mammina", fornisce quelli giovani. E bisogna pagarlo. Soldi, tè, sigarette. «Ol'ga, ti piacciono le cose un po' insolite?» Chissà perché mi sentivo anch'io stanco. E capii che la mia voce suonava stonata, inopportuna. «Te l'ho già detto. Non ho intenzione di fare sesso con te qui. Tanto più che la mezz'ora è scaduta. Adesso verranno a prendermi. Voglio aiutarti. Tutto qui.» Decisi che era ora di scrivere il biglietto ad Anton. Ol'ga mi diede carta e penna. Gli scrissi che avrei resistito, che lo ringraziavo e di tirarmi fuori di lì. Lo pregai di comunicare a tutti, proprio a tutti, che era tutto ok. Sottolineai "proprio a tutti". Anton avrebbe capito. Nell'istante in cui Ol'ga infilava il biglietto nella borsetta, bussarono due volte alla porta, che dopo venti secondi si aprì. Il secondino mi guardò con occhi estasiati. Evidentemente m'invidiava. Ridacchiai. Se avesse immaginato che sesso avevamo fatto. «E...» chiesi di sfuggita «non sai come sono andate le cose in ufficio con Volpina? È una mia dipendente. Matvej doveva avere dei soldi da lei.» «Sì, lo so. Matvej non ha fatto in tempo a telefonarle. Ma Anton le ha parlato. Lei l'ha mandato a quel paese e ha detto che non capiva a quali soldi si riferisse. Pare che ti abbia mollato. È una grossa somma?» «Ventimila dollari. Ma non è solo una questione di soldi. Si tratta del mio lavoro. Della mia agenzia. Io sono in prigione. E lei...» «Prima torna in libertà e poi sistemerai tutto. D'accordo, io vado. Stai bene. E cerca di non prenderti la tosse... da voi è diffusa la tubercolosi...» «Sì. Da noi quelli che hanno la tosse, lo sai anche tu... Ciao, Ol'ga! Grazie di tutto.» Lei fece un cenno e uscì senza voltarsi. Subito dopo venne da me un altro secondino e mi accompagnò in cella. Mi sembrava di tornare a casa. A casa! Avevo letto che chi viene preso in ostaggio può sviluppare un profondo attaccamento per il proprio aguzzino. È la cosiddetta "sindrome di Stoccolma". Qualcosa del genere stava capitando anche a me se, dopo una settimana, avevo cominciato a considerare una cella del SIZO dove si ammassavano quasi centoventi detenuti come la mia casa. Tornai in cella e scucii senza parlare il dieci per cento dei soldi avuti da Anton alla cassa comune, ricevendo in cambio lo sguardo di
approvazione del Sorvegliante, e mi distesi sulla branda. Vedendo che non ero in vena, mi lasciarono in pace, sebbene di solito chi tornava dopo un'uscita venisse subissato di domande. Capitolo Quattordici Uno degli angoli della cella si ravvivò. Fanale, alto e allampanato balordo malavitoso, faceva dei giochi di prestigio con le carte. Me ne stavo sdraiato e osservavo pigramente. Fanale, afferrato il mio sguardo, scivolò fino a me. «Profeta, predici! Mi straccerai a carte o no?» «Ti straccerò, se mi metterò a giocare. Ma non ti straccerò, perché non ho intenzione di giocare.» «Anche se giochiamo senza barare?» «Non giocherò a briscola!» «E a che cosa allora?» «A niente!» «Profeta, perché spari cazzate? Sei stato tu a spiattellare di essere stato cuccato dopo il Casinò. Come, giochi con tutti i fottuti minchioni, e noi ci schifi? A proposito, l'hai già avuta la residenza o no?» Mi sentii raggelare. La "residenza" era un rituale di iniziazione per chi entrava a far parte della comunità. Ne avevo una maledetta paura. Non mi andava affatto di dovermi scaraventare dalla terza fila delle brande sui pezzi degli scacchi disposti di sotto, solo per dimostrare che avevo coraggio, o d'infilzarmi un occhio con quanta forza avevo, sperando in un miracolo. Già all'accettazione mi avevano spiegato che, dopo i trent'anni, "la residenza" non te la davano più e, passati i primi giorni, mi ero tranquillizzato, scordandomene del tutto. Adesso Fanale ritirava in ballo la questione. Guardai speranzoso Panzer. Ora era tutto nelle sue mani. Panzer, dopo averci pensato su, disse: «Cos'è, Fanale, ti sei bevuto il cervello? Perché rompi il cazzo? Dopo i trenta, nisba, non si fa. E tu, Profeta, devi rispettarlo, Fanale. Se sei riuscito a fare entrare della grana, allora fatti una giocata». Ormai ero in trappola. Secondo le regole ufficiali non potevano "darmi la residenza", ma dopo l'uscita di Panzer era impossibile rifiutarsi di giocare a carte. L'unico modo per protestare contro la decisione di Panzer era lamentarsi con il Sorvegliante. Il che significava: punto primo, guastarsi irrimediabilmente i rapporti con Panzer; e, punto secondo, ricevere, con al-
tissima probabilità, un rifiuto dall'istanza superiore. Capii che bisognava coinvolgere nel gioco sia i detenuti comuni sia i capi (primi fra tutti il Sorvegliante e Sostegno), cercando di ottenere regole il più possibile corrette. Sapevo che battere a carte un novellino era un merito, per un balordo che aspirava al potere. E Fanale si dava parecchio da fare per ingraziarsi i capi e cambiare il proprio status in quello di capoccia. Questo significava che avrebbe fatto tutto il possibile per farmi fuori. E gli altri balordi avrebbero fatto il tifo per lui. Perché lui era uno di loro, mentre io, in fondo, ero un estraneo. Dopo aver riflettuto nella microfrazione di tempo concessami da Fanale, per la prima volta maledissi la mia abitudine di andare al Casinò. Era chiaro che se fossi riuscito a non far fuori i trecento dollari mandati da Anton chiudendo anche il gioco, avrei dovuto ringraziare Dio e la sorte con parole e atti mai conosciuti in tutta la mia vita. Dall'insano luccichio negli occhi di Fanale, capivo che si stava preparando un vero spettacolo. E gli spettatori, che, come me, lo avevano subodorato, si avvicinavano. La noia infernale del carcere costringe a inventare passatempi altrettanto infernali. A poco a poco ci accerchiarono. Fanale propose di sederci al tavolo da pranzo e fece finta di allontanare gli altri, anche se era evidente che la loro attenzione lo lusingava. Il mio umore non m'induceva a essere fiducioso. Sentivo di voler perdere il più in fretta possibile senza rimetterci troppo sangue, ma mi rendevo conto che era da pusillanimi e che era venuto il momento di affrontare la situazione. Guardai Fanale. Mescolava concentrato le carte. Finalmente mi venne un'idea saggia. Avevo bisogno di un consulente. Di un secondo. Ed era meglio che non fosse un capoccia, altrimenti si sarebbe sentito in dovere di difendere l'onore di Fanale. Ma, oltre a ciò, mi serviva uno che conoscesse bene le regole e che godesse di una certa autorevolezza presso "i bravi ragazzi" della cella. Decisi di prendere l'iniziativa. «Compari,» dissi «io sono appena arrivato. Conosco male le regole. Ma si vive per imparare. Ho bisogno del vostro aiuto. Chi di voi è disposto ad aiutarmi, onestamente, senza fregarmi?» «Il Profeta è un ragazzo in gamba. L'aiuto io.» Guardai chi aveva parlato. Il suo nome era Koba. Di corporatura massiccia. Rosso di capelli. Con la faccia butterata e grandi occhi castani. Indossava una tuta sportiva nuova, anche se faceva talmente caldo che tutti andavano in giro in mutande. Il giorno prima mi aveva raccontato di essere il figlio di un ladro georgiano molto rispettato dalla mala. Ci eravamo scam-
biati gli indirizzi per comunicare in caso di necessità. Io gli avevo dato quelli di mia madre e di Maša. Koba sembrava uno regolare. Certo era giovane, ma suo padre poteva ancora insegnargli molto. Anche se i ladri vivono di rado con i propri figli. La vita di famiglia non rientra nei loro schemi. «Grazie, Koba! Dimmi, posso scegliere io il gioco?» Koba si sedette accanto a me. «Dipende da come vi mettete d'accordo.» «Mettiamoci d'accordo. Sarò io a scegliere ogni volta il gioco che vorrò.» «Non vale» disse malignamente Fanale, senza aspettarsi resistenze da parte mia. «Tu tirerai fuori il tuo bridge e passeremo mezza giornata a cazzeggiare.» «E tu il tuo tresette e la tua briscola chiamata o chissà cosa e passerai mezza giornata a insegnarmeli.» «Allora una volta tu e una io, a turno. Uno decide la posta e l'altro il gioco. Ma, tanto per non fare scherzi, se almeno cinque ragazzi conoscono il gioco lo giochiamo, se no, tu sei fuori.» Gettò uno sguardo al pubblico. La cella scoppiò in una fragorosa risata: bisognava assolutamente rispondere con un'altra battuta. Ormai conoscevo lo humour locale. «Bene, Fanale, allora cominceremo dal tuo buco del culo. Da ventun bigliettoni.» La mia battuta li fece ridere ancora più forte e più a lungo. Qualcuno si mise persino ad applaudire. Tra i miei punti di forza avevo sempre annoverato la capacità di sfottere gli altri, e a scuola avevo sempre avuto seri problemi per questo. In prigione cercavo di essere estremamente cauto, perché, come in ogni società chiusa e piena di tabù, l'uso del linguaggio era una cosa estremamente seria. Ma ora dovevo difendermi. «Per il buco del culo me la paghi» disse arrossendo Fanale. «Ma, buco del culo a parte, la mia posta è di cinquanta verdoni. E il banco lo tengo io.» «Koba, chi deve tenere il banco?» «Giù gli assi, e tu fagli cacciare i verdoni!» «Non si discute. Cambiameli, capo.» Fanale mi gettò una banconota da cinquanta dollari che sembrava finta. Nella penombra della cella era impossibile appurarlo. Decisi di non forzare la situazione e la cambiai in silenzio. Fanale distribuì gli assi (uno toccò anche a me) e il gioco cominciò.
La prima partita la vinsi io. La seconda pure. E anche la terza, sebbene Fanale mi avesse costretto a giocare a tresette, gioco di cui conoscevo poco le regole. Poi io proposi il poker e persi per mia stupidità. Quindi giocammo due mani a briscola. E vinsi di nuovo. Avevo quasi cinquecento dollari. Anche se, per la verità, avevo sempre di più l'impressione che fossero falsi. Fanale era paonazzo e diceva in tono offeso che lui giocava senza barare, che non era lì a cazzeggiare e che io lo volevo fregare. Come un giocatore onesto possa fregare un baro che ha truccato il mazzo questo è tutto da vedere. Perciò decisi di fare una pausa. «Fanale,» gli dissi «su, mettiamoci d'accordo! Io non giocherò a credito, e nemmeno tu.» «Cos'è, te la fai addosso? Ma a me non me ne sbatte niente!» disse, alzandosi in piedi di scatto. «No,» dissi, spaventandomi un po' «te ne sbatterà...» M'impappinai. Non si riesce mai a capire quali parole possano urtare in prigione. Soprattutto se uno va in cerca di un pretesto per offendersi. Ma io non ero disposto ad accettare di giocare a credito solo per far finire il gioco il più presto possibile. E poi ricordavo perfettamente la scena del poker a tre carte in uno dei miei film preferiti, Lock, stock and two smoking barrels, interpretato da Sting. E, soprattutto, ricordavo come finiva. Solo che con me non c'erano né quattro amici, né il papà di Sting. Temevo molto che mi costringessero a giocare a credito. Non avevo il minimo dubbio che Fanale volesse perdere per fare aumentare la posta. Il suo tono infastidito era falso e una volta, fingendo di sbagliarsi, aveva calato un carico da dieci. Per un baro della sua classe era un errore imperdonabile. Se non l'avesse fatto, la vittoria sarebbe toccata inevitabilmente a lui. Ma Fanale non aveva ancora deciso di recitare la parte dello psicopatico e perciò disse conciliante: «Io e te siamo due ragazzi corretti. Io credo a te e tu credi a me». Koba (e tutti gli altri intorno) avevano ormai capito di che cosa avevo paura. Avevo conquistato il loro rispetto quando gli occhi non mi erano brillati per la vincita e avevo continuato come se niente fosse. Per rafforzare il mio credito, decisi di fare una mossa a sorpresa. «Intanto, una parte della mia vincita va alla cassa comune. Non si può mai sapere quando i verdoni finiscono e i ragazzi hanno bisogno di un cucchiaio di legno.» Con queste parole rastrellai quattrocentocinquanta dollari (banconote di Fanale, ovviamente) e le consegnai al Timoniere, il tesoriere della cassa
comune. Speravo che la cosa producesse un effetto dirompente. Dei dollari falsi nella cassa comune. Fanale afferrò al volo il problema. «Fai quello esperto nella legge della mala, adesso?» Non cercava più neppure di nascondere la sua furia. Inaspettatamente mi venne in soccorso il Sorvegliante. L'umore della cella cambiava gradualmente in mio favore. Non che me ne rallegrassi più di tanto, perché sapevo che, per l'implacabile logica gesuitica della prigione, dei soldi falsi potevo essere incolpato anch'io: in fondo ero stato io a metterli nella cassa comune, e non Fanale. Ma avrei avuto facilmente un alibi e, per una questione simile, ci si poteva rivolgere alle istanze superiori. Fanale si zittì, senza ulteriori provocazioni. Decisi di battere il ferro finché era caldo. «Ragazzi,» attaccai «su, dite la vostra. Io di altri verdoni, oltre a questi, non ne ho. Farò credito a Fanale. Gli darò modo di rifarsi in tutti i sensi. Ma non voglio impelagarmi nei debiti. Non potrei pagarli.» «Ascolta, non preoccuparti. Nessuno ti costringe a giocare a credito. L'hanno visto tutti che lui fa apposta a perdere per farti diventare nervoso. E va bene. Ma tu gioca. Gioca per te» disse Koba. Continuammo a giocare. Fanale non si lamentò e non imprecò, né cercò di accattivarsi i presenti. Quando finì i soldi, io in silenzio allungai al Timoniere altri duecento verdoni. «È tutto?» chiesi, con la segreta speranza di ottenere una risposta affermativa. «No» replicò Fanale, sornione e maligno. «Devo rifarmi.» «Giocando a credito?» chiesi io con voce bonaria. «No! Dopo le tue ciance ci sputo sopra, al tuo credito. Mi gioco un brillante, cioè una Stellina.» Mentre diceva questo, una piccola pietra luccicante apparve fra le sue mani. La mise sul tavolo. Tra i detenuti si udì un mormorio. «Koba» dissi io. «Dalle tu un'occhiata, per favore, perché io di questi affari non m'intendo.» Koba prese la pietra, la portò alla luce, la rigirò a lungo tra le dita e poi tornò, stringendosi nelle spalle: «Non saprei, la Stellina mi sembra vera. Però non posso garantirlo». La situazione era tesa. Koba mise la pietra sul tavolo. Fanale la prese in silenzio, poi afferrò una bottiglia vuota di vodka, con la pietra incise tutt'intorno il collo della bottiglia e con un colpo deciso lo staccò. Poi mi
allungò una seconda bottiglia e la pietra. Presi la pietra, sentendola fredda nella mano, e ripetei il gesto di Fanale. Il collo della seconda bottiglia si staccò con lo stesso rumore. «È una pietra preziosa» si levò a un tratto la voce di Panzer. «È tagliata. E tu, Profeta, cosa offri in cambio?» «Io non m'intendo di pietre preziose. Ho sentito parlare dei diamanti artificiali. Ma non so se taglino o no il vetro. Se la pietra è autentica, allora deve valere molto. Moltissimo.» La rigirai tra le mani. Definirne il peso era impossibile. La misura era quella di un grosso pisello. Persino nella penombra della cella appariva straordinariamente bella. Mi avvicinai alla luce per prendere tempo. La pietra aveva un'immensa quantità di sfaccettature. Pensai che un diamante artificiale non sarebbe stato cesellato così finemente. Avrebbe potuto valere anche diecimila, ventimila o forse cinquantamila dollari. Era inutile chiedere a Fanale dove l'avesse presa. Era venuto il momento di decidere. Tornai verso gli altri. «Non c'è nulla che potrei offrire in cambio di una cosa del genere, se è autentica. I verdoni che mi ha dato Fanale però non mi convincono.» Sollevai alcune banconote e le porsi a chi desiderava esaminarle. Fanale s'irrigidì. «Tu di', piuttosto, che cosa offri in cambio. Con i verdoni di Fanale ce la vediamo noi.» Nella voce del Sorvegliante si coglieva una sfumatura d'irritazione per il mio tentativo di sbrogliarmela. «È tutto. Non ho nient'altro da offrire.» Era venuta l'ora di Fanale. Si alzò, gonfiando il petto, e cominciò a parlare, non più rivolto verso di me, ma verso tutti: «È troppo poco. Ti sei seduto per giocare e ci hai dato a bere di poter pagare. E cosa scuci in cambio della Stellina? Basta, si fa all'americana, decide chi vince! Apposta gli avevo chiesto all'inizio, se secondo lui lo battevo oppure no. Ma ha sbagliato. Ha detto che non riuscivo a batterlo. Bel Profeta del cazzo». La cella tuonava. Una parte dei detenuti discuteva del comportamento di Fanale. I ragazzi si stringevano nelle spalle, come a dire che per il momento si procedeva secondo le regole. Fanale aveva il diritto di chiedere la rivincita, la sua posta era buona. Se non avevo niente da offrire, erano problemi miei. Fanale doveva accrescere il suo prestigio. Era normale. La durezza, l'oltranzismo, ma soprattutto la consapevolezza del punto a cui può arrivare una situazione, erano valori fondamentali nella vita carceraria. Non altrettanto la nobiltà d'animo e il fair play. Senza dire una parola, guardai verso il Sorvegliante. Lui annuì in segno
di solidarietà. «Fanale ha diritto di riprendersi la sua rivincita. Tutte e due le poste vanno bene.» Mi sentii come una preda. Mi avevano accolto con tanto calore in cella, mi avevano sostenuto, e adesso mi svendevano al primo balordo degenerato, al primo baro. E lui, il bastardo, non aspettava che questo momento. Effettivamente fare carriera sulla pelle di poveri barboni non era una cosa da duri. Mentre sulla pelle del Profeta, l'uomo che in una settimana s'era conquistato il rispetto dei compagni di cella, assicurava molte prospettive di successo. La voce sarebbe circolata. Avrebbero detto che da noi c'era uno tosto, Fanale, che aveva fregato un fesso e l'aveva fatto fuori e che ora rischiava grosso. «Koba,» dissi, rivolgendomi a lui «ma non sarebbe contro le regole?» Koba schioccò la lingua e alzò le braccia, in segno di solidarietà. «Scegli il tuo gioco e gioca. Dio ti aiuterà, se lo vorrà.» «Va bene» feci io tetro. «Posso scegliere qualunque gioco, purché lo sappiano giocare almeno cinque di noi, vero?» «Vero» confermò beffardo Fanale. «Scelgo gli scacchi.» Un mormorio percorse la cella. «Così non va» si precipitò a dire Fanale. «Perché no?» disse pensieroso il Sorvegliante. «Rientra nelle regole.» Evidentemente non gli sorrideva l'idea di essere accusato di aver violato le regole. Gli scacchi andavano bene. Quasi tutti in cella giocavano a scacchi, e bene. L'abbondanza di tempo libero trasformava i detenuti in splendidi scacchisti. Anche Fanale giocava a scacchi. Io invece avevo giocato l'ultima volta due anni prima con il computer. E poi, in preda all'ira, avevo eliminato il programma, perché era l'unico gioco in cui non riuscivo a battere il computer. Gli scacchi non avrebbero risolto il problema della mia sopravvivenza, ma mi avrebbero dato una chance in più. «Oh, me ne sbatto» disse, dopo averci pensato su, Fanale. «Ti vincerò anche a scacchi.» «È probabile» dissi io. «Ma usando la testa stavolta.» Koba, galvanizzato dalla situazione, si precipitò con la scacchiera. Effettivamente, i tempi descritti da Solzenicyn e Salamov, quando i detenuti usavano degli scacchi fatti con il pane, erano ormai trascorsi da un pezzo. La scena era stupefacente: Fanale e io stavamo seduti l'uno di fronte all'altro. Tutt'intorno a noi, sospese sulle brande, c'erano almeno cinquanta persone. Per chi non aveva trovato posto, in un altro angolo della cella era
stata predisposta una scacchiera su cui sarebbero state duplicate le mosse. Il Sorvegliante e Sostegno sedevano sugli sgabelli accanto a noi. Qualcuno aveva portato un ventilatore perché si moriva di caldo. L'ultima volta che avevo giocato in pubblico risaliva a una ventina di anni prima, al palazzo dei Pionieri. «Chi apre il forno per blaterare, ha perso» disse Sostegno in tono ispirato. «Qui ci si gioca la vita.» Tutti tacquero in segno di rispetto. «Ma perché, Fanale si gioca la vita?» chiesi sottovoce a Koba, mentre disponevo i pezzi. «Sì, perché se perde, non gli resta da vivere comunque. Non potrà mai risarcire la cassa per i soldi taroccati. E, se vince, deve dare comunque la Stellina. Panzer non lo lascerà in pace, l'ha visto che Fanale barava.» Mi sentii rinascere. Provavo una gioia molto poco cristiana. «Quante partite giocherete?» chiese Panzer. «Una» risposi, sapendo che ero molto più bravo a iniziare le cose che non a concluderle. «Be', andate con Dio!» Mi toccò il nero. Giocammo l'apertura. Alla sesta mossa capii che Fanale aveva paura di attaccare. Evidentemente la canaglia aveva fiutato la posta. La partita si presentava difficile, forse per la tensione. Fanale era pallido e aveva le gambe violacee. Quando vidi che era in netto vantaggio, decisi che era venuto il momento di chiudere la partita e avanzai con i pedoni dell'ala sinistra. Fanale cercò di difendersi con il cavallo. I pedoni, muovendosi in coppia, scacciarono il cavallo. Allora Fanale fece intervenire in aiuto del cavallo il re. Il percorso del re era lungo. Mossi i pedoni dell'ala destra, avanzando minaccioso da entrambi i lati. Ora Fanale non aveva più possibilità di difesa. La situazione era critica. Temevo che a Fanale cedessero i nervi e che si mettesse a fare qualche scenata. Ma Fanale, evidentemente a terra, muoveva meccanicamente il suo re e ben presto la regina fu nelle mie mani. Fanale fece finta di non averlo notato. Alzai la testa e lo scrutai. Non reagiva minimamente. Allora decisi che non avrei infierito e gli diedi scacco matto in quattro mosse. Fanale si alzò in silenzio e raggiunse la sua branda. Sentii che più discretamente mi comportavo, meglio sarebbe stato per me. «Aspetta un po', Fanale» disse Panzer.
Non avevo alcuna voglia di assistere a quella scena. Ora l'epicentro dell'attenzione s'era spostato su Fanale e Panzer. Approfittando di ciò, presi il brillante e andai verso il lavandino. Non sapevo dove Fanale avesse tenuto per tutto il tempo quella pietra per cui per poco non perdevo la vita, e così decisi di lavarla bene. Mi sembrò che il sapone non bastasse a disinfettarla e la immersi in un boccale di acqua bollente. Se era un brillante vero, non gli avrebbe fatto niente. E così fu. Ora potevo nascondere la pietra anche in bocca, l'ideale nel caso di una perquisizione. Se gli sbirri mi avessero ispezionato anche lì, l'avrei semplicemente inghiottita. Nel frattempo notai che la folla intorno a Panzer e a Fanale si era diradata. Mi avvicinai a Koba e gli chiesi come fosse finito il regolamento di conti. «Panzer l'ha condannato.» «E ora cosa gli succederà?» «Stanotte Fanale s'impiccherà.» «E se non ce la fa?» «Allora di mattina ci penseranno loro.» «E se lui avverte gli sbirri?» «Se chiede di "cambiare aria" o si becca subito una coltellata o gli mandano un giustiziere a farlo secco. Sono loro a decidere tutto. Lui non esiste più. Sono stati i nervi a tradirlo. Non si può giocare in quel modo...» La serratura della porta scattò. «Mezenin!» «Presente!» «Fuori!» La seconda volta in un giorno. «Con le valigie?» «Col culo. Ah-ah-ah!» «Koba, se succede qualcosa, manda una lettera a quell'indirizzo...» «Non preoccuparti!» Senza farmi vedere mi ficcai il brillante in bocca, sotto la lingua. Non mi dava quasi fastidio. Speravo di non inghiottirlo. Sgattaiolai tra le file di brande, uscii dalla cella e, senza aspettare l'ordine, misi le braccia dietro la schiena e appoggiai la faccia al muro. E in quel momento sentii fino a che punto mi aveva stancato quella partita a scacchi. Le gambe mi cedevano. Capitolo Quindici
Entrai nell'ufficio del giudice istruttore con la Stellina in bocca e un'incomprensibile, indefinibile leggerezza nel cuore. Il giudice, col volto preoccupato, come quello del riccio che si perde nel bosco nel famoso cartone di Jurij Norstein Il porcospino nella nebbia, continuava a redigere i suoi atti, verbali, protocolli, mentre io lo guardavo con affetto, gratitudine e deferenza. "Tra qualche minuto sarò completamente libero. E uscirò con la coscienza pulita e la Stellina. Non avrò il permesso di espatriare, d'accordo, ma tanto non è che debba andare chissà dove. Negli ultimi tempi, a dire il vero, mi sembra di aver viaggiato abbastanza. Per prima cosa, senza aspettare Anton, tirerò fuori Matvej dal manicomio. Poi tornerò al lavoro e farò i conti con Volpina. La mia vendetta sarà terribile: la vergogna e l'infamia la perseguiteranno per tutti gli anni che ancora le restano da vivere e la Stellina servirà a risarcirmi finanziariamente della perdita di una preziosa collaboratrice. Poi porterò via Maša a German. Sentivo che il nostro rapporto stava cambiando negli ultimi tempi. E il mio gesto segnerà la svolta di tutta la nostra storia. La battaglia di Stalingrado. Libererà Maša da tutti i suoi reali e immaginari ostacoli. Poi Anton tornerà dall'America e ci ritroveremo tutti e sei insieme, Anton e Dina, Matvej e la sua Ol'ga, e io e Maša per brindate alla vittoria." Chissà chi dovevo ringraziare per questa vittoria, Anton oppure Ol'ga? O semplicemente la provvidenza, che aveva ristabilito la giustizia? Certo non ero stato io a uccidere Starikov. Il colpo, che gli aveva quasi staccato la testa dal collo, doveva esser stato inferto da una persona alta il doppio di me e di corporatura molto più robusta. E, probabilmente, sobria. Con una buona coordinazione. Anche se mi chiedevo chi potesse essere stato. Fu il giudice a distogliermi dai miei pensieri. «Lo vede che la nostra polizia non sa lavorare! Se noi non avessimo esaminato la sua bella camicia, sarebbe rimasto in prigione chissà per quanto tempo ancora...» «E cosa è stato rinvenuto sulla camicia?» «Del succo di pomodoro. Aveva bevuto del succo di pomodoro?» «Sì... Devo aver bevuto del Bloody Mary. Non ricordo bene.» «Eh, non deve bere più a quel modo. Un minuto... Non ho qui nessun verbale per i suoi effetti personali. Le avevano ritirato qualcosa quando l'hanno arrestata?» «No, niente. Mi avevano preso solo la camicia, ancora a casa. Ah, sì... le chiavi! Le chiavi dell'appartamento.» Nel penitenziario ci vollero cinque minuti per ritrovarle, pur non aven-
dole registrate nel verbale. «Firmi qui. E anche in questi tre punti, dove ci sono i segni. E ancora qui e qui. È tutto. Si presenti al suo commissariato di zona domattina. In seguito dovrà recarvisi tutti i lunedì e i giovedì. E naturalmente presentarsi agli interrogatori, a discrezione del giudice. Si ricordi che non andare al commissariato nel giorno stabilito è un grave reato. Ha domande?» «Posso telefonare per farmi venire a prendere?» «Ma impiegherebbero troppo tempo ad arrivare e noi qui non sappiamo dove tenerla.» «Non potrei tornare in cella a salutare tutti? Non è molto civile andarsene così...» «Mi prende in giro, signor Mezenin? Per trasmettere dei messaggi? No, è vietato. Eccole i documenti e auguri!» Il giudice premette un pulsante e dopo tre minuti, scortato da un sergente, raggiunsi l'uscita, mostrai i documenti e uscii da un cancelletto metallico. Mi guardai intorno. La città viveva la sua vita di sempre. Un tram mi passò accanto. Mi voltai a guardare la prigione. Era un luogo come un altro. Palazzine gialle dietro un muro di cinta. In Russia un edificio su due è così, protetto da un muro. Feci un cenno di saluto e mi avviai verso la stazione del metró Sokol'niki. Controllai i soldi che mi ero arrischiato a portar fuori dalla cella, gli ultimi dieci dollari di Anton rimasti dopo le partite con Fanale. Non so perché, ma avevo voglia di un gelato. Mi avvicinai a un chiosco. La ragazza dalle labbra grosse sorrise alla vista dei dieci dollari. Mi diede un gelato al fiordilatte e il resto in rubli. Tutto era tornato al suo posto! Io ero io, e il mondo era il mondo. Il brillante che tenevo in bocca, la mia Stellina, non mi dava nessun fastidio mentre mangiavo il gelato. Raggiunsi lentamente l'incrocio per prendere un taxi. Avevo percorso non più di una decina di passi quando alle mie spalle si materializzò silenziosa una jeep nera. Lo sportello si aprì e delle mani vigorose mi afferrarono per le spalle, mi sollevarono e mi sistemarono nell'auto con una rapidità e una decisione tali che non feci neppure in tempo a esclamare «Ah!» e a buttare il gelato. Le mie avventure demenziali e insensate continuavano. Mi guardai intorno. Due bestioni palestrati in abito scuro e cravatte dozzinali, assolutamente inadeguati dato il clima estivo, mi stringevano tra i loro corpi e guardavano fisso dinanzi a sé. Io, indispettito da tanta disattenzione nei
miei confronti, continuavo a mangiare il gelato, in attesa delle spiegazioni del caso. Per qualche minuto in macchina regnò il silenzio. Raggiungemmo la circonvallazione e il quartiere Krasnosel'skij. Avevo finito il gelato. Uno dei due bestioni prese dei grossi occhiali scuri e me li infilò con un certo riguardo. Dietro, sulle stanghette, udii il rumore di un scatto, che mi ricordava quello ormai familiare delle manette. Gli occhiali erano del tutto opachi e impedivano la visuale a 180 gradi. Ostentai indifferenza. Imboccammo il terzo anello della circonvallazione e, dal momento che non dovevo sapere dove mi portavano, mi sforzai di scoprirlo. Ma col cavolo. Dopo parecchie finte sui raccordi, mi disorientai del tutto. Una cosa era chiara: non avrei mai raggiunto casa mia. E allora, all'improvviso, provai un'irresistibile nostalgia per il mio appartamento. Non per Maša. Né per mia madre. Né per gli amici. Ma per il mio piccolo appartamento. Mi sembrò che fosse del tutto abbandonato e che sentisse la mia mancanza. In macchina continuava a regnare il silenzio più assoluto, dal momento che, sentendomi depresso, avevo deciso di gareggiare anch'io con i bestioni nel restare muto. Al quarantesimo minuto vinsi io. Il Pajero si fermò. Il primo bestione disse: «Arrivati», e aprì lo sportello. Scesi a fatica. Mi introdussero in un edificio. Ogni volta che incontravamo un gradino o una scala, uno dei bestioni mi afferrava per le spalle, sorreggendomi. Entrammo in un ascensore e scendemmo. La discesa durò in tutto un minuto. Calcolai approssimativamente che la velocità media dell'ascensore non doveva superare i due metri al secondo e stabilii che dovevamo trovarci a una profondità di circa cento metri. Mi tirarono fuori dall'ascensore e mi tolsero gli occhiali, facendoli scattare pericolosamente vicino all'orecchio. Istintivamente chiusi gli occhi con il proposito di aprirli con cautela. Dalle grandi dimensioni della sala e dalla sua lunghezza, dagli archi a me noti fin dall'infanzia, e soprattutto dalle due gallerie che facevano capolino a destra e a sinistra, capii di essere finito in una delle stazioni meno note del metró di Mosca. Era rivestita di piastrelle beige finemente decorate, con innumerevoli nicchie in cui ardevano piccole candele rotonde. Ma, se anche fossero state parecchie migliaia, le candele non avrebbero mai potuto illuminare adeguatamente la stazione, che sembrava immersa in un'oscurità baluginante.
In fondo alla sala, a destra, vi era un pannello bronzeo con un'aquila a due teste. Ciascuna testa era grande quanto un uomo, se non di più, e in ogni occhio ardevano quattro candele. A sinistra, invece, un'immagine bronzea di Hatshepsut sembrava scaturire direttamente dal muro. Era un'immagine che conoscevo bene, grazie alle mie ricerche in internet. "Gli hat!" pensai. Nella sala si trovavano quindici, venti persone, non di più. Alcuni parlavano tra loro, parecchi stavano in piedi come in attesa (le panchine erano state tolte). Un paio di loro si voltarono verso di noi, perdendo subito dopo qualunque interesse nei nostri confronti. Io rimasi lì come rintronato. Avvertii subito un senso di disagio, come se a un elegante enigma di cui si è già trovata la soluzione si aggiungessero a un tratto nuovi elementi che rendevano tale soluzione inadeguata. Sapevo da un pezzo che esisteva una relazione tra le parole "hat" e "Hatshepsut". Ma c'era qualcosa che non tornava. E ben presto capii che cosa: per ciò che ne sapevo Hatshepsut doveva essere bella... «Fratello Viktor! Cancello numero due!» disse una voce monotona da un altoparlante. Un uomo sollevò la testa e andò in direzione della galleria. Quando ci passò accanto (noi procedevamo verso la galleria opposta), lo esaminai con attenzione. Niente di speciale. Un viso intelligente e un po' stanco. Gli occhiali. Barba e baffi. Fratello Viktor indossava dei jeans e una giacca beige di flanella leggera con grandi tasche, ormai fuori moda. Di più, nella penombra, non riuscii a distinguere. Raggiungemmo la testa di Hatshepsut, girammo a destra e scendemmo per una stretta scala di ferro nella galleria, arrestandoci davanti a una piccola porta scura, come ce ne sono a bizzeffe in ogni tratto del metró di Mosca. Uno dei due bestioni digitò un codice e la porta si aprì. Feci qualche passo all'interno e udii lo scatto della serratura. I due bestioni rimasero nella galleria. Mi ritrovai in un locale piuttosto angusto con pareti, pavimento e soffitto tutti uguali, di una plastica marrone chiaro che imitava il marmo. Nel locale non c'era mobilio. Né tavolo, né sedie, né armadi. E neppure lampade. Come il secondo giorno della creazione, quando Dio aveva già separato le tenebre dalla luce, ma non aveva ancora creato il Sole, la Luna e le stelle. Erano le pareti a rischiarare la stanza, o meglio la stanza prendeva luce dalle pareti. Mi guardai intorno e a un tratto capii che la porta da cui ero entrato era scomparsa e al suo posto risplendeva incredibilmente una parete liscia color marrone chiaro. Non si vedevano neppure impianti di condi-
zionamento, anche se l'aria era fresca. A causa del fatto che tutte le superfici erano assolutamente identiche e per di più rilucenti, la testa aveva cominciato a girarmi. Decisi che dopo la prigione era venuto il momento di infischiarsene di tutte le farse degli hat, così mi sedetti sul pavimento e mi accesi una sigaretta. L'idea che una forza oscura - la stessa che aveva ucciso i miei amici più cari, mi aveva costretto a far pubblicare sui giornali parole deliranti, aveva sgozzato Starikov e poi mi aveva fatto rinchiudere in prigione, tirandomene fuori e costringendomi a scendere sottoterra - potesse disporre ora di me non mi spaventava più, anzi semmai mi irritava. Non avevo la minima paura. Se avessero voluto uccidermi, l'avrebbero già fatto. E per di più da un pezzo. Se questi squilibrati avevano potuto affittare una sala abbandonata nel metró di Mosca, significava che avevano gli agganci giusti col potere. Io però che diavolo c'entravo? E perché cazzo mi ero arreso? Mi misi a tempestare di pugni il pavimento luminoso. I colpi erano quasi impercettibili. Allora cercai di spegnere la sigaretta sul pavimento. La sigaretta si spense, segnando appena la superficie di plastica. Questo mi fece infuriare ancora di più. Avevo l'impressione che, se non avessi sentito qualche suono reale, avrei perso il controllo. La cosa più semplice era emettere dei suoni con la propria voce. Perciò mi alzai in piedi di scatto e presi a gridare con quanto fiato avevo in gola: «Teste di cazzo, cosa volete da me? Non ho paura di voi! Mi sentite, bastardi, non ho paura di voi! Eretici fottuti, cosa volete?». Durante il breve corso all'accademia carceraria avevo imparato che in alcuni casi bisognava dimostrare al sistema di essere pronti a combattere fino in fondo. Cioè dimostrare il proprio sangue freddo. Il corso contemplava persino qualche legittima forzatura. «Le conviene calmarsi, fratello Iosif.» Voltai ancora una volta la testa per persuadermi che, così come per la luce, non esisteva alcuna fonte visibile di quella voce. Per la sua monotonia non disgiunta da una nota stridula mi sembrò di averla già udita. Con una voce simile doveva essere impossibile ridere. Suonava del tutto naturale, come se non fosse deformata da impianti acustici. «E tu chi sei, il padrone della pista di pattinaggio? 23 » 23
Un pescatore, esperto di pesca nel ghiaccio, siede, tutto imbacuccato, sul suo seggiolino pieghevole; mentre si appresta a fare un buco nel ghiac-
«Sono Fëdor Fëdorovič Podgorel'cev. Per lei ora semplicemente fratello Fëdor.» Mi sedetti in un angolo, sistemandomi più comodamente, e dissi: «Ah, è lei, Fëdor Fëdorovič! Ma perché ci parliamo attraverso un muro? Un cliente come lei, così importante! Venga, non faccia complimenti!» «Fratello Iosif! La sua propensione agli scherzi di cattivo gusto è indegna di lei. Ora è in uno stato di eccitazione nervosa e perciò, perché non commetta delle sciocchezze per cui poi saremmo costretti a umiliarla, per il momento limitiamoci a comunicare così.» Quell'appellativo di "fratello" mi fece contorcere fin le viscere. «Ed è da molto, di grazia, che siamo fratelli? O forse lei mi è anche padre? E da quale incesto è stata generata questa parentela?» Nel frattempo FF continuava a parlare con la sua voce stridula: «Lei è un hat fin dalla nascita. Ora è venuto il giorno che lei lo sappia». «Bella notizia. Amo far conoscenza con chi si proclama mio parente. Soprattutto se è molto più ricco di me. Negli ultimi tempi ho accumulato un po' di domande per lei. Avrebbe qualcosa in contrario a rispondere?» «Chieda pure, fratello Iosif.» «Com'è strutturata questa sala?» «In che senso?» «Nel senso letterale del termine. Da dove proviene la luce, da dove provengono i suoni, dov'è l'impianto di ventilazione? E, considerando che lei con ogni probabilità mi sta vedendo e ascoltando, dove sono collocate le videocamere e i microfoni? E ci troviamo davvero in un metró?» «Le pareti sono di plastica semiriflettente. Ma non ha delle domande più essenziali?» «La domanda più essenziale è che cosa mi succederà ora. Lei non ha risposto a buona parte della mia domanda. Siamo nel metró?» «Siamo sottoterra. Di più non posso dirle.» Avevo già sentito da lui queste parole. E forse non avrebbe detto davvero niente di più. Ma io me ne infischiavo. Dovevo mantenere e rinvigorire il mio sangue freddo. cio con il succhiello, sente all'improvviso rimbombare una voce: «Non trapanare, qui non ci sono pesci!». Il pescatore si guarda intorno e continua. E la voce, di nuovo: «Non trapanare, qui non ci sono pesci!». Il pescatore si guarda nuovamente intorno spaventato. La voce rimbomba per la terza volta. Il pescatore allora alza la testa e con una vocina flebile chiede: «Ma chi è che parla?». «Sono io, il padrone della pista di pattinaggio.»
Mi riempii la bocca d'aria perché le grida risultassero più forti della prima volta: «Voglio la libertà! Lasciami libero, capo! Mi manca l'aria, mi senti? Chiama il tuo superiore, lupo infame!». Sentivo delle fitte alla gola, per poco non mi soffocai con le mie stesse urla. FF finse che avessi semplicemente chiesto se potevo parlare con i suoi capi: «Io sono un Urei. Occupo il secondo grado nell'ordine della Confraternita. Più in alto di me nella gerarchia c'è solo una persona: il Gesser dei Gesser. Ma lui non può avere niente a che fare con lei». Decisi di riprendere fiato e di riposarmi per qualche istante. Anche FF taceva. Mi accesi lentamente una sigaretta. L'arte della pausa è molto apprezzata in prigione. Ma se ora FF fosse scomparso, avrei dovuto richiamarlo gridando. Perciò decisi di continuare la nostra conversazione. E per di più, per contrasto, con una voce normale. «Va bene, per rispetto verso il suo grado elevato le faccio una concessione. E continuo con le domande. È stato lei a tirarmi fuori dalla prigione?» «Sì.» «Ed è stato sempre lei a farmi rinchiudere?» «Sì.» «E perché?» «In primo luogo, per distoglierla dalle sue ricerche. Era andato troppo oltre. Secondariamente, per allontanarla dalla vita di tutti i giorni, senza doverla ammazzare. E infine, per dimostrarle che mettersi contro di noi è assolutamente insensato, e che si rischia la morte.» «Ne deduco che voi non uccidete i vostri confratelli, vero? È piacevole sapere di potersi finalmente rilassare.» «Il suo amico Il'ja Donskoj era un membro della Confraternita.» «Oh, mio Dio, il Chimico... ma perché l'avete... E Lilja? E Starikov?» «Abbiamo liquidato quelli che ormai non ci servivano più, che avevano smesso di obbedire o che avevano perso la ragione.» «Mi ascolti, non voglio far parte di una Confraternita che uccide indiscriminatamente i propri stessi adepti!» «Lei non è stato liquidato proprio perché potrebbe ancora essere accolto nella Confraternita. Se rifiuta, morirà. Se non sarà in grado di superare il rito di iniziazione, morirà. Se cercherà di violare uno dei giuramenti, morirà. Fratello Iosif, la smetta di fare il buffone. Le burle e gli scherzi la allontanano dalla comprensione dei veri valori della nostra vita.» Mi misi a riflettere su questa frase. Be', sì, anche in chiesa non è consen-
tito scherzare. E già parecchie persone nel corso della mia vita mi avevano consigliato di "essere un po' più serio". Come si fa a stabilire quando ridere è adeguato e quando lo è meno? Umberto Eco ha scritto qualcosa a proposito. «Fratello Fëdor, io cerco di indagare sui veri valori della sua Confraternita già da alcune settimane. Non potrebbe riassumermeli in due parole, per così dire, schematicamente?» «Il compito della vita di un iniziato di terzo grado è realizzare se stesso, recando vantaggio alla Confraternita e alla terra, per occupare dopo la morte terrena un posto adeguato nel mondo parallelo. Il compito degli hat delle alte gerarchie, invece, non spetta a lei conoscerlo.» «La terra? Il mondo parallelo?...» «La terra è il luogo che dobbiamo servire finché ci viviamo. Il mondo parallelo è dove vivremo dopo la morte.» «A esser sincero, non mi sono ancora abituato all'idea della Confraternita che già mi tocca abituarmi alla terra24 . Posso prender visione dei vostri materiali pubblicitari, brochure, depliant? Mi piacerebbe anche dare un'occhiata ai vostri testi dottrinali...» FF sbuffò sprezzante e tacque. Ebbi l'impressione che la seduta di contatto fosse finita e ne fui anche un po' contrariato. Ma di lì a poco le pareti, il pavimento e il soffitto si spensero. Mi predisposi al seguito dello spettacolo. Dopo un secondo intorno a me cominciò uno show delirante. Con l'accompagnamento di una bizzarra, assordante musica - una sorta di Bach in versione techno -, su tutte e quattro le pareti, sul pavimento e sul soffitto vennero proiettati dei video. E, per di più, differenti per ognuna delle sei superfici. Per un po' mi guardai intorno. Cercai di rassicurare me stesso pensando che queste immagini proiettate al contrario non erano certo una novità. Poi fui assalito dalla nausea, come dopo una sbronza violenta. Sentii la voce monotona di un dj sciroccato e sfinito pronunciare: «Deir el-Bahari - calipsol - solitudine - Deir el-Bahari - calipsol - solitudine Deir el-Bahari - calipsol -solitudine». Tornai nel mio angolo e cercai di concentrarmi su ciò che mi veniva mostrato. Le sequenze erano un po' trite. Ai fotogrammi del tempio di Ha24
Un malato incurabile tormenta il dottore chiedendogli di dargli qualche altra medicina. Il dottore, stufo dell'insistenza del paziente, gli prescrive dei fanghi. «Che dice, dottore, mi saranno d'aiuto?» «No, però si abituerà alla terra.»
tshepsut seguivano delle tabelle, ma così minuscole che era impossibile raccapezzarsi. Ammesso che ne valesse la pena. Venivano poi proiettate alcune famose immagini di cronaca, come il crollo delle Torri Gemelle dell'11 settembre, che confluivano in un sofisticato, folle, screensaver dai segni astratti che mutava a ogni secondo e da cui di colpo spuntò la sequenza numerica 22461215. Poi compariva un serpente a due teste, dalle sue due bocche fuoriuscivano delle lettere che andavano a formare delle didascalie chiare e perfettamente leggibili: «obbedienza - procreazione moltiplicazione». Poi, alcune scene di massa molto strane. Forse funerali delle vittime dei bombardamenti in Vietnam. Quindi di nuovo qualcosa che ricordava uno spettacolo ai raggi laser in un'immensa città deserta, senza persone né automobili, decorazioni fantasmagoriche su strade e grattacieli. Quando tutto inaspettatamente cessò, sull'angolo destro di ogni parete, del pavimento e del soffitto restò impressa solo la sequenza numerica a me da un pezzo nota: 22461215. La musica si placò, anche se non scomparve del tutto, mentre la voce del dj cominciò a scandire un nonsense. Hatshepsut. Lei. Hat. Porte. Genotipo. Comunione. Missione. Pericolo. Divina. Sorella. Castigo. Deir El-Bahari. Ha ricevuto. Ha fondato. Governano. Aperti. Soddisfa. Garantisce. Obbedienza. Si definisce. Terra. Deve. Solitudine. Calipsol. Segreta. Confraternita. Per parallele. Nuove. Esigenze. Universale. Procreazione. Con il grado. Esige. Scegliere. Tormento. Solitudine. Conoscenza. Degli hat. Con un mondo. Selezionato. Di controllo. Potere. Moltiplicazione. Iniziazione. Incesto. Fratelli. Morte. Numero. Il filmato terminò. Le pareti s'illuminarono di nuovo di una luce ambrata. Mi sentivo come se il mio cervello fosse stato lacerato in una dozzina di pezzi. Solo che non riuscivo a capire come mai fossi così sicuro che si trattasse proprio di una dozzina. Chiusi gli occhi e provai a meditare su come avrei dovuto vivere ora, dopo quello che avevo saputo.
Ma, chissà perché, mi misi invece a pensare a un viaggio. Un lungo viaggio su un treno rombante con la piattaforma invasa dal fumo, l'odore di carbone della caldaia, l'acqua bollente e il tè servito da una cuccettista quarantenne. Lontano da qui. In una città russa di provincia. Una città con pochi nuovi russi, hat e merde simili dalle idee grandiose. Sentii la voce stridula di FF: «Fratello Iosif, è pronto per il rito di iniziazione?». «Sono stanco. Ho voglia di bere.» «Adesso non è possibile. Presto le verrà portata una pozione speciale grazie alla quale viaggerà per qualche tempo nel mondo parallelo. Se tornerà da là, leggerà a voce alta un testo. Dopo di ciò riceverà ulteriori istruzioni.» «Che significa "se tornerà"?» «Se non è geneticamente predisposto, non tornerà dal mondo parallelo. Ma noi abbiamo avuto un campione del suo sangue e siamo sicuri che l'iniziazione avrà un esito positivo.» Intuii quando avevano avuto il campione del mio sangue. Quando gli agenti mi avevano fatto quel prelievo in prigione usando la siringa con l'ago spuntato. Considerando lo stato della siringa, gli hat potevano anche essersi sbagliati. Ma chissà perché questo pensiero non mi creava alcuna ansia. Avevo smesso di sentirmi in ansia. Una delle pareti della cella si mosse. Io non alzai neppure un sopracciglio. Nella stanza, o meglio, nella cella, entrò FF. Indossava una specie di tunica che ricordava una galabia araba, lunga fino ai talloni. Ai piedi nudi aveva dei sandali in cuoio. In mano teneva un rotolo e una lunga penna marrone, forse d'aquila. Subito dopo la sua apparizione dal pavimento spuntò un tavolo. Guardai FF con aria triste. Mi lanciò un'occhiata severa e mi disse: «Si alzi. Deve leggere e firmare un giuramento». «A voce alta?» «Come preferisce. Deve leggere, firmare e tener fede a quanto sottoscritto. Eviti di commettere un errore per la seconda volta. Non ce ne sarà una terza.» Non mi rendevo bene conto di ciò che stavo facendo, mi misi dietro al tavolo, svolsi il rotolo e cominciai a leggere. Era scritto con una calligrafia minuta. Il mio nome e il mio cognome erano già segnati. «Che cosa significano le parole "Deir el-Bahari" e...» Non riconobbi io stesso la mia voce, tanto era stanca e stentata. «"Deir el-Bahari" è il luogo dove s'intersecano due mondi. "Calipsol" il
mezzo per rimanere temporaneamente nel mondo parallelo. Il pieno significato della parola "solitudine" lo conoscono soltanto gli iniziati di primo grado. Il suo significato è talmente circonfuso di mistero che s'ignora di quali requisiti si debba disporre per poterlo conoscere.» «E che cosa significano i tre voti: obbedienza, procreazione, moltiplicazione?» Non avevo la forza di leggere tutte le spiegazioni. «Obbedienza significa adempiere alle richieste della Confraternita. Procreazione significa generare figli solo con membri della Confraternita. Moltiplicazione significa il raggiungimento del potere e della ricchezza mediante l'aiuto della Confraternita e al servizio di essa.» «E che cosa sono i Collegi? Di che cosa si occupano? E il Collegio delle decisioni definitive e della tutela dei saperi?» «Lo scoprirà dopo il rito di iniziazione.» Erano svaniti qualunque fantasia e desiderio di resistere. "The show must go on", pensai, chissà perché. «Ora legga a voce alta.» FF mi diede un altro rotolo. Lo svolsi e lessi l'assurdo testo, lungo più o meno una pagina. Le frasi erano perentorie, frammentarie. Mi ricordavano il colloquio con i copti nella chiesa del Santo Sepolcro. Lessi con accento russo senza suoni gutturali. FF restò soddisfatto e riprese la carta. «Tra poco arriverà il nostro specialista del Collegio degli effetti biologici. Si affidi a lui.» «Sentirò dolore?» «No. Firmi qui.» Mi sentivo profondamente indifferente, ma mi costrinsi quasi a forza a rileggere il testo. Non ci riuscii. Feci un gesto con la mano e firmai. L'inchiostro era marrone. FF prese il rotolo, senza dire una parola, e si voltò verso la parete, che scorse di lato lasciandolo uscire. Vedendolo per la prima volta di spalle, notai che sulla nuca rasata era scolpito un triangolo. Mi ricordò qualcosa... Dopo un minuto dalla mia stanza sparì il tavolo e comparve al suo posto una poltrona, come quelle che si usano per gli interventi chirurgici. Dalla parete opposta a quella utilizzata da FF uscì un uomo in camice e cuffia bianchi. Aveva un aspetto del tutto umano, quello di un chirurgo di un normale ospedale cittadino. Solo che si trovava in un luogo piuttosto insolito. Salutò affabilmente. «Salve» feci io.
«Salve» rispose lui. «Stia tranquillo, non è il primo, né l'ultimo.» Poi mi legò alla poltrona con delle cinghie speciali. Mani, piedi e busto. Mi sentii come una farfalla della collezione di Nabokov. «Perché lo fa? Potrei avere delle convulsioni?» «Qualcosa del genere. Di solito però non accade.» «E cosa m'inietterete? Del calipsol?» «No. Un composto molto più serio. Un estratto di erbe sudamericane. Non si preoccupi, ci siamo passati tutti.» Toccai la Stellina con la lingua. "Forse farei meglio a inghiottirla prima delle convulsioni, finché non è troppo tardi..." pensai. "Ma, d'altro canto, come faccio a sapere quanto quella sostanza mi altererà la coscienza? E poi, comunque..." Decisi di non inghiottirla. Dopo qualche secondo vidi l'ago avvicinarsi alla vena, bucarla e risucchiarne del sangue. Una nuvoletta rossa irruppe nella siringa e subito si dissolse. Qualche secondo dopo la luce si spense e io cominciai il mio volo. Lasciai il luogo in cui avevo conversato con FF e risalii per un centinaio di metri, e, percependo fisicamente la leggera resistenza del terreno, schizzai in alto come il tappo di una bottiglia di champagne. Dopo essermi guardato intorno, capii di trovarmi sopra la città, di un color sabbia scuro. Volai accanto a uno dei grattacieli staliniani. O il Ministero degli esteri o l'Università. Era come se sulla mia fronte si fosse acceso un faro dalla luce marrone. Capii che potevo orientare il volo con un solo impercettibile movimento delle sopracciglia. Mi venne voglia di volare più in alto e per un istante volai sopra la terra notturna, che aveva lo stesso color sabbia della città. Tutt'intorno vidi dei flussi ondosi, simili a tubature d'acqua dai bordi cangianti che variavano dal rosa all'azzurro pallido. I bordi pulsavano e intuii che si trattava di un canale di comunicazione al quale potevo collegarmi anch'io. Capii che non avevo più nulla da fare sulla terra e penetrai in uno di questi tubi. Di colpo mi ritrovai nel bel mezzo di una strana cerimonia, il cui indiscutibile protagonista ero io, ma da me non si esigeva altro che di muovere quasi impercettibilmente le labbra e fare leggeri inchini. Inoltre ero seduto in modo assolutamente informale, con la schiena appoggiata alla parete. E la scena verosimilmente doveva accadere sottoterra. O, meglio, dentro la terra. L'atmosfera evocava quella di un monastero buddista. Tuttavia, a causa
del buio, non riuscivo a distinguere bene tutti i particolari. La cerimonia si protrasse piuttosto a lungo e, da come si svolgeva, capii che dovevo essere morto. Ma non era così terribile. Avevo già imparato a comprendere quella strana lingua che ricordava il gorgogliante trillo degli usignoli, anzi riuscivo persino a parlarla. Poi ricominciai a viaggiare attraverso i tubi azzurrorosa, assorbito nella comunicazione con qualcuno. Mi ritrovai all'improvviso nel punto da cui si comandava tutto l'universo. Vidi degli schermi sonori sui quali, come sul display di uno stereo, venivano proiettati gli esiti dei comandi; anche questi ultimi venivano trasmessi attraverso dei trilli. Capii che a dirigere l'universo era una forza superiore non antropomorfa. Era difficile dire sotto quale forma si manifestasse. La risposta più corretta sarebbe stata "nessuna". Uomini appositamente addestrati o, meglio, figure che ricordavano quelle umane, controllavano gli effetti dei comandi. Con ciò il viaggio era finito e, dopo esser stato risucchiato nell'ennesimo tubo e aver fluttuato per un po', mi ritrovai nel punto da cui ero partito: sulla poltrona operatoria. Dal mio trip avevo tratto tre deduzioni. Il mondo parallelo, o qualunque cosa s'intendesse con questa definizione, esisteva, e gli hat vi erano di casa; era il mondo in cui finivano le nostre anime dopo la morte fisica e poteva senza dubbio influenzare il nostro. La morte, nel senso comune della parola, invece, non esisteva; qualcosa dentro di noi, qualche metaenergia che possedeva le caratteristiche della nostra personalità, con le sue simpatie e antipatie, la memoria del passato e la cognizione del presente -, sopravviveva in eterno, o perlomeno sopravviveva al nostro corpo per un tempo indefinitamente lungo. Dio, o perlomeno l'entità superiore dotata della consapevolezza e dell'illimitato potere di influire sui due mondi, esisteva davvero. Stavo disteso sulla poltrona, cercando di tornare in me. All'improvviso sfiorai con la lingua il brillante. La sua presenza non mi rallegrò, né mi stupì. Sentivo di aver perduto quasi tutta la mia gamma emotiva. Soprattutto rispetto alla percezione della distinzione tra il bello e il brutto, il bene e il male. La capacità di stupirmi, invece, mi era rimasta. Nello studio si accese una luce fioca. Scorsi la testa del medico. «Come si sente?» «Mi sento...» Avevo le labbra incollate. «Come cambiato...» «Magnifico. Ma adesso ha bisogno di riposare. Le inietterò un potente sonnifero. Quando si sveglierà sarà un uomo diverso.»
Mi svegliai in una normale corsia d'ospedale. O, meglio, in una normale corsia senza finestre. Rimasi per un po' a guardarmi intorno. Poi scorsi sul comodino un pulsante rosso e lo premetti. Entrò il solito dottore. «Come si sente?» «Abbastanza bene, solo con i riflessi un po' rallentati. Che cosa mi succederà adesso?» «Adesso le porteranno la colazione. Poi si cambierà. Ci sono dei vestiti nuovi qui per lei.» Indicò un involto di carta pesante, sigillato. «Dopo la colazione la visiteremo per vedere se è tutto in ordine, al Collegio degli effetti biologici non ha più niente da fare e la manderemo al Collegio dei nuovi fratelli.» «Già,» dissi io «i nuovi fratelli...» Aprii il pacchetto e indossai un paio di jeans neri e un maglione nero. Dopo la colazione (ricotta, uovo sodo e tè) entrò nella mia stanza FF. «Fratello Iosif, le mie congratulazioni! Ha superato il terzo grado d'iniziazione nella Confraternita. D'ora in poi non dovrà più preoccuparsi per la sua incolumità, né per le sue entrate, né per alcun altro problema. La Confraternita si occuperà di tutto.» «Grazie.» «È tenuto a eseguire scrupolosamente tutte le istruzioni. Per lei comincia un periodo di apprendistato, che durerà dai sei mesi ai due anni. In questo periodo lei verrà mandato in un luogo lontano. I nostri uomini l'accompagneranno. Anche lì resterà sotto la nostra sorveglianza e le sarà proibito qualunque contatto con il mondo esterno. Dalla conformità della sua condotta ai nostri princìpi dipendono sia la sua sorte nella Confraternita che la sua stessa vita.» L'ascoltai senza interromperlo. Mi sentivo ancora molto intontito, e anche depresso. Avrei voluto continuare a volare, dato che il viaggio era stato interrotto. Finalmente, mi resi conto della cosa principale. «Fratello Fëdor, ha detto da sei mesi a due anni?» «A me, che ho un grado superiore al suo nella gerarchia, deve rivolgersi con l'appellativo di "padre". Ieri abbiamo introdotto nella sua psiche molti dati e ha bisogno di tempo per rielaborarli. Dovrà dimenticarsi di tutti i suoi vecchi legami. Anzi, di più, dovrà dimenticarsi di averli avuti. Presto anche tutte le sue priorità e i suoi valori cambieranno. Deve essere consa-
pevole di tutta la responsabilità che si è assunto nei riguardi della Confraternita e della terra.» Compresi di aver capitolato. «Che cosa dovrò fare in quel luogo?» «Niente di speciale. Far sedimentare nella sua mente tutto ciò che ha appreso.» «Padre Fëdor, potrò avere dei contatti con i membri della Confraternita laggiù? Ho paura di sentirmi completamente solo...» «No, lei non dovrà sapere chi sono.» «E che cosa penseranno i miei cari, mia madre?» «Che i genitori di Starikov tengono il giudice inquirente sotto pressione, lui la tira in lungo con le pratiche e non le trasmette al tribunale. Che lei è talmente abbattuto per ciò che ha commesso che non se la sente di scrivere, né tantomeno di ricevere le loro visite.» «Capisco, padre Fëdor, se è necessario l'accetto. Anche se mia madre...» «All'inizio sarà difficile, poi passerà.» «Posso farle ancora una domanda, padre Fëdor? Maša ha qualcosa a che fare con tutta questa storia? Altrimenti...» «Maša non può entrare a far parte della Confraternita. Le è proibito intrattenere rapporti con lei pena la trasmissione del suo caso al Collegio delle eliminazioni.» «Solo nel periodo iniziale?» «Per sempre.» «Mio Dio... Ma perché?» «Ci sono ragioni serie.» «Maša saprà sicuramente che mi hanno rilasciato. I carcerati sanno come comunicare con l'esterno...» Ero in uno stato di disperazione tale che per poco non tradii Koba. «Ma padre Fëdor, la prego...» «Sarà un problema di Maša.» Chinai il capo. Lo show era finito. Capitolo Sedici «Ciao, mia carissima Maša! Non so proprio se e quando potrò spedirti questa lettera. Ma se la leggerai, vorrà dire che sarò riuscito a trovare il modo. Da un pezzo non scrivevo una lettera vera, con carta e penna. Spero che
tu riesca a decifrare la mia calligrafia perché mi stupisco persino io guardandola. Oggi è il 25 luglio. Naturalmente avrai già avuto mie notizie da Koba e immagino che sarai in ansia, non sapendo dove sono finito. Mi trovo in un monastero maschile, lo Spaso-Pečorskij, ai confini del mondo, a circa trecentocinquanta chilometri a nordest di Archangel'sk, tra l'Onega e il Pečora. A nord c'è il mar Glaciale Artico e a sud tutto il resto. Immagino ti stia domandando se mi sia convertito o se mi abbia dato di volta il cervello e che cosa ci faccia qui. No, non mi sono convertito. Ma pare che la religione occupi nella mia vita molto più spazio di quanto io potessi supporre. Prima Gerusalemme. Poi Roma. Poi sa il diavolo cosa. I templi sotterranei nel metró di Mosca. Anche il cervello è sempre al suo posto, sebbene sia stato manipolato con gli stupefacenti, l'ipnosi e zombizzato con la PNL e promesse di paradisi terrestri. Ma non ce l'hanno fatta. Dopo la quantità di whisky che ho ingollato la farmatossicologia e la psicologia non possono nulla sulla mia anima. E nemmeno la PNL. Ma dal momento che questi mostri mi hanno braccato, mi è toccato far finta di essere entrato nella loro parrocchia. Mi hanno creduto ma, per ogni evenienza, mi hanno spedito in monastero per un periodo di prova. Uscire di qui e avere contatti con la "Grande Terra" è vietato, pena la morte. O, meglio, una morte insolita e straziante, con sofferenze al di là di ogni immaginazione (la religione a cui mi hanno da poco iniziato lo consente. Come del resto, a ben guardare, molte altre religioni). E mi è stato proibito di avere rapporti anche con te, per sempre, sotto la minaccia di castighi analoghi, anche se non riesco proprio a capire che cosa abbiano contro di te. Comunque, se conti ancora di rivedermi in questa vita, nessuno al mondo deve sapere dell'esistenza di questa lettera. Eccetto, s'intende, mia madre, con cui devi parlare a quattr'occhi in un luogo affollato. Meglio se nel metró con il cellulare spento. Per dirle che sto bene e che per un po' sarò privo della possibilità di comunicare. Il che, in effetti, è la pura verità. E se ti chiede che cosa sarà di me in seguito, rispondile in tono deciso che ho dei piani in mente. Ora, tra l'altro, sono ricercato per omicidio, perché sono fuggito violando l'accordo di non lasciare il luogo di residenza. Il fatto è che negli ultimi tempi mi accade spesso di non tener fede agli impegni sottoscritti. I miei nuovi confratelli si sono impegnati a risolvere ogni mio problema e a garantirmi gloria, ricchezza e sicurezza, sebbene non riesca a capire che bisogno abbia io di tutto questo.
Io ho bisogno di te. Solo di te. Perché ti amo. Ti amo. Anche se, a esser sincero, non so neppure cosa significhi. E comunque, quando a parlare d'amore è un innamorato, allora non gli servono definizioni: sa che il vero amore non esiste. Quasi mai. Ossia esiste, ma molto di rado. Poche volte nella vita. O solo una. O forse nessuna... ma lui lo possiede. E adesso, in questo istante. Capisci, l'amore vero? Non sa a cosa somigli. A niente. Ed è questo che provo per te. Voglio vivere per te. Voglio vivere per farti felice. E voglio stare con te. E starò con te. Farò a pezzi tutti coloro che me lo impediranno. Perché io ti amo. Ma... mio Dio, come faccio a esprimerlo? Eppure devo dirtelo come ti amo. Non so neppure io il perché, ma devo. E non esistono parole. Non ne esistono proprio. Però esiste il sentimento, eccome! Ho capito. L'amore vero è indicibile, ineffabile. Come il Dio del Vecchio Testamento. Ed è questo che conta. Le parole sono soltanto una sublimazione. Anche se felice, autentica a volte. Mi piacciono le sublimazioni autentiche. E negli ultimi tempi ho sempre lo stesso pensiero ricorrente: "Dall'amore nascono figli e tu ora sei solo al mondo". Non sarebbe male per te venire qui con la tua macchina fotografica... Ho appena osservato una scena straordinaria: il cancello con il filo spinato e, dietro, la chiesa con le cinque cupole dorate, i muri di pietra bianca, dalle proporzioni perfette. Sullo sfondo il cielo azzurro, con le nuvole bianche. Ma il primo piano della scena è occupato dal cancello con il filo spinato: duro, di un grigio sporco, molto familiare e concreto. Del resto, non sono il primo a essere rinchiuso contro la sua volontà. Questo monastero, che ha seicento anni di storia, deve la sua fama al fatto che il patriarca Filarete, padre di Michail Romanov, iniziatore della dinastia dei Romanov, fece deportare qui il primo libero pensatore russo, il principe Ivan Chvorostinin, nel 1623. La nostra vita qui è serena, ordinata. Sveglia alle sei, poi la liturgia. Quindi i compiti quotidiani. Per ora a me tocca tagliare la legna. Da questo puoi facilmente arguire che al monastero ci si riscalda con le stufe. Tagliare legna mi stanca terribilmente, ho le mani pieni di calli, ma in compenso mi sto facendo i muscoli. Alle undici e trenta servono il pranzo. Trovo molto divertenti alcuni appellativi qui in uso: il Superiore è l'igumeno, la massima autorità del monastero: alto, canuto, magro, dalla lunga barba. Il Virtuoso è il capo della polizia che vigila sul mantenimento dell'ordine: un uomo tranquillo, discreto, praticamente glabro, ma con una voce degna di Gelsomino nel paese dei bugiardi (quando comincia a urlare temo per i miei timpani). Il Sa-
grestano è il responsabile degli arredi sacri: un tipo piccolo, grigio, vanitoso, con i capelli unti, che non fa che sorridere e non ride mai. Il Cuciniere è il capocuoco, grasso come un verro; il Dispensiere è il direttore del refettorio, con gli occhi che paiono di colore diverso e con l'ulcera; il Garante controlla il corretto svolgimento della liturgia e somiglia a un comunista a cui sia cresciuta a dismisura la barba. Il Maestro di cappella dirige il coro e insiste a coinvolgermi: efficiente ma discreto, stonato come una campana, farebbe meglio a mettersi d'accordo con il Virtuoso. L'Aiuto-sagrestano accende il turibolo, prepara il pane per l'eucarestia, spazza l'altare, sempre affannato, ma in definitiva pigro e anche lagnoso. Le altre mansioni sono chiare fin dal nome: il Cerusico, il Bibliotecario, l'Economo. In tutto siamo una cinquantina, tra novizi e monaci. Dopo pranzo continuiamo i nostri compiti fino alla merenda (verso le tre). Alle quattro e mezza il vespro, fino alle sette. Segue la cena, quindi c'è la processione intorno al monastero. E poi la "ritirata". Ciò significa che devo stare rinchiuso nella mia cella, una stanzetta di due metri per tre il cui unico mobilio è costituito da un giaciglio e da un rustico comodino. In cella si deve pregare e leggere libri che fanno bene allo spirito, dedicarsi a lavoretti manuali, rammendare gli abiti. Ma c'è una valvola di sfogo. Fin dal primo giorno mi sono dato accanitamente allo studio della regola monastica. Secondo tale regola, durante il periodo di ritiro in cella ho il diritto di far visita agli altri monaci e di intrattenermi in colloqui spirituali. Perciò alle otto e mezza vado dal Cerusico. Ha prestato servizio come medico sulla nave scientifica Accademico Sedov e ha attraversato tutti i mari dal Polo Nord al Polo Sud; è uno in gamba, un uomo semplice, allegro e molto buono. In monastero è finito quasi per caso. Durante una tempesta, ubriaco fradicio, era stato spazzato via da un'onda ritrovandosi a sguazzare nell'oceano e aveva promesso a se stesso che, se si fosse salvato, avrebbe preso i voti. Fu tratto in salvo in modo piuttosto prosaico: gli gettarono una ciambella e una cima. Come sia riuscito ad afferrarle, questo Dio solo lo sa. Dal momento che non aveva moglie né figli il monastero gli sembrò una discreta soluzione per la vecchiaia. Quando gli ho detto che ho frequentato anch'io l'Istituto di medicina abbiamo subito fraternizzato. Nella sua cella d'isolamento ha un apparecchio radio, un vecchio transistor. Tutte le sere mi fa baciare la croce e giurare che non lo rivelerò a nessuno, neppure in confessione. L'apparecchio capta solo le onde medie, ma io sono riuscito a prendere la stazione di Archangel'sk, L'onda del Nord, e, neanche a farlo apposta, di sera trasmettono un programma dal titolo L'ora
del rock dove fanno ascoltare vecchia musica rock di qualità: Beatles, Doors, Rolling Stones, Dire Straits, Nirvana. Ma alle dieci in punto devo rientrare nella mia cella e, se vengo beccato dal Virtuoso, tanto peggio per me. A proposito, qui adesso ci sono le notti bianche, ossia il giorno polare. È facile essere beccati. Non esiste alcun mezzo di comunicazione, né posta, né telefono. Corre voce che l'igumeno abbia un ricetrasmettitore portatile, ma che lo usi solo in caso di emergenza. Dicono che una volta al mese arrivi una nave, ma non è che la cosa mi renda felice: a me, in quanto novizio, è proibito qualunque tipo di corrispondenza. Fino a decisione contraria dell'igumeno. E se anche venissi autorizzato, il Superiore legge tutte le lettere prima che vengano spedite. Il villaggio più vicino, composto di cinque case, è a una ventina di chilometri e raggiungibile solo via mare (la taiga è impraticabile, se non d'inverno con le racchette da neve o con le renne). La città più vicina, che dovrebbe avere cinquemila abitanti, si trova a un centinaio di chilometri. E si chiama, guarda caso, Mezen'. Ho sempre sognato di trovarmi in una città battezzata col mio nome in mio onore. Ma temo che possa deludermi. E da qualche parte a nord-est dev'esserci anche un aeroporto militare. Di tanto in tanto vedo decollare e poi atterrare dei bombardieri strategici che si esercitano al lancio sugli Stati Uniti attraversando il Polo Nord. A essere sinceri qui ci si annoia abbastanza, perciò una volta ho deciso di divertirmi un po' imbastendo una disputa teologica e spacciando le mie domande per ingenuità da novizio. È riuscita molto bene. Per le due settimane successive tutto il monastero mi ha guardato con timore reverenziale. Tutto era cominciato quando, alla fine del pasto, mentre servivano la confettura, io avevo chiesto: "Padre igumeno, mi conceda la benedizione di una domanda". "Te la concedo, figliolo!" "Ma perché nella nostra Chiesa celebriamo la messa in una lingua così poco comprensibile come lo slavo ecclesiastico, quando nelle altre Chiese ortodosse, tanto nella greca quanto nella georgiana, e persino in quella latina, si prega nella propria lingua?" Vi fu un momento di silenzio. Dopo aver guardato i monaci, l'igumeno, con un leggero sospiro, decise di accettare la provocazione: "Perché, che c'è di male a pregare nella lingua dei nostri padri e antenati?". "Nulla, solo che i nostri padri e antenati pregavano in russo. E siccome noi preghiamo in slavo ecclesiastico, questo ci impedisce di accogliere in seno alla nostra Chiesa i tatari e gli eschimesi. Il russo ancora ancora lo capiscono, ma lo slavo ecclesiastico per niente." "Non è bene deturpare il nome di Dio per
accontentare degli stranieri, come fanno i luterani." "Ma, padre igumeno, la parola di Dio è stata pronunciata in antico ebraico e in aramaico. E il Nuovo Testamento è stato scritto in greco. Perché lo slavo ecclesiastico dovrebbe essere meglio del russo?" "Non siamo stati noi a scegliere in quale lingua scrivere le preghiere, figliolo. E non spetta a noi mutare questa scelta." Pensai che aveva ragione. Perché l'avevo seccato? C'erano state persone superiori a noi per titolo e grado preposte a questo. E non aveva senso giudicare le loro scelte. Anche se era interessante. Così mi inchinai e ringraziai per il pasto. Stavo per tornar fuori a tagliare i tronchi, quando udii: "Aspetta, figliolo. Ognuno può pregare Dio nella lingua che gli piace di più. Dio capisce tutte le lingue. Se vuoi pregare in russo, prega pure in russo". Mi inchinai ancora una volta e uscii. Dalle ultime parole dell'igumeno si poteva trarre una serie di deduzioni. L'esito logico successivo poteva essere che in fondo i rituali non sono poi così importanti. E là dove i rituali non sono così importanti, neppure la Chiesa lo è. Ciò vuol dire che gli ortodossi, i giudei, i protestanti, i buddisti, i musulmani e i cattolici comunicano con Dio attraverso la lingua e i rituali che vanno meglio per loro. Ne consegue che discutere su quale sia il modo più giusto di professare la fede sia intelligente quanto dibattere su quale lingua sia la migliore, se l'inglese o lo spagnolo. O il russo. Per ciascuno la propria lingua è la migliore. Qui ci dedichiamo alla meditazione. Il tempo non manca e le condizioni facilitano. Negli ultimi tempi continuo a chiedermi a chi gli hat avranno affidato l'incarico di tenermi d'occhio. Così al volo non è facile indovinarlo. I monaci sono gente chiusa. Il Sagrestano e il Cuciniere mi guardano con sospetto. Col Cerusico sono in rapporti così buoni che sarebbe triste se si trattasse di lui. L'igumeno è un uomo di fede e non ha quella ottusità mentale tipica degli hat. Il Sagrestano invece sì. In ogni caso, chiunque sia, mi conviene essere più prudente. E la cosa non mi va. Maša, non so immaginare quando ci rivedremo. Ma sono sicuro che prima o poi ti abbraccerò, altrimenti... Comportati bene. Cerca di sentire la mia mancanza. Il tuo Iosif. P.S.: Purtroppo, non puoi scrivermi. Non dimenticare che per tutti tu non sai neppure dove mi trovo. Si è presentata l'occasione giusta! È arrivata la nave! Domani sarà a Mezen' e lì c'è la posta aerea. C'è ancora gente buona al mondo... Spedisco la lettera e ti abbraccio teneramente. La indirizzo alla tua Tanja, in redazione.
Spero che lei ti faccia avere la seconda busta senza aprirla. Distruggi la lettera! Se invece vuoi conservarla per il nostro archivio familiare, scegli un posto sicuro. Che non sia a casa, né al lavoro. Ti bacio, I.» Spedii la lettera e i giorni tornarono a susseguirsi monotoni, uno uguale all'altro. In accordo con la regola del monastero, trascorrevo le serate in discussioni filosofiche con il Cerusico. Lui mi raccontava della sua tumultuosa vita di ufficiale medico della Marina. Una volta si accese tra noi una disputa sulla Grande Madre Russia. Lui, con aria sconsolata, imputava tutte le disgrazie della Russia al giogo tataro-mongolo, responsabile di aver tenuto il Paese lontano dal progresso e dalla civiltà per trecento anni. Io cercavo di obiettare, stando attento a non offenderlo, perché era un uomo buono e sincero. Gli dissi che Dmitrij Donskoj aveva sconfitto il Khan Mamaj già nel 1380 e che in seguito la Russia aveva subito dai tatari rare scorrerie piuttosto che occupazioni stabili. Gli chiesi di spiegarmi per esempio come mai, se Gutenberg aveva inventato la stampa nel 1450, la prima tipografia era comparsa in Russia solo durante il regno di Ivan il Terribile, centoventi anni dopo. Che c'entravano qui i tatari? «E perché dunque la stampa è arrivata così tardi?» «La Terza Roma, con i suoi dogmi, temeva molto la Prima Roma, ossia il cattolicesimo. E tutto quello che arrivava in Russia dall'Occidente. E lo teme anche ora. Da ciò la necessità di erigere cortine di ferro culturali.» «Ma tu credi davvero che la Russia sia una terra eletta da Dio?» «La Russia è una terra eletta da Dio quanto lo sono l'Inghilterra o la Francia. È una grande nazione, con molte responsabilità. E ora tutti si sentono iperstressati e frustrati. E nessuno sa più cosa fare. Come si può costruire uno Stato senza far diminuire il suo tasso alcolico? La Russia è un paese di bevitori. Tutti i russi sanno che è impossibile diminuire il tasso alcolico.» «Non si può in alcun modo.» «E poi, senza un'idea nazionale, le cose non possono che andare male. A prevalere è il senso di disorientamento, e la tua vita, in quanto membro di un'etnia, perde di senso. Il popolo guarda le partite di calcio e impreca, e poi si sente frustrato. E può vivere bene un uomo frustrato? Eppure il popolo russo ne avrebbe di ragioni, per essere orgoglioso.» «E di che dovrebbe andare orgoglioso? Che cosa ha di buono?»
«L'estrema capacità di sacrificio in nome di certi valori, anche piuttosto astratti, senza entrare nel merito di questi valori e su come vengono utilizzati, perché qui ci sarebbe da discutere. La sua continua disponibilità e abilità ad apprendere. Il quoziente intellettivo elevato, o in generale medio, della popolazione. L'atteggiamento critico e lucido verso se stessi sia come individui sia come parte di un popolo. Anzi, eccessivamente lucido. Con qualche complesso. Il sentimento di compassione verso chi è più povero e sfortunato. L'insopprimibile, instancabile amore per l'analisi, per l'approfondimento. Un tratto distintivo essenziale in un popolo che è disponibile a sacrificarsi e a imparare...» «Già... Se non fosse per la nostra indolenza e la nostra balordaggine a questo punto avremmo dominato i mari...» «E anche per la mancanza di aggressività, l'indifferenza verso i successi altrui e un'altra cosa che non balza subito agli occhi.» «Che cosa?» «Il disprezzo per i legami di sangue e familiari.» «Che cosa intendi dire?» «La famiglia non è ritenuta un valore. Un fratello può essere per suo fratello peggio di un lupo. Così i genitori per i figli. O ancor di più la suocera per un genero, mentre un compagno di bottiglia o un amico possono essere più intimi di un parente.» «Tu sì che sei intelligente. Ma tu ce l'hai un'idea nazionale?» «Io credo che non si debba sopravvalutare l'idea nazionale. E che la si debba svuotare di ogni pathos retorico, dicendo onestamente che non siamo né migliori, né peggiori degli altri. Rimbocchiamoci tutti le maniche. E vediamo che succede.» «Intendi dire che se ci mettiamo al lavoro, la nazione si risolleverà dalle ceneri?» «Be', sì. Se ci mettiamo tutti quanti al lavoro, la nazione si risolleverà.» «Chiaro. E intanto tu, invece di sgobbare, cincischi in biblioteca! O passi il tuo tempo a cianciare con me!» «Be'...» Così i giorni trascorrevano in queste conversazioni edificanti. Il Cerusico mi offriva del tè (cosa quasi proibita) e insieme ascoltavamo la radio (cosa assolutamente proibita). Questo mi riportava alla mia lontana infanzia, quando ascoltavo il rock occidentale, allora proibito, attraverso un frusciante apparecchio a onde corte. Ma una sera, all'improvviso, dall'apparecchio gracchiante del Cerusico
udii provenire delle parole che in teoria non avrei proprio dovuto sentire. Mi sembrò che il dj avesse pronunciato il mio nome e il mio cognome. Feci un gesto di stupore con la mano e mi chinai sulla radio. Il Cerusico tacque stranito. Il testo diceva: «Sì, caro Iosif, di cognome Mezenin! Anche la nostra Onda del Nord e gli ascoltatori dell'Ora del rock ti augurano di concludere presto il tuo pesante e glorioso servizio militare ai confini della nostra grande Patria, mentre la tua Maša ti aspetta nella lontana Mosca e soffre per la tua mancanza. Ti aspetta, caro Iosif, e soffre. E ora noi, dietro sua richiesta, mandiamo in onda una canzone della tua band più amata, i Beatles. La tua canzone preferita, Iosif, Help!». Help! I need somebody. Help! Not just anybody. Help! You know I need someone! Help! Ero annichilito. Credo che da fuori dessi l'impressione d'irradiare felicità. Il Cerusico scuoteva il capo stupefatto. Dopo i due minuti di rito la canzone finì. Il Cerusico mi fissò con aria scettica e disse in tono di rimprovero: «Ma che novizio sei, se basta una canzone per indurti in peccato? Perché mi sono lasciato convincere a spedire la tua lettera?». «Ma che brava! Pensa un po' che brava! Fare una cosa simile!» Il Cerusico mi guardava con aria di disapprovazione: «Tu sei ancora preda di pensieri mondani. Adesso ti tormenterai per altre due settimane. Avevi appena trovato la pace... Ha ragione l'igumeno. La radio per le anime non ancora fortificate è solo fonte di tentazioni». Irradiavo felicità e non riuscivo a nasconderlo, perciò mi scusai dicendo che volevo fare due passi per calmarmi e prendere un po' d'aria. Il Cerusico benedisse la mia passeggiata e me ne andai. Camminai con passo umile, misurato, come mi aveva insegnato il Sagrestano, ma le mie labbra si muovevano da sole: «She loves you, yeah, yeah, yeah!». E a quel punto cominciai a riflettere. Ero sbalordito perché Maša doveva certo sapere che né la canzone Help!, né l'album, né il film omonimo mi avevano mai particolarmente entusiasmato. Help! come scelta musicale era inappropriata. E... se invece non avesse voluto farmi una sorpresa gradita? E allora cosa? Un attimo... Be', se si prendeva alla lettera il testo... Era una richiesta d'aiuto! Un vero Help! Un SOS! C'era da sclerare! Incredibile... Oltre tutto, questo SOS mi era arrivato da Maša via radio, com'è d'uso. E
se ci fosse stato qualche altro messaggio nel delirio verbale del dj che io non avevo colto? Mi misi a sedere sul ceppo su cui fino a poco prima assolvevo al mio compito di taglialegna e supplicai il Signore di mandarmi una sigaretta. Dovevo fare ordine nei miei pensieri. Maša aveva ricevuto la mia lettera e aveva pensato a un modo per mettersi in contatto con me. Eppure, dalla mia missiva si intuiva chiaramente che uscire dai confini del monastero era per me un rischio non indifferente. Ma la sua situazione doveva essere senza via d'uscita, se aveva mandato quell'appello. Era pur sempre Maša! Lei aveva sempre dimostrato di essere più forte di me. E, non ho paura a dirlo, più intelligente. Alla fin fine si comportava pur sempre come un'aristocratica. Come la principessa Diana. Aveva bisogno di me? Evidentemente si trattava di qualcosa di serio. Era ora di tornare a Mosca. Mio Dio, a Mosca! A Mosca. Magnifico. Ma come? La prossima nave sarebbe salpata tra una settimana o due. Non mi avrebbero fatto salire a bordo. Imbarcarmi clandestinamente era impossibile, la nave era piccola. Corrompere qualcuno al monastero? Neanche a parlarne. Tanto più che non avevo denaro con me e da queste parti la borsa dei diamanti dovevano ancora costituirla. Rubare la misera barchetta di legno a motore sulla quale i monaci si allontanavano timorosi anche a soli cinquanta metri dalla riva e raggiungere Mezen', distante cento chilometri, navigando sul mare in tempesta? Non solo la benzina non sarebbe bastata, ma la barca si sarebbe sfasciata. Da quando ero lì non avevo visto mai onde inferiori a forza tre, quattro. E attraversare a piedi cento chilometri di taiga poteva andar bene solo in un romanzo di Jack London. E anche se fossi riuscito ad arrivare a Mezen', vi avrei trovato certamente ad attendermi gli hat, i monaci, e forse, anche gli sbirri. Già, una situazione complicata. Era probabile che i miei nuovi confratelli avessero previsto tutto. E se anche per miracolo fossi poi riuscito a fuggire da Mezen' e a raggiungere Mosca, l'appartamento di Maša era proprio il luogo dove avrebbero potuto più facilmente beccarmi. Oltre, s'intende, al mio appartamento. Va bene, a Mosca avrei potuto sparire e giocare un po' con loro al gatto e al topo. Ma, appunto, come facevo ad arrivare fino a Mosca? Una cosa era chiara: dovevo essere a Mosca prima che al monastero si accorgessero della mia assenza. Ma questo si poteva fare solo in aereo. Alt! L'aereo. Dopo tutto lì c'era un aeroporto militare. Era lontano? A giu-
dicare dall'altezza a cui volavano gli aerei, doveva trovarsi a una trentina di chilometri. O anche più vicino. E proprio sulla riva dell'oceano, per poter agire, in caso di necessità, in sintonia con la flotta. Era improbabile che all'aeroporto militare ci fosse qualcuno ad aspettarmi. Ma ora non era il caso di pensarci. Non si poteva prevedere tutto. C'era solo una cosa da capire: come arrivare fino all'aeroporto, se a piedi o in barca. A piedi, per percorrere trenta chilometri di scogliera, occorreva una giornata intera, se non di più. Con la barca a motore erano due o tre ore. Sempre che fosse bastata la benzina. Ma non importava. In ogni caso un tratto del tragitto era meglio percorrerlo via mare. Al diavolo anche le onde. La gente attraversava il mar Bianco persino su canoe. E ora si trattava di decidere quando. Perché non oggi? Per prepararmi non mi ci voleva nulla. Un salto nella cella a prendere la Stellina e uno in cucina per la scure, i fiammiferi, il pane e l'acqua. Alla ritirata mancavano quindici minuti. Era scoccata l'ora! Dopo un quarto d'ora ero riuscito a portar fuori la scure sotto la giacca imbottita (le notti cominciavano a diventare sempre più fredde), avevo infilato nelle tasche pane e fiammiferi, avvolgendoli in mezza busta di polietilene miracolosamente trovata in cucina, e nell'altra mezza avevo sistemato una bottiglia piena d'acqua. Così equipaggiato, mi ritirai nella mia cella ad aspettare il momento in cui la marea sarebbe salita. Scrissi un biglietto al Cerusico. Mi scusai. Spiegai che avrei raggiunto Mezen' sulla barca a motore e che, quando la benzina fosse finita, avrei continuato a piedi. Non era una bella azione, ma Dio mi avrebbe perdonato. Non volevo essere smascherato dagli hat a causa del mio sentimentalismo, ma non lasciare alcun biglietto sarebbe stato offensivo verso una brava persona come il Cerusico. Gli consigliai di non mostrare quelle righe a nessuno. Verso le undici scavalcai il cancello nel punto più nascosto e, piegandomi il più possibile per non farmi notare dagli abitanti delle celle con vista sul mare ancora svegli, arrivai con difficoltà fino alla barca. Remai per diversi minuti per non fare rumore, allontanandomi dalla riva. Le onde erano di dimensioni incredibilmente modeste, non c'erano cavalloni. Percorsi altri cinquecento metri, mi resi conto che il serbatoio era pieno, feci il segno della croce rivolto verso il monastero e tirai la cordicella. Il motore era un po' ingolfato. Mi sistemai più comodamente e diedi gas. Così, a intuito, la velocità doveva essere di dieci chilometri all'ora. Il vento sembrava favorevole. Gli spruzzi mi colpivano il viso. Di tanto in tanto le
onde investivano la barca, e l'acqua ricadeva all'interno. Ma ero in un tale stato d'animo che il mal di mare neppure mi sfiorava. Come avevo appreso da Anton e dai libri sui samurai, avevo fatto il vuoto nella mente e, senza pensare a niente, governavo la barca meccanicamente, tenendomi a una cinquantina di metri dalla costa. Ben presto cominciai però a intuire che era pericoloso. Non per niente i marinai non amano navigare sotto costa, preferendo il mare aperto. Se per una qualche ragione la barca fosse andata a cozzare contro le rocce, per me sarebbe finita. Ma la cosa interessante era che il pensiero della morte mi appariva solo come un pensiero astratto. Un po' vago, lontano. Come il sentore di un pericolo da evitare, senza che provassi alcun senso di panico. Cambiai rotta e mi allontanai dalla costa. Le onde diventavano via via sempre più alte. La barca era ai minimi termini, e anch'io. Non era il caso di continuare a temere gli scogli e di navigare a tale distanza in mare aperto. E in generale non era proprio il caso di avere paura. Puntai la barca verso la costa. In quell'istante mi accorsi del rombo spaventoso delle onde intorno a me. Strano che non me ne fossi accorto prima. Mi strinsi nelle spalle. Non mi serviva a nulla esserne consapevole. Il rombo si faceva sempre più sordo e le ondate superavano quasi il bordo della barca. Allora pensai che morire fracassandosi la testa contro una roccia era meglio e più rapido che affogare andando lentamente a fondo. Perciò afferrai i remi e remai con tutte le forze che avevo verso la riva per aiutare il motore. La barca fu investita da un'ennesima ondata di un'altezza superiore ai tre metri. Lasciai i remi e mi guardai attorno. La riva era ormai vicina. Per un secondo ebbi la stessa sensazione che si prova sull'ottovolante, ma poi, al rombo delle onde, si aggiunse il fragore assordante del legno spezzato e fui catapultato fuori dalla barca Dio sa dove. Caddi in acqua. Avevo l'impressione di aver battuto il ginocchio contro una roccia, ma non sentivo dolore. Stavo immerso nell'acqua fino alla vita. Intorno a me regnava il silenzio. La roccia contro cui la mia barca si era infranta fungeva ora da diga. Senza aspettare l'immensa ondata successiva, mi trascinai con quante forze avevo fino a riva. Gli stivali, pieni d'acqua, e la tonaca tutta bagnata mi impacciavano, ma alle rocce asciutte mancava poco, una decina di metri. In qualche modo riuscii ad arrampicarmi, scavalcai un enorme masso: ero sbarcato sulla Grande Terra. Chiusi gli occhi. Non pensavo né sentivo più nulla. Desideravo solo respirare a pieni polmoni per riprendere fiato.
Dopo un po' mi rialzai e svuotai gli stivali dall'acqua. Il ginocchio cominciava a dolermi, ma non molto forte. Mi arrampicai sopra un'alta roccia per guardarmi intorno. Innanzi a me, a una certa distanza, si ergeva una torre di controllo. Discesi dallo scoglio, rischiando di azzopparmi, e mi avviai in quella direzione. Lungo il percorso mi rifocillai con il pane nero del monastero, abbondantemente cosparso di sale, e l'acqua benedetta. I sacchetti di polietilene sono una grande invenzione della civiltà europea. Dopo un'ora, quasi del tutto asciutto, raggiungevo il recinto dell'aeroporto. Il mio viaggio era durato circa sei ore. Davvero indimenticabili. Capitolo Diciassette Feci il giro dell'aeroporto e giunsi al portone, decorato con grandi stelle rosse. Bussai timidamente. Dopo un minuto una sentinella assonnata mi aprì. Potevo intuire il suo stupore. Un monaco con quel copricapo nero, che bussa alle sei e mezzo del mattino alle porte di un aeroporto militare segreto all'estremo Nord della Russia. Il soldatino cominciò a scuotere la testa. Ma io non ero un'allucinazione. Ero vero e con me bisognava fare i conti. La sentinella, che faticava ad abituarsi all'idea, sbatté le palpebre. «E tu chi sei?» «Un novizio del monastero Spaso-Pečorskij. Devo parlare subito col tuo superiore. Chiamalo o fammi entrare.» «Ah... un novizio. E cosa vuoi?» Capii che bisognava essere più perentori. «Chiamami il comandante. Subito. Ci sono domande?» «No... eseguo.» Richiuse timoroso il portone e ricomparve dopo un paio di minuti. «Arriva. Hai da fumare?» «No. Piacerebbe anche a me fumare.» «Già... là da voi è peccato, vero?» «Sì, però piacerebbe anche a me.» La sentinella si nascose a ogni buon conto dietro il portone. Dopo una decina di minuti arrivò un maggiore, mi squadrò dalla testa ai piedi, scosse il capo e disse che il comandante della squadriglia stava dormendo, che lui era l'ufficiale addetto alla manutenzione e che potevo parlare con lui. Lo convinsi che non è civile parlare con un ministro del culto in mezzo a una strada e mi fece entrare nella garitta dopo averne cacciato fuori la pattuglia
di guardia. Poi, mescolando verità e menzogna, gli raccontai che non ero un monaco, ma solo un novizio. Che ero finito in monastero a causa di un amore infelice (e qui per un attimo mi soffermai a riflettere se non ci fosse davvero un briciolo di verità in queste parole), che avevo abbandonato il mondo degli affari, la mia auto, il mio appartamento a Mosca e mi ero rifugiato in un monastero nelle vicinanze. Ma la mia ragazza si era messa in contatto con me e mi aveva fatto sapere di essere nei guai e ora a ogni costo dovevo tornare a casa. E più in fretta riuscivo ad arrivare, meglio era. «E come ha fatto a mettersi in contatto con te, se la prossima nave ci sarà solo tra due settimane?» «Attraverso la radio. Hai seguito ieri sera alle otto, sull'Onda del Nord, il programma L'ora del rock?» «Be', sì, l'ho seguito. In questo fottuto buco non c'è nient'altro da sentire. E allora?» Aveva un tono maligno e sospettoso. Alzai gli occhi e lo esaminai con attenzione. Un viso come tanti. Gli occhi furbi, intelligenti, brillavano, emettendo una luce verde. In quel momento mi sarebbe tornato comodo usare la programmazione neurolinguistica degli hat, ma non avevano fatto in tempo a insegnarmela. «Hai sentito quando il dj ha trasmesso il messaggio per Iosif Mezenin?» «Be', sì, mi sono anche chiesto chi fosse. Nei nostri reparti non c'è nessuno con quel nome e per trovarne altri devi fare almeno un migliaio di chilometri. Ho pensato che potesse essere un marinaio.» «E invece eccomi qua. Sono io Iosif Mezenin.» «Tu? E lei ti ha rintracciato attraverso la radio? Dev'essere un bel rapporto il vostro. E cosa vuoi?» «Voglio andare a Mosca. A Mosca, in aereo.» «A Mosca... in aereo. Con un bombardiere strategico... Ho capito. E perché non a New York? Basta prolungare un po' la rotta. Le carte le abbiamo.» «A New York dopo. Prima a Mosca. Posso pagare.» «Puoi pagare... E magari li tieni lì sotto la tonaca i soldi, eh?» «No, i soldi sono a Mosca. Qui non ne ho. Ma posso lasciarti una cauzione.» «Di che cauzione si tratta?» «Di un brillante. Molto prezioso.» «Fammelo vedere.»
Glielo mostrai. Il maggiore, molto scettico, lo prese in mano, lo rigirò tra le dita, cercando di soppesarlo sul palmo e me lo restituì.» «E quanto credi che valga questo pezzo di vetro?» «Non è un pezzo di vetro. Guarda.» Presi una bottiglia abbandonata di vino scadente dal pavimento della garitta e vi passai sopra il brillante. «Tieni!» «Perché devo tenerla?» «Staccale il collo.» Il maggiore fece un gesto come per spezzare la bottiglia. Gli riuscì. «Già... Simpatico gingillo. E quanto vale?» Il maggiore aveva spezzato quattro bottiglie di vino scadente, più due di vodka, e ora stava incidendo un barattolo di cetrioli sotto sale. «Ma io non lo vendo, lo do solo in garanzia. Portatemi a Mosca e pagherò quello che vorrete.» «E tu quanto puoi pagare?» «Be'... Tremila dollari, l'equivalente di un biglietto di prima classe. Può andar bene?» «Bisogna parlarne al comandante... Tra una mezz'oretta si sveglia. Senti, e come mai la tua bella aveva tanta fretta di contattarti? Poteva mandarti un telegramma...» «Dev'essere per via di qualche delinquente. Le ho lasciato i soldi, la macchina, tutto. E hanno cominciato a girarle intorno quando io ero ancora lì.» «Già, siamo pieni di delinquenti. Il potere ci ha abbandonato, hanno svenduto la Russia. E loro sono dappertutto ormai. Tutta la merda è venuta a galla. Senti, non hai niente in contrario se mostro a mia moglie questo brillantino? Lei se ne intende più di me di queste cose. Non aver paura, non sparisco.» «Non ho paura. Mostraglielo pure.» «Va bene. Tu intanto resta qui. Dopotutto, questa è una base segreta. Vuoi mettere qualcosa sotto i denti?» «Ho voglia di fumare.» «Per questo nessun problema. Tieni.» Presi tre L&M delle sue e mi misi ad aspettare. La garitta era ben riscaldata e tranquilla e mi assopii persino. Dopo mezz'ora il maggiore tornò. «Il bombardiere è fuori questione. Non sappiamo che scusa trovare. Se fossimo andati fino a Kazan', là c'è una nostra base, ma a Mosca non ab-
biamo niente da fare.» «E allora?» «Niente paura. Volerai su un aereo da trasporto, ti mettiamo a disposizione un charter. Ma tremila non bastano. Sai, bisogna anche dividere. E nella tua Mosca bisogna scucirne altri. Lo capisci anche tu... In compenso a mia moglie è piaciuto il tuo brillante. Ha detto: "Questo sì che è un bel gingillo!". Cinquemila cocuzze, ce la fai a sborsarle per la tua innamorata?» «Cinquemila?» Feci finta di pensarci un po', così, anche solo per mercanteggiare. «Ce la faccio. Ma i soldi a Mosca.» «Come d'accordo. E per il momento la pietruzza resta con me. Be', aspetta pure qua, Romeo. Adesso organizziamo tutto e tra un'ora partenza. Riposati intanto. Sugli aerei da trasporto si beccheggia. Senti, non ti va di cambiarti? Ti porto una mimetica. Altrimenti, se ti vedono con questa tonaca, i ragazzi a Mosca potrebbero anche non capire.» Dopo un'ora, con la mimetica addosso, salivo a bordo di un Antonov, un An-12, dopo aver lanciato un'occhiata agli strepitosi Tupolev 165, dal formidabile design. Il maggiore - che ormai chiamavo semplicemente con il diminutivo, Šurik, mentre lui chiamava me Romeo - mi spiegò: «In breve, la scusa è la seguente: voliamo a Kazan' per lasciare una turbina da revisionare. Una bella revisione le occorre davvero. Poi facciamo un salto a Mosca a rifornirci di indumenti e di altre cazzate simili. Chiaro?». «Chiaro. E così ci fermiamo anche a Kazan'?» «Sì, ma solo per un paio d'ore. Verso le sei di stasera saremo a Mosca, all'aeroporto di Žukovo.» «Ma io avrei voluto andare a prenderla al lavoro...» «E cos'è che vuoi ancora? Ringrazia di aver preso l'aereo.» «Questo è vero. Grazie.» Mentre salivamo sulla scaletta, mi guardai intorno. Due hangar di cemento alti cinque piani. E, tutt'intorno, il mare e la tundra. E uccelli d'acciaio dalla bellezza ultraterrena, destinati a bombardamenti strategici. Era un peccato non poter volare su una di quelle meraviglie, ma pazienza. Il nostro aereo era vecchio, squinternato, anche se tenuto perfettamente. Mi fecero sedere accanto all'oblò e mi allacciarono premurosamente le cinture, che erano doppie, come su un'auto da corsa. Lasciai cadere il fagotto con la tonaca e gli altri indumenti monacali sotto i piedi: magari sarebbero
serviti ancora. Decollammo e vidi per l'ultima volta il mar Glaciale Artico. L'aereo era pilotato da Šurik. Suoi assistenti di volo erano un ingegnere di bordo e un ufficiale di rotta. Stavo al caldo nella giacca imbottita che mi avevano dato e così mi addormentai del sonno del giusto. Šurik mi svegliò che eravamo ormai a Kazan'. «Tu resta qui, perché oggi è in corso un'ispezione. Tra un'oretta si decolla.» «Aspetta, bisogna che l'avverta. Non posso presentarmi a casa sua...» «Perché?» «Là c'è suo marito...» «Così la tua Giulietta è sposata? E tu me lo tenevi nascosto...» «Perché altrimenti non saremmo partiti» «Ma no, saremmo partiti lo stesso. Su, dammi il suo telefono, la chiamo io. Che cosa devo dirle?» «Segnati il numero.» «No, lo terrò a mente.» Gli dettai il numero di telefono della redazione di Maša, gli dissi che doveva parlare con Tanja, dicendole di riferire a Maša che l'aspettavo al caffè dell'OGI verso le otto di sera. Šurik ripeté ancora una volta il numero, le istruzioni e sparì. Mi misi a riflettere. Da quando ero fuggito dal monastero non avevo più elaborato alcun piano. Nel giro di due o tre ore sarei stato a Mosca e, una volta lì, che cosa avrei fatto? A un tratto mi venne in mente l'idea balzana che, se Maša mi avesse fatto andare da lei inutilmente, con lo stesso intatto amore nei suoi confronti me ne sarei tornato al monastero. Però c'erano i cinquemila dollari da dare ai ragazzi. A casa avevo un sacco di soldi, tutti i profitti guadagnati con l'incarico di FF che ero riuscito a strappare alle grinfie di Volpina. Diciannovemila dollari. Ma passare da casa era rischioso. Non mi restava che fare affidamento su Maša. Cinquemila dollari per lei erano una discreta sommetta... Era meglio chiederli in prestito a qualcuno o vendere il brillante? Ma a chi? «Sei proprio una lenza, Romeo!» «Che è successo?» «L'ho chiamata al lavoro, chiamata e richiamata, ma c'è sempre la segreteria.» «Come mai?» «Come mai? Perché oggi è sabato, caro Romeo. Ti sei proprio inselvatichito, laggiù nel tuo monastero. Va be', d'accordo. Voliamo dalla tua bella
per liberarla dal marito aguzzino.» «Dimmi un po', non avresti voglia di mettere un po' di musica?» «Abbiamo anche noi la nostra tecnologia avanzata, non c'è che dire. Provo a collegare il cd-player all'altoparlante. Butusov ti va?» Decollammo tra il gracchio dell'altoparlante e il rombo del motore. Cercai di concentrarmi. Era evidente che non potevo elaborare un piano a lunga scadenza, perciò decisi di abbozzare un elenco di obiettivi per quella giornata. Entrai nella cabina di pilotaggio. Ammirai le strumentazioni, gli interruttori e il panorama russo, quindi chiesi un foglio e una penna. Trovare Maša. Trovare cinquemila dollari per i ragazzi. Trovare qualche soldo per noi. Riavere il brillante. E svignarsela dalla Mosca degli hat. Dio sa dove. Anche in Antartide. Cercai di immaginare tutti gli ostacoli sul mio cammino. Erano tre: German, gli sbirri, che dopo la mia scomparsa dovevano ritenermi senza dubbio l'assassino di Starikov, e gli hat. Quel che pensavano gli hat sul mio conto mi lasciava indifferente. Se fossi sparito dalla loro visuale per un po', avrebbero sempre potuto credere che fossi stato divorato dai pesci. O dai lupi. Ma Maša aveva bisogno di me adesso. Con gli sbirri era tutto più semplice. Forse non c'erano neppure dei reparti all'opera, ma era solo in corso un'indagine di routine, con qualche controllo nelle stazioni e negli aeroporti. In ogni caso bisognava essere temerari e prudenti al tempo stesso. E German? Non era certo la prima volta... La musica era finita, io avevo sonnecchiato un po' e quasi mi perdevo l'atterraggio. Poco dopo raggiungemmo la base. Ci aspettava un maggiore robusto, prestante, dai capelli ricci. «Eccolo qua il nostro amante-eroe!» «Buon giorno. Iosif, piacere.» «Maggiore Kozlov!» disse lui, chinando il capo e battendo leggermente i tacchi. «Ormai sei famoso. Allora non ce l'hai fatta a volare sul bombardiere dall'innamorata, eh?» Il maggiore mi propose di chiamarlo Vasja e ci offrì tè e panini. Mentre ci rifocillavamo, seduti nel quartier generale, pensai che questi aviatori potevano tornarmi ancora utili. «Ragazzi,» dissi «ora dovrei passare a prendere i soldi. Non è che mi prestereste un'auto?» «Non c'è nemmeno bisogno di dirlo. E un cannone lo vuoi?»
«Un cannone?» «Un fucile AKM. Leggero. Per altri duecento verdoni, ci stai?» «Ci sto. Con le munizioni.» «Ma anche un'intera scorta.» «Che me ne faccio di una scorta? Bastano solo un paio di caricatori...» «Prendi quello che vuoi. Per un ospite come te, servizio completo.» «Allora mi occorrerebbe anche una scheda telefonica.» «Te la procuriamo, ma qui c'è un telefono.» «Mi serve per chiamare poco prima di arrivare.» «Va bene. Ti procuriamo tutto. Ma col cannone non fare scherzi.» «Lo prendo per sicurezza. Mi serve solo per fare un po' di scena.» Dopo mezz'ora mi affannavo a memorizzare le istruzioni su come usare un kalashnikov. «L'importante» dicevano i due maggiori «è che non cerchi di fare l'eroe. Spara solo se è necessario. Allora, mira come a un bersaglio, non meno di una decina volte, capito? Per strada, e dovunque ti trovi, tieni il mitragliatore a una certa distanza dalla mano, chiaro? Ma non troppo distante, in modo da poterlo raggiungere con le dita senza piegare il braccio. E, se è il caso, non pensarci su due volte, spara sempre per primo. Per primo, ricordati! E cerca di tornare indietro! Se no, cosa ce ne facciamo del tuo brillante? A noi servono i soldi. E un ultimo precetto: non c'è donna al mondo per cui valga la pena di uccidere.» Io non avevo intenzione di sparare, né tantomeno di uccidere qualcuno. Il kalashnikov faceva solo parte della messinscena, serviva da complemento alla mia uniforme. Non mi stava neppure male. Sarei piaciuto così a Maša? Ormai ogni timidezza era superata. Tornavo in città da vincitore. Solo che, anziché fare il mio ingresso su un cavallo pomellato grigio, arrivavo su una Uaz a chiazze. La Uaz era stata data in dotazione a un altro reparto e poi, nel casino generale, era stata dimenticata. Era senza documenti. Controllai come stava a freni e benzina. Poi montai, sistemai il kalashnikov accanto a me sotto gli stracci. Il motore gracchiò, accesi il quadro dei comandi e partii. Al primo semaforo, girai la manopola della squinternata radio e captai una dolce, profonda, triste e lenta ballata. Era Neil Diamond. Girl, you'll be a woman soon. Please come take my hand 25 . 25
Ragazza, presto sarai una donna. Ti prego, prendi la mia mano.
Erano quasi le cinque di sera quando uscii dall'aeroporto. Fino alla casa di Maša c'era circa un'ora di strada. Viveva poco lontano da me, sulla Pokrovka. Era un dolce sabato sera d'agosto. I passanti erano diretti dagli amici, al ristorante o al cinema. Mi sembrava che vendessero fiori a ogni angolo di strada. Salve, mia bella capitale, era da un pezzo che non ci vedevamo! Nessuno mi fermò. I poliziotti forse non avevano ancora cominciato a cacciare, in attesa delle più numerose prede notturne. Arrivato sotto la casa di Maša, feci due giri intorno all'edificio, ma non vidi niente di sospetto. Trovai la cabina telefonica più vicina e parcheggiai. Pensai che fosse il caso di prendere anche il kalashnikov e lo infilai a fatica sotto il giubbotto. Mi toccò sganciare il caricatore e sistemarlo in tasca. Il calcio di metallo mi si era conficcato tra le costole. Feci il numero, sperando che fosse Maša ad alzare il ricevitore. Fu così. Capii che l'ora era giunta. «Ciao, sono io. Di' qualcosa tipo: "Oh, ciao, cara!".» «Oh, ciao, cara!» Maša aveva lo stesso tono che avrebbe avuto parlando a un'amica che le fosse appena morta tra le braccia e che avesse deciso di chiamarla dall'aldilà. «German è in casa?» Una lunga pausa. «Sì.» «Perfetto. Calma e sangue freddo. Ora ti farò delle domande, tu rispondi. Ma non solo con un "sì" o con un "no" dai dei ragguagli sul tuo lavoro, d'accordo?» «Sì, al lavoro tutto come sempre. Non fanno che scocciare, ma tu dove lavori adesso?» «Bravissima! Sono qui. Davanti a casa tua. Non aver paura. Andrà tutto bene. Dimmi, hai dei problemi a causa mia o a causa di German?» «Oh, ci sono problemi su tutti e due i fronti!» «Chiaro. Adesso vengo a salvarti e ti porto via. Intanto prepara le tue cose senza farti notare. Prendi solo i documenti, i soldi e i gioielli. Nient'altro. Niente fotografie, reggiseni, né i tuoi dischi preferiti, hai capito?» «Oggi?» «Subito, cara. Immediatamente.» «Ma cerca di capire... non posso mollare tutto così.» «Devi.»
«Ma...» «Ormai è tardi. Sto arrivando. Intanto, continua a parlare. Salutami affabilmente. Di', che sei contenta di avermi sentito. Sarò lì tra due minuti. Vieni tu ad aprire, capito?» Capitolo Diciotto Riagganciai il ricevitore e mi avviai con passo veloce verso il portone. Intorno non c'era nessuno, eccetto dei ragazzini che giocavano a calcio con una pallina da tennis. Premetti il numero 28 sul citofono. Attraverso i sibili udii la voce di German. Imprecai dentro di me, battendo in ritirata, e premetti il 32. Una voce di donna chiese: «Chi è?». «Il pronto soccorso per il 28. Nessuno ci apre. Ci faccia entrare.» «Oh, Signore, che è successo?» La porta si aprì. Pensai che bisognava sbrigarsi per evitare che la vicina facesse la sua apparizione nell'appartamento. Dopo trenta secondi estrassi il kalashnikov da sotto il giubbotto, infilai il caricatore e suonai alla porta. Udii di nuovo la voce di German che chiedeva chi era. Maša mi aveva giocato un bello scherzo. Cercai di passare dal tono professionale del paramedico del pronto soccorso a quello indignato del vicino di casa: «Ma insomma, quante frottole ha intenzione di raccontarci ancora? Prima il telefono, poi il citofono! Adesso chiamo la polizia! La ristrutturazione deve farla lei a sue spese, ha capito?». German non aveva capito e aprì la porta. Tirai un calcio con tutta la forza che avevo e German fece un balzo indietro. Entrai nel corridoio e, senza voltarmi, chiusi la porta. German sedeva sul pavimento, tenendosi la guancia. Maša, sentendo il rumore, era corsa fuori dalla camera da letto. Aveva addosso una vestaglia bianca e delle ciabattine con i pon pon. Vedendo German sul pavimento e me in divisa col kalashnikov restò annichilita. Anch'io ero scioccato. Era come se la mia coscienza si fosse scissa dal corpo. In compenso dentro di me era comparso un centro d'energia che guidava tutte le mie azioni. German mi scrutava, come se mi avesse sempre aspettato. Con attenzione. Senza odio, né malignità. Sedeva in silenzio e si accarezzava la guancia. «Presto!» gridai a Maša. «Hai centoventi secondi per prepararti. Prendi
solo documenti, soldi e gioielli. E la copia delle chiavi del mio appartamento. Presto!» Come avevano potuto venirmi in mente poi quei centoventi secondi... «Sì» disse Maša. «Se le cose stanno così...» E sparì. Evidentemente quella rapina la dispensava dal fornire spiegazioni a German. German, apprendendo che Maša aveva una copia delle mie chiavi, si voltò di nuovo a guardarmi, scrutando poi con la stessa attenzione anche il punto fino a dove poco prima si trovava Maša. Mettendomi nei suoi panni, gli dissi in tono amabile: «Se ti comporterai come si deve, non ti accadrà niente di male». Per qualche tempo nell'appartamento calò il silenzio. Si sentiva solo il rumore dei cassetti aperti da Maša. I centoventi secondi erano passati. Decisi di andare a sollecitarla, ma in quel momento il campanello suonò. Due trilli brevi, prudenti. Che vicini premurosi! «Se apri, ti ammazzo» dissi con parole semplici e convincenti a German, e andai da Maša. «Che stai combinando? Ti avevo detto due minuti!» «Arrivo. Ancora un minuto. Devo cambiarmi! Non posso uscire in vestaglia!» «E prendi tutti i soldi che ci sono in casa» le dissi, rammentandomi dei due maggiori e del brillante. Ora la mia visita cominciava a somigliare davvero a una rapina. Gioielli. Soldi. Una complice. Tornai in anticamera e sorpresi German che strisciava sul pavimento diretto chissà dove. Suonarono di nuovo alla porta. Tre suoni rapidi, ma ansiosi e insistenti. Cominciavo a innervosirmi. «Chi è?» questa volta ero io a domandarlo. «Sof'ja Andreevna, la vicina del piano di sopra. È successo qualcosa?» «No, non si preoccupi. Siamo arrivati. Si tratta di un semplice svenimento.» «Ah, grazie al cielo, ero così agitata! È una donna così giovane! Lei è quello del pronto soccorso, vero?» «Sì» risposi io, irritandomi un poco. «Siamo quelli del pronto soccorso. E che pronto soccorso...» In cucina stava intanto accadendo qualcosa di molto sgradevole. German, seduto sul pavimento, componeva un numero telefonico. Dalla sua espressione s'intuiva che stava per mettersi a parlare. Non avevo il tempo di strappare il filo del telefono. Perciò tolsi la sicura al kalashnikov. «Va tutto bene? Avete bisogno d'aiuto?»
«No, grazie mille, non abbiamo bisogno d'aiuto!» dissi, ringraziando meccanicamente, e premetti il grilletto. Il terribile fragore mi assordò per qualche secondo. Il telefono era volato via in mille pezzi. E delle schegge dovevano aver ferito German in viso, perché la sua fronte cominciò a sanguinare. Per l'anticamera si diffuse un acre odore di bruciato. Dal pianerottolo giunse un gemito e il tonfo di un corpo che cadeva. Pensai che in quel frangente, per la vicina, svenire fosse la scelta migliore. Maša si precipitò in anticamera. «L'hai ammazzato?!» «No, ho ammazzato il telefono. E se non ce ne andiamo tra quindici secondi, ci saranno altre vittime.» «German, sei vivo?» German non rispose, ma dal modo in cui si asciugava il sangue col dorso della mano era chiaro che doveva essere vivo. Ebbi l'impressione che Maša mi guardasse terrorizzata. Fino ad allora non avevo mai provocato in lei certe emozioni. Si diresse risoluta verso la porta, infilandosi lo zaino sulle spalle, ma, aprendola, fece un balzo indietro. «Hai ammazzato Sof'ja Andreevna?!» «Maša! Non ho ammazzato nessuno. La tua Sof'ja Andreevna è solo svenuta. Ma presto ammazzerò qualcuno, se non ci sbrighiamo.» Maša si chinò su di lei. Sof'ja Andreevna bofonchiò qualche parola gentile in risposta. Non mi trattenni. «Maša, ti prego! Tutto il palazzo ha sentito i colpi!» «No, non mettermi fretta! Non te l'ho chiesto io di sparare!» «E io ti avevo chiesto invece di venire al citofono ad aprire la porta. I vicini non si sarebbero fatti niente.» «Idiota, cosa c'entra il citofono?» «Oh, mio Dio...» Un minuto dopo usciva dal portone un'insolita coppietta. Lui in tuta mimetica, con un'andatura rigida e sospetta (il kalashnikov mi saliva dalle mutande fino al collo) e lei che gli trotterellava accanto, in ciabattine con pon pon. «Mi sono dimenticata di mettermi le scarpe!» «Indietro non si torna. Ne compreremo un paio. E fino alla macchina terrai le pantofole. Non hai dimenticato di prendere i soldi, vero?» «Ne ho presi un po'. Aspetta, fammi pensare...»
«Però evita di pensare alle altre cose che hai dimenticato...» «E tu evita di dirmi a cosa devo pensare.» «Ok.» Raggiungemmo la macchina in silenzio e cercai di spremere dalla Uaz tutto ciò che potevano averle insegnato nella patria di Lenin. Non le avevano insegnato un cazzo, anche se il motore ruggiva come quello di una Porsche. Quello doveva essere il giorno del compleanno di Tarantino. O l'anniversario dell'uscita di Pulp fiction. Alla radio una canzone su tre era tratta dalla splendida colonna sonora del suo film. Era il turno di Eric Heatherly. Countin' flowers on the wall That don't bother me at all. Playin' solitaire till dawn with a deck of fifthy-one. Smokin' cigarettes and watchin' Captain Kangaroo Now don't tell me I've nothin' to do26 . Su questa nota ottimistica Maša girò la manopola del volume in senso antiorario fino ad abbassarlo del tutto. «German ha composto il numero del telefono sotto i tuoi occhi?» «No, io mi stavo allontanando per sollecitarti a prendere le tue cose.» «Non hai notato quante cifre ha composto?» «Cosa? Perché me lo chiedi?» «Se erano due, ha chiamato la polizia e non è un problema.» «E qual è invece il problema?» «Se erano sette, ha chiamato i tuoi hat.» «Chi?!» Per poco non tamponai una macchina della polizia al semaforo. «Chi?!» «È una lunga storia. Dobbiamo fuggire. A proposito, dove stiamo andando?» «Dipende da quanti soldi abbiamo.» «Non saprei. Quattromila. Forse quattromila e cinquecento.» «Allora passiamo da casa mia. Servono altri soldi.» «Ma saranno lì ad aspettarti.» 26
Contare i fiori della tappezzeria non mi disturba. Giocare a solitario fino all'alba con un mazzo di cinquantun carte. Fumare sigarette e guardare Capitan Kangaroo. E non venite a dirmi che non ho nulla da fare.
«Non c'è nessuno ad aspettarmi lì. Se mi avessero aspettato, allora sarebbero stati davanti a casa tua. Manca un chilometro. È vero che con gli hat non c'è da scherzare, ma non credo che in due minuti riescano a fare qualcosa. Anche dopo la telefonata di German.» «Senti, non me ne frega niente dei soldi! Passare da casa tua è un suicidio.» «Cara, in casa ho diciannovemila dollari. Appena incassati. Inoltre cinquemila devo darli alle persone che mi hanno portato qui, che, tra l'altro, sono le stesse che ci porteranno via.» «La vita vale di più. Glieli darai poi. Con i miei quattromila, tagliamo la corda e andiamo dove vogliamo.» «I soldi mi servono, devo riprendermi una cosa. Una cauzione. Vale molto di più. E basta parlare di soldi: tu sei un'aristocratica. Ecco, siamo arrivati. Resta qui, calma, torno subito. Lo sai che quando si teme tanto una cosa, di solito non si verifica. Andrà tutto bene. Dammi le chiavi.» «Quando si teme tanto una cosa, magari non si verifica. Ma mi sembra che tu non la stia temendo molto. È la prima volta che vedo un pezzo di idiota come te.» Salii a precipizio nel mio appartamento, feci un affettuoso cenno di saluto alla mia chitarra e alla caffettiera, tolsi i soldi dal nascondiglio dietro i libri e mi scapicollai giù per le scale. Non si era ancora richiusa la porta dell'ingresso che davanti alla Uaz si fermò una Bmw X5 nera. Ancor prima che si arrestasse completamente capii che Maša aveva avuto ragione. L'avidità aveva rovinato il pivello. Mentre l'auto rallentava, riuscii a saltare tra i cespugli e a impugnare il kalashnikov. Non appena vidi quattro individui in giacca grigio scura uscire simultaneamente dalle portiere del SUV, aprii il fuoco. Seguendo alla lettera le istruzioni degli aviatori, sparai per primo. Colpii i due che erano usciti dalle portiere più vicine, ma dopo tre secondi il caricatore era finito. E gli altri due si sdraiarono a terra. Dai cespugli vicini rimbalzarono a terra, sibilando, due dei miei bossoli. Poi, silenzio assoluto. Intuendo che la risposta non si sarebbe fatta attendere, corsi a destra lungo la casa, a una decina di metri di distanza, chinandomi in modo da essere coperto dalla siepe. Mi lasciai cadere su un fianco e cercai di cambiare il caricatore. Ma quello non voleva saperne di entrare. Le mani mi tremavano. Mentre armeggiavo con il mitra, notai con la coda dell'occhio due figu-
re in grigio schizzare imprecando nella mia direzione. Si stesero a terra a una ventina di metri da me. Finalmente riuscii a inserire il caricatore, tirai l'otturatore e sparai una raffica verso il punto in cui dovevano trovarsi. In risposta mi arrivò solo un rumore di bossoli che cadevano. Era chiaro che eravamo spacciati. I due professionisti ci avrebbero beccato, se non con una bomba, con raffiche di proiettili. Ma più probabilmente con una bomba. Dovevano di sicuro avere un equipaggiamento da guerra. E a me restava solo mezzo caricatore. Predisposi il kalashnikov. I due erano in una posizione ideale. Se solo avessi provato ad alzarmi, mi sarei beccato un proiettile. Che potevo fare? Aspettare la polizia? Ma le bombe avrebbero cominciato a piovere prima. E comunque la polizia non poteva aiutarmi. In prigione sarebbe stato anche più facile farmi fuori che non nel cortile di casa mia. E Maša? Che ne sarebbe stato di lei? All'improvviso udii un fragore da dove non mi sarei mai aspettato. A sinistra, in prossimità del portone. Un secondo dopo giunse il grido lacerante di Maša: «Corri!». Balzai in piedi, e congedandomi dalla vita, mi lanciai nella sua direzione. Maša stava davanti al SUV e, con aria smarrita, rigirava una mitraglietta straniera tra le mani. Lungo il tragitto notai due corpi a terra. Uno si allontanava strisciando e lasciando dietro di sé una scia di sangue. L'altro giaceva completamente immobile. La giaccia grigio scura era piena di buchi da cui sgorgava il sangue. Mentre correvo verso di lei, Maša era già rientrata nella nostra auto. Accanto alla Bmw intravidi altri due corpi. Uno giaceva supino con la testa maciullata, l'altro era appoggiato a una ruota posteriore, come se volesse riposarsi. E così eravamo diventati degli assassini. Mi accorsi che quella scena non mi aveva affatto sconvolto, saltai dentro la Uaz, misi in moto, e, alla velocità massima consentita dai comandi, uscii dal cortile. «Accidenti, però!» dissi, guardando Maša con le sue ciabattine con pon pon e la mitraglietta in mano. Maša non disse nulla, fissò la mitraglietta e la fece prudentemente scivolare col cane verso il basso. Un minuto dopo eravamo in strada. Dopo cinquanta metri mi fermai. «Dobbiamo prendere un taxi.» Infilai la mitraglietta di Maša e il mio kalashnikov dentro il giubbotto.
Poi, dopo aver riflettuto, passai lo straccio su tutti gli oggetti che Maša e io potevamo aver toccato nella Uaz, comprese le maniglie esterne. Di lì a poco eravamo su un'auto privata, diretti a Žukovo. In macchina Maša scoppiò a piangere in silenzio. L'abbracciai, accorgendomi di non avere nulla per asciugarle le lacrime. Allora cominciai ad asciugarle con i baci. Il conducente doveva pensare che quella ragazza stesse accompagnando il suo soldato che tornava sul fronte ceceno dopo una licenza. Probabilmente non si era accorto che avevo superato da un pezzo l'età della leva, o forse mi aveva scambiato per un mercenario. Sedeva senza voltarsi, con le mani fisse al volante, per paura di disturbarci. Dopo un'ora di strada Maša si calmò. Mi sentivo un po' frastornato. Arrivammo a Žukovo. A bassa voce indicai al conducente la strada per l'aeroporto. Dopo esserci un po' smarriti, raggiungemmo infine il check point. Senza smontare, feci il nome del maggiore Kozlov alla sentinella di guardia. La sentinella, senza controllarci, aprì il cancello ed entrammo. Quando arrivammo al quartier generale, Maša tolse dalla borsetta il denaro e me lo porse. Pagammo il conducente e lo congedammo. Bisognava riprendersi, lo dissi anche a Maša. Maša sospirò, annuì col capo e s'incipriò. «Ragazzi, siete pallidi come lenzuola» disse, accogliendoci, il maggiore Kozlov. «Davvero?» chiese stancamente Maša, guardandosi le ciabattine con i pon pon. «Romeo, dove hai lasciato il tuo macinino e il cannone?» Corrugando la fronte, tolsi il kalashnikov da sotto il giubbotto, me lo appesi a tracolla e annusai la canna. «Chiaro. E il macinino?» «Il macinino l'ho mollato.» «Per la tua Giulietta?» «No, per la nostra grana.» «E quella l'hai portata?» «Sì.» «Be', magnifico! Tanto quella merda statale non era nemmeno in dotazione al nostro reparto, non ne chiederanno conto a noi. L'importante è che siate vivi e che stiate bene.» «Non completamente» dissi pensieroso. «Come "non completamente"? Problemi con la grana?» «No, c'è tutta.»
«Be', e allora perché mi spaventi?» «Sono io» dissi lentamente, asciugandomi la fronte, che in realtà scottava «che mi sono preso un bello spavento.» «D'accordo, ragazzi. È da un pezzo che non vi vedete, vorrete stare un po' da soli. O avete fretta?» disse Šurik, intromettendosi nella conversazione. Mi piacque il modo di ragionare di Šurik. «Sì, ci piacerebbe» risposi io, sperando che dalla mia voce trapelasse della gratitudine. «Non abbiamo alcuna fretta. Quand'è che torni indietro?» «Tra un paio d'ore. Ma volo a Kazan'. Se volete venire con me, fatemi un fischio. Andate nella camera di sopra al primo piano a riposarvi. Ecco le chiavi.» «Vogliamo venire anche noi a Kazan'» dissi. «Fischieremo. Grazie.» Salimmo al primo piano. «Ecco» dissi, chiudendo a chiave la porta. «Finalmente soli.» «Divertente» disse Maša. «Ma facciamolo un po' più tardi. Non mi sono ancora ripresa.» «Maša...» dissi. «Be',» osservò Maša «finora nessuno con il mitra al collo mi aveva mai chiesto di scopare. È una proposta difficile da rifiutare. Controlla la porta. E togliti il mitra.» «Alza le braccia» dissi e le sfilai la camicetta beige. «Girati!» e le slacciai il reggiseno. Poi mi sbottonai il giubbotto della mimetica, lo tolsi e lo distesi con cura sul pavimento. «Su, sdraiati. Fa molto caldo qui.» La guardai con apprensione. Ma era una ragazza di carattere. «Una romantica storia militare» disse lei, stringendo appena le labbra, mentre si distendeva con circospezione sul giubbotto. Le sbottonai lentamente i jeans e poi, un po' a fatica, glieli sfilai. «Hai un odore acre e amaro. Cos'è, polvere da sparo?» «Sì, sangue, sudore e olio lubrificante. Ti ricordi il titolo di quel giornale, SSO?» «Sì, mi ricordo. Aspetta a sdraiarti. Metti un po' di musica. O accendi almeno il televisore.» Accesi il televisore. Ma di scopare col sottofondo delle notizie non mi andava. Trafficai con il telecomando, ma si prendevano solo due canali. Mi guardai intorno e scoprii una videocassetta. «Oh,» dissi «faremo l'amore con un classico.»
«Mozart?» «No, Emmanuelle, un vecchio classico da caserma.» «Va bene, caro! Metti Emmanuelle e impara. Ho già visto questo film e so che per l'amore bisogna essere in tre. Però il terzo non sarà il kalashnikov. Spostalo un po' più lontano.» Misi la cassetta e mi avvicinai a Maša. La osservai dall'alto. Una bella donna, con il corpo abbronzato, i capelli biondo cenere, i capezzoli eretti. Distesa sulla mimetica, sul pavimento. C'era da impazzire. Spostai con cautela il mitra e mi sdraiai accanto a lei. Le accarezzai le mutandine una volta. E poi un'altra volta. Un misto di ispirazione e terrore. Ero sul punto di scoppiare in lacrime come una fanciulla debole di nervi il giorno della prima comunione. Tu es si belle Emmanuelle... Viendra l'amour Sur ton chemin27 . Dopo qualche minuto non mi trattenni più. La baciai tra i seni, le baciai i capezzoli e il collo. E udii: «Su, forza, soldato!». Un po' turbato, mi sfilai i pantaloni e girai Maša sul fianco per non premerla con il mio corpo sul pavimento freddo. Talvolta mentre faccio sesso ho la testa piena di pensieri, che mi distraggono e che possono essere anche molto concreti. Qualche volta per eccitarmi di più mi sforzo di immaginare delle situazioni, d'inventarle. Ma questa volta la mia mente era vuota. Ero travolto dalle sensazioni. Da una purezza e da una forza quasi bibliche, veterotestamentarie. Così chiamarono Rebecca e, venuta che fu, le domandarono: «Vuoi tu andare con quest'uomo?». Ed ella rispose: «Volentieri». ...E augurando felicità alla loro sorella dissero: «O nostra sorella, possa tu crescere in mille migliaia di generazioni e la tua progenie possegga le porte dei suoi nemici». Maša non gemeva quasi, ma il suo respiro era più affannato del solito. E, se è vero che esiste l'anima, la sua in quel momento doveva essere molto in alto e non lontana dalla mia. 27
Sei così bella, Emmanuelle... L'amore arriverà sulla tua strada.
«Tu sei bella davvero, o mia diletta, tu sei bella davvero. Gli occhi tuoi son di colomba.» «Voglio farlo così» disse, e si girò sulla pancia. Maša doveva esser venuta già varie volte a giudicare dai fremiti e dal suo respiro. Ma io ancora mi trattenevo. Mi sembrava di aver raggiunto uno stadio di non-coscienza zen. Anche se a un certo livello ero cosciente. Sapevo che avrei ricordato quel momento tutta la vita. Ma per un altro verso non ero affatto cosciente. Mi trovavo Dio sa dove. Da qualche parte molto in alto. E mi sembrò che per l'eccitazione accumulata il corpo cominciasse a tremare, a vibrare. Da solo, in vetta all'altezza. Ebbi paura di finire in pezzi. Un istante dopo esplosi. «Tutti i monaci sono così?» chiese Maša dopo un paio di minuti. «Aspetta.» Cercai di riprendere fiato. «Che c'entrano i monaci? Io sono un soldato.» «Un monaco soldato. Voi uomini avete i vostri giochi. Ma nessuno di voi vuole giocare a fare il rispettabile padre di famiglia. Tra l'altro, mi sei venuto dentro.» «Sì. Però... finalmente avrai un figlio.» «Sì, è da tanto che desidero un figlio. Anzi, tre. Mi chiedo che patronimico avrà il primo...» «In che senso?...» Avevo capito e mi adombrai. «Ma c'è il test del Dna. Controlleremo. Vedrai che avrà il mio patronimico. Iosifovič, figlio di Iosif. Del resto, accetterei anche un Germanovič, figlio di German.» «E come fai a saperlo? Magari è una femmina, una Iosifovna. Interessante. Il mio nome vero è Marija. Il tuo, Iosif, e il patronimico addirittura Jakovlevič, figlio di Giacobbe. Se ti nasce un figlio, lo sai come devi chiamarlo.28 » «Lo so, ma tu non sei Marija Jakimovna, figlia di Gioacchino. E da noi non si danno questi nomi ai bambini. In Israele invece sì.» «Ma per questo non dovremo andare in Israele, vero?» «No, ma da qualche parte dovremo andare.» «E se ci andassimo, in Israele? Tu non hai del sangue ebreo?» «Sì, un po'. Vestiti, Maša. In Israele è tutto magnifico. Solo che è un Paese molto piccolo, e brulica di hat. Là ci rintraccerebbero subito e ci am28
L'allusione è a Giuseppe, figlio di Giacobbe, e Maria, figlia di Gioacchino, e quindi al nome di Gesù.
mazzerebbero.» «Smettiamola di dire sciocchezze. Non fare l'uccello del malaugurio! In compenso in Israele i servizi segreti ti proteggerebbero.» «Maša! Io sono sospettato di aver ucciso un uomo! E dopo la storia di oggi... quali servizi segreti? Verrei subito estradato come pericoloso criminale.» Maša si rivestiva e io la osservavo. È affascinante osservare una donna che si veste. Lo sguardo dell'uomo non la desidera più. È uno sguardo, per così dire, platonico. Sereno. E la donna non sta più pensando a dove appendere la gonna e si comporta in modo naturale, sexy. I suoi sono gesti spontanei, ripetuti da sempre. La vera bellezza di una donna si svela proprio in questo momento. E, rivelandosi, si cela. Fino alla volta successiva. «Caro, devo comprarmi delle scarpe!» «Ma le ciabattine con i pon pon non ti piacciono più? Va bene, chiederemo al maggiore degli stivali di pelle da donna, misura 37. Staranno benissimo con la tua camicetta beige. Jeans, camicetta e stivali. Un look raffinato!» «Mi fai morire dal ridere.» «Non ti piace sentir scricchiolare gli stivali? Va bene, penserò a qualcosa. Intanto non vorresti del tè?» «Oggi sei particolarmente gentile.» «Dev'essere la lunga separazione. Non farci caso!» Uscii dalla stanza e ritrovai i due maggiori. Il maggiore Kozlov era rosso in viso e aveva l'aria contenta. Sorrideva e singhiozzava. Šurik sembrava più sobrio. Guardando verso l'alto, con voce in falsetto annunciò: «L'imbarco per il volo Mosca-Kazan' della Aviolinee strategiche sta per terminare. I passeggeri in partenza sono pregati di affrettarsi a raggiungere il cancello 0-0-7.» «Ecco il denaro. Ridammi la pietra.» «Grazie! Fa sempre piacere quando una persona rispetta la parola data. Riprenditi il tuo pezzetto di vetro.» «Un'ultima richiesta prima del decollo. Servirebbero un paio di scarpe, misura 37.» «Romeo, hai forse sentito dire che gli scienziati russi abbiano clonato un ibrido tra il pescecane e il pesciolino d'oro fatato?» «Perché?» «Puoi esprimere tre desideri.» «Ha, ah, ah! E perché?»
«Tu pensi che in un aeroporto militare possano saltar fuori così dal niente delle scarpe da donna e per di più della misura giusta...» «Non saprei.» «Ma io lo so. Ne ho giusto comprato un paio per mia moglie.» «E allora vendimele» dissi tutto contento. «Romeo, noi non siamo dei banditi di strada. Siamo aviatori di una superpotenza. Prendile, sono tue!» «Ma no, non è il caso.» «È il caso, Romeo, è il caso. Te le offrono, e tu acchiappale. Con i soldi che ci hai dato, chissà quante scarpe ci compreremo io e mia moglie! Su, prendile e buon pro ti facciano!» Con il piede allontanò da una pila di borse, frutto del suo estemporaneo shopping moscovita, un sacchetto verde contenente una scatola. Io, strippando, bofonchiai un "grazie" e portai il sacchetto a Maša. Le dissi che il tè non l'avrebbero portato. L'avrebbe servito poi a bordo la hostess, ammesso che ce ne fosse una. In compenso, però, la questione delle scarpe era risolta. Provvisoriamente, s'intende. Non feci in tempo a completare la frase che Maša aprì la scatola. Dopo di che mi chiese se in monastero non avessi per caso imparato i fondamenti della stregoneria. Diplomaticamente ed enigmaticamente non risposi. Di lì a venti minuti il nostro aereo decollava facendo rotta su Kazan'. Šurik diffuse la musica attraverso l'altoparlante. Aveva dei gusti insoliti, soprattutto per un aviatore del Polo. Trasalii, sembrava la voce di Boris Grebenščikov. La sua è una voce inconfondibile. Ma la canzone era chiaramente di Okudžava. Ricordai che nella mia remota infanzia l'avevo sentita suonare alla chitarra dai miei giovanissimi genitori e dai loro amici. La fiamma brucia senza consumarsi, Resisterà ancora? Non mi risparmierà, Mi consumerà. Fissai stupito Maša. Era molto semplice. Maša mi spiegò che in quel disco Boris Grebenščikov interpretava le canzoni di Okudžava. Maša aveva sentito parlare di quel cd, ma anche lei non l'aveva mai ascoltato prima. Boris Grebenščikov aveva raccolto delle canzoni piuttosto rare, mai incise in epoca sovietica e rimaste inedite. Mi concentrai nell'ascolto, con una mano sul ginocchio di Maša. La por-
ta della cabina di Šurik era rimasta aperta. Reclinai il sedile e chiusi gli occhi. Avevo la sensazione di essere libero e felice. «Maša, mi sento libero e felice! Ma se sapessi quante cose ho da raccontarti!» «Su, raccontamele!» «No, non posso. Sono libero e felice.» «Allora aspettiamo di essere atterrati.» Capitolo Diciannove Aeroporto militare di Kazan'. Sera tardi. Sopra di noi solo la luna, intorno a noi solo estranei. Il mondo è scuro, freddo e inospitale. L'ultima buona azione di Šurik: un enorme maglione nero sostituisce la mia giubba militare. Ci abbracciamo esprimendo la speranza di rincontrarci prima o poi. Šurik bacia la mano a Maša. «Grazie, Šurik. Per l'aereo, il telefono e le scarpine numero 37. Grazie di tutto!» Šurik torna verso l'aereo con la sua andatura dondolante. Un soldatino piccolo e gracile ci porta alla stazione. Stazione di notte. Regno sonnolento di bauli e barboni. Un vecchio orario mezzo sfasciato. Correzioni aggiunte con il pennarello nero sulla superficie plastificata. Secondo l'orario per oggi non ci sono più treni. Impreco. Di trascorrere la notte in stazione non ho alcuna voglia. E andare in albergo è impossibile: il passaporto di Maša, l'unico che abbiamo in due, non è più utilizzabile. Per caso, orecchiando la conversazione di due tipi dall'aria poco raccomandabile, capisco che il treno Orenburg-Vjatka è in ritardo di quattro ore. E che deve arrivare tra poco. Busso allo sportello della biglietteria. Silenzio. Busso ancora. Arriva una cassiera dall'aria assonnata, che conferma l'esistenza sia del treno che dei biglietti. «E c'è un vagone letto?» «Ma quale vagone letto? Giovanotto? Cos'è, mi prende in giro? È un treno misto merci-passeggeri.» «E uno scompartimento?» Annuisce stancamente. «Posso comprare quattro posti?» «Se non sa dove buttare i soldi...» «E tra quanto arriva il treno?» «Presto. Tra quindici minuti.»
Mostro i biglietti a Maša. Si ravviva un po'. «Dove andiamo?» «A Vjatka.» «E dov'è?» «Da qualche parte. Che differenza fa?» «È lontano?» «Una notte.» Il binario non è illuminato. La luce di un riflettore, da lontano, ci ferisce gli occhi. Odore di carbone, di catrame e di qualcos'altro ancora, dalla cui mescolanza nasce l'odore di ferrovia. Fa freddo. Ecco il treno. Non riesco a credere che per oggi sia davvero finita... La cuccettista, una quarantenne grassoccia, è in grembiule. Il vagone ristorante su questo treno non c'è, ma ci porteranno biscotti, tè caldo e cognac. Beviamo due bottigliette di Aragvi quasi d'un sorso. Fumiamo nel fragore della piattaforma. E basta. A dormire. Senza discorsi, senza prigioni, senza Stelline, hat, monasteri e omicidi. Il cuore è tranquillo. Stanco e felice. La radio avverte misteriosamente il mio stato d'animo e manda in onda Kozin, quasi impercettibile. Siamo così vicini che non c'è bisogno di parole, per ripeterci ancora una volta che la nostra tenerezza e la nostra amicizia sono più forti della passione, più grandi dell'amore. L'ora dell'allegria e il dolore del distacco li voglio per sempre dividere con te. Stringiamoci la mano, allora, e partiamo per questo lungo viaggio. Possibile che quella felicità famigliare per cui non sono tagliato arrivi così indiscutibile? La mattina successiva fu piacevolmente affaccendata. Facemmo colazione con tè e biscotti. Non avevo ancora finito di raccontare a Maša tutte le mie avventure che già il treno entrava nella stazione di Vjatka. Appena giunti in stazione, cercammo di accordarci con una vecchia contadina con il fazzoletto in testa per l'affitto di una camera. Quella però ci guardava diffidente. «E i vostri bagagli dove sono, colombelli?» Maša guardò prima il suo zainetto e poi me. Io decisi che era ora di
squagliarsela. Intorno era pieno di poliziotti. «Oh, nonnina! Non sa che storia ci è capitata! I nostri bagagli sono all'aereoporto. Li abbiamo consegnati prima di imbarcarci e... siamo andati a farci un goccetto. Il bicchiere della staffa. E intanto l'aereo è partito. Con tutti i nostri bagagli. Per fortuna che i documenti li avevamo tenuti noi. E anche i soldi. Abbiamo dovuto prendere il treno. Per questo adesso dobbiamo correre all'aeroporto. A salvare le nostre cose.» «Be', certo. Non si può non brindare alla partenza. Sarebbe come partire senza aver detto una bella preghiera. Non si sa mai come un viaggio vada a finire... Ma posso vedere i vostri documenti?» «Ma certo! Maša, fai vedere i documenti alla nonna!» «Va bene, allora. Lo capite anche voi, non si possono dare le chiavi al primo venuto... Di questi tempi...» «Ma è chiaro, nonnina! Chi non la capirebbe! Sono tempi brutti, nonnina. Bruttissimi!» «Oh, Dio non voglia! Tutti i tempi sono stati brutti, ma questo, di tutti i tempi che ci sono stati...» «Cosa dice, nonnina, è vicino il tempo dell'Anticristo?» «Dell'Anticristo non posso dire nulla. Non lo so. Ma la pensione non è per niente vicina.» La vecchietta rifece mentalmente i conti, stringendo le labbra con aria concentrata, dopo di che ci infilammo tutti e tre in un taxi, il che la convinse definitivamente riguardo alla nostra affidabilità. Che cosa avremmo potuto rubare dall'appartamento della vecchietta, non era facile da capire. Non c'era nemmeno il televisore. Vecchi mobili zoppi. Un lampadario di plastica degli anni Sessanta. Facemmo la doccia nella vasca arrugginita e poi andammo a prendere le nostre cose all'aeroporto. Cioè al centro commerciale. La vecchietta ci fece il segno della croce sulla soglia di casa, benedicendo la nostra impresa. La prima cosa che acquistammo fu una grossa valigia con le rotelline. Dopo di che ci separammo in modo da accelerare le cose. La valigia rimase a Maša. Io mi comprai un maglione di lana bianco avorio stile norvegese, un paio di jeans verde scuro, degli scarponcini neri dall'aria vagamente militare e della biancheria. Indossai subito gli abiti, dopo aver accuratamente gettato in un grosso bidone della spazzatura tutto ciò che avevo addosso, a parte il maglione nero. Mezz'ora più tardi recuperai Maša davanti all'ingresso principale. Aprii la valigia per riporvi il maglione nero e non riuscii a reprimere un sospiro.
Per il maglione non c'era assolutamente posto. Mi ricordai lo strano rapporto di Maša con lo shopping. Da una parte avevo registrato il suo record personale di velocità nella spesa, realizzato a Parigi e pari a millesettecento euro all'ora. E si trattava di vero shopping, comprese le prove in camerino ed esclusi gioielli e biglietti aerei. D'altra parte Maša non sopportava di parlare di vestiti, di moda, della nuova collezione di Krizia e di tutti quelli sciocchi argomenti femminili di cui esiste una sola cosa più sciocca, e cioè le discussioni maschili sulle automobili. Eppure Maša si vestiva sempre bene, o molto bene. E non nel modo più ovvio: camicia blu, gonna blu, scarpe blu e borsa blu, ma in un modo assolutamente libero e disinvolto, all'europea. Gli indumenti e gli accessori si accordavano tra loro per fattura, intonazione, stile, anima, se le cose possono avere un'anima, o per qualsiasi altro motivo, ma non per colore e tonalità. Una volta le aveva chiesto come facesse a sapere, visto che non amava parlare di vestiti con le amiche, cosa comprare e dove. Maša mi aveva risposto: «Che bisogno c'è di parlarne? Si vede, no? E poi ci sono le riviste». Quel giorno evidentemente Maša era in forma, per cui dovemmo comprare un'altra borsa. Grande, nera, con due cerniere. Continuammo il saccheggio del centro commerciale, ma questa volta insieme (Maša non ce la faceva a portare la valigia), e in questa fase ci procurammo shampoo, dentifricio e spazzolini da denti. Più altre simpatiche sciocchezze come pettini, limette, assorbenti, deodoranti e cotton-fioc. A quel punto capii che stavo per morire dalla fame. Così, dopo aver depositato le nostre cose dalla vecchietta, ce ne andammo al ristorante. Avevamo detto al taxista che cercavamo il ristorante migliore della città che, a quanto pare, era una scatola di vetro e cemento chiamata Grande Rus. Guardai l'insegna con un certo scetticismo. Non amo molto la calligrafia antico-russa e davanti a un'insegna in stile contadino-medievale vengo assalito dai peggiori presentimenti. Capisco che la triade "ortodossia - autocrazia - popolo" sia di gran moda. Per carità. Ma siamo comunque dalle parti del ventunesimo secolo. Cosa c'entra allora quello stile da profondo Medioevo? Vogliamo tornare ai tempi dello zar Aleksej Michajlovič? Del resto, dal punto di vista dell'estensione territoriale, ci siamo già tornati. Ma perché sottolinearlo anche con lo stile della scrittura? Che poi non esprime nulla se non arretratezza e cattivo gusto. Eppure, non c'è angolo in cui non te la ritrovi davanti. Perfino sulle maglie della nazionale di calcio. Così diventa anche difficile pre-
tendere un livello di gioco europeo... I miei presentimenti non mi avevano ingannato. Tovaglioli di merletto. Stoviglie orribili, da mensa aziendale. Camerieri servili con un sorrisetto chiaramente canzonatorio appena dissimulato. Proprio come in quella vecchia storiella: «Voglio andare in Unione Sovietica!»29 . Ordinai aringa, minestra di cavolo e brasato in coccio. Mi sembrava giusto uniformarmi allo stile dominante. Maša, al contrario, provò a ribellarsi. Non le andò molto bene. L'insalata di avocado, i gamberetti lessati e il tè verde, pur indicati nel menu, non c'erano. Maša cercò di indignarsi. Io le indicai in tono conciliante le numerose correzioni appiccicate al menu, scritte a macchina con l'evidente ausilio della carta carbone. Accanto ai piatti che aveva scelto c'era una notazione brevissima: «No». Maša sospirò. Poi ordinò i bliny con caviale e del caffè. Decisi di tranquillizzarla. «Probabilmente il taxista si è sbagliato e questo non è il ristorante migliore di Vjatka.» «Lo spero proprio. Altrimenti mi dispiacerebbe per la città.» «E per lo Stato nel suo complesso. Ma... non di solo pane vive l'uomo! Ecco, contempla i veri valori!» Dopo essermi rapidamente guardato intorno e aver constatato l'assenza di altri clienti, estrassi la Stellina, che cominciò a scintillare. Mi dispiacque un po' di averla tirata fuori in quel ristorante. Dopo averla accuratamente esaminata, Maša me la restituì e disse in tono pensoso: «Varrà trecentomila. O cinquecentomila. O un milione. Ci vorrebbe un professionista per capirlo. È per questo tesoro che ieri ho ucciso due persone?». «Lo sai anche tu: le pietre preziose portano morte.» «Al contrario, sono talismani. Questa, per lo meno, ci ha salvati di sicuro.» «Sei stata tu a salvarci. Non riesco ancora a realizzare come ci sia riuscita. Una fanciulla inerme! Non credo che tu abbia mai visto un mitra, nemmeno al corso di addestramento militare!» 29
Si tratta di una storiella sovietica degli anni Ottanta. Siamo in una scuola materna. L'educatrice addestra i bambini. «Bambini! Dove sono i giocattoli più belli?» Tutti, in coro: «In Unione Sovietica!». «E dove sono le scuole materne migliori?» «In Unione Sovietica!» «Bravi, bambini! E dove sono le educatrici più brave?» «In Unione Sovietica!» A questo punto il piccolo Vladimir comincia a piangere. «E tu, sciocchino, perché piangi?» «Voglio andare in Unione Sovietica!»
«Non so come ho fatto. Non ho avuto nemmeno il tempo di spaventarmi. È stato un lampo.» «Sì. Ci sono delle vere donne nella terra russa.» «Ci sono delle vere donne. Però adesso vogliono ascoltare un uomo. E sapere che cosa ha intenzione di fare...» «Dobbiamo sparire dalla Russia. Per lo meno per un po' di tempo. Per questo ci servono dei nuovi documenti. I tuoi vanno bene giusto per le nonnine che possiamo trovare in stazione. E io non li ho nemmeno. Il foglio di rilascio l'hanno tenuto gli hat.» «E dunque?» «In prigione ho trovato un nuovo amichetto, Koba. Suo padre è un pezzo grosso a Vladivostok. Ci aiuterà a procurarci dei nuovi documenti.» «E non possiamo cavarcela senza l'intervento di banditi?» «Io non conosco persone oneste in grado di procurarmi due passaporti falsi. A Vladivostok possiamo arrivarci in treno, con l'espresso della Siberia che passa proprio da Vjatka. I ferrovieri non chiedono i documenti. E anche i biglietti possiamo comprarli senza, come abbiamo fatto ieri, del resto. Diciamo che li abbiamo dimenticati a casa e che non abbiamo voglia di andarli a prendere. E arriviamo in Estremo Oriente. È un posto molto suggestivo. Vulcani. Baie. L'oceano Pacifico.» «E quanto ci vuole per arrivarci?» «Da Mosca sei giorni. Da qui invece quattro, credo.» «Quattro giorni senza lavarci?» «Nei vagoni letto ci sono la doccia, il televisore, e anche il videoregistratore. Ci compreremo dei libri. Delle cassette. Della musica... Andiamo?» «Sei diventato un tale avventuriero... Prima eri pigro e imbranato...» «Sono ancora pigro e imbranato. Per questo non ho fretta di raggiungere il mondo parallelo e sono costretto a mettere in atto una serie di iniziative. Il treno, tra l'altro, è un luogo dove è particolarmente piacevole abbandonarsi alla pigrizia. Te ne stai sulla tua cuccetta. E non fai assolutamente niente. Dobbiamo solo ricordarci il whisky.» «Non diventerai un ubriacone in quattro giorni? Va bene, andiamo in stazione a prendere i biglietti. Chiedi il conto.» Il cameriere, uno spilungone allampanato, ci portò il conto nel giro di pochi secondi, anche se per ciascun piatto avevamo dovuto aspettare almeno quaranta minuti. Contai 280 rubli. Dieci dollari in due. Eccolo, l'eterno enigma russo. E Vjatka non è certo un villaggio. Una classica città di provincia, piuttosto.
Comprammo i biglietti per il vagone letto senza alcuna difficoltà. E poi riviste, libri, videocassette, un cd-player e un assortimento base di cd, giusto il minimo indispensabile per sopravvivere quattro giorni. Al supermercato locale mi assicurai, in mancanza di meglio, una bottiglia di Red Label. Tornati dalla nonnina, sistemammo tutti gli acquisti in varie borse e sacchetti e ce ne andammo a visitare la città. Su mio consiglio, Maša telefonò a una sua lontana parente e le chiese di riferire a sua madre che aveva lasciato German ed era partita per una fuga d'amore. Telefonare direttamente alla madre era pericoloso, perché temeva che German avrebbe tentato di rintracciarla con l'aiuto dei suoi amici banditi, o magari anche della polizia. I genitori avrebbe capito che Maša aveva effettivamente paura di contattarli, ma che stava bene e non aveva particolari problemi, a parte la perdita del marito. Io mandai un telegramma a mia madre, in ufficio: «Sani e salvi siamo in viaggio - un bacio - Maša Iosif». Tornammo a casa abbastanza presto e andammo subito a letto, sperando di dormire almeno qualche ora. Il treno Mosca-Vladivostok passava da Vjatka alle cinque. Alle tre e mezza ci alzammo e cominciammo a prepararci. La nonnina si alzò per salutarci. La sua voce era stranamente severa. Quando vide che eravamo già pronti ad andarcene, guardò il soffitto e, rivolta alla lampada, sentenziò: «Non bere il bicchiere della staffa porta molto male». Senza parlare, aprii con aria solenne la bottiglia di whisky e riempii le tre tazze che come per incanto erano immediatamente apparse. «Al nostro viaggio, nonna!» «Sì. Al viaggio che la sorte vi ha destinato. Che le lacrime delle vostre mamme vi proteggano. Che non perdiate quello che non avete ancora trovato. Che vi illumini la luce della verità e della salvezza. E che il viaggio basti per tutti e due.» Concluso il suo brindisi, vuotò la tazza senza fare una piega. Ci guardammo e bevemmo anche noi. Guardai l'orologio - le quattro - e scossi la testa: «Sì, il viaggio... l'importante è che sia piacevole». Con l'aiuto della nonnina finimmo rapidamente la bottiglia, confermando la nostra reputazione di gente che si era bevuta anche un viaggio aereo, e ci salutammo di nuovo. Questa volta molto più calorosamente. Poco dopo stavo già studiando con interesse il vagone letto dell'espresso Mosca-Vladivostok. Una pulizia incredibile. Passatoia bianca di lino in
corridoio. Nella toilette, doccia e, a disposizione dei viaggiatori, assorbenti igienici, copri-water di carta, due tipi di sapone liquido, tovaglioli usa e getta. Nello scompartimento, televisore e videoregistratore. Biancheria inamidata. E una scelta di biscotti, caramelle e marmellatine. Contemplammo increduli le meraviglie del ministero dei Trasporti. Poi bevemmo il tè che nel frattempo ci aveva gentilmente portato una cuccettista dai capelli rossi. Poi, improvvisamente, mi resi conto che per la gioia, il trambusto e tutti quegli spostamenti mi ero dimenticato di chiedere a Maša la cosa più importante. Perché, alla fin dei conti, avevo dovuto abbandonare il monastero e volare a Mosca? «Maša! A quanto pare mi sono dimenticato di chiederti la cosa più importante...» «Oh... te ne sei accorto, finalmente! Da dove devo cominciare?» «Dal nostro ultimo incontro. Da quel momento mi sembra tutto un tale casino...» «Io me ne sono andata con Ol'ga. E tu sei partito per il Casinò. Il giorno dopo, se ti ricordi, eravamo d'accordo per incontrarci. Ma tu non ti sei fatto vedere. Poi, verso sera, mi ha telefonato Matvej. E con voce sepolcrale mi ha detto che eri stato arrestato con l'accusa di omicidio. Io mi sono precipitata con un po' di roba e di soldi alla polizia, all'indirizzo che mi aveva dato lui. Da lì mi hanno cacciata in malo modo, dicendomi che ti avevano già portato via.» «Palle.» «Chiaro. È il loro lavoro, vengono pagati per quello. Sono andata in procura e mi hanno detto di tornare il giorno dopo. L'indomani ho capito che anche Matvej era sparito. Con grandi difficoltà, tramite il suo ufficio sono riuscita a rintracciare il numero di telefono di Ol'ga, che mi ha detto che Matvej era stato ricoverato in un reparto psichiatrico. A quel punto mi sono sentita male, malissimo. Ho chiamato tua madre. Insieme abbiamo passato i giorni e le notti successivi tra procura, SIZO e avvocati vari. Senza alcun risultato. Ho capito che la situazione era ancora più grave di come mi era apparsa all'inizio. Perché era una faccenda con cui assolutamente nessuno voleva avere a che fare, a parte gli avvocati, naturalmente. Che comunque non sono neppure riusciti a organizzarmi un colloquio. Ma cosa dico, un colloquio! Nemmeno un semplice scambio di notizie! Una cosa incredibile! Poi è arrivato Anton. Ha detto che aveva messo sotto qualcuno, ma che non aveva idea di quello che avrebbe ottenuto. Per la dispera-
zione mi sono rivolta a German. Ho pensato che magari i suoi amici avrebbero potuto aiutarmi.» «Originale. Il marito aiuta la moglie a tirare fuori dal carcere il suo amante?» «Ero in un momento terribile e non sapevo cosa fare. German mi ha insultata. E ha detto una frase strana. Ha detto che avevi esagerato. Gli ho chiesto in che senso. Ma lui si è subito tirato indietro. Ha detto: "Nel senso di portarti via da me". Ho perfino pensato che fosse stato lui a organizzare tutto.» «Ma cosa dici! È uno storico! Il che significa un teorico. Mmm...» mi era balenata in testa un'idea divertente. «Sai come si chiamano gli storici che si danno al lavoro pratico? Geopolitici! Ma di veri geopolitici in Russia ce ne sono pochi. Di solito da noi chi vorrebbe fregiarsi di questo titolo ignora la differenza tra la Guerra dei Cent'anni e quella dei Trent'anni. E analizza i difficili rapporti tra la Russia e l'Occidente demonizzandoli senza alcun fondamento.» «Ma è importante conoscere la Guerra dei Cent'anni?» «Certo che è importante. Sarebbe come se uno pretendesse di essere uno scacchista e non avesse studiato numerosissime posizioni e partite classiche. Ogni volta che gioca sarebbe costretto a calcolare tutta una serie di mosse che in realtà sanno già tutti da un sacco di tempo.» «E allora?» «Perderebbe.» «Però è vero che l'Occidente non ci ama. E che ha paura di noi. E che vorrebbe vederci morti o talmente deboli da essere del tutto inoffensivi.» «Maša, cosa sono questi discorsi da asilo infantile? Da te non me lo aspettavo. Prova a immaginare di vivere in un villaggio, un grande villaggio, e di avere un vicino che è appena uscito di prigione. Beve, litiga con tutti, picchia a sangue la moglie. Non solo, picchia anche i suoi bambini. E un giorno o l'altro potrebbe scagliarsi anche contro di te. Vorresti che questo tuo vicino fosse forte? Adesso immagina un'altra possibilità: hai un vicino normale. Con cui si può bere un bicchiere. Che ti può dare un buon consiglio. E magari fare anche un prestito. Sua moglie e i suoi figli sono simpatici. Per di più, se dal villaggio vicino dovessero arrivare ad attaccarti dei delinquenti ubriachi, lui correrebbe a difenderti. Vorresti che fosse forte? L'Occidente vuole una Russia civile dal punto di vista europeo, che, tra parentesi (e forse in questo senso è davvero un po' arrogante), considera il punto di vista universale. Che i russi non siano né meglio né peggio dei
francesi, degli inglesi o dei tedeschi. O degli spagnoli. O degli italiani. Diversi. Certo, diversi. Ma non peggio e non meglio.» «Ammettiamolo pure. Ma che cosa c'entra con la storia che ti stavo raccontando?» «Tutto c'entra con la storia.» «Ti stavo parlando di German. Ho l'impressione che tu e la nonnina abbiate un po' esagerato.» «La nonnina adesso non c'entra niente. German conosce la storia. Ma se potesse fare qualcosa... Ha avuto un sacco di tempo! Anche se sono convinto che non sia stato lui a incastrarmi.» «Certo che no. Ma che cosa sai di German?» «Adesso so che ha il numero della linea segreta degli hat a Mosca. Prima sapevo solo che si occupa di storia medievale e insegna all'università. Mi aveva un po' stupito che avesse delle discrete possibilità economiche. Ma avevo pensato che si trattasse di qualche borsa di studio. Di Soros. O degli accademici europei che non volevano che i loro colleghi morissero di fame. E poi dei genitori, naturalmente. Almeno i tuoi.» «Era quello che pensavo anch'io. Ma quella frase, quando ha detto che avevi esagerato, mi ha stupita. Perché è vero che avevi esagerato, ma come faceva lui a saperlo? Me ne sarei anche dimenticata, ma proprio in quei giorni German ha cominciato a prepararsi per una missione scientifica. E non in Europa, come al solito. In Ecuador.» «Un posto un po' strano per un medievalista.» «Infatti. Io mi ricordavo il tuo racconto sui serpenti a due teste e sulle testoline essiccate. Mi sono insospettita. Gli ho chiesto in tono scherzoso che cosa facesse uno storico del Medioevo tra gli indios. Lui mi ha risposto sullo stesso tono: mi ha detto che esistono processi parallelli nello sviluppo delle diverse civiltà, e che andava là per questo.» «Può anche darsi che sia vero.» «Può darsi. Ma tutte queste storie mi avevano così impressionata che sono diventata tesa e sospettosa.» «Ti capisco. Se sei paranoica, non è detto che non ti stiano seguendo...» «Esattamente. Una volta, torno a casa dopo aver fatto la spesa. German è al telefono e non si accorge che sono rientrata. E io sento che dice una frase tipo: "Ho bisogno di un lasciapassare per l'archivio segreto del diciassettesimo secolo". Mi sono sentita gelare. Capisci cosa significa?» «Veramente no. Che segreti ci possono essere a proposito del diciassettesimo secolo?»
«Proprio così. Vuol dire che hai capito. Così, lo saluto e vado in cucina a mettere via la roba. Ma dopo il mio ingresso sento che si mette a parlare del più e del meno.» «Sei molto perspicace.» «Non credo. Può darsi che ci fossero già state conversazioni del genere e che non ci avessi fatto caso. Ma adesso... Insomma, provo a dare un'occhiata nel suo studio. Il computer è acceso e lui è andato in sala, a telefonare. Di solito non mi lascia avvicinare al suo computer, nemmeno per usare internet o per fare i giochini. E quando entro nel suo studio, chiude subito tutti i file. Mi ha spiegato che è una reazione automatica, una questione di privacy.» «Così vedi il computer acceso e ti senti un po' James Bond.» «Sì. Ero esasperata da quelle coincidenze. Non avrei mai pensato di poter fare una cosa del genere, ma tu eri in prigione, German aveva detto che avevi esagerato, stava per partire per l'Ecuador, e chiedeva un lasciapassare per documenti segreti del diciassettesimo secolo. Non era un po' troppo?» «Hai ragione.» «Piano piano mi avvicino al computer, solo per vedere. E sullo schermo...» «Trovi i metodi per la riproduzione dei serpenti bicefali in cattività, e anche le ultime acquisizioni nel campo dei metodi di miniaturizzazione delle teste.» «Quasi! Prendo dalla borsa un dischetto nuovo e salvo lì il file. Ma ho paura che la mia operazione abbia lasciato qualche traccia...» «Giustamente. Per lo spionaggio bisogna avere la preparazione giusta, e un minimo di competenza in campo informatico.» «Mentre io non ci capisco niente. Così corro in cucina e accendo la lavatrice, il bollitore e la lavastoviglie.» «Per fare rumore?» «Poi il ferro da stiro e tutti i fuochi della cucina elettrica. Poi salta la luce e il computer si spegne. Era già capitato che con un simile carico saltasse tutto.» Rimasi un attimo muto per l'ammirazione. «Brava! E non avete l'UPS?» «Non so che cosa sia.» «Non importa. Alt! Vuoi dire che quel dischetto è qui, adesso?» «Aspetta. Il giorno dopo vado al lavoro. Ma, ancora prima di inserire
quel dischetto nel computer, vedo arrivare Tanja che con un sorrisetto furbo mi dà una lettera da parte tua. Non sapevo più con che cosa iniziare la mia giornata di lavoro!» «E con che cosa l'hai iniziata?» «Con te, amore! Inizio sempre con te! Ma poi ho letto il testo di German, e ho cominciato a tremare. Non avevo nessuno con cui parlare, non potevo fare niente. Decido di leggere ancora una volta la tua lettera. E trovo quel riferimento alla radio di Archangel'sk. Cerco il numero di telefono in internet e li chiamo. Sono tutti gentilissimi. L'ho sempre pensato che su al Nord siano molto meglio di noi moscoviti. È andato tutto bene, ma poi mi rendo conto che mi sono lasciata un po' troppo trascinare dal primo impulso, per usare un eufemismo. È vero che avevo fatto delle scoperte sconvolgenti su mio marito, ma non era il caso di farti correre a Mosca, facendoti rischiare la vita... Allora li chiamo di nuovo e chiedo loro di mandare in onda, l'indomani, la canzone di Maria Maddalena di Jesus Christ Superstar. Te la ricordi? Everything's alright, yes, everything's fine. Ma proprio mentre esaudivano la mia richiesta, mi hai telefonato tu sotto il portone di casa mia.» «Il seguito credo di saperlo. Maša, hai una caratteristica molto interessante. Ami gli uomini forti e non ne hai affatto paura. Si può vedere il testo?» «Certo, tesoro! Non ho ancora capito se sei davvero James Bond, ma ti ho preparato tutto. E pensare che ti sei messo a gridare per centoventi secondi di preparativi! Che cosa avresti detto, se mi fossi dimenticata di queste paginette?» Maša prese lo zaino e ne estrasse due fogli ripiegati in otto. Li aprii e immediatamente aggrottai le sopracciglia. «Storia della Confraternita di Hatshepsut. Introduzione. Parte prima. Breve cronologia della Confraternita dal 1500 a.C. al 350 d.C.» Capitolo Venti STORIA DELLA CONFRATERNITA DI HATSHEPSUT Introduzione. Parte prima. Breve cronologia della Confraternita dal 1500 a.C. al 350 d.C.
EPOCA DELL'ILLUMINAZIONE 1484-1445 a.C. Vita di Hatshepsut. Comprensione della dottrina del mondo parallelo. Scoperta della legge dell'equilibrio della comunicazione dell'energia Ka. 1445 a.C. Morte di Hatshepsut. Primi tentativi di interpretare il numero 222461215 da parte di Duamutef. FINE DELL'EPOCA DELL'ILLUMINAZIONE «Maša! Ma in che epoca sono gli hat, adesso?» «Come faccio a saperlo? Probabilmente nella migliore epoca possibile. Leggi, non ti distrarre. Poi parliamo.» «Ci provo. È un testo molto denso.» «Però è breve. Leggi lentamente. Riflettici sopra.» «Ok...» EPOCA DELLA RICERCA 1445-1435 a.C. Duamutef studia l'energia negativa Ka. Scopre la possibilità di incrementare la quantità di energia negativa Ka nel mondo parallelo attraverso il suo incremento nel mondo terrestre (indagine di Duamutef). 1432 a.C. Duamutef scopre il principio di conversione dell'energia negativa Ka nel mondo parallelo. Crea la Comunità, il nucleo del futuro popolo eletto. 1313 a.C. Upuat I (il Grande) mette in pratica le ricerche di Duamutef. Le dieci piaghe d'Egitto. Uscita degli ebrei dall'Egitto. Successivo conflitto tra Upuat il Grande e Mosè. 1313-1274 a.C. Guerra dei Quarant'anni. Prima comparsa sulla Terra di oggetti provenienti dal mondo parallelo. 1273 a.C. Upuat il Grande istituisce il divieto di guerre nel mondo parallelo. 1266 a.C. Upuat il Grande scopre il principio della canalizzazione dell'energia positiva Ka nel mondo parallelo. 1110 a.C. Upuat II (l'Esorcista) introduce i princìpi di creazione dei codici, efficaci contromisure per i riti monoteistici. 1104 a.C. Upuat l'Esorcista utilizza il rito della terra per una interazione precedentemente calcolata con il mondo parallelo.
960 a.C. Upuat III (il Canonizzatore) riporta i princìpi scoperti da Hatshepsut, Duamutef e Upuat il Grande in un'unica dottrina. Elaborazione della dottrina energetica. FINE DELL'EPOCA DELLA RICERCA «Maša, ma che roba è? Cos'è questa idiozia della dottrina energetica?» «Stai leggendo quello che ho scoperto sul computer di German.» «Sì, ma...» EPOCA DELLA CONSERVAZIONE E DELLA MOLTIPLICAZIONE 722 a.C. Tradimento ed esecuzione di Gerech. Disputa sulla possibilità che anche altri popoli raggiungano le caratteristiche energetiche del mondo parallelo. Prime trascrizioni dei miti greci (Odissea). 720 a.C. Dogma di Upuat VI sull'impossibilità di canalizzare l'energia Ka da parte di altri popoli. 750-350 a.C. Considerevoli successi della diplomazia della Comunità. Guerre assire (Salmanassar V, Sargon II, Sennacherib, Asarhaddon, Assurbanipal). Crollo dei regni giudaico e israelita. Guerre persiane (Ciro, Cambise, Dario il Grande, Serse). Guerre cinesi. Guerre intestine greche (guerre del Peloponneso, guerre sacre). Ascesa di Roma (guerre sannite, guerre puniche). EPOCA DEI SEICENTO ANNI DI PIANTO 336-323 a.C. Conquiste di Alessandro il Macedone. 323-80 a.C. Prima (Lunga) depressione. 88-30 a.C. Governo di Kebehsenuf il Felice. 15 a.C.-200 d.C. Crisi energetica di Roma. 79 Festa del Vesuvio. 100 circa Aggravamento della crisi di Roma per la comparsa dei nazareni. 210 La grandiosa missione di Shesemtet in Cina si conclude catastroficamente. Fondazione della dinastia Chan. 288 Upuat VIII (il Campione di Dio) formula i princìpi della lotta alla dottrina nazarena. EPOCA DEL RINASCIMENTO
295 Kem-Atef pubblica i nuovi efficaci codici antinazareni. Superamento della crisi energetica nazarena. 300 Kem-Atef effettua il primo esperimento di collegamento con gli Shuar. Redige il Metodo di Coltivazione dell'Erba Occidentale e la Ricetta per la Preparazione del Decotto Occidentale. 309-311 Kem-Atef redige i Princìpi della Creazione della Confraternita degli Hat e le Regole per la Ricerca e l'Iniziazione dei Nuovi Fratelli. 312-334 Kem-Atef apre nuove sezioni della Confraternita a Roma (312), Alessandria (315), Antiochia (320), Cesarea (325), Costantinopoli (330) e Mediolanum (334). 335 Kem-Atef elabora l'Ordine per la Limitazione della Somma di Conoscenze per i Consacrati nei Diversi Livelli. 335 Kem-Atef dichiara il numero 222461215 eterno, immutabile e sacro. Sospende ogni ulteriore indagine per la comprensione del numero. 338 Kem-Atef passa nel mondo parallelo nel processo di trasferimento da Deir el-Bahari in Cina e in Giappone. Martirio di quasi tutti i membri della seconda missione degli hat in Cina. 340 Catastrofe a Deir el-Bahari. 342 Catastrofe in Armenia. FINE DELL'EPOCA DEL RINASCIMENTO «Ho finito. E non ho capito assolutamente niente. È un delirio. Eppure dobbiamo cavarne qualcosa!» «Dai allora, proviamoci.» Maša si rannicchiò sulla cuccetta e si avvolse nella coperta. Ordinai due tè e mi sedetti di fronte a lei. Maša guardò fuori dal finestrino, poi guardò me, poi di nuovo fuori dal finestrino. Ebbi l'impressione che fosse un procedimento per trasferirsi con il pensiero nel mondo parallelo e rabbrividii. Maša invece sospirò e disse: «Quello che non capisco è l'inizio. Che cos'è l'energia Ka?». «Quando ho fatto le mie ricerche su Hatshepsut, ho letto qualcosa al proposito. Ka è l'energia vitale, la forza vitale, l'incarnazione contemporaneamente della potenza e della felicità. Qualcosa di simile alla forza vitale Chi della medicina cinese. La legge dell'equilibrio della comunicazione dell'energia Ka significa che la quantità di energia nei due mondi è costante. Questo l'ha scoperto Hatshepsut.»
«Un momento... Dal testo sembra che Ka sia di due tipi. Che cosa vuol dire "energia negativa Ka"?» «Una forma di infelicità energetica, a quanto capisco. Tutto a suo tempo, Maša. Andiamo con ordine. Duamutef cerca di interpretare il numero 222461215. Senza successo, a quanto possiamo capire. Questo non deve stupirci, il Vaticano ci ha provato per quindici anni con i migliori computer del mondo, e non ci è riuscito. Che cosa avrà cifrato Hatshepsut in quel numero?» «È il numero che ti ha portato FF?» «Sì. E durante la cerimonia di iniziazione mi hanno detto che il significato di questo numero è un segreto assoluto. Per cui evidentemente il divieto di Kem-Atef si è conservato.» «Lasciamo perdere i misteri indecifrabili. Non mi piacciono. Andiamo avanti.» Maša prese il foglio e, stringendo le labbra, individuò il punto in cui ci eravamo fermati e lesse: «"Duamutef studia l'energia negativa Ka. Scopre la possibilità di incrementare la quantità di energia negativa Ka nel mondo parallelo attraverso il suo incremento nel mondo terrestre"...». La interruppi: «Non è molto chiaro... Come funziona la legge dell'equilibrio dell'energia di Hatshepsut? Se nel nostro mondo Ka aumenta, che cosa succede nel mondo parallelo? L'energia Ka negativa del nostro mondo si annulla con quella positiva o, al contrario, si riproduce nella stessa quantità e con le stesse leggi nel mondo parallelo?». «Questo punto è chiarissimo. Lo dice più avanti: la quantità di energia Ka negativa aumenta là, se aumenta qui.» «A quanto pare hai ragione. Un attimo... Sì, dovrebbe essere così... Va bene. Andiamo avanti. Negli ultimi anni della sua vita Duamutef aveva imparato a trasformare l'energia negativa in energia positiva, fondando quindi la Comunità, il nucleo futuro del popolo eletto... Non dico che sia un'impresa come quella di trasformare la Pepsi in Coca-Cola, ma in ogni caso... Hatshepsut ha avuto un allievo di talento.» «Cosa pensi, che abbia imparato a farlo solo nel mondo parallelo?» «A trasformare l'energia negativa in positiva? Qui parla solo del mondo parallelo.» «Ma il mondo parallelo è quello dove andiamo a finire dopo la morte?» «Sì. Prima possiamo farci un salto con l'aiuto del calipsol.» «Peccato che la trasformazione avvenga solo di là...» Maša scosse la testa.
«Perché peccato? In fondo siamo destinati a passare molto più tempo là che qui! Fino alla seconda venuta. E questo nel migliore dei casi.» «Allora dobbiamo dire che Duamutef ha fatto una scoperta molto pericolosa.» «Non ho capito.» «Se in un modo o nell'altro aumenti la quantità di porcherie in questo mondo, la incrementi anche nell'altro.» «E perché aumentare le porcherie sia di qua che di là?» «Ma lui ha scoperto la legge per la conversione delle porcherie in meraviglie!» «Maša, vuoi dire che, dato che è nel mondo parallelo che viviamo più a lungo, è assolutamente sensato riempire il nostro mondo di energia Ka negativa, perché si trasformi di là in energia positiva?...» «Sì. E questo è terribile...» «Be', fino a un certo punto! Voi ragazze siete davvero un po' troppo impressionabili. È pur sempre mitologia. Poesia!» Maša mi squadrò sospettosa. Guardinga e attenta. «Sei sicuro che sia solo mitologia?» «Sono sicuro che la mia opinione in proposito non abbia in realtà molta importanza. Guarda meglio al modo in cui Upuat il Grande - ma che razza di nomi hanno! - ha messo in pratica l'indagine di Duamutef, con quanta decisione e concretezza! Hai presente quello che ha combinato in Egitto? Le acque del Nilo trasformate in sangue, le rane, i pidocchi, le bestie feroci, la peste del bestiame, le ulcere purulente, la grandine di fuoco, le cavallette, le tenebre e la morte dei primogeniti...» «Ho sempre pensato che fosse stato Dio a farlo, per punire il faraone per la sua testardaggine e per liberare gli ebrei...» «Maša! Diciamo che l'ha fatto Dio per liberare gli ebrei per mano di Upuat, se proprio insisti!» «Ok. Ma allora gli hat avrebbero scatenato un simile orrore tra la loro gente per favorire gli ebrei?» «Penso che gli hat fossero una comunità internazionale già allora. E comunque erano tempi feroci. Pensi che colui che ha ordinato la costruzione delle piramidi si preoccupasse della permanenza in vita dei suoi schiavi? Per non parlare poi della qualità, di quella vita...» Maša scosse di nuovo la testa. «Tutti i tempi sono uguali. Torniamo al testo. Tra gli hat e gli ebrei inizia un conflitto.»
«Sì. Ed è cominciata una guerra quarantennale. Non è un caso, evidentemente, che coincida con il periodo delle peregrinazioni degli ebrei nel Sinai. E questa guerra è stata combattuta non solo nel nostro mondo, ma anche in quello parallelo. Qui ci sono due fatti interessanti. Primo: oggetti del mondo parallelo compaiono nel nostro. Penso che si intendano colonne di fuoco e di nubi, la divisione delle acque del Mar Rosso, la manna celeste, l'acqua dalla roccia, le Tavole dell'Alleanza, l'apparizione nel Sinai. Insomma, fatti prodigiosi. Probabilmente a quel tempo anche gli ebrei erano in grado di interagire con il mondo parallelo. O è stato solo Mosè ad avere questo potere? Secondo fatto: dopo quarant'anni queste guerre vengono proibite. Sai perché?» «Perché gli hat hanno perso.» «O per lo meno non hanno vinto. Anche se hanno combattuto per quarant'anni. Dopo di che Upuat vieta le guerre nel mondo parallelo. Evidentemente richiedono quantità di energia Ka eccessive. Penso che da allora gli hat abbiano deciso di trasferire le guerre da noi, sulla terra. Altrimenti il mondo parallelo sarebbe finito per mancanza di energia.» «E da allora gli hat non amano gli ebrei...» «Secondo me non amano i credenti in genere. Né i cristiani né i musulmani. E anche con i buddisti non devono andare molto d'accordo. Ma il punto più interessante, Maša, è un altro, sempre a proposito di Upuat il Grande, e non c'entra né con gli ebrei né con i miracoli.» «E cioè?» «Perché è stato chiamato "il Grande", lui, un comandante che aveva perso la guerra?» «Perché?» «Perché aveva scoperto il principio della canalizzazione dell'energia positiva Ka nel mondo parallelo. Un metodo per la distribuzione dell'energia in determinati canali. In altre parole, Upuat aveva scoperto come fare in modo che l'energia Ka positiva, convertita, tra l'altro, da quella negativa del nostro mondo, potesse essere sfruttata solo dagli hat.» «Dalle loro anime, vuoi dire?» «Chiamale come vuoi. Dalle loro immagini postume, dalle loro anime, dalle loro ombre. È lo stesso. L'importante è che nell'altro mondo tutti i non-hat rimasero senza energia Ka, mentre gli hat divennero dei veri pescecani dell'accumulazione capitalistica. Per quanto riguarda il loro ruolo nel nostro mondo, invece, credo che lo capiremo presto. Per ora concentriamoci sul modesto contributo di Upuat II l'Esorcista. "Upuat II introduce
i princìpi di creazione dei codici, efficaci contromisure per i riti monoteistici."» «Secondo me sono quelli che conosciamo. "Deir el-Bahari, calipsol, solitudine".» «Sì. Anche se la funzione specifica di questi codici ci è ancora ignota. C'è una cosa in particolare che mi intriga. I codici come antidoto ai riti monoteistici. Proprio in questo periodo gli ebrei elaborano un sistema di rituali molto complesso. L'arca dell'alleanza, l'offerta di sacrifici senza elementi di idolatria, il tabernacolo. Ci sono cento pagine, nella Bibbia, su quanti nodi color porpora debbano essere fatti sul bordo del primo velo del tabernacolo, e su quanto debba essere lungo quel velo, e di che metallo debbano essere fatti i ganci per l'unione dei veli, e quanti debbano essere in tutto i ganci. Un'immensa quantità di norme minuziosamente descritte, che rende estremamente difficile, per non dire noiosa, la lettura della fine del libro dell'Esodo, di tutto il Levitico e dell'inizio del libro dei Numeri. Ma, nella nostra situazione, criticare la Bibbia non mi sembra corretto. Mm... Chissà perché i riti politeistici, invece, non preoccupavano gli hat?» «Probabilmente non erano abbastanza efficaci. È il motivo per cui, alla fine, il monoteismo ha trionfato.» «Naturalmente. Ma in che senso non erano efficaci? Magari non riuscivano a canalizzare l'energia... questo spiegherebbe molte cose.» «Non ho capito.» «Gli hat avevano imparato a confiscare l'energia positiva Ka nel mondo parallelo, presso le anime dei defunti. In questo la dottrina egizia della vita dopo la morte aveva fornito loro un aiuto importante. E la scoperta dei codici, da parte di Upuat l'Esorcista, ha semplificato i processi energetici nel mondo parallelo.» «Perché soltanto nel mondo parallelo?» «È vero, perché? Probabilmente anche nel nostro. In ogni caso, Upuat III il Canonizzatore ha riunito tutti questi princìpi e nuove scoperte in un sistema unitario e ha fondato la dottrina energetica.» «Un riepilogo?» «Certo. Primo: Hatshepsut formula la legge della conservazione dell'energia Ka in entrambi i mondi. Secondo: Duamutef impara a trasformare l'energia Ka negativa in energia positiva nel mondo parallelo. Terzo: Upuat il Grande scopre la canalizzazione dell'energia, così che adesso l'energia positiva del mondo parallelo viene sfruttata solo dagli hat o comunque soprattutto da loro. Ecco la dottrina energetica dei hat.»
«Tesoro, ma ti hanno inserito solo nel terzo grado della Confraternita?» «Certo. Te l'ho già raccontato...» «Adesso mi sembra di cominciare a capire che cosa ignorino gli iniziati del terzo grado. A loro, cioè... a voi... parlano di elezione, felicità e gloria. Ma in realtà vi usano come vampiri del mondo parallelo.» «D'accordo. A proposito, tuo marito a che grado è?» «Sei pazzo?! Lui non mi ha mai parlato di questa storia!» «Ah, certo... Scusami. Sono sicuro che è, come minimo, al secondo grado, visto che sa tutte queste cose.» «Propongo di abbandonare questo terreno potenzialmente pericoloso e tornare al nostro tema principale. Fine dell'Epoca della ricerca. Inizio dell'Epoca della conservazione e della moltiplicazione.» «Qualche frammento di informazione sul mondo parallelo comincia a circolare anche presso altri popoli. Un certo Gerech viene addirittura giustiziato in quanto traditore. Evidentemente deve essersi trattato di un processo clamoroso, se ha sollevato una disputa sulla possibilità di un'interazione con il mondo parallelo da parte di altri popoli ed è stato registrato da questa cronaca.» «Non capisco cosa c'entrino i miti greci e l'Odissea...» «Si riferisce al mondo parallelo.» «L'Odissea?» «Certo. Ulisse scende nell'Ade. Lì conversa con Agamennone che gli racconta di essere stato ucciso dalla moglie. Incontra anche Sisifo, Tantalo e Minosse. Parla con l'ombra di sua madre, che è morta di dolore aspettando il suo ritorno. Ma prima ha luogo una scena tremenda. Nell'Ade le anime non hanno memoria di nulla. La possono riottenere solo bevendo del sangue sacrificale. Ulisse porta in sacrificio una pecora e un montone, conserva il loro sangue in una buca che scava appositamente e attende Tiresia, una specie di profeta che dovrebbe spiegargli come tornare a casa. Dunque Ulisse aspetta Tiresia e non lascia avvicinare al sangue le anime degli altri defunti, compresa quella della madre. La madre rimane così timidamente accanto alla fossa con il sangue e non riconosce il figlio. Tiresia gli spiega: "...Quelli che, tra i morti, lasci accostare al sangue, ti diranno la verità, ma gli altri a cui lo neghi, delusi, andranno via senza parlare". Poi, naturalmente, dopo il vaticinio di Tiresia, Ulisse lascia bere il sangue sacrificale a tutti i suoi conoscenti che recuperano la memoria e parlano con lui. La madre, che era morta da poco, dopo aver bevuto il sangue, gli racconta gli ultimi avvenimenti successi a Itaca, ma quando, al momento del commia-
to, lui cerca di abbracciarla, gli scivola tra le mani. "Ma questa sorte attende, quando muore, l'uomo mortale; ché le carni e le ossa non sono più dai tendini congiunte, tutto divora l'impetuosa furia del fuoco ardente, appena esce la vita dalle ossa bianche."» «Non ricordo questa scena. Spesso ho l'impressione che della letteratura classica ci siano rimasti solo una serie di nomi.» «Niente di grave. In compenso sappiamo a memoria i dialoghi dei telefilm, le trame dei gialli, le domande dei quiz televisivi e le risposte dei talk-show. E va bene così. Non crederai che il cervello umano possa trattenere una quantità infinita di informazioni? Trattiene ciò che richiede lo sforzo minore. La gente non ama rompersi la testa più di quanto ami rompersi un braccio o una gamba.» «Allora, qual è il significato di questa scena terribile?» «Se la consideriamo non come un brano letterario, ma come un documento, ci rivela che nel mondo parallelo, nel periodo in cui è stata composta l'Odissea, era in corso una grave crisi energetica. D'altra parte, l'Antico Testamento, che risale all'incirca alla stessa epoca, contiene il divieto assoluto di bere il sangue. Di chiunque, uomini o animali. Tra questi due momenti dev'esserci un qualche legame. Se crediamo a Upuat VI, i greci non erano molto progrediti nella conoscenza del mondo parallelo. Questo anche se si distinguevano per il grande risalto dato al culto dei morti, come poi i romani... e i giapponesi, ancora oggi.» «E i persiani, o gli assiri? Qui si parla di tutta una serie di guerre...» «Probabilmente anche loro, anche se non lo so con certezza. Il problema è fino a che punto questi culti fossero adeguati. Quando giungeva effettivamente ai destinatari l'energia delle preghiere e dei rituali funebri? In ogni caso, i successi della diplomazia degli hat portarono a una lunga serie di guerre, che ebbero come conseguenza, tra l'altro, l'annientamento dei due regni ebraici e la distruzione del Tempio e di Gerusalemme. Qui è tutto chiaro. È la dottrina geopolitica degli hat: guerre, catastrofi planetarie, epidemie, carestie. La stimolazione di tutte le sciagure possibili qui sulla Terra. Queste causano un incremento dell'energia Ka negativa nel nostro mondo a cui corrisponde un analogo incremento in quello parallelo. Di là, però, essa viene convertita e canalizzata, divenendo un privilegio di cui beneficiano solo gli hat. Cosicché questo mondo è un incubo. E non escludo che l'altro sia ancora peggio.» «Ma questo... non è giusto!» «Hai ragione, Maša. Non è giusto.»
«E Dio dove guarda?» «E dove guardava ai tempi di Auschwitz e di Hiroshima? O, per fare un altro esempio, durante la notte di San Bartolomeo? Non lo so. Però credo di sapere dove guardavano gli hat... Dai, torniamo al testo. A questo punto c'è una rottura, lunga seicento anni. Penso che sia legata alla comparsa degli imperi. Prima i tre imperi greci, e poi quello romano.» «Perché gli imperi dovrebbero danneggiare gli hat?» «Perché quando c'è un impero, non si fanno guerre importanti. Gli uomini vivono tranquilli, in pace. Sgobbano nel loro orticello, mettono al mondo bambini o si dedicano all'arte. Ma non si uccidono a vicenda, o almeno non su vasta scala. E gli hat soffrono per la mancanza di energia negativa, che possono assorbire solo dai fenomeni naturali, tipo epidemie, terremoti o l'eruzione del Vesuvio. L'Impero romano, poi, è un esempio di civiltà. Leggi, strade, servizio postale, illuminazione delle vie. E poi acquedotti, ospedali, scuole, biblioteche, sport, poesia, musica, pittura, architettura. Ancora oggi una buona metà degli europei e degli americani parlano lingue neolatine.» «Ma se per gli hat andava così male, come mai questo Kebehsenuf il Felice?» «Guarda le date, 88-30 a.C: è il periodo delle guerre civili a Roma. Ma più interessante è questo "aggravamento della crisi di Roma per la comparsa dei nazareni".» «Nazareni?» «È il modo in cui i romani e gli ebrei chiamavano i cristiani. Evidentemente, all'inizio, il cristianesimo si è imposto con una certa decisione anche nel mondo parallelo e ha creato agli hat non pochi problemi. A quanto pare, avevo ragione. È evidente che gli hat non sopportano le religioni monoteistiche.» «Ma loro non credono in niente?» «Se ci pensi, Maša, qualsiasi religione è in qualche modo una dottrina che insegna il comportamento da tenere in questa vita, in modo da star meglio già qui, o da star meglio dopo la morte.» «Cioè gli hat non credono in Dio?» «Nella lezione introduttiva l'argomento non era trattato. Ma che bisogno hanno di Dio? Sanno che la maggior parte di un tempo infinito la trascorreranno nel mondo parallelo. E vogliono garantirsi la felicità in esso, cioè una buona dose di energia Ka. Tutto ciò che fanno è finalizzato a questo scopo. E per questo non è necessario trovare un accordo con Dio.»
«Ma è possibile che abbiano ragione loro? Che sia quello il modo giusto di vivere?» «Ammetti, mia cara, che questa è una domanda complessa e dogmatica. È meglio tornare al nostro Upuat VIII, il Campione di Dio. A quanto pare, lui e Kem-Atef sono riusciti a risolvere almeno in parte i problemi legati alla diffusione del cristianesimo.» «Kem-Atef doveva essere decisamente un grande. È stato lui a scoprire l'America. Ecco i tuoi Shuar. Il decotto occidentale probabilmente è una specie di calipsol.» «Direi piuttosto il contrario. Il calipsol e la chetamina sono dei surrogati sintetici del decotto occidentale. Nota anche questo fatto, Maša: attraverso il mondo parallelo si possono scambiare informazioni tra due zone anche molto distanti di questo mondo.» «L'ho notato. Gli hat hanno insegnato agli Shuar a essiccare le teste, e gli Shuar hanno svelato agli hat l'uso del decotto occidentale. E anche la conoscenza del veleno del serpente a due teste è passata tra i due gruppi, anche se non saprei dire in quale direzione.» «D'accordo. Il veleno non lascia traccia ed è più difficile capire che percorso ha seguito. E gli Shuar hanno effettivamente trovato un metodo di accesso al mondo parallelo più semplice di quello che gli hat usavano fino a quel momento.» «Andiamo avanti. Vi sono altre opere di Kem-Atef. Princìpi della Creazione della Confraternita degli Hat e le Regole per la Ricerca e l'Iniziazione dei Nuovi Fratelli.» «Da quest'epoca la Comunità comincia a essere chiamata Confraternita. Sembra proprio che Kem-Atef abbia fatto molto per gli hat. Ha inaugurato le sezioni regionali e ha elaborato una gerarchia nel livello di conoscenza.» «Eppure forse mi sono sbagliata, e Kem-Atef non è stato poi così grande. Non è riuscito a venire a capo del mistero del numero 222461215.» «Ce l'ha fatta, invece. È chiaro come il sole.» «Come? Qui è scritto chiaramente: "335 Kem-Atef dichiara il numero 222461215 eterno, immutabile e sacro. Sospende ogni ulteriore indagine per la comprensione del numero".» «Maša, non essere ingenua. E non credere che le parole abbiano solo un significato esplicito. In questo documento sono stati registrati solo gli eventi più importanti della storia degli hat. Non c'è niente di casuale, qui.» «D'accordo. E allora?» «Che senso può avere comunicare che non hai scoperto qualcosa? Solo
uno. Che nessun altro continui a indagare. Almeno, legalmente, cioè con l'utilizzo di tutti i mezzi disponibili. Perché se il grande Kem-Atef non ce l'ha fatta, tutti gli altri possono anche fare a meno di pensarci... Si tratta di un mistero irrisolvibile. È logico, no?» «Ammettiamo pure...» «Ma perché dichiarare che non bisogna più indagare se non sai quale potrebbe essere il risultato di queste ulteriori indagini? Va bene, io non ci sono riuscito, ma può darsi che qualcun altro ce la faccia...» «Per una forma di gelosia. Com'è possibile che non ci sia riuscito io, che sono così grande?» «Maša! Kem-Atef era in procinto di passare nel mondo parallelo e il suo scopo non era certo il raggiungimento della gloria terrena. Anzi, la gloria in quanto tale, a quanto sono riuscito a capire, agli hat non interessa minimamente. Quello che interessa loro è la garanzia di un buon rifornimento energetico nell'altro mondo. Se qualcuno, anche dopo mille anni, fosse riuscito a risolvere il mistero, e questo gli avesse assicurato un nuovo afflusso di energia Ka, Kem-Atef ne sarebbe stato felicissimo!» «Sei sicuro?» «Sono certo che Kem-Atef ha risolto il mistero del numero. E ha capito che non poteva condividerlo con nessuno. Perché quella conoscenza non avrebbe portato niente di buono né a lui né agli hat. Anzi, il significato del numero avrebbe potuto costituire una minaccia per la Confraternita.» «Allora perché non ha cercato di farlo scomparire?» «Di certo non gli era possibile. Con cinquanta generazioni alle spalle che avevano invocato quel numero, considerandolo la cosa più sacra al mondo. Non poteva vietarlo, neppure la sua autorità era sufficiente per un passo del genere. Però poteva dire che non c'era niente di interessante da investigare, e sperare che l'interesse per il mistero del numero si affievolisse. Che rimanesse pure il rituale a esso collegato, in esso non c'era niente di offensivo. Quanto più spesso hai sotto gli occhi una cosa, tanto meno ci pensi.» «Dopo di che Kem-Atef è morto.» «Sì. Questo me l'hanno raccontato i copti, che hanno saccheggiato un monastero che gli hat avevano costruito vicino al tempio di Hatshepsut, evidentemente come quartier generale della Confraternita. Una copertura. Da una parte una stazione del metró, da un'altra parte un monastero. Poi sono stati sconfitti anche in Armenia. Ma, come hai già capito, gli hat non sono scomparsi.» «Questo l'ho capito. Ma non mi è chiaro cosa se ne fanno del nostro
mondo, se controllano con tanta sicurezza quello parallelo.» «Come cosa se ne fanno? Le sofferenze sulla terra sono la loro principale fonte di energia Ka, per questo hanno bisogno di una rappresentanza molto forte, da questa parte. E il loro quartier generale si deve trovare dove si svolgono i fatti decisivi...» «A proposito, non hai l'impressione che i fatti decisivi per gli hat si stiano svolgendo a Mosca?» Guardai Maša molto attentamente. Che cosa avrebbero potuto cercare gli hat a Mosca? Una città come tante altre. Certo, molto grande. Una vera megalopoli occidentale. Ristoranti strepitosi, vita notturna. Eppure anche in Vaticano mi avevano detto qualcosa del genere... Scossi la testa, dichiarai che ero stanco di pensare, scesi dalla cuccetta, presi da Maša il cdplayer e misi Navigator, l'unico cd di Boris Grebenščikov che avevo trovato a Vjatka. Una buona scelta, anche se non avevo avuto scelta. «Iosif, perché gli hat hanno bisogno proprio di te?» Sussultai. Era molto raro che Maša mi chiamasse per nome. «Non credo che abbiano bisogno proprio di me. Hanno verificato se avevo certe caratteristiche, una questione di codici genetici... Non so... Mi hanno inserito solo al terzo grado. Ma quanti ce ne saranno, come me?» Ma adesso à la guerre, comme à la guerre, tutto è calmo... Pensai che, se avessi litigato definitivamente con gli hat, avrei rischiato davvero di sparire per sempre. Poi, cullato dalla "calma della guerra", mi addormentai dolcemente. Capitolo Ventuno I successivi quattro giorni di viaggio trascorsero tra conversazioni, musica, libri e film. Io abbozzai sul mio blocco un commento ragionato al testo di German. E anche se cominciavo ormai ad abituarmi a scrivere con carta e penna, non riuscii a respingere la tentazione di trasferire quegli appunti sul computer e di inviarli ad Anton. Oltre il finestrino il sontuoso paesaggio della Siberia occidentale era stato sostituito da quello altrettanto sontuoso della Siberia orientale. Ogni volta che attraversavamo uno degli immensi fiumi di quella regione dall'Ob alla Lena, nomi che fino a quel momento mi avevano evocato solo l'aula di geografia - festeggiavamo con una bottiglietta da cento grammi di
cognac armeno, morbido e fine (il whisky era finito già sull'Ob). In quei giorni ebbi la sensazione che le cose cominciassero a sistemarsi. E diverse volte mi posi la fatidica domanda: che sia proprio questa la felicità? Un treno che ti porta via dagli incubi del passato, al tuo fianco la donna che ami e che hai conquistato sul campo, il presentimento di un futuro inebriante e (grazie alla Stellina) privo di preoccupazioni finanziarie. Ma se la felicità è proprio questa, allora come trattenerla? E se nella realtà trattenerla non fosse proprio possibile, almeno nel ricordo... Questi pensieri mi lasciavano sempre un leggero senso di ingiustizia. L'infelicità è sempre pesante, carica di tensione e drammatica, per cui generalmente porta con sé lunghi esami e riflessioni interiori. E si ricorda perfettamente. La felicità, invece, è leggera. Quasi impercettibile. E dimenticarla è così facile che non capisci nemmeno cosa potresti fare per ricordartela. Del resto, il nostro ottimismo non era poi molto giustificato. La situazione non era a nostro favore, per usare un eufemismo. Anton era in America. Matvej in una clinica psichiatrica. Io ero ricercato a tutti i livelli, e per di più Volpina mi aveva sottratto l'agenzia. A quel punto era chiaro che dovevo dire addio alla PR Technologies. E che cosa mi legava ancora alla Russia, allora? Mia madre? Ma lei sarebbe stata felice di sapermi in qualunque luogo del mondo, purché stessi bene. Soprattutto dopo quella storia. Tra l'altro ero particolarmente grato a Maša perché, mentre io vagavo tra prigioni e monasteri, aveva cercato di tranquillizzarla come meglio poteva. Più di una volta durante il viaggio mi aveva tentato la soluzione esotica: scomparire per sempre da tutta quella storia. Stabilirmi con Maša su un'isola poco nota dell'oceano Pacifico e vivere con il ricavo della vendita della Stellina. Dedicarmi al windsurf, al diving, alla fotografia, a qualsiasi cosa mi saltasse in mente! Magari anche a cercare i tesori dei pirati... E mettere al mondo un bel po' di bambini. Concentrarsi sui bambini. Non condivisi mai quest'idea con Maša, anche se probabilmente l'avrebbe approvata. Maša aveva verso i bambini un atteggiamento molto serio, molto più del mio. Qualche volta avevo notato con che occhi guardava un bambino qualsiasi, che ci stava passando accanto per caso, e non avevo potuto evitare di trasalire. Non lo guardava come un piccolo estraneo, ma come una creatura a cui era già legata da una sorta di legame mistico. Ma Matvej... Finché Matvej era in quella clinica psichiatrica, il mio so-
gno di evasione era del tutto irrealizzabile. "Va bene," mi dissi per tranquillizzarmi, anche perché avevo una tremenda paura ad affrontare quel tema con Maša "tra poco torna Anton, liberiamo Matvej e poi ce ne andiamo sull'isola." Una volta avevo addirittura superato la mia pigrizia e me ne ero andato sulla piattaforma per riflettere da solo sull'argomento, lontano dai begli occhi azzurri di Maša. Quella meditazione mi portò a capire che il progetto di vivere sull'isola era decisamente da mandare al diavolo. E non solo a causa di Matvej. Le possibilità di morire di noia, già a partire dal secondo mese, erano serie e fondate. Anche tra le braccia della donna amata. Tanto più tra le braccia della donna amata. Avremmo cominciato a beccarci per qualunque sciocchezza, poi a litigare e infine a farci delle scenate. Mi pare che si chiami effetto di incompatibilità, l'ho letto da qualche parte, e si verifica in condizioni di relativo isolamento. Del resto, ho l'impressione che l'effetto di incompatibilità si verifichi molto più spesso di quanto registrato dagli studi ufficiali. Senza bisogno di isole, ma anche così, in tanti appartamenti delle nostre normalissime città. Insomma, le isole tropicali sono più adatte come set per spot pubblicitari, fiction tv e vacanze brevi. Ma per progetti a lungo termine... no, grazie. Tanto più che Mosca è la Città. Con la C maiuscola. Un peccato dovervi rinunciare. Dopo l'ennesima colazione, ormai in prossimità di Habarovsk, decisi di riguardare ancora una volta il testo di German. La frase sul passaggio di Kem-Atef nel mondo parallelo attraverso il Giappone e la Cina mi fece sussultare. «Maša! Ma sai dove stiamo andando?» «A Vladivostok. Dal padre del tuo amico bandito per procurarci dei documenti.» «Sì. E poi?» «Poi all'estero. Il brillante e i soldi ci basteranno per i primi tempi. Un posto carino. Non so, montagne, mare... È questo che pensavi?» «Maša! Non possiamo uscire da questa storia senza tirarne fuori anche Matvej. Per questo andiamo in Giappone! Tanto più che lì ci sono sia le montagne sia il mare...» «Già il primo punto suscita in me un certo numero di dubbi e quesiti, che al momento preferisco accantonare. Anche perché non capisco comunque come da quella premessa discenda la necessità di andare in Giap-
pone. Io non voglio andare in Giappone. In Giappone piove sempre. Io voglio andare ai Tropici!» «In primo luogo il Giappone è un Paese straordinario. Poi, è praticamente attaccato a Vladivostok. Sono sicuro che c'è la possibilità di ottenere il visto attraverso il consolato locale con una procedura semplificata...» «Be', certo, questi sono argomenti...» «E in terzo luogo perché già due persone sono morte sulla strada per il Giappone! Il Chimico e Kem-Atef!» «Questo argomento è decisivo. Non andremo in Giappone!» «Un attimo! Non è il caso di prendere tutto alla lettera! Se Dio vorrà, noi in Giappone ci arriveremo! Prova almeno a prenderlo in considerazione!» «Vuoi dire che il Chimico, prima di morire, si preparava a partire per il Giappone?» «Sì. Diceva sempre: "Lì sanno meglio di noi come funziona questa vita". È una frase che mi è rimasta impressa. E anche Kem-Atef aveva la stessa meta. A fini missionari. Fini che, stando alle informazioni in nostro possesso, non è riuscito a realizzare.» «Anche il Chimico aveva intenzione di inaugurare una filiale degli hat in Giappone?» «Ma cosa dici! Al contrario. Se gli hat fossero riusciti a installarsi in Estremo Oriente, l'avrebbero già fatto da un sacco di tempo. Il Chimico andava in Giappone per sfuggire agli hat. O per trovare il modo di combatterli. E gli hat l'hanno ucciso. Capisci?» «Questa è una pura teoria, non suffragata da alcun dato, e moltiplicata dal tuo amore per il Chimico.» «E divisa per il tuo amore per German. Non è una teoria. È un lampo di genio. Inoltre ricordo perfettamente il dialogo che ho avuto con FF nella metropolitana. Voglio dire, non nella metropolitana, in quel tempio sotterraneo. FF ha detto che potevo essere ammesso nella Confraternita per la mia predisposizione genetica. Allora gli ho chiesto: "Dunque non praticate il fratricidio?" e lui mi ha risposto: "Il'ja Donskoj apparteneva alla Confraternita".» «Ma perché l'hanno ucciso, FF questo non te l'ha detto!» «No. Ha detto: "Abbiamo liquidato quelli che ormai non ci servivano più, che avevano smesso di obbedire o che avevano perso la ragione". Il Chimico può essere finito nella seconda o nella terza categoria...» «Ascoltami, ho una domanda da farti, una domanda spinosa.» «Spara.»
«Perché non ti hanno ucciso, l'ho capito: evidentemente per loro sei molto importante. Ma perché non ti hanno definitivamente condizionato? Non ti sembra di essere tornato in te un po' troppo rapidamente?» «Ho sviluppato una resistenza alcolica ai narcotici e all'ipnosi. E poi ti amo.» «Romantico, ma, onestamente, non molto convincente.» «Il mio amore non è convincente?» Era una vera ingiustizia. Erano anni che soffrivo e mi tormentavo, avevo anche rischiato la vita, abbandonando il monastero. E adesso... Ma Maša decise di non continuare con le provocazioni. «Che cosa pensava di trovare il Chimico, in Giappone?» «Un rifugio, forse. O la spiegazione del numero 222461215. Forse semplicemente un consiglio. In qualunque caso, dobbiamo andare in Giappone.» «Ma il Giappone è grande, caro!» «Ricordo che mi ha parlato di un monastero zen nel Nord.» «Non ti aiuterà molto, sai quanti monasteri ci sono!» «Quanti? Dieci? Venti? Cinquanta? Non di più, comunque!» «E noi dovremmo visitarli tutti per capire quale aveva in mente lui? Arriviamo in un monastero e chiediamo se hanno un reparto specializzato nella lotta contro gli hat? E se non ce l'hanno, chiediamo scusa per il disturbo e passiamo a quello successivo? È questo che hai in mente?» «Maša, sai perché una scacchista donna, anche al livello di gran maestro, non può giocare con degli uomini in una competizione ufficiale? In certi tipi di sport, come il basket, l'atletica leggera, perfino nel tiro con l'arco, la divisione per sesso è naturale e comprensibile. Ma perché anche nei tornei di scacchi maschi e femmine devono giocare separatamente?» «Non lo so. Perché?» «Non lo so nemmeno io. In ogni caso non è necessario che visitiamo cinquanta monasteri. Possiamo semplicemente fare delle telefonate. I numeri li troviamo sulla guida telefonica. E facciamo a tutti la stessa domanda: "Non si è messo in contatto con voi, negli ultimi mesi, un russo chiamato Il'ja Donskoj?".» «E se non parlano inglese?» «Prenderemo un interprete. In genere i grandi alberghi sono in grado di procurartene uno senza difficoltà. Del resto, il Chimico non parlava il giapponese... Penso che i monasteri che accolgono pellegrini o turisti abbiano qualcuno che parli inglese. E poi, in ogni caso, che cosa rischiamo?
Se non lo troviamo, pazienza, intanto visitiamo il Giappone nei suoi aspetti più esotici!» «Io però continuo a non capire la tua superiore logica maschile. A quanto pare, per tirare fuori Matvej bisogna prima liquidare tutti gli hat... Originale! E poi chi ha detto che sia proprio necessario tirare fuori Matvej dall'ospedale psichiatrico? Magari lo stanno curando!» «Non credo che Matvej sia impazzito. La sua psiche è più sana delle nostre. Gli hat lo hanno isolato, forse lo vogliono usare come ostaggio, forse ne hanno bisogno per qualche scopo misterioso. I suoi genitori sono dei poveri pensionati. E sulla direttrice finanziaria non c'è da fare molto conto...» Mi interruppi, rendendomi improvvisamente conto di non aver raccontato a Maša della visita di Ol'ga in carcere. E a quel punto non ero più sicuro di avere agito per il meglio. Parlargliene adesso avrebbe comunque significato dirigersi dritti contro la terribile domanda: perché non me lo hai detto prima? Per questo, preferii continuare: «Insomma, a parte noi e Anton, non c'è nessuno che si preoccupi di Matvej. E può darsi che non sia necessario liquidare tutti gli hat, per tirarlo fuori di lì. Però sapere qualcosa di più su di loro male non ci può fare. In realtà, penso che quando Anton rientrerà dalla sua missione negli Stati Uniti, insieme risolveremo tutto molto rapidamente. Non posso andare all'assalto dell'ospedale psichiatrico da solo». Maša non era ancora convinta della necessità di liberare Matvej dall'ospedale psichiatrico, ma capiva che discutere ancora era inutile. Quanto a me, era come se mi fosse stata rivelata una conoscenza segreta. Ero sicuro che in Giappone avremmo raggiunto l'ultimo scopo, pur senza poter immaginare quale fosse! E non avevo la minima idea di cosa dovesse accadere nel monastero zen che il povero Chimico non era riuscito a raggiungere. L'ultima parte del viaggio la trascorremmo ammirando le fantastiche bellezze del Primor'e. Finalmente, verso le otto del mattino, il treno superò l'ultima collina e concluse il suo lungo viaggio. Vladivostok! Il mio piano era semplice: mettermi in contatto con Anton (contavo sul fatto che avrebbe comunque controllato la nostra casella segreta) e rintracciare il Corvo (così veniva chiamato il padre di Koba). Poi saremmo stati a vedere. Elaborare una strategia particolarmente complessa prima di avere sentito Anton mi sembrava inutile. Ci installammo nell'appartamento di un vecchietto gentile e nient'affatto
curioso, usando la strategia già sperimentata a Vjatka. Maša rimase a casa, a rimettersi un po' in ordine dopo il lungo viaggio, mentre io preferii andare subito a fare un giro in città. Dovevo trovare uno di quei luoghi che i cittadini più fortunati definiscono poco raccomandabili. Peccato che la città fosse molto accogliente e apparentemente priva di ritrovi siffatti. Per i tram che si arrampicavano sulle colline, mi ricordava Lisbona, mentre per il numero di veicoli con il volante a destra - dalle auto, ai camion, agli autobus - mi faceva pensare a Londra. Camminai per più di un'ora per le strade di Vladivostok senza notare il minimo segnale di delinquenza. Al massimo qualche fuoristrada dall'aria un po' dubbia. Mi diressi verso la zona del porto. Dopo aver vagato per una buona mezz'ora, anche lì senza trovare niente di interessante, decisi di cambiare tattica. Alzai un braccio, trovai abbastanza rapidamente un taxi (con il volante a destra, naturalmente) e alla domanda dell'autista: «Dove?», risposi, un po' cantilenando per nascondere l'accento moscovita: «Non lo so, fratello, sono appena sbarcato. Portami dove si ritrovano i tipi giusti». «Non è che ti stai tirando dietro gli sbirri, per caso, amico?» Sussultai. A quanto pare ero incappato in un tipo giusto. «Sono appena uscito dall'accademia. Cerco il Corvo.» «Vuol dire che devi cercare Vissarion. Hai i documenti?» «Va bene un passaporto falso?» «Stai scherzando?» «Tu non rompere. Porta l'uccellino al suo nido. Non posso mica passare la notte in strada.» «E tu non fare il furbo... Di che famiglia sei? E dimmi che nome hai. O non sai le regole?» «Mi chiamano il Profeta, della famiglia parliamo dopo.» Ci fermammo davanti a un caffè dall'aria squallida. Scesi insieme al guidatore che disse qualcosa al barista (camicia bianca molto sporca, cravatta nera terribilmente spessa, sotto a un grembiule bianco anch'esso molto sporco) e mi invitò ad aspettare. Mi sedetti al banco e chiesi una birra. Il boccale era sporco, la birra puzzava di urina. Feci una smorfia. «Che cazzo hai, non ti piace?» Il barista mi guardava con aria provocatoria. L'esperienza del carcere, però, mi aveva insegnato che in queste situazioni non si può assolutamente lasciar perdere, così scelsi una tattica mediamente aggressiva. «Non mi va giù la tua birra. Ha un sapore di merda. E guarda questo
boccale, cazzo, fa schifo.» «La birra non ha niente che non va. Il sapore è schifoso perché ci piscio dentro. Ah, ah, ah!» «Ma cosa abbai, barbone! Per questi errori potrebbero fartela pagare cara. Chiudi il becco, prima che qualcuno si decida a spaccarti la testa!» Su quella battuta trionfale decisi di concludere la nostra conversazione, posai il boccale e deposi con noncuranza sul banco due banconote da dieci dollari. Due, perché potesse farsi una chiara idea delle mie risorse e non gli venisse l'idea di darmi il resto. Il barista effettivamente tacque. Un minuto dopo qualcuno lo chiamò, lui sparì nel retrobottega e tornò con un telefono in mano. «Tieni, parla!» Presi il telefono e dissi: «Sì!». «Chi sei?» «Sono il Profeta. E lei?» «Io sono il Corvo.» Aveva una voce buona, con dentro come un'ombra di stanchezza. Non sembrava assolutamente la voce di uno degli uomini più terribili di tutta la Russia. In carcere girava addirittura voce che i potenti intendessero destituire il Corvo per eccessiva crudeltà. Koba respingeva decisamente quelle insinuazioni, anche se era stato proprio lui a dirmi che prima dell'incoronazione il soprannome di suo padre era Terminator. «Vieni a sentirmi cantare?» «Mi ha detto Koba che lei può aiutarmi. Sono in una situazione difficile. E ho bisogno di documenti per me e la mia ragazza.» Avevo evitato apposta di rispondergli nel gergo della mala, per mantenere una certa distanza. Il boss di tutto il Primor'e era una cosa molto diversa dal tassista, o dal tipo del bar. La cosa strana fu che anche il Corvo decise di lasciare da parte il gergo, il che mi parve un segno di rispetto, come se volesse dimostrarmi che poteva usare il codice che preferivo. Il suo russo era piuttosto ampolloso, pronunciava le parole lentamente, come se le meditasse a una a una. L'accento georgiano si sentiva appena. «Mi ha scritto di te, Koba. Mi ha raccontato di come hai giocato a scacchi con Fanale. E hai vinto una stella del cielo. E di come poi sei sparito. Svanito... non c'eri più. Hanno pensato perfino che tu fossi un infiltrato, ma dopo qualche controllo si sono convinti che eri pulito. Benissimo. Facciamo in questo modo. Vieni a trovarmi questa sera, fammi questo favore, insieme alla tua ragazza. Ceniamo, vi mostro la mia tenuta, mi racconti la tua storia e vediamo come risolvere il tuo problema. Ti sei sistemato in al-
bergo o sei da qualche amico?» «In un appartamento privato.» «Non vuoi darmi l'indirizzo?» Esitai un attimo, ma non c'era via d'uscita. Non si gioca a nascondino con gente di quel tipo. «Tungusskaja venticinque, appartamento tre.» «Così va bene. Verso le otto verrà a prendervi una macchina. D'accordo?» L'idea di cenare nella tenuta del boss del Primor'e non mi sorrideva affatto, ma temevo che un rifiuto sarebbe stato molto offensivo. Cercai almeno di salvare Maša: «D'accordo, ci sarò. Ma la mia ragazza oggi non si sente bene». «Non sei un dottore? Allora vedi di rimetterla in sesto per le otto. Vi aspetto con ansia, tutti e due.» Rimasi impressionato dal fatto che si ricordasse dei miei studi. Lo salutai e mi diressi verso casa, pensando con molta preoccupazione a come convincere Maša. Non che considerassi poi così rischiosa la cena che ci aspettava, ma in ogni caso... Maša acconsentì con straordinaria prontezza. Innanzitutto perché voleva vedere come vive un vero padrino. In secondo luogo, perché era comunque una buona occasione per comprarsi un bel vestito e un nuovo paio di scarpe. E in terzo luogo perché anche lei aveva capito che non avevamo alternative. Così ci dedicammo allo shopping per una buona metà della giornata. Io, soprassedendo sulle contrattazioni, mi comprai un telefono cellulare e poi, da un internet-cafè, ultimo baluardo della civiltà nell'Estremo Oriente, inviai all'indirizzo segreto di Anton il mio nuovo numero, decidendo che, se non mi avesse chiamato entro tre giorni, mi sarei messo in contatto con Dina. Anche se avrei preferito non immischiare mia sorella (e sua moglie) in quella storia. Ma non vedevo altro modo di rintracciare Anton. Alla Hi-Tech Computers potevano non sapere nulla del suo viaggio. In generale sospettavo che Anton fosse rientrato a Mosca per un paio di giorni non tanto per me e Matvej, quanto per licenziarsi. Anche se, naturalmente, potevo anche sbagliarmi. Capitolo Ventidue Alle otto di sera salimmo su una Mercedes 600 blindata con i sedili di
pelle bianca e il minibar. Era la prima auto con il volante a sinistra che vedevo nella zona. Quando abbassai un finestrino, notai che i vetri laterali avevano più o meno lo spessore di una Bibbia. «Quanto pesa quest'auto?» chiesi all'autista, vestito di una leggera divisa in velluto blu. «Più di cinque tonnellate. Sei lastre blindate. Ogni vetro è sui cento chili.» «Sospensioni speciali e motore speciale?» «Certo. Della Mercedes normale questa ha solo gli interni e il sistema elettrico.» Lasciammo la città e raggiungemmo abbastanza velocemente la cima della collina. La vista dalla tenuta del Corvo era straordinaria. Dietro e a sinistra le colline, a destra l'anfiteatro della città, dove cominciavano ad accendersi le prime luci; davanti, invece, il golfo sull'oceano Pacifico. Il cancello di ghisa si aprì automaticamente. Le ruote frusciarono sulla stradina lastricata. La villa era stata costruita un secolo prima nel classico stile pseudorusso: stucchi giallini, finestre alte, colonne, portici. Proprio di fronte alla villa c'era un'immensa aiuola fiorita. Un po' discosta rosseggiava una piccola e assurda cappella di mattoni sormontata da un'immensa cupola dorata, evidentemente di recente costruzione, che strideva in modo evidente con tutto il resto. Il Corvo, evidentemente, credeva in Dio. L'autista scivolò ad aprire la portiera di Maša. Io scesi da solo. Entrammo. Parquet lucidissimo, lampadari di cristallo, a una parete un grande arazzo verdastro con strani animali, porte a vetri, infissi bianchi, sedie con le gambe ricurve tappezzate da una stoffa moderatamente vivace. Entrammo in una sala immensa. Uno schermo a cristalli liquidi occupava almeno un terzo di una parete. In fondo, un bar con un barman. Mentre ci guardavamo intorno, le porte di fronte a noi si spalancarono e il padrone della tenuta entrò nella sala e si diresse verso di noi con passo lento e sostenuto, appoggiandosi a un bastone da passeggio zoppicando leggermente. Era vestito come un agente delle pompe funebri, o come un mafioso italiano. Giacca nera, camicia nera di seta con il colletto rigido, pantaloni, scarpe e calze neri. Al dito aveva un anello con un brillante, ma, mentre si avvicinava, Maša fece in tempo a sussurrarmi che il nostro era più grosso. Come aveva fatto a valutarlo a una tale distanza, non saprei proprio dire. Il Corvo era di bassa statura, sulla sessantina e portava i capelli, comple-
tamente bianchi, molto corti. "Un tempo, evidentemente, erano tutti neri," pensai "da qui il suo nome di battaglia..." Il naso con la gobba tradiva la sua origine georgiana. L'espressione del suo volto era attenta e calma. Gli occhi erano freddi e anch'essi tranquilli. Sembrava irradiare una grande forza. O la consapevolezza di quella forza. Il Corvo baciò cerimoniosamente la mano a Maša, e strinse la mia. La sua mano non era né molle, né rigida, né fredda, né calda, né umida, né asciutta. Poi si inchinò leggermente e disse: «Vissarion». «Io sono Iosif e questa è Maša.» «Molto piacere.» «Anche per noi è un grande piacere.» Mentivo. Mi sentivo a disagio. Soli (a parte il barman) in quella sala enorme, tra lo scintillio dei lampadari e il luccichio del parquet. Perfino Maša, nel suo abito nuovo di velluto azzurro cupo di Yamamoto («Centoventi dollari in una boutique locale.» «È poco?» «È assolutamente regalato!»), aveva un'aria piuttosto modesta. Inutile parlare del mio maglione bianco e dei miei jeans. Quando il Corvo ci invitò a sederci a tavola (una tavola sterminata, a cui si sarebbero potute sedere cinquanta persone, apparecchiata per tre), seguii il suo consiglio senza fare complimenti e ordinai al barman, che faceva anche da cameriere, un whisky giapponese invecchiato quindici anni. Ne mandai giù un bel sorso e mi sentii subito meglio. Maša sosteneva la conversazione meglio di me. Parlammo prima della tenuta e della sua conduzione, poi della vita mondana nel Primor'e, della moda giapponese e di molte altre cose. In un'altra situazione, avrei sussurrato a Maša che il cibo non era un granché. I piatti non li sceglievamo, ma ci venivano semplicemente portati. Dopo il cibo del carcere, del monastero e del treno, comunque, non feci alcuna osservazione. Menu franco-russo: pasticcio, fois gras, zuppa di cavolo, beef Stroganoff e formaggi per dessert. Maša e il Corvo bevevano Beaujolais, io whisky, su loro gentile concessione. Il Corvo ci raccontò brevemente la sua storia. Era nato nel 1938 dal matrimonio tra una figlia del principe Kipiani e un maggiore dell'Esercito sovietico, cavaliere dell'ordine della Bandiera Rossa. Nel 1939 suo padre era stato fucilato dagli uomini di Berija. Sua madre si era impiccata. Era stato allevato fino all'età di tredici anni dalla nonna (principessa), poi la nonna era morta e lui era finito in un orfanotrofio. Primo furto. Prima condanna.
Riformatorio. Liberazione. Seconda condanna. Terza condanna. Il Corvo imitava Robin Hood e derubava soprattutto i più avidi tra i funzionari dello Stato sovietico. Era stato incoronato nel 1982. L'ultima volta era stato liberato nel 1990 e da allora non era più stato arrestato. Controllava tutta la regione del Primor'e. Scoprii che era un uomo di una cultura straordinaria. In carcere aveva avuto a disposizione molto tempo e molti libri. Quando la conversazione toccò l'argomento Dio, gli chiesi con molta cautela come si accordassero i suoi princìpi religiosi con gli inevitabili atti di violenza che doveva ordinare per mantenere il predominio nella regione. Il Corvo mi scrutò molto attentamente e disse: «E come coesistono in generale Dio e il male che regna nel mondo?». «Non lo so» riconobbi onestamente. «Ne abbiamo parlato con Maša anche pochi giorni fa. Non lo so.» «Conoscete le tre conclusioni di Lattanzio? Molto eleganti, no?» Non le conoscevo. Non solo, ma tutto quello che sapevo di Lattanzio era che si trattava di un filosofo del II secolo. Il padrino del Primor'è era molto più colto di me. «Lattanzio, partendo dall'ipotesi che Dio esista e possieda quelle qualità che generalmente gli attribuiamo, ci propone tre possibili risposte. Prima: Dio è a conoscenza del male del mondo, ne è molto turbato, ma non può fare niente al riguardo; secondo: questo male lo turberebbe, e potrebbe certamente fare qualcosa al riguardo, ma non ne sa niente; terzo: è a conoscenza del male del mondo e potrebbe fare qualcosa, ma la cosa non lo turba affatto.» Gradualmente la conversazione passò da Lattanzio alla filosofia contemporanea. Il Corvo ci chiese quale tendenza filosofica ci sembrasse più interessante tra quella continentale e quella anglosassone. All'inizio esitammo un po', ma poi sparai con grande convinzione la mia idea che la filosofia continentale poteva essere qualsiasi cosa, tranne che una filosofia, e, dall'espressione del Corvo, capii di avere meritato un dieci pieno. La cena nel frattempo si era conclusa e il padrone di casa ci invitò nel fumoir ad ammirare la sua collezione di dischi. Scoprimmo che il Corvo non era solo un filosofo, ma anche un melomane, e che collezionava dischi per grammofoni e per fonografi Pathé. Ci fece ascoltare Varja Panina («Sentite, che voce divina»), Pëtr Leščenko («Sono registrazioni molto rare, lo capite anche voi, è emigrato»), Vadim Kozin («Tutti i geni russi hanno avuto un destino tremendo») e, na-
turalmente, gli hit della Russia zarista e di quella sovietica, da Sulle colline della Manciuria, nelle cui vicinanze per l'appunto ci trovavamo, a Rio Rita. Poi, con estrema naturalezza, passammo al motivo della nostra visita. Il Corvo si comportò con grande signorilità. Quando si accorse che non desideravo entrare in certi dettagli, smise di fare domande e promise che ci avrebbe aiutati. Mi disse di lasciare l'indomani le nostre foto e i nuovi nomi che avevamo scelto al bar dove mi aveva portato il tassista giusto. I passaporti e i visti per il Giappone sarebbero stati pronti nel giro di pochi giorni. Quando gli chiesi quale sarebbe stato il costo dell'operazione, il Corvo sorrise generosamente e disse che in quei luoghi sperduti gli capitava raramente di incontrare dei giovani così interessanti e che per questo avrebbe considerato una vergogna chiederci un qualsiasi compenso. Tanto più che ero un amico di suo figlio. Fu a quel punto che mi chiese di mostrargli la Stellina. Nonostante tutto il suo autocontrollo, notai che la vista della pietra preziosa lo aveva decisamente impressionato. L'espressione "gli brillavano gli occhi" in questo caso era letteralmente giustificata. Ci chiese subito se volevamo vendergliela. Gli dissi che per il momento non ci pensavamo. «Vi darò quindicimila dollari, immediatamente. Vi conviene accettare, potrei anche cambiare idea...» Guardai Maša, che scosse la testa con un movimento quasi impercettibile. Ribadii gentilmente il mio rifiuto, anche se lui era chiaramente contrariato. Ero contrariato anch'io, perché evidentemente rifiutare la sua proposta mi aveva messo in una situazione molto imbarazzante. Ma la Stellina valeva chiaramente molto di più di quello che ci aveva offerto, e inoltre in quel momento non avevamo neppure bisogno di soldi, visto che avevamo ancora quasi undicimila dollari. Cominciammo a salutarci. Il Corvo ci propose di trascorrere la notte da lui, ma noi non ci eravamo portati dietro nulla e così rifiutammo. A quel punto non volle comunque farci andare via a mani vuote e ci regalò, o, meglio, regalò a Maša un vecchio disco. Cercammo di rifiutare, ma non ci fu niente da fare. «Prima o poi,» ci disse «vi comprerete un grammofono e avrete già il vostro primo disco. Questo. È un'incisione molto rara, americana. Sapete che vita difficile ha avuto Leščenko? Prima venti anni di emigrazione e poi è stato fucilato dai bolscevichi, perché aveva cantato a Odessa durante l'occupazione tedesca.»
Presi il disco tra le mani. Era pesante, e sull'etichetta bordeaux c'era una grossa scritta circolare: «Columbia». Sotto, molto più in piccolo: «Pëtr Leščenko. Oh, these black eyes». Il Corvo ce lo fece ascoltare: Ah, questi occhi neri Mi hanno stregato, Non li posso più dimenticare, Dovunque Brillano davanti a me. Ah, questi occhi neri Mi hanno amato, E adesso dove si sono nascosti, Chi è vicino a loro? La cerimonia dei saluti fu ripetuta ancora una volta, con molto calore da entrambe le parti. Il padrone di casa ci accompagnò fino all'automobile. Salimmo nuovamente sulla Mercedes e iniziammo il viaggio di ritorno, pensando che forse davvero le cose cominciavano ad aggiustarsi. Valutai l'opportunità di acquistare un grammofono già lì a Vladivostok. Di fronte alla reazione di Maša, sinceramente e profondamente stupita, risposi che volevo riascoltare la voce di Leščenko. Maša considerò con un certo scetticismo la mia nuova passione: «Che senso ha comprare un grammofono per sentire un solo disco?». «Mia cara, non esiste musica vecchia che sia brutta. Solo la musica giovane può esserlo. Perché se la musica di altri tempi è giunta fino a noi, si può essere certi che si tratta di musica di alta qualità.» «Non è questo il problema. Quello che mi chiedo è quante volte si possa ascoltare questa musica, sia pure stupenda...» «Quante volte si può dormire con la stessa donna?» Maša sospirò e cominciò a parlare della necessità di procurarci un manuale di giapponese, perché in Giappone parlano male l'inglese. In quel momento la Mercedes fece degli strani rumori e si fermò. «Cosa è successo?» chiesi. «La scatola del cambio! Signore santo! Quante volte ho detto che era da cambiare!» «Ma quanti chilometri ha fatto?» «Non importa, era ora, e basta! Voi non preoccupatevi, però. Per arrivare
in città ci vogliono ancora pochissimi chilometri. Adesso vi trovo un taxi o una macchina privata. Vi prego di scusarmi per questo disagio. Ah, Signore! Che cosa imbarazzante!» «Niente di grave, sono cose che succedono.» Un minuto dopo arrivò una Nissan con il solito volante a destra. Salutammo l'autista e ci trasferimmo sulla nuova macchina. «Non c'è niente da pagare,» ci gridò dietro «ci ho già pensato io!» Quando passi da una Mercedes 600 a una Nissan puzzolente naturalmente ti dispiace un po', anche se nessuna delle due macchine è tua. La differenza si avvertiva subito: quest'automobile era vecchia, sfasciata, dura e rumorosa. Dopo una decina di minuti, visto che le luci della città non si vedevano ancora, nemmeno in lontananza, chiesi all'autista se avesse capito bene l'indirizzo. Per tutta risposta quello bofonchiò qualcosa, si guardò intorno e frenò. Mi guardai intorno anch'io e mi accorsi che eravamo su un'altra strada, molto più stretta di quella che avevamo percorso all'andata. In mezzo alle colline. Mi sentii gelare. Le note inquiete di Boat on the river degli Styx, diffuse dall'autoradio, corrispondevano perfettamente al senso di catastrofe inaspettata quanto inevitabile che mi aveva sopraffatto. Oh, the river is wide, The river it touches my life like the waves on the sand, And all roads lead to Tranquillity Base Where the frown on my face disappears30 . Maša istintivamente mi prese una mano. L'autista saltò giù dall'automobile e aprì la portiera dalla mia parte (ero dietro di lui). Tra le mani aveva un fucile a pompa, che prima di allora avevo visto solo nei film. Diede uno strappo all'otturatore sotto la canna, che scattò con un rumore molto convincente. Poi ci colpì in faccia la luce gialla di un grande faro da caccia. «Buoni! Scendete senza fare storie! Mani in alto e non muovetevi!» La mano di Maša stringeva la mia con tutta la sua forza. «Attenti, merli, non sto scherzando!» Vidi un'esplosione di fuoco dalla canna del fucile e rimbombò un colpo tremendo. Mi sembrò di essere investito da un'ondata di aria calda. 30
Oh, il fiume è ampio, il fiume tocca la mia vita come le onde la sabbia, e tutte le strade portano alla Base della Tranquillità, dove svanirà la tristezza dal mio volto.
Scendemmo. Io ero proprio di fronte al bandito e, strizzando gli occhi, cercavo di abituarmi a quella luce abbagliante. L'uomo aveva nella destra il fucile e nella sinistra il faro. Maša era sulla mia destra, un po' più avanti, più vicina a lui. «Fuori il brillante!» Stavo lentamente tornando in me dopo quel fragore assordante. «Cosa credi di fare? Veniamo dal Corvo, noi.» «E io?» Il bandito sorrise sprezzante. «Con il Corvo non vi siete messi d'accordo... E adesso sgancia subito il brillante!» Io strizzavo gli occhi per difendermi dalla luce del faro e pensavo che la nostra fine era arrivata. Il Corvo, a quel punto, non aveva alcun motivo per lasciarci vivi. E quella gente non fa niente senza un motivo. Non so perché, ma non ero neanche stupito. Lo sguardo del Corvo mi era parso troppo tagliente. «Senti, merlo, non ho voglia di frugare nel sangue e di sporcarmi le mani... Dammelo tu, vai all'inferno più leggero...» «Non lo toccare!» La voce di Maša era perentoria e cattiva. «Il diamante ce l'ho io. È qui.» Il fascio di luce smise di accecarmi e si trasferì su Maša. Anche il fucile, che il bandito teneva nella destra con una certa noncuranza, si girò nella sua direzione. Io continuavo a strizzare gli occhi e non capivo cosa stesse succedendo. Maša si slacciava il vestito con una mano, mentre con l'altra cercava di abbassarsi gli slip. Il bandito capiva ancor meno di me, ma non riusciva a staccare gli occhi dallo spettacolo di quella donna che si spogliava nella taiga, alla luce abbagliante del suo faro. Colsi il momento. L'uomo mi dava il fianco: avanzai di mezzo passo, con un movimento lineare afferrai con entrambe le mani la canna del fucile e la tirai verso di me con tutta la mia forza, rischiando quasi di cadere all'indietro. Il bandito si voltò verso di me, ma non riuscì ad abbagliarmi di nuovo. Afferrai il fucile e, senza prendere la mira, premetti il grilletto. Sentii un fragore tremendo e un colpo nel plesso solare. Il dolore mi costrinse a piegarmi, ma riuscii a vedere il fiotto di luce cadere a terra, accompagnato da un rantolo cupo. Maša, respirando affannosamente, si stava riallacciando il vestito. Il bandito continuava a rantolare, mentre dalla bocca gli uscivano delle bolle di sangue. Io me ne stavo accovacciato, chinato in avanti, e cercavo di ri-
cominciare a respirare. Il dolore piano piano si stava attenuando. «Possibile che tutti i capi siano così?» Maša aveva finito di sistemarsi e nella sua voce colsi una nota di vera amarezza. Avevo capito che il Corvo le era molto piaciuto. Niente di strano. Gli uomini forti erano sempre stati il suo punto debole. «Non conosco tutti i capi. Penso che volesse semplicemente mettere le mani sulla Stellina e questi non sono tipi abituati a rinunciare a quello che desiderano. È per questo che sono dei capi. Tanto più che noi per lui non eravamo assolutamente nessuno, e che ci aveva offerto una possibilità di salvezza: vendergli la Stellina per quindicimila dollari.» «Perché ci aveva dato quella possibilità?» «Per il suo Dio.» Mi alzai, presi il faro e illuminai il bandito che aveva smesso di rantolare. Aveva uno squarcio profondo al petto, una schiuma rossa gli ribolliva sulla ferita e gli riempiva la bocca. Sembrava indebolirsi di secondo in secondo, era condannato. «Ci avrebbe uccisi» dissi in tono colpevole. «Senza alcun dubbio» aggiunse Maša. «Sei stata brava!» «Anche tu.» Rimasi in silenzio, con la mente che vagava. Il disco di Pëtr Leščenko. La filosofia contemporanea. Pensai che bisognava comunque comprare un grammofono e leggere almeno qualcuno dei filosofi contemporanei. E a quel punto, all'improvviso, mi assalì il terrore. Un terrore animalesco. Maša cercò di riscuotermi da quei pensieri poco opportuni. «Che cosa facciamo adesso?» Sussultai e, dopo un profondo respiro, dissi nel tono più tranquillo possibile: «Dobbiamo pensarci». «Non torniamo in città. Dovunque, ma non in città.» Io cercavo in tutti i modi di controllare il panico che mi stava soffocando. Mi pareva che la cosa più importante in quel momento fosse fuggire. In qualsiasi luogo, ma subito, in fretta. La parte del mio cervello che ancora funzionava mi diceva che lungo la strada prima o poi avremmo incontrato un posto di polizia, e quella sarebbe stata la fine. «Penso che la città sia in realtà la soluzione migliore. Lì è più facile non farsi notare.» «Ma è la sua città. Ci troverebbero prima di domattina. In qualsiasi posto. Ti rendi conto di come ci cercheranno?»
«Va bene, cosa proponi di fare?» Ero sul punto di esplodere. Mi sembrava che bisognasse lasciare quel luogo, salire in macchina e sparire, invece di stare lì a discutere davanti a un cadavere. Il terrore si mescolava alla rabbia. "Perché non ho avuto alcun presentimento del fatto che potesse accadere quello che è appena accaduto? Eppure proprio recentemente mi era sembrato che i presentimenti esistessero davvero. Invece, di questo figlio di puttana non avevo capito niente. E nemmeno Maša, col suo famoso intuito femminile... Dio mio! Ma com'è fatto questo fottutissimo mondo!" Le mie meditazioni vennero bruscamente interrotte da un suono che mi richiamava alla realtà. Il mio nuovo telefono si era messo a squillare. Pensai che fosse il Corvo che voleva avere la conferma che il lavoro era stato concluso. La disperazione e l'odio mi travolsero definitivamente. Gridai: «Cazzo!» e afferrai il telefono, intenzionato a mandarlo violentemente al diavolo. Ma incrociai lo sguardo di Maša, uno sguardo semplice, ingenuo, un po' stupito. "Ah, sì?" pensai. "E va bene! Per amore dei tuoi occhi azzurri sarò coraggioso sino alla fine! Non ci vuole molto, ormai!" Risposi. Capitolo Ventitré Alcuni secondi di ronzii si frapposero tra il mio «Pronto» e la risposta del Corvo. La sua prima frase mi lasciò senza parole: «Allora, colombelli? Ve la siete svignata?». Eccola, la ricetta del successo: sguardo sobrio sulla vita, rapidità di reazione, un po' di cinismo, un po' di calore nella voce. «Grazie alle sue preghiere...» Il telefono rimase muto per qualche secondo. Avevo l'impressione che dall'altra parte fosse in corso un intenso processo mentale. «Da quando ci diamo del "lei"?» Adesso il processo stava avvenendo dalla mia parte, ma si concluse molto rapidamente. «Anton, sei tu?» «In persona.» «Ma vaff... Anton, devi sempre scherzare! Se sapessi dove siamo! Se sapessi che cosa ci è successo... Anton!»
«Che cosa è successo? Ma siete liberi? Dalla tua mail ho capito che avevate lasciato a bocca asciutta sia la polizia che gli hat!» «A bocca asciutta? Just a fucking moment. Aspetta, prendo una sigaretta... Sì, io e Maša per poco... Maša, parla tu...» Maša non voleva parlare. «Chiedigli che cosa ci consiglia di fare» chiese preoccupata. Mi accesi la sigaretta, guardando con la coda dell'occhio il cadavere, illuminato dal fascio di luce oscillante del faro, e raccontai ad Anton dove eravamo e che cosa intendevamo fare. «Il Giappone può aspettare, almeno fino a domani. Adesso dovete tornare in città. Siete molto distanti?» «Vorrei essere ancora più distante, in realtà. Non abbiamo nemmeno i documenti. Ma anche se li avessimo...» «Bisogna trovare il posto giusto.» «Per esempio?» «Il Casinò più figo, possibilmente presso l'hotel più esclusivo della città.» «Ma non sarà anche quello più controllato dalla malavita?» «Sì, ma sarà anche l'ultimo posto dove verranno a cercarvi. C'è un porto, lì, no?» «Sì.» «Fingetevi stranieri. Parlate in inglese. Tu bevi fino a star male. E Maša deve fingere di aver paura che tu non ce la faccia a riportarla al vostro hotel. A quel punto saranno felici di offrivi di pernottare lì. Al doppio della tariffa normale e senza bisogno di documenti. E, soprattutto, senza informare i capi della malavita locale, naturalmente.» «Ok... E domani?» «Per domani riuscirò a escogitare qualcosa. Adesso butta via quel telefono, perché vi farebbe localizzare subito. Chiamami domani mattina dall'hotel. Scrivi il mio numero.» «Lo memorizzo. Cioè, lo memorizza Maša. Detta!» Poco più tardi entravamo al Casinò Intercontinental, situato presso l'omonimo hotel. Tappeti con disegni di elefanti rosa. Croupier indifferenti e disciplinati, con un'espressione di ottusa importanza sul volto. Non avevo voglia di giocare. Per niente. Ricordavo molto bene come era finita la mia ultima visita a un casinò. Per questo, seduto al tavolo del black jack, mi limitai a sollevare pigramente le carte, aspettando la donna di cuori. Non sapevo nemmeno io perché. Come se continuassi ad aspetta-
re Maša e a interrogare le carte sul nostro destino. To the queen of hearts is the ace of sorrow. If my love leaves me, what shall I do? I love my father, I love my mother, I love my sister, I love my brother, I love my friends and relatives too, I'll forsake them all and go with you 31 . Qualche decennio fa questa canzone mi aveva fatto da ninnananna. E quando avrò dei bambini, anch'io li metterò a dormire con il sottofondo delle note di Joan Baez. È una bella canzone. Triste, semplice, tenera e pulita. La donna di cuori usciva sempre nel momento sbagliato, però. Ma ero pronto a perdere, purché uscisse il più spesso possibile. In quel contesto bere mi veniva del tutto naturale. Un'ora dopo un impiegato premuroso mi stava già accompagnando a letto. Maša ci seguiva lamentandosi in inglese. Io biascicavo solo una frase, che ripetevo a chiunque si avvicinasse: «No fucking way». Mentre salivo in camera notai la faccia cavallina della direttrice e mi accorsi che la mia voce acquistava un'intonazione ancora più convinta. Una donna così spaventosa non l'avevo mai vista, nemmeno al cinema. Verso mattina sognai di essermi dimenticato il numero di Anton e mi svegliai in un bagno di sudore. Ricordandomi di parlare in inglese, svegliai delicatamente Maša e le chiesi se si ricordava ancora il numero. Se lo ricordava. Anton fu molto conciso. Mi chiese il nome dell'albergo e il numero della camera e mi promise che sarebbe arrivato qualcuno. Riattaccai. Ci portarono la colazione e, mentre mi dedicavo all'operazione marmellata, accesi il televisore. Per poco non lasciai cadere a terra il panino che stavo per addentare: dallo schermo mi fissava il viso di Maša. Disegnato a carboncino, alla maniera dei pittori di strada, con la frangia e i grandi occhi spalancati. Scossi la testa: perfino nell'elaborazione meccanica di quel mediocre identikit emergeva la sua misteriosa bellezza. Dal commento del giornalista apprendemmo che una banda proveniente 31
Se il mio amore mi lascia, che cosa farò? Amo mio padre, amo mia madre, amo mia sorella, amo mio fratello, amo anche i miei amici e i miei parenti, ma li lascerò tutti e partirò con te.
dalla Russia centrale aveva deciso di sottrarre agli abitanti di quella regione dimenticata da Dio quel poco che il potere centrale non era ancora riuscito ad arraffare. La banda era feroce (foto del cadavere del bandito riverso sul ciglio della strada) e aveva l'abitudine di compiere gesti assolutamente folli (riprese di una strada molto animata). Era capeggiata da un delinquente già ben noto alla polizia chiamato il Profeta (il mio identikit era riuscito molto peggio). La sua amica Marija lo superava in crudeltà e follia (di nuovo l'identikit di Maša). Il servizio chiudeva esortando chiunque ci avesse visti a contattare il numero di telefono in sovraimpressione. Ci avevano trasformati in assassini matricolati. «Should I call you Mallory now?» «Mickey, would you switch the channel please?32 » Aveva ragione. Passai sulla CNN. Non sapevo se ci fossero delle cimici, ma degli stranieri che ascoltavano il notiziario locale potevano suscitare qualche sospetto. In quel momento bussarono alla porta. Non c'era nulla da fare. E nemmeno nulla da perdere. «Who's that?» «Da parte di Anton.» Seguì una pantomima di circa tre minuti. Entrò un uomo con un impermeabile grigio che estrasse una macchina fotografica e a gesti, con aria molto calma, ci indicò di metterci in piedi davanti alla parete bianca. Ci lasciammo fotografare. Feci per aprir bocca, ma l'uomo si portò un dito alle labbra. Gli comunicai a gesti che avremmo avuto dei problemi per la trascrizione. Lui annuì con espressione rassicurante e ci fece segno che sarebbe tornato. Gli mostrai l'orologio per chiedergli quanto tempo avremmo dovuto aspettarlo. Lui mi indicò un'ora. Io giunsi le mani in segno di preghiera e in questo modo ci salutammo. Tornò esattamente un'ora dopo e, sempre a gesti, ci chiese di seguirlo. Non avevamo bagagli e perciò lasciammo la camera su due piedi. Percorremmo diversi corridoi e uscimmo da una porta di servizio, davanti alla quale ci aspettava una comune Volga nera. E a quel punto l'uomo parlò. In modo semplice, secco e conciso: «I vostri documenti saranno pronti tra due ore. Le istruzioni su cosa fare a Tokio vi saranno consegnate in aereo. Domande?». «E i visti, i biglietti?» «I vostri documenti saranno pronti tra due ore.» 32
«Dovrei chiamarti Mallory, ora?» «Mickey, cambieresti canale per favore?»
Maša decise che le questioni organizzative erano risolte e che si poteva passare alla parte facoltativa: «Abbiamo dei bagagli. Tungusskaja, venticinque, appartamento tre». «Va bene, ce ne occuperemo.» Accese la radio. «Quarantuno, sono Otto. Fai un salto in via Tungusskaja, venticinque. Sì. Appartamento tre. Prendi i bagagli. Ma senza farti notare.» Non riuscii a trattenere il mio entusiasmo per quella scena ed esclamai: «Figo!». L'uomo con l'impermeabile mi guardò con un certo stupore. Così preferii restarmene zitto. Arrivammo all'aeroporto. L'uomo con l'impermeabile si sedette a una certa distanza da noi. Maša e io guardavamo la televisione, parlando sottovoce. La televisione locale trasmetteva di nuovo i nostri identikit. L'uomo con l'impermeabile li notò, ci guardò e scosse la testa in modo appena percettibile. La gente intorno a noi non ci degnò di un'occhiata. Appena annunciarono il volo, l'uomo con l'impermeabile ci raggiunse e ci consegnò le carte d'imbarco e una busta. «I vostri documenti sono nella busta. I bagagli sono già in aereo. Auguri!» Scomparve, senza neppure farci un cenno di saluto. Salimmo sull'aereo. Aprii la busta. Due passaporti. Addirittura un po' lisi, con qualche visto e qualche timbro. Le foto erano le nostre, i nomi anche. I cognomi chiaramente no. Io ero diventato Iosif Rogačevskij, e Maša era Marija Rogaševskaja. Con grande disinvoltura Anton aveva preso e ci aveva sposati. Il voucher per l'albergo, il voucher per il transfer: tutto come se ci fossimo rivolti alla migliore agenzia turistica della città. E una busta bianca, più piccola, senza alcuna scritta. Dentro solo un fax: «Quando vi sarete sistemati a Tokio, chiamatemi allo stesso numero. Anton». Atterrammo all'aeroporto di Tokio, uscimmo dall'aereo, ritirammo i bagagli che avevamo lasciato in Tungusskaja venticinque e... cominciammo a perdere tutti i nostri punti di riferimento. «Non ho capito. Abbiamo volato verso est e dobbiamo mettere indietro le lancette dell'orologio? Di due ore?» «Sì. Una bella stranezza. Abbiamo viaggiato a est, avevamo il sole a destra.» «Guarda! Parlano al cellulare tenendo il telefono davanti alla faccia!»
«Sì. Pazzesco. Sono videotelefoni. Mi piacerebbe sapere come risolvono i problemi di infedeltà coniugale...» L'orario degli autobus ci segnalava che saremmo giunti davanti all'albergo 32 minuti e 30 secondi dopo le 18. Quando si dice la precisione... In Giappone a colpirti non è l'esotismo, che in altri Paesi, come l'India o il Vietnam, ti si riversa addosso in dosi massicce, ma piuttosto le sfumature. Sottili, ma molto toccanti. Per esempio, sei in albergo, in camera, e qualcuno bussa alla porta, la cameriera, o il ragazzo del room service con il tè, o magari i tuoi amici che stanno nella camera accanto. Tu naturalmente sei sdraiato sul tuo letto, leggi la guida della città e guardi la tele. E invece di balzare in piedi e andare ad aprire la porta, puoi girarti pigramente sul fianco e premere un pulsante. La porta si apre. Semplice come un bicchier d'acqua. Un'altra sfumatura: gli ombrelli gratis. Dovunque: nei caffè, negli alberghi, nei musei. Con i loro bravi loghi. Ombrelli veri, però, non semplice pubblicità. Tokio è una città piovosa, ma non è necessario portarsi sempre dietro l'ombrello. Se comincia a piovere, ne puoi prendere uno praticamente dappertutto. In generale, è una città di sfumature piacevoli: le strade a tre livelli; i robot addetti alla pulizia cittadina; i water, nelle toilettes, con tre pulsanti e due interruttori; i distributori automatici di qualsiasi cosa: merendine, calze, sigarette, birra, pile, giornali. Quando finalmente ci sedemmo in un piccolo ristorante, mentre ascoltavamo i Beach Boys, o qualcosa che ci assomigliava molto, Maša mi chiese se il Giappone mi ricordava di più l'Oriente o l'Occidente. «L'Oriente inteso in senso metaforico non esiste più. E non esistono più nemmeno i punti cardinali. Il globo è finito. È globalizzato!» I primi giorni furono all'insegna dell'entusiasmo. Per il cibo, i profumi e i panorami. Per la libertà e l'amore. Per i geroglifici e le premurose scritte in inglese che li accompagnavano. Per la musica che ci circondava. Un leggero rock occidentale, talvolta un po' folk, talvolta un po' country. Musica sempre morbida, e molto melodiosa. Americana, forse, o giapponese, ma cantata in inglese. Musica di design. Un sottofondo incredibilmente perfetto. Del tutto corrispondente al luogo. Semplice e armonioso. Già il primo giorno Maša aveva comprato una bella macchina fotografica e tre obiettivi, e cercava di fissare quella perfezione sulla pellicola. Una volta l'avevo sorpresa mentre fotografava la maniglia della porta di un ri-
storante. Una normalissima maniglia, creata da un designer assolutamente sconosciuto, sulla porta di un qualsiasi ristorante. Eppure aveva ragione: quella maniglia sarebbe stata bene in qualsiasi mostra di design. Il secondo giorno cominciammo la ricerca del monastero, ma il mio ottimismo era destinato a ridimensionarsi. Spiegarsi per telefono risultò impossibile. Il dialogo tipo, gestito dall'interprete della reception dell'albergo, suonava più o meno così. «È il monastero?» «Sì!» «Accettate allievi?» «M-m-m?» «Pellegrini, allora?» «M-m-m...» «Turisti, cioè...» «M-m-m!» «Non state aspettando qualcuno dalla Russia?» «Ih-ih-ih...» Visitammo diverse città del Nord e tre parchi nazionali e, dopo dieci giorni, ci fermammo a Sapporo. Maša cominciava a dare chiari segni di nervosismo. Me lo spiegavo col fatto che si immaginava ancora meno di me che cosa avremmo fatto dopo. Non nel senso della ricerca del monastero, ma nella vita in generale. Io, in quanto fan del libro Il Tao di Winnie the Pooh, mi sentivo più tranquillo, certo com'ero che tutto si sarebbe risolto da sé, ma non riuscivo a trasmetterle la mia fiducia nel fatto che presto sarebbe arrivato Anton, avremmo liberato Matvej e in qualche modo avremmo liquidato anche la faccenda degli hat. Al contrario, mi sembrava che qualsiasi accenno a quei temi avesse l'effetto di renderla ancora più nervosa. Negli ultimi giorni avevo cercato di evitare qualsiasi conversazione sul futuro prossimo, un tema che mi sembrava sempre più pericoloso per la serenità dei nostri rapporti. Ma a quel punto, nel più puro "spirito Winnie the Pooh", ricominciarono le novità. Eravamo tornati a Tokio, per cercare di scovare per lo meno un qualche archivio centrale di tutti i monasteri. L'ennesimo impiegato a cui avevo chiesto di individuare un monastero nelle regioni del Nord che qualche mese prima fosse stato in contatto con tale Il'ja Donskoj, nel giro di quindici minuti mi fornì l'indirizzo che cercavo completo di numero telefonico.
E lo contattò sotto i nostri occhi, sorridendo, come se fosse la cosa più normale del mondo. Non ebbi nemmeno il tempo di registrare questo ulteriore miracolo made in Japan, che l'impiegato mi comunicò che avrei potuto recarmi sul posto anche l'indomani. Ma senza Maša: il monastero era esclusivamente maschile. Non ci potevo credere. L'impiegato mi scrisse immediatamente (con la sinistra) il numero telefonico su un sottile bigliettino semitrasparente e, dopo avere chiamato lui stesso, mi porse il telefono, assicurandomi che i monaci parlavano inglese. Dal monastero mi confermarono con prontezza l'esistenza di quella scandalosa discriminazione sessuale. Oserei anzi parlare di segregazione sessuale. Contemporaneamente mi chiarirono che stavo parlando con la loro sede di Sapporo. Il monastero si trovava in realtà in un posto sperduto. Avrei dovuto sobbarcarmi un viaggio in pullman di sei ore da Sapporo al villaggio di Horokonai (che Maša e io non avevamo visitato, non sospettandone neppure l'esistenza) e da lì continuare a piedi lungo sentieri di montagna per trenta chilometri. I monaci non avevano telefono né collegamento internet ed era improbabile che lo avessero in futuro. Proprio quel monastero, nella persona del superiore, Okam, era stato contattato tempo prima da un russo chiamato Il'ja Donskoj (come riuscii a intuire, nonostante l'orribile storpiatura del nome del mio amico nella pronuncia nipponica). La missione era ripartita. Lanciai un'occhiata a Maša cercando di intuire quale fosse il suo atteggiamento verso la segregazione sessuale nel caso in questione, ma aveva un'espressione assolutamente indecifrabile. «Propongo di andarcene al bar e di bere un caffè. Intanto porteranno i nostri bagagli in camera.» Mentre raggiungevamo il bar, Maša non disse una parola. Ma non era il caso di usarlo come pretesto. Si sentiva nell'aria la lite che negli ultimi giorni avevo evitato a prezzo di sforzi sempre più ingenti. Ci sedemmo a un tavolino. Chiesi se potevamo usare il telefono. Ci portarono un cordless. Avvisai che dovevo telefonare all'estero. La cameriera si inchinò cortesemente. «Non potremmo pensare di affrontare le questioni della nostra vita privata senza l'intervento di Anton?» disse Maša, fissando il soffitto con aria
innocente. «Quando la faccenda non riguarda solo la mia vita privata, ma anche la sopravvivenza fisica di alcune persone che mi sono molto vicine, si può anche chiedere un consiglio. O no?» «Chiedilo, allora.» Maša era triste e calma. La cosa non mi piaceva. Di solito, le volte che ci era capitato di litigare, la sua arma preferita era il sarcasmo. «Maša! Che cosa avrei dovuto dire? Che, dato che in quel monastero sono sessisti, allora annullavamo la nostra ricerca? Avrei dovuto dire così?» «Mi hanno già sparato addosso due volte. E sono pronta a trovarmi di nuovo sotto le pallottole.» Ancora quella docilità da geisha. «Maša, ma chi vuoi che ti spari addosso da un monastero buddista?» «Nessuno. Forse è per questo che non mi ci fanno neanche avvicinare.» Pensavo febbrilmente a cosa fare. Rinunciare al viaggio? Per un capriccio di donna? «Maša, non ti offendere...» «Non ti offendere tu, piuttosto.» Questo era inaspettato. E interessante. «In che senso?» «Se vai in quel monastero, lo considererò come un tradimento personale.» «Perché?» Pausa. «Perché, Maša?» Pausa. I suoi occhi mi fissavano come se fossi stato trasparente. Mi guardai alle spalle, ma non c'era niente di interessante. «Puoi dire qualcosa?» «Sono incinta.» Ecco. Adesso fui io a prendermi una pausa. Una pausa, e anche una sigaretta. Mi alzai e raggiunsi una finestra. Ero decisamente scosso. Ma l'unica cosa che avrei voluto fare davvero, era chiederle: «Di chi?». In modo del tutto inaspettato, senza nessuna avvisaglia o presentimento, fui preso da un attacco di gelosia come non mi capitava più almeno da sei mesi, se non da un anno. Chiederglielo però era impossibile, indelicato, una bassezza. Anche trattenersi, però, era difficile. Difficilissimo. La sigaretta si fumava da sola, mentre mi rendevo conto che chiederglielo sarebbe comunque stato inutile. In primo luogo perché probabilmente non lo sapeva nemmeno lei.
E in secondo luogo perché, messa alle strette, avrebbe detto comunque che era mio. Tornai al tavolo e mi sedetti. Mi tremavano le mani. Anche il cuore, se il termine "tremare" è applicabile al cuore. A un tratto mi ricordai che il tremito cardiaco si chiama fibrillazione e che può portare alla morte. Cosa mi passava per la testa? «Hai deciso qualcosa?» «E... Quando l'hai... scoperto?» «Quindici minuti fa. Mentre ti facevi dare l'indirizzo del monastero. Ero già in ritardo di sei giorni. Hai deciso, allora, cosa faremo?» Guardai le mie mani che continuavano a tremare. Mi asciugai la fronte. Aggrottai le sopracciglia e le ridistesi. «Vivremo a lungo felici e contenti e moriremo nello stesso giorno.» «Non è molto probabile. È meglio che decida a cosa tieni di più: se alla guerra con gli hat o a vivere con me. Se decidi per me, elimina per sempre il viaggio al monastero.» «Non ho capito che cosa c'entra... Aspetta... E Matvej? E il Chimico?» «Possiamo separarci.» «Sei impazzita? Ma aspetta un attimo... E Matvej?» Finalmente Maša smise di guardarmi come se fossi stato trasparente. «Il monastero non ti aiuterà a liberare Matvej. Non puoi andare a cacciarti in un simile ginepraio solo per seguire la tua immaginazione, se vuoi vivere con me!» «Ma perché? Cosa te lo fa pensare? Non mi caccio in un bel niente. Il viaggio al monastero non comporta il minimo rischio. Stai travisando la realtà...» «Non traviso proprio niente. Sei tu che non hai capito niente. Sono incinta. Continuando la tua guerra, metti in pericolo le vite dei miei bambini non ancora nati. Non lo capisci?» La prima cosa che notai fu il termine "miei" invece di "nostri". Poi "bambini", al plurale. Cos'erano, gemelli? Uno di German e uno mio? No, che assurdità. Anche se fossero stati davvero due gemelli, Maša non avrebbe potuto ancora saperlo. Poi cercai sinceramente di capire il suo punto di vista. Il monastero significava guerra. La guerra e i bambini effettivamente non vanno molto d'accordo. Era un'osservazione commovente. Ma come potevo far capire a Maša che gli uomini ragionano in modo un po' diverso? «Maša, forse è la gravidanza che ti rende un po' troppo irritabile. Non
capisco perché sei così furiosa per questo viaggio al monastero... Starò via per un paio di giorni. Al massimo una settimana. Tu intanto ti guardi un po' in giro...» «Io sarei furiosa? Stai un po' esagerando. Non stiamo parlando del mio carattere. Dico quello che penso. E ho intenzione di farlo in qualsiasi situazione.» Mi concentrai nell'esame del tovagliolino, ripetendomi che dovevo trovare il modo di riappacificarmi, senza assolutamente chiederle di chi era il bambino. «Alt. Proviamo a ricominciare tutto da capo.» Anche se avessi lavorato tutta la vita in uno studio di psicoanalisti specializzati nell'evitare i divorzi, non avrei potuto trovare una proposta migliore. O, almeno, così mi sembrava. «No, carissimo. Cominciamo dalla fine, piuttosto. O me o il monastero.» «Ascoltami! In questo maledetto monastero sanno qualcosa di molto importante. Qualcosa che riguarda tutti noi. Anche te, fra l'altro. E io devo scoprirlo. Lo capisci? Devo! Se non vuoi restare da sola, puoi andare da Anton, negli States. Vi raggiungerò nel giro di una settimana.» «So benissimo dove andare. Grazie per avere programmato il mio futuro. Ho già detto tutto. Troverò qualcosa da fare anche senza di te. Fai la tua scelta.» «Ma questo è un ultimatum.» «Sì, è un ultimatum.» «Maša! L'esperienza delle passate generazioni, i geni e l'educazione che ho ricevuto mi dicono che non si deve mai accettare un ultimatum. Nemmeno da una donna incinta. Tanto più che né la tua vita né la tua gravidanza corrono al momento alcun rischio.» «Non lo accettare, allora.» «Ti propongo una riappacificazione. Ti prego, Maša! Mašenka! Maška!» «Non ho intenzione di discutere. Ho detto tutto e aspetto la tua decisione.» Ma quale decisione? E lei, cosa voleva? Salvarmi la vita, ma a che scopo? Per costringermi poi a vivere la sua? No. Era ora di troncare quelle idiozie. Non ci si può fare portare al guinzaglio da una donna, tanto più da una donna forte. Ci mancava solo che diventassi il suo stuoino. Bastava Anton. Una donna forte non è il sogno dei poeti. Alt... Forte... E a quel punto improvvisamente capii. E mi spaventai del mio stesso pensiero. «Ho preso la mia decisione. Agirò secondo il programma. Programma
che, ti ricordo, avevamo concordato insieme. Se volevi mandarmi al diavolo perché, per esempio, il bambino non è mio, potevi inventarti una scusa migliore. Più nobile.» Mi accorsi che era davvero un colpo sotto la cintura. In effetti avevo avuto il presentimento che fosse meglio lasciar perdere quella questione... «Addio, mio caro.» Maša si alzò, uscì dal bar e si diresse verso la nostra camera. Ordinai un whisky, ma non servì a molto. Chiamai Anton. Mi definì un coglione egocentrico. «Ma perché non hai fatto come voleva lei e non hai lasciato perdere quel dannato monastero? Tanto più che Maša, in questo momento, non sarà completamente in sé. È più che normale. Mettiti nei suoi panni: la fuga, gli omicidi, e ora anche la gravidanza! E poi, se credi proprio di non poter più vivere senza questo Okam, vacci di nascosto. O magari ci vado io. Non sta mica per bruciare, no? O aspetta che Maša si sia un po' calmata! Perché devi comportarti così da idiota?» «Allora cosa mi consigli, adesso?» «Di andare subito a scusarti!» «Dopo un ultimatum...» «Ma perché parli di ultimatum tra persone che si vogliono bene, eh? Devi essere impazzito in quella prigione!» «E cosa facciamo per Matvej?» «Io riuscirò a liberarmi tra un mese. E allora andremo a prenderlo. Non ti cacciare in questa impresa da solo!» «Ma non riesci a partire prima? Sono preoccupato per Matvej...» «Non posso, non posso davvero. E stai tranquillo per Matvej. Sopravviverà fino al nostro arrivo.» «Come fai a saperlo?» «Lo so.» Riattaccai e mi diressi di sopra, ben deciso a seguire i consigli di Anton. Nel tragitto mi chiedevo se è possibile che un'estranea diventi tua, una parte di te, in qualche modo. Perché Maša era un'estranea, non è che la capissi molto neanche prima, adesso poi... Alla fine decisi che, in certe circostanze, è possibile. Proprio tua, no, ma familiare, certamente sì. Mi sentii come se mi avessero tolto un peso dal cuore. Per capire se, nell'annunciare la capitolazione, era meglio fare riferimento alla conversazione avuta con Anton o lasciar perdere, mi fermai sulle scale a fumare una sigaretta. La decisione di riferire onestamente a Maša i consigli di Anton la presi definiti-
vamente mentre aprivo la porta della camera. Le parole che mi ero preparato, però, mi morirono in gola. Non c'era più nessuno a cui dirle. Maša non c'era. Da nessuna parte. Né Maša, né la sua valigia, né la sua borsa. Dal ripiano per i bagagli sporgeva solo il mio zaino. Trattenendo a stento il grido che mi era salito alle labbra, mi precipitai alla reception, dove mi guardarono con solidarietà e, sorridendo, mi spiegarono che la signora se n'era andata con un taxi dieci minuti prima. «E la valigia?» «Sì, la signora e la valigia. E ha pagato il conto, per tutti e due, fino a domani.» Tornai in camera vacillando, assolutamente sicuro che non vi avrei trovato alcun biglietto. E in effetti non c'era alcun biglietto. Fine. Il mondo aveva smesso di esistere. L'universo stava sprofondando. PARTE TERZA Capitolo Ventiquattro Ero sdraiato sul letto, con la faccia affondata nel cuscino. La festa era finita. Signore, perché mi hai fatto così male? E anche se la gravità della mia colpa era suscettibile di valutazioni diverse, il castigo che mi attendeva appariva comunque terribile. La solitudine. Nella sua versione peggiore: la Vera solitudine. Da ragazzino avevo letto un libro americano abbastanza assurdo, ma a quei tempi molto di moda, La vita dopo la morte. Si trattava di una raccolta di racconti di persone che erano state dichiarate clinicamente morte e che poi, grazie alle cure ricevute, erano tornate alla vita. Un elemento presente più o meno in tutti i racconti (questa costanza veniva tra l'altro considerata dagli autori una prova dell'obiettività della loro ricerca) era l'esperienza di un volo attraverso una serie di corridoi verso un fiotto di luce, o quella di vedere il proprio corpo come dall'esterno. Sono tutte sciocchezze. Tanto più che nemmeno nel viaggio nel mondo degli hat avevo provato niente del genere. La possibilità invece che dopo la morte si provi un senso di solitudine terribilmente forte mi aveva sempre impressionato. E mi impressiona anche adesso. Il morto si sente solo perché vede le persone che lo circondano - di solito medici o persone care -, sente le loro parole, ma non può in al-
cun modo rispondere. Non è terribile? Vedi tutto, senti tutto, ma non puoi dire niente a nessuno! Non puoi fare più nemmeno un piccolo cenno! Odio la morte! Mi alzai dal letto come un sonnambulo, raccolsi le mie cose automaticamente, senza guardare quello che facevo, e andai all'aeroporto, cercando di convincermi che non tutto era perduto. Dopo una giornata di permanenza nel terminal in uno stato di semifollia (la polizia locale mi aveva controllato i documenti più volte), ero tornato in me grazie a una telefonata di mezz'ora con Anton. Fondamentalmente le sue idee erano due: «Primo: Maša non sparirà certamente. Non è la prima volta, dopo tutto... Anche se tu naturalmente sei una carogna come ce ne sono poche. Secondo: visto che hai combinato tutto questo casino, tanto vale che a questo punto vai al monastero e cerchi di capire che cosa sperava di trovarci il Chimico». Non mi misi a discutere e a spiegargli che un distacco simile, ovviamente, era la prima volta che succedeva. E, probabilmente, anche l'ultima. Forse per lui, con la sua stabile vita familiare, era difficile capirmi. La seconda idea mi sembrava più pertinente. Presi un biglietto per Sapporo e me ne uscii a fumare prima dell'imbarco, scrutando più che altro per un riflesso condizionato tutti coloro che scendevano dai taxi o dagli autobus. La sera di quello stesso giorno ero seduto nell'immenso bar tutto a vetri dell'albergo nel centro di Sapporo dove qualche giorno prima ero stato con Maša, e dove mi ero chiesto se non ero ancora maturo per la felicità familiare o se, più radicalmente, non ero proprio adatto per quel genere di felicità. Il bar era silenzioso, si sentiva appena una musica che mi sembrò subito nota. Una voce femminile, sottile e pura come un assolo di violino, cantava in giapponese. Cercai di convincermi che, dal momento che non conoscevo alcuna canzone giapponese, non potevo conoscere quella melodia, ma non ci riuscii. Raggiunsi il bancone per una nuova dose di Suntory (i giapponesi hanno imparato sul serio a fare il whisky, non c'è niente da dire!) e domandai al barman cosa fosse quella musica celestiale. Sorrise. «The flower of carnage.» «Come mai la conosco?» «Kill Bill 1.» E rimise la canzone dall'inizio. Shindeita Asa ni
Tomorai no Yuki ga furu Hagure inu no Touboe Geta no Otokishimu «Di cosa parla?» «La neve cade tristemente in un morto mattino. Il lamento di un cane abbandonato e le orme di Geta fendono l'aria.» Molto appropriato. Solo che il mattino era passato, ed era ormai sera. Tornai al mio tavolino. Oltre a me, nell'immenso bar, c'erano solo due ragazze. Capelli corti, jeans. Non erano molto distanti, tanto che potei notare che una di loro aveva tatuato un piccolo drago sull'avambraccio destro. Proprio nel punto in cui io avevo la cicatrice della vaccinazione contro il vaiolo. La ragazza con il tatuaggio mi guardava con aria decisamente interessata, senza la solita indolenza da bar. Una ragazza giapponese, snella, sensuale. Con un piercing al labbro inferiore. Interessante, come minimo. Ed era lei a invitarmi. La fissai pensieroso. No. Non potevo guardare un'altra donna. Evidentemente dovette interpretare il mio sguardo come un: "Vaffanculo, non mi metto a scopare con la prima che capita", perché assunse immediatamente l'espressione: "Ma vaffanculo tu" e, come se non bastasse, si girò anche dall'altra parte. Io abbassai gli occhi, finii il mio whisky e me ne andai in camera, dove mi sentii solo come non mi ero mai sentito prima. Guardai un po' fuori dalla finestra: pioggia, nebbia e luci confuse, azzurrine. Dio mio, ma sarà uguale per tutti la solitudine? Si guarda la neve che cade là fuori, di notte, e si pensa: "Signore, solo a me vengono in mente certi pensieri, così tristi e profondi...". Mentre sospetto che certi pensieri vengano in mente, di tanto in tanto, almeno a una persona su venti. Nelle varie lingue. A mezzo miliardo di persone! Un numero inconcepibile. Eccola, l'estensione reale del "solo a me". Mi strinsi nelle spalle e tirai la pesante tenda scura. Poi decisi di indovinare con una moneta da cento yen se Maša sarebbe tornata da me. Ci misi un bel po' a decidere quale parte della moneta fosse "testa", perché scommetto sempre su "testa". Dopo aver risolto questo problema, meditai se fosse il caso di fare tre tiri o uno solo. Uno mi sembrava
più deciso, ma tre era sicuramente più affidabile. Senza aver ben stabilito quale variante adottare, feci il primo tiro: testa. Yes! A quel punto, però, mi dissi che l'onestà era la cosa più importante e continuai i lanci, ottenendo due croci. Fuck! Optai per una serie di dieci lanci, e arrivai a un risultato di parità. Cinque a cinque. Allora mi distesi sul letto e mi misi a osservare attentamente il soffitto. Mi pareva che se fossi riuscito a dirottare i miei pensieri da Maša e dalla solitudine al monastero, avrei dimostrato di essere un vero uomo e non un povero rammollito. Invece mi ritrovai improvvisamente a pensare che presto sarebbe arrivata la fine del mondo. Una catastrofe nucleare, o climatica. Oppure ci sarebbe caduto addosso un asteroide. Però considerare la fine del mondo come possibile via d'uscita da una situazione spiacevole mi sembrava comunque un po' meschino. Tornai a pensare al monastero e decisi che sarebbe stato bello se, nel corso della mia meditazione, fosse apparso sul soffitto un qualche ideogramma che mi indicasse che cosa chiedere a Okam. Che cosa studiare? Di cosa discutere? E in generale: se Dio (la Provvidenza, l'Ente supremo, il Fatum, Whatever) mi spinge verso quel monastero con tanta forza da farmi perdere per strada alcune delle persone che amo di più, dovrebbe almeno spiegarmi perché. Poi pensai che, se anche quell'ideogramma fosse apparso davvero, non l'avrei comunque saputo decifrare, dato che non so il giapponese, e, senza accorgermene, mi addormentai. Il mattino del giorno dopo, nella sede di Sapporo del monastero, spiegai a due monaci, vestiti esattamente come me, in jeans e maglione, che avevo assolutamente bisogno di incontrare Okam. Uno di loro mi chiese da dove venivo. Quando glielo dissi, allargò le braccia e mi domandò come mai Okam godesse di tanta popolarità in Russia. Non ne avevo la minima idea e mi limitai ad allargare le braccia anch'io. I monaci parlottarono un po' tra loro con quelle voci acute dai toni stridenti, guardandomi ogni tanto con un'allegria un po' sospetta. Io me ne stavo lì, cupo come la nuvola sulla vetta del Fuji Yama. Finalmente decisero che si erano divertiti abbastanza alle mie spalle e mi chiesero se sapessi dove andare. Dovevo raggiungere Horokonai (sei ore di autobus da Sapporo) e poi farmi quasi trenta chilometri a piedi. I monaci si misero di nuovo a cinguettare tra loro, dopo di che, vedendo la serietà delle mie intenzioni, mi dettarono un percorso che comprendeva i quattro punti cardinali (si dava per scontato l'uso della bussola), il fiume
Lacrima che sgorga dall'Occhio del drago e il monte a due vette, i due cavalieri di pietra nella posizione del combattimento. Tra le teste dei due cavalieri si trovava il Nido dell'anatra selvatica, cioè la mia ambita meta, il monastero di Okam. Mi diedero anche qualche consiglio per il viaggio: innanzitutto, procurarmi delle scarpe adatte per un percorso del genere; in secondo luogo, non portarmi dietro niente di superfluo o di pesante perché il tratto da percorrere a piedi era in gran parte montuoso; infine, rifornirmi di cibo e fiammiferi nel caso avessi imboccato un sentiero sbagliato e mi fossi trovato a pernottare nel bosco. Quando domandai se non era possibile noleggiare un elicottero, i monaci mi guardarono con una certa perplessità e mi risposero che loro, naturalmente, dell'elicottero non sapevano nulla e che avrei dovuto informarmi all'aeroporto. D'altra parte, e di questo erano assolutamente convinti, Okam non avrebbe accettato come allievo uno che avesse raggiunto il monastero in quel modo. In generale non erano assolutamente certi che Okam mi avrebbe accolto, anche se in ogni caso al monastero si sarebbero premurati di rifocillarmi e di ospitarmi per la notte. Chiesi se al monastero c'era un telefono. Mi risposero di no. I rapporti erano assicurati dai pellegrini come me. Se non avessi cambiato idea e avessi deciso di raggiungere il monastero, mi avrebbero per l'appunto consegnato alcune lettere. Non cambiai idea. Presi le loro lettere e mi diressi al mercato centrale per comperare quello che mi serviva. Bussola, scarponi, zaino, pila, coltello e altri simpatici accessori turistici. Tutto come quando eravamo ragazzi. Mancavano solo i kayak e le chitarre. Quella sera stessa raggiunsi senza alcuna complicazione Horokonai e mi fermai nell'unico albergo della città, un piccolo edificio a due piani. L'inglese da quelle parti non lo parlava nessuno, ma io avevo già imparato a spiegarmi a gesti. Con l'aiuto di carta, penna e ticchettii dell'indice sull'orologio chiesi al padrone, un uomo completamente calvo dai grandi occhi tristi, di essere svegliato alle sei del mattino. Il giorno dopo partii con grande baldanza incontro alla saggezza zen e a chissà quali altre scoperte, che avevo già pagato a caro prezzo con la perdita di Maša, sperando di raggiungere il Nido prima che facesse buio. Dieci ore di cammino, due soste, decine di panorami indimenticabili, e il Nido si accese nella luce del tramonto. Da lontano ricordava più una piccola tenuta di campagna che un monastero. Una casetta di legno a due piani
con il tetto spiovente arrotondato verso il basso, circondata da una palizzata alta e appuntita. In montagna è difficile calcolare le distanze. Ero convinto che nel giro di mezz'ora sarei stato seduto alla mensa del monastero, davanti a un piatto di riso speziato, ma non andò affatto così. Per arrivarci mi ci vollero ancora tre ore. La pila comunque illuminava il sentiero e il mio morale era più alto che mai (quando si dice l'aria di montagna!): ero tutto pervaso dalla coscienza della mia forza e della mia previdenza. Portone. Mi sfilai lo zaino dalle spalle. Bussai piano. Il tocco pieno di dignità di un pellegrino esausto. Nessuna reazione. Bussai più forte. Il tocco impaziente del viaggiatore che ha bisogno di un riparo. Dopo un po' di tempo dall'interno qualcuno mi chiese qualcosa in giapponese. Risposi in inglese che dovevo vedere Okam. «Gli ho portato delle lettere» aggiunsi, non so bene perché. Il portone si aprì leggermente. Comparve un uomo tipo lottatore di sumo. Indossa una lunga giacca nera. «Spegni quella pila del cazzo» mi disse in un ottimo inglese a mo' di benvenuto. Effettivamente gli stavo puntando la torcia in faccia. Una faccia parecchio grande, forse gonfia, forse semplicemente molto grassa. I capelli erano intrecciati in un codino spesso. Spensi la torcia e la depositai addirittura a terra. «Chi sei?» «Mi chiamo Iosif. Sono russo. Sono venuto a studiare da Okam. Posso entrare?» Mi guardò con aria molto sospettosa, prese le lettere, mi restituì il dépliant del monastero che non so come era rimasto in mezzo alle lettere, e disse: «No. Sai già tutto. Non devi imparare nulla!». Quella frase era talmente in contraddizione con tutto quello che avevo sentito e sapevo riguardo a lunghi anni di studio e preparazione, che rimasi senza parole. «Sei tu Okam, vero?» «Sì. E se sai che sono Okam, a maggior ragione non devi imparare nulla. Coloro che sanno chi sono, sono illuminati. Vattene!» E scoppiò in una risata. Avevo già sentito che nella pratica zen erano piuttosto diffuse una certa rozzezza e paradossalità di pensiero, ma non a-
vevo alcuna voglia di tornare indietro o di pernottare all'addiaccio. «Splendido» dissi. «Allora sarò io a insegnarti qualcosa, ma non prima che tu mi abbia lasciato entrare, dato qualcosa da mangiare e offerto un riparo per la notte.» «Cosa mi puoi insegnare?» Non si era mosso di un millimetro, ostruendo la porta come un enorme masso. «Quello che ancora non sai.» «E cos'è che ancora non so? «Proprio questo.» «Cosa "questo"?» «Tu stesso non mi hai appena chiesto che cosa ancora non sai? Ecco quello che ti insegnerò. Domani, però. Adesso lasciami entrare e dammi qualcosa da mangiare.» Non mi ero mai interessato seriamente alla filosofia zen. Dopo diverse conversazioni con Anton e la lettura di qualche libro avevo deciso che lo zen era un miscuglio di storielle di media qualità e di definizioni paradossali implicato in qualche modo nello spirito delle arti marziali. E pensavo di avere colpito in pieno quel grassone con la mia determinazione e il mio brillante sillogismo. Purtroppo non era così. «Vattene! Se vieni di nuovo a bussare a questa porta, ti picchierò.» E con aria imperturbabile cominciò a richiudere la porta. Ero sbigottito. «Fermo!» gridai. «E l'ospitalità? Io ho fame! E sete!» «Fuck off» fu la sua risposta, molto chiara, anche se non molto ospitale. «L'acqua è nel fiume.» «In quale fiume, cazzo?» chiesi in russo alla porta chiusa, e mi sedetti esausto sul mio zaino. Veramente, mancai anche lo zaino e finii nella polvere. Per qualche minuto mi sembrò che non ci fosse alcun bisogno di alzarmi di lì. Il depositario dei segreti della conoscenza si era rivelato una vera carogna. Me lo dovevo immaginare. Si sa che i depositari dei segreti della conoscenza possono permettersi un comportamento inadeguato. E adesso? Denunciare il suo comportamento al soviet di monastero? Avrei potuto continuare a battere sulla porta o intrufolarmi attraverso la palizzata. Ma la familiarità di Okam con le arti marziali e la sua tetra determinazione mi inducevano a pensare che non fosse la strada giusta. Tornare indietro era impossibile. Non avevo certo perso Maša e percorso
la strada che avrebbe dovuto percorrere il Chimico per essere liquidato così malamente. "Ma certo!" dissi tra me. "È una prova! Okam vuole semplicemente esser certo che non sia arrivato da lui per caso. E allora? È un suo diritto. Spero di riuscire a dimostrarglielo!" Spostai lo zaino dal sentiero, presi il sacco a pelo e bevvi l'ultimo goccio di acqua. Una notte sotto il cielo. Guardai a lungo le stelle, incantato. Trovai Cassiopea, Orione, i Gemelli... Poi cercai di distogliermi dalla magia del cielo, chiusi gli occhi e mi misi a pensare a che stelle ci fossero nel mondo parallelo. Giunsi alla conclusione che probabilmente non ce n'erano proprio. Riaprii gli occhi e tornai a scrutare il cielo. Mi svegliai a causa del gelo. Rimasi ancora un po' sdraiato nel sacco a pelo, con lo sguardo fisso al pino più vicino, chiedendomi cosa e quando avrei mangiato. Spinto dalla necessità di rispondere a quella domanda, mi alzai e mi guardai intorno. Dire che il luogo dove mi trovavo era bello sarebbe mentire. Era assolutamente divino. Montagne verde scuro. Fiocchi di nuvole grigie. E il cielo, indescrivibile. Scesi fino al ruscello per lavarmi e contemplare quella bellezza con occhi meno insonnoliti. L'acqua era ghiacciata. Mi lavai i denti in qualche modo e mi immersi addirittura interamente nel ruscello, nella speranza di un rinnovamento. Tornato ai miei stracci, feci colazione con gli avanzi del cibo che avevo portato con me. Il portone del monastero era serrato. Dall'interno non filtrava il minimo suono. Pensai che, se dovevo restare lì solo per breve tempo, avrei potuto resistere anche senza mangiare. Di acqua ce n'era in abbondanza. Però ci voleva il fuoco. Mezz'ora più tardi, con l'aiuto di una piccola accetta, poco più di un giocattolo, avevo creato la mia scorta di legna, acceso un fuoco e cominciavo a riscaldarmi. Stavo prendendo gusto allo stile di vita alla Robinson e decisi di costruirmi una capanna. Tagliai alcune pertiche, le disposi in forma di cono e le ricoprii con diversi strati di rami. Poi tagliai altri rami e li sistemai in modo che il pavimento della capanna potesse costituire un giaciglio confortevole. Il sole cominciava a scendere verso una delle cime. Decisi di fare il periplo del monastero. Non ci riuscii. Il lato meridionale era addossato a una
roccia assolutamente perpendicolare. Tornai indietro, guardandomi attentamente intorno nella speranza di trovare qualcosa di commestibile e pensando che, invece di raggiungere le vette dell'illuminazione, mi stavo trasformando in un selvaggio. Mm... Di quel passo non era così difficile arrivare al cannibalismo. Non c'era niente da mangiare. Meditando amaramente sulla volubilità del destino e sull'importanza (poco biblica) del cibo, tornai alla mia tenda. Lì mi aspettava una piacevole sorpresa: vicino al fuoco ormai quasi spento c'era una scodella abbastanza grande con riso e fave. "Splendido" pensai, mi armai rapidamente di rametti-bacchette e la svuotai in un batter d'occhio. Poi, sempre deciso a ingraziarmi i monaci, andai al ruscello e lavai la scodella. "Se non vogliono che muoia di fame, vuol dire che prima o poi mi accoglieranno" pensai ottimisticamente dopo avere riattizzato il fuoco. Guardavo le fiamme e pensavo. Pensai al fatto che Kem-Atef e i suoi successori non erano riusciti a conquistare e sottomettere l'Estremo Oriente. E mi sforzavo di immaginare che cosa il Chimico sperasse di sapere da Okam sugli hat, nel tentativo di sfuggire alla morte. Poi mi tornò in mente il pensiero della sera prima, se ci fossero o no stelle nel mondo parallelo. Possibile che non ce ne fossero? Senza aver risolto la questione, andai al ruscello a lavarmi e poi tornai alla capanna e mi infilai nel sacco a pelo. Quindici giorni. Lo sapevo con certezza perché già il secondo giorno avevo cominciato a fare delle tacche. E ogni giorno era uguale al precedente, salvo per leggere sfumature. Avevo imparato a lavare le mie cose nell'acqua gelata del ruscello e avevo trovato delle bacche simili a mirtilli che risultarono commestibili. Probabilmente furono quelle a salvarmi dall'avitaminosi. Ma non ero comunque riuscito a parlare neppure con il monaco che mi portava la scodella con il cibo. Finché rimanevo nei pressi della capanna, non si faceva vedere, ma bastava che mi allontanassi anche soltanto per quindici minuti e al mio ritorno mi aspettava la scodella di legno con riso e fave, conditi con diverse spezie. Il sedicesimo giorno decisi di tendere un agguato al mio foraggiatore. Finsi di andare a fare la solita passeggiata, ma tornai subito indietro facendo in modo che dal monastero non potessero accorgersene. Mi nascosi tra i cespugli e aspettai. Le porte si aprirono e apparve un uomo con una lunga tunica marrone con il cappuccio. Ai piedi aveva dei
sandali di paglia molto simili a quelli di corteccia che portavano i contadini russi. Si avvicinava sempre più. Decisi che era ora di passare all'attacco. «Salve» dissi, sgusciando fuori dai cespugli come se niente fosse. «Salve!» Agitai la mano. «Mi serve il tuo aiuto!» Il monaco mi guardò, sorrise, disse qualcosa in giapponese, depositò la ciotola e fece per allontanarsi. «Fermati!» gli gridai. «Ho bisogno di Okam. Capisci? Okam! Arigato! Konnichiwa! Di' a Okam che ho assolutamente bisogno di lui! Va bene?» Il monaco si strinse nelle spalle, mi disse qualcosa in tono tranquillizzante e tornò al monastero. «Ah, ma sei più cocciuto del diavolo, allora!» esplosi, profanando la santità di quel luogo con l'evocazione del demonio. «Cosa posso fare per convincerti? Scriverti una lettera, forse?» Mi ricordai il dépliant del monastero che mi avevano dato a Sapporo. Potevo utilizzarlo come carta. La penna non l'avevo, ma usai la fuliggine al posto dell'inchiostro e con un bastoncino appuntito scrissi su una parte bianca del depliant: «I need to talk», dopo di che misi il messaggio nella ciotola che il monaco avrebbe prelevato per poi riportarmela la sera, piena di riso e fave. Così infatti avvenne. Trascorsi la sera nell'attesa della risposta. Ero sicuro che ci sarebbe stata. Se non il giorno successivo, quello dopo ancora. Nel peggiore dei casi, nel giro di una settimana. Non potevo certo pensare di trascorrere l'inverno in quella capanna! Il giorno dopo, già nell'avvicinarmi alla capanna vidi che Okam mi aveva risposto. Dalla ciotola spuntava il dépliant. Mi avventai sopra come un nibbio su un'anatra selvatica. Proprio sotto la frase che avevo tracciato con tanto sforzo con il bastoncino, ce n'era un'altra, scritta con una normale penna a sfera: «No need». Ma la cosa più tremenda non era quel rifiuto, bensì il fatto che la ciotola, di solito piena di riso, fosse vuota. Mi balenarono in testa due possibili reazioni. La prima: andare a caccia di rane con la fionda, farmi una bella scorpacciata e andarmene, raggiungere il mondo civilizzato e contattare Anton; la seconda: prendere e andarmene via affamato. La prima variante era indubbiamente più tosta. Ma in effetti non avevo alcuna voglia di farmi una scorpacciata di rane. La situazione non mi ispirava, e non ero dell'umore giusto. Né per le rane né per la caccia. Per questo rivolsi un secco: «Arigato» al monastero, raccolsi in fretta le
mie cose e partii. Avevo ancora una piccola speranza che qualcuno mi rincorresse e mi chiedesse di tornare. Nessuno però pensò di farlo. Anche se, proprio prevedendo questa possibilità, dopo un'ora di cammino feci una sosta di mezz'ora. Fu a quel punto che mi sentii offeso, e amareggiato. Al monastero zen non era andata molto bene. Mi alzai in piedi e ripresi il cammino. Finalmente a tarda sera arrivai sulla strada e una macchina di passaggio mi portò fino all'albergo di Horokonai. Il proprietario non mi fece alcuna domanda, ma mi portò premurosamente in camera del tè e qualcosa da mangiare. Il giorno dopo ripresi il mio zaino e raggiunsi a piedi la stazione centrale dei pullman. Quello per Sapporo partiva dieci minuti dopo. Guardai il picco dietro cui si nascondeva il Nido dell'anatra selvatica. Era avvolto da una nuvola grigia. Scossi la testa e mi infilai nell'autobus. A Sapporo mi rifugiai nell'albergo in cui avevo resistito alle lusinghe della fanciulla col drago e chiamai Anton. «Puoi riferirmi esattamente quello che ti ha scritto Okam?» «C'è poco da essere esatti. Io gli ho scritto: "I need to talk", e lui mi ha risposto: "No need".» «E cosa ti ha detto in occasione del vostro primo incontro?» «Primo e unico... Mi ha detto: "Fuck off. You know everything".» «Già... sì...» disse Anton con la voce di un esperto anatomopatologo. «Non è poi così male. Non è poi così male...» Mi trattenni. Non mi misi a gridare, non riattaccai. Al contrario. Ascoltai cortesemente l'invito di Anton di incontrarci a Verona. Annotai il numero di telefono di un'agenzia turistica che già l'indomani avrebbe apposto il visto di Schengen sul mio passaporto fasullo. E non lo mandai al diavolo neppure quando mi disse che nei giorni liberi che avrei avuto prima del nostro incontro non sarebbe stata una cattiva idea tradurre il testo latino che avevamo ricevuto dal Vaticano. Perché lui era riuscito ad averlo soltanto il giorno prima e aveva notato con stupore che conteneva il nostro amato numero, sia pure nella forma abbreviata 2224612, senza il 15 (mi ricordai che anche i copti, del resto, non avevano saputo dirci nulla del 15). In pratica mi chiedeva se, in quanto esperto latinista, non avrei potuto raggiungere Verona qualche giorno prima di lui e tradurre il testo in questione. Certo che potevo. Ormai potevo fare qualunque cosa. Non chiesi nemmeno ad Anton dove avrei potuto trovare un vocabolario latino-russo. Era ovvio che non l'avrei potuto trovare e che mi sarei dovuto arrangiare con
uno latino-inglese. Gli promisi seccamente che lo avrei contattato quando fossi arrivato a Verona, ammesso che ci arrivassi. «Anton! In che forma ti serve la traduzione?» «Mm... Il testo è lungo, sulle duecento pagine. Perciò puoi limitarti ai punti principali, una specie di riassunto. Ma che importanza ha, poi... Puoi anche tradurlo in forma drammatica. O poetica. L'importante è capire che cosa dice del numero e degli hat.» «Va bene. Ne farò una novella. Gotica.» «Sei arrabbiato?» «Perché? Perché Maša se n'è andata e Okam mi ha scaricato? Se anche fossi arrabbiato, sarebbe soprattutto con me stesso. E da molto tempo mi sono abituato a non arrabbiarmi con me stesso.» Per consolarmi un po' me ne andai nel negozio di dischi più vicino, ma, invece di comprarmi i soliti cd, decisi improvvisamente di comprarmi un iPod. Piccolo, bianco, di ottimo design, con gli auricolari bianchi. Adesso potevo liberarmi dei cd comprati nel corso del mio lungo viaggio e che avevano ormai raggiunto un peso non indifferente. In un internet-café controllai la posta (non avevo ricevuto alcun messaggio) e, con l'aiuto di un gentile giapponese, trasferii i miei dischi sull'iPod, dopo di che glieli regalai tutti. A sua volta il giapponese mi mise a disposizione la sua raccolta, così che alla fine mi ritrovai con circa centocinquanta dischi di ottimo rock occidentale e del miglior rock giapponese. La vita continuava. Senza Maša, ma almeno con la musica. I due voli Sapporo-Tokio e Tokio-Milano e il tratto in pullman MilanoVerona non lasciarono in me il minimo ricordo. Sebbene durante il viaggio fossi o molto ubriaco o ubriaco fino allo stordimento, non persi né il passaporto, né i soldi, né i biglietti. Quando si dice l'abitudine. E sì che avevo creduto che l'aria di montagna mi avrebbe aiutato a smettere di bere... Mentre viaggiavo per Verona in taxi, prostrato dai postumi della sbornia, aprii improvvisamente gli occhi e colsi al volo l'insegna di un bar, La dolce Giulietta. Pensai che dovevo ricordarmela e richiusi subito gli occhi. «È questo l'albergo più medievale, signore» mi disse il tassista svegliandomi. «Devo aiutarla con i bagagli?» «Che cosa?» gracchiai, cercando di metterlo a fuoco. «Mi ha chiesto di portarla nell'albergo più medievale di questa fottutissima città, signore. E così ho fatto.» «Ah...» dissi, tornando in me. «Siamo a Verona! Grazie. Terribile. Che
figata, sì. Come va il Chievo?» La mia voce non era proprio al massimo. «Ieri abbiamo vinto con la Lazio, signore. Due a zero. Le piace il calcio?» «Eccome. Football and Middle Ages.» «Benvenuto a Verona, signore. Non dimentichi il suo zaino!» Capitolo Venticinque Il mattino del giorno seguente mi incamminai sobrio e baldanzoso in direzione di un internet-café per cominciare a lavorare al testo latino. Avevo deciso che sarebbe stato divertente (e Anton sarebbe rimasto a bocca aperta) se nella traduzione avessi mantenuto lo stile dell'originale (avevo già pensato al titolo: Mistero gotico). Trovai rapidamente un ottimo dizionario latino-inglese on line, scaricai il testo e mi misi al lavoro. Il risultato fu all'incirca il seguente. Io, abate Mario, superiore del monastero di San Benedetto, scrivo questa cronaca non per soddisfare un vano desiderio di immortalità, nella cui folle speranza perirono i grandi poeti dell'antichità, poiché non si può attingere alla vera immortalità se non attraverso la resurrezione dei morti, che si guadagna soltanto con una vera e profonda fede nel nostro Signore e con l'osservanza di tutti i suoi comandamenti; né è la peccaminosa ambizione di competere con Tacito e con gli altri antichi maestri, della cui raccolta di manoscritti si vanta il nostro monastero, considerato a ragione il primo di tutto l'Impero, che mi muove a scrivere le mie povere righe. Non ci si addice infatti di competere con i pagani, né ancor meno con coloro che ormai sono dell'altro regno, ma scrivo nell'intento di alleviare il peso spirituale che mi opprime per non avere potuto sradicare il male con cui Satana mi ha fatto scontrare. E per questo sollievo conto sui lettori futuri, che, leggendo questo scritto in tempi più favorevoli, riusciranno meglio di me nell'opera di eliminare questa piaga selvaggia, chiamata anche dottrina degli hat. Io infatti ho condotto un'indagine e Dio ha punito i colpevoli, ma la radice della semenza diabolica è rimasta inestirpata, e prego il Signore nostro onnipotente e misericordioso che mi conceda di portare a compimento questo scritto. Infatti le infermità del mio corpo, che presto compirà sessantacinque anni, e la stanchezza spirituale dovuta alle attività belliche della mia giovinezza e alle realizzazioni religiose della maturità,
mi spingono ad affrettarmi, nella speranza di riuscire a consegnare la mia grande impresa incompiuta in mani più giovani e forti. Faticai non poco a tradurre il testo, dai periodi lunghi e tortuosi. E anche lo stile dell'abate Mario, che, evidentemente, mentiva quando diceva di non volersi mettere in competizione con i classici, era la solita imitazione medievale. Onestamente, non mi ispirava affatto. Il tranquillo e saggio monaco benedettino non si rivelava né un nuovo Tacito né un nuovo Agostino. Non che me ne stupissi: i Tacito nascono di rado. Di solito coloro che scrivono lunghi testi con pretese letterarie sono individui un po' fuori di testa. Vi pare possibile, infatti, che una persona completamente sana di mente si costringa a mettersi a tavolino a scrivere? Lasci perdere la vita sociale, trascuri tutte le possibili fonti di reddito, respinga tutte le distrazioni e si metta a scrivere? Se ne stia lì, seduto, chiuso tra quattro mura a picchiettare su una tastiera? No, naturalmente, non è possibile. E non è nemmeno giusto. Una persona minimamente sensata, anche se ha il talento per vincere quattro booker, preferirà decisamente sprecarlo, e farà benissimo. Perché questo talento non gli assicurerà comunque la ricchezza, e della gloria una persona ragionevole non sa che farsene. Scrivere è un'attività per fissati. Che, di regola, non hanno né gusto, né ispirazione, né cervello. E possono produrre al massimo un testo mal scritto, pieno di pretese stilistico-spirituali, peggio del quale riesco a immaginare solo un pamphlet con intenti educativi. Anche se, naturalmente, esistono delle eccezioni. Ma, purtroppo, sono molto rare. In realtà l'abate Mario, se non era, naturalmente, Tacito, non era neppure tanto male. In ogni caso alla fine decisi di limitarmi ai fatti, e di tradurre solo in caso di assoluta necessità le complicate figure allegoriche di cui l'abate aveva infarcito il suo Mistero allo scopo di sottolinearne i momenti più intensi. Lasciai perdere anche le lunghe premesse sulle caratteristiche della cronaca con cui cominciano tutti i testi medioevali. Le prime due frasi mi riuscirono benissimo: «Era il dicembre dell'anno 1242. La giovane Europa era in fermento». Ero molto soddisfatto sia del dinamismo che dell'espressività di quell'incipit, ma dovetti presto rendermi conto che ottenere un testo scorrevole non era così facile. Alcuni periodi tipo: «L'Europa era ancora scossa dagli ultimi sussulti della febbre delle crociate», o: «Meno di trent'anni erano trascorsi dalla folle crociata dei bambini», furono eliminati in quanto antiartistici. Dopo aver meditato per una buona mezz'ora sulla frase suc-
cessiva, capii che era ora di piantarla con la letteratura e anche con gli attacchi ai letterati. E di scrivere seguendo l'impulso della mia anima. Non scrivere era impossibile, perché Anton considerava quel testo assolutamente necessario, ma anche tradurlo era un'ardua impresa, perché era decisamente troppo lungo. Decisi di scorrerlo rapidamente e di farne una specie di ampio riassunto, aggiungendo qualche dialogo per renderlo più convincente, persuaso del fatto che nell'Europa del Medioevo, come del resto nell'antico Egitto, le persone parlassero tra loro in una lingua semplice e vivace proprio come quella che usiamo noi. I protagonisti, l'abate Mario e Benedict Twin, parlavano tra loro addirittura in inglese, mentre con gli altri usavano, naturalmente, il latino. L'aspetto fisico dei personaggi lo descrissi così come me l'ero immaginato. Per l'abate Mario, però, la fantasia non mi soccorse. Inoltre saccheggiai senza ritegno le Sacre Scritture. Dopo un'ora di lavoro, mi resi conto che stavo effettivamente componendo un Mistero. Un vero Mistero gotico medievale. Con in più un elemento giallo. Capitolo Ventisei PERSONAGGI ABATE MARIO, 65 anni. Superiore del monastero. Inglese, era un principe di sangue reale e come tale ha partecipato alla quarta crociata. Cinque anni prima ha preso i voti e si è stabilito in Italia. È alto, un po' curvo. GRAZIO e PLENO, servitori senza età. Vestiti non so proprio come. E non ho idea di come parlino. Del loro aspetto, non ne parliamo. DOMENICO TECUM, 44 anni. L'orgoglio del monastero. Vicario. Dottore in filosofia. Sarebbe una buona persona, ma è morto. Per la maggior parte del dramma, è un cadavere senza testa. BENEDICT TWIN, 60 anni. È il bibliotecario del monastero. Porta dei lunghi baffi grigi. È stato lo scudiero dell'abate Mario in tutte le sue antiche battaglie. TOMMASO TENEBRIS, 45 anni. Sagrestano. Attempato carrierista ecclesiastico. Piccolo, quasi calvo, pigro, benevolo, ha qualche amicizia
importante a Roma. MULIER, 23 anni. Un moro battezzato. Viene da Toledo. Ardente, magro, riccioluto. Parla male il latino, ancor peggio l'italiano. In generale non parla, ma abbaia suoni gutturali. BENEDICTUS FRUCTUS, 39 anni. Cellario e botanico, è originario della Germania meridionale. Enorme, rosso, sgraziato. Un enfant gâté ormai invecchiato. VENTRIS TUI, 21 anni. È nato dalle parti di Riga. Figlio illegittimo del Grande Maestro dell'Ordine teutonico e di una bellissima contadina baltica. Ha i capelli lunghi e unti e la pelle piena di brufoli. IESHUA BEN JAKOV, ha superato da poco la trentina. Ebreo. Barba corta e capelli lunghi. Risponde alle domande con altre domande. Ha l'erre moscia. Tende a intristirsi. GIOVANE NOVIZIO, 17 anni. Esile e inquieto. Il suo nome è Alinardo da Grottaferrata. Anno 1242. Inverno. Monastero di san benedetto. Un valico delle Alpi, 120 miglia a nord-ovest di Milano. SCENA PRIMA Cella dell'abate Mario. Bussano tre volte alla porta. Senza aspettare risposta entrano di corsa Grazio e Pleno. La cortina attorno al letto si apre. L'abate si siede, accende una candela e guarda i due. ABATE MARIO Mm!... Che diavolo, alle tre di notte... (Pausa. Guarda i nuovi arrivati.) Se mi avete spinto al turpiloquio senza un buon motivo, non invidio la vostra sorte! GRAZIO E PLENO (In coro, interrompendosi l'un l'altro.) Siamo noi, padre! Noi... I beati, cioè i matti, come tu ti sei degnato a suo tempo... ABATE MARIO Ho capito, ho capito. Che cosa è successo?
GRAZIO E PLENO (Interrompendosi a vicenda.) Domenico non c'è più. Domenico Tecum. Non c'è più. E anche la sua testa non c'è. È scomparsa la sua testa! Hanno tagliato la testa al più saggio dei saggi! E pensare che aveva, cioè, lei aveva, cioè lui con lei aveva disputato addirittura con Francesco d'Assisi. E con grande successo! Aveva quasi dimostrato che il disprezzo delle ricchezze può di per sé generare il peccato di superbia, per cui lo stesso Francesco... ABATE MARIO Basta con questo coro! E basta polemiche! Non siamo in chiesa. E non è una disputa, questa. Il disprezzo delle ricchezze può generare il peccato di superbia. Ma non necessariamente. In ogni caso penso che anche adesso Domenico sia messo meglio di voi, quanto a testa. Potete spiegarmi cosa è successo? GRAZIO e PLENO (Già più ordinatamente.) Purtroppo adesso è messo peggio di noi, signore. Molto peggio. Non ce l'ha più, la testa. E a voi, come superiore di questa santa dimora, la cosa dovrebbe interessare... ohi... pensiamo che sia utile... ohi... questa notte siamo stati svegliati da un fracasso tremendo. Proprio sopra di noi. Ci siamo alzati. La porta della cella era aperta e dentro... c'era il corpo di Domenico... senza testa. All'inizio non lo abbiamo riconosciuto, poi abbiamo guardato bene... era lui. Così enorme. Forte... ABATE MARIO Siete sobri? GRAZIO e PLENO A quest'ora? Certo, signore. ABATE MARIO È proprio l'ora in cui i postumi delle bevute sono più opprimenti. Domenico è morto? (Si alza dal letto. Ha indosso una lunga camicia nera.) Dove? Nella sua cella? Nell'ala settentrionale? GRAZIO e PLENO Sì, sì, nell'ala settentrionale. Il abate si getta un mantello sulla camicia da notte, infila i piedi in un paio di morbidi stivali di pelle di pecora e insieme ai due servi si dirige verso l'ala settentrionale. Durante il tragitto l'abate si guarda intorno preoccupato. Intorno a loro solo la notte, il profilo delle montagne e la luce
della luna. Ma, a una decina di passi dall'ala settentrionale, l'abate si ferma e si mette a scrutare attentamente il suolo. I servi naturalmente cominciano anche loro a esaminare quel punto. ABATE MARIO (Rivolto a Grazio.) Corri a chiamare Benedict Twin. E chiedigli di portare due fiaccole e un sacco grande di tela. GRAZIO Subito, signore. (Corre fuori.) ABATE MARIO (Guarda attentamente il terreno nel giro di alcuni metri) Sono vostre queste impronte? Sembrano zoccoli di legno, no, Grazio? PLENO Proprio così, signore. ABATE MARIO I tuoi zoccoli avvolti negli stracci... Prova un po' a camminare qui, da questa parte! PLENO (Ravviandosi nervosamente i lunghi capelli, comincia a camminare cautamente sulla neve) Sono le mie impronte, signore. ABATE MARIO Sì, sono le tue. E altre tracce non se ne vedono. Cos'hai da essere così nervoso? PLENO Non sono nervoso. Sto morendo di paura. C'è un cadavere là, signore! Senza testa... Compaiono Benedict con le fiaccole e il sacco sul braccio e Grazio. ABATE MARIO Benedict! Questi italiani dicono che qualcuno ha tagliato la testa a Domenico. Se è vero, l'assassino dev'essere ancora nell'edificio. È da ieri sera che non nevica e le sue impronte non ci sono. La mia idea è di buttar fuori dalle loro celle tutte le sante mummie attualmente addormentate nell'ala settentrionale. E perquisiamo tutto l'edificio. Poi dipende da quel che troviamo... BENEDICT TWIN (Annuisce all'abate, poi si rivolge a Grazio e Pleno) Voi state lì e non aprite bocca, chiaro?
GRAZIO e PLENO (Annuiscono) Chiaro, signori. Capiamo benissimo, noi. L'abate e Benedict raggiungono rapidamente le celle, prendono a calci le porte e gridano: «Tutti fuori! Forza! Senza storie!». Entrano nella cella di Mulier e, dato che non capisce il latino, lo cacciano fuori a pedate. I monaci mezzo addormentati si avvolgono nei mantelli e si radunano nel cortile. BENEDICT TWIN (Uscendo dall'edificio.) In refettorio, prego, fratelli. Tutti in refettorio! Allontanatevi di qui, porca... I monaci si dirigono verso il refettorio. L'abate e Benedict cominciano la perquisizione. ABATE MARIO Cominciamo da Domenico? L'abate e Benedict entrano nella cella di Domenico. La stanza è illuminata dalle fiaccole. Contiene un lettuccio, un tavolino per la copiatura dei libri e uno sgabello. Vicino alla porta è appeso un enorme mantello col cappuccio. Alla parete opposta c'è il camino. In mezzo alla cella è disteso un cadavere senza testa. ABATE MARIO Signore, abbi pietà di noi! Proviamo a sollevare il corpo. Stendiamolo sul letto. Sollevano con un certo sforzo il corpo decapitato e lo depositano sul letto. L'abate esamina il cadavere, Benedict la cella. ABATE MARIO Bendict, non c'è spargimento di sangue. Se crediamo a Galeno, questo significa che quando gli hanno tagliato la testa Domenico era già morto. BENEDICT TWIN Sì. Oppure hanno raccolto il sangue in qualche recipiente. Il che è improbabile, visto che in giro non ce n'è neanche una goccia. Ascolta, abate! Non riesco a trovare la testa. In questa cella non c'è.
ABATE MARIO Hai guardato nella canna fumaria? BENEDICT TWIN Il camino in questa cella è stato chiuso ancora ai tempi dell'abate Innocente. ABATE MARIO Sì, sì. Diceva che il clima di montagna ci avrebbe aiutato a mortificare la carne, soprattutto d'inverno. E aveva lasciato un solo camino per ciascun piano. BENEDICT TWIN Per i raccomandati, giusto. Si risparmia legna e si mortifica la carne. ABATE MARIO La testa è stata tagliata con un grande coltello, o con una spada. Ma non l'hanno staccata di netto. Sul collo ci sono due segni che non riesco a capire. Come se fosse stato morso da un serpente. È strano. Avicenna dice che il serpente non può mordere due volte di seguito. Ci vuole un giorno, perché si riformi il veleno. Ma chi poteva essere interessato alla sua morte? BENEDICT TWIN Cui prodest. ABATE MARIO È chiaro. Ma a chi faceva comodo? BENEDICT TWIN Abate, guarda che manoscritto teneva nascosto. Ti piacerà di sicuro. ABATE MARIO (Tende la mano) Un romanzo cavalleresco? BENEDICT TWIN No. Versi antichi. Osceni. Catullo, direi... ABATE MARIO (Scorre rapidamente il testo) Devo ammettere che ne hai imparate di cose... È proprio Catullo. (Legge) Mm... sì... Il nostro Domenico non c'è più e salutiamo la sua anima con i versi di Catullo. Che, probabilmente, non esiste più in alcun monastero, mentre si trascrive la settecentoquarantesima copia del trattato di Agostino sulla Città di Dio. Io da parte mia acquisto tutte le pergamene che mi chiedono, e loro continuano a nasconderle. Barbari!
BENEDICT TWIN (Mentre esamina il contenuto della cella.) Barbari e gretti. E si vantano anche della loro biblioteca. Le hanno destinato un edificio più grande del Colosseo. Un ottagono. Il diavolo in persona ci si romperebbe una zampa. ABATE MARIO Lasciamo perdere, adesso. Hai trovato qualcosa di interessante? BENEDICT TWIN Una lampada a olio, delle penne d'oca, due calamai, uno con l'inchiostro nero e uno con quello rosso. Una scatola con della sabbia, della pomice, una piastra per tracciare le linee, un temperino. Escluso che possa tagliare una testa, e poi non ci sono tracce di sangue. ABATE MARIO E nel mantello cosa c'è? BENEDICT TWIN (Rovistando nell'unica tasca del mantello di Domenico) Qualche crosta di pane, un vecchio rosario, uno straccio, una pergamena. È la pianta del nostro monastero, se non sbaglio. Sì, ecco la biblioteca. E qui c'è la chiesa, la tua camera, l'orto. E lì a fianco questa maledetta ala settentrionale. Non capisco a che cosa gli servisse una pianta del monastero... ABATE MARIO Metti la pianta e i volumi nel sacco. È ora di andare a vedere la cella di Tenebris. BENEDICT TWIN Pensi che quel pigrone sia improvvisamente impazzito? ABATE MARIO Non penso niente, in realtà. Dobbiamo controllare tutti. L'assassino è uno che vive in quest'ala. L'abate e Benedict passano nella cella vicina. BENEDICT TWIN Niente di speciale. Una cacca di topo, uno sgabello rotto, qualche chicco di miglio e un libro. Un attimo... Qui fa stranamente caldo. E non si può accendere il camino di notte!
ABATE MARIO Sai che Tommaso è di salute cagionevole. Chi di noi è senza peccato? E chi di noi vorrebbe essere denunciato a Roma? A ragione o a torto... BENEDICT TWIN Andiamo dal nostro illuminato arabo di Toledo? ABATE MARIO Benedict! Sai cosa scrivevano nella sua lettera di accompagnamento? Quando su di lui è scesa l'illuminazione, ha detto: «La rinuncia a tutto si rivela il bene supremo, l'umiltà e lo svuotamento dell'essere umano sono la forza più grande. Dio non può non entrare in un'anima purificata, svuotata. La libertà autentica è libertà dal mondo, da sé e da Dio. E solo allora l'anima si fonde con l'ineffabile Divinità». Anche se mentisse e non avesse avuto alcuna illuminazione, non dimenticare che ogni musulmano che si battezza è un punto a nostro favore. Anche se, naturalmente, i nostri confratelli spagnoli ci hanno chiesto di tenerlo d'occhio, con grande attenzione. Non si fidano di lui. BENEDICT TWIN Ma l'ha fatto in arabo, quel discorso? ABATE MARIO Certo, ma qualcuno l'ha tradotto... BENEDICT TWIN Probabilmente non riescono a capirsi, con lui, per questo non si fidano... (Fruga sotto il materasso del letto di Mulier e ne estrae un grosso libro.) Anche se... Abate! Non vorrei dover ammettere che gli spagnoli sono stati più perspicaci di noi. ABATE MARIO (Ravvivandosi.) Che libro è? BENEDICT TWIN (Sfoglia il volume in quarto.) Il Corano? Non lo so. Non so leggere questo alfabeto... ABATE MARIO Va bene, proviamo a capirci qualcosa. Prendi il libro. Il primo piano è finito, andiamo. L'abate e Benedict scendono al piano inferiore ed entrano nella cella dei servi. L'abate tende l'orecchio. Si sente chiaramente scricchiolare un'asse del pavimento. Prova a fare un altro passo. Di nuovo quello scricchiolio. Benedict si china e con le mani toglie l'asse.
BENEDICT TWIN Un nascondiglio? Abate, questi furfanti sotto il pavimento hanno un intero deposito. Tutte le stoviglie che abbiamo perso! I servizi del monastero! Il nostro lampadario, tre cornici d'oro. E poi calici d'argento, uno, due, tre, quattro e cinque. Una frangia. E quante croci! E guarda il tuo anello col diamante, quello che ti aveva regalato l'imperatore! L'avevi perso l'anno scorso, ti ricordi? E guarda quanti anelli! ABATE MARIO (Si infila l'anello al dito.) E facevano pure i filosofi... Il disprezzo per i beni terreni può generare la superbia! Tu, Benedict, nell'indagare su queste perdite, sospettavi dei contadini? BENEDICT TWIN Sì. Ne arrivano anche trecento per le feste grandi, non ce la fai a tenerli d'occhio tutti! E sono gente semplice, povera, così... ABATE MARIO Li hai sospettati ingiustamente. BENEDICT TWIN Abate! Tutti noi pecchiamo. Ma questi italiani? Loro rubano al Papa! Al Papa! ABATE MARIO (Cambiando bruscamente discorso.) Ci sta tutto nel sacco? BENEDICT TWIN Sì, ne ho presi due. Evidentemente ho avuto un presentimento. L'abate e Benedict mettono nei sacchi tutti gli oggetti recuperati. BENEDICT TWIN È ora di passare dal cellario? ABATE MARIO Sì, è ora. BENEDICT TWIN Ti ho raccontato la mia ultima conversazione con Fructus? A causa del gelo gli è morto l'ennesimo albero di limoni. Gli sono passato accanto. Imprecava peggio di un cane rabbioso. Gli ho detto: «Basta coltivare piante! Vai a copiare i libri, piuttosto!». E lui: «Sono disposto a coltivare anche la merda, ma non voglio diffondere la falsa sapienza». E dire che viene da un'ottima famiglia, sangue blu fino alla
settima generazione. Qualche giorno fa ha cercato di convincermi dell'idea che è penoso avere un'anima pura quando non si ha un corpo puro. Gli ho suggerito di lavarsi più spesso. ABATE MARIO Hai fatto bene. Tutti i cinici vengono dalle migliori famiglie. A me ha detto che in biblioteca l'unica cosa utile sono i vermi, quelli dei libri. BENEDICT TWIN Perché? ABATE MARIO Perché si possono mangiare, se non è giorno di magro. Mentre con i libri ti puoi solo rovinare la vita. Diogene. La fase senile della jeunesse dorée. Però almeno non abbaia, non vive in una botte e cucina bene. BENEDICT TWIN Dice di essere il miglior cuoco del monastero da trecento anni a questa parte. ABATE MARIO Non brilla certo per modestia. Del resto verificare è impossibile. Mentre parlano, raggiungono la cella di Fructus e cominciano a esaminarla. BENEDICT TWIN (Emette un leggero fischio. ) Guarda, abate, un coltello! E ben affilato, anche! E ci sono delle tracce di sangue. Mi sembrano fresche. ABATE MARIO (In tono molto cupo.) Dove l'hai trovato? BENEDICT TWIN Tra il tavolo e la parete, ficcato in una fessura, come se fosse stato nascosto in fretta e furia. ABATE MARIO (Estremamente cupo) Brutto affare. Sì, il sangue è fresco. Cerca la testa. BENEDICT TWIN (Dopo qualche minuto.) Non la trovo. E probabilmente non c'è proprio più. Avremmo dovuto perquisire tutti prima di farli usci-
re. Penso che sia già da qualche parte, giù nel burrone. Sotto il mantello di un monaco ci potrebbe stare un cadavere intero, non solo la testa... ABATE MARIO Possibile che sia stato Fructus? Non ci posso credere. Va bene, finiamo la perquisizione. Vediamo la cella di Ventris, è l'unica che ci manca. L'abate e Benedict passano nella cella attigua, quella di Ventris Tui. BENEDICT TWIN Non ti pare, abate, che il nostro baltico negli ultimi tempi sia diventato un po' troppo furbo? ABATE MARIO Non eri tu a dire che era pigro e ottuso? BENEDICT TWIN È l'impressione che mi faceva all'inizio. Ma adesso mi rendo conto che quel bastardo non è affatto un sempliciotto. ABATE MARIO Bastardo? BENEDICT TWIN Come può avere figli legittimi il Gran Maestro dell'Ordine teutonico? Hanno tre voti: povertà, ubbidienza e castità. E poi sono avidi, e sfrenati come stalloni. ABATE MARIO Chi di noi è senza peccato, tiri la prima pietra. E da cosa hai notato la sua furbizia? BENEDICT TWIN Negli ultimi tempi scruta attentamente tutti, come se cercasse qualcosa. E non parla. Benedict controlla scrupolosamente la cella. L'abate prende una carta dal tavolo di Ventris Tui e la scorre. ABATE MARIO Interessante. Una denuncia in piena regola. BENEDICT TWIN Una denuncia? A chi? Al paparino? ABATE MARIO No. A Roma. Senti, parla del defunto Domenico: «... da fonti assolutamente degne di fede che non posso rivelare neppure a Voi,
Vostra Santità, padre Domenico più di una volta si è intrattenuto in rapporti incestuosi con la sua stessa sorella...». BENEDICT TWIN Ma... che razza di assurdità... ABATE MARIO Andiamo avanti. Qui non si parla solo di sorelle, si parla di tutti noi. Benedict, nel nostro monastero sta accadendo qualcosa di assolutamente insopportabile. Qualcuno taglia la testa al vicario. La testa scompare. Nella cella di Fructus, l'ultimo che avrei pensato di sospettare, si trova un coltello con tracce di sangue fresco. In quella dell'arabo scopriamo della letteratura proibita. I servi rubano a man bassa i beni ecclesiastici. E il sagrestano scrive una denuncia in cui accusa tutti noi sa il diavolo di cosa... Che cosa diranno a Roma? Sai che il cardinale sta già meditando di passare il nostro monastero ai domenicani? BENEDICT TWIN Lo so. Quanto tempo abbiamo? ABATE MARIO Un giorno. Non di più. Nel monastero abbiamo circa trenta pellegrini che staranno discutendo con il massimo entusiasmo il caso del monaco senza testa. Supponiamo di non lasciarli partire, per oggi. Possiamo alludere a qualche valanga... Domani, però... BENEDICT TWIN Gli italiani li impicchiamo, l'arabo lo bruciamo, il baltico può cadere da una scala. Il vero problema è la morte di Domenico. ABATE MARIO Non fa ridere, Benedict. Dobbiamo trovare l'assassino. Spero che non sia Fructus. È giunto il momento di interrogare i nostri... smarriti fratelli. SCENA SECONDA. L'INTERROGATORIO Camera del superiore. L'abate, vestito di tutti i paramenti del suo grado, è seduto su una poltrona molto simile a un trono. In mano ha un bordone. Benedict è in piedi al suo fianco. ABATE MARIO Come insegna Abelardo, cominciamo dalle cose facili. Di quelle complicate avremo tutto il tempo di occuparci poi. Fai entrare quei due ladruncoli!
BENEDICT TWIN (Si avvicina alla porta.) Grazio e Pleno! Entrano Grazio e Pleno. BENEDICT TWIN In ginocchio, vigliacchi! (Grazio e Pleno si scambiano un'occhiata e lentamente si inginocchiano) Pentitevi, peccatori, perché il Regno dei cieli è vicino. (Pausa.) Almeno per voi. Grazio e Pleno si guardano l'un l'altro stupiti, poi si volgono verso l'abate, senza prestare alcuna attenzione a Benedict. Alla fine Grazio solleva la testa. GRAZIO Non abbiamo ucciso Domenico, padre, se è a questo che vi riferite. ABATE MARIO Provate un po' a pensarci, non avete qualche peccato segreto sulla coscienza? GRAZIO Peccati segreti? Non capiamo... ABATE MARIO E che cosa avete nascosto sotto il pavimento della vostra cella? PLENO (Senza mostrare il minimo turbamento) Padre! Non abbiamo nascosto assolutamente niente sotto il pavimento! GRAZIO Né sotto il pavimento, né sotto il soffitto! ABATE MARIO E questo che cos'è? Estrae dal sacco i beni ecclesiastici trovati nella loro cella e li deposita sul tavolo, osservando la reazione degli accusati. Da parte loro, però, non ve n'è alcuna. PLENO Non lo sappiamo. GRAZIO È la prima volta che vediamo queste cose.
ABATE MARIO (Quasi bonariamente.) Non sono cose vostre? PLENO No, certo. GRAZIO Come potremmo possedere oggetti del genere? PLENO Saranno forse vostri... ABATE MARIO (Nonostante l'ira che lo soffoca, parla in tono relativamente calmo.) Miei? Questa roba è proprietà della Chiesa! Chi l'ha rubata non ha commesso solo un furto, ma anche un sacrilegio. Ad aspettarvi non è la forca, ma il rogo! PLENO Ma perché dovremmo finire sul rogo? ABATE MARIO (Senza ascoltare le sue parole.) E se scopriremo che per di più siete stati proprio voi a uccidere il povero Domenico... BENEDICT TWIN (Inserendosi all'improvviso) Dalla vostra cella si sente quello che succede in quella di Domenico? PLENO Benissimo, padre Benedict! Perfino quando padre Domenico si muove nel letto... cioè quando si muoveva... Ogni movimento, ogni sospiro, ogni parola! Anche se non stavamo lì ad ascoltare apposta... BENEDICT TWIN Questo spiega tutto. Se voi sentivate Domenico, significa che anche lui sentiva voi. Per sua disgrazia. Ha sentito che nascondevate la refurtiva e voi l'avete ucciso. Ma con cosa gli avete tagliato la testa, barbari? GRAZIO (Con fermezza e tranquillità) Non siamo barbari. Non siamo assassini. PLENO E nemmeno tagliatori di teste. BENEDICT TWIN (Perdendo definitivamente la pazienza.) La tortura, abate, solo la tortura!
ABATE MARIO (Pensieroso.) Aspetta, Benedict! Ricordi come hai provato a far parlare quel transfuga greco? Non è sopravvissuto all'interrogatorio, e noi non abbiamo scoperto niente comunque... Sentiamo prima gli altri. Portali nella mia cantina. (Benedict esce con Grazio e Pleno. L'abate continua a riflettere a voce alta.) Molto strano. Solo questa mattina sembravano due vigliacchi spaventati e inebetiti. E guardali adesso, così tranquilli e sicuri di sé. Una trasformazione incredibile. Soprattutto nel momento del pericolo. E per due popolani, poi... (Torna Benedict.) Benedict, puoi raccontarmi come si comporta la gente del popolo nel momento del pericolo? Per esempio, quando contro una folla di un migliaio di contadini si scatena l'attacco di una schiera anche solo di venti cavalieri? BENEDICT TWIN La folla si disperde in mille direzioni. Tutti se la danno a gambe. Scappano alla disperata. ABATE MARIO E se un nobile alza la voce contro un uomo del popolo? BENEDICT TWIN Questi si rattrappisce tutto, cercando di diventare invisibile. Lo guarda spaventato, quasi di nascosto. Ma perché me lo chiedi, abate? ABATE MARIO Cerco di trovare una spiegazione al cambiamento di comportamento di quei due. Li abbiamo colti in flagrante, rischiano la pena di morte e si comportano come principi. BENEDICT TWIN La grandezza d'animo arriva quando meno te la aspetti. Pensi di qualcuno: "Ah, razza di animale!" e poi scopri che è un eroe. Ti ricordi che avevamo qui un ragazzo, da istruire, Tommaso, il figlio di Landovulfo di Aquino? Era ancora un bambinetto quando mi ha detto: «Se stai per compiere un grande impresa, rientra in te e porta a casa la pelle!». Ben detto, no? Devo dire la verità, quei ragazzi mi sono piaciuti molto. Mi dispiace doverli storpiare... ABATE MARIO (Pensieroso.) Storpiarli? Non è il caso di storpiare nessuno... Credo che tu abbia ragione. Spesso la gente non ha la minima idea di che cosa potrebbe fare nel momento del pericolo... Passiamo a
Tenebris? BENEDICT TWIN È qui, dietro la porta. (Grida, a parte.) Tenebris, entra! Entra Tenebris. Si guarda intorno, cerca un posto dove sedersi, ma non lo trova. Si stringe nelle spalle e rimane in piedi, con le mani dietro la schiena. ABATE MARIO Tommaso, dove sei stato questa notte? TOMMASO TENEBRIS Nella mia cella, come sempre, signore. ABATE MARIO Dormivi profondamente? TOMMASO TENEBRIS Io dormo sempre profondamente, signore. Chi ha la coscienza pulita, come lei sa, dorme sempre... ABATE MARIO (Interrompendolo) Lo so, lo so. È da una vita che soffro d'insonnia, del resto. Com'erano i tuoi rapporti con il defunto? TOMMASO TENEBRIS I miei con lui erano buoni, signore. Erano i suoi con me che... Ogni uomo ha la sua funzione secondo il disegno di Dio. Domenico pensava che io non adempissi bene la mia, e per questo non mi amava. ABATE MARIO (A parte.) Chi può amare i delatori? (Poi si rivolge a Tommaso, in tono assolutamente normale.) Dimmi, vorresti diventare vicario del monastero? TOMMASO TENEBRIS Se piacerà al Signore. BENEDICT TWIN (Intervenendo bruscamente.) Possibile che il desiderio di occupare il posto di un altro sia un motivo sufficiente per commettere un omicidio? TOMMASO TENEBRIS (Assolutamente calmo.) No, certo. E infatti io non ho ucciso Domenico.
BENEDICT TWIN E quali altri motivi potevi avere per ucciderlo? TOMMASO TENEBRIS Io non avevo alcun motivo per uccidere Domenico. ABATE MARIO E chi sospetti per la sua morte? TOMMASO TENEBRIS Non lo so. Onestamente, non sospetto nessuno. Forse Mulier? BENEDICT TWIN Perché Mulier? TOMMASO TENEBRIS È un ex eretico, è arrivato al monastero da poco, è una persona sospetta... L'ho visto leggere in greco, un libro molto strano. ABATE MARIO Sei riuscito a vedere di cosa si trattasse? TOMMASO TENEBRIS Naturalmente. Si parlava dell'impossibilità di Dio di immischiarsi nelle cose del mondo, in quanto non può infrangere le leggi che Lui stesso ha stabilito. Per esempio, mutare l'ordine del moto dei pianeti... ABATE MARIO E allora? TOMMASO TENEBRIS Questa è un'eresia... ABATE MARIO Non ne sono per niente certo. Non fare il furbo, Tenebris. Vai a chiamare Mulier. TOMMASO TENEBRIS Non parla latino. Solo arabo e un pochino di greco. BENEDICT TWIN Allora chiamalo a gesti. (Tenebris esce.) Mi piacerebbe sapere se Tommaso è davvero un po' tardo... ABATE MARIO No, naturalmente. Finge, per non suscitare timori e per sottolineare la sua prontezza nell'obbedire. (Entra Mulier.) Sai cos'è suc-
cesso? MULIER Ho sentito qualcosa, ma non ho capito. Non lo so. Qualcosa di male? ABATE MARIO Sì. Cos'è questo libro? È eretico? MULIER (Agitandosi visibilmente.) È un libro. Ibnrushd. Ibnrushd. ABATE MARIO È il Corano? MULIER Non è il Corano! Ibnrushd. Ibnrushd. BENEDICT TWIN Mulier, sei stato tu a uccidere Domenico? Per via del libro? MULIER (È terribilmente agitato, spalanca le braccia, gira su se stesso come una trottola.) Io non male. Io bene. Io non capisco. ABATE MARIO Tu non capisci. E nemmeno io. Vai, Mulier. (Mulier esce.) Una strana agitazione. Dobbiamo scoprire che cose quel libro. È lì la chiave di tutto. Mandarlo a Milano? E aspettare le loro conclusioni? Ma ci vorrà almeno una settimana, e non abbiamo tutto questo tempo... BENEDICT TWIN Niente di più semplice. Sapremo tutto oggi. ABATE MARIO E come? BENEDICT TWIN Dobbiamo mandare qualcuno ad Aosta, dal nostro ebreo, Ieshua Ben Jakov. Negli ultimi cinquecento anni quasi tutti gli ebrei sono stati costretti a imparare l'arabo. Ieshua ci spiegherà tutto. ABATE MARIO Buona idea... Manda da lui quel giovane novizio, quello con gli occhi tristi, che viene da Grottaferrata. BENEDICT TWIN Mando Alinardo da Ieshua. E adesso chiamo Fructus. Benedict esce.
ABATE MARIO (Parlando tra sé e sé.) Una faccenda complicata. Diabolicamente complicata. E tuttavia spero che non sia stato Fructus. Anche se quel coltello insanguinato... (Entra Benedictus Fructus.) Salve, Fructus! BENEDICTUS FRUCTUS Salve, abate! ABATE MARIO Sono successe delle brutte cose da queste parti. Hai sentito? BENEDICTUS FRUCTUS Le piante stesse vogliono essere mangiate, è il destino fondamentale della loro esistenza. A differenza degli animali, che hanno come destino quello di mangiare le piante e gli animali simili a loro. Da questo punto di vista gli animali si dividono in predatori e non predatori. ABATE MARIO Perché ci dici queste cose? BENEDICTUS FRUCTUS Adamo ed Eva erano vegetariani. Ma il mondo da allora si è corrotto. Domenico non era una pianta. Non era nemmeno un predatore. ABATE MARIO Chi l'ha ucciso e perché? BENEDICTUS FRUCTUS Uno di noi sei. Non il più nobile, suppongo. ABATE MARIO E chi gli ha tagliato la testa? BENEDICTUS FRUCTUS Uno di noi sei. Non il più sensibile. ABATE MARIO Fructus, questo lo so anche senza bisogno delle tue rivelazioni. Smettila di fare il buffone. È tuo questo coltello? BENEDICTUS FRUCTUS Sì. ABATE MARIO È sporco di sangue.
BENEDICTUS FRUCTUS È il sangue dei due montoni che abbiamo mangiato a cena ieri sera. ABATE MARIO E perché il coltello era nella tua cella? BENEDICTUS FRUCTUS Non lo so nemmeno io. Probabilmente me lo sono ficcato in tasca quando ho sentito suonare il vespro. Entra Benedict Twin. ABATE MARIO Ma perché è finito tra il tavolo e la finestra? BENEDICTUS FRUCTUS Come faccio a saperlo? Sarà finito in una fessura... ABATE MARIO Fructus! Nella tua cella troviamo un enorme coltello sporco di sangue ancora fresco! Chi dovremmo sospettare? BENEDICTUS FRUCTUS Ho sempre detto che scrivere e leggere libri è pericoloso. Rovina il cervello e lo fa diventare cattivo. Pochi giorni fa un monaco mi ha detto chiaramente: «Roscellino ha ragione. Dio è un puro nome». Maledetto nominalista. Anch'io forse non sono un entusiasta degli universali, ma negare l'evidenza... ABATE MARIO Fructus! Giurami che non hai ucciso Domenico! BENEDICTUS FRUCTUS Il Signore proibisce i giuramenti. Do la mia parola d'onore che non l'ho ucciso. Parola di nobile. ABATE MARIO E che non gli hai tagliato la testa... BENEDICTUS FRUCTUS E che non gli ho tagliato la testa. ABATE MARIO Vai, Fructus. Sono contento che tu non abbia detto «ex nobile». Desidero molto crederti, ma non sono sicuro di riuscirci. BENEDICTUS FRUCTUS Anselmo di Canterbury dice: «Credo per capire». Pietro Abelardo dice: «Capisco per credere». Tu, abate, perché vuoi
credermi? ABATE MARIO Io voglio sapere la verità. BENEDICTUS FRUCTUS Un tuo connazionale, Bacone di Oxford, dice che l'uomo deve sempre tendere alla verità assoluta, ma che trova solo quella parte che Dio giudica possibile rivelare agli uomini. ABATE MARIO Adesso non mi interessa la verità assoluta. Voglio solo sapere da chi e perché è stato ucciso Domenico. Se non puoi aiutarmi, vattene. Ho ancora molto da fare. (Fructus se ne va scuotendo la testa. L'abate si rivolge a Benedict Twin.) Prima di parlare con Ventris leggiamo la lettera che voleva mandare in Vaticano. (L'abate srotola la denuncia di Ventris e comincia a leggerla con atteggiamento pensieroso. Benedict lo ascolta.) «Al monsignor cardinale della Santa Vera Chiesa, Romana Cattolica e Apostolica, ecc.» (A parte.) Con tutti i crismi... Va bene, ma quali sono i punti più interessanti? Eccoli... «Mi affretto a descrivere brevemente, secondo la volontà della Sua Altissima Eminenza, gli eretici e gli altri criminali che vivono tra le mura del nostro convento abbandonato da Dio. Domenico Tecum, vicario. Eresiarca. Occupa una posizione importante in una società segreta chiamata "Confraternita degli hat". Intrattiene o ha intrattenuto rapporti incestuosi con la propria sorella. Gode di una particolare benevolenza da parte del superiore del monastero, abate Mario, e del suo ex scudiero, ora bibliotecario del monastero, Benedict Twin. Tommaso Tenebris, sagrestano. Trascura i riti e i misteri della Santa Chiesa. È un carrierista. Aspira al posto di Domenico. In varie conversazioni ha insistito sul punto che il mondo materiale, per sua natura, è male, prodotto dello spirito del male, e il corpo dell'uomo, in quanto parte integrante del mondo materiale, è anch'esso male, e degno di disprezzo. Non escludo che professi concezioni ateistiche. Mulier, novizio. Spia araba, non si fa scrupolo di professare apertamente la religione islamica. Legge libri di contenuto eretico di autori antichi e contemporanei in arabo, greco ed ebraico antico, grazie alla colpevole trascuratezza del superiore che conserva questi libri nella biblioteca del monastero alla portata di tutti. Raccoglie informazioni sulle fortificazioni del monastero. Grazio e Pleno, servitori. Ladri e profittatori dei beni della Chiesa. Na-
scondono la refurtiva nella loro cella, sotto il pavimento. Più di una volta, in conversazioni segrete tra loro, hanno discusso dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. Da questo hanno tratto conseguenze molto articolate. Benedictus Fructus, cellario. Bestemmiatore. Cinico con caratteristiche aristocratiche. Nonostante la sbandierata avversione per l'inutile sapienza libresca, risulta sorprendentemente al corrente di tutte le concezioni contemporanee, comprese anche quelle eretiche. Pigro. Incline alla gola e alla dissoluzione.» E così via... Ce n'è anche per noi due, naturalmente... BENEDICT TWIN E cosa dice di noi? ABATE MARIO Mah, niente di speciale. Che in questo monastero, che, in realtà, non è già più un monastero ma si è trasformato in un lupanare, siamo i principali strumenti del diavolo e abbiamo tutta la responsabilità dei numerosi delitti che si commettono tra queste mura. BENEDICT TWIN Strano. Come avrà fatto a sapere degli italiani? ABATE MARIO E di questa... come si chiama... Confraternita degli hat? BENEDICT TWIN (Cauto) Abate, ti prego, affida a me il colloquio con Ventris. Capisco che non puoi proprio perdonarmi la morte di quel greco, ma ti assicuro che questa volta non ci sarà il minimo ricorso a metodi violenti. Tanto meno, Dio ce ne scampi, alla tortura. ABATE MARIO (Dopo una breve riflessione.) D'accordo. Chiamalo! BENEDICT Ventris! Ventris, figlio di puttana, bastardo del Gran Maestro! Dove sei finito, figlio d'un cane, diavolo... (Entra Ventris. Benedict gli si rivolge al volo, senza alcuna esitazione.) Allora, ti abbiamo beccato, canaglia brufolosa! VENTRIS TUI (Sconcertato e offeso, si rivolge all'abate.) Perché il nostro bibliotecario si permette di parlarmi in questo tono villano? E cosa ho fatto per meritarmi di essere trattato in modo così umiliante?
L'abate si volta dall'altra parte in modo quasi ostentato, come se non lo avesse sentito. Benedict si avvicina a Ventris e lo afferra per la collottola, costringendolo a curvarsi fin quasi a terra. BENEDICT TWIN In ginocchio, assassino! Confessa tutto, se vuoi morire senza tormenti e con la coscienza pulita! VENTRIS TUI Ma di cosa parli? BENEDICT TWIN (In tono solenne.) Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo ti accuso dell'omicidio di padre Domenico e del successivo smembramento del suo corpo! VENTRIS TUI È una follia. BENEDICT TWIN Questa follia è stata anticipata in un messaggio che padre Domenico ha scritto prima di morire, sospettando di poter essere ucciso dalla tua vile mano. Grazio e Pleno hanno sentito i tuoi passi qualche minuto prima dell'assassinio. E, per la conclusione dell'inchiesta, mi rimane da appurare solamente per quale motivo tu, progenie infernale, abbia tagliato la testa a Domenico e dove questa si trovi adesso. Ti do la mia parola che, se ci permetterai di seppellire il suo corpo completo, secondo i riti cristiani, anche il tuo corpo, dopo una morte rapida e senza tormenti, avrà la stessa nobile sorte. E tutti e due avrete una sia pur vaga possibilità di risorgere dai morti. Se invece pensi di opporti alla mia richiesta, la tua morte sarà lunga e dolorosa, ma più lunghi ancora saranno gli eterni tormenti dell'inferno. VENTRIS TUI (Rivolge lo sguardo terrorizzato da Benedict Twin all'abate.) Deve esserci un errore... Io non ho ucciso nessuno. Proviamo a... BENEDICT TWIN Non sperare nell'aiuto del tuo paparino. E tanto meno in quello di Sua Santità. Sono lontani, loro, mentre il castigo è molto vicino. VENTRIS TUI (Disperato.) Ma perché avrei dovuto uccidere padre Domenico?
BENEDICT TWIN (Cambia atteggiamento, passando a un tono più ragionevole.) Questo non lo sappiamo. E non lo sapremo mai, se tu, prima di morire, non ce lo racconti. Come pure il motivo per cui gli hai dovuto anche tagliare la testa. VENTRIS TUI Ma non esiste alcun motivo! Né palese, né nascosto! BENEDICT TWIN Vuol dire che lo registreremo tra le insidie del diavolo. Anche se, solitamente, i motivi per cui un uomo ne ammazza un altro esistono e possono essere identificati. Qualche volta suscitano perfino comprensione e pietà o appaiono addirittura talmente importanti che il tribunale li riconosce e assolve l'assassino. Può darsi che tu, avendo scoperto che Domenico faceva parte di una setta che operava per la distruzione dell'umanità, abbia disperato dell'intervento della Chiesa e abbia deciso di passare al linciaggio... VENTRIS TUI Quale linciaggio? Tanto più che Domenico si è pentito. (Ha un sussulto.) Avete trovato la mia lettera al cardinale? BENEDICT TWIN L'abbiamo trovata. VENTRIS TUI (Rimane in silenzio per qualche minuto, rendendosi conto della situazione. Poi emette un sospiro, o forse un singhiozzo.) Io... io sono colpevole. Ma non di omicidio! Ho commesso un errore, accusando voi personalmente di connivenza con i peccati e i delitti che vengono compiuti all'interno del monastero. Un errore fatale. Ma non ho ucciso nessuno. Per quanto riguarda i furti che Grazio e Pleno commettono ai danni delle proprietà della Chiesa, l'ho saputo da un contadino del monastero. Il fatto è che rubano anche dalla dispensa e distribuiscono le provviste nei villaggi vicini, negli anni di carestia. Tutto il resto l'avreste potuto scoprire anche voi... ABATE MARIO Noi?! Come avremmo potuto scoprire che Domenico faceva parte di una setta segreta?! VENTRIS TUI Ah, Domenico... Una volta, allontanandosi per un bisogno dal suo banco di lavoro in biblioteca, ha lasciato in vista il palinsesto su cui stava copiando La Città di Dio. Mi sono avvicinato per vedere quali
parti dei vecchi testi cancellava. Conosco infatti la vostra riluttanza a distruggere qualsiasi testo, fosse anche del più pagano degli autori. Sfogliando qua e là, ho scoperto alcuni fogli, alla fine del volume, tutti coperti dalla scrittura di Domenico, che però in questo caso non aveva usato la scrittura onciale, ma un normale corsivo. C'erano parole strane, cifre, scongiuri e considerazioni sue. Chiaramente delle stregonerie. Ho avuto l'impressione che cercasse di scoprire un qualche segreto. Nelle sue riflessioni, faceva anche riferimento al fatto che aveva dovuto congiungersi con la sua propria sorella. ABATE MARIO Con il mio potere dichiaro che continui a essere sospettato dell'omicidio di padre Domenico. Benedict, porta questa pecorella smarrita nella mia cella e ordina che sia costantemente sorvegliato. Di' a tutti gli altri che tornino alle loro occupazioni quotidiane. Controlla che siano eseguite tutte le incombenze relative ai funerali di Domenico. Intanto io leggo le sue carte. SCENA TERZA. NUOVE CIRCOSTANZE Il sipario è chiuso. Davanti, l'abate, con un manoscritto di Domenico. Compare Benedict Twin. BENEDICT TWIN (Indicando con un cenno il manoscritto) C'è qualcosa di interessante? ABATE MARIO Molto interessante. Una setta segreta nel nostro monastero. Ha origine addirittura nell'antico Egitto. Si chiamano hat. BENEDICT TWIN Tempi oscuri... Gli eretici si stanno moltiplicando. In che cosa credono? ABATE MARIO In un altro mondo, dove approdiamo dopo la morte. In certe conoscenze segrete. E nel numero 2224612. BENEDICT TWIN E per quanto riguarda inferno, purgatorio e paradiso? ABATE MARIO Non ci credono. BENEDICT TWIN Sono pagani?
ABATE MARIO Direi piuttosto atei. Ma con un risvolto molto mistico. Non si considerano uomini. O per lo meno, uomini come tutti gli altri. BENEDICT TWIN E il numero che cosa sarebbe? ABATE MARIO Contiene un segreto tremendo per gli hat. Domenico voleva capire quale fosse e renderlo pubblico. Non è neppure un vero e proprio numero, ma una serie di trattini verticali con in fondo il disegno di una piramide. II II II IIII IIIIII IIIIIIIIIIII Dopo i dodici trattini c'è il disegno della piramide. Per brevità scrivono il numero 2224612, seguito dalla lettera P, anziché dal disegno della piramide. BENEDICT TWIN Un bel numero. Emana una certa purezza. Ma perché voleva raccontare a tutti del numero? Era anche lui un hat? ABATE MARIO Si era pentito. Due anni fa aveva ottenuto il secondo grado di iniziazione. La cerimonia comprende anche un rito selvaggio, una sorta di cultus terrae. Consiste nel seppellire un uomo ancora vivo. Per di più la vittima viene anche imbavagliata. Prova a immaginare: la terra che ricopre un uomo ancora vivo e che geme... Domenico ha scritto che si sogna ancora quel ragazzino di dodici anni, un contadinello dai capelli chiari come la paglia... BENEDICT TWIN Dio mio, in che tempi viviamo... Prima gli albigesi. E adesso questi hat. Che si stia avvicinando davvero al fine del mondo? ABATE MARIO Basandomi solo sui miei ricordi personali, è già la terza volta che si avvicina. E negli ultimi trecento anni è stata annunciata al-
meno venti volte. BENEDICT TWIN Ma prima o poi verrà davvero... ABATE MARIO Prima o poi, senza dubbio. BENEDICT TWIN Va bene, torniamo a Domenico. Non ho comunque capito perché è stato ucciso. ABATE MARIO Perché si è pentito e voleva tornare dalla parte degli uomini. BENEDICT TWIN Se aveva preso questa decisione, perché non lo ha fatto subito? ABATE MARIO Sperava di risolvere il mistero di quel numero, per meritarsi il perdono. Pensava che, visto che il segreto del numero è quello più importante e più gelosamente salvaguardato della setta degli hat, svelarlo avrebbe portato alla distruzione della setta stessa. BENEDICT TWIN E l'ha risolto? ABATE MARIO No. BENEDICT TWIN Al diavolo il numero. Quello che dobbiamo scoprire è chi ha ucciso Domenico. La testa tagliata adesso si capisce di più. Probabilmente sarà uno dei riti della setta. ABATE MARIO Sì, Domenico ne parla nel suo scritto. Quando gli hat temono che la loro vittima possa tornare a vendicarsi, le tagliano la testa e la affumicano, rendendo così inoffensiva l'anima del defunto. BENEDICT TWIN (Pensieroso.) La affumicano... Hai detto che la affumicano? ABATE MARIO Sì, appunto. BENEDICT TWIN (Un po' esitante.) Ordina che venga controllato il no-
stro affumicatoio. Anche se non credo che l'assassino abbia osato... ABATE MARIO (Deciso.) Le condotte dei fumi! Bisogna controllarle tutte! Soprattutto nell'ala settentrionale. Ma anche negli altri edifici, naturalmente. SCENA QUARTA LA SPIEGAZIONE DELL'ASSASSINIO Cella dell'abate. Su seggi dall'alto schienale sono seduti l'abate, Benedict e Ieshua, un ebreo tranquillo, dall'aria intelligente, appena oltre la trentina, con i capelli lunghi e una barbetta corta. In mano ha il libro sottratto a Mulier. ABATE MARIO E così, stimatissimo Ieshua, speriamo sinceramente che quanto hai sentito non esca dalle mura del monastero. (Ieshua annuisce con aria pensosa) Adesso sta a te dirci se è possibile che Mulier abbia ucciso Domenico a causa di questo libro. Ieshua si accinge a parlare, ma viene interrotto dal giovane novizio che entra nella cella dell'abate senza bussare e senza chiedere permesso. GIOVANE NOVIZIO La testa, padre! Hanno trovato la testa di Domenico! Eccola! ABATE MARIO (Si alza in piedi, gli altri lo imitano per osservare l'etichetta.) Nell'ala settentrionale? In quale cella? GIOVANE NOVIZIO No, padre! Non in questa ala! In cucina! Nella condotta del fumo della cucina! ABATE MARIO (Ricade sulla sedia quasi disperato.) In cucina... In cucina... Fructus! Eppure è proprio lui... (Benedict esce. Il novizio rimane lì con la testa tra le mani, senza sapere cosa farne. L'abate si rivolge a Ieshua con voce mutata.) Ti prego di scusarmi per averti disturbato, Ieshua, ma temo che il tuo viaggio da Aosta sia stato inutile... (Si interrompe, perché nella cella entra Benedict che si trascina dietro Fructus. L'abate si dimentica momentaneamente di Ieshua e indica con la mano la testa tagliata) Fructus! Era nel condotto della cucina! Fructus!
BENEDICTUS FRUCTUS (Molto pensieroso) In cucina può entrare chiunque... Non viene chiusa nemmeno di notte, la cucina. BENEDICT TWIN (Prende cautamente la testa dalle mani del novizio e la esamina attentamente.) A voler essere precisi, abate, questa non è una testa. È un suo simulacro. La pelle staccata dalla testa, riempita di sabbia e poi appesa ad affumicarsi. Con gli occhi e la bocca cuciti. ABATE MARIO Perché, Fructus, perché sei finito in questa setta? Perché ti sei fatto conquistare da quelle assurdità? Tu sei una persona normale. Anzi, non credi in nulla... BENEDICTUS FRUCTUS Significa che questo è il mio destino, abate! Del resto, non credo neppure nel destino. Non ho ucciso Domenico, non gli ho tagliato la testa e non l'ho appesa ad affumicarsi. Ma capisco che nessuno può confermare le mie parole. Per questo ditemi che dichiarazioni devo fare per mettere fine a tutto questo. Di che setta si tratta? Satanisti? Manichei? Ammetto tutto. Spiegatemi solo cosa. E uccidetemi subito. Senza tormenti e vergogna. Benedict, puoi uccidermi tu? ABATE MARIO Anche una morte indolore bisogna meritarsela. Raccontaci prima di questa setta degli hat, o come diavolo vi chiamate. BENEDICTUS FRUCTUS Possibile che non mi giudichiate degno nemmeno di una morte indolore? Non ho nulla da dirvi. Degli hat non so nulla. Ma non fatemi squartare vivo! Preferisco i tormenti infernali a quelli terreni! Si slancia verso il tavolo e afferra il coltello che l'abate aveva prelevato dalla sua cella. Benedict è impacciato dalla testa di Domenico che tiene ancora in mano, poi la appoggia sul tavolo, ma è troppo tardi. Fructus, tenendo il coltello con entrambe le mani, lo alza sopra il proprio ventre. IESHUA (Si alza velocemente.) Fermati, Fructus! Aspetta! Innanzitutto è probabile che i tormenti infernali siano peggiori di quelli terreni. In secondo luogo, io so chi è l'assassino. (Fructus si blocca con il coltello in mano. Anche l'abate e Benedict si alzano. Ieshua si rivolge all'abate.) E
non è Fructus. Cosa vi è venuto in mente? Non è lui, naturalmente. ABATE MARIO Sai chi è l'assassino? Ma come hai fatto a scoprirlo? IESHUA Le informazioni che mi avete fornito sono state più che sufficienti. BENEDICT TWIN Mulier? IESHUA No, no, sbagliate di nuovo. Povero arabo, assetato di conoscenze! Tutt'altro che proibite dalla vostra Chiesa, tra l'altro. Per la traduzione latina del libro che avete davanti, all'università di Parigi vi darebbero un ottimo compenso. È Ibn Rushd. In latino, Averroè. L'ultima novità in campo teologico-filosofico. Afferma che tutto, tranne Dio, è materiale, ma che non tutto ciò che è materiale è corporeo. Capite? Esisterebbe una materia incorporea! A essere precisi, non si tratterebbe nemmeno più di materia, perché non la si può toccare. Forse si tratta di interi mondi. Altri mondi, non palpabili, ma reali... BENEDICT TWIN Allora sono stati Grazio e Pleno. IESHUA No, stimatissimo Benedict! Pensi che chi ha distribuito i beni della Chiesa ai poveri sia capace di uccidere, sia pure per coprire le sue malefatte? Ricordate quello che scrivono i vostri filosofi cristiani sulla natura del male: il male non esiste di per sé, come il bene, ma si presenta come non essere, deficienza del bene. E se queste persone che tentano di ristabilire l'equità nel mondo sono buone, come potrebbero diventare sorgente di male, sia pure involontario? ABATE MARIO Ventris? Ma parla, Ieshua, te ne prego! IESHUA Sì, Ventris avrebbe potuto uccidere, perché manca di amore. Di amore vero. Quello senza cui non sono possibili né la conoscenza né la vita. Vi ricordate quello che ha scritto sull'amore Bernardo di Chiaravalle? «All'unico Dio onore e gloria, ma né l'uno né l'altra gli saranno graditi se non saranno conditi con il miele dell'amore. L'amore basta a se stesso, è contento di se stesso. In se stesso ha il proprio merito e la propria ricompensa. L'amore non cerca fuori di sé la sua causa, il suo van-
taggio è nella sua stessa manifestazione. Amo perché amo. Amo per amore. Grande cosa è l'amore.» Bellissime parole. Le ho addirittura tradotte in ebraico. Ventris avrebbe potuto uccidere, ma in realtà è troppo vile per farlo. BENEDICT TWIN Ma rimane soltanto Tommaso Tenebris. E perché avrebbe dovuto ucciderlo? Per prendere il suo posto? Ma lui è debole e stupido... IESHUA Sbagliate tre volte. In primo luogo quando pensate che Tommaso sia debole, in secondo luogo quando pensate che sia stupido, in terzo luogo quando ritenete di trovare l'assassino ragionando sul cui prodest invece che sul quo modo. Cioè, nel vostro caso, bisogna partire non dall'antiquato "chi ne trae vantaggio", ma dal più attuale "in che modo". ABATE MARIO Che cosa intendi dire? IESHUA Avete trovato il tesoro nascosto nella cella di Grazio e Pleno, il coltello sporco di sangue nella cella di Fructus, il libro in arabo in quella di Mulier e la lettera di delazione in quella di Ventris. E in quella di Tommaso Tenebris che cosa avete trovato? BENEDICT TWIN Niente. Una cacca di topo. IESHUA Appunto! Una cacca di topo! Vi sembra poco? BENEDICT TWIN Temo di sì. IESHUA Domenico è stato ucciso dal morso di un serpente? ABATE MARIO Sembra di sì. IESHUA Siamo in inverno? ABATE MARIO Sì. IESHUA I serpenti odiano il freddo?
ABATE MARIO Sì. IESHUA E per questo devono stare al chiuso? ABATE MARIO Sì. IESHUA I serpenti devono essere nutriti? ABATE MARIO Sì. IESHUA Per esempio, con topi? ABATE MARIO Sì. IESHUA E i topi devono essere nutriti? ABATE MARIO Sì. IESHUA Per esempio con il miglio? ABATE MARIO Sì. IESHUA E in quale cella avete trovato il camino funzionante, il miglio e la cacca di topo? BENEDICT TWIN In quella di Tommaso Tenebris. IESHUA E allora perché mi chiedete chi è l'assassino, se entrambi lo sapete già benissimo da soli? BENEDICT TWIN Ma... IESHUA Non c'è nessun "ma". La persona che ha ucciso padre Domenico e gli ha tagliato la testa deve abitare sul suo stesso piano. I servi, infatti, sono saliti di corsa al primo piano quando hanno sentito il tonfo del corpo. Se l'assassino fosse tornato al pian terreno, l'avrebbero incontrato per forza.
BENEDICT TWIN Sì, ma Mulier? Era così agitato! IESHUA Ma cosa c'entra Mulier? Sì, abita su quel piano. Ma nella sua cella non avete trovato né il camino, né il miglio, né la cacca di topo. Mulier nelle dispute teologiche è un bambino. Come fa a sapere che cosa merita il rogo e che cosa invece no? Io stesso ho dovuto a lungo rompermi la testa sui vostri "non unitamente" e "invariabilmente" contro i monofisiti, o i vostri "indissolubilmente" e "inseparabilmente" contro i nestoriani, nelle spiegazioni dell'unione - in Gesù Cristo - della natura divina e di quella umana. Eppure quanti uomini hanno perso la vita per queste parole? Quante Chiese si sono allontanate? BENEDICT TWIN Ma perché nella cella di Fructus c'era quel coltello? IESHUA Perché se l'era portato dietro, dimenticandosi di lasciarlo in cucina. BENEDICT TWIN E come è finita in cucina la testa di Domenico? IESHUA Ce l'ha portata Tenebris. Probabilmente subito dopo che avete cacciato tutti fuori da quell'ala per procedere alla perquisizione. È possibile che Tommaso sperasse di affumicarla nel camino della sua cella, ma che al dunque la condotta sia risultata troppo piccola. Se avete ancora dei dubbi, però, perché non andate a controllare la cella di Tommaso, cercate il serpente a due teste e lo uccidete, una buona volta? BENEDICT TWIN Perché a due teste?! Forse si tratta di due serpenti? IESHUA Riuscite a immaginare che due serpenti, sia pure liberati in quella cella nello stesso momento, mordano un uomo nello stesso punto? BENEDICT TWIN Ma perché Tommaso avrebbe dovuto uccidere Domenico? IESHUA Per punire un traditore. L'abate e Benedict si scambiano un'occhiata.
ABATE MARIO Perdonami, Fructus! BENEDICT TWIN Perdonami, Fructus! Vieni con noi! No, no: il coltello portalo con te. IESHUA E se volete andare a lottare contro i serpenti, prendete anche un bastone. Io adesso vado, altrimenti non riuscirò ad arrivare ad Aosta prima che faccia buio. ABATE MARIO Non vuoi partecipare all'interrogatorio di Tenebris? IESHUA Non amo l'azione, tanto meno quando è violenta. Amo la creazione. La costruzione. ABATE MARIO (Stupito) La creazione non è forse azione? IESHUA Quando Dio ha creato il cielo, la terra e tutte le creature, non ha agito. Non aveva nulla con cui agire, e in lui non c'era azione. Allora disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza. È facile creare. Si può fare quando e dove si vuole. Quando faccio qualcosa, lo faccio in me stesso e da me stesso e vi imprimo così la mia immagine». ABATE MARIO Aspetta. Non vuoi neppure vedere la conferma delle tue supposizioni? IESHUA Temo che vedrò comunque la conferma delle mie supposizioni strada facendo. Ordinate, per favore, che mi aprano il portone. (Già sulla porta, si arresta all'improvviso.) Come si chiama il giovane novizio che mi ha accompagnato qui? ABATE MARIO Alinardo da Grottaferrata. Un ragazzo intelligente. IESHUA Sì, intelligente, capace e onesto. Vivrà molti anni. Moltissimi. Purtroppo il suo più grande desiderio non si avvererà mai. E verso la fine della sua vita rimarrà completamente solo. Disperatamente solo. Vi auguro buona fortuna! Addio! BENEDICT TWIN Solo? Ma come fai a dirlo?
IESHUA Come faccio? Ha tutto scritto in faccia! ABATE MARIO Ma bisogna essere capaci di leggerlo. IESHUA È vero, bisogna essere capaci di leggerlo. La fine della storia è semplice e breve. Ieshua poté effettivamente vedere la conferma delle sue supposizioni e la spiegazione dell'assassinio, ammesso che si voltasse nel momento giusto. Mentre l'abate e Benedict Twin si lanciavano all'inseguimento del serpente a due teste liberato dalla sua tana, Tommaso Tenebris colse l'attimo favorevole per fuggire dalla sua cella, arrivare alla torre campanaria, raggiungerne la cima e buttarsi nel vuoto. Evidentemente, non aveva alcuna voglia di affrontare le torture dell'Inquisizione e l'inevitabile morte sul rogo. L'abate e Benedict almanaccarono a lungo sul testo di Domenico, e alla fine stabilirono che quelle cifre rimandavano a parole scritte nell'alfabeto copto. Cercarono di contattare i copti e mandarono loro diverse lettere, ma non ricevettero alcuna risposta. Decisero che le lettere non erano giunte a destinazione (con la caduta dell'Impero romano l'efficienza delle poste internazionali si era drammaticamente ridotta), ma ho saputo che in realtà i copti non vollero rispondere. Allora l'abate ritenne opportuno mandare un resoconto di tutta la storia in Vaticano e concludere così la vicenda. Il resoconto terminava con le seguenti parole: «L'attuale infinitezza della natura divina implica la potenziale infinitezza dell'arbitrio, e perciò la libertà della volontà di Dio si sottomette all'intelligenza divina, e Dio crea il mondo non in base a qualche preesistente canone di razionalità, ma con un atto di manifestazione della sua volontà assolutamente libero, così che la realtà del mondo non è che quella che si è realizzata delle numerose possibilità della creazione divina, e il nostro mondo non è niente di più che il gioco del caso tra le manifestazioni della volontà divina. Dio ha sacrificato il Suo Figlio per salvarci. Io ero pronto a sacrificarmi per salvare il Figlio, ma il mio sacrificio non è stato accolto. Su tutto trionfi la volontà divina». Evidentemente alludeva al pericolo che gli hat costituivano per il cristia-
nesimo. Nei quasi ottocento anni trascorsi dai tempi dell'abate, il palinsesto su cui furono trascritti, uno dopo l'altro, Catullo, Agostino e la prima testimonianza sugli hat, andò distrutto (Catullo, fortunatamente, sopravvisse in altre trascrizioni), ma la relazione dell'abate si è conservata e la polizia segreta vaticana non l'ha mai dimenticata. È una circostanza molto interessante. Significa che i servizi segreti si occupano degli hat già da un bel po' di tempo. Quando ho scritto l'ultima parola, ho riletto rapidamente il tutto per capire come era venuto. Non era un vero mistero gotico: non c'erano abbastanza personaggi tipici e mancava anche il soggetto canonico, pasquale o natalizio. E non era nemmeno una novella. La novella non è in forma drammatica. D'altra parte, non mi sembrava neppure che quel testo potesse essere definito un dramma, nonostante l'unità di luogo e di azione; troppo forte era la componente che rimandava al classico giallo della stanza chiusa: sei sospettati, di cui uno doveva essere l'assassino. Ma se era un giallo, cosa ci stava a fare Catullo? Decisi di lasciar perdere la questione del genere letterario e pensai che a quel punto sapevo chi mi aveva tenuto d'occhio in quel monastero ortodosso dell'estremo nord. Il sagrestano, naturalmente, la carica preferita dagli hat. Guardai l'orologio: all'arrivo di Anton mancavano almeno due ore, e io stavo cominciando a morire di fame. Per di più Anton poteva anche aver già mangiato in viaggio. Perciò uscii dall'internet-café e mi diressi verso il ristorantino che mi aveva colpito il giorno prima. Sulla riva dell'Adige, con un bel pergolato e una romantica vista su un'antica fortezza coperta di muschio dall'altra parte del fiume. Mentre mi dirigevo in quella direzione, in una stretta stradina medievale, rimasi paralizzato. Proprio verso di me avanzava un hat. Capitolo Ventisette "Cominciamo" pensai. "Sto esagerando. Questa è paranoia." Ma, per sicurezza, scrutai con molta attenzione il misterioso passante. L'uomo mi superò rapidamente. Grigio, bruttino, normale. Inespressivo, noioso, banale. Ma ero sicuro che fosse un hat, così come, se avessi incontrato per strada un nero, sarei stato certo che fosse un nero. E non un cinese o uno scandinavo. Ma in quel caso il riconoscimento era ovvio: come facevo invece a sapere che l'italiano che avevo appena incrociato era un hat? Che mi si fosse improvvisamente aperto il terzo occhio? Non c'erano altre spiegazioni.
Cioè, un'altra ce n'era, ovviamente. La paranoia. Per decidere dove stesse il problema, se in lui o in me, mi voltai e cominciai a seguirlo, a distanza di sicurezza. La fame mi era completamente passata. Seguivo l'uomo e intanto riflettevo. Non aveva il triangolo rasato sulla nuca. Dunque non aveva raggiunto il secondo grado di iniziazione. Doveva essere al terzo, perché gli hat al primo grado di iniziazione non passeggiano per le strade e, soprattutto, non sono molti. Ma da dove mi veniva la certezza che fosse un hat? Temevo che l'uomo aprisse la porta di qualche palazzo e scomparisse, ma fui fortunato. Entrò in un caffè. Feci del mio meglio per assumere l'aspetto del tipico turista straniero ed entrai poco dopo di lui, che si era già seduto e si era immerso nella lettura del «Corriere della Sera». Cominciai a leggere una lavagna che proponeva almeno venticinque tipi diversi di caffè, ma mi persi d'animo e ordinai un doppio espresso. Poi sedetti anch'io a un tavolino e cominciai a pensare. La mia testa però non recepiva nulla, tranne che a tre metri da me era tranquillamente seduto un vero hat italiano. Certo... Ma come si cura la paranoia? La forma leggera, mi sembra, in nessun modo particolare. Calma, riposo, aria fresca, cibo sano, lunghe passeggiate. Tutte cose che in Giappone avevo avuto modo di apprezzare anche troppo. "Ma certo, non c'entra niente con gli hat, questo" mi dissi, chiamando a raccolta tutte le mie forze. Ma non riuscii a convincermene. A quel punto, però, ebbi un'illuminazione. Chiesi una penna al cameriere, scrissi su un tovagliolo «222461215», mi avvicinai allo hat, tossicchiai e, dicendo gentilmente «Excuse me, Sir», gli mostrai il numero. L'uomo prese il tovagliolo, lo guardò, poi guardò me, poi di nuovo il numero. Quindi, con un'occhiata, mi invitò a sedermi al suo tavolo. Alla domanda che mi rivolse non sapevo che cosa rispondere, anche se devo ammettere che era la più ovvia possibile. «Che cosa desidera?» «Ehm... pensavo che lei conoscesse questo numero.» «Perché pensa che dovrei conoscerlo?» Lo hat era tranquillo, solo un po' stupito. Iniziavo addirittura a pensare che potesse davvero essere una persona normale, ma ormai era impossibile tornare indietro. «Il fatto è che vengo da Mosca. Ho una missione speciale. E, non ci crederà, ma proprio pochi minuti fa, nella piazza della cattedrale, un motociclista mi ha scippato la borsa. E dentro avevo tutto, i soldi, il passaporto, la patente, il cellulare...»
«Terribile, ma non ha risposto alla mia domanda. Perché pensa che dovrei conoscere questo numero?» «Il fatto è che, nell'interesse della mia missione - mi scusi se sono costretto a omettere molti dettagli -, mi hanno mostrato le foto dei più importanti membri della filiale veronese. E lei, naturalmente, è uno di questi.» «Ma a Verona ci sono altri membri della Confraternita.» «Ecco, vede... Le ho già detto più di quanto avrei dovuto. La prego, dimentichi le mie parole.» «Di che cosa ha bisogno?» «Un po' di soldi. Cento euro, non di più. Devo pagare l'albergo. Poi mi metterò in contatto con Mosca e mi manderanno loro tutto quello che mi serve.» L'uomo, ancora molto stupito, prese il portafogli e mi porse due banconote da cinquanta euro. Finalmente gli passò per la testa un pensiero. «Sarò costretto a raccontare questo episodio al mio responsabile. Spero che i documenti che le sono stati sottratti non contengano informazioni che possano mettere in pericolo la Confraternita...» «Ma cosa dice... Quello che conta è tutto qui.» E indicai la mia testa con aria significativa. «Per quel che riguarda un eventuale racconto di questo episodio al suo responsabile... al suo posto lo eviterei.» «Perché?» «Ha appena ricevuto un'informazione assolutamente segreta. Ha scoperto di non essere solo a Verona. Non sono sicuro che il suo responsabile ne sarebbe entusiasta.» «Ma è stato lei a raccontarmelo!» «D'accordo. Per questo potrei essere punito. Ma io da lei non ho ricevuto alcuna informazione segreta. Di conseguenza, non rappresento una minaccia diretta per la Confraternita. Pensi al suo caso, invece! Magari il suo responsabile o il Consiglio degli Urei comincia a preoccuparsi della possibilità che lei si metta sulle tracce dei rappresentanti della Confraternita qui a Verona... O qualche altra cosa, non oso nemmeno provare a immaginarmela. Eh?» L'uomo sembrava incerto. La prospettiva di essere ricercato dagli hat e di conseguenza anche dalla polizia due ore prima dell'arrivo di Anton non mi sorrideva affatto. Decisi di menare l'affondo finale. «Mi dispiace di averla in qualche modo danneggiata. Le propongo di dimenticare completamente questa storia. Io non parlerò con nessuno della nostra conversazione. Dirò che i cento euro li tenevo in un tasca segreta. E
lei faccia altrettanto. Così il suo responsabile dormirà sonni tranquilli.» Lo hat continuava a riflettere. Io rimasi tranquillamente in silenzio, in attesa della sua decisione. Alla fine, guardandomi fisso negli occhi, mi chiese: «Ma posso fidarmi di lei?». «Sì. Raccontare che ho rivelato un importante segreto solo perché mi servivano cento euro non è certamente nel mio interesse.» «Noi non ci siamo mai conosciuti, cioè?» «Non personalmente. Io l'ho solo vista in fotografia.» Pensai che la conclusione più brillante per la nostra conversazione sarebbe stato un cordiale "Tante belle cose, signor Trapattoni!", ma visto che non avevo la minima idea di come si chiamasse, mi limitai a fargli un cenno di saluto, dopo di che mi alzai e uscii, costringendolo così a pagarmi anche il caffè. Anche senza la conclusione a effetto, ero molto soddisfatto del mio risultato. Non ero affetto da paranoia. Al contrario. A quanto pareva, avevo una specie di dono. "Mi piacerebbe sapere" pensavo, girellando per l'hotel, dove ormai avevo deciso di attendere Anton per cenare insieme a lui "se a questo punto individuo tutti gli hat o solo i più evidenti... Vuoi vedere che prima o poi riuscirò a capire anche le donne!" In albergo accesi il televisore. C'era un notiziario, in quel momento trasmettevano un servizio dal parlamento. Detti un'occhiata allo schermo e sussultai. In piedi davanti al suo seggio c'era un altro hat, e parlava con molto impeto, quasi gridando. Le parole erano piene della straripante energia italica, eppure lasciavano la sensazione di un certo grigiore. Cambiai canale. Un programma per bambini. Sullo schermo saltellavano e rotolavano i Teletubbies. Mi sembravano in qualche modo sospetti, ma non percepii nessun allarme specifico. Cambiai di nuovo. MTV. L'ultimo video di Eminem. Niente di allarmante. Passai a Eurosport. Pallavolo. Tutto ok. Tornai al notiziario parlamentare. Non c'era alcun dubbio, quel politico italiano, che non avevo mai visto prima, era un hat. Passai alla CNN. La guerra in Iraq. I soldati americani sugli Hummer e ai posti di blocco erano persone normali. Eppure dallo schermo percepivo comunque una certa presenza hat. Che fosse l'essenza stessa della guerra? Spensi il televisore. Il cuore mi batteva in modo folle. Mi sentii il polso. Ogni cinque battiti il cuore ne perdeva uno. Un'aritmia. L'importante era resistere fino all'arrivo di Anton. Quanto mancava ancora: un'ora? E se lo hat mi avesse comunque tradito? Al diavolo! Certo che lo avrebbe fatto! Avrebbe avuto paura e mi avrebbe tradito. Non sarebbe stato certo un pro-
blema, per loro, individuarmi, Mi avrebbero teso un agguato per la strada, o all'aeroporto. Perciò era meglio aspettare Anton e poi andarsene alla chetichella. A piedi. Per i campi. L'indomani mattina saremmo già stati alle porte di un'altra città. E d'altra parte... che differenza faceva? Se davvero ci cercavano, ci avrebbero dato la caccia dappertutto. Perché diavolo mi era venuto in mente di verificare il mio dono? A che scopo? Che cosa avevo ottenuto? Avevo tradito me stesso e anche Anton... per guadagnare cento euro? Dio mio, che razza di idiota! Proprio mentre scendevo a pian terreno, vidi la porta dell'albergo aprirsi e Anton veleggiare nella lobby. Aveva un'aria rilassata e positiva. Mi diressi deciso verso di lui. «Ciao, Anton» lo salutai, come se ci fossimo visti il giorno prima. «Abbiamo qualche problema.» «Ciao! Noi abbiamo sempre qualche problema. Raccontami, piuttosto, come hai passato questi anni?» «Sono andato a letto presto. Ascolta...» «Ti ha fatto bene. Non sei affatto invecchiato.» «Anton, qui rischiamo di non invecchiare per niente. Ascoltami, per favore...» «Proprio qui?» «Mettiamoci in quell'angolo.» Ci mettemmo un po' in disparte, rimanendo in piedi. Anton scuoteva la testa perplesso, osservando la sua valigia abbandonata nel centro della hall. Alla fine alzò le spalle in un gesto vago. «Non scapperemo da nessuna parte. Sono stufo di cambiare piano. Se l'italiano ci tradisce, tanto peggio per lui. Mi preoccupa di più il tuo nuovo dono. Spiegami che cosa senti...» «Non l'ho ancora capito bene. Ma ho l'impressione di essere sensibile non solo alla persone. Hat può essere anche un quadro. O un oggetto di design. Un odore. Un fatto. Un film. Un affare. Una vibrazione nell'aria... Questa caratteristica fa parte del mondo. Penetra il mondo. Si percepisce come un colore grigio. Ma grigio in senso metafisico. La giacca di quell'uomo politico, per esempio, era blu.» «Ma... come lo percepisci? In che modo?» «Non lo so. Lo sento e basta. È qualcosa di... inafferrabile, incomprensibile, indescrivibile. Come faceva Cassandra a prevedere gli avvenimenti futuri?» Anton rimase qualche secondo in silenzio, prima di ritrovare il suo abi-
tuale scetticismo: «Era semplicemente una persona intelligente». Mi ricordai di quando, a suo tempo, mi aveva spiegato qual è la caratteristica dell'uomo intelligente. L'uomo intelligente, secondo Anton, non è chi dice cose intelligenti. Per dire cose intelligenti basta essere colti, creativi e non ripetersi. E non è nemmeno quello che compie mosse intelligenti: non ci vuole niente per farlo, a parte l'intuizione. E neppure quello che sa ascoltare le parole degli altri, anche se costui è già sulla buona strada. L'uomo intelligente è quello che sa come si svilupperanno gli eventi. Non ero un uomo intelligente nel senso di Anton, perché non avevo la minima idea di come si sarebbero sviluppati gli eventi. Di punto in bianco Anton esclamò: «Basta pensare al peggio. Andiamo in qualche bettola!». «Bettola?» «Un pub, un night bar, un cabaret.» «In un night bar? A bere? A fare casino? Io non ho cenato... E poi...» Pensai che evidentemente l'operazione Solitudine 12 era risorta. Invece di metterci al lavoro o di fuggire il più lontano possibile, stavamo per andare a sbronzarci. «Mangerai qualcosa là. Penso che sia arrivato il momento di distrarci. Faremo sempre in tempo a parlare...» «Distrarci?» «Sì, alla grande. Andiamo alla Dolce Giulietta. Secondo la Lonely Planet è il posto più divertente della città.» «Distrarci alla grande?!» Era francese. Aveva un visetto stretto e sottile e i capelli neri lunghi fino alle spalle, sottili anch'essi. Della sua figura non potevo dire nulla, nascosta com'era da un lungo camicione grigio. Si chiamava con il nome di una canzone immortale, Louise-Marie. Quando lo scoprii, scossi la testa e, senza dire nulla né a lei né ad Anton, mi precipitai al juke box, dove trovai il disco che cercavo. Cauta gioia. Nel linguaggio dei rapporti con il destino significava: oggi sono fortunato. Non era per nulla scontato che il disco Platinum degli Smokie fosse nel repertorio di quel vecchio juke box dall'aria malconcia. Inserii la moneta, premetti con una certa diffidenza i grossi tasti quadrati e tornai da Louise-Marie e Anton. Vicino a loro c'era già un'altra ragazza, anche lei francese, a giudicare dall'accento. Tutt'e due chiacchieravano allegramente con Anton. «Hi!» dissi alla nuova arrivata. «Io sono Iosif.»
«E io Nathalie.» «Oh, vieni dalla Russia?» «La mia nonna è russa.» «Non parli russo?» «No. Spasibo, požalujsta, ja choču ešče vypit', dosvidanija.» 33 Persi rapidamente qualsiasi interesse per la nuova ragazza, anche se come fisico si meritava un otto pieno, e, al di sopra del frastuono del locale, gridai a Louise-Marie che adesso sarebbe arrivata una canzone dedicata a lei. «Che canzone?» «I'll meet you at midnight.» «Oh, grazie! È una canzone che amo moltissimo. In generale mi piacciono molto gli Smokie. Sai, i seventies...» «Sì, lo so! Eccome se lo so!» Ascoltai la canzone, lasciandomi prendere dal suo ritmo incalzante e dai suoi pazzeschi passaggi di chitarra, godendomi la voce di Chris Norman con quel suo fondo roco e ammirando Louise-Marie. Per la mente mi passavano pensieri del tipo: "Ma alla fine chissenefrega degli hat? Sono qui con Anton nel cuore dell'Europa, in un bar molto carino. C'è un sacco di rumore, un sacco di gente, un sacco di allegria. Due ragazze di classe. La vita è bellissima. E continua, a dispetto di tutto! Continua! E non c'è alcuna solitudine. C'è tanta di quella gente intorno! Be', certo, nessuna solitudine a parte l'operazione Solitudine 12. Ma adesso può aspettare. Anche il male del mondo può aspettare! Fino a dopodomani. Partiremo domani sera. Abbiamo ancora quasi ventiquattr'ore da trascorrere in questa antica città dalla vita notturna così promettente". Le ragazze salirono a ballare sul banco del bar. Louise-Marie era molto attraente nel suo camicione monacale. A quell'ora il bancone era già molto affollato e, non considerandomi uno specialista né come ballerino né come equilibrista, decisi di restarmene al mio posto. Anton invece alzò un braccio come un ufficiale che rianima il battaglione con il suo esempio, e andò all'attacco. Cioè si arrampicò anche lui sul bancone, dimenticandosi età, doti intellettuali e legami karmici. Decisi di rimanermene comunque seduto e osservai Anton che si scatenava nelle danze. Ballava con una certa goffaggine, ma aveva quel certo non so che... "Ma questa Louise-Marie è proprio carina. Potrei anche innamorarmene. Ma cosa starà facendo Maša, adesso?" 33
Grazie, prego, voglio bere ancora, arrivederci (NdT).
A quel punto della mia riflessione, capii che l'ora delle riflessioni era ormai passata. Dopotutto, era mezzanotte. E che pensieri si possono concepire, dopo mezzanotte? Solo assurdità. Ripromettendomi di non pensare più a niente, mi arrampicai anch'io sul bancone. Fui accolto con entusiasmo. «Che programmi abbiamo?» gridai ad Anton in russo. «I programmi lasciamoli riposare!» mi gridò Anton in risposta. «Chiaro! E le ragazze?» «Sono tutte nostre!» «Benissimo! Ma... rimaniamo insieme?» «Noi siamo sempre insieme!» «Allora bisogna fare qualcosa!» La mia voce era già molto roca. Si sentivano tutti gli sforzi a cui avevo sottoposto le mie corde vocali. «Non c'è bisogno di fare proprio niente! Verrà tutto da sé.» Anton perse per un attimo l'equilibrio e sarebbe rovinato a terra se non fossi riuscito a sostenerlo. «Quando?» «Poi!» Per quanto capivo allora, non ci sorrideva alcun "poi" particolare. Le ragazze smisero di ballare e dissero che dovevano andare a cambiarsi (era circa l'una). Per nulla stupiti, accompagnammo le due francesine accaldate e deliziosamente sudate fino al loro albergo e restammo ad aspettarle in un bar vicino. Il bar era molto tranquillo. Ordinammo due Jack Daniels. «Le ragazze non arrivano» notai in tono professionale. «Che il diavolo se le porti» replicò Anton con l'espressione del filosofo che sa come va il mondo. «Certo, per te è facile... Con la tua teoria della fedeltà coniugale è solo un problema in meno.» «Non ho alcuna teoria. Semplicemente sento che è giusto così, e basta. E non mi interessa proprio per niente scoprire da dove nasca questa cosa.» Anton sollevò una mano, come a prevenire una mia obiezione. «Sono stufo di paure infantili e valori della famiglia. E di tutto il freudismo nella sua integrale contraddittorietà. Voglio semplicemente dire che mi comporto così e ne pago le conseguenze. Perché se mi comportassi in un altro modo, Dina mi lascerebbe.» «Se lo venisse a sapere...»
«No, non "se lo venisse a sapere". Ma perché si spezzerebbe il nostro legame karmico. E io resterei solo. E la solitudine... Ma l'hai detto tu stesso.» «Fai dei bambini. Così Dina non ti lascerebbe più. E non ci sarebbe più la paura della solitudine.» «I bambini non nascono così facilmente» borbottò Anton. Ebbi l'impressione di aver detto qualcosa di poco opportuno. «Certo, hai ragione» dissi. «Forse è meglio cambiare argomento. O andarcene a dormire.» «Come "a dormire"? Vedrai che le ragazze arrivano!» «Anton! Sei arrivato a un livello di contraddittorietà superiore a quello della Bibbia e di Freud messi insieme!» Anton fece una smorfia, ordinò un altro whisky, lo bevve d'un fiato e disse con voce perfettamente sobria e addirittura conciliante: «Invece di discutere delle mie contraddizioni, potresti raccontarmi come sono andate le tue ricerche storiche. Hai trovato la risposta almeno a una semplice domanda?». «Quale domanda?» «Che cosa vogliono, alla fin fine, questi hat?» Scossi la testa. Così. Per ogni evenienza. L'ora e la situazione non mi predisponevano a quel genere di conversazione. «Racconta, racconta» insistette Anton. «Io da ubriaco ragiono meglio che da sobrio. Più liberamente.» Decisi, per ogni evenienza, che non valeva la pena di discutere. «Ti ho già detto qualcosa sull'energia Ka?» «Non abbastanza da farmi capire di cosa si tratti.» E a quel punto iniziò una scena decisamente surreale. Le ragazze entrarono nel bar. Si erano cambiate davvero. «Dopo, Anton, d'accordo?» Ma anche questa volta non era d'accordo. Per la seconda volta nel corso di quella serata alzò un braccio con un gesto imperioso e si rivolse a noi tre. In inglese, naturalmente: «Il mio amico mi sta raccontando la trama di un nuovo film russo. Un blockbuster. Incassi da record. La storia di una società segreta che è la fonte di tutto il male della terra. Omicidi di massa, cataclismi planetari, eccetera... Ma vi interessa questa storia?» Alle ragazze interessava. «Allora, Iosif, racconta: perché quelle carogne fanno tutto quel casino? Cosa sperano di ottenere?»
Dopo avere superato un brutto attacco di tosse, spiegai ad Anton in un ottimo russo, anche se non nel registro letterario, che cosa pensavo della sua trovata, dopo di che passai tranquillamente all'inglese e cominciai a spiegare la mancanza di energia Ka che affligge il mondo parallelo, quello in cui finiamo tutti dopo la morte. Raccontai come gli hat avevano imparato a convertire l'energia Ka negativa in energia positiva e a canalizzarla, cioè a ottenere una redistribuzione di questa energia in modo da esserne gli unici beneficiari nel mondo parallelo. Quando le ragazze cominciarono a fingere di non essersi ancora stufate, Anton sollevò la testa e fece qualcosa che mi sarei aspettato da lui ancor meno che da un sacerdote durante la celebrazione della messa. Batté il pugno sul tavolo con tutta la sua forza e contemporaneamente snocciolò tutte le imprecazioni più volgari che conosceva in lingua inglese. I bicchieri tremarono e poi si fermarono. Le ragazze lo fissarono con un'espressione di muto entusiasmo per la sua sorprendente conoscenza del turpiloquio inglese, oltre che per la sua forza interiore. «Che cosa ti sta succedendo, Anton?» lo interruppi con la voce un po' infastidita di un insegnante stanco dei capricci dell'allievo. «Vuoi dire che anche questa guerra è scoppiata per il controllo delle risorse energetiche?» «E allora?» «In tutti i mondi sempre la stessa cosa. In tutti i mondi sempre la stessa cosa...» «Al diavolo l'economia politica! Tutte le guerre, a cominciare da quella di Troia, sono scoppiate per le donne e per la gloria. Tutte le altre cause le hanno inventate gli esperti di geopolitica: i soldi, lo spazio vitale, l'energia...» «I soldi sono presenti anche nella guerra di Troia. Chi ha mai rinunciato a saccheggiare gli sconfitti, avendone la possibilità? Ma hai ragione! Al diavolo questi discorsi! Volete parlare di qualcosa di più allegro?» Volevamo tutti. «Per esempio, lo sapete tutti come nascono i bambini?» Lo sapevamo tutti. «E come si riciclano i soldi?» Su questo eravamo già meno preparati. «E come sono collegate queste due cose?» Pregammo Anton di non tenerci più sulle spine e Anton, dopo averci gentilmente chiesto se conoscevamo la storia della banca dello sperma (qui
le ragazze si ravvivarono subito), cominciò a raccontare: «Ecco, allora, le coordinate di base: Russia, inizio degli anni Novanta. Una grossa società ha bisogno di un sistema sicuro per riciclare denaro. Non ha ancora messo a punto alcun metodo particolare». Anton spiegò rapidamente alle francesi cos'era l'illegal encashment e perché erano necessarie certe operazioni. «Sui principali giornali appare un annuncio: "La banca dello sperma ricerca candidati adeguati. Ottimo compenso. Si garantisce l'anonimato". Non viene fornito alcun indirizzo. E, naturalmente, non si riesce a telefonare. Contemporaneamente dal conto della società vengono prelevate somme colossali, dell'ordine di centinaia di migliaia di euro ogni giorno, apparentemente per pagare i fornitori di sperma». «E dov'è il trucco?» «Come dov'è? Arriva la finanza e chiede: "Allora, fateci vedere dove tenete lo sperma". "Eccolo, prego, in quelle provette numerate." "E di chi è questo sperma?" "Nostro, naturalmente. L'abbiamo comprato!" "Questo lo sappiamo, ma da chi l'avete comprato? Di chi era prima... diciamo così... della consegna?" "Questo non ve lo possiamo dire, noi diamo ai nostri collaboratori la garanzia dell'anonimato. Ecco, vi preghiamo di verificare anche questa nota del Ministero della salute." "D'accordo per l'anonimato, ma come potete pagare centocinquantamila dollari in contanti per dieci millilitri di sperma?" "Se sapeste chi sono le persone che ce lo vendono! Non avete idea di che personaggi si tratti!".» Rimanemmo in rispettoso silenzio. Le fanciulle colsero gradualmente la tecnologia del riciclaggio. «Ma io non vorrei mai rimanere incinta grazie al seme di qualche premio Nobel. Meglio non avere bambini che averli in quel modo.» «La maggior parte delle persone desidera a ogni costo avere dei figli, perché non ha altro modo di raggiungere l'immortalità.» Anton ci regalò un'altra delle sue perle di saggezza. All'improvviso mi chiesi se davvero, grazie alla gravidanza di Maša, avrei raggiunto l'immortalità (mi era sempre sembrato che i figli fossero il miglior rimedio contro la solitudine esistenziale e la potenziale vecchiaia), ma le ragazze considerarono con una certa preoccupazione la piega che aveva preso il discorso e io di conseguenza non riuscii a seguire il filo della mia riflessione. «Sentite, ma da voi in Russia avvengono molte di queste truffe?» chiese Nathalie. «Sì. E anche di peggiori.»
«Ed è vero che da voi sparano per le strade?» «Può capitare, ma non è che succeda così spesso...» «E che la libertà di parola c'è solo per modo di dire?» chiese LouiseMarie, dopo averci spiegato che sarebbe presto diventata giornalista. «Sì, possiamo dire così. Da noi la libertà in genere è un po' un modo di dire. Tra le grandi parole che avete inventato voi francesi, libertà, uguaglianza e fraternità, scegliamo sempre l'uguaglianza» affermai in tono edificante. «Grazie a Dio, anche questo programma, come molti altri, non ci è mai riuscito troppo bene...» «E nonostante questo amate la Russia?» «La amiamo!» «Anche pericolosa e senza libertà?» «Certo!» confermammo entrambi con la massima convinzione. «E perché?» «Perché siamo degli incorreggibili idioti.» «Davvero?» «Davvero. E cosa dovremmo amare, secondo voi, l'Austria-Ungheria?» «Be', io per esempio sono francese e amo la Cina» disse Louise-Marie. «La Francia non la amo per niente.» «È perché da voi non hanno mai messo in galera nessuno per antipatriottismo. Altrimenti ameresti la Francia da brava bambina.» «E da voi per queste cose mettono in galera?» «Eccome. Basta che rilasci una qualsiasi dichiarazione antipatriottica e via, subito in galera. E questo nel caso migliore: se sei sfortunato possono anche fucilarti...» «Su, Anton, basta spaventare le ragazze. Adesso non mettono più in galera nessuno per antipatriottismo. Dimmi, Louise-Marie, come mai ami la Cina?» «Amo l'Estremo Oriente in genere. La Cina, il Giappone, la Thailandia, la Corea, il Vietnam...» «E perché?» «Mi sembra che abbiano un atteggiamento più giusto verso la vita e la morte.» «Non ho capito.» «Non abbiamo capito» mi corresse Anton con voce assolutamente sobria. «La cultura occidentale e quella orientale hanno un atteggiamento completamente differente nei confronti della morte. Per noi occidentali la mor-
te è un male. E di conseguenza la rinascita, il ritorno a nuova vita, la resurrezione dei morti sono un bene. Per il popoli dell'Estremo Oriente, invece, è tutto il contrario. Per loro la rinascita è un male, a cui cercano di porre fine con il minor numero possibile di reincarnazioni. La ruota di Samsara.» Non feci in tempo a chiedere a Louise-Marie perché questo le piacesse tanto, che Anton, in russo, mi disse pacatamente: «E questa è la spiegazione dello scarso successo degli hat laggiù». «No. O, per lo meno, non solo. Ti ricordo che sono tutti popoli molto antichi. E gli hat con i popoli antichi non hanno molto successo. Guarda con i copti, gli armeni o gli ebrei.» «Può essere» ammise Anton senza discutere, dopo di che tornò come se niente fosse all'inglese e propose un brindisi. «Al nostro incontro, per esempio!». Brindammo. Allora proposi di conoscerci davvero. Ognuno di noi avrebbe raccontato brevemente, ma precisamente chi era e perché. «Io sono Iosif. Ex imprenditore, attualmente combattente contro il principale pericolo che incombe sulla nostra Terra.» Rimasi un po' stupito dal fatto che nessuno mi chiedesse quale fosse il principale pericolo che incomba sulla nostra Terra, però accettarono tutti volentieri la mia proposta. «Io sono Anton. Chi sono: non lo so. Cosa ho di bello: non lo so. Che cosa ho bevuto oggi? No... non lo so... Non me lo ricordo... Bisognerebbe chiederlo ai barman...» «Io sono Louise-Marie. Futura giornalista. Amo viaggiare.» «Io sono Nathalie. Sono semplicemente una ragazza. Amo molto la vita.» Ci ravvivammo tutti, guardammo l'orologio e decidemmo che erano già le tre di notte. «Ma non vogliamo dormire, vero?» guardai le ragazze con una certa apprensione. «D'accordo, ma che programma ci proponete?» «Be', per esempio andare nel nostro albergo e vedere in dvd il film Giulietta e Romeo. Siamo o non siamo a Verona?» Anton quella sera era decisamente in forma. «Sul computer?» «Sul notebook.» «E c'è qualcosa da bere in camera tua?» «C'è il mini-bar. E anche il room service.»
«Mi sembra» dissi imitando la voce di Al Pacino «che sia una proposta che non si può rifiutare.» «E nessuno ha intenzione di farlo.» Qualche minuto dopo, mentre le ragazze disponevano sul tavolo il contenuto del mini-bar e Anton sistemava il notebook, io guardavo dalla finestra della nostra camera la facciata illuminata della cattedrale e sorseggiavo un bicchiere di whisky. Improvvisamente pensai: "Diavolo, ma siamo davvero a Verona!". Il resto della serata lo ricordo a sprazzi. Le scene rosse e azzurre di Romeo e Giulietta. L'ultima bottiglietta di whisky, che mi rovesciai addosso con un gesto maldestro. La scomparsa di Anton e Nathalie. Il letto capovolto. Le mani premurose di Louise-Marie che mi avevano rimboccano le coperte. Louise-Marie era stata un sogno. Forse non di tutta la mia vita, ma in ogni caso... Ma sarà un bene scoparsi un sogno, sia pure non di tutta la vita? Il mattino seguente scoprii che era un bene. Una notte così folle non mi capitava da un sacco di tempo. Peccato solo che non riuscissi a ricordarmi quasi niente. Comunque ero sicuro che certe sensazioni sarebbero rimaste dentro di me per sempre. Che differenza faceva se erano o meno dei ricordi? Già poco dopo essermi svegliato, a colazione, mi toccò scoprire che Anton era un vero gentleman, mentre io ero uno sporco maiale. «Hai proposto alle ragazze di improvvisare uno strip-tease lì sul tavolo, mentre vedevamo Romeo e Giulietta.» «Dio mio... Che vergogna! E loro come hanno reagito?» «Hanno riso. Avevi chiesto di ballare proprio sopra al notebook perché ci sarebbe stato un effetto luminoso stupendo.» «Mi vergogno di me stesso.» «Ci hai proposto di fare sesso di gruppo affermando che solo così emerge la vera natura dell'uomo. È avido? È disponibile?» «Non è male, come idea.» «Poi, quando si sono rifiutate, hai provato a offenderle.» «Ma... come?» «Hai cominciato a sparare sentenze. Hai detto che scopare due volte la stessa ragazza è impossibile proprio come bagnarsi due volte nello stesso fiume. Hai citato Eraclito.» «Ben detto!» «Poi deve esserti scattato qualcosa nella testa e hai detto che le donne
sono meglio di noi.» «Be', questo è vero. Per esempio, sono più belle.» «Certo. Questa notte, però, ci hai dato una spiegazione diversa.» «E quale?» «Hai dichiarato che sono più resistenti alla fatica.» «Le ragazze non si sono offese?» «Per niente. Erano entusiaste. Louise-Marie cercava di accarezzarti e di calmarti, ma tu non ti arrendevi proprio.» «Ricordo qualcosa del genere... E poi mi sembra di avere insistito sulla bellezza di Hatshepsut...» «Hai turbato l'ordine pubblico. Hai gridato che la Russia avrebbe fottuto tutti. Se non nel calcio, magari negli scacchi. E soprattutto l'hai gridato dalla finestra, a squarciagola.» «Niente male. E poi qualcuno mi accusa di scarso patriottismo... E mi sono dimenticato il tennis! Va bene, ma raccontami cosa hai fatto tu...» «Io? Ho accompagnato Nathalie nella sua camera.» «E non sei rimasto lì?» «No, naturalmente.» «Fedeltà ai princìpi?» «Avrei anche lasciato perdere i princìpi, ma Nathalie semplicemente non mi convinceva.» «Queste sono scuse, Anton. Tutte scuse. Sei un dogmatico.» «Il mondo è imperfetto. Sparirò con lui.» «A questo non vale la pena di pensare.» «Vale eccome, invece, ma più tardi. Adesso dimmi, piuttosto, perché il nome Louise-Marie mi fa pensare tutte le volte a Napoleone?» «Perché la seconda moglie di Napoleone si chiamava Maria Luisa.» «Ecco...» «E Dio sia con lei, con Maria Luisa, Anton. Bene,» dissi baldanzosamente «che programmi abbiamo?» «Farci un giro in città. Bere un po' di vino. E, finalmente, parlare. Sono tre mesi che non ci vediamo. Mi devi raccontare quello che hai scoperto sul numero. E io ho delle belle notizie da darti. A proposito, ho letto il tuo testo medievale. Dobbiamo parlare anche di quello.» «Avanti, allora! Tanto più che, se gli hat italiani non ci hanno ucciso o catturato questa notte, vuol dire che il nostro grigio amico non ha parlato. E le probabilità che continui a seguire questa tattica aumentano.» «Perché?»
«Perché la gente corre ad autodenunciarsi solo quando è in preda a un grande spavento. Ma queste emozioni si dissolvono rapidamente...» Mentre ci avvicinavamo alla reception per consegnare le chiavi, piacevolmente predisposti da queste ottimistiche considerazioni, decisi di completarle con le belle notizie che mi aveva preannunciato Anton. «Anton,» dissi, mentre restituivo la chiave al portiere «quali sono le belle notizie?» «Matvej sta bene. E abbiamo trovato Maša.» Io ero ancora lì, in piedi, davanti al banco della reception, e in un attimo, non so come, scivolai a terra e mi ritrovai seduto sul pavimento. Un pavimento così bello, tutto di piastrelle di cotto, un po' irregolari, con delle piccole scheggiature come scavate dal tempo. Capitolo Ventotto «Ripeti» chiesi ad Anton, guardandolo dal basso verso l'alto. «Abbiamo trovato Maša.» «Da molto?» «Non direi» rispose Anton evasivo. «E perché non me l'hai detto prima?» Cominciai a rialzarmi con fare minaccioso. «Perché non è una cosa che ti potessi dire per telefono. E ieri non eravamo in condizioni adeguate.» «Va bene.» Anche se non ero assolutamente d'accordo con lui. «Dov'è?» «In Israele, in un kibbutz.» «Come ha fatto a finire là?» «Quando mi hai telefonato e mi hai detto che era scomparsa, ho mosso le persone che potevano essere utili. E appena nella rete di vendita dei biglietti aerei è apparso il suo nome, è stata contattata dal servizio di sicurezza dell'aeroporto che l'ha messa in contatto con me. E io l'ho convinta che in Israele sarebbe stata più sicura che a Mosca. Sono andato a prenderla all'aeroporto e l'ho accompagnata in un kibbutz.» «Sei stato in Israele?» «Non sai in quanti posti sono stato...» Da tutti i punti di vista, compreso quello della salvaguardia della necessaria riservatezza, il comportamento di Anton mi appariva come un'assoluta cazzata, come gli comunicai, dopo un minuto di silenzio, con la franchezza che mi è propria.
«Ma tu, Iosif, sei proprio pazzo. Prima insulti la tua donna, poi il tuo amico. Per fortuna che io almeno non aspetto un bambino. E che sono calmo, anche se non ho ancora smaltito completamente la sbornia. Ma tu ti devi curare.» «Comunque, Anton... non potevi dirmelo?» «Quando ho visto Maša, tu eri già al monastero. E poi non volevo dirtelo per telefono, tanto più che dovevamo vederci entro un paio di giorni. E poi anche tu Maša la vedrai presto. Se tutto va come previsto...» «Voglio parlarle... Come sta?» «Bene. Arriviamo fino al ristorante e poi la chiami.» Cinque minuti dopo eravamo al ristorante che non ero riuscito a raggiungere il giorno prima (edera, antica muraglia, fiume, cigni). Strada facendo mostrai ad Anton la strada in cui avevo incontrato lo hat. Ci sedemmo a un tavolino e Anton cominciò a studiare il menu. Non resistetti più. «Ma dammi il tuo telefono, adesso...» «Per carità, te lo do subito» Anton mi porse il cellulare. «Il numero è sotto "Maša". L'hai trovato? Quando parli, non dare troppi particolari. E non andare così lontano. Non ti sento comunque.» «Ciao, sono io!» «Ciao...» «Come stai?» «Io sto bene!» «Anch'io, più o meno...» Pausa. «Senti, perdonami. Non sono stato molto...» «Va bene, dai. Perdonami anche tu. Anch'io non sono stata molto...» Pausa. «Come ti senti?» «Bene.» «E la tua... voglio dire... la gravidanza... come va?» «Va avanti per conto suo, senza problemi.» «A che settimana sei adesso?» «All'ottava.» «Io, tra l'altro, ti volevo dire... cioè... in generale non mi importa niente di chi sia questo bambino. Quello che conta è che è tuo... cioè... be', hai capito?»
«Ho capito. Il bambino è tuo.» «Per me è lo stesso. Te lo assicuro. È lo stesso.» «E io ti dico che è tuo. Ne sono sicura. Ed è un maschio.» «Be', allora, insomma... Sì? Be', allora... anche se per me è lo stesso. Ma come fai a sapere che è un maschio?» «Lo so. Lo sento.» «È una cosa pazzesca... È stupendo. Sì...» Pausa. «Maša, Anton dice che ci vedremo presto!» «Be', se lo dice Anton...» «No, parlo seriamente. Arriviamo tra pochi giorni. Ci resta da fare ancora qualcosa e poi arriviamo.» «Non andare a cacciarti nei guai!» «No, no. Cosa dici! Quali guai? E... Maša, mi ami?» Pausa. «Sì... ti amo.» «Benissimo, allora! Abbi cura di te. Arrivo presto.» «Stai attento!» «Certo! Se me lo dici tu, ti ubbidirò. Adesso sarò il tuo tappetino.» «Bravo. Ubbidiscimi.» «E tu aspettami!» «Va bene.» «Però aspettami tantissimo!» «Va bene!» «Ciao, allora!» «Ciao!» Dire che mi sentii meglio non avrebbe senso. Fui semplicemente travolto da una sorta di felicità cosmica. Universale. E nella mia mente risentii una canzone che avevo quasi dimenticato. Che credano pure mio figlio e mia madre Che io non ci sono più, Che smettano pure gli amici di aspettarmi, E, seduti accanto al fuoco, Bevano un calice amaro Alla memoria della mia anima... Aspettami. E non ti affrettare
A bere insieme a loro. Quando ero piccolo questa canzone me la cantava mia nonna. Poi, quando sono cresciuto e ho letto Simonov, sono stato quasi d'accordo con lei, che la considerava la migliore poesia dedicata alla guerra. Anzi, toglierei addirittura il "quasi". Mia nonna aveva ragione. Lei aveva aspettato mio nonno, e lui era tornato. Decisi a mia volta di tornare da Anton. «Tutto bene?» «Ottimamente!» «Ringraziamo il cielo!» Anton mangiò abbondantemente, bevve due birre e approdò a una condizione di assoluto benessere. Quanto a me, dopo aver parlato con Maša, mi sentivo come se mi avessero tolto qualche Everest dalle spalle e cominciai a raccontare ad Anton quello che avevo capito a proposito del numero. Sottolineai il ruolo centrale che aveva secondo me, e anche secondo Domenico, e il fatto che, nella sua forma più antica, era un po' diverso: 2-2-24-6-12. La cifra 15 era comparsa in sostituzione della lettera latina P, a sua volta inserita al posto del disegno di una piramide. Gli spiegai perché, secondo me, il numero non poteva indicare né una distanza, né un tempo, né una parola in qualche lingua antica. La distanza non era calcolabile, senza un punto di partenza e un'unità di misura. Con il tempo c'era lo stesso problema. E se fosse stata una parola di qualche lingua antica, mettiamo copto o antico egizio, in Vaticano l'avrebbero già decifrata da tempo. «E che cosa significa, allora?» «Un qualche concetto universale. Qualcosa di abbastanza semplice. E concreto. Concreto perché è efficace e pericoloso. E universale perché la sua decifrazione è interna al numero stesso.» «È possibile che contenga il vero nome di Dio?» «E che, una volta pronunciato, porti al capovolgimento del mondo?» «Per esempio.» «Mi pare improbabile... Troppo enfatico. E poi anche in questo caso non credi che gli inquisitori del Vaticano o i cabalisti israeliani ci sarebbero arrivati?» «Penso che si tratti di una data. Con le unità di tempo le cose sono relativamente semplici. Possono essere solo riferimenti astronomici universali. E precisamente, o giorni, o ore astronomici. Per quanto riguarda l'inizio della datazione, poi, anche qui ci sono poche ipotesi possibili: la morte di Hatshepsut, o la sua nascita.»
«Anton, in questo caso otterresti un risultato molto approssimativo. Non credo che ti potrà essere molto utile...» «Allora dobbiamo trovare la mummia e adottare il metodo del carbonio radioattivo. Calcolare la quantità dell'isotopo di carbonio C14. In un organismo morto la sua quantità diminuisce ogni anno a causa della disintegrazione radioattiva, mentre, finché l'organismo è vivo, grazie agli scambi metabolici, resta invariato.» «Trovare la mummia? Una bella idea! Semplice, poi: andiamo là e la troviamo! Lasciamo perdere, dai...» Presi il cellulare, attivai la calcolatrice, digitai 2224612 e cominciai una serie di calcoli. «Se fossero giorni, sarebbero seimila anni e qualcosa. Niente di interessante. Considerando che i copti avevano inserito il 12 in un registro a parte, potremmo considerare il 22246 come numero dei mesi lunari. Un attimo... Questo è già più interessante. Sarebbero all'incirca 1853 anni. Non esattamente, perché ho diviso per dodici, mentre in un anno non ci sono dodici mesi lunari, ma... adesso vediamo... dodici e sei decimi. Perciò sarebbero 1765 anni. Anche se, a quanto ricordo, nella tabella cronologica di German in questo periodo, nella storia degli hat, non è successo niente di interessante. Il 12 allora potrebbe indicare il mezzogiorno. O la mezzanotte. O il plenilunio. O la luna nuova. Nemmeno il diavolo riuscirebbe a capirci qualcosa! A proposito, sai perché il sistema a base 12 ha avuto tanto successo nel mondo antico, al punto che la parola "dozzina" è quasi uguale in tutte le lingue indoeuropee, e i mesi, le ore del giorno e della notte, le tribù di Israele, gli apostoli, i segni dello zodiaco e non so cos'altro sono rigorosamente dodici? Insomma, è decisamente un numero divino. Anche considerando solo la nostra operazione.» «Perché il 12 si divide per 2, per 3, per 4 e per 6. Mentre il 10, per esempio, solo per 2 e per 5. Per questo soprattutto i calcoli che hanno conseguenze operative sono più comodi su base 12. Due dodicesimi più tre dodicesimi uguale a cinque dodicesimi. Abbiamo sommato un sesto con un quarto.» «Sì, però non cambia niente. Per applicare il metodo del carbonio radioattivo dovremmo improvvisarci archeologi e trovare la mummia.» «Onestamente non sono sicuro che sia il caso di andare così lontano. Perché fissarci così tanto su questo numero? Innanzitutto non è che in sette cifre si possa nascondere granché. In secondo luogo, in Vaticano su questo punto hanno già lavorato un bel po', come sappiamo. In terzo luogo, non
sono convinto della tua idea secondo la quale il numero è decifrabile senza bisogno di una chiave esterna.» «Se ci fosse bisogno di una chiave per decifrare il numero, Kem-Atef non avrebbe cercato di confondere le acque con tanto impegno. Sono convinto che il numero nasconda un segreto di grande importanza, direi addirittura di importanza vitale per gli hat.» «Ma anche se fosse così... La chiave potrebbe essere andata smarrita dopo Kem-Atef. Per quanto riguarda la sua importanza, poi... Eri convinto che al monastero zen avresti trovato chissà quali rivelazioni... e alla fine?» «Le cose non sono così semplici. Può darsi che sia stato proprio per il digiuno e la preghiera davanti al monastero che ho acquisito la capacità di riconoscere gli hat.» «Sì, hai ricevuto una grossa illuminazione.» Ma sarà stata davvero un'illuminazione? E dove se n'era andato ora il mio dono. Che fosse già svanito? Dissolto? Si sente di tutto, nella vita. Coincidenze fatali, premonizioni, telepatia, visioni profetiche e altre amenità. Appena vengono sottoposte a esami scientifici, si squagliano come neve al sole. «Sai, secondo me non è nemmeno proprio un dono. È semplicemente un'intensificazione della percezione. Secondo me anche tu puoi sentire qualcosa, sebbene forse non così chiaramente. Dagli hat spira una specie di freddo, di buio, di grigiore. Ti danno un'impressione spiacevole, di cattiveria, grettezza. Penso che se ti mostrassi una serie di foto e ti indicassi "hat non hat, hat - non hat" e così via, impareresti subito a distinguerli anche tu. Non c'è bisogno del terzo occhio. È solo una percezione della realtà un po' più affinata. Non hai mai incontrato qualcuno che ti era stranamente antipatico, quasi senza che te ne rendessi conto? Perché sono persone normalissime, sorridono, cercano anche di piacerti, ma tu senti che emanano qualcosa di negativo.» «Certo che ho incontrato persone così. Erano hat, allora?» «Non lo so. O erano hat, anche se a questo punto mi pare che ce ne sarebbero troppi, o persone normali predisposte ad affiliarsi alla setta. Questo forse è più probabile. In tal caso l'annuncio che mi aveva commissionato FF era rivolto a loro. L'uomo che ho incontrato ieri era chiaramente uno hat. Al cento per cento. Non ho nemmeno un'ombra di dubbio. Ma la condizione di hat non è legata esclusivamente agli uomini. Diciamo che ci sono forze dalla cui parte sei pronto a schierarti, interessi che senti vicini, che condividi, che sostieni, a volte magari in modo incerto e confuso, altre vol-
te con maggior consapevolezza. E ci sono, al contrario, forze che per qualche motivo non ti piacciono, da cui senti provenire un'energia negativa, che magari in qualche caso possono anche attrarti, ma ti suscitano comunque un senso di inquietudine. Capisci?» «Ma tu, dopo lo studio delle carte di German e del manoscritto vaticano, sei dell'idea che la storia degli ultimi tre o quattro millenni sia tutta da interpretare come una macchinazione degli hat?» «Ma no, certo. In generale non sono portato a interpretare la storia, ma, se proprio insisti, credo che ci siano molti elementi che, da soli, non bastano a spiegarla, tra cui il ruolo della personalità, la lotta di classe, o la semplice casualità. Tra questi metterei anche l'attività degli hat. Diciamo che è solo una delle forze che influiscono sul mondo. Non quella più positiva, lo ammetto, ma nemmeno l'unica negativa, semplificando molto la questione.» «Allora la chiave per sconfiggerli dovrebbe essere un valore astratto. L'amore, l'amicizia, la fede.» «O, al contrario, qualcosa di concreto. Una mitragliatrice, una baionetta, una granata. Senti, piuttosto, Anton, non credi che finalmente dovresti spiegarmi i nostri programmi per il futuro?» «Questa sera tardi voliamo a Mosca.» «A Mosca? Da Matvej?!» «Da Matvej. E non solo...» Cominciai a sentirmi invadere dall'entusiasmo. «E poi?» «Poi in Israele.» Pensai che in tutta la mia vita non avevo mai vissuto un giorno più felice di quello. Perfino il giorno in cui avevo portato via Maša da German non era stato così. Ero fuori di testa, quel giorno, avevo sparato, ucciso, stavo scappando braccato dai nemici. Adesso invece sopra di me c'era un cielo azzurrissimo solcato da soffici nuvole bianche. Anton, tuttavia, aveva conservato una certa cautela: «Iosif, nessuno è al corrente dei nostri piani, nemmeno Dina. Lei pensa che io sia ancora negli USA». «Questo sì che è un progresso. Hai cominciato a ingannare tua moglie? I miei complimenti.» «Nel suo stesso interesse.» «Certamente. E nell'interesse di chi si ingannano le mogli, di solito? Comunque non ho intenzione di raccontare i nostri piani né a Maša, né a
mia madre, né a Dina. È questo che volevi sentirmi dire?» «Sì.» «Senti, ma perché hai fissato il nostro incontro a Verona, invece che a Gerusalemme?» «Tutti i servizi segreti sono uguali. Troppo curiosi, cioè. E io volevo evitare le cimici nascoste sotto i tavolini e i microfoni laser inseriti negli stipiti delle finestre.» Mi guardai intorno. Il nostro tavolino era all'aperto. Verso il fiume fioriva spensierata la camomilla. Non sembravamo minacciati da alcun microfono. Anton chiese il conto, poi disse: «Va bene. Andiamo in albergo». «Volevo mostrarti la città. L'arena di Verona è un anfiteatro romano che non ha nulla da invidiare al Colosseo. L'acustica poi è incredibile, qui si sono esibiti Placido Domingo e Pavarotti. Nella cattedrale c'è una tela di Tiziano, L'ascensione della Vergine. C'è una fortezza medievale che ti farebbe impazzire, è una copia del Cremlino di Mosca, o meglio, il Cremlino è una copia di questa. Molto più grande, questo è vero. Aristotele Fioravanti prima si è allenato a Verona e poi è venuto a Mosca. Ci sono molti posti divertenti. La casa di Giulietta, per esempio, con il famoso balcone.» Anton però era in preda all'ansia di concludere. «Un'altra volta, magari. Adesso dobbiamo trasferire tutto quello che abbiamo scoperto sugli hat in un formato cifrato. O meglio, tutto quello che hai scoperto. I dati che ho raccolto io li ho lasciati in Israele, dovrai vederli anche tu.» «E cosa ne facciamo di questo file?» «Lo consegniamo agli specialisti. Israeliani, per esempio.» «Non amo i servizi segreti. Perché hai scelto gli israeliani?» «Non li ho scelti io, sono stati loro a cercarmi. E poi mi sembra che gli hat con gli ebrei non siano mai andati d'accordo.» «Questo è vero, si nota anche dai documenti di German. E che cosa ne dicono i servizi segreti?» «Se la cavano con qualche battuta, tipo che sulla terra di popolo eletto ne basta uno.» «Mi ha stufato questa storia dei popoli eletti. Spero che tu non ci creda...» «Io no, ma gli hat ci credono.» «Questo è certo.» «Ho pagato. Andiamo.» In camera Anton aprì il notebook.
«Ti interessa, in quanto specialista della storia antica e medievale degli hat, sapere cosa hanno fatto nel ventesimo secolo?» «Le due guerre mondiali?» «Tra l'altro. Prendi un qualsiasi decennio del ventesimo secolo, scegli il più tranquillo quanto a conflitti militari, rivoluzioni e altre occasioni di distruzione del genere umano. Solo come esempio.» «Gli anni Sessanta, direi... Anche se... no, c'è stata la guerra del Vietnam... I Cinquanta? Nemmeno... ci sono state la guerra di Corea e diverse rivoluzioni... Forse gli anni Venti. Era finita la prima guerra mondiale, erano tutti esausti. Non avevano ancora cominciato a preparare la seconda. Sì, penso che gli anni più tranquilli del ventesimo secolo siano stati proprio gli anni Venti.» «Hai scelto gli anni Venti?» Anton aprì Excel ed eseguì qualche operazione con il touchpad. «Guarda! Ecco l'elenco delle iniziative sponsorizzate dagli hat negli anni Venti. È solo una tabella che ho preso da hrono.ru. E gli anni Venti sono stati davvero il decennio più tranquillo del secolo. Non stare lì a leggere tutto, è molto lungo. Dai solo un'occhiata!» La lettura, per quanto sommaria, della tabella mi lasciò incredulo. Tra guerre, rivolte, colpi di Stato, sembrava che il nostro mondo non avesse avuto un solo momento di pace neppure in quel decennio! In realtà non mi sembrava neppure il modo di procedere degli hat... «È strano, però... io pensavo che fossero gli uomini a scatenare le guerre, e che gli hat si limitassero a favorirle...» «È così.» «Capisco. Non è questo il punto. A giudicare dai dati in nostro possesso, il Chimico, come del resto Domenico, è stato ucciso per avere tentato di abbandonare la setta subito dopo avere ricevuto il secondo grado di consacrazione. Perciò possiamo dire di avere scoperto la causa della morte del Chimico.» «Tu l'hai scoperta. Non essere modesto.» «Non ha importanza. Il secondo grado di consacrazione prevede un rituale che culmina con il seppellimento di un bambino ancora vivo. Il cosiddetto "culto della terra". Cosa che non tutti riescono a sopportare. Questo significa che gli hat al terzo grado di consacrazione, che, tra l'altro, sono la maggioranza, non sono ancora dei veri malvagi, delle creature del male. Sono semplicemente uomini, come il Chimico, o come Domenico. O come quell'italiano che ho incontrato ieri. Sono entrati nella Confraternita attirati
dalla possibilità di accedere a conoscenze segrete, o di gestire un grande potere e molto denaro. O semplicemente così, per un ghiribizzo. Come possono giungere a scatenare guerre in cui muoiono decine, se non centinaia, di migliaia di uomini?» «Vuoi dire che il Chimico ha ucciso un bambino?» «Spero di no... Anche se... Non lo so, Anton... Onestamente, non ci voglio pensare. Dimmi, come potrebbero fare, gli hat al terzo grado di consacrazione, a scatenare tutte queste guerre?» «Penso che nessuno dica loro che hanno la missione di scatenare a qualsiasi costo una guerra con il massimo numero di vittime da ambedue le parti. Li spingeranno a sostenere un politico invece di un altro, e daranno loro i mezzi per farlo. O magari faranno leva sul loro spirito patriottico. E poi anche i politici possono essere hat, e aver già raggiunto un grado di consacrazione superiore. Questo significa che sono ancora meno sensibili ai princìpi dei politici normali, non hat. In altre parole, non solo non hanno princìpi, ma ne hanno di negativi. Ammesso, naturalmente, che si possa utilizzare il concetto di grandezza negativa per i princìpi e le norme morali.» «Anton, volevo appunto chiedertelo: ma esistono, almeno in linea di massima, dei politici per bene? Tu ne conosci molti personalmente...» «Esistono, ma sono rari. Casi sporadici. Per diventare un uomo politico, bisogna superare una difficile selezione al ribasso proprio per quanto riguarda la moralità. Ma ora, mettiamoci al lavoro!» «In relazione alla rafforzata minaccia di attacchi degli hat in questo periodo in Russia, raccomandiamo di adottare urgentemente misure speciali per la ricerca e l'identificazione del capo della società degli hat a Mosca, il Gesser dei Gesser (il Santo dei Santi). In caso di decapitazione della setta, la sua attività risulterebbe rallentata per un periodo di tempo significativo. Raccomandiamo inoltre di svolgere ricerche riguardo al significato del numero 2-2-2-4-6-12-P (noto anche come 222461215), anche con l'aiuto di computer ad alta efficienza e dei reparti speciali di decrittazione dei diversi servizi segreti, poiché nel numero in questione è codificata una minaccia gravissima per l'esistenza stessa della setta.» Così, in stile strettamente professionale, si concludeva il documento che Anton e io stendemmo quel pomeriggio. Stavo rileggendo il testo e correggendo qualche refuso, quando Anton, dopo aver dichiarato che gli era venuta una nuova idea, cominciò a rovistare nella borsa. Alla fine ne estrasse uno strano congegno elettronico, che si mise subito ad ammiccare
cortesemente con un diodo verde. Con quell'aggeggio Anton cominciò a percorrere lentamente le pareti della nostra camera. «Cos'è quello, Anton? Un rilevatore di mine? Un detector di hat?» «Quasi. È un rilevatore di cimici.» «Trova le cimici? Pensi che ci stiano ascoltando?» Non avevo finito di pronunciare l'ultima parola, che la lucina del congegno passò al rosso. Anton si fece subito cupo, staccò cautamente dalla parete un quadro con una veduta della fortezza veronese e ne esaminò a lungo la parte posteriore. «È un lavoretto recente» disse in tono tetro. «Massimo due settimane. Per dirlo con sicurezza, ci vorrebbe un esperto.» L'azzurro del cielo cominciava a essere invaso da nuvole minacciose. I fiorellini di camomilla, poi, erano proprio spariti. «Prova a capire con il tuo sesto senso se questo aggeggio è un pensierino degli hat o se fa semplicemente parte del corredo dell'albergo.» Staccò dalla cornice una scatoletta bianca delle dimensioni di una grossa moneta e me la porse con aria schifata. Me la rigirai tra le mani. Perché Anton non aveva pensato prima di controllare la nostra camera? Anche se forse non sarebbe cambiato molto... «Aspetta, restituiscimela per un secondo...» Gliela diedi. Con un coltellino Anton estrasse una microscopica pila e mi restituì la scatoletta. Me la rigirai tra le mani, ma non riuscii comunque a concentrarmi. Come facevo a capirci qualcosa? Che cosa ci sarebbe successo? Che cosa sarebbe successo a Matvej? Che cosa sarebbe successo a Maša? Possibile che gli hat fossero così forti? Possibile che fossero davvero dappertutto? In tutte le città? In tutte le camere di tutti gli alberghi? In tutti i conflitti armati? In tutte le televisioni? Nelle vite di tutti gli uomini? «Allora?» «Non lo so, Anton! Ahimè, non lo so proprio.» «Va bene. Nessuno muore due volte. E una volta, si sa, non si scampa. Andiamo a Mosca. Se non ci arriviamo, vuol dire che non era destino.» «Vuol dire che non era destino» ripetei come un'eco. «Ma quelle francesine non ti sapevano di hat?» «Le ragazze? Louise-Marie? Non saprei...» «Strano. Sono state loro ad attaccare discorso. Sono state loro ad autoinvitarsi. Possibile che...» «Non lo so, Anton. Non so più niente.»
Capitolo Ventinove Salii la scaletta che portava all'aereo come si sale al patibolo, anche se il viaggio fino all'aeroporto non ci aveva riservato alcuna sorpresa. Non so quali sentimenti si agitassero nell'animo di Anton. Dall'esterno appariva assolutamente impeccabile: tranquillo, concentrato, prudente. Quando l'aereo decollò, mi rilassai un pochino e provai a guardarmi intorno. Tutto quello che mi circondava aveva un'aria molto strana. Un inglese direbbe: «Weird». A cominciare dalla rotta: Lima-Milano-Mosca. I passeggeri, provati dalla lunga traversata, non sembravano hat, ma nemmeno persone del tutto normali. C'era un indio, avvolto nel suo poncho, che si era calato un enorme sombrero praticamente fino ai baffi. Poi un piccolo gruppo di suore cattoliche, tutte in nero, tutte con un rosario di legno nero tra le dita: non si capiva se dormissero o stessero pregando. Che cosa avrebbero potuto fare a Mosca, la capitale della confessione ortodossa? Probabilmente Mosca era solo una tappa e loro volavano verso una qualche India. E c'era una donna rossiccia, robusta, con un seno di una misura inverosimile, gli stivali di pelle a metà coscia e le calze rosse, che fissava con grande interesse il suo libro, ma si dimenticava di girare le pagine. Alla mia destra Anton dormiva, con una strana espressione di virile risolutezza sul volto, come un antico romano dopo la morte. Alla mia sinistra sedeva un ragazzo dall'aspetto decisamente insolito: grandi occhi umidi, lunghi baffi neri, capelli ondulati anch'essi lunghi e neri. Sulle spalle strette aveva una giacca che ricordava le casacche degli ussari. Le sue dita volavano sulla tastiera del notebook, ma senza toccare i tasti. Si limitava a seguire il ritmo di una musica che mi raggiungeva attraverso il rombo dell'aereo. Sullo schermo girava un visualizer. Nel corso del volo venni a sapere che il mio curioso vicino era di nazionalità ungherese. Eravamo già sopra Mosca quando Anton ricominciò a parlare. «Forza, decidiamo la strategia da seguire nei prossimi giorni.» Io non avevo alcuna voglia di pensare. «Che bisogno abbiamo di una strategia? Tu hai un piano, seguiamo quello e in caso di necessità improvvisiamo al momento.» «Non ho alcun piano, ma all'aeroporto verrà a prenderci qualcuno che questo piano ce l'ha.»
Cercai di rinfrancarmi e mi immaginai una tazzina di caffè nero fumante. «In questo momento non riesco a ragionare troppo lucidamente. Chi è questo qualcuno?» «Una ragazza. Che tu conosci, tra l'altro. Hai perfino provato a farle la corte.» Mi sentii un po' meglio anche senza caffè. «È la direttrice finanziaria?» «Interessante. Hai provato a fare la corte alla direttrice finanziaria?» «No. Piuttosto ci ha provato lei con me. Quando ero dentro.» «Non è la direttrice finanziaria.» «E chi è?» «Vedrai. Manca meno di un'ora. Ti aspetta una piacevole sorpresa.» L'aereo stava per atterrare e vibrava come una lavatrice prima dell'orgasmo finale. Un tempo quei sobbalzi mi avrebbero terrorizzato, ma adesso la sensazione di essere guidato dall'alto aveva cancellato qualsiasi paura. Poco prima di passare il controllo di frontiera, mi ricordai degli hat e del mio passaporto falso e cominciai a preoccuparmi, ma a Šeremet'evo-2 le solite poliziotte assonnate si limitarono a porre qualche timbro con aria tetra. Evidentemente Anton non si era sbagliato, scegliendo un volo dalla rotta così assurda. E non si era sbagliato nemmeno a proposito dell'italiano. Solo sulle francesi si era sbagliato. Ed era assolutamente possibile che la cimice in camera fosse una misura normale per la polizia italiana impegnata nella lotta contro Cosa Nostra. In dogana un pastore tedesco mi congedò con un mezzo sbadiglio. Attraversammo la folla scura dei tassisti e ci ritrovammo finalmente all'aperto. Le cinque del mattino. Un'alba grigiastra. Superammo rapidamente la zona dei parcheggi e ci ritrovammo davanti al Novotel, un parallelepipedo grigio-specchio caratterizzato dal servizio sgarbato e dall'atteggiamento scostante dei portieri. Avevo sempre avuto l'impressione che l'avessero costruito apposta per spaventare gli stranieri. Se già nell'hotel di un aeroporto internazionale, a due ore di volo dall'Europa, comincia una tale inquietante mescolanza di civiltà e barbarie, cosa troveremo dieci chilometri più in là? Per capire che in realtà non c'è niente da temere, bisogna innanzitutto superare quei dieci chilometri e, in secondo luogo, sapere il russo. O almeno avere degli amici russi pronti ad accompagnarti. Mosca non è la meta ideale per i turisti solitari.
Attraversammo la hall ed entrammo nel ristorante. Nell'angolo più lontano era seduta una ragazza dalla treccia bionda. Effettivamente quella treccia l'avevo già vista da qualche parte... Mentre ci avvicinavamo, la ragazza si girò e io sussultai. L'infermiera Anja. Era lei l'agente dei servizi israeliani. Qualcosa cominciava a chiarirsi. Per esempio il mio salvataggio miracoloso quando la Mercedes aveva tentato di investirmi. Ma come avevano fatto gli israeliani a fiutare la cosa? Noi l'operazione Solitudine 12 l'avevamo creata il giorno prima della mia partenza per Tel Aviv... Intanto l'avevamo raggiunta. Maglione lungo, beige. Jeans neri. Ma dov'erano quelle fossette sulle guance che in Israele mi avevano fatto quasi impazzire? Niente fossette. Aveva gli occhi stanchi, come se avesse passato gli ultimi tre giorni e tre notti a studiare qualche documento segreto. Il mio «salve, mia cara» rimase ostentatamente senza risposta. Anton si limitò a un «ciao!» abbastanza nervoso, in risposta al quale sentimmo: «Abbiamo poco tempo. Dovete seguire strettamente le mie istruzioni. Non fate domande inutili. Eseguite gli ordini con la massima precisione. È chiaro fin qui? Il nostro piano è composto da due...» «Anja, e se ci sedessimo un momento e ordinassimo un caffè? Intanto potresti spiegarci il tuo piano. Siamo appena sbarcati da un volo notturno... E anch'io ho delle domande da farti.» Anja non disse nemmeno una parola. Non alzò nemmeno le spalle. In silenzio ci fece cenno di sederci. Io ordinai tre espressi. «Spero, Iosif, che tu mi abbia interrotta per la prima e ultima volta. Il nostro piano è composto da due parti. Prima parte: liberiamo Matvej. Seconda: vi portiamo tutti e tre fuori dal Paese.» Disse esattamente così: «Dal Paese». «Ma...» «Non c'è alcun "ma". O siete d'accordo con questo piano, o ci separiamo immediatamente.» Anton taceva con un'aria molto severa. Stabilii che se avessi detto qualcosa che contrastava con la sua strategia, mi avrebbe corretto. «Siamo d'accordo, ma chiediamo delle spiegazioni. Perché dobbiamo andarcene?» «Perché non possiamo continuare a sprecare le nostre forze per proteggervi. Per noi è un momento molto difficile. Credetemi: non possiamo continuare a occuparci di voi.» Non avevo alcuna difficoltà a crederci. Annuii in segno di approvazione. «Come avete fatto a sapere del mio arrivo a Tel Aviv? Allora, tre mesi
fa?» «Appena sulla stampa e in internet sono cominciate ad apparire le tre parole e il numero abbiamo individuato la PR Technologies. E appena hai chiesto il visto per Israele con la raccomandazione di Anton, abbiamo deciso di contattarvi. Abbiamo cominciato a collaborare con Anton già prima del tuo arresto e, dopo la tua fuga dal monastero, abbiamo cominciato ad aiutarvi.» «E mi avete aiutato a fuggire da Vladivostok, a raggiungere il Giappone e poi a rintracciare Maša?» «Esattamente. È bello avere a che fare con persone sagaci. Ripeto la domanda: siete d'accordo con il piano?» «Lo abbiamo già accettato.» «Voglio sentire Anton.» Pausa di cinque secondi. Pensai che Anton non fosse d'accordo e che adesso tutto sarebbe crollato. Tuttavia Anton, inaspettatamente, accettò, sia pure con un semplice cenno del capo. La cosa non mi piacque comunque, mi sembrava che Anton nascondesse qualcosa, ma le parole di Anja mi distrassero da quel pensiero. «Va bene. Cominciamo con la prima parte del piano. Abbiamo messo a punto due scenari. Scenario A, favorevole. Ieri sera nel reparto in cui è ricoverato Matvej è arrivata una direttiva scritta con la richiesta di mettere a disposizione dei laboratori giuridico-psichiatrici dell'FSB uno dei pazienti. Che non è Matvej. È chiaro fin qui?» «Chiarissimo.» «Nella squadra degli assistenti ci saremo sia io, come infermiera, che voi, come inservienti. L'ambulanza, gli abiti... tutto il necessario è già pronto. Quando arriviamo al reparto presentiamo i nostri documenti relativi non al paziente già richiesto, ma a Matvej. Il personale non ha motivo di mettersi a discutere con noi. E non ha nemmeno il tempo di avvertire i nostri avversari. Mettiamo Matvej in macchina e ce ne andiamo. Torniamo al Novotel e prendiamo un volo notturno per Istanbul. E da lì partiamo domani mattina.» «Per Israele?» «Sì, per Tel Aviv.» Anton intervenne: «Visto che c'è uno scenario A favorevole, suppongo che ce ne sia anche uno B sfavorevole...». «Sì, entrerà in funzione nel caso di uno sviluppo non corretto dello scenario A, ma in questo caso non è prevista la vostra partecipazione.»
«Ah, adesso capisco meglio» osservò Anton pensieroso. «Mi stavo scervellando per capire perché ci aveste coinvolti... Adesso mi è chiaro. Tutte le dotazioni di uomini che ti sono state assegnate per questa operazione devono essere disponibili in caso di passaggio al secondo scenario...» Anja accolse il ragionamento di Anton con un silenzio sepolcrale. Io cercai di sostenere la conversazione: «Ma che cosa succede se si rifiutano di consegnarci Matvej?». «Dirò che evidentemente ci hanno dato i documenti sbagliati e ce ne andremo come se niente fosse.» «Senza Matvej?» «Sì. Senza Matvej.» «E se Matvej ci riconosce?» All'improvviso immaginai me e Anton nel ruolo di portantini. Anja sembrava definitivamente stanca di quella conversazione. Al suo posto mi rispose Anton: «Si renderà conto che non è assolutamente necessario informare degli estranei della cosa». «Quando comincia l'operazione?» «È già cominciata. Queste sono le chiavi della mia camera. Secondo piano. Andate, fatevi una doccia e cambiatevi. In camera c'è tutto quello che vi serve, in diversi pacchi. Io arrivo tra una ventina di minuti per truccarvi. L'ambulanza sarà qui tra trentotto minuti.» Guardò l'orologio, un grosso orologio nero, digitale. Brutto, ma probabilmente molto prezioso... «È ora.» Ci scambiammo un'occhiata e ci avviammo verso la camera. «Devo dire che a Gerusalemme, con me, Anja era completamente diversa. Più dolce, romantica e misteriosa...» mi lamentai con Anton. «Se sapessi che fatica ho dovuto fare per convincerla a occuparsi di Matvej... Ma le ho detto che senza di lui né io né tu avremmo preso in considerazione l'idea di una collaborazione.» «Hai fatto bene. Con i servizi bisogna essere chiari... Ma che servizi sono, questi, a proposito? Il Mossad?» «Si chiama Lishka. La denominazione completa è Lishkat ha-Kesher.» «È la prima volta che lo sento...» Anton non rispose. Venti minuti più tardi arrivò Anja, che ci truccò. A me applicò dei radi baffetti neri che avevano qualcosa di felino. La testa di Anton fu abbellita da una sontuosa parrucca ossigenata che spuntava dal berretto di servizio. Dei grossi occhiali di plastica marrone gli davano una
certa rigidità che Anton in vita sua non aveva mai avuto. Nel senso che Anton aveva una sua rigidità, ma un po' inglese, fine. Adesso invece tutto era come doveva essere. Alla russa. Rigido e ottuso. Anja invece si era trasformata in una vamp di mezza età dall'aria sciupata. Occhiaie nere, rossetto sgargiante e orecchini troppo lunghi. Il berretto se l'era tirato quasi sugli occhi, dopo essersi fissata la treccia stile Yulia Timoshenko. Alle sei e trenta precise uscimmo dalla porta di servizio dell'albergo e salimmo sull'ambulanza (avevo l'impressione di avere già visto da qualche parte i baffi rossi dell'autista). Durante il viaggio raccontammo ad Anja le stranezze che avevamo notato a Verona ed esattamente due ore dopo, completi di berretti, camici ed espressione imperturbabile, facevamo il nostro ingresso nell'accettazione della clinica. Anja presentò al custode una serie di carte e quello ci fece segno di passare. Salimmo al secondo piano ed entrammo nel reparto di Matvej. Il cuore mi batteva all'impazzata. All'ingresso del reparto Anja consegnò con aria annoiata i documenti all'infermiera di turno e sbadigliò vistosamente. L'infermiera, una donna robusta già avanti con gli anni, sbadigliò subito in risposta e guardò le carte. Subito però cambiò espressione: «Dovete esservi un po' addormentati, all'FSB! Il paziente è scappato ieri notte, e voi venite a prenderlo oggi? A parte che mi avevano detto che sareste venuti a prendere Pronkin della stanza numero sei...». «Come "è scappato"?» Non riuscii a trattenermi e lanciai prudentemente un'occhiata ad Anja. Aveva un'espressione assolutamente impenetrabile. «Mi hanno detto che ha tagliato i vetri della finestra e si è calato con un lenzuolo. Ma fareste meglio a chiedere al turno di ieri. Io sono arrivata stamattina.» Insistetti un po'. «Ma come è possibile? E la cinta muraria?» Lanciai un'altra occhiata a Anja. Non sembrava irritata dalle mie domande. Il suo sguardo indifferente era fisso al muro. «Cercate di capirlo voi come ha fatto a scavalcarla... Probabilmente è molto agile... Ma ieri sono già venuti i vostri a controllare tutto! O forse erano della polizia? Che casino! Ma ditemi, come può esserci ordine in un Paese se la polizia e l'FSB non sono capaci di mettersi d'accordo tra loro?» «E non l'hanno preso?» «Perché, da noi prendono qualcuno qualche volta?»
«Be', insomma, il paziente non c'è, giusto? Allora andiamo» Anja aveva ripreso l'iniziativa. «Hanno portato via le sue cose?» «Sì, colombella, le hanno portate via.» «Ci scusi, allora. Cose che capitano!» «Cose che capitano. Cosa vuoi che non capiti nel nostro Paese!» Risalimmo nell'ambulanza in silenzio e uscimmo dall'ospedale. «Anja, qual è il commento dei rappresentanti dei servizi a proposito degli ultimi avvenimenti?» Ero molto orgoglioso del nostro Matvej, che era riuscito a liberarsi da solo, senza bisogno di interventi esterni. La superagente israeliana sembrava un po' disorientata. «Penso che sia effettivamente fuggito. Gli hat avrebbero potuto trasportarlo in qualsiasi altro posto in un modo molto più semplice, senza fare tanto chiasso.» In quel momento cominciai a realizzare l'aspetto più importante della vicenda. Se non avessimo trovato Matvej al più presto, l'avrebbero trovato gli hat. Matvej lo capiva sicuramente meglio di noi, per cui non si sarebbe rifugiato né dai suoi genitori, né dalla direttrice finanziaria, né in qualunque altro posto troppo prevedibile. Ma allora dove cercarlo? Anja, in risposta alla mia domanda, si limitò a scuotere la testa, ma Anton era più preparato: «È il momento di andare su mail.ru». La mail, che leggemmo nel primo internet-café che trovammo sulla nostra strada, era sintetica ed espressiva: «Vivo in una soffitta al numero sette di vicolo Monetčikovskij. Ho quasi finito i soldi. Ho freddo. Ho fame. Siete delle carogne. Matvej». «Spero che di questa offesa risponderà al più presto di persona» mormorò Anton alzandosi dalla postazione. Mezz'ora più tardi i passanti che percorrevano il vicolo Monetčikovskij potevano assistere a una scena curiosa: l'evacuazione forzata di un barbone da una soffitta condominiale a opera di due portantini visibilmente deficienti guidati da un'infermiera-vamp. Matvej adesso portava una lunga barba rossiccia, indossava una giacca troppo piccola, che gli lasciava mezze scoperte le braccia pelose, i pantaloni del pigiama e le pantofole dell'ospedale, e strizzava gli occhi non più abituati alla luce esterna guardandosi intorno con espressione furba. A me si era staccato un baffo, e dovevo tenermelo su con una mano, mentre con l'altra tenevo Matvej per il gomito. Anton aveva la parrucca di traverso, per cui assomigliava a un biondo cosacco. La nostra demenza si
era arricchita di un nuovo sintomo: continuavamo a sorridere. Anja ci seguiva, fingendo di non avere nulla a che fare con noi. E sarebbe perfettamente riuscita nel suo intento se non avesse avuto ancora addosso il camice bianco. Quando salimmo sull'ambulanza sorridevamo ancora ed ebbi l'impressione che anche l'autista sorridesse vedendo com'eravamo ridotti. Fu in quel momento che mi ricordai dove l'avevo visto: era l'autista del taxi che aveva portato me e Anja fino a casa sua, a Gerusalemme. A quanto pareva, nella mia vita c'erano molti più agenti dei servizi segreti di quanto potessi sospettare. «Meglio tardi che mai» disse Matvej soddisfatto, distendendosi sulla barella e sbirciando Anja. «Con degli amici così, finisci per fare il barbone. Avevo già deciso che domani sarei andato a elemosinare i soldi per il biglietto del treno e poi sarei andato da un mio amico, a Soci.» Matvej ci guardò con aria ironica. Noi lo contemplavamo assolutamente entusiasti, senza parlare. «Ragazzi, mi sento un po' a disagio, davanti a una fanciulla, conciato in questo modo. Almeno presentatemi, siete proprio un disastro...» «Questa è Anja. È un'agente dei servizi israeliani. Ci ha aiutato a recuperarti.» «Anja, lei lavora nei servizi come infermiera, sì? E voi, ragazzi, vi siete trovati anche voi un lavoro più alla moda? E anche la macchina, devo ammetterlo, non è niente male... A proposito, dove stiamo andando?» «Bella domanda. A proposito, Anja, dove stiamo andando?» «In albergo. A cambiarci e a mangiare qualcosa.» «Bella idea!» «Matvej, raccontaci come sei arrivato a trasformarti in un barbone! Ma questa giacca, scusa, non ti stringe troppo? Spero che tu non l'abbia rubata a un bambino...» «No, a un tassista.» «Sì? Dai, racconta!» «Ma che cosa vuoi che ti racconti? Anja, sarebbe molto difficile farci stare un bel bagno?» «Matvej, ma in ospedale non vi lavavano?» «Ci lavavano anche troppo. Oserei dire che ci grattugiavano. Ma qualche volta si ha voglia di lavarsi da soli. Così, Anja, cosa ne dici di una sauna prima di mangiare? E a questo proposito vorrei aggiungere che cento grammi di vodka non ci starebbero male! No, ragazzi? Cento grammi non
sarebbero di aiuto? E cosa c'è in programma, poi?» «A quanto pare questa notte voliamo a Istanbul.» «Fantastico, Istanbul è una bellissima idea! Ho un conoscente lì, uno speculatore... Poi possiamo farci una settimanuccia in Antalia... Anja viene con noi?» Anja veniva con noi, e Matvej ci parve più che soddisfatto del programma. Io al pensiero che già l'indomani avrei rivisto Maša mi sentivo spuntare le ali. Anton non reagì in alcun modo alle parole di Anja, il che mi fece capire che non era d'accordo, nel modo più assoluto, con quel piano, ma che, per qualche motivo, non voleva dichiararlo esplicitamente. «Aspettate» disse all'improvviso Matvej (avevo l'impressione che avesse notato anche lui la protesta silenziosa di Anton). «C'è una cosa che non ho capito: ma noi combattiamo o ci nascondiamo?» «In questo momento ci nascondiamo, Matvej» dissi in tono solidale. «Abbiamo promesso ad Anja di ubbidirle ciecamente in cambio del suo aiuto per la tua liberazione. E lei vuole che ci nascondiamo.» «Be', allora abbiamo tutti i diritti di ritenerci liberi nei suoi confronti. Io sono scappato da solo...» La piega che stava prendendo il discorso non mi piaceva neanche un po' e decisi di intervenire. «Matvej, raccontami come sono andate le cose, piuttosto...» «Da che parte devo cominciare?» «Comincia dall'inizio.» «Be', dell'inizio ho ricordi confusi. Per almeno un mese, con la flebo, mi hanno rimpinzato di qualche schifezza... mi toglieva qualsiasi voglia di alzarmi o di pensare. Nella testa avevo sempre una specie di marasma. Qualcuno mi parlava di qualcosa... Anche se per la maggior parte del tempo dormivo. Poi mi hanno tolto la flebo e sono passati alle "ruote".» «Tu però non le inghiottivi, vero?» «Le ho inghiottite solo i primi giorni. Poi ho cominciato a star meglio, a rendermi conto della situazione, e le nascondevo sotto il labbro superiore: loro controllavano solo sotto la lingua e, appena se ne andavano, le sputavo nel water. A quel punto è apparso il tuo amico. Uno bassino, con i baffi, che non sorride mai e non cambia mai tono di voce... un po' stempiato...» «FF?» «Proprio lui. Fëdor Fëdorovič. Quello che avevo mandato al diavolo a Roma. Ma non era offeso. Mi ha raccontato che eri scappato, ma che ti avrebbero trovato. Mi ha promesso che non ti avrebbero fatto niente, ti a-
vrebbero perdonato, perché hanno bisogno di te per qualche scopo molto importante. E mi ha chiesto più di una volta se non volevo aiutare loro, e contemporaneamente anche te...» «E tu hai fatto come a Roma?» «No. Gli ho detto con la massima cortesia che non potevo. E come avrei potuto? Come facevo a sapere dov'eri finito?» «Apprezzo la tua mancanza di perspicacia.» «Be', del resto... Lui però mi ha anche detto, sempre molto gentilmente, che erano costretti a trattenermi fino a che tu non fossi ricomparso. Come una specie di ostaggio. Però mi hanno sempre trattato molto bene. Libri, cassette, dvd, televisione, passeggiate - queste, veramente, sempre accompagnato da due gorilla -, palestra, lettere dai miei...» «Come stanno, a proposito?» «Bene, bene. Sono ancora convinti che io sia ricoverato per una forma di delirium tremens e che le cure a cui sono sottoposto sconsiglino nel modo più assoluto il contatto con le persone care, perché potrebbe farmi ricadere nella malattia...» «Molto umano.» «Molto. I tuoi hat sono ragazzi a posto. Peccato che siano i nostri nemici. Ad ogni modo, me ne stavo qui e aspettavo che veniste a salvarmi. Ma voi, carogne, continuavate a non arrivare, un po' come la seconda venuta di Cristo. Naturalmente cominciavo a stufarmi. Ho pensato che fosse venuto il momento di prendere in mano la situazione. Però dovevo risolvere alcuni problemi. Primo: FF mi aveva avvertito che, se avessi tentato di fuggire, mi avrebbero allestito un inferno farmacologico, che, ha specificato, è peggio di quello vero. Secondo, e determinante: nella mia stanza c'era una videocamera, vetri antiproiettile, il cortile era sorvegliato ventiquattr'ore su ventiquattro e circondato da un muro alto cinque metri coronato di filo spinato. E non avevo mezzo copeco. I miei vecchi avevano cercato di infilare cento dollari in un pacco, ma FF aveva fatto un casino tremendo, minacciando di cancellare tutti i miei privilegi e di trasformare la mia camera in una cella, senza nemmeno il cesso.» «Ti hanno preso sul serio. Il bastone e la carota. E come hai fatto allora a scappare?» «Mi ha aiutato Ol'ga.» «La direttrice finanziaria? Avete fatto la pace! Congratulazioni!» «Non in quel senso. Mi ha mandato una videocassetta di Jackie Chan. E una penna. Così avrei potuto scrivere le mie memorie, ha detto. Mi ha
mandato anche un quaderno rilegato in pelle, molto bello. Gli hat l'hanno trattenuto per tre giorni, pensavano che nascondesse qualche scritta segreta.» «Una penna a sfera?» «No, una stilografica, ma non è questo il punto. Sulla cassetta, prima del film, c'erano degli spot pubblicitari. Cinque, per l'esattezza.» «Be', come al solito...» «E uno era proprio sulla mia penna. Nello spot si spiegava che il fusto della penna era d'oro e la punta del cappuccio di diamante. Evidentemente gli hat l'avevano guardata molto distrattamente. O non se ne erano proprio resi conto. Ho sfregato la punta del cappuccio - era coperto da una patina nera - ed era proprio di diamante! Poi ho provato la penna sotto i denti... Madre mia! Non era per niente d'oro, ma d'acciaio o titanio!» «Un'arma, in pratica.» «Proprio. Il resto è stata solo una questione di tecnica. Ve l'ho sempre detto: "Ragazzi, fate sport!".» «Aspetta un attimo con lo sport. E la videocamera? E i vetri antiproiettile? E le guardie? E il filo spinato?» «Al Politburo non siamo mica scemi34 . Ho fatto un fantoccio con le coperte e un po' di libri e mi sono nascosto sotto il letto. Ho aspettato un'ora, e intanto ho annodato tra loro le lenzuola. Nessuna reazione. Piano piano sono venuto fuori. Ho tagliato col diamante prima un vetro e poi l'altro, e mi sono calato con la fune di lenzuola. In alto avevo fatto un nodo speciale: lo tiri tre volte - forte, piano, e un'altra volta forte - e si scioglie. Altrimenti lo avrebbero subito notato... Il buco nella finestra era molto meno evidente...» «Sensazionale! E le guardie nel cortile?» «Ho aspettato che fossero girate dall'altra parte e mi sono buttato tra i cespugli.» «Niente male... E il muro?» «Lì ho usato di nuovo la penna. Ho fatto un salto e l'ho piantata nel muro. È di mattoni, non molto duro. Poi mi ci sono aggrappato e sono riuscito a usarla come puntello.» «Un acrobata!» 34
«Compagno Gagarin! La chiamiamo dopo l'apposita riunione del Politburo. Lei ha volato intorno alla Terra, no? E adesso volerà sul Sole!» «Come sul Sole?! Sul Sole c'è una temperatura di diecimila gradi!» «Compagno Gagarin! Al Politburo non siamo mica scemi. Volerà di notte!»
«Puoi dirlo! Poi ho gettato la fune di lenzuola con un sasso in fondo, l'ho agganciata al filo spinato e mi sono arrampicato fino in cima al muro.» «Da non credersi... E la penna, non te la sei dimenticata?» «L'ho presa, naturalmente. Ecco tutto. Sono sceso sempre con le lenzuola, mi sono solo fatto qualche strappo cadendo tra i cespugli, e poi ho raggiunto la strada.» «In pigiama?» «E come, se no? Poi ho fermato un taxi. Il tassista mi ha chiesto che cosa mi fosse successo e io ho attaccato: "Amico, sono in un casino, ho un'amante, la moglie di un poliziotto, figurati che lei credeva che fosse in missione a Tula, e lui sul più bello suona alla porta... lei si spaventa da morire e mi dice di scappare subito, che quello mi avrebbe ucciso senza nemmeno pensarci su perché tanto non gli avrebbero fatto proprio niente. Così sono saltato giù dal secondo piano, in mezzo ai cespugli, e non mi sono fatto niente, guarda, mi sono solo strappato un po' il pigiama"...» «E il tassista l'ha bevuta?» «Eccome, l'ho proprio impressionato.» «E ti ha preso dei soldi?» «No, anche perché, come vi ho detto, di soldi io non ne avevo proprio. Non sapevo dove andare. Dai miei vecchi non era il caso, e nemmeno da Ol'ga. Alla fine gli ho detto di portarmi nel centro di Mosca, di darmi dei soldi, da mangiare e qualcosa da mettermi addosso e che in cambio gli avrei dato la penna miracolosa.» «Sei stato buono, Matvej, avresti anche potuto mandarlo al diavolo.» «Sì, ma innanzitutto mi aveva fatto un piacere e poi poteva anche mettersi a fare casino.» «E il tassista come ha reagito?» «Mi ha comprato del pane e del latte. Poi mi ha dato una vecchia giacca che usava quando doveva infilarsi sotto la macchina e trecento rubli.» «E poi che cosa è successo?» «Mi sono cercato una soffitta che fosse abbastanza accogliente, in una via facile da tenere d'occhio, e che fosse anche abbastanza calda. Poi il tassista mi ha portato a un internet-café aperto ventiquattr'ore su ventiquattro sulla Paveleckaja.» «E come ti hanno guardato quando sei entrato lì?» «Male. Io però ho spiegato che mi avevano buttato fuori da una festa, gli ho dato cento rubli e ho chiesto di farmi connettere per cinque minuti. Sono rimasti un po' confusi e mi hanno lasciato entrare. Vi ho mandato quella
mail e me la sono svignata subito. Molto opportunamente, devo dire, perché quei bastardi avevano chiamato la polizia. Perché, poi? Non avevo rubato niente, non avevo ucciso nessuno, li avevo anche pagati...» «E la polizia cosa ha fatto?» «Ma niente. Secondo me non si sono nemmeno messi a inseguirmi. Io ho attraversato di corsa la circonvallazione e me ne sono andato per i cortili. E alla fine sono arrivato alla mia soffitta. Ecco tutto. Allora, siamo già arrivati?» Guardai fuori dal finestrino. La nostra ambulanza si era fermata davanti all'ingresso di servizio del Novotel. Anja riprese subito il suo tono da comandante: «Adesso sono le undici e cinquantacinque. Potete riposarvi, mangiare e fare la sauna. Fate mettere sul conto della camera. L'aereo è all'una e mezza di notte. Ci troviamo nella lobby dell'hotel alle sedici. Ho bisogno di parlare con voi, soprattutto di quello che è successo a Verona. Domande?» «Adesso parleremo un po' tra noi, Anja. E forse poi avremo anche qualche domanda» rispose Anton in tono calmo e triste. Capitolo Trenta Sauna nel seminterrato del Novotel. Piscina ghiacciata. Poi dei piattini da nuovi russi degli anni Novanta, tipo gamberetti e bistecchina con insalata. Birra. Siamo seduti, avvolti in grandi asciugamani alla maniera degli antichi romani. Al posto della fibbia di bronzo abbiamo fatto un nodo. E invece dei sandali di pelle calziamo delle pantofoline usa e getta. Non siamo romani, ma barbari che si sono insediati nel loro impero. Corrompiamo la loro lingua, snaturiamo le loro usanze. E, come i barbari, quello che desideriamo di più è assomigliare a coloro che abbiamo sconfitto e perciò li imitiamo in ogni cosa. «Va bene, allora» annunciò Matvej in tono magnanimo quando si fu stufato di ascoltare le ricerche di Anton e le mie peripezie. «Ho capito tutto. L'operazione Solitudine 12 continua. Siamo duri come uova di dinosauro bollite. E adesso?» «Anja ci propone di rimanere nascosti per qualche tempo.» «Quanto tempo? E chi è, alla fine dei conti, questa Anja? Cos'ha di tanto interessante, oltre al fatto che non mi dispiacerebbe portarmela a letto? E perché vuole aiutarci?» «Questo, credo, sarebbe meglio chiederlo a lei.»
«È chiaro come il sole» disse Anton in tono illuminante «che Anja e gli hat vogliono la stessa cosa. Solo con segni diversi.» «Che cosa?» Mi sporsi per raggiungere il piatto dei gamberetti. «Non "che cosa". "Chi".» Rimasi con la mano a mezz'aria. «Vuoi dire me?» «Te, Iosif. Proprio te.» Anton aveva parlato in tono deciso. Addirittura intransigente. Nello sguardo di Matvej era comparsa una luce curiosa. Era ora che dicessi qualcosa. «Ebbene... dal punto di vista tattico, tu, Anton, hai certamente ragione. Ammettiamo pure che sia così. Per qualche strano motivo questa storia gira intorno a me. Ma cerchiamo di guardare le cose con un po' più di prospettiva. Strategicamente. Se prendiamo in considerazione due fatti, arriviamo a un risultato molto interessante.» «Benissimo» mi approvò Matvej. «Passiamo ai fatti.» «Primo fatto: gli hat nel loro mondo parallelo hanno sempre bisogno di energia. Come, del resto, ha scoperto Anton. Di guerre ce ne sono poche. I terremoti e gli tsunami non bastano a fornire al mondo parallelo tutta l'energia Ka necessaria.» «Sei d'accordo, Anton?» «Sì, purtroppo.» «E il secondo fatto è ancora più semplice. Qualche mese fa gli hat, anche attraverso di me, hanno cominciato un'attiva ricerca di quadri. Che conclusione ne possiamo trarre?» «Che stanno organizzando qualcosa di importante.» «Dieci e lode, Matvej. E i servizi segreti israeliani, e forse non solo loro, lo sanno e stanno cercando di fermarli.» «Vuol dire che si stanno preparando a sferrare l'attacco decisivo?» «Sì, Matvej. Abbiamo tutti i motivi di pensarlo.» «E perché hanno deciso di attaccare proprio dalla Russia?» «E da dove dovrebbero farlo? Dal Gabon? Dal Nicaragua? L'Occidente è più difeso e meno corrotto. L'Estremo Oriente in generale ha resistito agli hat. E la Russia, tra l'altro, ha armi nucleari sufficienti a sterminare venticinque volte la popolazione del nostro pianeta. O forse centoventicinque volte...» «Che allegria.»
Matvej all'improvviso si era fatto serio. Anton taceva. Era evidente che per lui le mie parole non erano una novità. A quanto pareva, non comunicare le cose importanti stava diventando una sua abitudine. E se gli avessi chiesto perché diavolo non mi aveva parlato di quelle sue intuizioni, mi avrebbe risposto che non voleva spaventarmi, tanto più che nemmeno lui aveva capito proprio tutto fino in fondo... Del resto, era chiaro che adesso stava pensando a qualcosa che non c'entrava niente con i miei ragionamenti. «Anton, a quanto pare non ti fa né caldo né freddo l'idea che tra poco arriverà la fine del mondo? C'è qualcosa che riesce a scuoterti?» «Della fine del mondo posso anche fregarmene. O quasi. Ma di noi no.» «Perché, siamo più in pericolo del resto dell'umanità?» «Temo di sì. Mi è venuto un sospetto.» «Brutto?» chiese Matvej cauto. «Molto brutto. E mentre facevamo la sauna l'ho esaminato a fondo e adesso vi dirò che c'è una cosa che non mi piace per niente, ma proprio per niente.» «Che cosa, Anton?» «Il modo in cui si è liberato Matvej.» «Che cosa?!» reagimmo Matvej e io in coro, ugualmente indignati. «È molto strana la storia di come gli è arrivato il tagliavetro. Se glielo avesse passato davvero Ol'ga, sarebbe stato logico che poi avesse compiuto l'opera che aveva iniziato. Invece Ol'ga dopo quell'aiuto si eclissa. La fuga poi fila liscia come l'olio. Nonostante i doppi vetri, le guardie, il muro di cinta e tutto il resto. Ma quello che mi lascia ancora più perplesso è la facilità con cui Matvej ha utilizzato il nostro indirizzo e-mail segreto.» «E perché?» «Perché Matvej è stato in isolamento per un mese intero. Lo hanno rimpinzato di chissà cosa. Avrebbe dovuto raccontare agli hat proprio tutto. Compreso login e password varie.» «Anton!» «Sto soltanto ragionando a voce alta. Gli hat hanno avuto tutto il tempo di leggere la mail e prepararci una bella trappola. E catturarci tutti, compresa Anja. Ma, chissà perché, non hanno sfruttato una simile occasione...» «La storia della penna di diamante è molto strana» convenni. «Il comportamento di Ol'ga non è chiaro, su questo sono d'accordo con te. In generale il ruolo di Ol'ga non riesco a capirlo...» «C'è dunque qualcosa che non riesci a capire?»
«Proprio questo. Ma... la facilità di questa fuga... L'hai liquidata in due parole. Ma prova a calarti con un lenzuolo dal terzo piano, e per di più in pigiama! Prova a scavalcare il muro di cinta con tanto di filo spinato, sempre con addosso solo il pigiama e le pantofole dell'ospedale, sapendo che se non ce la farai ti aspetta la camera di tortura. Ma tu, Anton, riesci a immaginare cosa prova un uomo quando lo torturano?» «Cosa c'entra...» «C'entra! Spegni il cervello. Accendi l'immaginazione. E immaginati di dover correre per qualche chilometro, dopo esserti lasciato cadere da un muro alto cinque metri. E, mentre corri più forte che puoi, devi inventare una storia da scodellare al tassista. Prova a immaginartelo! Non è un film, questo, è la vita. Non stai risolvendo i tuoi rompicapo americani, non stai programmando un software!» A questo punto Matvej sollevò la testa e guardò Anton con una certa curiosità, senza dire nulla. «Per quanto riguarda il login e la password,» continuai, ispirato dal mio stesso pathos e dall'attenzione dei miei interlocutori «può essere successo di tutto. Per esempio gli hat possono non averci pensato. Come fanno a sapere che abbiamo deciso di usare un indirizzo mail segreto? In secondo luogo Matvej può non avere comunque rivelato le nostre coordinate. E infine può darsi che non abbiano avuto il tempo di organizzarsi.» Ripresi fiato e bevvi un gran sorso di birra. Nessuno disse una parola. Scossi la testa in un gesto di vittoria e continuai. «Ragazzi, dagli hat c'è lo stesso casino che c'è dappertutto. È una grande organizzazione burocratica, con un mare di problemi. Mismanagement. Poca voglia di lavorare. Inettitudine corporativa. Per di più non sono affatto sicuro che il nostro caso per loro sia tra quelli prioritari, tanto più se stanno progettando qualcosa di grosso. Ma la domanda fondamentale è un'altra: cosa c'entra Matvej? Anche se la sua fuga fosse stata una messa in scena! Anche se gli hat fossero davvero sulle nostre tracce! Perché hai deciso che Matvej debba aver partecipato coscientemente a questa montatura?» Anton attese un attimo per essere sicuro che avessi finito, poi si alzò. «Io, Iosif, non ti ho interrotto. Be', quasi... Adesso ascoltami. Sono ben lungi dal sospettare Matvej di collaborare con gli hat. Non ho detto niente di simile. Naturalmente Matvej può essere stato uno strumento inconsapevole. Ma ribadisco che non mi piace la facilità con cui ci siamo mossi nelle ultime ore.» «Anton, abbiamo detto che non siamo al cinema. Qui le cose si svilup-
pano per conto loro, e non abbiamo alcun regista che sappia che cosa avverrà nella prossima scena. In queste condizioni non possiamo nemmeno cercare di indovinare, come fanno gli spettatori, che cosa stia per succedere. Perché sono troppi i fattori che non conosciamo o a cui non sappiamo dare la giusta importanza. Capisci?» «Capisco tutto. E non accuso nessuno. Esprimo solo i miei timori.» «Allora esprimili in una forma più corretta. Io non sono per niente preoccupato da quello che ci aspetta. In fondo, tutto è nelle mani di Dio.» «Appunto. E prima hai detto che non c'è alcun regista.» «Be', le mosse di un simile regista non riesco proprio a prevederle.» Ripresi fiato. «Adesso andiamo a far presenti i tuoi timori ad Anja e sentiamo cosa ci dice.» «Questo lo faremo di sicuro, tra poco sarà qui comunque. È ora di rivestirci.» «Un momento. Dobbiamo chiudere un'ultima questione. Matvej, perdona Anton, tanto più che non ti ha proprio offeso...» «Sì, non ne ha avuto il tempo. È stato fortunato.» «Be', basta, basta. Va tutto bene. È tutto sotto controllo. Brindiamo a questo.» In realtà io celebravo la mia prima vittoria in una discussione con Anton. Strana cosa l'amicizia maschile! Ogni tanto vengono fuori certi risvolti sportivi... Ma in fondo sono tutte sciocchezze. I'm mad about you, I'm mad about you35 . La voce di Sting ci arrivava dalla filodiffusione. Non potei non pensare a Maša, alzai un po' il volume e andai a vestirmi. Al mio ritorno, trovai Matvej e Anton seduti davanti al televisore che passavano da un canale all'altro con grande concentrazione. «Cercate gli hat? Avreste dovuto chiamarmi...» «Non c'è alcun bisogno di cercarli, sono dappertutto.» «Cosa dici, Matvej?» «Guarda.» Cominciai a guardare. In un talk-show su NTV un tipo in borghese con l'aria da generale dichiarava di essere appena tornato da Deir el-Bahari e di non saper immaginare un luogo migliore dove trascorrere le vacanze. Lo descriveva dettagliatamente. Lo scrutai attentamente. Sì... probabilmente 35
Sono pazzo di te, sono pazzo di te.
era un hat. Passai a STS. Trasmettevano una telenovela. Le immagini emanavano una certa negatività, ma di che cosa precisamente si trattasse così a prima vista non era facile da capire. «Anche qui c'è qualcosa?» «Come? Non sai come si intitola?» «Ma no... Io non le guardo. È roba per casalinghe disperate...» «Questa roba si chiama Solitudine per solitari.» «Mio Dio...» Ripresi il telecomando e passai al canale per bambini NTV+, visualizzando subito il riquadro con il titolo della trasmissione. Stavano trasmettendo il cartone Odisseo e la ninfa Calipso. Un Odisseo tutto arruffato già da sette anni si struggeva su quelle rive per il desiderio di riabbracciare la moglie e il figlio, e Calipso continuava ad allettarlo con le sue promesse di immortalità e di eterna giovinezza. Mi ricordava qualcuno che conoscevo bene, molto bene, addirittura... «Cazzo... Che cosa sta succedendo alle nostre trasmissioni?» Provai a passare su ORT, ma in quel momento bussarono alla porta e ci girammo tutti con un sussulto. Dopo un paio di secondi, senza che nessuno di noi avesse aperto bocca, la porta si aprì. Matvej si allungò per afferrare una bottiglia. Grazie a Dio, si trattava solo di un inserviente... Lo fissammo in silenzio. «Volevo soltanto chiedervi se volete riposare in solitudine...» Ci scambiammo uno sguardo tra noi senza rispondere. L'inserviente rimase immobile qualche istante, poi scomparve senza aspettare la nostra risposta. «Un modo interessante per chiederci se vogliamo che ci procuri qualche puttana» commentò Anton con una certa durezza. «Incredibile, ragazzi, incredibile.» Matvej aveva gli occhi spalancati, non capivo se per la rabbia o per lo stupore. Anton prese il suo cellulare e improvvisamente si bloccò così, con il telefono in mano. «Cosa c'è, Anton?» Anton scuoteva la testa con espressione incredula. «Ho quasi cento chiamate senza risposta.» «Cento? In queste due ore? E chi ti ha chiamato?» «Non capisco. Diverse persone. Compaiono tutti i nomi, ma sono nomi che non ho mai avuti in rubrica. Mai. Non si sono limitati a chiamarmi, ma sono riusciti a inserire i loro nomi e i loro numeri nella rubrica del mio cel-
lulare. Dio mio... ma quanti sono...» «Nomi russi?» «Sì.» «E non ci sono sms?» «No, nessuno.» «L'importante è non richiamare nessuno, per non farci localizzare.» Sull'onda del mio ragionevole consiglio, Matvej si alzò bruscamente: «Secondo me, ragazzi, è ora di andarcene. Qui sta cominciando a scorrere tanta di quella merda che non riusciremo a venirne fuori. Questa notte, tra l'altro, in quella soffitta, ho fatto un sogno. Non volevo raccontarvelo. In generale non credo ai sogni. In realtà, veramente non mi capita quasi mai di sognare... Ma questa volta, cazzo, si trattava di un argomento... Insomma... Ho sognato delle piramidi. Sotterranee. Di pietra...». «Ragazzi, guardate!» Su ORT già da qualche minuto passavano degli spot pubblicitari, ma adesso ne era comparso uno molto strano: la scultura di una testa di donna con gli occhi chiusi, in pietra scura, sullo sfondo di una pietra ancora più scura. La musica che accompagnava l'immagine, più che affascinare, sembrava farti sprofondare nella follia. Sia a sinistra che a destra della testa c'erano scritte due parole, o più precisamente tre parole e un numero. "Calipsol" era scritto in uno strano modo, ca****ol, mentre le altre parole erano complete: Deir el-Bahari, solitudine e, naturalmente, 222461215. La testa era immobile, come le parole. Non succedeva nulla. Continuava solo a risuonare quella musica folle, piena di ululati, echi, lamenti, e con un ritmo indecifrabile. Dopo le solite pubblicità, quello sembrava come minimo un messaggio degli extraterrestri. Fissavamo il televisore come tre zombi. Senza quasi pensarci, per una sorta di riflesso condizionato, stavo calcolando il cronometraggio del filmato. Venti secondi. Nessuna variazione. Quaranta secondi. Sempre la stessa immagine: la testa, le tre parole e il numero. Verso il cinquantesimo secondo, però, la testa aprì lentamente i suoi occhi di pietra. Li aprì e dopo qualche secondo li richiuse. Sarebbe stato meglio che non lo avesse mai fatto. Sarebbe stato meglio che l'immagine fosse rimasta lì come un quadro. Gli occhi erano veri, ed erano spaventosi. Sul fondo marrone scuro della scultura apparvero gradualmente prima le sclere bianchissime, poi le iridi verdi e infine le pupille nere. Io mi sentii invadere da un malessere fisico. Matvej afferrò dal tavolo una bottiglia e la lanciò contro il televisore.
"Non lo centrerà, a questa distanza" pensai chissà perché, ma Matvej lo centrò. Il televisore scricchiolò e si incrinò in diversi punti, ma non si spense. Matvej, assolutamente inferocito, fece per balzare a distruggerlo con le sue stesse mani, ma Anton prese il telecomando e cambiò semplicemente canale. Matvej si fermò e girò intorno uno sguardo decisamente folle. Guardai lo schermo incrinato. Su RTR c'era il notiziario. Il reporter parlava di un incontro del G8 tuttora in corso. Sullo schermo i vari leader, in camicia e cravatta, ma senza giacca, si stringevano la mano sullo sfondo di un qualche castello. «Anton,» dissi «qualcuno di loro è sicuramente un hat. Lo sento, ne sono sicurissimo. Può anche darsi che ce ne sia più di uno... Come può darsi...» «Andiamo» rispose Anton. «Anja ci aspetta.» Entrò un inserviente e si mise a guardare il televisore mezzo sfasciato. In silenzio, senza alcuna spiegazione, gli consegnai cinquecento dollari e uscii senza aspettare la sua reazione. Matvej e Anton mi seguirono, sforzandosi di non urtarlo mentre lo oltrepassavano. Ci ritrovammo nello stesso ristorante del Novotel dove ci eravamo incontrati quella mattina. Anton porse ad Anja il suo telefono. «Anja, che cosa significa?» «Lo so» rispose lei in tono cupo. «Me l'hanno comunicato.» «Non sono l'unico, perciò, a cui è capitato questo scherzo?» «No, siete in molti. È una specie di virus.» Il telefono, però, mi sembrava una bazzecola in confronto a quello che avevamo appena visto in tv. «E alla televisione cosa sta succedendo?» «Si preparano ad attaccare.» «Si preparano? Lo stanno già facendo. Sai cosa succederà oggi, dopo quello spot, alle persone più fragili dal punto di vista psichico?» «Iosif, credimi! Non stanno ancora attaccando. Quando lo faranno, sarà in un altro modo.» Le parole di Anja in qualche modo ci aiutarono a riprendere il controllo. Intorno a noi pulsava la vita dell'aeroporto. Durante la conversazione che seguì si chiarirono anche molti punti oscuri della storia della liberazione di Matvej. Era stata Anja a mandare la penna con il diamante a Matvej, tramite Ol'ga. Faceva parte del piano B, che non era comunque stato necessario attivare. Aveva controllato diverse volte il nostro server. Nessuno, a parte
noi, era entrato nelle nostre caselle. La risposta alla domanda perché la sua organizzazione si fosse interessata a noi e che cosa volesse in cambio risultò una versione ampliata della teoria di Anton. «Il punto è che voi siete riusciti più di una volta a giocare gli hat. Se le cose fossero andate secondo i loro piani, già da diversi mesi dovreste essere tutti defunti, invece siete ancora vivi. Durante la sua iniziazione come membro della Confraternita, Iosif è stato sottoposto ai procedimenti di condizionamento più avanzati, eppure ne è uscito praticamente illeso. Matvej è stato interrogato da specialisti di altissimo livello che non ne hanno ricavato assolutamente niente. È una cosa che non riusciamo a capire. È possibile che, anche senza esserne consapevoli, abbiate trovato un modo di sconfiggere gli hat. Per lo meno, la nostra direzione vi ha ritenuti meritevoli della massima attenzione e osservazione. Oltre che del massimo aiuto, naturalmente. Cosa pensate, che forniamo documenti falsi a chiunque? No, sono cose che facciamo solo in casi eccezionali.» «Anja, ma dovremo stare via molto?» «Qualche mese. Nel frattempo penso che riusciremo a risolvere il vostro problema.» «E come?» «I membri della Confraternita che hanno il compito di occuparsi di voi saranno neutralizzati.» «Uccisi?» «Neutralizzati. Messi fuori gioco.» Anja rispose all'ultima domanda con aria un po' contrariata, come una mamma costretta a spiegare a un bambino curioso che, prima di mangiare la carnina, bisogna uccidere la mucca. In generale mi sembrava che gli agenti dei servizi segreti fossero fatti di carne e sangue come noi, solo, ecco, rispetto alla gestione della morte altrui erano un po' troppo disinvolti. Mi lasciai andare contro lo schienale della sedia. Matvej sorrideva rilassato, pregustando spiagge e discoteche. Anton, come sempre, stava rimuginando. «Allora, ragazzi, andiamo?» Anja aveva un tono così leggero che sembrava che dovessimo partire per una vacanza sul Mediterraneo. Be', in effetti andavamo da quelle parti. Mare, sole, pini marittimi... Mi interessava il confronto tra il nordico cielo del Giappone e quello meridionale. Avevo voglia di spiegare a Maša i nomi delle costellazioni, tanto più che non avevamo ancora mai guardato il cielo insieme. Per questo le parole di Anton mi colpirono come una coltel-
lata nella schiena, come una bestemmia davanti all'altare... «Anja, mi dispiace, ma io non posso venire.» Calò il silenzio. Tre paia di occhi fissarono Anton. «Caro Anton, perché non hai pensato di comunicarci questa tua idea mezz'ora fa?» Matvej aveva ragione. Nel modo più assoluto. Non si discute di certe cose in presenza di estranei. Io, senza parole, decisi di non intromettermi. Anja era contrariata, ma non stupita. Avevo quasi l'impressione che Anton le avesse comunicato preventivamente la sua posizione. Dopo qualche minuto appurammo che Anton non voleva lasciare Dina a Mosca. Gli facemmo notare che gli hat non l'avevano mai minimamente minacciata, ma la cosa non sembrò rassicurarlo. Si era come riacceso. Era rientrato nel gioco. E adesso era responsabile della vita di Dina. Ci propose di partire noi, mentre lui ci avrebbe raggiunto con Dina dopo un paio di giorni. «Anton, chiamare Dina e farle una proposta così inaspettata non è solo pericoloso, è anche stupido. Immaginati cosa succederebbe se decidesse di consultarsi con qualcuno! I vostri telefoni, lo capisci anche da solo, sono sotto controllo. E se lei poi rifiutasse? Tu stesso l'hai definita un po'... be', imprevedibile!» «Anja, ti ho già detto che questo è un problema che risolverò io. Tu porta via i ragazzi.» «Senti, supponiamo che i ragazzi senza di te non vogliano partire. Visto che tu sei capace di un tale amore...» interloquì di nuovo Matvej. Nelle sue parole si percepiva una strana mescolanza di smarrimento, rabbia e orgoglio. Io non mi ero ancora ripreso, ma, naturalmente, sostenevo Matvej. «Gli amici, si sa, si riconoscono nelle imprese più disperate. E la tua impresa, Anton, è abbastanza disperata. Perciò, eccoci qui, rimaniamo. Anja, puoi in qualche modo gestire la cosa?» Anja estrasse il cellulare dalla custodia che teneva alla cintura. Un cellulare grosso e abbastanza strano, dotato di alcuni tasti la cui funzione mi appariva del tutto oscura. Fece un numero e cominciò a parlare in ebraico. Anton fingeva che la conversazione non lo interessasse, ma vedevo chiaramente che ascoltava tutto. Anja riuscì evidentemente a trovare un accordo e ci illustrò subito il nuovo piano in tono molto preoccupato. La partenza sarebbe stata rimandata di qualche ora, il tempo necessario per fornire anche a Dina nuovi do-
cumenti. Verso le nove Dina sarebbe uscita per far fare il solito giretto al cane. Uscendo dal suo portone, avrebbe trovato un cellulare che squillava. A chiamare sarebbe stato Anton, che avrebbe avuto da Anja il via per chiamare al momento giusto. Sul display sarebbe apparso il nome di Anton e si supponeva perciò che Dina avrebbe risposto. Anton avrebbe avuto a disposizione due o tre minuti per convincere Dina a partire con noi. Dina avrebbe dovuto recarsi immediatamente con il cane in un supermercato poco distante e da lì sarebbe stata prelevata e portata all'aeroporto. Se non fosse riuscito a convincerla (cosa di cui personalmente ero quasi certo), Anton avrebbe dovuto farle promettere di non parlare assolutamente con nessuno del loro colloquio, nemmeno con sua madre o le amiche più strette, perché dal suo silenzio dipendevano la vita e la salvezza di molti uomini. Il cane sarebbe partito con noi. Visualizzai il loro Terranova e rabbrividii. Anton approvò senza riserve il piano. Io pensavo che avesse un unico difetto, e cioè che Dina non si sarebbe mai imbarcata in una simile avventura. Conoscevo bene mia sorella, nella sua vita non avveniva nulla che non fosse stato programmato almeno sei mesi prima. Ma in questo caso Anton si era dichiarato pronto a partire senza di lei. Il solito autista dai capelli rossi aveva sostituito l'ambulanza con un furgoncino con la scritta «Pane», dal vano assai meno accogliente rispetto al nostro primo veicolo; non avevamo ancora percorso un paio di chilometri che, ancora prima di entrare in città, dal finestrino notai un cartellone pubblicitario su cui, a grosse lettere gialle su fondo marrone scuro, campeggiava la scritta: «Deir el-Bahari, ca****ol, solitudine» seguita da un numero: 2224612.15. «Dappertutto,» mormorai «sono dappertutto...» «Sì» rispose Anja. «Da oggi alle tre. E anche per radio e in internet. E, dalle informazioni in nostro possesso, domani saranno su tutti i principali giornali.» «Anja, ma la gente non impazzirà vedendo questa roba?» «Tra qualche giorno sarà tutto finito.» «Ma cosa significano, poi, queste parole? In clinica non sono riuscito a seguire questa storia...» Matvej appariva confuso. Cercando di non immergermi troppo a fondo in quel delirio, gli spiegai brevemente: «"Deir elBahari" è il luogo sacro degli hat. "Calipsol" è una modalità di penetrare
nel mondo parallelo. "Solitudine" e il numero non sappiamo ancora che cosa significhino. Di quest'ultimo sappiamo solo che per gli hat è importantissimo e anche pericoloso. La parola "solitudine", invece, non abbiamo proprio idea di cosa rappresenti». Anja aveva una sua versione: «Crediamo che sia una specie di esca. Un'esca per il dolore. Prima o poi nella vita a ognuno di noi capita di sentirsi solo; disperatamente, spaventosamente solo. Faccia a faccia con la propria morte. La Confraternita offre la salvezza dalla solitudine e, contemporaneamente, dalla morte». Matvej sostenne l'interpretazione di Anja: «Sono d'accordo. Quando sei riuscito a risolvere in qualche modo il problema della sopravvivenza, la solitudine ti si para davanti in tutto il suo orrore». Anton borbottò che la solitudine riflette la nostra comune mancanza di appartenenza: non apparteniamo più né a una famiglia, né alla società, né a qualsiasi altra associazione, abbiamo esclusivamente legami virtuali. Siamo soli davanti all'eternità. Mi venne in mente un'idea diversa. «Se gli hat stessi non sanno che cosa sia la solitudine, vuol dire che è anch'essa un'arma. Proprio come il numero. Però, a differenza del numero che è una minaccia rivolta contro gli hat, la solitudine è un'arma a doppio taglio. Da una parte ci sono gli eremiti che raggiungono le vette della coscienza, dell'illuminazione e della santità. Di esempi, per di più, ce ne sono quanti ne vuoi, sia in Occidente che in Oriente. Dall'altra parte la solitudine è una delle pene più tremende. La cella di isolamento, il carcere...» Ripensai alla prigione e rabbrividii. «Mi pare che non siate molto d'accordo sul senso da dare al nome della vostra operazione, ragazzi...» osservò Anja scuotendo la testa. Feci un profondo sospiro: «E non siamo d'accordo nemmeno sul significato del numero. Anton pensa che abbia un senso metafisico, se non addirittura mistico, mentre io credo che il significato del numero sia assolutamente reale e concreto». «Probabilmente avete ragione tutti e due» sorrise Anja. «No. Sul numero ho ragione io» intervenne Matvej con aria importante, quasi solenne, guardando fisso Anja. «Matvej! Eppure non ci hai ancora detto niente su questo tema!» «Dirò tutto adesso. Questo numero mi piace.» «Perché, Matvej? Perché è una minaccia per gli hat?» «Mi piace per la sua struttura. È bello.»
«Matvej, sei proprio un esteta! Anja, pensi che questa offensiva pubblicitaria sia la riposta degli hat alla liberazione di Matvej?» «No... lo escluderei. Non credetevi così importanti, ragazzi! La cosa è partita perché doveva partire. Ve l'ho già detto, gli hat si preparano ad attaccare.» «Come potrete affrontarli senza di noi? Non abbiamo appena detto quanto siamo forti, per non dire invulnerabili?» «Matvej, smettila! Vuoi portarci sfortuna?» Due ore dopo eravamo nel furgone davanti alla porta di servizio del supermercato prescelto, a due minuti a piedi da casa di Anton. Anton aveva già chiamato Dina e lei, da quanto ci aveva riferito, aveva acconsentito a partire, ma aveva preteso un'ora per prepararsi. Evidentemente questo non era previsto, ma cosa potevamo fare? Non avevo ascoltato direttamente la loro conversazione, perché Anton per parlare con Dina era sceso dalla macchina. Né Matvej né io ci arrischiammo a chiedergli ulteriori particolari. Dina aveva detto di sì, questo era l'importante. Accanto a noi c'erano due furgoni che scaricavano latte e pannolini. Sul primo c'era scritto «Latte», mentre sull'altro non c'era scritto niente. Eravamo tutti un po' nervosi, e provai ad alleggerire la tensione facendo due chiacchiere. «Anja, ma perché, se sono così potenti, gli hat non creano subito una crisi mondiale, una catastrofe atomica, per esempio? O non pensano, che so, di avvelenare tutti gli abitanti di Mosca inserendo qualche sostanza tossica nelle condutture dell'acqua?» «Il mondo contemporaneo è abbastanza resistente. Non è così semplice organizzare un attentato terroristico importante con un gran numero di vittime. Chiedi a Bin Laden, se non mi credi. Ci vogliono moltissime risorse per mettere in pratica un piano del genere. E se nel corso dell'elaborazione dell'attentato qualcosa va storto, è molto probabile che l'intera organizzazione venga distrutta. Questo da una parte. D'altro canto, dai dati in nostro possesso, sembra che gli hat abbiano cambiato tattica. Hanno abbandonato la strategia delle catastrofi di varie dimensioni e contemporaneamente sembra che abbiano concentrato la loro attenzione sulla Russia. Anche qui, però, non è così facile organizzare una sciagura di grandi dimensioni. Le armi atomiche in Russia vengono custodite con sistemi abbastanza sicuri. Sapete, la valigetta del presidente e tutto il resto... In fondo, anch'io qui
non sto proprio con le mani in mano. E poi la situazione politica in Russia migliora di mese in mese...» «Cos'è che migliora? Scusami, non ho capito. Ti dispiace ripetermelo?» Con gli stranieri succede spesso. Certe imprevedibili stramberie quando si parla della Russia. «Sto parlando sul serio. Se non oggi, sicuramente domani la vostra guerra civile finalmente finirà. Una guerra che dura da quasi cento anni.» «Non ho capito.» «I rossi e i bianchi presto si riunificheranno.» «Contro chi?» «Contro i grigi.» «E...» «Vado» disse improvvisamente Anton. «È ora!» Cercava di mascherarlo, ma capivo benissimo quale fosse il suo stato d'animo. «Anton, secondo gli accordi non devi scendere dalla macchina finché Dina non entra nel negozio. E per ora non abbiamo ricevuto alcun segnale. Dina non è ancora uscita di casa.» «Magari non vuole venire con il cane e sta cercando un modo per sistemarlo...» «Matvej, ma la vuoi piantare, che cos'hai oggi?» In quel momento il cellulare di Anja cominciò a squillare. Anja rispose in ebraico. Io guardai Anton con aria interrogativa. Anton ascoltava con espressione sempre più tetra. «C'è una macchina sospetta all'ingresso del supermercato.» «Abbiamo qualche problema?» chiese Matvej in tono pratico. «Adesso finirà di parlare e lo sapremo» dissi. Anja chiuse la comunicazione. «Va tutto secondo il piano. C'è solo una macchina sospetta.» «Dove?» «Proprio dietro di noi. La Geländewagen nera.» «Ha bloccato l'uscita?» «No. Per ora è tutto ok.» In quel momento il suo telefono suonò di nuovo e anche questa volta Anja parlò in ebraico. Questa volta, però, la conversazione fu più lunga. E, dopo circa trenta secondi che aveva cominciato a parlare, Anton con un balzo cercò di uscire dalla macchina. Anja lo trattenne con tutte le sue forze gridandogli di sedersi, poi si chinò verso l'autista e gli disse qualcosa in
fretta. L'autista accese il motore, girò la macchina quasi sul posto e uscì dal parcheggio alla massima velocità. Noi tutti, compresa Anja, cademmo dai nostri sedili. Istintivamente mi sporsi verso il finestrino posteriore e vidi che la Gelàndewagen nera era scattata dietro di noi. Non ebbi il tempo di capire che cosa significasse che il fuoristrada fece una specie di balzo e, illuminato da una vampa incandescente accompagnata da un rombo cupo, esplose letteralmente in mille pezzi. "Niente male questo furgone! Sembra la macchina di James Bond..." pensai ammirato. Un secondo dopo mi resi conto che il nostro furgone non c'entrava per niente e che a colpire la Geländewagen con un bazooka erano stati gli stessi che ci avevano avvisato della presenza di una macchina sospetta. Anja ordinò: «Tutti sdraiati, non alzatevi per nessun motivo!». Cominciammo a viaggiare per la città. Chiesi ad Anton, la cui testa mi si era ficcata nella pancia: «Che cosa succede?». «Hanno rapito Dina!» «Chi?» «Come "chi"?» «E dove l'hanno rapita?» «L'hanno caricata su una macchina proprio davanti all'ingresso.» «E il cane?» «Come "il cane"?!» «Che orrore!» Per qualche minuto viaggiammo in silenzio. Tentai di sdraiarmi più comodamente per riuscire a concentrarmi. Naturalmente anche i servizi segreti hanno le loro falle, ma, probabilmente, la colpevole era proprio Dina. Non aveva ubbidito ad Anton e aveva telefonato a qualcuno o dal cellulare o dal telefono di casa. E, a quanto pare, gli hat agivano davvero in modo rapido e infallibile. Anche se... Cosa significa "infallibile"? Noi eravamo riusciti a giocarli. Forse. Mi alzai sui gomiti per cercare di capire dove fossimo. Avevamo appena lasciato la strada principale e ci trovavamo in una zona di magazzini e garage. Un minuto dopo il furgone si fermò, Anja tornò a sedersi al suo posto e cominciò a frugare nella borsa. «Iosif, fuori. Ecco l'indirizzo. È una dacia. Questo è il cellulare. In rubrica hai i numeri di Anton e di Matvej. E il mio. Proprio qui devi prendere il treno locale Mosca-Sortirovočnaja. Poi leggerai tutto il resto. Usa il telefono solo in caso di assoluta necessità e mai per più di un minuto. E non
chiamare nessun altro numero a parte i nostri tre. Non usare altri telefoni. Hai dei soldi per ogni evenienza?» «Di soldi ne ho un sacco. Diecimila dollari.» «Ok. Non fare niente senza istruzioni. Assolutamente niente. Ci sono domande?» «E i ragazzi?» «Ognuno di voi verrà sistemato per conto suo. E ognuno avrà un telefono come questo.» «E cosa succederà a Dina?» «Sistemeremo tutto. Sbrigati, se non hai altre domande.» «Ciao, ragazzi» dissi smarrito. «State bene. Ci sentiamo.» «Stai bene anche tu» mi risposero Matvej e Anton. Pensai che qualche volta anche gli auguri più banali e logorati dall'uso riacquistano il loro reale significato. Era quasi buio. Appena fuori, vidi la stazione, tutta grigia tra i garage e le staccionate. Mentre il furgone si allontanava pensai che non era il caso di girarsi per seguirlo con lo sguardo e mi diressi malinconicamente verso la stazione. Capitolo Trentuno Era già il terzo giorno che stavo nella dacia. Non si sa bene di chi. Probabilmente di qualche amabile rappresentante dell'intelligencija degli anni Sessanta o Settanta, o dei suoi eredi, oggi dispersi per il mondo, o magari, al contrario, trincerati nei loro appartamenti moscoviti e felici di affittare la dacia, recuperando così duecento preziosi dollari mensili - di più da quella casetta non potevano prendere - con cui tappare i buchi dei loro bilanci. Della sorte di Dina non si sapeva nulla. Anja era tornata in Israele per mettere a punto i dettagli dell'operazione, così almeno ci aveva detto. Noi, seguendo le sue istruzioni, ci sentivamo raramente, non avendo del resto nulla da dirci. Anton mi sembrava diventato più indulgente e riflessivo, Matvej si rifugiava nel sarcasmo e io ero decisamente depresso. Feci colazione con pane, miele e formaggio, poi mi aggirai un po' per la dacia e mi fermai davanti a un'immensa libreria dall'aria molto vissuta. Presi qualche libro, Tamerlano e le sue imprese, Poesie e poemi di Taras Ševčenko e poi li rimisi a posto. Pensai che ogni dacia, con i suoi libri e le sue abat-jour, è un piccolo museo della nostra vita passata. Scovai, ben rilegata, l'annata 1961 della rivista «Ogonëk». Cercai i numeri di aprile. Ri-
vidi i limpidi occhi azzurri di Jurij Gagarin. Scoprii che nel 1971 saremmo sbarcati su Marte e su Giove e che nel 1981 la prima spedizione intergalattica sovietica avrebbe varcato i confini del sistema solare. Erano proprio ingenui i nostri padri, negli anni Sessanta! Credevano nel progresso, nella scienza e in un sacco di altre cose... E questo soprattutto in Occidente. E a che cosa si erano ridotti i progressi della civiltà negli ultimi cinquant'anni? Abbiamo il computer e la stampante al posto della macchina da scrivere. L'aria condizionata in macchina. Certo, possiamo dichiarare con orgoglio che grazie ai personal computer e ai loro continui aggiornamenti la foto-video-audio art è oggi accessibile alle masse. Grandi videoarchivi digitali familiari. Certo, però... L'assoluta stagnazione delle scienze fondamentali... eppure che sviluppo avevano conosciuto nei decenni precedenti! E anche nella tecnologia in genere si può parlare di stagnazione. Gli aerei non sono oggi più veloci. E non abbiamo sconfitto alcuna nuova malattia grave, giusto qualche miglioramento poco significativo: preparati meno tossici, strumenti diagnostici migliori. Perfino nel campo delle armi non ci sono state novità sostanziali, anzi: non siamo stati capaci di custodire le vecchie tecnologie, che sempre più spesso vengono sfruttate dai gruppi terroristici, per non parlare degli hat. Con un ultimo sforzo di volontà la nostra civiltà ha prodotto internet e la rete dei cellulari. Grandi cose, non discuto. Ma oltre a queste, di scoperte notevoli, realmente utili per l'umanità, nell'ultimo mezzo secolo non sono riuscito a individuarne. E, se vogliamo parlare di telefonini perché ogni sei mesi mi rifilano un nuovo modello, convincendomi che è incomparabilmente migliore di quello vecchio? Cioè, capisco benissimo perché, ma... Eccola, la marcia inarrestabile del progresso. Diciamo che, se non si è arrestata, ha subito un notevole rallentamento. Perché non possiamo mai sapere quando arriverà il Medioevo. È già successo una volta, il che significa che potrebbe succedere di nuovo. Rimisi «Ogonëk» al suo posto e accesi una piccola stufa di ferro. Presi in mano le statuine di porcellana sul buffet. Pensai che dovevo avere i nervi molto scossi se mi irritava lo scricchiolio delle assi del parquet. La classica dacia russa resiste quasi per miracolo su uno sfondo di instabilità, precarietà e incertezza. Qualcosa di provvisorio, di fragile, pur nel perdurare della sua esistenza. Hai l'impressione che, se ti voltassi un po' troppo bruscamente o appoggiassi qualcosa in malo modo, tutto quello che ti circon-
da andrebbe in frantumi e svanirebbe nel giro di pochi attimi. Raggiunsi la piccola cucina, confinante con la veranda, e trovai un vecchio macinino per il caffè. Girai a lungo la manovella e mi macinai un po' di caffè. Ho sempre avuto l'impressione che quello macinato e preparato senza ricorrere all'energia elettrica sia più buono. Mi feci il caffè. Lo bevvi. Girellai ancora un po' per la dacia. In sala staccai dal muro una vecchia chitarra screpolata, che doveva avere trascorso in quella casetta ben più di un inverno. Provai a suonare l'introduzione di Stairway to heaven, senza grandi risultati... La chitarra era scordata e anch'io non funzionavo granché. Improvvisamente fui assalito da romantici ricordi delle mie estati in dacia. Ho tredici anni. Sono in vacanza. Sono libero, e lentamente la noia delle vacanze si trasforma in un'ansia tormentosa. E capisco chiaramente che è arrivato il primo amore (proprio quello che avevo incontrato in tanti libri!). E impazzisco di vera felicità infantile per il terzo appuntamento. Che grande cosa, la pregustazione della felicità. E tre volte più grande la pregustazione che si avvera. Il profumo del bosco. I pini scricchiolano per la vecchiaia, o forse per qualche alito di vento. Gli uccelli strillano chissà che cosa. Finii il caffè e con un sospiro tornai a esaminare la libreria. Questa volta sul ripiano più basso trovai diversi pacchi della rivista «Priroda» degli anni Sessanta e Settanta. Sulla copertina di un fascicolo in cima a un pacco c'era la fotografia di un grosso brillante. Era un numero monografico dedicato ai diamanti. Finalmente potevo capire quanto valeva la mia Stellina. Da quando Maša e io l'avevamo difesa dai banditi del Primor'e la tenevo in un sacchettino di pelle che portavo al collo, come un amuleto, come un ricordo di Maša. Il sacchettino era stato il suo ultimo regalo. Naturalmente da quegli articoli non riuscii a farmi un'idea del valore della Stellina, tanto più che i diamanti rari non si vendono affatto spesso, però scoprii un sacco di cose nuove e interessanti. Appresi informazioni di carattere scientifico, tecnologico, storico e culturale. Quello che mi colpì di più, però, fu che queste preziosissime pietre, da sempre al centro di innumerevoli drammi, non sono in fondo niente di più che una varietà del carbonio, uno tra gli elementi più diffusi sul nostro pianeta oltre che uno dei fondamenti della vita sulla terra. Il carbonio, con le sue quattro valenze libere, entra nella composizione di assolutamente tutte le sostanze organiche, caratterizzandosi come elemento organizzatore della vita nel senso più pieno della parola. Mi pare che Lem, o forse è stato Asimov, non vorrei
sbagliarmi, abbia scritto che teoricamente la vita è possibile anche a partire da altri elementi, come per esempio, il silicio, ma non a caso si parla di autori di fantascienza. Quando ebbi finito di leggere la rivista mi era ancora più chiaro che possedevo un oggetto dal valore indiscutibile. Mi sentii rincuorato e chiamai Anton, deciso a comunicargli un po' della mia animazione. «Allora?» Invece del previsto "tutto bene", o, nel peggiore dei casi, "niente di nuovo", sentii: «Ma... così». «Come "così"?» mi allarmai. Pausa di tre secondi. «Così, tutto bene. Non ti preoccupare.» Cominciai immediatamente a preoccuparmi. «Ci sono novità?» «Nessuna.» «Hai pensato qualcosa?» «Sì. No. Non è importante. Ah, il mio telefono rimarrà spento per un po'. Non preoccupatevi, tu e Matvej. È tutto a posto.» La voce di Anton era limpida e triste. Probabilmente è con una voce simile che i suicidi si congedano dai loro cari prima di mettere in atto il loro intento. Ma il pensiero del suicidio era assolutamente in contrasto con la personalità di Anton, oltre che molto stupido. Anton doveva aspettare Anja e organizzare la liberazione di Dina. Non riuscivo a capire che cosa avesse in mente. Era chiaro che non aveva intenzione di rispondere ad alcuna domanda diretta. Provai a sintonizzarmi sulla sua lunghezza d'onda, sperando che abbassasse un po' il livello di guardia. «Sei d'accordo con il piano di Anja?» «Sì, ma non ne ricaveremo niente. Abbiamo molto sottovalutato gli hat.» «Perché non consegniamo il nostro file alla stampa? Potrebbe confondere tutto il loro gioco...» «Non bisogna consegnare assolutamente nulla!» nella voce di Anton le note ansiose avevano bruscamente sostituito quelle concilianti. «Stai calmo! In ogni caso io non ho alcuna copia del tuo file. Senti (un improvviso cambio di argomento è molto utile in questi casi), questa sera guardi la partita?» «La partita?!» Sbigottimento assoluto. Se gli avessi chiesto se aveva intenzione di mangiare un coccodrillo quella sera a cena, si sarebbe stupito di meno.
Dovette notarlo anche lui perché cercò di rimediare: «A che ora è?». «Alle cinque su RTR. Lokomotiv-CSKA.» «No, non la guardo.» Molto deciso e sicuro. «Perché?» Un'altra pausa. Avrebbe potuto dire che la tele della sua dacia non prendeva RTR. A quanto pareva le cose andavano proprio male. Cosa potevo chiedergli a quel punto? «Senti, dobbiamo salutarci, Anja ci ha chiesto di non parlare a lungo.» «Ma piantala...» «Iosif, andrà tutto bene. Take care!» E chiuse la comunicazione. Chiamai subito Matvej. «Ad Anton dev'essere successo qualcosa. O è andato fuori di testa, o sta architettando qualche scherzetto. Probabilmente tutte e due le cose. È qualcosa che ha a che fare con il file sugli hat e che inizia stasera alle cinque. Aveva la voce di un condannato a morte.» «Vuol dire che ha deciso di andarli a trovare. Bravo!» «Matvej, ma cosa stai dicendo? Come "andarli a trovare"? Perché? E dove? Abbiamo ricevuto istruzioni precise: stare tranquilli e aspettare il ritorno di Anja.» «La tua Anja ha sbagliato tutte le mosse. Una dopo l'altra. Che bisogno ne abbiamo?» «E cosa proponi?» «Andare con Anton.» «Dove? Lui non ci dirà assolutamente niente.» «Be', trovare il luogo dove potremmo incontrare gli hat è la cosa più semplice del mondo. Basta fare una telefonata al numero che hanno diffuso. Ti dirò che ci stavo pensando anch'io. Come specialista della materia, tu quel numero di telefono dovresti ricordartelo a memoria.» «Certo che me lo ricordo. Ma cosa diciamo? Che cosa facciamo?» «Per cominciare intercettiamo Anton all'ingresso e capiamo che cosa ha in mente.» «Ascoltami, Matvej! Anton è impazzito. Temporaneamente, per lo stress. Pensa che gli hat abbiano rapito Dina a causa sua. Dobbiamo fermarlo.» «Iosif, ricorda cosa hai fatto tu. Quando sei scappato dal monastero con un aereo militare, sei stato più ragionevole? E se qualcuno ti avesse fermato, non gli saresti certo stato riconoscente. Credo che lo avresti fatto a pezzi.»
«Vuoi dire che approvi l'iniziativa di Anton?» «Eccome. E intendo unirmi a lui.» «Non paragonare questa storia con la mia fuga dal monastero. Allora io correvo semplicemente un rischio, Anton sta andando incontro alla morte. E a una morte assurda, per di più. Per senso del dovere.» «Giusto. È un samurai, lui. Non ha paura della morte. Io ho fiducia in Anton, probabilmente ha un piano. Noi dobbiamo semplicemente aiutarlo.» Per un attimo rimasi senza parole. Non avevo niente da ribattere. Infilarsi all'inferno senza la minima probabilità di scampo? Utilizzando come unica arma un ricatto in forte odore di bluff? In generale non credevo che con l'arma del ricatto si potesse spaventare sul serio nessuno, tanto meno una società segreta. Ma come rifiutare adesso, dopo la proposta diretta di Matvej? Per di più con in mente il coraggio degli antichi samurai? «Allora, telefono agli hat? Se tu non vuoi, puoi benissimo non venire. Ci coprirai. Puoi tenere i contatti con Anja.» Non è tanto facile commuovermi, ma Matvej con quella frase ci riuscì. Non solo parlava come un eroe, ma mi proponeva anche una nobile via d'uscita. Coprirli! Non ricordavo l'ultima volta che avevo pianto. In realtà, naturalmente, non piansi nemmeno lì, al telefono con Matvej. Però mi vennero le lacrime agli occhi. Esistono ancora i veri uomini! «Telefona. Andiamo insieme. Non riesco a immaginare in che modo potremo aiutare Anton e Dina, forse il nostro sarà solo un sostegno morale, ma hai ragione: non si può non andare.» «Siamo intelligenti, qualcosa inventeremo. E siamo coraggiosi. Non è facile spaventarci. Quando gli hat ci vedranno arrivare tutti e tre, con i loro biorecettori percepiranno la nostra forza. Una cosa è Anton, che ha la moglie in ostaggio. Un'altra cosa siamo noi due, che ci mettiamo in quest'impresa spinti dalla coscienza della nostra superiorità.» «Sì, Matvej! La vittoria psicologica è già nostra. Il resto non ci spaventa...» «Così mi piaci! Ricordati cosa ha detto Anja, quando eravamo al Novotel...» «Che cosa ha detto?» «Ha detto che avremmo già dovuto essere morti da un pezzo. Che è possibile che, senza saperlo, abbiamo trovato il modo di resistere agli hat, e che per questo i servizi segreti avevano deciso di aiutarci. Anche se, secondo me, lei aveva in mente soprattutto te. Tu hai trovato il loro punto
debole, li hai fottuti un sacco di volte. Ti ricordi come hai fatto? Grazie a che cosa?» «È una pazzia. Va bene, però! Ci provo.» «Allora, chiamo quei cari ragazzi?» «Chiama!» «Ricordami il numero.» «222461215.» Mi misi a riflettere sul modo inaspettato con cui si prendono a volte le decisioni più importanti della nostra vita. Baldanza e cameratismo. E già il plotone grida "urrà!" e va all'attacco contro le mitragliatrici nemiche. Com'è facile convincere la gente ad andare incontro a una morte quasi certa con il massimo entusiasmo! D'altra parte, se il mondo fosse pieno solo di vigliacchi, in che modo sarebbe possibile contrastare il potere del male? C'era solo un pensiero spiacevole che mi tormentava: se avessimo avuto la peggio, né Maša né mia madre avrebbero più saputo nulla di me. Poi però pensai che, dato che il mondo parallelo esiste, avrei trovato il modo di mettermi in contatto con loro da lì. E poi... poi avrei avvertito Anja. Andai in veranda e mi lavai con l'acqua fredda. Le cose stavano cominciando a muoversi. Era ora che andassi a trovare i miei confratelli. A Dio piacendo, non mi sarebbe successo niente di male. Mezz'ora dopo Matvej mi richiamò. «Non è così facile parlare con i tuoi amici. È sempre occupato.» «Naturale. La pubblicità funziona.» «Io però ce l'ho fatta e ho organizzato tutto. Hai presente il grattacielo staliniano di Krasnye Vorota? Sadovo-Spasskaja ventuno.» «Certo. Il Ministero delle comunicazioni?» «Non è il Ministero delle comunicazioni, è il Transstroj. Non ha importanza. Ha lo stemma dell'Urss. Proprio di fronte alla circonvallazione.» «Lo so, ho capito.» «Ecco, ci aspettano lì. Pianterreno, ala destra. Alle cinque.» «Da lì probabilmente c'è l'ingresso per il loro metró.» «C'è un problema: non sappiamo con precisione a che ora abbiano convocato Anton.» «Sempre ammesso che non si tratti solo del frutto della nostra fantasia malata.» «Questo è escluso, ho parlato con Anton.»
«Te l'ha confermato?» «È rimasto senza parole. Ha cercato di rifilarmi qualche balla, ma l'ho mandato al diavolo e ho riattaccato. Io sono più vicino di voi due. Esco subito, becco Anton e lo trattengo, a qualunque costo. Ti aspetto alle quattro e mezza alla fermata del filobus proprio di fronte all'ingresso principale. Intanto tu cerca di ricordarti grazie a che cosa hai fottuto gli hat, concentrati!» «Non c'è più molto tempo per ricordare. A presto!» Controllai l'orario dei treni dell'anno prima, attaccato con una puntina alla cornice della finestra, nella speranza che il Ministero dei trasporti fosse una struttura conservatrice e non cambiasse troppo facilmente gli orari dei suoi servizi. Avevo all'incirca un'ora di tempo. Mi preparai un altro caffè e ripresi in mano la chitarra. Questa volta Stairway to heaven mi venne così bene, soprattutto data la chitarra, che provai una certa fierezza e mi dispiacque solo che Maša non mi avesse sentito. Poi, bevendo il caffè, cercai col massimo zelo di fare quello che mi aveva chiesto Matvej, e cioè di ricostruire quali erano stati i fattori che mi avevano permesso di giocare gli hat. Non ci riuscii, anche perché dopo pochi minuti mi resi conto che si stava facendo tardi. Allora contai rapidamente tutti i soldi che mi erano rimasti: rubli, dollari ed euro. La somma di cui disponevo era di circa diecimila dollari. Ci pensai su un attimo e poi li presi tutti, chiusi la porta con un vecchio lucchetto arrugginito e mi diressi alla stazione. Il trenino arrivò puntuale secondo il vecchio orario e dopo un'ora e quaranta, ero già alla stazione Belorusskij, davanti alla fermata dei taxi. La radio del taxi diffondeva un insopportabile pop russo. Quando chiesi al tassista di spegnerla, lui cambiò frequenza e con mio grande sbigottimento la macchina fu invasa dalla voce di Robert Plant. There's a lady who's sure All that glitters is gold, And she's buying a stairway to heaven 36 . Quando si dice la mistica. Le coincidenze. No... Non era una semplice coincidenza... All that glitters is gold. Un momento. In Russia però si dice: «Non è tutto oro quello che luccica». E anche i diamanti luccicano. Dia36
C'è una signora che è certa che tutto ciò che luccica sia oro, e sta comprando una scala per il cielo.
manti. Brillanti. Non poteva essere stata la mia Stellina a salvarmi, quando ero finito per la prima volta in mezzo agli hat ed ero stato sottoposto a quel condizionamento psicofarmacologico? In fondo era con me anche in occasione della sparatoria e durante tutte le avventure successive. E anche Matvej, da vero dandy, aveva un anello con un brillante, che non poteva neppure sfilarsi perché lo portava da così tanti anni che gli si era come incastonato nel dito. Anche lui era stato sottoposto a vari trattamenti, ma senza successo. Ed era fuggito, tra l'altro, con l'aiuto del diamante che aveva trovato in cima al cappuccio della penna. Era una pista interessante... Tutti i popoli hanno visto nel diamante una sorta di talismano. Un antidoto. Forse non era solo una favola... presi la Stellina dal sacchettino e la tenni un attimo tra le mani: sulla pelle era piacevolmente fresca. Ma come funzionano i talismani? Cominciai a riflettere, tentando di trovare una possibile spiegazione senza tradire il principio di ragion sufficiente. Per esempio, un oggetto di questo tipo si rivela efficace in una determinata circostanza. La persona che lo porta lo nota e se ne ricorda. Lo porta con sé anche in una successiva difficoltà. L'oggetto dà sicurezza e la persona se la cava brillantemente anche questa volta. Si convince che l'oggetto funziona davvero e lo porta con sé tutte le volte che deve affrontare una questione complessa. Il semplice fatto di avere con sé quell'oggetto aumenta la sicurezza del suo possessore, e più forte è la sua fiducia nel talismano, più questi gli garantisce sicurezza, tranquillità, capacità di gestire la situazione. L'unica cosa che il proprietario del talismano deve assolutamente fare è credere nei poteri soprannaturali dell'oggetto, crederci sinceramente, senza il minimo dubbio. Perché in questo processo anche il più piccolo dubbio sarebbe fatale, l'arida spiegazione materialistica interromperebbe la catena benefica e l'oggetto non funzionerebbe più. Benissimo. Una spiegazione l'abbiamo trovata. Ma non risponde a una domanda cruciale: in che modo funziona il talismano, se il suo possessore non ci crede o più semplicemente non è consapevole del suo potere? Io, per esempio, al diamante come possibile talismano avevo pensato per la prima volta cinque minuti prima. O fino a quel momento mi aveva aiutato per conto suo, senza l'intervento della mia coscienza, o ad aiutarmi era stato qualcos'altro. In quel momento notai una piccola icona che il tassista aveva appeso al cruscotto. Certo... Gli uomini credono nei miracoli. Ci credono già da molti millenni. Dieci? Quindici? Trenta? Con una piccola parentesi di duecen-
to anni presso alcune società che si sono autodefinite progredite. Fantastico! Anch'io mi sono sempre considerato assolutamente progredito, però questo non mi impedisce di capire che è possibile che esistano leggi che non abbiamo ancora scoperto. E forze la cui azione non è stata ancora descritta, ma solo intuita. Allora, visto che Matvej aveva il suo anello e io ero già ben fornito, perché non comprare subito, lungo il tragitto, un brillante per Anton? Magari avrebbe funzionato... In ogni caso avrebbe aumentato la sua sicurezza. E avrebbe ulteriormente rassicurato anche Matvej. Di istante in istante sentivo crescere dentro di me la certezza che fosse la cosa giusta da fare, pur ignorando da dove mi venisse. Qualche diamante c'era nel Mistero gotico. E anche nella storia di Hatshepsut... Quando la certezza raggiunse il culmine, chiesi all'autista di girare dietro il Bolsoj, di fermarsi davanti ai grandi magazzini ZUM e di aspettarmi lì. Entrai nel reparto gioielleria dello ZUM con un passo talmente deciso che l'addetto alla vigilanza istintivamente portò la mano alla fondina. Rallentai un po' e, con lo stesso tono con cui avrei chiesto se c'erano delle patate, chiesi a una commessa: «Cerco un anello da uomo con brillante. Ne avete?» La commessa, una brunetta con un musino da volpe, mi rispose nello stesso tono, con una punta di canzonatura: «No!». «E cosa avete?» «Abbiamo anelli da donna.» «Non vanno bene.» «Abbiamo dei ciondoli, ma anche quelli sono da donna.» «Non fa nulla, me li faccia vedere. L'importante è che la pietra sia bella grossa. Il ciondolo è anche meglio.» Mi guardò preoccupata. La guardia si mosse e venne a mettersi proprio dietro di me. Mi girai. Aveva ancora la mano alla fondina. Nel reparto non volava una mosca. Decisi che il tempo era ancora più prezioso del denaro e non era il caso di perderlo in spiegazioni con quei deficienti. Estrassi dalla tasca il mio pacchetto di dollari, rubli ed euro, lo posai sul banco e dissi: «Qui ci sono circa diecimila dollari. Non è il caso di agitarsi. Mi dia un ciondolo per questo importo». «Non accettiamo valuta straniera.» «Ma che bravi! Allora adesso vado a cambiare, lei intanto prepari il ciondolo.» Per fortuna lo ZUM è un posto come si deve. Non era affatto scontato
che mi cambiassero tanti soldi così su due piedi. Cinque minuti dopo ero di nuovo al banco gioielleria. Nella destra avevo una voluminosa mazzetta di rubli. Il ciondolo più caro però non superava i quattromilaottocento dollari. «Benissimo» dissi. «In questo caso ne prendo due. Per sicurezza.» «Come?!» «Purtroppo» dissi «non ho tempo per spiegarmi e nemmeno per tirare sul prezzo. Conti i soldi. Il più rapidamente possibile.» «Aspetti,» disse la commessa in tono lamentoso, una volta conclusa la procedura di conteggio e verifica del denaro «glieli metto in due scatoline.» «Non mi servono!» «E come li porta via?» «In tasca» dissi con l'aria più imperturbabile, e mi misi in tasca i due ciondoli come se fossero il resto che ti danno alla cassa del cinema. «No, ma come? E la ricevuta? I certificati?» «Li tenga lei! Anzi... può darsi che passi più tardi a ritirarli.» «"Può darsi"?» «Può darsi. Magari passo o magari non passo.» Tornai al taxi. Per rifornirmi di diamanti avevo impiegato dieci minuti e più o meno lo stesso numero di migliaia di dollari. Mille dollari al minuto. Niente male. Feci il numero di Anja. Scattò subito la segreteria telefonica. Meglio così. Non ero affatto pronto a un chiarimento circostanziato. Le dissi cosa avevamo deciso di fare, dove cercarci in caso di necessità e mi scusai per quello che stava per accadere. Onestamente mi sentivo molto imbarazzato. Non le diedi alcun messaggio per Maša. Nel caso, ci avrebbe pensato Anja a raccontarle tutto. L'abilità del tassista nel superare gli ingorghi del traffico moscovita non riuscì comunque a farmi recuperare il tempo perduto. Ero in ritardo e scesi dal taxi alla fermata del filobus a Krasnye Vorota alle cinque meno cinque. Matvej era lì, accanto ad Anton. Ma non aveva più l'anello. «Dove hai messo l'anello, Matvej?» «Volevi dire: "Ciao, amici miei"? L'ho lasciato come parte della mia eredità.» «Alla direttrice finanziaria?» «Ai miei genitori.» «E come hai fatto a sfilarlo?» «L'ho tagliato in due e l'ho mandato con un plico raccomandato. Per sicurezza non a loro, ma alla direttrice finanziaria. Glielo consegnerà lei.»
«Vuoi dire che i vostri rapporti si sono normalizzati?» «Ma sì... Va tutto bene. Non è questo il momento di approfondire.» E se avessi voluto risparmiare i cinquemila dollari del secondo ciondolo? Matvej emanava sicurezza e disinvoltura. Anton serietà e concentrazione. «Ok. Allora adesso vi do i vostri portafortuna. Solo non mettetevi a ridere.» Presi dalla tasca i ciondoli e glieli porsi. Anton cominciò a esaminare il suo, mentre Matvej prese il proprio con due dita e lo tenne a distanza di sicurezza. «Hai rapinato una gioielleria? E poi sono ciondoli da donna! Per chi ci hai preso?» «Non lo so,» disse Anton «ma a quanto capisco Iosif ha speso tutti i suoi soldi per comprarli. Sono sicuro che abbia avuto dei buoni motivi per acquistare dei souvenir così costosi.» «Cosa dovremmo farne?» «Toglieteli dalle catenine e metteteveli in bocca.» «In bocca?» «In bocca! La mia Stellina è già al suo posto.» Matvej e Anton si scambiarono un'occhiata, sospirarono e cominciarono a sfilare le catenine. Cercai di capire se la loro sicurezza stesse aumentando. Mi parve di sì. Salimmo lo scalone principale ed entrammo nell'edificio. Soffitti altissimi. Bronzi. Marmi. Lo stile Impero secondo Stalin. Gli uomini della sorveglianza ci guardarono, ma non ci chiesero niente. «Signori, non è il momento di mettere a punto il nostro piano?» chiese Matvej in tono spensierato, contemplando le volte di marmo male illuminate e le colonne del vestibolo del grattacielo. «Gli hat non ci vorranno meno bene, se anche arriviamo con dieci minuti di ritardo.» «Il nostro piano?» chiese Anton pensieroso. «A giudicare dalla distribuzione di diamanti, da oggi Iosif guida un cocchio incantato. Il piano spetta a lui.» «Non ho alcun piano. Agisco per intuizioni momentanee. Però penso che ce l'abbia Anton.» «Io non ho più un piano. Anche se fino a pochi minuti fa, prima del vostro arrivo, ce l'avevo.» «Dai, sentiamo.» Anton si guardò intorno, cercando di capire fino a che punto fosse opportuno parlarne proprio lì. Mi guardai intorno anch'io. Un enorme lampa-
dario di bronzo, quindici metri sopra di noi, faceva una gran scena, ma di luce ne arrivava poca. «Il mio piano era questo. Ho qui un dischetto. Su questo dischetto c'è un file. Sul file c'è tutto quello che sappiamo degli hat: le mie ricerche, i risultati ottenuti da Iosif, le nostre deduzioni. Una copia di questo file è al sicuro in una casella postale on line. E sarà inviata tra poco a una cinquantina di redazioni di giornali e reti televisive, oltre che ai servizi speciali russi, americani, inglesi e israeliani.» «Quali sono le condizioni perché l'invio non avvenga?» «Condizioni assolutamente umane e ragionevoli. Prendere in ostaggio me e lasciar andare Dina. In fondo, cosa se ne fanno gli hat, di lei?» «Ottimo piano. Faremo la nostra parte. Solo, modificherei la richiesta: devono lasciarci andare tutti, insieme a Dina.» «Voi non dovete entrarci, perché non acconsentiranno mai a lasciarci andare tutti, tanto meno Iosif. Vi chiedo ancora una volta, come ho già fatto con Matvej, di uscire da questo gioco finché siete in tempo.» «Ormai è tardi. Ci stanno aspettando.» «Non è ancora troppo tardi. Basta che usciate a fumarvi una sigaretta, saltiate sul filobus, buttiate via i cellulari, accesi, e spariate da qualche parte.» «Rimaniamo qui. Di carte buone in mano non ne abbiamo molte, naturalmente, ma potrebbero anche bastare. E alla peggio proviamo a bluffare.» Matvej mi sembrava in gran forma. Io avevo qualche dubbio sul piano di Anton. «Solo una precisazione. Ricordati che sul tuo dischetto non hai scritto tutto. La cosa più importante, assolutamente segreta, non hai voluto mettercela, perché gli hat di un grado di iniziazione inferiore, che saranno verosimilmente i primi a leggere il file, non vengano a conoscenza di informazioni riservate. Questo "segreto importantissimo per gli hat" sei disposto a riferirlo verbalmente solo al Gesser dei Gesser, in un incontro senza testimoni.» «E cos'è questo "segreto importantissimo per gli hat"?» «Non lo so. Ma intanto che gli hat ti organizzano questo incontro riservato, passerà un po' di tempo. Magari riusciamo a inventare qualcosa. In fin dei conti, c'è anche Anja. Appena sentirà la segreteria telefonica, scoprirà dove siamo.» In quel momento ci si avvicinò una guardia e ci chiese che cosa stavamo
facendo. Effettivamente ci eravamo come estraniati dalla folla degli altri visitatori. La gente andava e veniva, mentre noi ci eravamo appartati dietro a una colonna e confabulavamo già da un quarto d'ora. «Dobbiamo andare là.» Matvej indicò con aria decisa un punto sulla destra del salone di ingresso. «Siamo arrivati un po' in anticipo e aspettiamo l'ora dell'appuntamento.» La guardia scosse la testa e si tolse dai piedi. Anton la seguì con uno sguardo disincantato e decise di darci la stoccata finale: «Vi ringrazio per l'aiuto, ragazzi, ma vado da solo. Ho paura che non mi portiate fortuna...». «Smettila, Anton, non è mica un casinò!» «Chi ha paura non vada alla guerra» sentenziò Matvej. Ci muovemmo verso l'ala destra dell'edificio. All'entrata un agente ci bloccò. Aveva un'uniforme un po' diversa da quello che ci aveva parlato prima. Ci diede un'occhiata in silenzio, con aria interrogativa. «Riferisca che Iosif Mezenin e i suoi due amici vorrebbero parlare con il Gesser dei Gesser dei segreti dell'universo.» «Con chi? Di che cosa?!» «Lei riferisca, vedrà che capiranno.» La guardia si strinse nelle spalle e, parlando in una piccola ricetrasmittente, disse qualcosa del tipo: «Iosif Mezenin, amici, per un certo Gesser». Dall'altra parte provenì una specie di sibilo: «Va bene, adesso vediamo!». Matvej si appoggiò a una colonna. Anton, in silenzio, guardava dritto davanti a sé. Ebbi l'impressione che stesse pregando. Dopo un minuto la trasmittente sibilò di nuovo e sentimmo: «Fai passare». La guardia annuì e ci indicò con un cenno del capo il fondo del corridoio. Avanzammo guardandoci intorno. Niente di interessante. Ancora tronfi lampadari di bronzo, un po' più piccoli che nel salone, ma nello stesso stile. Una passerella grigia. Grandi porte nere. Alcune semiaperte. Dentro si intravedevano persone normalissime davanti a computer altrettanto normali. Alla fine del corridoio ci venne incontro un'altra guardia che premette un pulsante, ci controllò mentre entravamo nell'ascensore e, dall'esterno, spinse un altro pulsante. Scendemmo da soli. Dopo circa un minuto l'ascensore si fermò. Mi preparai a uscire, ma le porte non si aprivano. «Non vi pare che ci sia odore di gas?» chiese Matvej con una voce un po' alterata. Riuscii appena ad annuire e svenni.
Capitolo Trentadue All'inizio pensai che fosse iniziata l'eternità. Poi pensai che, per essere l'eternità, era un po' troppo marrone. Decisi che, se fossi diventato Dio, l'avrei senz'altro ridipinta di nero. I look inside myself and see my heart is black. I see my red door, and it has been painted black. Maybe then I'll fade away and not have to face the facts. It's not easy facin' up when your whole world is black... 37 Poi pensai che stavo pensando. E se pensavo voleva dire che ero vivo. I miei omaggi, monsieur Descartes! Dunque, quella non era ancora l'eternità. Perché chi avrebbe fatto partire nella mia mente i Rolling Stones, se fosse già finito tutto? Be', allora... Mi pareva di intuire dove fossi finito. E, visto che ero di nuovo nel mondo parallelo, mi sarebbe piaciuto capire come diavolo funzionava una certo meccanismo. Come si faceva a parlare con qualcuno? Ecco, bisognava rievocare nella coscienza la sua immagine. Anche se "rievocare" è già troppo pomposo. Era un processo quasi impercettibile. Un fremito di ciglia, un ammiccamento, un gesto appena accennato. Cercai subito di mettermi in contatto con il Chimico. «Ciao» disse il Chimico. «Come stai?» Aveva la voce tra il disperato e il distratto. Però sembrava decisamente contento di vedermi. «Per ora bene. E tu?» «Non tanto...» «Come si sta lì, in generale? Male?» «Male.» «Tutti?» «Quasi. Io soprattutto.» «Ma perché...? Perché... hai tradito?» «Sì.» «Ti... cosa ti... ti torturano?» 37
Guardo dentro di me e vedo che il mio cuore è nero. Vedo la mia porta rossa, ed è stata dipinta di nero. Magari poi svanirò e non dovrò affrontare tutto questo. Non è facile farcela, quando tutto il tuo mondo è nero...
«Be'... sì.» Era chiaro che non aveva voglia di parlare di quell'argomento. «In che modo?» «Qui ognuno ha la sua tortura.» «E per te qual è?» «La solitudine. Mi convincono che sono solo, assolutamente solo, in tutto l'universo.» Per essere un torturato, il Chimico mi sembrava troppo riflessivo. «E come mai ti hanno permesso di venire da me?» Pausa. «Non lo so neanch'io. Probabilmente poi mi convinceranno di non averti mai incontrato e che è stato solo un sogno.» «Senti...» perfino in quella situazione non sapevo come fargli quella domanda. «Quando sei stato ammesso al secondo grado di iniziazione, hai ucciso un bambino?» «Simbolicamente. È da un sacco di tempo che quel rito è stato abolito. Adesso si seppellisce una bambola di plastica prodotta appositamente a questo scopo. Ma è lo stesso tremendo.» «Perché li hai traditi?» Un'altra pausa. «Mi è sembrato che la loro via non fosse quella giusta.» «Perché incarnano il male?» «Si può dire così, ma non è la definizione più corretta. Semplicemente seguono una via sbagliata.» «Cosa volevi da Okam?» «Un consiglio, solo un consiglio. Lui avrebbe potuto dirmi a che cosa andavo incontro. In effetti non pensavo che fosse così brutto. Se me lo avesse accennato in qualche modo, non credo che sarei andato fino in fondo. Anche così, è stato un passo che ho fatto con grande fatica. Se non ci fosse stata Lilja... Sai, è molto difficile tradire gli hat, se sei già uno di loro.» «In generale tradire non è una cosa facile, a meno che non si sia proprio portati...» «Intendo gli iniziati. Sapevo già che esiste l'altro mondo.» «Sai, adesso comincio a capire. Sei un eroe, Chimico, un eroe, davvero. Senza alcun pathos. Hai abbandonato la tua compagnia quando hai scoperto che era una cattiva compagnia.» «Però voi non vi ho abbandonato.»
«Perché noi siamo buoni. Cosa possiamo fare per aiutarti?» «Trovate la mia testa e seppellitela vicino al mio corpo.» «E dov'è?» «Non lo so, chiedetelo a loro. È tutto, devo andare, adesso.» «Fermati ancora un minuto. Come è fatto il mondo parallelo? Dal punto di vista geografico, voglio dire. Anzi, meglio, dal punto di vista topografico?» Il Chimico si concentrò per un istante. Io mi guardai attorno. Tutto come al solito: pareti, archi, spazi chiusi, catacombe. Ebbi di nuovo l'impressione di essere sottoterra. «Assomiglia a un anfiteatro. La terra corrisponde alla scena e il mondo parallelo è tutto intorno. Lungo le linee dei tachioni.» Tachioni? Era un nome che avevo già sentito... «I tachioni sono particelle con una massa immaginaria, così che, una volta elevata al quadrato, il suo valore diventa negativo. Il mondo parallelo è costituito da queste particelle, proprio come il vostro mondo è costituito dalle particelle fondamentali che conosci: quark, leptoni e bosoni intermedi.» «Scusami, mi sono perso. Dal punto di vista del corpo cosmico, come è costruito il mondo parallelo? Ci sono anche lì le tre dimensioni della nostra realtà? C'è un qualche punto in cui vi si può accedere, a partire dal nostro mondo consueto?» «No, no, sarebbe in contraddizione con il principio di causalità. Qui non vale la teoria supersimmetrica delle stringhe, e perciò esistono come dei piloni d'ormeggio energetici, legati alla violazione dell'unità spaziotemporale.» «Ma si colloca comunque nelle vicinanze della Terra?» «Non cercare di immaginartelo, è impossibile. Come i quark.» «I quark?» «Sì. Se dividi la materia, ottieni prima le molecole, poi gli atomi, poi il nucleo e gli elettroni. Il nucleo è costituito da protoni e neutroni. I protoni e i neutroni sono a loro volta formati ciascuno da tre quark. Vengono chiamati particelle per comodità, ma in realtà non sono particelle, lo sa il diavolo cosa sono. Coaguli di energia, o forse di onde, o di tempo, o di una qualche protomateria. E tutto in una dimensione incredibilmente piccola.» «Ma sono reali?» «Sono alla base dell'universo. Costituiscono tutto, assolutamente tutto, quello che ci circonda. E, naturalmente, sono reali. Anche il mondo paral-
lelo è reale. È reale perché lo possiamo descrivere con un modello matematico, è reale perché le sue manifestazioni le possiamo incontrare dappertutto, però è impossibile raffigurarcelo mentalmente. Per darti un'idea molto approssimativa, noi abbiamo tre, se non quattro, dimensioni in più. Un po' quello che capita tra te e Maša.» «In che senso, scusa?» «Voi interagite su diversi livelli, tra cui molti dei quali non sospettate nemmeno l'esistenza.» «Non capisco.» «Vi unisce qualcosa di più grande di quello che immaginate.» «Il bambino?» «Sì, ma non solo quello.» «Non capisco.» «Male. Sono cose che bisogna capire. Scusami, ma adesso devo andare. Non posso più aspettare...» «Resisti! Ti aiuteremo, se riusciamo a cavarcela.» Il Chimico scomparve. Pensai a Napoleone, che apparve subito, anche se senza finanziera e cappello. Assomigliava molto a un piccolo Buddha di rame. In generale il luogo dove mi trovavo, per i riflessi color rame, lo scintillio di candele e anche le diverse categorie di divinità e sovrumanità dei suoi abitanti, ricordava i templi buddisti. «Perché vi siete diretto verso Mosca? Perché non verso la capitale di allora, Pietroburgo, dove c'erano lo zar, la corte, e che era molto più vicina?» Gli avevo dato del "voi", anche se forse era superfluo, perché il discorso non aveva comunque alcun aspetto sonoro. Senza contare che non sapevo il francese. Comunicavamo attraverso impulsi mentali, che capivo senza difficoltà e traducevo in parole solo per potermeli ricordare. «L'idea di attaccare Pietroburgo non mi sembrava per niente interessante.» «?» «Naturalmente, avrei sconfitto lo zar Aleksandr Pavlovič, avrei conquistato la regione baltica e avrei firmato una nuova pace. E allora? Dov'era la poesia? Io volevo l'India. Volevo la Cina. Volevo diventare Alessandro Magno. Pietroburgo è solo una delle tante città europee. Ne avevo già conquistate decine. Mi avevano stufato. L'Asia era qualcosa di totalmente nuovo. Di grande. L'avevo capito ancora in Egitto. E Mosca? Mosca è l'inizio dell'Asia. Ed è il miglior punto di appoggio per partire alla sua conquista.»
Non sapevo cos'altro chiedergli, ma un cerimoniale di cui percepivo l'importanza mi imponeva di continuare la conversazione. «È facile combattere?» «Facile? Combattere? La guerra è fatta di trasferimenti (venti ore di marcia senza soste), sporcizia (il cavallo che scivola continuamente nel fango), vita in tenda (raffreddore perpetuo), rifornimenti (ah, come odio gli intendenti, tutti ladri, dal primo all'ultimo!), e poi stanchezza ("I soldati e i cavalli sono esausti, Vostra Grazia!"), comunicazioni che non funzionano (cinque giorni senza ricevere notizie da Parigi), malattie (le tende strapiene di malati di colera), afa (e non potersi spogliare!), ancora trasferimenti (dov'è, dov'è che continuiamo ad andare?), convogli che si perdono (fucilare i disertori!), mancanza di munizioni (ma chi le ha controllate?), confusione ("Perché Jerome non arriva?"), freddo (br-r...), odore di corpi non lavati (dodici giorni senza acqua calda e vestiti di ricambio)... e, qualche volta, di battaglie.» «E basta?» «No, certo. Ci sono anche la stupidità, la crudeltà, l'esaltazione della vittoria... Ma l'esaltazione è rara. Normalmente c'è la preoccupazione.» «Odiavate i vostri nemici?» «Io mi innamoravo di loro. E, innamorandomene, mi impadronivo del loro modo di pensare. È molto più facile capire colui che ami, infatti, che non colui che odi. E così li sconfiggevo, perché è più facile sconfiggere quello che capisci. Mi sono innamorato di Aleksandr e l'ho sconfitto diverse volte. Invece, del popolo russo non sono riuscito a innamorarmi. E come avrei potuto? Contadini derelitti, superstiziosi, analfabeti...» «E cosa bisogna fare per vincere?» «Inserirsi nella vittoria. Racchiudersi in essa. Lasciarsi impregnare del suo profumo. Sciogliersi in essa fino al momento in cui finalmente giunge. Ma non immaginarla, mai, a nessun costo!» «Immaginarla?» «Sì. Mai immaginarla, rappresentarsela, pregustarla. Dio te ne scampi. È proibito.» Proprio nel momento più interessante, anche Napoleone scomparve. Decisi che era giunto il momento di abbandonare il mondo parallelo, ma qualcosa me lo impedì. «Come stai, figliolo?» «Papà?» Rimasi senza parole, anche in quella sorta di trance. Non sono un grande
esperto del complesso di Edipo, ma non credo che riguardi proprio tutti. Dopo la morte di mio padre, l'ho sognato diverse volte, e sempre, nel sogno, mi ha accarezzato in modo così dolce e affettuoso che al risveglio non ho potuto evitare di considerare le teorie freudiane con un certo scetticismo. Anche questa volta mi parve che mi passasse la mano sulla testa, da dietro. Una carezza leggerissima, quasi impercettibile. Il mio papà, grande e buono. Saggio e triste. «Siamo fieri di te. Non puoi immaginare il destino che ti aspetta. Pensa al numero.» «Come? Non ho capito, papà! Quale destino?» Il numero? Il numero, ho capito. Ma perché scomparite tutti? Voi scomparite e io cosa faccio? Risorgo? Da qualche parte, in fondo alla mia mente, mi colpì il pensiero che la resurrezione dai morti doveva essere simile a questo mio risveglio. La graduale acquisizione di una nuova coscienza e di un nuovo corpo. "Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà..." A giudicare da quello che mi sta succedendo, la resurrezione non è solo un risultato, ma anche un processo. La riacquisizione di se stessi in una nuova realtà. Alt! Nuova? No, no, esattamente il contrario. Nel mondo parallelo l'incorporeità scompariva e, al suo posto, sopraggiungeva la percezione del proprio corpo. Il mio, al momento, giaceva su qualcosa di molto duro e freddo. Muovendo piano la lingua, mi assicurai che la Stellina fosse ancora con me. Aprii gli occhi. Ero immerso nella più completa oscurità e per un istante ebbi perfino paura che mi avessero accecato, anche se mi ripresi subito e cercai di calmarmi. Decisi di rimanere ancora un poco sdraiato, per riprendermi completamente. Controllai se la mia memoria funzionava ancora. Mi ricordai come mi chiamavo, il mio indirizzo e-mail e il cognome da ragazza di mia madre. Poi sopravvenne una certa noia. Cominciai a muovere le braccia e le gambe, poi provai a tastarmi. Avevo indosso un vestito molto strano. Una specie di chitone greco, ma molto lungo, o una galabia araba, ma con le maniche e il cappuccio. Ero disteso su una lastra di pietra perfettamente levigata, circondato dal più assoluto silenzio. Dal più assoluto, incredibile e sepolcrale silenzio. Decisi che era arrivato il momento di alzarmi e provai a mettere giù le gambe, ma non toccai alcun pavimento. Mm... E se il suolo fosse stato cinque metri più sotto? E se fosse stato cinquanta metri più sotto? A quel
punto ebbi un lampo di astuzia e sputai. A giudicare dal rumore, il suolo non era lontano. Allora scivolai cautamente sulla pancia giù dalla mia postazione e arrivai a toccare una superficie. Non erano cinque metri, ma comunque almeno un metro e mezzo. Mossi lentamente qualche passo, con le braccia tese davanti a me, e quasi subito toccai una parete. Continuai ad avanzare lungo quella parete e poco dopo sentii sotto le dita una nicchia, la esplorai a tastoni e trovai una scatola di fiammiferi. Provai ad accenderne uno. Alla luce del fiammifero, vidi che nella nicchia c'erano una lampada a olio e un gigantesco ramaiolo pieno d'acqua. Accesi la lampada, gettai il fiammifero, che stava giusto bruciandomi le dita, e annusai il liquido. Sembrava proprio acqua. Alzai la lampada e scoprii di essere murato in una cripta di pietra di tre metri per tre. In mezzo c'era un alto tavolo di pietra, molto simile a quelli dei laboratori di anatomia patologica: era lì che ero ritornato nel nostro mondo. Ecco in che modo gli hat seppelliscono i loro eroi. Niente da dire, una tomba molto elegante. Minimalismo egizio. Ci sarebbe voluta qualche decorazione alle pareti... I miei confratelli avevano evidentemente deciso di farmi credere di essere murato vivo... E mi avevano lasciato anche l'acqua. Benissimo, li conosco i trucchetti degli hat! No, ragazzi, non riuscirete a spaventarmi con sciocchezze simili. Adesso griderò per un po', la parete si aprirà e apparirà FF. Decisi che non avrei gridato, ma, al contrario, avrei parlato in modo chiaro e preciso, perché nulla andasse perso. «Cari fratelli!» Pausa. «E sorelle!» Mi ricordai del primo e ultimo appello al popolo di Stalin senza ricorrere a "compagni", nel luglio del '41. «Il vostro destino è nelle vostre mani. E nei vostri cervelli. Avete letto il file hat.doc! Capite che, se le nostre richieste non saranno accettate, questo file sarà divulgato nel modo più ampio possibile. E sappiate, fratelli e sorelle, che il Segreto Più Grande, un segreto che nasconde una minaccia fatale per la Confraternita, abbiamo preferito non inserirlo nel file. Non volevamo gravare i fratelli che non hanno ancora raggiunto i gradi più alti di iniziazione con conoscenze non opportune, che li avrebbero condannati a una morte precoce in entrambi i mondi.» Feci una pausa, in modo che i miei ascoltatori potessero apprezzare pienamente la nostra generosità. «Per salvare la Confraternita, è necessario che accettiate due condizioni. Primo: immediata liberazione di tutti noi, compresa Dina. Secondo: tratta-
tive dirette senza intermediari con il Gesser dei Gesser. Sono condizioni semplici, comprensibili e assolutamente ragionevoli. Per questo non fate sciocchezze. Non perdete tempo! Le ore passano.» Pausa. In tono più sommesso: «Non so nemmeno io con che rapidità». Riflettei per qualche istante sul mio discorso e decisi che non mi era riuscito affatto male. Non avevo ancora fatto in tempo a risalire sulla mia postazione e a installarmici comodamente, che una delle pareti scivolò lateralmente e sulla soglia apparve FF, vestito con un lungo chitone chiaro simile a quello che indossavo io, solo senza cappuccio. Nella penombra i suoi occhi grigi scintillavano di una strana luce fosforescente. «Fratello Iosif! Mi segua!» «A piedi nudi? Portatemi prima delle scarpe. Il pavimento è di pietra, non voglio prendermi un raffreddore.» «Se si rifiuta di muoversi, fratello Iosif, la costringeremo con la forza.» La sua voce era incolore, come sempre, e nei suoi occhi brillava un'altezzosa gravità. Proprio da quella gravità nasceva una certa legnosità dei movimenti che sembrava addirittura segno di paranoia. Ma non era il momento di dedicarsi alla psichiatria! «Fratello Fëdor! A questo punto devo aggiungere una terza condizione. Esigo che lei sia punito in modo esemplare per offese alla grandezza. È un delitto grave rivolgersi in modo irrispettoso agli iniziati di primo grado.» «E chi l'ha ammessa tra gli iniziati di primo grado?» «Io stesso ho fatto questo passo. Ho lavorato sui documenti, ho letto, ho pensato molto. Mi porti le scarpe, fratello Fëdor, e il mio iPod, voglio sentire un po' di musica.» FF scomparve. E cominciai a calcolare un tempo che non sapevo come valutare. Del resto, il tempo si comporta come vuole. Per fortuna FF tornò quasi subito. Mi gettò dei sandali di pelle e mi porse in silenzio il mio iPod con gli auricolari. Seguii FF lungo una serie di corridoi scuri, stretti e bassi come le gallerie delle miniere, illuminati da rare lampade con una reticella al posto del paralume. Camminammo in silenzio abbastanza a lungo. Il suono dei nostri passi e dei nostri respiri rimbalzava sulle pareti con una breve eco. All'improvviso sentii, proveniente dall'alto, in lontananza, il rumore inconfondibile di un treno in corsa. Tu-tuc, tu-tuc. Tu-tuc, tu-tuc. Il metró di Mosca. In alto, molto sopra di noi. Familiare. Assolutamente familiare e assolutamente enigmatico. Eravamo nel magico regno sotterraneo delle leggende sul Cremlino, con le stazioni segrete e le tratte riservate.
La vita, da qualche parte, continuava. Se non per me, almeno per gli altri. È buffo che questi altri non la apprezzino affatto, si angoscino per delle sciocchezze, litighino furiosamente senza alcun motivo. Ma in fondo tutto questo non importa. Vivono, e questa è l'unica cosa che conta. Avevo l'impressione che le nostre chance di ritornare tra loro si assottigliassero a vista d'occhio. Non avrei saputo dire perché. Forse per la silenziosa docilità di FF? Ci fermammo. Sentii una goccia d'acqua cadermi sulla testa. Capii che eravamo arrivati. FF fece un passo di lato e mi indicò con un cenno una parete che si stava aprendo. Chinandomi appena, varcai una soglia e mi ritrovai sulla parte superiore di un grande anfiteatro illuminato da centinaia di fiaccole, sorrette da aste di bronzo. In fondo alle gradinate semicircolari c'era una via di mezzo tra un altare e una cattedra universitaria. Seduti in prima fila c'erano Anton e Matvej, anche loro vestiti con il bizzarro costume locale. Si girarono a guardarmi, io li salutai con la mano e cominciai a scendere, cercando di mascherare l'ansia che mi metteva quell'atmosfera di cupa solennità. «Allora, come va?» Matvej scosse la testa. Sul suo viso non notai la minima traccia di solennità. «Ho i chakra un po' ammaccati, ma mi pare che si stiano riprendendo.» Tirai un sospiro di sollievo: Matvej era in forma. Anzi, notai che il chitone gli donava molto. «Sei il solito hooligan, Matvej.» «Certamente. Dimmi, Iosif, se non è bello, qui... Guarda che illuminazione! Ci vorrebbe solo un bel caffè.» «Espresso o alla turca?» «Alla turca, che domande!» «Adesso ci proviamo.» Mi alzai, mi raddrizzai bene e dissi con una bella voce di petto: «Fratelli! Fateci una cortesia. Tre tazzine di caffè, per favore. Alla turca!». «Pensi che il compagno maggiore apprezzerà il tuo scherzo?38 » 38
Una vecchia storiella dell'epoca sovietica. Tre colleghi in trasferta si ritrovano nella stessa camera d'albergo e ammazzano il tempo raccontandosi barzellette. Politiche, naturalmente. Uno di loro decide di organizzare uno scherzo. Dice di dover andare alla toilette ed esce dalla camera, ma in realtà va dall'addetta al piano, le dà un rublo e le chiede di portare in camera tre caffè. Quando torna dice: «Ascoltate, non è il caso di continuare. Noi
La voce di Anton suonava più cattiva del solito, ma Matvej era decisamente brillante: «Non lo so, ragazzi. Non lo so... Quando gli ho detto che Kem-Atef li mandava a salutare, si sono schierati come le figure degli scacchi. Mi sembra che ci considerino con rispetto». «Matvej! Ma perché Kem-Atef?» «Ma che cosa vuoi che ne sappia di tutti questi Kem-Atef, Gesser e Hatshepsut! Era semplicemente un nome che mi era rimasto impresso.» «Non l'avrai incontrato nel viaggio che ci siamo appena fatti?» «Può darsi. Ho incontrato un sacco di gente.» «Racconta, allora!» «Ma cosa c'è da raccontare...» «Anton, e tu hai visto qualcosa di interessante?» Anton si strinse nelle spalle senza parlare, con un gesto in cui mi parve di cogliere un senso di disgusto. Alle nostre spalle si aprì la porta che avevo varcato poco prima. Sulla soglia apparve FF. Senza caffè, naturalmente. «Adesso parlerete con il Gesser dei Gesser. Quando risponderete alle sue domande, dovete alzarvi in piedi e inchinarvi. Voi non potete fare domande. Dalle vostre risposte dipende il vostro destino nel mondo parallelo.» «Come "nel mondo parallelo"? Vuol dire che non possiamo contare su una serena vecchiaia nel mondo reale? Fratello Fëdor, non si starà un po' allargando?» FF mi ascoltò, non disse nulla e scomparve. Non mi piaceva quella reazione così veloce da parte degli hat, Come avevano fatto a organizzarsi nel giro di pochi minuti? Come mai il Gesser dei Gesser era così pronto a incontrarci? Matvej, invece, era stato favorevolmente impressionato dalle parole di FF. raccontiamo le nostre storielle, ma la camera sarà sicuramente sotto controllo». Gli altri due non gli danno retta: «Ma basta, smettila! Sono tutte paranoie!». «Guardate, allora!» Prende il portacenere di cristallo e vi parla dentro: «Compagno maggiore! Tre caffè alla camera trentacinque, per favore!». Un attimo dopo entra l'addetta con i tre caffè. I suoi colleghi sono evidentemente scioccati, bevono il caffè e si mettono a letto. La mattina dopo il tipo si sveglia da solo: nella camera non ci sono più né i colleghi, né le loro cose. Corre dall'addetta al piano: «Dove sono gli altri?». «Li hanno portati via gli uomini del KGB.» «Ma è terribile... e... io... perché...?» «Il compagno maggiore ha molto apprezzato lo scherzetto dei tre caffè!»
«Non sarebbe male,» disse in tono assorto «se il Gesser dei Gesser risultasse una graziosa fanciulla. Io la conquisterei... Iosif mi aiuterebbe...» Anton continuava ad apparire malinconico. «Ehi, Anton, con questo stato d'animo non sarà facile cavarsela!» osservai. Ma smuoverlo non era facile. «Oggi mi capita come alle donne: il mio umore è determinato dall'abito che indosso.» «E perché non ti piace il nostro abito? Ci dà un'aria così esotica.» «Non mi piace il cappuccio. Mi sembra che abbia la precisa funzione di coprirci la testa al momento decisivo. È proprio così che hanno giustiziato i decabristi.» Avevo visto un film sull'argomento e a quanto pareva Anton aveva ragione. Cosa fare, allora? Spogliarci? «Adesso aggiustiamo tutto.» Matvej si era illuminato. «Se non ti piace il cappuccio, prego. La nostra ditta già da decenni è specializzata nell'eliminazione dei cappucci indesiderati...» Con queste parole Matvej cominciò a strappare i cappucci dai nostri chitoni. Nel giro di un minuto ci ritrovammo con i colletti ripuliti, ma non avemmo il tempo di capire se il nostro look era effettivamente migliorato, perché da un altoparlante una voce femminile un po' stanca ci invitò ad alzarci e inchinarci. «Matvej, ma tu hai indovinato! Il Gesser dei Gesser è una donna! Adesso dobbiamo solo capire se è simpatica... Ci alziamo?» «Be', forse in quanto autentici gentiluomini in presenza di una signora...» Matvej e io ci alzammo. Matvej addirittura si inchinò in direzione della cattedra. Anton rimase seduto, immobile. «Aspetto.» Stavo riflettendo sul fatto che quella voce mi era sembrata stranamente familiare, quando Matvej cominciò tutt'a un tratto a parlare in tono sarcastico: «Carissima! Ma perché te ne stai nascosta dietro quella parete? Esci, parliamo un po', siamo tra amici». Anton guardò Matvej con lo stesso sguardo con cui i maghi "normali" guardano Harry Potter che sibila e parla il serpentese. E, devo dire, era uno sguardo in qualche modo indifferente. Cercai di ricordare in quale altra occasione Anton aveva rivolto a Matvej quello sguardo, ma in quel momento
la porta dietro alla cattedra si aprì e io ebbi un sussulto. Dietro la cattedra c'era Dina. Era anche vestita come al solito, in blue-jeans e maglione nero, ma al collo aveva una pesante catena d'oro con un gran medaglione ovale. «Allora sei tu, alla fine» disse semplicemente Anton. «Sono io. Siete stati fortunati, nessuno vi farà del male. Tra poco vi addormenterete di nuovo. A parte Iosif, naturalmente.» Io mi ripresi, decisi di fingere che quello che stava accadendo non mi riguardasse minimamente, tornai a sedermi, presi l'iPod e mi misi a ascoltare Bang Bang. I was five and he was six We rode on horses made of sticks He wore black and I wore white He would always win the fight Bang bang He shot me down Bang bang I hit the ground Bang bang That awful sound Bang bang My baby shot me down 39 . Il mondo era definitivamente e irreparabilmente impazzito. La moglie di Anton, mia sorella, ci aveva appena comunicato che ci avrebbe uccisi in modo indolore. Capitolo Trentatré Non era passato molto tempo dall'ultima volta che avevo brontolato contro mia sorella. Proprio in quell'occasione Anton mi aveva ricordato un episodio che avevo completamente dimenticato, di come eravamo tornati a casa una volta, tanti anni prima, da uno dei primi concerti degli Auktzion, molto allegri, molto giovani e non molto sobri (non si può, del resto, essere 39
Io avevo cinque anni e lui ne aveva sei, galoppavamo su cavalli di legno, il suo era nero, il mio era bianco, lui vinceva sempre. Bang bang, lui mi sparava, bang bang, io cadevo a terra, bang bang, che suono orribile, bang bang, il mio amore mi ha sparato.
contemporaneamente allegri, giovani e sobri!). La vita sembrava vera, o meglio, non si aveva alcun dubbio al riguardo. Matvej si era messo a camminare sulle mani e aveva percorso in quel modo una ventina di metri sul marciapiedi pieno di neve, finché non era crollato a terra rovinosamente, scivolando su un tombino gelato. Per di più proprio nel momento in cui mi ero messo a gridare a pieni polmoni: «In corpo sano spirito sano!». Poi una bellezza dalle gambe lunghe aveva pubblicamente leccato l'escoriazione che Matvej si era fatto al polso. E alla fine eravamo andati a casa nostra (i nostri genitori erano in dacia) e avevamo bevuto e ascoltato musica finché alla fine anche mia sorella non mi era più sembrata così ingessata. Eravamo usciti sul balcone a fumare. Avevo gettato la mia giacca sulle spalle di Dina e avevo scoperto con grande stupore che la mia super razionale sorella scriveva poesie. È arrivato l'inverno nelle nostre due case, La Cina è vostra. Languore buddista, Tè verde e Grandi Fiumi Gialli. E nella fantastica trasparenza della ciotola Un fiore di loto. Benignità di Buddha. Perlacee possibilità della sorte. Rimasi sconcertato. Allora a Mosca il buddismo non lo conosceva nessuno, e il tè verde era terribilmente esotico. Chissà come era venuto in mente a Dina di dedicargli quei versi? Poi bevemmo ancora per un bel po'. Non tè. Anche Dina bevve, pianse e disse che in realtà mi amava. Mi commossi anch'io e per poco non ci baciammo. E adesso? Perché eravamo alla guerra civile? Come potevamo, fratello e sorella, ritrovarci, non dalle parti opposte della barricata, ma in due diversi universi? E cosa dovevo fare, adesso? Pensarci? Preoccuparmi? Cercare di ristabilire l'integrità della realtà? Sarebbe stato bello, ma sapevo già che non ci sarei riuscito. Ormai si era persa e recuperarla era impossibile. «Dina! Dina! Sei impazzita! Cosa hai fatto, stupida?» «Iosif, capisci,» gli occhi di Dina scintillavano proprio come la sera della nostra riconciliazione «l'ho fatto tanto tempo fa.» «E la mamma lo sa?»
«No.» «E... il papà?» «Nessuno sa niente.» «Allora ripensaci! Sei ancora in tempo!» Matvej prese la parola: «Insomma ragazzi, cerchiamo di essere concreti. A quanto pare, siamo tutti qui. Qualcuno ha delle proposte?». Mi parve che del suo brio fosse rimasta solo un po' di rabbia. «Alla fine ci si stufa anche di essere coraggiosi. Proviamo ad ascoltare la mia ex moglie.» La parola "ex" Anton non la sottolineò in alcun modo, ma colpì lo stesso le orecchie di tutti. Matvej passò improvvisamente dalla rabbia alla tenerezza: «Dina, noi non siamo nemici, vero?». «Io per voi sono un nemico, ma voi per me no. Ragazzi, voi non capite niente! Assolutamente niente! Ed è normale. Siete molto intelligenti, ma questo è un momento complesso e decisivo. Domani in Russia ci sarà un cambio di potere.» «Potere?» «Un nuovo primo ministro. Nuovi capi dell'esercito, dei servizi e della polizia. E dopodomani arriverà il nuovo ministro della difesa.» «Be', non mi sembra così tremendo» osservò Matvej. «Direi che era ora, anzi.» «Fare delle battute politiche in questa situazione rivela il più assoluto cinismo» lo bacchettò Anton, che poi si rivolse a Dina in tono assolutamente tranquillo: «Avete deciso di sostituire questi mezzi hat stupidi, pigri e avidi con dei veri professionisti?». «Più o meno.» «E saranno tutti appartenenti al secondo grado di iniziazione? O addirittura al primo?» «Al secondo. Al primo grado di iniziazione qui, per ora, ci sono solo io.» «Ma avete intenzione di sostituire tutti?» La parola "tutti" Anton la pronunciò con una certa enfasi. «Non tutti...» Dina guardò per la prima volta Anton. Nel suo sguardo si leggeva un certo rispetto. Forse pensava che, dopo avergli rivelato il suo grado e avere ammesso la perspicacia del suo ragionamento, avrebbe meritato un analogo riconoscimento. Anton però non ci fece il minimo caso.
«E poi, naturalmente, le armi atomiche?» «Naturalmente.» «E il cataclisma nucleare?» «Sì.» «Per quanti miliardi?» A un tratto ebbi la sensazione che Anton fosse interessato alla possibilità di acquistare un appartamento a un prezzo di favore. «Non è del tutto chiaro. I nostri analisti finora non sono riusciti a calcolarlo. È un modello molto complesso. Penso sui sei-sette.» «Voi cominciate e l'America risponde?» «Esattamente.» «Chi rimarrà?» «Qualcuno in Africa. Qualcuno in Cina.» «E basta?» «Be', la Groenlandia, l'Antartide e quelli che riusciranno a raggiungere i rifugi antiatomici. Ma cosa faranno dopo è un mistero. Ci vorranno due anni solo perché finisca la tempesta di polvere...» «E i paesi islamici ad alto tasso di estremismo? Non sono vostri alleati?» «Anton, ti prego!» «Scusami. Va bene. E l'Australia, l'America meridionale?» Una tranquilla conversazione famigliare. Eppure... «Le megalopoli e le grosse città non hanno la minima chance. Più di trecento testate nucleari. Forse le città più piccole e i villaggi all'inizio ce la faranno, ma... I cambiamenti climatici saranno molto seri.» Matvej, dopo avere ostentatamente scosso la testa per almeno un minuto nel tentativo di risvegliarsi, decise finalmente di inserirsi nella conversazione: «Dina, non capisco. Cos'è questa specie di Armageddon?». Perché non interrompesse i due piccioncini, gli sussurrai in un orecchio: «Energia, Matvej. Energia Ka. Te ne ho già parlato. Bisogna pomparla nel mondo parallelo. Non disturbare, lasciami sentire». «E quando?» continuò Anton come se niente fosse. «Te l'ho detto. Molto presto.» «Faremo tutto il possibile per impedirtelo.» Anton pronunciò queste parole con lo stesso tono con cui avrebbe detto: "Senti, questo vestito, a essere sinceri, non è che ti doni molto...". «La ricreazione è finita, Anton. Perdonami, mio caro, ma non puoi più volare da nessuna parte.» «Pensi che...»
«Io non penso niente. Qualsiasi analista di qualsiasi servizio segreto è già a conoscenza delle informazioni che ci sono nel tuo file. Non cambierebbe niente. È tardi. Loro, a differenza di voi, non hanno pensato che potessimo attaccare così in fretta e così a fondo. Ma è quello che faremo.» Anton non rispose. Decisi di provare a cambiare argomento, cercando contemporaneamente di aumentare il livello di pathos. «Ed è da molto, cara sorella, che hai cominciato a uccidere?» «Non dire sciocchezze. Sai che la morte non esiste. E io non ho ucciso nessuno. E nemmeno ho mai dato ordini di questo tipo. Abbiamo un collegio particolare che si occupa solo di questo aspetto.» «Perché avete ucciso Lilja?» «Noi non abbiamo ucciso Lilja. È stata lei a farla finita, senza aspettare il nostro intervento, e tu lo sai benissimo. Ascolta! Mi pare che tu ti sia fatto delle idee sbagliate sul nostro conto. Noi non amiamo la violenza, e preferiamo farne a meno, se appena possiamo.» «Basta dire palle, Dina» sbottò Matvej. «Il vostro scopo è creare la maggior sofferenza possibile sulla Terra. Sangue, lacrime e morte.» «Ripeto. Non amiamo particolarmente la violenza fisica. E la sofferenza... è un problema molto complesso...» A quel punto fui io a sbottare: «La violenza fisica? E la catastrofe nucleare che state per scatenare non è fisica? E l'olocausto non siete stati voi a organizzarlo?». «Sì, ma non da soli.» Non da soli. Mi immaginai un ingegnere tedesco. Gli occhiali rotondi dalla montatura metallica. L'uniforme color topo ha preso solo da poco il posto della giacca o del maglione. È seduto davanti al tecnigrafo, assorto in un progetto. L'ufficio fino a pochi mesi prima era una biblioteca per bambini, fa freddo. L'ingegnere deve andare spesso a scaldarsi le dita alla piccola stufa dove stanno bruciando quattro libretti scritti in polacco. Sulla carta comincia a delinearsi un edificio. L'entrata. Lo spogliatoio. Di quanti appendini ci sarà bisogno? E in inverno? Telefona per informarsi. Non ce ne sarà bisogno? I vestiti rimarranno per terra? Va bene. D'accordo. La camera deve contenere gruppi di centoventi persone. Ce ne vogliono due. E poi il forno. Le dimensioni di un forno dove collocare duecentoquaranta corpi devono essere... Dunque... Un corpo può misurare, diciamo, 90-6090. No, bisogna prevedere anche gli interstizi... Anche se ci saranno comunque dei bambini, che possono occupare anche metà spazio rispetto a un adulto... Fa dei calcoli. Poi si rimette a disegnare. Poi gli vengono in
mente due possibili migliorie. Telefona di nuovo. Sono tutte e due respinte. Ucciderli con lo stesso gas utilizzato poi per bruciarli non è una buona idea. Bisogna anche sperimentare nuove sostanze tossiche da usare al fronte. E bruciarli subito, senza prima avvelenarli, è tecnicamente complicato. Bisognerebbe spingerli non nelle camere a gas, ma nei forni. Potrebbero cominciare ad agitarsi. Inoltre le capsule d'oro o altri oggetti di valore sfuggiti alla perquisizione (non dimentichiamoci che abbiamo a che fare con un popolo avido e scaltro) avrebbero dovuto essere individuati tra la cenere, il che è molto faticoso, per non parlare poi dei brillanti che bruciano senza residui. L'ingegnere si alza, si stira, va al bollitore, si versa una tazza di acqua bollente e dà un'occhiata al lavoro dei suoi vicini. Il suo vicino di destra sta disegnando una ferrovia sotterranea, quello di sinistra si occupa della logistica. L'organizzazione delle diverse fasi, la capacità produttiva, il personale necessario, eccetera eccetera. Il suo vicino di dietro, un economista, elabora il preventivo del costo della costruzione del secondo corpo. L'ingegnere versa un cucchiaio di cicoria nella tazza e aggiunge un pizzico di saccarina. La saccarina si dissolve nel liquido bruno-rossastro. È tutto a posto. Tutto procede come previsto. Fosse così anche al fronte... L'ingegnere ritorna al tecnigrafo. E comincia a disegnare il tetto. Il camino. No, due camini. O uno? Il pensiero che fosse il fumo del camino di Auschwitz il legame più diretto tra il nostro mondo e il mondo parallelo, mi riportò alla conversazione con Dina. «Da dove vi viene questo odio per gli ebrei?» «Nessun odio. Ci siamo difesi e ci difendiamo.» «Ma, scusa, sorellina, come è possibile? Non siamo anche noi due ebrei, almeno per un quarto?» «Gli hat non sono i nazisti, per andare a cercare anche i quarti.» «E l'Oriente? In Oriente avete perso. Io però mi ricordo la tua poesia.» Dina fece un sorrisetto e si tolse una ciocca di capelli neri dalla fronte. «Te la ricordi? Mi fa piacere. Contiene due frasi cruciali: "L'inverno nelle nostre due case" e "la Cina è vostra".» Decisi di non cedere ai ricordi. In ogni caso, non era quello il momento. Matvej e Anton ci ascoltavano con grande attenzione. «E anche con i cristiani avete avuto dei problemi?» «Abbiamo avuto dei grossi problemi nel momento della comparsa e della diffusione del cristianesimo. La cosiddetta crisi nazarena. Ma siamo riu-
sciti a superarli.» «Avete messo la Chiesa sotto controllo?» «No. L'abbiamo divisa. E quando qualche fazione ha cominciato a diventare troppo potente, l'abbiamo divisa di nuovo. O l'abbiamo messa sotto la protezione dello stato... Cosa importano i particolari? Ce l'abbiamo fatta. Adesso di cristiani veri ne sono rimasti proprio pochi. La schiacciante maggioranza si limita a qualche rituale.» «Va bene, ma da dove hanno preso gli hat i loro rituali? L'uccisione per mezzo dei serpenti, la decapitazione?» «In realtà non sono dei rituali, sono delle forme di difesa. Le abbiamo scoperte ai tempi di Kem-Atef. Durante una delle sue immersioni nel mondo parallelo, Kem-Atef, per caso, o forse nient'affatto per caso, aveva incontrato il capo degli Shuar, dopo di che si era stabilito un contatto costante tra gli hat e gli Shuar. Furono loro a rivelarci che se un nemico viene ucciso da un serpente a due teste, e la sua testa viene mummificata tramite affumicazione, anche nel mondo parallelo perde tutta la sua forza e non è più in grado di vendicarsi.» «E dov'è la testa del Chimico?» «In un posto sicuro. Non ho il diritto di rivelarvelo.» «Ma cosa c'entriamo noi? Perché ci hai coinvolti in questo gioco?» Dina ci scrutò attentamente. Ricambiammo il suo sguardo. «Ho bisogno di Iosif.» Ebbi un fremito. È sempre bello sentirsi necessari, perfino alla vigilia della fine del mondo. Anton aveva detto che gli hat inseguivano soprattutto me. E Anja l'aveva confermato. Ma perché una sorella dovrebbe inseguire il fratello in un modo così cervellotico? Mi persi nelle congetture più assurde. In ogni caso, sentivo che eravamo in grave pericolo. Ci restava l'ultima carta: i diamanti. Anche se non riuscivo a capire in che modo usarli. Meglio prendere ancora un po' di tempo. «Dina, ma cosa vuoi di preciso da me?» «Non vorrei discuterne in pubblico.» «Dina, ma che segreti vuoi che abbia con loro? Hai una coscienza?» Ero sinceramente indignato. Anton mi spiegò la situazione: «Gli hat non hanno la coscienza. O meglio, non provano compassione. Dopo l'assunzione prolungata di calipsol si verifica un appiattimento delle emozioni. In generale i narcotici, assunti per lo più da quella parte della società che si considera più all'avanguardia, agiscono sulle zone più delicate dell'anima. Le anfetamine. L'ecstasy. La
cocaina. Ostruiscono tutte i chakra. Influiscono sui processi più delicati della sfera emozionale. La mente, a quanto pare, non ne viene influenzata. Le endorfine scorrono a fiumi. Si prova un senso di piacere, come un orgasmo attenuato. A causa dell'esaurimento artificiale delle endorfine, la componente emozionale della coscienza soffre in modo molto grave. Come quella creativa, tra l'altro. Per questo scompare anche la cosiddetta comprensione intuitiva. E qualunque scacchista ti potrà spiegare che non può essere sostituita da quella intellettuale. È una perdita che non può essere compensata in nessun modo. In questo senso l'alcol è molto più umano. Non tocca le emozioni. Mentre i narcotici cancellano la capacità di un sentimento comune. Non sei più in grado di immedesimarti in quello che ti sta dicendo il tuo interlocutore. O di intuire quello che ha intenzione di fare... In una parola gli hat sono dei mostri morali. Nel vero senso della parola». Dina rivolse ad Anton lo stesso sguardo tranquillo e comprensivo con cui un macellaio guarderebbe un maiale sulla soglia del mattatoio. Anche se Anton non strillava e parlava, anzi, in tono sommesso. «Va bene,» disse Dina, rivolgendosi esclusivamente a me «se vuoi discuterne in pubblico, per me in fondo è lo stesso. Voglio che tu ti unisca a me. Voglio dei figli. Voglio dei figli da te.» I cieli non si aprirono e non si sentì alcun tuono. Al contrario, ci fu un grande silenzio. Io guardai cautamente Anton. Poi Matvej. Anton guardava Dina tranquillamente, come se aspettasse una continuazione del suo discorso. Nello sguardo che le rivolgeva Matvej si indovinava invece un certo interesse. Non capivo più niente, quando avrebbero cominciato a crollare i muri? Se non accadeva in quel momento, quando mai doveva accadere? Esaminai l'anfiteatro con un'occhiata circolare. Tutto era nel più perfetto ordine sotterraneo. Adesso Dina si rivolgeva direttamente a me: «Le mie condizioni sono queste: Matvej, Anton e la tua Maša moriranno di una morte indolore e io personalmente garantisco che nel mondo parallelo avranno una quantità sufficiente di energia, anche se non sono hat. Tu diventerai mio marito, riceverai il mio stesso titolo. Tra due giorni governeremo la Russia. Tra due settimane quello che resterà del mondo». Matvej si alzò in piedi. «E perché non ci accettate come hat?» E scoppiò in una bella risata, allegra e bonaria. Dina aspettò che avesse finito di ridere. «Vi abbiamo controllato. A cia-
scuno di voi abbiamo fatto la perizia psicometrica e anche quella genetica. Non siete adatti. Non tutti possono diventare hat. Ci devono essere dei geni particolari.» Matvej non si arrese: «Vuoi dire che l'inclinazione per gli hat è ereditaria?». «L'ereditarietà poligenica è una questione complessa. Forse coinvolge anche il Dna mitocondriale. Per questo anche i caratteri acquisiti possono tramandarsi ereditariamente. Non tutto è stato ancora chiarito.» La mia cultura medica si risvegliò immediatamente. In questo caso non poteva essere che l'energia Ka fosse in qualche modo legata ai mitocondri? Ma a Matvej evidentemente interessavano i risvolti pratici della questione, per cui non riuscii a sviluppare l'intuizione di un possibile legame tra l'energia Ka e lo scambio di energia all'interno della cellula. «Allora potremmo ancora acquisire quei caratteri!» «Matvej!» Anton richiamò Matvej abbastanza bruscamente. Matvej si arrese e si sedette. Dina non lo degnò di un'occhiata e stava per riprendere il discorso, ma Anton la interruppe: «Effettivamente è meglio che ne parliate da soli». «Lasciaci adesso, Dina» disse Matvej in tono lamentoso. Senza guardarlo, Dina si diresse dalla parte opposta dell'anfiteatro. Avrei tanto voluto vedere ancora una volta Barcellona-Real. O andare con Maša al Ritz. Mi alzai come un sonnambulo per seguire Dina. Quando la ebbi raggiunta, mi girai. Alla luce delle fiaccole e a quella distanza le figure di Anton e di Matvej apparivano piccole piccole. Sentii un'insopportabile pena per loro. Bisognava fare qualcosa. Ma non c'era niente da fare. Capitolo Trentaquattro Ci sedemmo su una gradinata nella parte alta dell'anfiteatro. Le dissi che volevo qualche spiegazione, sempre che lei, naturalmente... Dina non aveva niente da obiettare. Non venni a sapere nulla di particolare. A sedici anni, un anno prima di incontrare Anton, Dina era rimasta incinta in seguito a un rapporto occasionale e aveva abortito. L'avevano addormentata con il calipsol. L'aveva provato di nuovo con l'aiuto dello stesso ginecologo, poi aveva trovato un tipo che lo smerciava dalle parti della Farmacia n. 1, nella zona della Lubjanka. Il tipo non aveva badato a spese, nonostante i tempi grami, e l'aveva in-
serita in un viaggio turistico in Egitto, dove, proprio sui gradini del tempio di Hatshepsut a Deir el-Bahari, era stata definitivamente arruolata. Poco dopo si era trasferita in Israele con Anton, dove aveva fatto carriera nella Confraternita e, subito dopo il suo ritorno a Mosca, era stata eletta Gesser dei Gesser. «Parliamo del presente. Sei sposata con un mio amico.» «Non amo Anton. L'ho sposato quando capivo ancora poco, anche dei miei sentimenti.» «Vuoi dirmi che gli hat provano dei sentimenti?» «Gli uomini forti sono forti anche nel sentire.» «E l'appiattimento delle emozioni?» «Si riferisce alla compassione, non alle proprie emozioni.» «In pratica gli hat possono deprimersi e angosciarsi, se stanno male, ma non possono avere le stesse reazioni se a stare male è qualcun altro?» Dina strinse le labbra. «Sento di essere predestinata a vivere con te. A condividere la mia vita con te. A generare dei figli che continuino la nostra stirpe. E questo lo percepisco come un sentimento molto forte.» «E perché prima io non l'ho mai notato?» «Perché tu, come la maggior parte degli uomini, non noti niente. Ma io ti amo.» Maša, che era solita sottolineare questa mia caratteristica, mi chiamava "bestione insensibile". Cominciai a riflettere. L'amore? Va bene, l'amore, ma il sesso? Il sesso con mia sorella? Mi venivano i brividi... Da piccolo avevo cercato con i miei amici, in dacia, di spiare lei e due sue compagne mentre facevano il bagno russo. Il bagno era in penombra, pieno di vapore. Le finestre piccole e appannate. I teneri petti nudi catalizzavano i nostri sguardi. E i capezzoli scuri come ciliegie. Ma il vapore causato dall'acqua versata sulle pietre roventi aveva nascosto ai nostri occhi quella visione, che ci aveva scosso profondamente, e non avevo più avuto occasione di vedere Dina nuda. E anche quella prima volta la mia coscienza aveva cercato di seppellirla il più profondamente possibile. All'improvviso mi ricordai che il giorno dopo Dina mi aveva regalato una rosa. Solo una rosa, strappata da un'aiuola. Perché? Era stata la prima e unica volta che una donna mi aveva regalato dei fiori... In ogni caso era stato tanto tempo prima. Tantissimo tempo prima. Mi regalavi delle rose, Rose che profumavano di assenzio,
Sapevi tutte le mie canzoni, Le cantavi in silenzio. Sei scomparsa all'improvviso, Non sei rimasta in agguato... E forse... Forse non era stato un caso se avevo sempre litigato con Dina? Forse cercavo semplicemente di non notarla? Sì... Mia sorella... Magari aveva ragione Freud... In fondo, i faraoni erano uomini come me. Dina capì che le mie certezze cominciavano a tentennare e decise di darmi la spinta decisiva: «Per me, nella tua situazione la scelta è evidente». Ecco, quella frase era di troppo. Assolutamente di troppo. E mi fece rientrare in me. Capii, innanzitutto, che tutti i beni di questo mondo non valevano una sola lacrima degli occhi di Maša, e, in secondo luogo, che abbandonare gli amici in una situazione del genere era decisamente poco elegante, per non dire immorale. Per di più il profumo di Dina non mi convinceva. «Pensaci, Dina, è una strana storia. Più una donna è intelligente, più è stupida. E viceversa.» «Cosa vuoi dire?» «Tanto più il livello intellettuale di una donna è alto e ufficialmente riconosciuto, tanto più stupido sarà il suo comportamento nella vita privata. Probabilmente perché una donna intelligente si affida troppo all'intelligenza, che in realtà non è di grande aiuto in tutta una serie di questioni. Anzi, può addirittura danneggiare. Non che voglia offendere tutte le donne con questo discorso: ci sono delle eccezioni, naturalmente, ma tu non sei tra queste.» «E perciò?» «Perciò, visto che tu mi vuoi con il cervello, ma non con l'anima, sono costretto a rifiutare la tua effettivamente molto lusinghiera proposta. E a provare a trovare un accordo diverso.» «Trovare un accordo diverso significa che scegli la morte.» «Purtroppo io ho ancora una coscienza, per cui, se scelgo di vivere alle tue condizioni, non riuscirei più a dormire la notte. Perché condannarmi a questa tortura?» «Il calipsol ti libererà dall'insonnia. Dimenticherai tutto il tuo passato. Saremo i dominatori della Terra, avremo un potere mai visto. Dopo di noi, i nostri figli governeranno il mondo. E noi potremo godere l'uno dell'altra nel mondo parallelo, che apparterrà a entrambi. Solo a noi due. E per i su-
perstiti abitanti della Terra saremo gli Abramo e Sara della nuova era.» «Calma, Dina, calma. Abramo e Sara fondarono due grandi popoli, anche se, naturalmente, non senza il contributo di Agar. Tu al massimo speri di fondare una dinastia. E una dinastia che governerà un popolo di mutanti, i sopravvissuti alla catastrofe nucleare.» Mi girai dall'altra parte e vidi una carovana di quattro cammelli. Erano in un punto del percorso Gerusalemme-Eilat. Deserto di rocce. Cielo azzurro, nuvole bianche. Sul primo cammello avanza Abramo. Ha il volto scuro solcato da rughe profonde. Una bella barba grigia. Non gli daresti mai settantacinque anni, anzi, non gliene daresti più di cinquanta. Alla sella ha legato una lunga lancia col puntale scuro. Alla cintura ha una corta spada di bronzo, o forse un lungo coltello. Dietro di lui, sul secondo cammello, avanza Sara, il volto seminascosto dal velo. Sugli altri due cammelli ci sono tutti i loro averi: sul terzo ci sono una tenda di lino scolorita, piena di rammendi, ma ancora molto forte, la sua lunga asta centrale e le sei aste laterali, più piccole, di quercia pietrificata, e un pentolone di rame, delle stesse dimensioni della gobba del cammello, dentro cui tintinnano altre pentole più piccole. Alla bardatura sono legati diversi vecchi tappeti e una balla con i vestiti di lana, tra cui spiccano una lunga mantella quasi bianca e un copricapo ricamato d'oro. Sul quarto cammello ci sono una piccola balla con qualche stoviglia di pietra o di legno, un mortaio, un secchio, alcune lampade e due otri; uno, enorme, per l'acqua e uno più piccolo per il vino. E, naturalmente, due sacchi di tela con il grano e uno, di pelle, con la carne seccata. Le sostanze aromatiche, i condimenti, l'erba per gli infusi sono in un cofanetto di avorio, nascosto sotto i sacchi. Dietro i cammelli vengono docilmente dodici pecore e due cani tutti arruffati. Ogni tanto una delle pecore si mette a belare lamentosamente. La carovana è in viaggio verso l'Egitto. Abramo cerca di sfuggire alla carestia che ha colpito la terra che il Signore ha promesso di dare a lui e alla sua discendenza. Abramo ripensa al suo ultimo colloquio con Dio, in cui Dio gli ha detto di lasciare la terra di Carran. «E io farò di te un grande popolo... in te saranno benedette tutte le famiglie della terra.» Non che dubiti, questo no. Esegue i comandamenti di Dio con calma e serietà. Ma sente che quel colloquio non sarà l'ultimo, che Dio parlerà ancora con lui, che gli parlerà più di una volta - e questo è un grande onore, ma anche una grande responsabilità.
Abramo pensa a Sara. È troppo bella. Qualche ricco egiziano potrebbe innamorarsi di lei e decidere di eliminarlo... Non sarebbe meglio farla passare per sua sorella? Così potrebbe stare più tranquillo. Farla passare per sua sorella... Sua sorella... Fare passare la propria moglie come una sorella lo si può ancora capire. Ma quello che mi si proponeva era qualcosa di molto diverso. No... E in ogni caso io e Dina non assomigliavamo proprio ad Abramo e Sara, come cercai di spiegarle con il massimo tatto. Non mi sembrava il caso di ferire il suo amor proprio e non volevo certo offenderla. Come fanno di solito le donne, Dina interpretò la mia gentilezza come debolezza e continuò a insistere. «Dai tempi di Hatshepsut sulla terra non c'è stata un'altra unione come questa!» «Hatshepsut era buona» dissi non so bene perché. «Mentre tu, Dina... No, non sei cattiva. Non ti condanno, stai semplicemente rispettando il tuo ruolo. Ma io preferirei che le cose si sviluppassero... be', in modo più naturale...» «Non c'è un "modo più naturale" quando c'è di mezzo l'immortalità. Lo capisci, Iosif, ti sto proponendo la vita eterna!» Mi sembrò di vedere delle lacrime nei suoi occhi. «Dina, mia cara, perdonami! Ma le persone non si innamorano per gratitudine, come diceva Lilja, prima che voi la spingeste al suicidio. E poi, di quale eternità parli? E la terza legge della termodinamica? Tanto più che, se ci sarà la Grande Esplosione, ci sarà anche la Grande Morìa...» «La terza legge della termodinamica non si applica alla bioenergetica.» «Non si applica? Be'... mi pare strano... Tra l'altro stai per spedire nel mondo parallelo sei miliardi di anime. Anche per loro ci vorrà un bel po' di energia...» Dina mi ascoltava a malapena. Chiaramente il mio discorso non aveva nessun interesse per lei. Nella sua voce la stanchezza era ormai evidente: «Il principio di Kem-Atef della canalizzazione dell'energia. La parte maggiore dell'energia Ka arriva agli hat». «Ma non ne date nemmeno un po' alle anime delle persone normali?» Dina dovette avere l'impressione che la volessi prendere in giro, ma si sforzò di rispondermi comunque: «Gliene concediamo una minima riserva. Devi capirlo: difendiamo i nostri. Combattiamo per i nostri. Cosa c'è di immorale in questo?».
«I metodi» risposi senza bisogno di pensarci. «Le regole della vostra guerra. Siete criminali di guerra.» «Scusami» disse lei in tono già più duro. «Ci serve la vittoria, a qualunque costo. Come a tutte le altri parti in guerra. Lo sai anche tu: il bene vince sempre sul male. Il vincitore è sempre il buono. Ma è esattamente lo stesso anche nella civiltà degli uomini. Con te io parlo solo un po' più apertamente di quanto si usi nella vostra società.» «Sai, Dina, a sentirti si ha l'impressione che gli hat tendano all'incarnazione di un Satana collettivo. Evidentemente, ragazzi, Dio non vi fa nessuna paura.» «Il grado di ingerenza di Dio nel destino dei nostri mondi, così come il vettore di questa ingerenza, mi appaiono tutt'altro che chiari.» Davanti a me c'era la Dina che avevo sempre conosciuto. Intelligente, dura, decisa. «Al diavolo il vettore. In realtà è tutto piuttosto semplice. Tu mi proponi di cambiare fede o di rinunciare alla vita. È la solita storia. È già successa un sacco di volte. Un po' insolita, naturalmente, nel ventunesimo secolo, ma tutt'altro che originale. E, come Enrico IV prima della notte di San Bartolomeo, mi dici che Parigi val bene una messa.» «Questa Parigi la vale davvero, una messa.» «Dina, io non voglio cambiare fede.» «Perché?» Sembrava che davvero non riuscisse a capirmi. «Non lo so. Non voglio, e basta. È irrazionale. E grazie a Dio che è così. Piuttosto spiegami: se gli hat sono così potenti, perché uccidere Matvej e Anton?» «Ci sono le regole della Confraternita. C'è il Collegio per la tutela dei saperi. Non posso andare contro leggi che hanno più di tremilacinquecento anni. Non sono sola nella Confraternita. Capisci, non posso davvero.» «E cosa dirà la mamma?» «Perché dovrei collocare gli interessi di nostra madre al di sopra di quelli della Confraternita?» Davvero, perché, se le emozioni degli hat sono totalmente appiattite? Mi sentii invadere dallo sconforto. Anche Dina sembrava triste. Ma decisi di non demordere, anche se ormai avevo smesso di credere nella possibilità di una vera vittoria. «Iosif, aspetto da te una decisione definitiva.» La tristezza di Dina, che fino a quel momento mi era sembrata abbastan-
za luminosa, si tramutava lentamente in una sorta di cupa angoscia. «L'hai sentita.» «È la fine.» I suoi occhi neri erano diventati ancora più scuri. «Cosa dici, Dina! Tutto è appena cominciato!» Per serietà di espressione Dina in quel momento sembrava una mummia egizia. Mi sembrò addirittura che i tratti del suo viso avessero perso un po' di finezza, come accade ai cadaveri. «Temo che, nonostante tutta la tua ingiustificata baldanza, tutto sia davvero già finito.» «Come vuoi. Ma negli ultimi tremilacinquecento anni la Confraternita non si è mai trovata in pericolo come oggi.» «Caro fratello, mi pare...» «E io, con tutta la baldanza che sono riuscito ad acquisire in questi tre mesi grazie a voi, ti dirò onestamente che temo una cosa sola.» «Mi fa piacere che ce ne sia almeno una.» «Un tuo errore.» «Un mio errore?» «Sì. Non appena ci avrai eliminati, il Grande Segreto sarà reso noto a una parte ristretta, ma molto influente dell'opinione pubblica. Ed è il principale punto debole della Confraternita. È il dono di Hatshepsut all'umanità riconoscente. Dopo la diffusione del Grande Segreto, sarete distrutti in un batter d'occhio. Dai servizi russi o da quelli americani.» «Aspetto qualcosa di più concreto. Subito.» «Allora dobbiamo tornare dai miei amici.» «Da solo con me hai paura?» «Devi capirmi, mia cara: abbiamo organizzato insieme un'operazione, solitudine 12. Per questo le decisioni le prendiamo collegialmente.» «Vai. Io devo dare le ultime disposizioni.» «Avete qualche idea?» chiese Anton in tono affabile. «Nessuna» risposi io altrettanto affabilmente. «Splendido» disse Matvej. «Proprio come piace a me. Duro. E fino in fondo.» Rivolsi a Matvej un'occhiata comprensiva, trovai sull'iPod i Procul Harum e selezionai Conquistador. Diedi gli auricolari a Matvej e Anton, ma all'ultima strofa Anton mi restituì il suo con le parole: «Tieni, serve più a te che a noi». Matvej invece ascoltò attentamente fino alla fine della can-
zone. ...And though you came with sword held high You did not conquer, only die. Though I hoped for something to find I could see no maze to unwind40 . Ma che conquistatori avremmo dovuto essere? Chi eravamo, gli spagnoli in America? La nostra era piuttosto una Reconquista. Vera. Onesta. Un minuto dopo Dina ci raggiunse. Le mani dietro la schiena. Un'occhiata dall'alto in basso, da professoressa. Dov'era finito il dolore universale? «Allora, cos'è questo Grande Segreto?» «Si sieda, Dina Jakovlevna.» «Avete trenta secondi per rispondere alla mia domanda.» Mi sarebbe piaciuto sapere, così, in generale, che cosa sanno gli hat del tempo. Mi ha sempre interessato, il tempo, come essenza metafisica. O meglio, come essenza fisica. Perché che cos'è il tempo è chiaro fino al momento in cui non lo devi spiegare. Ma questi bastardi qualcosa al proposito lo sanno di certo... Non per niente possono vantare una durata di tremilacinquecento anni. «Non sai, carissima, quante ne abbiamo passate... E siamo ancora vivi!» Matvej aveva parlato in tono tranquillo e ragionevole. «Non ho ancora dato l'ordine della vostra eliminazione.» «Non è vero!» Accorsi in aiuto di Matvej. «Non ho fatto in tempo a mettere piede in casa, che mi hanno sparato addosso in quattro.» «Quello era un gruppo di pronto intervento chiamato da German. Io mi sono inserita più tardi. Per questo sei riuscito a raggiungere il tuo aeroporto militare.» «E la Mercedes araba a Gerusalemme?» «Doveva solo spaventarti, come la telefonata in albergo a Roma.» Sentii che la conversazione con Dina cominciava ad appassionarmi. Mi tornò in mente il discorso di Napoleone. Devi innamorarti del nemico per immedesimarti nel suo modo di pensare. È molto più facile capire quello che ami, infatti. E sconfiggere quello che capisci. Mi sembrava che Dina 40
...E, anche se sei venuto a spada sguainata, non hai conquistato, sei solo morto. Benché sperassi di scoprire qualcosa, non ho trovato misteri da risolvere.
avesse abbassato la guardia e che fosse il momento di attaccare. Ma da dove? E con cosa? «Dina, non hai mai dubitato del fatto che Kem-Atef nel corso del suo viaggio in Cina e in Giappone non solo non sia morto, ma abbia anche decifrato il numero 2224612?» «A quanto pare non hai capito bene i documenti che la tua Maša ha rubato a suo marito. Innanzitutto il numero non è 2224612, ma 222461215. E Kem-Atef non l'ha scoperto, l'ha dichiarato immutabile, inconoscibile.» «No, Dina, no!» Eccola, la breccia! «Il numero suona "2-2-2-4-6-12". E infatti era scritto con i trattini, sotto i quali era disegnata una piramide. La cifra 15 è apparsa solo nel tardo Medioevo, al posto della lettera latina P, che in quell'alfabeto occupava la quindicesima posizione. Al posto della piramide. Kem-Atef scoprì il Grande Segreto. E tornò immediatamente a nasconderlo, perché conteneva una minaccia mortale per la Confraternita. E per bloccare tutte le ricerche in questo settore, lo dichiarò... aspetta, cosa c'era scritto... "eterno, immutabile e sacro". In pratica, il numero è rimasto, ma è svanito il desiderio di decifrarlo. Capisci?» «E allora?» Con la coda dell'occhio percepii il gesto di Anton, che rialzava le spalle. «Allora noi l'abbiamo decifrato! La ricetta per la distruzione degli hat giace in una serie di lettere pronte per la spedizione.» Questo si dice bluffare! Non mi ero mai sentito così bene in vita mia. «Come si decifra il numero?» All'improvviso Dina si era fatta diabolicamente seria. Bisognava continuare l'attacco, ma con quali risorse? «Dina! Non qui. Quanti microfoni e videocamere ci sono, qui intorno?» «Qui. E adesso. I microfoni sono chiusi. Parla!» Nella sua voce vibrava la minaccia. È proprio vero: dall'amore all'odio c'è solo un passo. Capivo che le mie chance di un matrimonio vantaggioso stavano svanendo come neve al sole. La recondita conoscenza della debolezza segreta del coniuge non è un buon punto di partenza per un matrimonio. Se Dio voleva salvarci, quello era il momento giusto. Mi rilassai e, per dimostrare a Dina quanto fossi superiore a tutta quella discussione, chiusi gli occhi. E cominciai a pensare a Hatshepsut. Lei almeno era buona. Aveva consegnato al mondo il segreto per salvarsi dai suoi seguaci. «Iosif!» La voce di Anton mi riscosse dai miei pensieri.
«Sì?» «Ti ricordi il monastero zen? Okam non ti ha detto che sai già tutto?» «Proprio così.» «Vuol dire che sai già tutto. Tutto quello che ti serve.» «Certo che lo so.» I pensieri mi galoppavano per la mente a una velocità sconvolgente. Molto più rapidi delle parole. Ah, che peccato che Hatshepsut fosse morta. E poi non l'avevano sepolta in una piramide, ma in un tempio, a Deir elBahari... Bisognerebbe trovare la mummia a sottoporla all'esame del carbonio radioattivo. Scoprire che percentuale contiene di carbonio C14... Alt. Alt. C14. Mentre il carbonio normale è C12. E 12 è l'ultima cifra del numero. E prima c'è un 6. Non so cosa stia a indicare, ma mi pare qualcosa di noto... I protoni? I neutroni? Ma 4 è la valenza del carbonio, di questo sono sicurissimo. È grazie a questa valenza che esiste tutto il nostro mondo organico. Ma non mi ricordo cosa sia la valenza... Qualcosa di elettronico... E anche le prime cifre indicano qualcosa di elettronico. Livelli? Sottolivelli? Non importa. È il carbonio l'elemento cifrato, con una piramide in fondo. Ma il carbonio con una piramide... Sì! Ho capito! La piramide del numero non è la piramide di Cheope. È il disegno del reticolo cristallino del diamante. Ecco cosa ci voleva far capire Hatshepsut! Il diamante! È questa l'arma contro gli hat! Yes! Yes! Cool! «Iosif, ti sei addormentato? Cos'è questo modo di fare! È già la terza volta che ti chiedo che cosa sai del numero!» Mi alzai, come se fossi in classe, e dissi con voce sommessa, ma chiara: «Dina, le cifre 2-2-2-4-6-12 e la P latina alla fine sono la formula del diamante. La più grave minaccia al mondo per la Confraternita degli hat». Dopo di che, come uno studente che ha dato con grande facilità e disinvoltura un esame molto difficile, tornai a sedermi al mio posto e come se niente fosse chiesi ad Anton: «Sul dodici e sul quattro non ho dubbi: sono il peso atomico e la valenza. Ti ricordi cosa indichino il sei e i primi tre due?». Con espressione assolutamente imperturbabile, Anton fece qualche gesto delle dita nell'aria, dopo di che disse, senza guardare dalla parte di Dina: «2-2-2-4-6-12 è la formula elettronica del carbonio. Due elettroni sul primo orbitale S, due sul secondo orbitale S e due che iniziano a riempire il successivo orbitale P. Il carbonio è il quarto elemento del secondo periodo della tavola periodica. Per questo la sua valenza massima è quattro. Sei in-
dica il numero dei protoni, cioè la sua carica nucleare, dodici il suo peso atomico. La piramide, come abbiamo già intuito tutti, rappresenta il reticolo cristallino del diamante, senza il quale sarebbe una normalissima grafite. Direi che non esiste un modo più semplice e bello di rappresentare la formula elettronica del carbonio». Dina lo aveva ascoltato perfettamente immobile. Teneva le mani intrecciate come se pregasse, aveva chiuso gli occhi e non parlava. Che Anton avesse ragione, mi sembrava evidente. Era sempre stato il più bravo. Che Dina all'università avesse studiato la tavola di Mendeleev mi sembrava altrettanto evidente. Ecco, adesso sapevo che il diamante funzionava per conto suo. Senza bisogno di nessun self-training. Ma come? "Sarete come Dio e conoscerete il bene e il male" mi passò per la testa. E così eravamo diventati come Dio. Ma era stato un bene? Che cosa intendeva il serpente, promettendo ad Adamo e Eva una conoscenza più preziosa del giardino dell'Eden? E aveva poi mantenuto quella promessa? «Anton,» decisi di spostare leggermente il corso della conversazione per dare a Dina il tempo di riprendersi e di evitare decisioni affrettate «ma come agisce il diamante?» «Di preciso non lo so. Ma quando, a Londra, ho visto il Koh-i-noor, ho avuto l'impressione che riflettesse la luce in modo particolare. Non come un qualsiasi pezzo di vetro, e neppure come il cristallo. Mi è sembrato che, oltre al solito spettro, ci fosse un'ulteriore rifrazione, ma la sala era piuttosto buia e ho pensato che fosse solo un'impressione. Ma adesso, e qui Dina ci può aiutare, visto che la sua tesi era dedicata proprio ai tachioni...» «Alt! Il Chimico mi ha appena parlato dei tachioni... Adesso, dopo il viaggio in ascensore... Mi ha parlato delle linee di tachioni...» «Senti, senti,» Anton mi lanciò un'occhiata strana «considerando anche questo è possibile che il diamante agisca in qualche modo su queste linee... Che le rifranga... O le focalizzi... È molto interessante... Mm... Bisognerebbe lavorarci un po' su con calma...» «Ma come faceva Hatshepsut a sapere tutte queste cose?» «Be', sai... Dalle linee dei tachioni alla macchina del tempo... non dico che ci sia solo un passo, naturalmente... ma... la direzione è quella. Per questo Hatshepsut ha deciso di indicarci il numero sia come formula del diamante sia come formula del carbonio, perché almeno qualcuno capisse come funziona la vita sulla terra.» «Il numero?»
«Certo! Il numero, come ha giustamente notato Matvej, non è solo bello. Designa non solo il diamante, ma anche il carbonio. Il carbonio. 2-2-2-4-612. L'unico elemento che è sicuramente alla base di tutte le forme di vita... Strano... Non ho mai collegato il diamante, pur con tutte le sue straordinarie caratteristiche, con il carbonio, che di caratteristiche straordinarie ne ha ancora di più... Eppure ci sarei potuto arrivare... In realtà è molto semplice... A questo punto si capisce perché gli hat siano allergici ai diamanti...» «Perché?» «Gli hat non amano la vita in generale. Devono avere una qualche anomalia genetica...» Io però ero preoccupato da un'altra questione: «Ma io sono un hat o no?». «Bella domanda» osservò Anton. «Chi può dirlo? Sei un caso strano. Ma il diamante ti ha chiaramente aiutato...» «Chi, oltre a voi, è al corrente del significato del numero e del diamante?» ci interruppe Dina in tono pratico. «Nessuno, per ora.» «E la vostra amica Anja?» «Non siamo pazzi, per rivelare un'informazione di questo tipo ai servizi segreti. Per lo meno, senza un'assoluta necessità...» «Bene. Voglio vedere i file predisposti per la spedizione, per essere sicura che le cose stiano proprio come mi avete detto...» A quel punto intervenne Matvej con la sua caratteristica delicatezza: «Dina, e non vorresti semplicemente scoparci subito tutti e tre? Proprio qui. Alla luce delle fiaccole...». Era chiaro che Dina non aveva nessuna intenzione del genere. Matvej cominciò ad accalorarsi: «Scusa, cara, ma devi crederci. Capisco che è dura. Capisco che tu abbia paura. Però, pensaci un po': non siamo arrivati qui a culo nudo, ooops, volevo dire: a mani vuote! E lasciar pascolare la capra nell'orto, voglio dire, te, nelle nostre caselle postali è una cosa che proprio non possiamo fare». Io annuii con un'aria autorevole, che significava che anche un bambino poteva copiare il file e spedirlo all'ora indicata. Anton non parlava ed evitava di guardare Dina. «Perché non avete messo sul dischetto anche questo?» «Perché il disco lo poteva leggere chiunque del vostro giro. Ci serviva soprattutto per cominciare il discorso. Ed è anche la tua fortuna.» «Che cosa proponete di fare adesso?»
Dina che ci chiedeva cosa fare! Se non era ancora una vittoria, era almeno una bella inversione di tendenza! «Concordare un armistizio.» «Le vostre condizioni?» «Primo: la libertà e la sicurezza di ognuno di noi. Secondo: l'annullamento di Armageddon. Terzo: il ritorno del vecchio governo.» «Anton, magari per il governo potremmo lasciar perdere...» Il governo era chiaramente indifendibile. Il grigiore soffocante e l'evidente corruzione possono esasperare anche i russi. Anton aggiunse: «C'è una quarta condizione. Per tutta la durata dell'armistizio abbiamo il diritto di porre condizioni per la formazione delle nuove strutture di governo». Per poco non mi venne un attacco di tosse. «Allora, Anton, chiedi anche dei soldi! Perché fare complimenti? Siamo o non siamo i conquistatori?» «È la nostra quinta condizione. Trecentomila dollari subito, in contanti. E tre miliardi di dollari nel corso della prossima settimana, sui conti che vi indicheremo.» «Dollari o euro?» borbottò Matvej piano, fra sé e sé, anche se sia noi sia Dina lo sentimmo benissimo. Ero entusiasta: «Ma a cosa ci servono i contanti, Anton?». «Dobbiamo comprare le ditte sui cui conti ricevere il resto.» «Allora c'è una sesta condizione: seppellite la testa del Chimico vicino al suo corpo.» Mentre i ragazzi mi guardavano preoccupati, Dina guardava preoccupata l'orologio. «Va bene. Tre miliardi per noi non sono niente. Avrete anche il resto, anche se... Non importa... Ma in cambio dovete mantenere il segreto sul mistero del numero. Non ho intenzione di spaventarvi con le conseguenze che dovrete affrontare in entrambi i mondi se non rispetterete questa condizione. Da parte mia, contro le vostre sei condizioni, ne ho solo una: dovete dirmi a che ora era fissato l'invio delle vostre mail.» Cercai di capire che ore fossero in quel momento. Un errore di due ore, in un senso o nell'altro, poteva significare la morte. Se le lettere erano già partite, perché fare tanti complimenti? E se invece l'ora dell'invio fosse stata ancora lontana, avrebbero cominciato a interrogarci secondo i migliori metodi della polizia segreta. Ci guardammo preoccupati. Dina ripeté la sua domanda: «A che ora partiranno le mail?».
Pensai che tutto era ormai perduto. Decidere che ore erano, dopo che avevamo subito il trattamento col gas, il viaggio nel mondo parallelo e il lento processo di ritorno, era impossibile. Fortunatamente Anton non si era smarrito: «Questo non te lo diremo, ma temo che sia tra molto poco». Se Dina fosse stata una gatta, si sarebbe sicuramente messa a soffiare. Invece tornò alla cattedra e si chinò in direzione di un invisibile microfono. Mi sembrò che le fiaccole si fossero messe a scintillare con più forza. Matvej rialzò le spalle: «Ragazzi, volete dirmi che ce l'abbiamo fatta? Che presto impareremo a viaggiare nel tempo e a resuscitare i morti? E con un sacco di soldi, per di più...». Matvej, ovviamente, era da tutt'altra parte quando Napoleone mi aveva insegnato a non pregustare la vittoria, però avrebbe potuto arrivarci anche da solo... È terribile perdere dopo aver visto la vittoria così da vicino, pensai, guardando Anton con una certa ansia. Anton taceva, tetro come l'interno del mausoleo di Lenin. «Dai, Dina, accetta la nostra proposta!» dissi. «Non complichiamoci la vita. Farai sempre in tempo a ucciderci. Magari riuscirete a trovare un antidoto contro i diamanti. Firmiamo questo armistizio!» «Io volevo evitarlo» disse Dina in tono pensoso. «Ma voi non mi avete lasciato scelta...» Si chinò sulla cattedra un'altra volta. «Cosa vuole fare?» Matvej si era rivolto con aria preoccupata ad Anton in quanto esperto in materia. Anton non rispose subito, ma dopo qualche istante disse, rivolto esclusivamente a me: «Ti ricordi cosa canta Giuda alla fine di Jesus Christ Superstar prima di impiccarsi?». «No.» «Canta qualcosa di molto importante... anche se probabilmente non se lo ricordano più nemmeno Tim Rice e Andrew Lloyd Webber...» «Non me lo ricordo nemmeno io...» Certe volte Anton ti fa impazzire con le sue domande. «Canta: "God I'll never ever know why you chose me for your crime"41 .» «E cosa c'entra?» «Nota: "me for your crime", ME per il TUO delitto...» «Anton, ci sei arrivato!» 41
Dio, non saprò mai perché hai scelto me per il tuo delitto.
Anton annuì con aria di intesa: «Dina ha controllato la sua posta. E ha letto la mia lettera d'addio. Io non sapevo ancora che lei...». «E allora?» «Non c'è il minimo accenno ai diamanti. E nemmeno all'interpretazione del numero.» Mi sentii morire. «E che cosa pensa di fare?» «Qualcosa di spaventoso.» Anton non ha mai amato fare previsioni, né sul tempo, né sul calcio. E adesso... «Sai trovare le parole giuste per rincuorare la gente, tu... Ma che cosa?» «A giudicare dal modo in cui parla in quel microfono, mia moglie (questa volta non specificò "ex") ha capito tutto. Dopotutto è una fisica nucleare...» Matvej era cupo e solenne come un antico romano: «Non abbiamo più niente da perdere». «No, Matvej!» disse Anton pensoso. «Sia noi che tutti gli altri abbiamo purtroppo qualcosa da perdere. Ci siamo spinti troppo avanti in questi cinquemila anni. Troppo avanti.» Dina guardò per la seconda volta Anton con lo sguardo di un macellaio affettuoso e poi si rivolse a me: «Iosif, vieni qua». Lo disse con una voce da prof cattiva. Mi sentivo esattamente come mi sentivo a scuola dopo le parole: «Mezenin alla lavagna», in quei casi - tutt'altro che rari - in cui non avevo studiato la lezione. Dietro la cattedra c'era un piccolo schermo a cristalli liquidi e un fallico microfono nero, con accanto un joystick più o meno simile. Avevo fatto appena in tempo a notare la tastiera nera appoggiata un po' in disparte che lo schermo attirò la mia attenzione. Sullo schermo c'era Maša. Era in un parco, o in un giardino, seduta su una panchina, e leggeva. «È la realtà,» disse Dina «è una web-cam. Dimmi una qualsiasi parte del corpo.» «Perché?» chiesi, pensando che l'avrebbe toccata col joystick. «Dimmela!» ripeté Dina, e io scelsi la gamba. «Destra o sinistra?» Non lo so. Non voglio dirlo. Ho paura. «Ma... non lo so... destra.» Dina si chinò sulla cattedra e pronunciò: «Gamba destra». Sullo schermo
Maša gettò a terra il libro e si chinò goffamente, afferrandosi la gamba destra. Dina tracciò velocemente un quadrato con il joystick attorno alla gamba. Primo piano: da una ferita sulla gamba, appena sotto il ginocchio, usciva del sangue, che filtrava tra le dita di Maša. «Vedi che i vostri famosi servizi segreti non possono fare poi molto...» Premette rapidamente con l'anulare il tasto "esc", un po' come se cacciasse uno scarafaggio dalla tastiera. La camera tornò sul piano medio. Nell'inquadratura si vide un uomo correre da Maša, chinarsi, guardarle la gamba, poi prenderla in braccio e portarla via. «Capisci che non è un videomontaggio? Lo capisci? Forse vuoi parlarle un po'? Posso mettervi in collegamento. Vuoi chiederle se le fa male? Se non ha abortito?» Dina non aspettò la mia risposta. Digitò di nuovo qualcosa sulla tastiera vicina alla cattedra e, dopo qualche istante, udimmo ben chiaro il segnale di un telefono. Per un bel po' non rispose nessuno, poi una voce maschile disse qualcosa. I suoni gutturali, staccati, della lingua ebraica. Alzai la testa e pregai Anton di chiedere che cosa fosse successo a Maša, mentre mi accorgevo di non riconoscere più la mia stessa voce. Anton mi si avvicinò e chiese qualcosa. Dall'altra parte la voce rispose. Era piena di disperazione. «È ferita» disse Anton. «Dille che la amo. Dille di aspettarmi. Ma di aspettarmi tanto!» Anton tradusse. «Non aspetterà mai abbastanza» sentenziò Dina, e il collegamento si interruppe. Anton tornò vicino a Matvej e si sedette. Io rimasi lì vicino alla cattedra, quasi fuori di senno. «E sai dov'è Anja? Vuoi darle un'occhiata? Forse siamo ancora in tempo... Guarda!» Dina si avvicinò di nuovo alla cattedra e disse qualcosa. Vidi un cimitero, probabilmente militare. File di pietre tombali tutte uguali che si allungavano all'infinito. Sulla destra c'era un plotone di soldati che imbracciavano l'M-16. Sulla sinistra una tomba aperta. Al centro dello schermo, su un affusto, un corpo coperto da un lenzuolo funebre. «Che cosa vuoi?» le chiesi e la mia voce era quasi un rantolo. «Te. Voglio te.»
«Perché?! Perché, Dina, perché?!» «Perché saremo per sempre al sicuro da ogni pericolo solo se a governare il mondo saranno i nostri eredi.» Dina scuoteva la testa, come stupita della mia mancanza di perspicacia. Io guardavo Matvej e Anton in preda alla disperazione e mi sentivo tremare. Verso di loro stavano scendendo sei uomini vestiti di grigio, con lunghe giacche tutte abbottonate. Le avevo già viste, quelle giacche, sotto il mio portone, quando, per la prima volta in vita mia, avevo partecipato a una sparatoria. Allora però mi aveva salvato Maša, e adesso Maša non c'era. «Indietro, Matvej!» gridai, ma era già tardi. Alcuni secondo dopo Matvej e Anton avevano i polsi spezzati, racchiusi nelle manette. Tutto quello che successe poi, avvenne come per conto suo, indipendentemente dalla mia volontà. Fu come se un'ondata mi sollevasse dalla cattedra e mi portasse fino alle aste che tenevano le fiaccole. Ne staccai una, per fortuna aveva l'estremità molto appuntita, adatta a quello che avevo pensato. «Dina» gridai. «Adesso mi uccido, mi senti? Adesso mi uccido!» Avevo appoggiato la parte appuntita dell'asta contro il mio petto. La tenevo con tutte e due le mani. Tutto quello che dovevo fare era indietreggiare di un paio di passi e gettarmi verso il pavimento, conficcandomela nel cuore. Così, mi pare, si era ucciso Saul. Dina si rese conto che ero assolutamente deciso, perché gridò: «Fermi tutti!». Obbedirono. «Voglio che tutti rimangano vivi, Dina!» continuai a gridare. «Mi senti? Voglio che tutti rimangano vivi! Annulla tutto! Lasciali andare o mi uccido!» Dina si allontanò dalla cattedra, guardando ora me, ora gli uomini con la casacca grigia, ora i ragazzi. Stringevo forte l'asta e seguivo attentamente le sue mosse, capendo che poteva succedere qualsiasi cosa. Finalmente Dina mi raggiunse. Nei suoi occhi brillava la luce della decisione. «Va bene, caro fratello! Non mi aspettavo che fossi così abile. E così deciso. Va bene. Sei riuscito a non perdere. Ti sei guadagnato il pareggio. Per amor tuo annullo la catastrofe nucleare, il mondo è salvo. Anche se qualche cambiamento ci sarà. Per amor tuo non toccherò Maša: che partorisca pure chi vuole. Ma soprattutto: per amor tuo sono pronta a liberare Anton e Matvej. Dopo una piccola operazione al cervello, naturalmente.
Questa è una proposta decisamente generosa. La proposta più generosa che abbia fatto in vita mia. Perché, per questa proposta, io rischio la vita. Non solo, metto in pericolo anche la vita della Confraternita. Ma so che altrimenti non acconsentirai. E io ho davvero bisogno di te, mio unico fratello. Allora, accetti?» «Voglio delle garanzie.» «Delle garanzie?» ripeté Dina. «Delle garanzie? In fondo puoi sempre rifare il tuo numero con l'asta...» Guardai Anton. Ebbi l'impressione che sopra la sua testa fosse apparsa un'aureola. Probabilmente una delle fiaccole era proprio sopra di lui. «Il Maestro ha ordinato a tutti di rallegrarsi, perché cose terribili stanno per arrivare...» «Che cos'è, Anton?» «Un'antica canzone israeliana.» «Che importanza ha?» si inserì Matvej in tono pigro. Troppo pigro per un uomo a cui avessero spezzato le mani. «In ogni caso, presto o tardi, saremo noi a vincere.» Annuii, sentendomi morire. Dina sorrise e prese una siringa. A un tratto passai all'inglese e quasi gridai: «Nail me to your cross and break me, bleed me, beat me, kill me, take me now before I change my mind» 42 . Dina scosse la testa: «Non sono Dio. Non è a Lui che ti stai rivolgendo». Mi punse sulla spalla nuda con un movimento molto controllato. Molto delicato. Molto grazioso. «Un po' di musica,» sussurrai «metti un po' di musica, allora, se non sei Dio.» E persi i sensi. Il Maestro ha ordinato a tutti di rallegrarsi... FINE
42
Inchiodami alla tua croce e spezzami, dissanguami, picchiami, uccidimi, prendimi ora, prima che cambi idea.