JONATHAN KELLERMAN SENZA COLPA (Time Bomb, 1990) RINGRAZIAMENTI Un particolare ringraziamento a Barbara Biggs e a tutti ...
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JONATHAN KELLERMAN SENZA COLPA (Time Bomb, 1990) RINGRAZIAMENTI Un particolare ringraziamento a Barbara Biggs e a tutti gli scrittori che mi hanno aiutato con i loro consigli e incoraggiamenti: Paul Bishop, Lawrence Block. Dorothy Salisbury Davis, Michael Dorris, James Ellroy, Brian Garfield, Sue Grafton, Joe Gores, Andrew Greeley, Tony Hillerman, Stephen King, Dean Koontz, Elmore Leonard, il compianto Richard Levinson, William Link, Dick Lochte, Arthur Lyons, David Morrell, Gerald Petievich, Erich Segal, Joseph Wambaugh. E, naturalmente, a Faye, nemmeno lo scrittore più fantasioso avrebbe potuto creare una persona ricca di tanta forza, saggezza e amore. Perbacco! Quante persone in gamba! A mia sorella, Hindy Tolwin, con tanto affetto «E affermò che chiunque potesse ricavare due spighe di grano o due fili d'erba da un terreno che prima ne dava uno solo, meriterebbe più onori dall'umanità e renderebbe un servizio più utile al suo Paese di quanto faccia l'intera razza dei politici.» JONATHAN SWIFT 1 Di nuovo a scuola. Tornano alla mente gli esami superati o quelli andati male. Lunedì. La chiamata di Milo interruppe una rigida e grigia giornata di novembre che era finalmente sfociata in pioggia. «Accendi la TV», mi disse. Diedi un'occhiata al mio orologio da tavolo. Erano passate da poco le due e quaranta, l'ora del talk-show. L'immagine striata del tubo catodico. «Di che si tratta? Suore assassine o animali domestici con percezioni extrasensoriali?» «Accendila e basta, Alex.» La sua voce era dura.
«Che canale?» «Uno qualsiasi.» Diedi un colpetto al telecomando. Il suono arrivò prima dell'immagine. Singhiozzi e pianti. Poi volti. Per lo più piccoli volti. Occhi spalancati sotto l'effetto dello sconcerto e del terrore. Gracili corpi si ammucchiavano pigiati gli uni agli altri sul pavimento di una grande stanza. Pavimenti di legno duro luccicanti e bianche linee di fondocampo. Una palestra. La telecamera puntò verso una piccola ragazza dai capelli neri che indossava un vestito bianco con le maniche a sbuffo, che stava prendendo in mano un bicchiere di plastica pieno di un liquido rosso. Le sue mani tremavano; la bevanda fuoriuscì e una macchia, che sembrava di sangue, si allargò sul cotone bianco del vestito. La telecamera indugiò crogiolandosi sull'immagine. La ragazzina scoppiò in lacrime. Un bimbo paffuto di cinque o sei anni piangeva. Il ragazzo accanto a lui era più grande, aveva forse otto anni. Guardava fisso davanti a sé e si mordeva il labbro cercando di farsi forza. Ancora volti, un mare di volti. Percepii il commento di una voce suadente: frasi incisive, calcolate e pause strategiche si alternavano. Completamente assorbito dall'immagine mi lasciavo attraversare dalle parole senza prestare loro attenzione. Spostamento rapido della telecamera sull'asfalto bagnato dalla pioggia; distese di asfalto. Tozzi edifici color carne chiazzati di rosa nei punti in cui la pioggia era penetrata nell'intonaco. La voce fuori campo era sempre lì, monotona mentre la telecamera sembrava impazzita: un turbinio di frammenti di immagine, talmente brevi da rasentare il subliminale: poliziotti delle squadre di pronto intervento con giubbotti antiproiettile e cappelli da baseball accovacciati sui tetti, appostati ai portoni, che parlavano nelle ricetrasmittenti portatili. Nastro giallo per delimitare la zona. Fucili di precisione; il luccichio dei mirini; megafoni. Un grappolo di uomini decisi, vestiti di scuro, che discutono dietro una barriera di automobili della polizia. Cellulari. Si muovono. Poliziotti in partenza. Poi un'improvvisa ampia panoramica per inquadrare qualcosa in un sacco nero che viene portato via sotto la pioggia. Apparve sullo schermo l'uomo a cui apparteneva la voce suadente. Un tipo elegante, dai capelli color sabbia, che portava un impermeabile Burberry e una cravatta blu elettrico dal nodo stretto. Il suo impermeabile era inzuppato, ma continuava a tenere. Disse: «Le notizie stanno appena trapelando, ma, per quello che possiamo dirvi, sembra essere coinvolta una sola
persona e questo individuo è stato ucciso. Ecco, vediamo ora portar via il suo corpo ma non è stata fornita la sua identità...» Un primo piano sul sacco nero, bagnato e lucido come pelle di foca. Impassibili impiegati dell'obitorio che sembrava stessero portando fuori spazzatura. Il sacco fu issato su un cellulare. Uno sbattere violento di portiera. Chiusura del servizio con il reporter che guarda nella pioggia interpretando il ruolo dell'intrepido corrispondente di guerra. «...Riepilogando: circa quaranta minuti fa la scuola elementare Nathan Hale, nel West Side in Ocean Heights, è stata fatta segno da alcuni colpi di arma da fuoco. Non si ha notizia di morti o feriti, se si esclude l'assalitore che, in base a quanto ci hanno riferito, è morto e non è stato ancora identificato. Non si conoscono ancora le esatte circostanze della sua morte. Precedenti voci di prese di ostaggi sono risultate essere false. Tuttavia, il fatto che il deputato dello Stato Samuel Massengil e il consigliere municipale Gordon Latch fossero nella scuola al momento dell'attentato ha alimentato voci su un possibile tentativo di assassinio. Latch e Massengil si sono trovati opposti in una controversia in merito al trasferimento di bambini dei quartieri centrali nelle scuole del West Side, meno frequentate, e avevano programmato un dibattito televisivo sul problema. Per il momento tuttavia non si hanno notizie di un possibile collegamento della loro presenza con l'attentato...» «Okay», disse Milo. «Hai il quadro della situazione.» Mentre parlava riuscii a vederlo in piedi dietro la portiera aperta di un'auto di pattuglia con una mano sull'orecchio e la cornetta appoggiata alla bocca. Una sagoma sullo sfondo, troppo lontana per riconoscerne i lineamenti, ma la figura massiccia e la giacca sportiva scozzese ne rivelavano la presenza. «Alex?» disse e lo vidi sullo schermo mentre si grattava la testa. Uno strano accostamento, telefono e immagine televisiva. Sparì quando la telecamera tornò a inquadrare il cortile vuoto e bagnato della scuola. Lo schermo vuoto per un secondo, il nome della stazione, la promessa di un ritorno ai «nostri regolari programmi» seguita da uno spot pubblicitario sulla chirurgia dimagrante. Spensi la TV. «Alex? Sei ancora lì?» «Ci sono.» «Tutti questi bambini. C'è una gran confusione. Puoi esserci utile. Ti darò istruzioni. Usa il mio nome e corpo d'appartenenza al posto di controllo.
Ocean Heights non è lontana dalle tue parti. Potresti farcela, diciamo, in quindici, venti minuti?» «All'incirca.» «D'accordo allora? Tutti questi bambini. È proprio il lavoro per te, se mai ne esiste uno.» «Okay.» Riagganciai e andai a prendere il mio ombrello. 2 Ocean Heights sta attaccata alla periferia occidentale di Pacific Palisades, con la stessa grazia di un foruncolo sul mento di una cover girl. Ideata da una società aerospaziale come un quartiere residenziale per la massa di ingegneri e di tecnici fatti venire nella California meridionale durante il boom successivo all'impresa Sputnik, il quartiere fu creato spianando con i bulldozer boschetti di tigli, riempiendo canyon e realizzando una radicale chirurgia sulle cime di alcune montagne. Il risultato fu un pezzo di Disneyana: una «comunità pianificata» fatta di strade larghe e piatte fiancheggiate da magnolie, prati inglesi perfettamente squadrati, villette a un solo piano su appezzamenti di un quarto di acro circa e clausole nei contratti che vietano «la non ottemperanza dei vincoli architettonici e paesaggistici». La società se n'è andata da molto tempo, sconfitta da una mediocre gestione. Se avesse affittato le case invece di venderle, avrebbe potuto ancora gestire l'affare, perché la mania dell'autorità locale di arraffare i terreni ha spinto i prezzi di Ocean Heights a cifre con nove zeri e il quartiere è diventato un rifugio dell'alta borghesia, quella che desidera intensamente aria salmastra condita con Norman Rockwell. Ocean Heights disapprova l'aspetto squallido, che sa di fossa settica e di marijuana coltivata in casa, della vicina Topanga, guarda con l'occhio pieno di biasimo di una vecchia zia alla licenziosità delle spiagge di Malibu. Ma la veduta dalla scogliera è spesso velata: la nebbia sembra insediarsi in quel luogo e restarci. L'indicazione di Milo era precisa e anche sotto la pioggia coprii rapidamente il tragitto in macchina: una volata giù per Sunset, una svolta in una strada laterale che non avevo mai notato prima, tre miglia lungo una strada liscia in un canyon che aveva la fama di inghiottire automobilisti spericolati. Un anno di siccità si era concluso con un'intera settimana di acquazzoni autunnali fuori stagione e le montagne di Santa Monica erano diven-
tate verdi in fretta, come le piante di ravanelli nostrani. Il ciglio della strada era un groviglio di piante rampicanti, fiori di campo ed erbacce: una profusione superba. La natura recuperava il tempo perduto. L'inizio di Ocean Heights segnava la morte di quell'eccesso: un viale dal fondo appena rifatto diviso da uno spartitraffico erboso e ombreggiato da magnolie talmente simili per sagoma e dimensione da sembrare riprodotte per clonazione dalla stessa cellula germinale. Il cartello stradale indicava ESPERANZA DRIVE. Sotto c'era un altro segnale: bianco con bordo blu, discreto, che proclamava Ocean Heights comunità protetta. La pioggia diventata più forte crepitava contro il parabrezza. Mezzo miglio più avanti apparve il posto di blocco: una barriera di transenne che bloccava la strada, una distesa di macchine della polizia bianche e nere, come pezzi di domino, una schiera di poliziotti con impermeabili gialli che ricordavano nell'atteggiamento le guardie di frontiera della Cortina di ferro: chiunque è colpevole fino a prova contraria. Qualcos'altro suggeriva l'immagine del check-point: un gruppo di circa una dozzina di donne, tutte ispaniche, tutte inzuppate e sconvolte, cercava di attraversare la barriera, senza riuscire a superare l'impassibile resistenza dei poliziotti. Per il resto la strada era vuota, imposte chiuse nelle finestre dai vetri a losanga, porte sprangate, l'unico movimento il tremito dei fiori e degli arbusti sotto la pioggia battente. Parcheggiai e uscii dalla macchina. L'acquazzone mi colpì come una doccia fredda mentre m'incamminavo verso la barriera. Sentii una donna gridare: «Mi niño!» e le altre donne fecero eco alle sue parole. Si levò un coro di proteste che si confuse con lo scrosciare della pioggia. «Ancora un po' di pazienza, signore», disse un poliziotto con la faccia da bambino, sforzandosi di apparire calmo. Una delle donne urlò qualcosa in spagnolo. Il tono della voce era ingiurioso. Il giovane poliziotto arretrò e guardò l'ufficiale accanto a lui, più vecchio, tarchiato, con un paio di baffi grigi. Calma catatonica. Il giovane poliziotto si girò di nuovo verso le donne. «Adesso fermatevi», disse con rabbia improvvisa. «Mi niño!» Baffo grigio non si era ancora mosso, ma i suoi occhi mi fissavano mentre mi avvicinavo. Un terzo poliziotto disse: «Sta arrivando qualcuno». Quando fui alla distanza di uno sputo, Baffo grigio fece un saluto militare a braccio dritto mostrandomi le linee della mano. Da vicino il suo viso
appariva bagnato e gonfio, striato di vene e rosso, per l'irritazione, come una bistecca al sangue. «Si fermi, signore.» «Devo incontrare l'ispettore Sturgis.» Udendo il cognome di Milo strinse gli occhi. Mi guardò da cima a fondo. «Come si chiama?» «Alex Delaware.» Fece un cenno con la testa a uno degli altri poliziotti, che si avvicinò e si mise di guardia alla barriera. Poi, andò in una delle macchine, entrò e parlò alla radio. Qualche minuto più tardi tornò indietro, chiese di vedere un documento d'identità, controllò attentamente la mia patente di guida, mi fissò ancora per un attimo prima di dirmi: «Può passare». Rientrai nella macchina e avanzai. Due poliziotti avevano aperto la barriera giusto lo spazio per far passare una macchina tra i cavalietti. Le donne ispaniche avanzarono ondeggiando verso il varco, automaticamente, come l'acqua in un canale di scolo, ma furono fermate da una linea di poliziotti che si chiudeva. Alcune donne cominciarono a gridare. Baffo grigio mi fece cenno con la mano di passare. Mi fermai accanto a lui, aprii il finestrino e dissi: «C'è qualche ragione per cui non possono vedere i loro figli?» «Vada avanti.» Continuai ad avanzare, sfidandolo con uno sguardo accusatorio. La scuola elementare Nathan Hale era otto isolati più avanti in Esperanza Drive: il fondo stradale e l'intonaco color carne riportarono la mia mente alle immagini viste poco prima in TV. I tre scuolabus vuoti erano parcheggiati sul bordo della strada, insieme ad autoambulanze e ad alcune macchine della stampa sparse qua e là. L'edificio principale, di forma irregolare e col tetto grigio, era bordato da una siepe di podocarpo alta circa un metro. L'ingresso principale era color zucca. Due poliziotti lo sorvegliavano da dietro un cordone di nastro giallo. Ancora saluti col palmo della mano, sguardi diffidenti e controlli via radio prima che il cancello che dava sul cortile della scuola fosse aperto e io fossi indirizzato sul retro. Mentre procedevo, notai un altro nastro intorno a una piccola costruzione, una specie di baracca con rete metallica alle finestre, a circa venti metri dall'edificio principale. Sopra la porta c'era un cartello: ATTREZZATURA. I tecnici della scientifica si inginocchiavano e si chinavano, misuran-
do, raschiando, scattando fotografie, bagnati fradici per lo sforzo. Dietro di loro il cortile della scuola, reso scuro dalla pioggia, si estendeva come un deserto desolato, completamente vuoto, tranne la lontana geometria metallica del castello di tubi. La sola giornalista presente, in impermeabile rosso, divideva il suo ombrello con un poliziotto giovane e alto. Sembravano amoreggiare più che scambiarsi informazioni. Smisero quando passai loro accanto: solo il tempo di stabilire che non ero né degno di nota né pericoloso. La porta secondaria, posta su tre gradini di cemento, era a doppi vetri colorati. Si spalancò e ne uscì Milo; indossava un giaccone grigioverde sopra la giacca sportiva scozzese. Tutti quegli strati di indumenti, in aggiunta al peso che aveva preso sostituendo il cibo all'alcol, lo facevano sembrare enorme, un orso. Non si accorse di me: guardava fisso a terra, passando le mani sul suo viso foruncoloso come se si stesse lavando senz'acqua. Il capo era scoperto, i capelli neri grondanti e flosci. Nell'espressione del suo viso si leggeva: orso ferito. «Ciao», dissi. Alzò lo sguardo di scatto come a un brusco risveglio. Poi i suoi occhi verdi si accesero a mo' di semaforo e scese le scale. Il giaccone aveva grandi bottoni cilindrici di legno che pendevano dalle asole. Ballonzolarono quando si mosse. La sua cravatta di raion grigio aveva macchie d'acqua scure. Gli pendeva di traverso sulla pancia. Gli offrii il mio ombrello. Non riuscivo a ripararlo molto. «Qualche problema per passare?» «No», dissi, «ma un gruppo di madri ne sta avendo. Avreste bisogno di essere educati alla sensibilità. Considerala la mia prima consulenza.» La rabbia nella mia voce ci sorprese entrambi. Aggrottò le sopracciglia: la faccia oscurata dall'ombrello era cadaverica e i foruncoli sulle guance sporgevano come fori di spillo sulla carta. Si guardò intorno, scorse il poliziotto che chiacchierava con la giornalista e gli fece un cenno. Vedendo che il poliziotto non rispondeva, imprecò e si mosse con andatura goffa, a spalle alzate, come per entrare caricando nella mischia. Un istante più tardi il poliziotto usciva di volata dal cortile, mortificato e rosso in viso. Milo ritornò ansimando. «Le mamme stanno arrivando con tanto di scorta della polizia.» «I privilegi del potere.» «Sì, chiamami pure generalissimo.» Ci incamminammo verso l'edificio.
«Quanti bambini ci sono?» chiesi. «Duecento circa, dall'asilo all'ultima classe. Li abbiamo raccolti in palestra per far controllare dal personale paramedico l'eventuale presenza di choc o ferite: grazie a Dio niente. Gli insegnanti li hanno riportati in classe e, in attesa di tue indicazioni, cercano di fare quanto possono.» «Pensavo che il sistema scolastico avesse il personale addetto alle emergenze.» «La direttrice dice che questa scuola incontra difficoltà nell'ottenere un aiuto dal sistema scolastico. Naturalmente ho pensato a te.» Raggiungemmo i gradini che erano riparati da una tettoia. Milo si fermò e appoggiò pesantemente la mano sulla mia spalla. «Grazie per essere venuto, Alex. C'è una gran confusione. Ho pensato che nessun altro potrebbe fare un lavoro migliore del tuo. Non so che impegni hai e non so se saranno in grado di pagarti, ma se potessi almeno farli partire col piede giusto...» Si schiarì la gola e si strofinò ancora la faccia. «Dimmi cosa è successo», gli dissi. «Sembra che l'assalitore sia entrato nel cortile prima che la scuola aprisse, scavalcando o entrando da un cancello: ce n'erano un paio aperti, e sia poi penetrato nella baracca adibita a deposito, che ha solo un piccolo lucchetto alla porta, e abbia aspettato lì.» «Nessuno usava la baracca?» Scosse la testa. «Vuota. Un tempo veniva usata per le attrezzature sportive. Ora le tengono nell'edificio principale. L'assalitore è rimasto lì dentro fino a poco dopo mezzogiorno, il momento in cui i bambini escono per la ricreazione. Latch e Massengil con i relativi seguiti sono arrivati intorno alle dodici e mezzo, ed è stato allora che la sparatoria ha avuto inizio. Gli insegnanti hanno subito iniziato a spingere i bambini dentro, ma la situazione era incontrollabile, un fuggi fuggi generale. Isteria di massa. Inciampavano gli uni sugli altri.» Diedi un'altra occhiata alla baracca. «La TV ha detto che non ci sono stati feriti.» «Solo l'assalitore. E in modo definitivo.» «Le squadre di pronto intervento?» Scosse la testa. «Era tutto finito prima che arrivassero. È stato uno degli uomini di Latch. Un certo Ahlward. Mentre tutti gli altri correvano per mettersi in salvo, lui si è lanciato verso la baracca, ha aperto la porta con un calcio e ha fatto un'irruzione alla Rambo.» «Una guardia del corpo?»
«Non so ancora cosa sia.» «Ma era armato.» «Molte persone che hanno a che fare con la politica lo sono.» Salimmo le scale. Mi girai per dare un'altra occhiata alla baracca. Una delle finestre con rete metallica consentiva un'ottima vista sull'edificio principale. «Avrebbe potuto essere un poligono di tiro», dissi. «Un cecchino miope?» Borbottò qualcosa e aprì la porta. L'interno dell'edificio era caldo come un forno, impregnato dell'odore di polvere di gesso e di cancellino umido. «Da questa parte», disse, girando a sinistra e guidandomi lungo un corridoio molto illuminato, sulle cui pareti erano appesi disegni dei ragazzi, a matita colorata o dipinti con le dita e manifesti di una campagna per la sicurezza, raffiguranti sorridenti animali antropomorfi. Il pavimento di linoleum era color argilla e macchiato di impronte fangose. Un paio di poliziotti lo pattugliavano. Salutarono Milo con un rigido cenno del capo. «Il telegiornale ha detto che Latch e Massengil avrebbero dovuto affrontarsi in dibattito davanti alle telecamere», dissi. «La cosa non era stata organizzata in questo modo. Sembra che Massengil avesse in mente di tenere una conferenza stampa da solo. Intendeva fare un discorso sulle ingerenze dell'amministrazione pubblica nella vita famigliare, usare la scuola come sfondo, e soffiare sulla storia dello spostamento degli alunni.» «La scuola era al corrente dei suoi piani?» «No. Nessuno qui aveva la minima idea che sarebbe venuto. Ma gli uomini di Latch sono venuti a saperlo e Latch ha deciso anche lui di venire per affrontarlo a faccia a faccia. Un dibattito improvvisato.» «Le telecamere hanno finito per riprendere uno spettacolo migliore.» Le porte lungo il corridoio erano dipinte dello stesso color zucca. Erano tutte chiuse e, mentre passavamo, alcuni suoni filtravano dalle aule: voci smorzate, la prosaica musica di una radio della polizia, qualcosa che sembrava un pianto. «Pensi che l'obiettivo vero fosse Latch o Massengil?» «Non lo so ancora. La possibilità che si tratti di un tentativo di assassinio ha fatto accorrere qui gli uomini dell'antiterrorismo. In questo momento stanno interrogando il personale di entrambi. Finché sussiste l'eventualità che si tratti di una faccenda politica sono loro ad avere la responsabilità dell'inchiesta. Questo significa che devo passar loro le informazioni che
raccolgo, poi quelli le dichiarano riservate e si rifiutano di farmele esaminare in quanto riservate. I privilegi del potere. Blablà.» Fece una risata cupa. «E, ciliegina sulla torta, l'FBI ha appena chiamato da Westwood e ha voluto sapere tutto nei minimi particolari, minacciando di assegnare a uno dei suoi uomini un incarico di consulenza.» Canticchiò alcune battute di Send in the Clowns e allungò il passo. «D'altra parte», disse, «se si tratta di un comune assassino psicopatico che spara su bambini innocenti, tutta quella gentaglia se ne infischierà e affibbieranno il lavoro al sottoscritto. I cari privilegi del potere.» Si fermò davanti a una porta su cui era scritto DIRETTRICE, girò la maniglia e spinse. Entrammo in un primo ufficio: due sedie di quercia e una scrivania. Vuoto. A destra della scrivania c'era una porta con un cartello di plastica marrone che indicava a lettere bianche: LINDA OVERSTREET. DIRETTRICE DIDATTICA. Milo bussò ed entrò senza aspettare risposta. La scrivania dell'ufficio interno era appoggiata alla parete e lasciava libero uno spazio occupato da un divano color sabbia a forma di L, un tavolino col piano di ceramica e due sedie imbottite. Gli angoli erano occupati da piante in vasi di ceramica. Vicino alla scrivania c'era una libreria alta circa un metro stracolma di libri, bambole di pezza, puzzle e giochi. Acquerelli incorniciati rappresentanti iris e gigli pendevano dalle pareti. Una donna si alzò dal divano e disse: «Ispettore Sturgis, piacere di rivederla». Non so perché, ma mi aspettavo una persona di mezza età. Non aveva più di trent'anni. Alta, un metro e settantacinque circa, gambe lunghe ed esili, magra, ma con spalle robuste e fianchi pieni che si allargavano sotto una vita stretta e alta. Il viso era lungo, scarno, molto carino, con una bella carnagione chiara, guance rosee, coronato da un groviglio di capelli biondi che le arrivavano alle spalle. La bocca era larga, le labbra un po' sottili. La mascella era ben disegnata e si piegava bruscamente ad angolo, come se dovesse finire a punta. Formava invece un mento squadrato con in mezzo una fessura che le conferiva un tocco di determinazione. Indossava una felpa nerofumo con cappuccio infilata in una gonna jeans che le arrivava al ginocchio. Truccata solo con un po' di ombretto. Non portava gioielli tranne un paio di orecchini quadrati neri di bigiotteria. «Come le avevo promesso», le disse Milo, «ecco il dottor Alex Delaware. Alex, la dottoressa Overstreet. È lei che comanda qui.» Gli fece un sorriso fugace e si girò verso di me. Vista la sua altezza e i
tacchi, i nostri occhi si trovavano quasi allo stesso livello. I suoi erano rotondi, grandi, orlati da lunghe ciglia quasi bianche. L'iride era di un'anonima tonalità marrone, ma sprigionava un'intensità che catturò la mia attenzione e la mantenne. «Lieta di conoscerla, dottor Delaware.» Aveva una voce dolce, resa ancor più calda da un leggero timbro nasale meridionale. Mi porse la mano e io la strinsi. Dita lunghe e sottili che non esercitavano alcuna pressione. Mi chiesi come potesse una persona dalle mani così remissive e dalla voce da concorrente di un concorso di bellezza occupare una posizione di potere. Salutai. Lei liberò la mano e si toccò leggermente i capelli. «Grazie per essere venuto immediatamente», disse. «Che incubo.» Scrollò ancora la testa. Milo disse: «Scusate, dottori» e si diresse verso la porta. «A dopo», gli dissi. Salutò. Quando se ne fu andato, lei disse: «Quell'uomo è buono e gentile», quasi a volermi persuadere. Feci cenno di sì. Lei continuò: «All'inizio i bambini avevano paura di lui, avevano paura di parlargli, per via della sua mole. Ma lui ci ha saputo fare. Come un buon padre». Queste parole mi fecero sorridere. Lei arrossì. «Beh, mettiamoci al lavoro. Mi dica tutto ciò che posso fare per aiutare i bambini.» Prese un taccuino e una matita dalla sua scrivania. Si sedette dal lato più piccolo del divano a L mettendosi proprio di fronte a me e incrociò le gambe. «Nessuno di loro mostra segni evidenti di panico?» «Del tipo?» «Isteria, difficoltà di respirazione, iperventilazione, crisi di pianto incontrollato?» «No. All'inizio ci sono state lacrime, ma poi sembrava si fossero calmati. Almeno l'ultima volta che li ho visti sembravano calmi, sorprendentemente calmi. Li ho fatti ritornare in classe e ho detto agli insegnanti di informarmi subito se succede qualcosa. Nell'ultima mezz'ora non mi hanno cercata. Immagino perciò che vada tutto bene.» «E sintomi fisici: vomito, enuresi, perdita di controllo intestinale?» «Abbiamo avuto un paio di mutande bagnate tra gli alunni delle prime classi. Gli insegnanti se ne sono occupati con discrezione.»
Chiesi se si fossero manifestati sintomi di choc. Lei rispose: «No. Il personale paramedico della scuola li ha visitati e ha riferito che stavano bene. Straordinariamente bene, data la situazione. È normale per loro apparire in così buone condizioni?» «Cosa capiscono di quanto è successo?» Sembrò perplessa. «Cosa intende dire?» «Qualcuno si è effettivamente seduto davanti a loro e gli ha spiegato che c'è stato un cecchino che ha sparato?» «Gli insegnanti lo stanno facendo adesso. Ma neanche loro sanno bene cosa sia successo. Hanno sentito gli spari, hanno visto la polizia sciamare nel cortile della scuola.» La faccia era tesa di rabbia. «Cosa c'è?» «Che qualcuno possa aver fatto questo a loro. Dopo tutto quello che hanno passato. Per questo forse stanno reagendo bene. Sono abituati a essere odiati.» «La storia del trasferimento?» «La storia del trasferimento, appunto. E tutto lo schifo che ne è risultato. È stato un inferno.» «Per colpa di Massengil?» Ancora rabbia. «Non ci è stato d'aiuto. Ma senza dubbio parla a nome dei suoi elettori. Ocean Heights si considera l'ultimo bastione della rispettabilità anglosassone. Fino a poco tempo fa, l'idea che si aveva qui di una controversia sull'educazione era biscotti con pezzetti di cioccolato o farina d'avena per merenda. Il che è bello, ma a volte la realtà solleva la sua testa ripugnante.» Tamburellò con le dita e disse: «Quando è entrato ha notato come è grande il cortile?» Non lo avevo notato ma feci cenno di sì. «È una struttura enorme per un quartiere così piccolo. Questo perché trentacinque anni fa, quando fu costruita la scuola, la terra costava poco, si pensava che Ocean Heights si sarebbe sviluppata rapidamente e qualcuno probabilmente è riuscito a procurarsi un vantaggioso appalto. Ma lo sviluppo non si è mai concretizzato e la scuola non ha mai funzionato al massimo delle sue potenzialità. Fino alla crisi economica degli anni Settanta, nessuno se ne preoccupò. Chi si sarebbe lamentato di classi poco numerose? Ma le risorse cominciarono a esaurirsi e il provveditorato agli studi cominciò a esaminare la distribuzione della popolazione scolastica, la ripartizione efficiente delle risorse e tutte quelle belle cose. La maggior
parte delle scuole frequentate da bianchi registravano un forte calo di iscrizioni, ma Hale era una vera scuola fantasma. I figli dei primi abitanti del quartiere erano cresciuti. Gli alloggi erano diventati talmente cari che poche famiglie con bambini piccoli avevano la possibilità di trasferirsi qui. Quelli che potevano permettersi di viverci potevano permettersi anche di mandarli nelle scuole private. Il risultato fu che c'erano classi sufficienti per ospitare novecento bambini, mentre gli iscritti erano solo ottantasei. Nel frattempo, nell'East Side si era creata una situazione pazzesca: cinquanta, sessanta bambini per classe, bambini costretti a sedersi per terra. La cosa più logica sembrò quella che il provveditorato chiama eccentricamente una 'redistribuzione adeguata'. Che però è volontaria e a senso unico. I bambini del centro degradato della città vengono trasportati qui, quelli del posto non sono portati altrove.» «Da quanto tempo va avanti questa situazione?» «È il nostro secondo anno. Cento bambini il primo anno e altri cento il secondo. E anche così questo è un luogo fantasma. E gli abitanti del quartiere si sentono invasi. Sessanta degli ottantasei bambini rimasti sono stati trasferiti immediatamente nelle scuole private. Gli altri se ne sono andati a metà anno. Era come se avessimo portato la peste.» Scosse la testa. «Posso capire quelli che vogliono restare isolati o l'idea della scuola di quartiere. So che possono essersi sentiti violati. Ma questo non giustifica lo schifo che ne è seguito. Persone adulte, o meglio presunte tali, fuori dai cancelli che agitano cartelli e provocano i bambini. Chiamandoli sporchi messicani, clandestini ancora bagnati per la traversata del Rio Grande. Parassiti.» «L'ho visto in TV. Era disgustoso.» «Durante le vacanze estive abbiamo subito degli atti vandalici: scritte razziste sui muri, vetri spaccati. Ho cercato di farmi spedire dal provveditorato uno psicologo, qualcuno che facesse da tramite tra la scuola e la comunità prima dell'inizio del nuovo anno scolastico, ma ho ricevuto solo circolari e controcircolari. La scuola elementare Hale è una figliastra che sono costretti ad allevare ma che non vogliono riconoscere.» «Come hanno reagito i bambini a tutte queste ostilità?» «A dire il vero, molto bene. Questi ragazzi, buon per loro, riescono ad adattarsi a tutto. E ci abbiamo lavorato su. Lo scorso anno ho avuto incontri regolari con tutte le classi, ho parlato loro della tolleranza, del rispetto delle differenze tra le persone, del diritto alla libertà di parola, anche se è sgradevole. Ho consigliato agli insegnanti giochi e altre attività per accrescere la loro autostima. Abbiamo continuato a martellarli con l'idea che lo-
ro sono bravi, coraggiosi. Non sono una psicologa, ma ho studiato psicologia come materia complementare all'università e penso di aver fatto un lavoro passabile.» «Mi sembra il giusto approccio. Per questo forse stanno fronteggiando la situazione attuale abbastanza bene.» Si schermì di fronte al complimento e i suoi occhi si inumidirono. «Questo non significa che tutto fosse perfetto, non nel lungo periodo. Loro lo sentivano, l'odio. Dovevano per forza. Alcune famiglie ritirarono i figli dal programma di trasporto immediatamente, ma la maggior parte tenne duro e dopo un po' le cose sembrarono calmarsi. Ho pensato veramente che quest'anno sarebbe andato bene. Ho sperato che finalmente tra la brava gente di Ocean Heights si fosse fatta strada l'idea che un pugno di ragazzini non avrebbe stuprato le loro figlie o rubato il loro bestiame. O forse si erano solo stancati, questo posto è la capitale dell'apatia. Le sole altre cose che li smuovono sono le piattaforme petrolifere a meno di dieci chilometri dalla costa e tutto quanto è collegato all'arredo urbano. Così ho fatto in modo che i nostri arboscelli fossero ben potati.» Un breve, amaro sorriso. «Stavo cominciando a pensare che avremmo potuto finalmente concentrarci sull'istruzione. Poi arriva Massengil e butta tutto per aria: ha sempre avuto un'attenzione speciale per noi. Forse perché è del quartiere. Vive a Sacramento ma tiene una casa qui per scopi legali. Ovviamente siamo diventati per lui un problema personale.» Strinse il pugno e colpì il palmo dell'altra mano. I suoi occhi lampeggiavano. Cambiai idea sulla sua capacità di comando. «Il verme», disse. «Se avessi saputo che progettava uno show da circo, io...» Aggrottò le ciglia, picchiettò con la matita sul polso. «Cosa?» Esitò, poi fece un altro sorriso malinconico. «Stavo per dire che l'avrei aspettato al cancello con un fucile carico.» 3 Guardò il suo taccuino, si accorse di non avere scritto niente e disse: «Abbiamo parlato abbastanza. Qual è il suo progetto?» «Il primo passo è quello di stabilire un rapporto con i ragazzi. E con gli insegnanti. Può essere utile che lei mi presenti spiegando chi sono. Poi mi concentrerò sul tentativo di far esprimere le sensazioni che quanto è acca-
duto ha provocato in loro; attraverso la parola, il gioco, il disegno.» «Individualmente o a gruppi?» «A gruppi. Classe per classe. È più produttivo e più terapeutico. Sarà più facile per loro aprirsi se c'è il sostegno dei compagni. Cercherò di individuare anche i ragazzi a rischio. Quelli che hanno i nervi particolarmente tesi, hanno avuto problemi di ansia, hanno subito perdite o una quantità eccessiva di stress nel corso dell'ultimo anno. Alcuni di loro potrebbero aver bisogno di un trattamento individuale. Gli insegnanti possono aiutarmi nel lavoro di identificazione.» «Non ci sono problemi», disse. «Io stessa li conosco quasi tutti.» «L'altra cosa importante, forse la più difficile, sarà convincere i genitori a non farli assentare per periodi lunghi.» «Cosa intende per lunghi?» «Più di un giorno o due. Prima tornano e più facile sarà per loro risolvere i problemi.» Sospirò. «D'accordo, vedremo di farcela. Di che strumenti ha bisogno?» «Non molto. Qualche giocattolo, blocchi, figurine. Carta e matita, creta, forbici, colla.» «Abbiamo tutto.» «Avrò bisogno di un interprete?» «No. La maggior parte dei ragazzi, il novanta per cento circa, sono ispanici ma tutti capiscono l'inglese. Abbiamo lavorato sodo per raggiungere questo risultato. Il resto è costituito da asiatici, compresi alcuni di immigrazione recente, ma nel nostro personale non c'è nessuno che parli cambogiano, vietnamita, laotiano, tagal o cose del genere, così hanno fatto progressi abbastanza in fretta.» Lasciammo il suo ufficio e uscimmo nel corridoio. Era rimasto un solo poliziotto di pattuglia, dall'aria svogliata. «Bene. E per quanto riguarda il suo compenso?» disse. «Ne possiamo parlare in seguito.» «Voglio che le cose siano chiare fin dall'inizio. Per il suo bene. Il provveditorato deve approvare la richiesta di consulenti privati. Occorre tempo, bisogna seguire la prassi ufficiale. Se presento un mandato di pagamento senza approvazione preventiva, possono usarlo come pretesto per non darle i soldi.» «Non possiamo aspettare l'approvazione ufficiale. La chiave del successo è arrivare ai ragazzi prima possibile.» «Me ne rendo conto, ma voglio che lei sappia a cosa va incontro. E an-
che se seguiamo la prassi ufficiale, è possibile che ci siano problemi per il suo compenso. Il provveditorato sosterrà di avere sufficienti risorse per fare questo lavoro; perciò non dovrebbe esserci nessun motivo per chiamare qualcuno dall'esterno.» «Va bene. Veramente!» «Si rende conto che stiamo parlando di un lavoro gratuito?» aggiunse. «Me ne rendo conto. Mi sta bene.» Mi guardò: «Perché lo fa?» «Ho studiato per imparare a fare queste cose.» Nei suoi occhi c'era diffidenza, ma strinse le spalle e disse: «Chi sono io per giudicare i motivi di questo regalo?» S'incamminò verso la prima classe. Si spalancò una porta in fondo al corridoio. Un gruppo compatto di nove o dieci persone si riversò fuori e venne di gran carriera verso di noi. Al centro del gruppo stava un uomo alto, dai capelli bianchi, sui sessant'anni, che indossava un vestito grigio di un tessuto rigido a squame, acquistato probabilmente per la festa della vittoria di Eisenhower. Il viso era lungo e floscio, aquilino, il collo aveva quasi dei bargigli, il naso appuntito, baffi bianchi corti, la bocca increspata, gli occhi nascosti da uno sguardo crucciato. Mantenne un passo vigoroso, in testa al gruppo, muovendo i gomiti avanti e indietro come un marciatore. I suoi tirapiedi gli sussurravano qualcosa, ma lui non sembrava ascoltare. Il gruppo sfrecciò accanto a noi ignorandoci. «Sembra che lo stimato deputato sia a corto di parole.» Chiuse gli occhi ed espirò. «Cosa si sa dell'attentatore?» dissi. «Solo che è morto», rispose. «È un inizio.» Si girò di scatto. «Un inizio di cosa?» «Gestire le paure dei bambini. Il fatto che sia morto ci aiuterà.» «Entrerà subito in dettagli cruenti con loro?» «Dirò loro la verità. Quando saranno pronti ad accettarla.» Sembrò dubbiosa. Aggiunsi: «Per loro il punto fondamentale è dare un qualche senso a una situazione insensata. Per poterlo fare hanno bisogno di informazioni più precise possibili. Dati reali, sulla persona cattiva, presentata in modo per loro comprensibile, il prima possibile. La mente aborre il vuoto. Senza dati riempiranno la loro testa di fantasia su questa persona, fantasie che posso-
no essere di gran lunga peggiori della realtà». «Quanta parte di realtà pensa abbiano bisogno di assorbire?» «Niente di cruento. I dati essenziali. Il nome dell'attentatore, l'età, l'aspetto. È estremamente importante che lo percepiscano come un essere umano. Distruttibile. Morto per sempre. Anche in presenza di dati reali, alcuni dei più piccoli saranno incapaci di capire la perennità della sua morte: non sono ancora abbastanza maturi, dal punto di vista dello sviluppo. E alcuni dei più grandi possono regredire a causa del trauma, 'dimenticare' temporaneamente che i morti non possono tornare in vita. Sono perciò vulnerabili alle fantasie relative al ritorno della persona cattiva. Per tentare nuovamente di ammazzarli. Subiscono la stessa cosa anche gli adulti vittime di un crimine, dopo che lo choc iniziale è passato. Può portare a incubi, fobie e a ogni sorta di reazioni postraumatiche. Nei bambini il rischio è maggiore perché essi non separano nettamente la realtà dalla fantasia. Il rischio di problemi di questo tipo non può essere eliminato, ma può essere ridotto al minimo affrontando immediatamente le idee sbagliate.» Mi fermai. Mi stava fissando, severa, con gli occhi marroni fermi. «Ciò che voglio», dissi, «è che capiscano che il bastardo è veramente 'distrutto'. Che non è una specie di orco soprannaturale che continuerà a perseguitarli.» «Non so niente su questo 'bastardo'», disse. «Nessuno lo ha visto. Abbiamo solo sentito gli spari. Poi c'è stato molto panico, urla, spinte. Abbiamo subito cercato di riportare i bambini dentro, facendoli correre a testa bassa. Siamo corsi più in fretta e più lontano possibile, stando attenti a che nessuno fosse travolto. Ci siamo resi conto che era tutto finito solo quando quel tipo, Ahlward, è uscito dalla baracca, agitando la sua pistola come un cowboy dopo il grande duello. Appena l'ho visto mi sono spaventata a morte: pensavo fosse lui l'attentatore. Poi l'ho riconosciuto, l'avevo visto nel gruppo di Latch. Era sorridente e ci diceva che era tutto finito. Che eravamo salvi.» Rabbrividì. «Addio, orco.» Il poliziotto solitario si era girato incuriosito dalla nostra conversazione. Era giovane, bello, nero come il carbone e coi capelli crespi stirati. Gli andai incontro e dissi: «Agente, mi può dire qualcosa sull'attentatore?» «Non posso darle alcuna informazione, signore.» «Non sono un giornalista», dissi. «Sono lo psicologo chiamato dall'ispettore Sturgis per lavorare con i bambini.»
Non mi parve per nulla impressionato. «Per me sarebbe utile», dissi, «avere il maggior numero di dati possibile. Per aiutare i bambini.» «Non posso dire niente, signore.» «Dov'è l'ispettore Sturgis?» «Non lo so, signore.» Ritornai accanto a Linda Overstreet. Aveva udito la conversazione. «Burocrazia», disse. «Comincio a pensare che si tratti di una necessità biologica.» Una porta un po' più giù nel corridoio si aprì riversando fuori un altro gruppo di persone. Questo gravitava intorno a un uomo di poco più di quarant'anni, di altezza media e robusto. Aveva un viso rotondetto, coperto di lentiggini sotto una zazzera di capelli neri, con qualche filo grigio, alla Beatles prima maniera, che gli copriva la fronte. Il suo abbigliamento ricordava quello di un giovane professore universitario: giacca sportiva in tweed color sabbia, pantaloni cachi sgualciti, camicia a scacchi nera e verde, cravatta rossa. Portava occhiali rotondi con la montatura di tartaruga, tipo quelli che il servizio sanitario inglese distribuiva gratuitamente. Erano appoggiati in cima a un naso di cui un bulldog sarebbe stato fiero. Gli altri lineamenti erano troppo piccoli per il suo viso, tirati, quasi effeminati. Pensai alle sue vecchie foto che avevo visto. Con barba e capelli lunghi. Vent'anni prima la barba lo faceva sembrare più vecchio. L'immagine accademica era rafforzata dalle persone che lo circondavano: giovani dagli occhi svegli, studenti che gareggiavano per attirare l'attenzione del professore prediletto. Ognuno di loro aveva una solennità da esame di laurea, ma il gruppo nell'insieme riusciva a irradiare un'allegria quasi festosa. L'uomo dal viso rotondo ci notò e si fermò. «Dottoressa Overstreet, come stanno andando i ragazzi?» «Bene, nei limiti del possibile, consigliere Latch.» Venne verso di noi. Gli altri restarono indietro. Tranne uno, massiccio, dal viso schiacciato e dai capelli rossi, che aveva la stessa età di Latch, nessuno degli altri aveva più di venticinque anni. Un gruppo di ragazzi dall'aspetto curato, vestiti con eleganza. Latch disse: «Posso fare qualcosa, dottoressa Overstreet? Per i bambini? O per i suoi insegnanti?» «Perché non ci fa proteggere dalla Guardia nazionale?» Sfoggiò un breve sorriso da manifesto elettorale, poi diventò serio.
«Nient'altro di meno... marziale?» «Veramente», disse, «potrebbe esserci utile qualche informazione.» «Che tipo di informazione?» «Sull'attentatore. Chi era, cosa lo ha spinto. Il dottor Delaware, qui presente, lavorerà con i bambini. Ha bisogno di saperne il più possibile per poter rispondere alle loro domande.» Sembrò notarmi per la prima volta, allungò la mano e strinse la mia con vigore. «Gordon Latch.» «Alex Delaware.» «Piacere, Alex. Lei è psicologo? Psichiatra?» «Psicologo.» «Lavora per il provveditorato?» Prima che potessi rispondere, Linda disse: «Il dottor Delaware è un consulente privato che ci è stato consigliato dalla polizia. È uno specialista dello stress infantile». Gli occhi azzurri di Latch mi squadrarono da dietro le lenti rotonde degli occhiali. «Bene, faccia tutto il possibile, e grazie per essere venuto immediatamente, Alex.» Linda disse: «Cosa può dirci sull'attentatore, consigliere Latch?» «Non molto, ho paura. Ne sappiamo poco noi stessi. La polizia ha tenuto la bocca cucita, come al solito.» «Il signor Ahlward dovrebbe sapere qualcosa. Magari può raccontarcela, se se la sente», insistette Linda. Latch guardò dietro di lui. «Bud, vieni qui per favore.» L'uomo dai capelli rossi inarcò le sopracciglia rossicce e avanzò. Indossava un vestito marrone, una camicia bianca e una cravatta marrone a tinta unita e aveva la parte superiore del corpo eccessivamente sviluppata, di quelle che rendono necessario un taglio dei vestiti su misura. Le mani penzolavano di lato, grosse e bianche, coperte di una peluria color rame. I capelli erano molto ricci e tagliati corti. Aveva mascelle sporgenti e carnose e pigri occhi giallastri che fissavano continuamente il suo capo. «Consigliere?» Da vicino puzzava di fumo di sigaretta. «Bud, queste brave persone vogliono sapere qualcosa sull'attentatore. Cosa puoi raccontargli?» «Niente per ora», disse con una voce dolce, da ragazzo. «Mi dispiace. Ordini della polizia.» Mise un dito davanti alla bocca. Latch disse: «Proprio niente, Bud?» «Gli uomini dell'antiterrorismo sono stati molto chiari su questo punto.»
«Appena avrai il via libera passerai a questi signori tutte le informazioni che desiderano. Immediatamente. D'accordo?» «Senza dubbio», disse Ahlward. Latch fece un cenno col capo. Ahlward ritornò nel gruppo. «Grazie a Dio, c'era Bud», disse Latch, abbastanza forte per farsi sentire dal gruppo. Qualcuno si congratulò con lui. L'uomo dai capelli rossi restò impassibile. In mezzo agli altri, ma non uno di loro. Uno sguardo distaccato era sceso sul suo viso, la calma dello zen; come se avesse proiettato se stesso in un altro luogo, un altro tempo. L'aver passato l'ora di pranzo ammazzando qualcuno non aveva lasciato alcuna traccia su di lui. «Bene, amici», disse Latch indietreggiando di un passo, «è stata una giornata lunga e sembra non voler più finire. Dottoressa Overstreet, se ha bisogno di qualcosa, aggiri la burocrazia e si rivolga direttamente a me. Lo faccia. Risolviamo i problemi una volta per tutte. Dottor Delaware, sembra che i bambini siano in buone mani, ma, anche lei, si metta pure in contatto con me se ritiene che io possa esserle utile.» Frugò nella sua giacca, tirò fuori alcuni biglietti da visita e ce li diede. Strinse a due mani la mano di Linda, poi la mia ed era già sparito. Linda accartocciò il biglietto. La sua faccia era diventata tesa. «Cosa c'è?» «A un tratto è diventato la disponibilità in persona», disse, «ma la scorsa primavera, quando i bambini attraversavano un momento terribile, ho cercato di ottenere il suo aiuto. Ocean Heights è parte del suo distretto, anche se sono certa che non ha preso molti voti qui. Ho pensato che per la reputazione che ha, tutte quelle storie sui diritti civili in cui era immischiato, sarebbe venuto qui, a parlare coi bambini, a mostrar loro che un uomo di potere era dalla loro parte. Poteva farlo se non altro a fini di propaganda. Devo aver chiamato il suo ufficio una mezza dozzina di volte. Non mi ha mai richiamato.» «È venuto oggi. Per affrontare Massengil.» «C'è sicuramente un secondo fine. Sono tutti uguali.» Arrossì. «Lei penserà che sono una vera e propria rompiscatole.» «Forse lo è», dissi, «ma devo studiarla in circostanze più ottimali per essere in grado di pervenire a una conclusione sull'argomento.» Aprì la bocca, poi scoppiò in una risata. Il poliziotto in fondo al corridoio fece finta di non sentire. La classe era grande, luminosa e stranamente quieta. Solo la pioggia
rompeva il silenzio, scrosciando contro i vetri delle finestre con un ritmo insistente che ricordava quello del lavaggio delle auto. Venti paia di occhi erano puntati su di me. Dissi: «Sono un tipo di dottore che non fa iniezioni. Né guardo nelle orecchie o negli occhi dei bambini». Pausa. «Quello che faccio è parlare con i bambini e giocare con loro. A voi piace giocare, vero?» Qualche rapida occhiata. «Quali giochi preferite fare?» Silenzio. «Che ne dite della palla? A nessuno di voi piace giocare a palla?» Cenni di assenso. Un ragazzo asiatico con un taglio di capelli a caschetto disse: «Baseball». «Baseball», ripetei, «in che ruolo giochi?» «Lanciatore. E anche il calcio, il rugby e la pallacanestro.» «Saltare la corda», disse una ragazza. «La dama.» «La dama cinese.» «Sei cinese?» «Neanche per sogno. Sono vietnamita.» «A me piace Memory.» «Anche a me piace giocare», dissi. «A volte per divertimento e a volte per aiutare i bambini impauriti o preoccupati.» Ancora silenzio. L'insegnante tamburellò con le dita. «Oggi è successo qualcosa che fa molta paura», dissi. «Proprio qui a scuola.» «È stato ucciso qualcuno», disse una bambina color caffè con le fossette sul viso. «Anna, non sappiamo se è stato ucciso», replicò l'insegnante. «Sì», insistette la bambina. «C'è stata una sparatoria. Perciò qualcuno è stato ucciso.» «Hai mai sentito una sparatoria, prima?» le chiesi. Fece segno di sì, con veemenza. «Sì. Nella mia via. I teppisti passano in macchina sparando nelle case. Questo è uccidere. Lo ha detto mio padre. Una volta una pallottola ha fatto un buco nel nostro garage. Così.» E fece vedere lo spazio tra l'indice e il pollice. «Anche nella mia via», disse un ragazzo dai capelli a spazzola col viso da folletto e le orecchie a sventola. «È stato ucciso un tipo. Morto. Bum
bum bum. Sulla faccia.» L'insegnante era impallidita. Alcuni ragazzi cominciarono a mimare una sparatoria usando le dita come pistole e alzandosi a metà dalle sedie. «Deve far paura», dissi. Un bambino rise e sparò a una bambina. Lei disse: «Smettila! Sei uno stupido!» Il bambino imprecò contro di lei in spagnolo. «Ramon!» disse l'insegnante. «Adesso siediti! Sediamoci tutti ragazzi!» Lo sguardo che mi rivolse diceva «Chi ti ha dato la laurea?» Dissi: «È divertente sparare per gioco, perché ci fa sentire forti, potenti, padroni delle nostre vite. Ma quando accade veramente, quando qualcuno ci spara davvero addosso, non è molto divertente, vero?» Scrollate di testa. Il ragazzo che aveva riso più forte improvvisamente sembrò il più spaventato. «Cos'è successo secondo voi oggi, ragazzi?» «Un tipo ha sparato su di noi», disse il ragazzo asiatico. «Tranh», disse l'insegnante. «Questo non possiamo dirlo.» «Sì, ci stava sparando addosso, signorina Williams!» «Sì, Tranh, stava sparando», disse. «Ma non sappiamo a chi. Poteva anche sparare in aria.» Mi guardò per avere una conferma. «Stava sparando proprio a noi», insisté Tranh. Io dissi: «Nessuno di voi sa cosa gli è successo?» «È stato ucciso?» disse la ragazza di nome Anna. «Proprio così», risposi. «Gli hanno sparato ed è morto. Perciò non può più farvi del male. Non può farvi niente.» Valutarono in silenzio quanto avevo detto. Il ragazzo di nome Ramon disse: «E i suoi amici?» «Quali amici?» «Se fa parte di una banda e i suoi amici tornano per spararci un'altra volta?» «Non c'è nessun motivo per pensarlo», dissi. «E se è uno spacciatore», disse Ramon, «o un cholo?» «Chi è?» chiese un'altra ragazza, paffutella, con riccioli neri alla Shirley Tempie e la voce tremante. Venti volti in attesa. «Non lo so ancora. Nessuno lo sa. Ma è morto. Per sempre. Non dovete più temerlo», dissi.
«Dovremmo ucciderlo un'altra volta!» disse Ramon. «Sì. Ucciderlo! Sparargli con una calibro 22!» «Con una Uzi!» «Schiacciargli la faccia contro una pizza così non può respirare più!» «Schiacciargli la faccia sulla cacca!» L'insegnante cominciò a dire qualcosa. La zittii con lo sguardo. «In che altro modo potreste fargli del male?» «Ucciderlo!» «Farlo a pezzi e darlo da mangiare a Pancho, il mio cane!» «Sparargli, bum, nelle palle!» «Ay, los cojones!» Risate. «Non possiamo ucciderlo», disse la ragazza paffutella. «Perché?» dissi. «Lui è grosso e noi siamo solo bambini. Non abbiamo armi.» «Tutto questo è stupido», disse Tranh. «Non possiamo ucciderlo perché è già morto!» «Bisogna ucciderlo un'altra volta!» gridò qualcuno. «Scoprire dove viveva», disse Ramon, «e uccidere la sua maledetta famiglia!» L'insegnante disse: «Parlate come si deve!» La ragazza paffutella non sembrava rassicurata. «Cosa c'è?» le domandai. «Veramente», rispose, «noi non possiamo fare niente. Siamo dei bambini. Se qualcuno vuol essere cattivo con noi può farlo quando vuole.» «Tesoro, nessuno vuol essere cattivo con te. Tutti ti vogliono bene, Cecelia», disse l'insegnante, «vogliono bene a tutti voi.» La ragazza paffutella scrollò la testa e cominciò a piangere. Quando finii, la pioggia si era calmata. Mi fermai davanti all'ufficio di Linda Overstreet, ma era chiuso e nessuno rispose quando bussai. Mentre lasciavo l'edificio vidi Milo nel cortile, vicino alla baracca circondata dal nastro. Stava parlando con un uomo magro, dai capelli scuri, che indossava un elegante vestito blu. Si accorse di me e mi fece cenno di avvicinarmi. «Alex, questo è il tenente Frisk dell'ATD, l'antiterrorismo. Tenente, il dottor Alex Delaware, lo psicologo che lavorerà con i ragazzi.» Frisk mi scrutò da cima a fondo e disse: «Come va, dottore?» Il tono mi fece capire che non gliene importava molto.
«Bene.» «Mi fa piacere sentirlo.» Controllò l'ora sul suo Rolex mettendolo ben in mostra. Era giovane e abbronzato, aveva capelli scuri pettinati in modo impeccabile e un paio di baffi alla cui cura aveva dedicato sicuramente molto tempo. Il vestito blu era costoso, la camicia una Turnbull & Asser o un'imitazione. La cravatta, perfettamente annodata, era di seta spessa, con un motivo di parallelogrammi di un blu cangiante su un fondo rosso borgogna. Gli occhi ricordavano i parallelogrammi e non si fermavano un attimo. Si girò verso Milo: «Ti farò sapere. Buon pomeriggio, dottore». E se ne andò. «Un tipo azzimato», dissi, «sembra il poliziotto di un serial televisivo.» «Un giovane rampante», disse Milo, «dottore in diritto pubblico, buone conoscenze, caposezione a trent'anni, promosso tenente tre anni più tardi.» «Sta assumendo la direzione del caso?» «Hai appena sentito: me lo farà sapere.» Attraversammo il cortile della scuola. «Allora», disse, «com'è andata?» «Non male, veramente. Sono riuscito a incontrare brevemente tutte le classi. La maggior parte dei bambini sembra reagire normalmente.» «Cioè?» «Molta ansia, un po' di rabbia. Ho cercato di sfruttare la rabbia, per fare in modo che si sentissero più padroni di sé. Ho detto agli insegnanti di contattare i genitori e prepararli a possibili inappetenze, insonnie, disturbi psicosomatici, eccessivo attaccamento, fobia verso la scuola. Qualche bambino può aver bisogno di un trattamento individuale, ma l'approccio di gruppo dovrebbe funzionare per gran parte di loro. L'importante era cominciare a lavorare da subito. Hai fatto bene.» «Cosa ne pensi della direttrice?» disse. «Una donna energica.» «Una texana», disse, «figlia di un poliziotto: suo padre era un ranger, portava il lavoro a casa. Conosce a memoria questa scena.» «Non me ne ha parlato.» «Perché avrebbe dovuto? Con te probabilmente ha parlato di sentimenti.» Risposi: «Il suo principale sentimento è in questo momento la rabbia. Molta della quale ribolle sotto la superficie. Sta montando lentamente fin da quando è arrivata qui: ha avuto a che fare con molte seccature e con po-
chissimo aiuto alle spalle. Ti ha raccontato degli atti di vandalismo?» Aggrottò le ciglia. «Sì. Ne avevo già sentito parlare. Il provveditorato l'aveva comunicato alla centrale; non ci sono stati sviluppi.» «Sembra che la scuola sia stata coinvolta nella politica da quando hanno portato qui quei bambini. Pensi che si tratti di un attentato a sfondo politico?» «Non si sa ancora.» «Latch o Massengil hanno qualche ipotesi in proposito? Sul fatto di essere loro stessi gli obiettivi?» «Non saprei», disse, «Kenny Frisk e i ragazzi dell'antiterrorismo hanno fatto tutti gli interrogatori. Nel massimo segreto. A porte chiuse. Poi Kenny è uscito per informare noi peones che la politica ufficiale è di tenere la bocca chiusa. Tutti i comunicati stampa devono essere rilasciati dall'ATD. Le fughe di notizie saranno severamente punite.» Cercai sul suo viso qualche segno di rabbia. Vidi solo una maschera bianca. Dopo qualche passo disse: «Gli auguro buona fortuna. È difficile che la bocca di un uomo politico riesca a star chiusa». «Sin qui Latch sembra attenersi alle disposizioni», dissi, «mi sono imbattuto in lui nel corridoio mentre stava uscendo. Ho cercato di ottenere qualche informazione, ma mi ha risposto picche.» Girò la testa e mi guardò: «Che tipo di informazioni?» «Una descrizione essenziale dell'attentatore. Chi era. Qualcosa di tangibile. I bambini hanno bisogno di creare un'immagine del loro nemico.» Ripetei la giustificazione logica di quell'esigenza che avevo già fornito a Linda e a Latch. «Stanno ancora facendo domande, Milo. Riuscire a rispondere a qualcuna di esse aumenterebbe l'efficacia del mio lavoro.» Accennò di sì. «Naturalmente, tutti i dettagli che puoi raccontarmi sono utili. Senza arrivare a una fuga di notizie.» Non sorrise. «Dettagli. Bene, per prima cosa ti dirò che stai lavorando su un falso presupposto.» «Quale?» «Non era un lui, ma una lei.» 4 Era un ristorante poco illuminato, stile inglese: collezioni di boccali e scudi araldici esposti su pareti ruvide grigie, un bersaglio per freccette nel-
la tipica sala da pub, numerose travi disastrate, l'odore segoso, dolce della carne secca, un intrico da catacombe di piccole salette. Un maitre rispettoso aveva fatto in modo di lasciarci soli nella nostra. Milo alzò gli occhi dalla sua fiorentina, depose il coltello, estrasse qualcosa dalla tasca della sua giacca e lo fece scivolare sul tavolo. Un foglio di carta bianca, piegato doppio. Al centro c'era la fotocopia di una patente di guida. La foto era scura e sfocata. Il viso di una giovane donna, di forma ovale, l'espressione seria. Con il mento leggermente sfuggente. Il collo esile. Una blusa bianca. Capelli scuri dritti, tagliati corti. Una frangia sospesa su sopracciglia inarcate. Cercavo qualcosa nei lineamenti, un qualche segno di un carattere violento. Gli occhi apparivano leggermente offuscati. Imbronciati. Con palpebre pesanti. Poco profondi, come pozzanghere d'acqua piovana. Ma poteva essere la cattiva qualità della copia o il tedio per l'attesa in coda per farsi scattare la foto. Oltre a questo, niente. Comune. Un viso che non noteresti mai. Lessi i dati: HOLLY LYNN BURDEN 1723 JUBILO DR OCEAN HIGHTS CA 90070 SESSO: F CAPELLI: CASTANO SCURO OCCHI: AZZURRI ALTEZZA: 1 M 65 PESO: 54 KG DATA DI NASCITA: 12-12-68 SEGNI PARTICOLARI: LENTI CORRETTIVE «Una ragazza del quartiere», dissi. «Direi proprio di sì. Abitava a cinque isolati dalla scuola.» Esaminai ancora la foto, rilessi i dati. «Cosa sai di lei?» «Solo le cose che hai davanti agli occhi. Frisk ha detto che l'antiterrorismo avrebbe controllato l'esistenza di eventuali complici, avrebbe controllato negli archivi se il suo nome saltava fuori nelle liste dei sovversivi. Quando ci ha lasciati stava proprio andando a casa sua.» «Diciannove anni», dissi e gli restituii il foglio. Lo ripiegò e lo mise via. «Ora dimentica di averlo visto, Alex. Io non dovrei averla questa copia.» «Perché no?» «Documento ufficiale dell'ATD.» «Come sei riuscito ad averlo?» Alzò le spalle e cominciò a tagliare la sua bistecca. «Quando i ragazzi della scientifica hanno finito, Frisk ha designato uno degli uffici come 'centro di raccòlta dati'. Tutti i reperti ammassati lì dentro. Mi è giusto ca-
pitato di entrarci quando lui era andato a pisciare. E c'era quella fotocopiatrice che continuava a sussurrarmi: 'Accendimi, ragazzone'. Lo sai che ho sempre avuto un debole per il tocco leggero.» «Perché tutta questa ossessione per la segretezza, Milo? Una volta che Frisk ti ha detto il suo nome, avresti potuto procurarti la sua patente da solo. Per Dio, anch'io ci sarei riuscito.» «È così che funziona l'ATD: passano troppo tempo a gingillarsi a Washington. Il Dipartimento li manda là e al paradiso dell'FBI a Quantico. Seminari. Chiacchiere con i patiti dei romanzi di spionaggio. Li rende insopportabili. Ma loro fanno la legge: è del tutto inutile opporsi. Non ci vorrà molto perché le cose si smollino. È solo una questione di tempo e l'intera faccenda diventerà di pubblico dominio.» «Quanto tempo?» «A meno che non salti fuori qualcosa di interessante sulla defunta signorina Burden negli archivi di qualcuno, Frisk ha intenzione di comunicare il suo nome alla stampa verso mezzogiorno di domani. Non appena lo farà, potrai dire ai tuoi bambini che il loro orco ha le sembianze della cortese babysitter della porta accanto.» «Come farà a tenere a bada la stampa nel frattempo?» «Come al solito: bugie. 'Mi dispiace, signore e signori, occorre aspettare l'autopsia per un'identificazione certa'. Il che è quasi vero: ha preso un paio di pallottole in faccia. Ma è certamente la stessa faccia della foto della patente.» Immaginai quel giovane volto mite, come doveva essere adesso: gonfio, perforato, sanguinante. Fugai quell'immagine dalla mia mente e dissi: «Intorno a mezzogiorno può andar bene. Incontrerò i bambini all'una». «Ottimo. Ma se per qualche motivo Frisk non lo rende pubblico, neanche tu devi farlo, d'accordo? Ho abbastanza guai senza che si risalga a me per qualche fuga di notizia in questa fase iniziale dell'inchiesta.» «Che tipo di guai?» «I soliti.» La sua espressione diceva: «Cambia argomento». «C'è qualche indizio sull'intenzione della Burden di colpire Latch o Massengil?» «La cara democrazia partecipativa?» «Parlo seriamente, Milo. Se fossi in grado di dire ai bambini che non erano l'obiettivo dell'attentato faciliterei il mio lavoro.» «Allora, tira comunque dritto e diglielo.» «No», dissi, «lo dico solo se è vero.»
«Allora mi dispiace», disse, «ma non ho niente di solido da darti. Non ha lasciato nessun messaggio politico sul posto, per quanto ne so. Nessun gruppo estremista ha chiamato per rivendicare l'attentato e Frisk ha detto di non riconoscere lì per lì il suo nome tra quelli della lista dei sovversivi, anche se, come ho detto, controlleranno sul computer. Forse troverà qualcosa a casa sua, un diario o un proclama strambo. Nel frattempo tutto ciò che abbiamo è una ragazza morta e molti interrogativi.» Pensò per un istante. «Se stava cercando di colpire uno di loro, secondo me si tratta di Massengil. Sembra che nessuno tranne la cerchia ristretta di Latch sapesse che il loro uomo stava per presentarsi lì.» «La stampa lo sapeva.» Scrollò la testa. «Sì. Solo di Massengil. Questo l'ho appurato parlando con i giornalisti. L'invito è venuto dal personale di Massengil questa mattina. Ma doveva essere uno show individuale. Latch non aveva annunciato che sarebbe venuto. L'idea era sorprendere il nemico.» «E Latch come ha fatto a scoprire che Massengil sarebbe andato lì?» «Una volta che lo sapeva la stampa non era difficile per chiunque venirlo a sapere, non è vero?» «Chiunque?» «Chiunque appartenga all'ambiente. Se Frisk fa il suo lavoro correttamente, per prima cosa deve fare dei controlli su di lei. Forse ha lavorato per Massengil un tempo, o per Latch. O conosceva qualcuno che lo ha fatto. Nessuno in entrambi gli staff ha riconosciuto il suo nome, ma poteva essere stata nei livelli più bassi, a imbustare o a fare cose del genere. Un'umile fattorina che trattavano come una pezza da piedi e che passava del tutto inosservata. Lei inghiotte per qualche tempo, poi se ne va. E nessuno se ne accorge. Intanto la rabbia cova sotto la cenere. Medita piani di vendetta. Rientra nel profilo dell'assassino di massa. Oppure il coinvolgimento politico è fortuito: Latch e Massengil non hanno niente a che fare con l'attentato. Forse voleva solo uccidere dei bambini e c'è andata di mezzo l'altra faccenda.» «Una ragazza del posto fa pensare al peggio», dissi, «mi chiedo se ha frequentato Hale.» «Vendetta per una brutta pagella?» «Trovi qualcos'altro che abbia senso?» «In effetti no», disse, «per ora questo è il perfetto esempio di quello che chiamiamo un crimine insensato, in contrapposizione a tutti quelli che invece hanno senso.»
«I giornalisti erano là quando è iniziata la sparatoria?» Scrollò la testa. «No, la conferenza stampa era prevista per l'una.» Massengil si è presentato mezz'ora prima e si è messo a passeggiare per il cortile guardando di qua e di là. Latch è arrivato non invitato qualche minuto dopo.» «Se Latch aveva intenzione di mettere in ombra Massengil, perché non è arrivato quando c'era già la stampa? Sarebbe stata un'entrata plateale.» «Ci abbiamo pensato. La spiegazione fornita da Latch a Frisk è che lui non voleva affrontare Massengil, voleva solo renderlo inoffensivo. Gli stava offrendo la possibilità di annullare l'intera faccenda prima che arrivassero le telecamere.» «Uno stinco di santo!» «Sì, e io sono madre Teresa. La mia ipotesi è che volesse far innervosire Massengil, punzecchiarlo a dovere. Massengil ha fama di avere la miccia corta. Ha preso a pugni un altro uomo politico un paio d'anni fa, gli piace urlare contro gli interlocutori importuni, arrivare ai ferri corti. Latch probabilmente contava nel giro di mezz'ora di farlo arrivare sull'orlo di una crisi apoplettica proprio per quando fossero arrivate le telecamere. Fargli fare la figura dello stupido. Poi è intervenuto l'attentato a relegare in secondo piano il loro piccolo dramma.» «Uno dei bambini ha detto che sembrava ci fosse la guerra», dissi. «E lui come fa a saperlo?» «Lei. È cambogiana.» «Ah. Devo dirti una cosa, la cara Holly non era una professionista. Il fucile era un Remington 700. Con otturatore e fornito di cannocchiale. Più di tre chili, smontabile, uno dei più pesanti e con molto rinculo. Non era un fucile da ragazza. Non prendi in mano un fucile come quello, ti metti a sparare e speri di colpire il bersaglio.» «Anche con il cannocchiale?» «Mirare e tirare non sarebbe stato un problema, Alex. Lo sarebbe stato reggere quel dannato aggeggio. Dalla patente risulta che lei pesava meno di 55 kg. E non è aumentata di peso dal momento in cui ne ha fatto richiesta. Ho visto il corpo, pelle e ossa, senza muscoli. A meno che non avesse molta pratica, era come usare un cannone per sparare a un topolino. Le donne riescono bene nel tiro a segno, colpiscono con facilità e precisione il bersaglio, ma se usano una piccola rivoltella maneggevole. Non che in una situazione come questa sarebbe stata molto utile una rivoltella.» «La patente fa cenno anche all'uso di lenti correttive. Portava gli occhia-
li?» «Sì. Una pallottola ha colpito proprio una lente, e i frammenti di vetro sono finiti nella cavità orbitale.» «Quanti colpi è riuscita a sparare prima che Ahlward irrompesse nella baracca?» «Sembra tre colpi sui sei del caricatore, anche se a dar retta agli insegnanti e ai bambini doveva avere una mitragliatrice; un vero e proprio blitz. Ma il panico fa questi scherzi: ingigantisce le cose. Parte di ciò che hanno sentito erano gli spari di Ahlward: gliene ha conficcati otto in corpo.» «Ecco un vero professionista», dissi, ricordando la calma dell'uomo dai capelli rossi. «Un ex poliziotto?» «No. Frisk ha parlato di un ex appartenente ai reparti speciali dell'esercito.» «Un uomo coi coglioni, non il tipo di persona che uno come Latch può assumere.» «No, se Latch è un uomo pragmatico.» «Come ha fatto Ahlward a penetrare nella baracca?» «La stessa porta posteriore che ha usato la Burden. L'ha lasciata aperta. Te l'ho detto che non era una professionista. È corso dietro la baracca, vi è penetrato con facilità e poi lo scontro a fuoco.» Pensai ancora alla foto sulla patente. Sovrapposi mentalmente un reticolo di sangue e vetri sul viso spento. Dissi: «L'intera storia è patetica, Milo. Una ragazza, appostata con un fucile che non riusciva a maneggiare e Dio sa cosa le passava in testa». «Allora?» «Allora sarebbe stato meglio se il cattivo fosse stato più cattivo.» Mise giù la forchetta e mi fissò. «Oh, avrebbe potuto essere molto più cattiva. E non è merito suo se non lo è stata. Immagina un paio di colpi ben assestati, un paio di bambini che si beccano delle pallottole nel...» «Okay», dissi, «ho capito.» «Bene», disse, accartocciando il tovagliolo, «tienilo bene a mente. In situazioni come questa, bisogna aver ben chiare le buone vecchie priorità. Che ne dici ora di un dessert?» 5 Arrivai a casa verso le otto, controllai le chiamate, sbrigai qualche fac-
cenda e un po' di pratiche, poi passai un'ora con un nuovo acquisto, una macchina da sci di fondo. Un vero e proprio strumento di tortura che mi lasciò in un bagno di sudore. Nella doccia continuai a pensare a bambini terrorizzati e a cattive babysitter. Come purificazione aerobica poteva bastare. Alle nove guardai il telegiornale su una delle stazioni locali. La sparatoria alla Nathan Hale era la notizia centrale: inserti filmati con bambini in lacrime seguiti dalle dichiarazioni del dipartimento di polizia rilasciate dal tenente Kenneth Frisk. L'uomo dell'antiterrorismo era loquace e a suo agio davanti alle telecamere mentre dribblava le domande. Gli abiti firmati e i baffi lo rendevano fotogenico e adatto alla propaganda. Un poliziotto della nuova generazione. Molto stile, poca sostanza. Con pochi dati a disposizione e nella necessità di gonfiare la trasmissione, la redazione del telegiornale passò altre immagini di repertorio: qualche ripresa della scazzottata avvenuta in parlamento l'anno precedente tra Massengil e un deputato, proveniente da qualche distretto del nord del paese, di nome Di Marco. Poi arrivò una retrospettiva su Gordon Latch: una biografia rapida e concisa, di quelle che solo un fotomontaggio televisivo può realizzare. Iniziava con un filmato vecchio di vent'anni: Latch, irsuto e con occhi raggianti, mentre marciava con Mario Savio a Berkeley gridando slogan e poi veniva picchiato dalla polizia al People's Park. Stacco sul matrimonio in stile hippie con Miranda Brundage. La sposa, figlia unica di un produttore cinematografico, ex studentessa di storia dell'arte a Berkeley, ex elegantissima giovane repubblicana destinata alla Junior League, indossava jeans sbiaditi. Latch l'aveva presto trascinata su posizioni più radicali. Era stata puntualmente arrestata insieme a lui, aveva abbandonato gli studi e viveva nello splendido squallore di Telegraph Avenue. Per la stampa l'ironia era irresistibile: nei circoli di Hollywood, Brundage era stato a lungo considerato un fascista nascosto, tra i principali fautori della lista di proscrizione dell'epoca McCarthy e un acceso avversario dei sindacati. I media si erano occupati del matrimonio della figlia alla stregua di un evento eccezionale. Latch aveva recitato davanti alle telecamere la parte del radicale di primo piano. Subito dopo il matrimonio aveva portato Miranda a Hanoi, dove aveva registrato dei messaggi per i Vietcong che incitavano i soldati americani alla diserzione. Le reti televisive erano lì con i microfoni aperti. I Latch erano tornati negli Stati Uniti primi nella lista delle dieci persone più
odiate d'America, ricevendo minacce di morte e rischiando un'incriminazione per sedizione. Si erano ritirati in un ranch del padre di Miranda da qualche parte nel Nord. La gente si chiedeva perché Fritz avesse dato loro protezione. Il governo aveva deciso di non incriminarli ed erano circolate voci su sue possibili pressioni in tal senso. Miranda e Latch erano vissuti appartati per cinque anni, fino alla morte di Fritz, poi erano riemersi, eredi di una fortuna. Freschi di barbiere e maturi. Scusandosi per i fatti di Hanoi e autoproclamandosi «umanisti democratici» pronti a lavorare dentro il sistema. Si erano trasferiti nel West Side di Los Angeles, un altro paio d'anni di buon lavoro, attivismo ambientalista, aiuti ai senzatetto, raduni di beneficenza per i giovani disabili, e Latch era pronto per partecipare alle elezioni: un seggio del consiglio comunale era stato lasciato vacante per la morte, avvenuta in un incidente automobilistico, di un benamato consigliere, con un ben nascosto problema di alcolismo e una repulsione a delegare il potere. Nessun successore designato, un vuoto improvviso riempito da Latch. E un cospicuo passaggio di fondi dal patrimonio di Brundage alle casse del partito. Le uniche proteste per la nomina di Latch erano venute da un gruppo di veterani. Latch li aveva incontrati, aveva ingoiato il rospo, detto che era maturato, che aveva una visione dei problemi della città che trascendeva la politica di parte. Si era presentato candidato contro un'opposizione pro forma. Schiere di studenti universitari avevano battuto porta a porta il distretto distribuendo volantini e aria fritta. Latch aveva vinto e aveva fatto un discorso di accettazione che suonava decisamente moderato. Miranda era sembrata contenta di ospitare ricevimenti politici in casa sua. Era fotogenica, notai. Inginocchiata sulla spiaggia mentre grattava via il catrame dalle penne di un pellicano vittima di una macchia di petrolio. Fine del montaggio. Il telecronista spese qualche parola per ricordare le tensioni razziali alla Hale. Ancora immagini di bambini in lacrime. Un'inquadratura a campo lungo del cortile vuoto. La storia si concludeva con un'intervista a uno psicologo, corpulento, dalla barba bianca, di nome Dobbs, annunciato come esperto dello stress infantile, incaricato dal provveditorato di lavorare con i bambini. Questo richiamò la mia attenzione. Dobbs aveva addosso un vestito con gilè che sembrava tessuto di frumento sminuzzato e giocherellava con una pesante catena d'orologio. La faccia era appesantita da molta carne flaccida e increspava molto le labbra
mentre parlava: sembrava una maschera di gomma sciupata di Babbo Natale. Usava un gergo specialistico che mi infastidiva notevolmente e parlava molto di interventi di emergenza e di valori morali, batteva soprattutto sul tasto di una società che aveva ormai perso la sua fibra morale. Mi aspettavo che da un momento all'altro tirasse fuori un libro da pubblicizzare. Il telefono interruppe il suo discorso. «Il dottor Delaware?» «Sono io.» «Sono Linda Overstreet. Lei mi ha dato il numero così ho pensato che avrei potuto usarlo.» «Certo, Linda. Cosa c'è?» «Stava per caso guardando il telegiornale?» «Ce l'ho proprio in questo momento davanti agli occhi.» «Così lo ha visto: Dobbs.» «In tutto il suo rustico splendore.» «Sta mentendo, mi creda. Nessuno lo ha chiamato a far niente. Lo so perché ho parlato con il provveditorato oggi pomeriggio e non si erano ancora mossi.» «Cosa sta succedendo?» «Non lo so. So solo che Dobbs ha dei collegamenti con il provveditorato.» «Che tipo di collegamenti?» «Un paio d'anni fa, dopo uno dei terremoti, ha presentato una proposta ben congegnata al provveditorato: un intervento di emergenza, gratuito, in numerose scuole, compresa quella in cui stavo facendo il mio anno di formazione. Il risultato è stato che alcuni suoi assistenti hanno propinato dei test computerizzati ai bambini e distribuito degli opuscoli. Niente di, concreto. Un paio di settimane dopo, alcuni fra i genitori hanno cominciato a ricevere telefonate durante le quali venivano informati che i test avevano evidenziato che i loro figli soffrivano di gravi disturbi emotivi. Si 'consigliava' loro di far sottoporre i bambini a una terapia individuale. Quelli che opponevano resistenza ricevettero ulteriori chiamate, lettere e pressioni esplicite. La cosa strana è che tutti quelli che ricevettero le telefonate abitavano nei quartieri ricchi.» «I poveri sono sempre più disgraziati e i ricchi vengono curati?» «Sì. Il distretto ricevette alcune lamentele per questo 'trattamento forzato', ma nell'insieme erano soddisfatti di Dobbs perché non gli era costato
un soldo e alcuni dei genitori, i cui figli avevano subito il trattamento, manifestarono il loro apprezzamento dicendo che era stato utile.» «Le sue credenziali sono adeguate?» «Per quanto ne so, sì.» «Aspetti un secondo, che controllo.» Andai a prendere l'annuario dell'American Psychological Association e ritornai al telefono. «Qual è il suo nome di battesimo?» «Lance.» Sfogliai nella lettera D e trovai una biografia di Dobbs, dottor Lance L., e la lessi rapidamente. Anno di nascita 1943, dottorato con specializzazione in psicopedagogia conseguito in un'università pubblica nel Midwest nel 1980. Internato e formazione postlaurea in un centro per la riabilitazione per tossicodipendenti a Sacramento. Abilitazione e iscrizione all'albo nel 1982. Direttore della Cognitive-Spiritual Associates dal 1983. Due indirizzi: West L.A. e Whittier. «Sembra in regola», dissi. «Forse, ma con gli assistenti che fanno tutto il lavoro, che importa se lui è qualificato? Lo vedo come una persona che sa vendersi bene; uno a cui piace molto apparire in TV.» «Los Angeles è così», dissi, «la gente non si accontenta neanche dei canonici quindici minuti di fama.» Rise. «Così non si è arrabbiato?» «E perché dovrei?» «Lei fa il lavoro e lui si prende il merito. Mi sembra di passare metà del mio tempo ad affrontare comportamenti egoistici, di gente che pesta i piedi a qualcuno. Forse sono troppo sensibile al problema.» «I piedi non mi fanno male.» «Bene», disse, «volevo chiarire subito la cosa. Se arrivano gli uomini di Dobbs me ne occuperò io.» «Grazie. Anche per avermi chiamato.» Silenzio. «Come vanno le cose a scuola?» chiesi. «Bene, per quanto possibile.» La voce si incrinò. «Comincio solo ora a rendermi conto di come siamo arrivati vicino a... tutta questa storia è un gran pasticcio.» «Lei come sta?» «Oh, sopravviverò. La cosa che mi preoccupa di più sono i bambini. Ho
parlato con alcuni insegnanti e le reazioni ai suoi incontri con le classi sono state positive.» «Ne sono felice.» «E a lei come sembrano, i bambini?» «Spaventati. Ma niente di anormale. È incoraggiante il fatto che sembrano capaci di esprimerlo. Lei e i suoi insegnanti avete evidentemente fatto un buon lavoro negli ultimi due anni. Ho fatto comunque una lista di una ventina di bambini che sembrano molto fragili. Terrò d'occhio gli altri. Qualsiasi bambino a rischio che nei prossimi giorni continui a dare segni di squilibrio avrà bisogno di essere seguito individualmente e avrò bisogno di incontrare i genitori.» «Quando vuole incontrarli?» «Può andare venerdì?» «Farò in modo che Carla se ne occupi subito domani mattina. L'ho vista andar via con l'ispettore Sturgis stamane. Niente di nuovo sull'attentatore?» Ricordando l'ammonimento di Milo, fui evasivo. «La polizia non ne sa molto ancora. Conta di scoprire presto qualcosa di più.» «Mi sembra la solita evasività dei poliziotti.» Mi ricordai di ciò che mi aveva detto Milo di suo padre. «Immagino che lei se ne intenda di queste cose.» «Cosa intende dire?» «L'ispettore Sturgis mi ha detto che suo padre è un poliziotto.» «Le ha detto così?» disse, improvvisamente lontana e fredda. «Sì, è vero. Bene, le auguro buona notte e grazie ancora.» «A domani, Linda.» «Forse non ci vedremo. Sarò in giro per la scuola. Se ha bisogno di qualcosa chieda pure a Carla. Buona notte.» «Buona notte.» Rimisi la cornetta sulla forcella. La sensazione di gelo era dura a scomparire. Milo non mi aveva detto che era suscettibile se le si parlava del suo passato. Ci pensai un po' incuriosito. Ma non per molto. Troppi altri pensieri in testa. Martedì mattina c'era un'aria cristallina, quel tempo che ti pizzica il naso e ti stuzzica il palato, un tempo che a Los Angeles arriva dopo un temporale. Controllai i giornali per qualche aggiornamento sull'attentato, non trovai niente. Passai in rassegna le reti televisive e le emittenti radio di infor-
mazione. Solo vecchi servizi riciclati. Richiamai persone che mi avevano cercato, finii un paio di rapporti su casi di affidamento di minori. Verso mezzogiorno feci una pausa per un panino con carne di manzo al pepe e una birra. Ricordando le previsioni di Milo, accesi di nuovo la TV, diedi una scorsa ai canali col telecomando. Giochi televisivi. Sceneggiati. Pubblicità per la formazione professionale. Stavo per spegnere quando una conferenza stampa interruppe uno dei serial. Il tenente Frisk. L'abbronzatura, i denti e la permanente lo facevano più che mai assomigliare a un poliziotto da sceneggiato e la conferenza sembrava una continuazione del serial, solo un'altra scena letta da copione. Raddrizzò la cravatta, sorrise, poi procedette a dare a Holly Burden la sua parte di fama, rivelando il suo nome, ripetendolo, scandendone le lettere, aggiungendo la sua data di nascita, il fatto che viveva a Ocean Heights e che si pensava avesse problemi psichici. «Tutti gli indizi», disse, «fanno ritenere che abbia agito da sola: non è stata trovata alcuna prova di una sua affiliazione politica o dell'esistenza di un complotto. Le indagini sono tuttavia ancora in corso.» «Avete scoperto dei possibili moventi?» chiese un giornalista. «Nessuno, per ora.» «Ma lei ha detto che aveva dei disturbi psichici.» «È vero.» «Che tipo di disturbi?» «Stiamo ancora investigando», disse Frisk, «mi dispiace, ma non posso essere più preciso in questo momento.» «Tenente, stava sparando ai bambini o è stato un tentativo di omicidio ai danni di qualcuno in particolare?» «Stiamo ancora raccogliendo dati anche su questo aspetto. È tutto, per ora, gente. Sarò di nuovo da voi non appena potrò dirvi qualcosa di più.» Immediato ritorno allo sceneggiato: un cocktail party pieno di bellissima gente, pettinature curatissime, cucina raffinata, ma percorso da un'enigmatica inquietudine. Annodai la cravatta e misi la giacca. Era ora di andare a scuola. Arrivai alla Hale alle 12.45, l'ora della ricreazione, ma il cortile era vuoto. Un uomo brizzolato con abiti logori stava camminando su e giù per il marciapiede davanti alla scuola. Portava una croce di tre metri e aveva sulle spalle un cartello a sandwich che proclamava GESÙ È NOSTRO SI-
GNORE davanti e NON C'È PARADISO SENZA REDENZIONE dietro. Un poliziotto di mezz'età era in piedi davanti al cancello d'entrata e lo guardava. Uniforme azzurra, ma non quella del dipartimento di polizia. Avvicinandomi vidi la mostrina sulla sua manica. Polizia scolastica. Gli dissi il mio nome, lo controllò su una lista in un blocco, chiese un documento d'identità e aprì il cancello. Entrai nel cortile. La baracca era ancora circondata dal nastro giallo. Nonostante il bel tempo, un senso di desolazione incombeva sul cortile: oscurità unita a tensione, come una pausa tra due tuoni. Forse perché era vuoto e mancavano le risate dei bambini. O forse era solo la mia immaginazione. Avevo già provato la stessa sensazione... accanto ai letti di morte. Allontanai quel pensiero e passai dalla segretaria di Linda Overstreet. Carla era giovane, minuta ed efficiente. Aveva una pettinatura punk e un sorriso che diceva: la vita non va presa sul serio. Entrai nella prima classe. Il giorno precedente c'erano almeno due dozzine di bambini, quel giorno ne contai solo nove. L'insegnante, una giovane donna pallida fresca di nomina, sembrava distrutta. Le feci un sorriso di incoraggiamento, senza purtroppo poterle dedicare più tempo. Quando presi il suo posto davanti alla classe, si scusò, si sedette in fondo e si mise a leggere un libro. L'alto numero di assenze si ripeté in tutte le altre classi: almeno metà dei ragazzi era rimasta a casa. Tra gli assenti c'erano molti di quelli che avevo etichettato come bambini a rischio. Il dilemma dell'analista: quelli che maggiormente hanno bisogno del suo aiuto scappano il più lontano possibile da lui. Mi concentrai sull'aiuto che potevo offrire, lavorai per ristabilire il rapporto, dando ai bambini il tempo di discutere, poi presentai il loro orco: feci il nome di Holly Burden e raccontai le poche cose che sapevo di lei. Erano scettici sul fatto che l'aggressore potesse essere una donna. Molti dei più giovani continuarono a chiamarla «lui». Gliela feci disegnare, modellare con la creta, costruire con il lego. Farla a pezzi, scaraventarla a terra, prenderla a randellate, raschiarla. Ucciderla tante e tante volte. Sangue e frammenti di vetro... Nel frattempo continuai a parlare, a rassicurare. Continuai allo stesso modo nelle altre classi finché, in una quarta, la menzione del nome di Holly Burden fece impallidire un'insegnante. Una donna di cinquant'anni di nome Esme Ferguson, alta, dai capelli biondo
chiaro, molto truccata e vestita all'antica. Uscì dall'aula e non fece ritorno. Poco dopo la vidi nel corridoio, la raggiunsi e le chiesi se aveva conosciuto Holly Burden. Inspirò profondamente e disse: «Sì, dottore. È stata qui». «A Ocean Heights?» «Alla Hale. Ha studiato in questa scuola. Sono stata la sua insegnante. È stata nella mia classe qualche anno fa, quando insegnavo in sesta.» «Cosa si ricorda di lei?» Inarcò le sopracciglia ridisegnate con la matita. «Niente, veramente.» «Proprio niente?» Si morse il labbro. «Era... strana. Tutta la sua famiglia è strana.» «Strana come?» «Veramente non... è troppo difficile parlarne, dottore. Sono successe troppe cose e in troppo poco tempo. La prego di scusarmi. Devo tornare in classe.» Mi girò le spalle. La lasciai andare e tornai al mio lavoro. A parlare di quella ragazza «strana». A cercare di spiegare la pazzia ai bambini. In passato, lavorando con bambini traumatizzati, mi ero sforzato di contestualizzare l'evento traumatico riducendo la disgrazia a una singolare crudeltà. Ma guardando negli occhi consapevoli di quei bambini, ascoltando le loro esperienze, sentii che la mia voce vacillava e dovetti infondervi un tono di sicurezza. La mia ultima classe era un gruppo di ragazzi turbolenti di sesta, la cui insegnante non si era presentata a scuola. Feci uscire la supplente, distrutta, promettendo di stare attento a che non succedesse niente, e stavo per iniziare, quando la porta si aprì ed entrò una giovane latina. Aveva i capelli tirati indietro e cosparsi di gel, indossava un vestito a maglia rosso, attillato, e aveva unghie lunghissime dello stesso colore. Sfoggiava un ampio sorriso di facciata. Con una mano reggeva un'enorme cartella e con l'altra una borsetta rossa. «Salve, bambini», proclamò, «sono la dottoressa Mendez! Come va oggi?» I bambini la guardarono, poi guardarono me. Il suo sguardo seguì il loro. «Salve», mi disse, «sono la dottoressa Mendez, psicologa. E lei è il signor...» Le porsi la mano. «Il dottor Delaware. Anch'io sono psicologo.» Il sorriso le si gelò in faccia. «Mm...» disse continuando a fissare la mia mano. La borsa le sfuggì di
mano e le cadde. I bambini cominciarono a ridere. Si chinò goffamente a causa del vestito attillato e la raccolse. Risero più forte. «Un momento, ragazzi», dissi e le chiesi di uscire con me nel corridoio. Chiusi la porta. Lei appoggiò le mani sui fianchi e disse: «Bene, cosa succede?» «Buona domanda, dottoressa Mendez.» «Sono qui per sottoporre i bambini a terapia, per l'attentato.» «Anch'io. Ho cominciato ieri.» «Non capisco», disse nervosa. «Sono stato chiamato dalla polizia.» «Per fare indagini?» «Per aiutare?» «Questo non ha senso», disse. «Lei lavora con il dottor Dobbs?» Tirò fuori un biglietto da visita e me lo porse. PATRICIA MENDEZ, M.A. COGNITIVE SPIRITUAL ASSOCIATES, INC. Due indirizzi: Olympic Boulevard a West L.A. e a Whittier. Quattro numeri telefonici. Scritta minuscola in basso che la qualificava come assistente psicologa del dottor Lance L. Dobbs, psicologo clinico, e indicava il suo numero di licenza. Gliela restituii dicendo: «È già passata dalla direttrice? Lei dovrebbe essere in grado di chiarire la situazione». «Non era in ufficio. Ma sono qui su autorizzazione del provveditorato: spetta a loro decidere, non alla polizia.» Non dissi niente. La cartella le faceva abbassare la spalla. L'appoggiò per terra. «Penso che lei debba comunque passare in direzione», dissi. «Bene», disse mettendosi a braccia conserte, «io so solo ciò che mi è stato detto di fare.» «Mi spiace che lei abbia perso tempo venendo qui.» Aggrottò le ciglia, pensierosa. «Senta, sono qui solo per fare il mio lavoro. Non può andare in un'altra classe?» «Questi ragazzi ne hanno passate abbastanza. Hanno bisogno della serenità che nasce dalla routine. Di prevedibilità.» «Io posso dargliela», disse. «Entrando nel bel mezzo della mia seduta? Per inserirli nella sua agenda?»
Si irrigidì, ma sorrise. «Mi sembra che il suo atteggiamento ostile abbia un nome: possessività.» «Il suo si chiama invece menzogna, signorina Mendez. Lei si presenta come dottore e possiede solo una laurea di primo grado. Pretende di essere psicologa quando invece è solo assistente.» Aprì la bocca, la chiuse, l'aprì ancora. «È... è solo un fatto tecnico. Il prossimo anno conseguirò il dottorato.» «E il prossimo anno dirà la verità.» «Lei sta insinuando che c'è qualcosa...» «Finora in quante classi è stata?» «Sette.» «Nessuna di esse ha detto che sono stato lì?» «Loro non... io...» «Non ha avuto veramente il tempo di parlare con loro, vero? È entrata all'improvviso, ha consegnato le sue cose preconfezionate, ed è sparita con la stessa velocità con cui è arrivata.» Guardai verso la cartella. «Cosa c'è lì dentro? Opuscoli?» «Lei è molto ostile», disse. Un'ondata di risate salì dalla classe. Poi un tonfo: mobili rovesciati. Dissi: «Senta, è stato divertente, ma devo andare. Finché non passa dalla direttrice e chiarisce la faccenda, la prego di stare lontana dai bambini. Per il loro bene». «Lei non può darmi ordini...» «E la prego di pensarci due volte prima di appropriarsi di un titolo che non ha. Penso che la commissione medica giudicante non ne sarebbe molto contenta.» «Cos'è, una minaccia?» «Solo un consiglio.» Cercò di assumere un atteggiamento duro, ma fallì miseramente. «È il mio lavoro», disse quasi supplicando, «cosa devo fare?» «Si presenti dalla direttrice.» Cominciava a far buio quando lasciai il cortile della scuola. Vidi Linda Overstreet proprio fuori dal cancello che stava parlando con l'uomo con la croce. Cercava di spiegargli qualcosa. Lui guardava il marciapiede e a un tratto alzò improvvisamente gli occhi e sembrò andare in delirio. Lei indietreggiò. Lui avanzò fino ad arrivarle sotto il naso, agitando il dito. Lei cercò di rispondergli, lui alzò il tono della voce e gesticolò con
maggior frenesia. Poi aprì la bocca, una cavità nera senza denti e cominciò a urlare: parole brutali e insensate. Guadagnò il cancello e, accorgendosi della mia presenza, diede un'alzata di spalle, come per dire «che ci posso fare», e aspettò che la raggiungessi. Indossava un vestito di lino nero, dal taglio semplice, adatto a un funerale. Ma il contrasto con i capelli biondi e la carnagione chiara dava al tutto un tocco di fascino involontario. «Sta ascoltando un sermone?» Fece una smorfia. «Quel vecchio pazzo. Si è presentato questa mattina di buon'ora gridando frasi sulla meretrice di Babilonia, la cui colpa ricade sui bambini, e altre simili stupidaggini. Ho cercato di spiegargli che i bambini non avevano bisogno di altro scompiglio, ma è come parlare al muro: ha il nastro registrato in testa e continua a farlo andare.» L'uomo con la croce ululò più forte. «Cos'è, la fase lunare?» disse; «li fa uscire strisciando da tutti i buchi? A proposito di esseri striscianti, si è già fatto un nemico.» «La signorina dal vestito rosso?» Fece cenno di sì. «È entrata con irruenza nel mio ufficio quasi con le lacrime agli occhi, sostenendo che lei l'ha umiliata.» Fece un gesto teatrale col braccio. «Cos'è successo veramente?» Glielo raccontai. «È proprio ciò di cui lei ha bisogno, vero? Cercare di aiutarci ed essere immischiato in queste beghe politiche.» «Posso sopportarlo, a piccole dosi», dissi, «ma lei, come fa a resistere?» Sospirò. «A volte me lo chiedo. Comunque non si preoccupi per quella donna. Le ho detto di non ritornare prima di aver compilato i moduli appropriati: gliene ho rifilato una pila da riempire. Se c'è qualche chiamata dal provveditorato, agirò come con le seccature, ignorandoli, non facendomi trovare; una tempesta di promemoria. Quando si riuniranno per decidere cosa fare, lei probabilmente avrà finito e sarà lontano da qui, i bambini saranno a posto. Come vanno adesso?» «Quelli presenti bene», dissi. Fece una faccia lunga. «Sì, cinquantotto per cento di assenti e le orecchie mi stanno ancora fischiando. Credevo di essere stata convincente, ma parliamoci chiaro, come avrei potuto dir loro in tutta coscienza che non ci sarebbero stati problemi?» Scrollò la testa. Mi sembrò di vedere il suo labbro inferiore tremare, ma lei lo coprì con una smorfia. «Non sarebbe giusto che alla fine l'avessero vinta per una cosa come
questa?» disse. «Una stupida pazza? Beh, non voglio trattenerla oltre.» «In arrivo o in partenza?» «In partenza. Ho parcheggiato là.» Indicò una Ford Escort bianca dall'altra parte della strada. La accompagnai alla macchina. Lei inserì la chiave e la girò. Io l'aiutai ad aprire la portiera. «Un vero gentleman», disse salendo in macchina, «molto cortese.» Cercai di cogliere un'espressione ironica nel suo viso, ma vidi solo stanchezza. Il vestito nero si era alzato un po': gambe bianche, molto lunghe... «Stia attenta», dissi chiudendo la portiera, «a domani.» «Senta», disse, «sto andando a cena fuori: niente di eccezionale, ma non mi dispiacerebbe un po' di compagnia.» Arrossì, guardò altrove, infilò la chiave nell'accensione e la girò. Il motore dell'Escort si svegliò con uno scoppiettio fuori fase. Crepitò e finalmente si accese. Quando si era ormai stabilizzato, dissi: «Anche a me non dispiacerebbe un po' di compagnia». Diventò ancora più rossa. «Ah, una cosa: lei non è sposato o cose del genere, vero?» «No», dissi, «né sposato né nient'altro.» «La mia domanda le sembrerà strana.» Prima che potessi rispondere disse: «È che preferisco che le cose siano chiare. Voglio tenermi alla larga dai guai». «Niente guai», risposi. La sua risata suonò fragile. «Non che finora ci sia riuscita molto.» 6 La seguii in un locale scelto da lei a Broadway, Santa Monica. Un banco di contorni che si potevano prendere a volontà, con una quantità enorme di verdure che sarebbe bastata da sola a rifornire l'esposizione di una fiera di contea, pesce alla griglia, molto fumo e ventilatori che giravano pigri, riproduzioni di Alphonse Mucha alle pareti, segatura sul pavimento. Né eccezionale né orribile, prezzi medi. Costruimmo le nostre insalate e le portammo in un separé sul retro. Linda mangiò con gusto e tornò a riempire il piatto. Quando ebbe finito anche il secondo, si appoggiò allo schienale, pulì la bocca e sembrò impacciata. «Buon metabolismo», disse. «Fa molta ginnastica?»
«Nient'affatto; Dio sa se i miei fianchi ne avrebbero bisogno.» Pensai che i suoi fianchi avevano un bell'aspetto, ma lo tenni per me. «Dovrebbe essere soddisfatta.» Arrivarono le entrée e mangiammo senza parlare, a nostro agio così, come vecchi amici, usando il silenzio per scaricarci. Dopo qualche minuto disse: «Cosa ne pensa dell'attentatrice: il fatto che sia una ragazza e tutto il resto». «È stata una sorpresa. A proposito, una delle sue insegnanti, la signora Ferguson, mi ha detto che la conosceva. È stata una sua allieva in sesta.» «Una sua allieva alla Hale?» Feci cenno di sì. «La vecchia Esme. Non mi ha detto niente: c'era da aspettarselo. Ma lei è l'unica che può ricordarlo. Ha insegnato lì per anni e abita nel quartiere. Tutti gli altri, come me, si sono trasferiti di recente. Degli 'intrusi', così ci hanno chiamati. Cos'altro aveva da dire su di lei?» «Solo che era strana. Tutta la sua famiglia era strana.» «Strana come?» «Non è stata più precisa. Non voleva parlarne.» «La Ferg ha idee piuttosto rigide: è una piccola vittoriana», disse, «per lei 'strano' può significare qualunque cosa... usare una forchetta sbagliata a cena. Ma devo parlarle, per vedere se riesco a scoprire qualcosa.» «E le sue pagelle», dissi, «può cercarle?» «Possono esserci alcune pagelle, ma non ne sono sicura. Prima che iniziassimo a portare qui i bambini dall'East Side, il posto è stato svuotato. Gran parte dell'archivio è stato trasferito in centro. Controllerò domani.» «Da quanto tempo lavora alla Hale?» «Dallo scorso anno. Sono entrata quando hanno cominciato a trasferire i bambini da fuori quartiere. Il primo incarico dopo il periodo di prova postlaurea. Penso che abbiano intuito che ero una piantagrane, volevano liberarsi di me in fretta e hanno pensato che qualche mese alla Hale sarebbe bastato.» «Sì, è un inizio infernale.» Rise. «Li ho fregati e ho tenuto duro. Troppo giovane e troppo stupida per avere buon senso.» «Mi è capitata la stessa cosa quando ho iniziato», dissi, «una volta terminata la borsa di studio come ricercatore mi è stato offerto un incarico molto duro: lavorare con ragazzi malati di cancro. Allora avevo ventisette anni, dirigevo un programma per duemila pazienti ed ero responsabile di
un'équipe di dodici persone. Un'ordalia. Ma guardando indietro sono contento di averlo fatto.» «Cancro. Com'è deprimente!» «Lo era a volte, ma anche edificante. Molti bambini ebbero dei miglioramenti. Alcuni guarirono, ogni anno in numero maggiore. Finimmo col fare molto lavoro di reinserimento: aiutare le famiglie a fronteggiare la situazione, limitare le sofferenze, consigliare i famigliari; ricerca clinica che poteva trovare un'applicazione immediata. Questo ti faceva sentire soddisfatto: vedere che le teorie cominciavano a vivere. Essere utile a breve termine. Sentivo realmente che stavo facendo qualcosa di buono, che avevo un impatto con la realtà.» «Ventisette anni. Dio mio. A che età ha conseguito il dottorato?» «Ventiquattro anni.» Fischiò piano. «Un fenomeno, eh?» «No, solo una grande volontà. Ho iniziato il college a sedici anni e ho sempre lavorato sodo.» «Mi sembra falsa modestia», disse, «veramente anch'io ho iniziato il college a sedici anni. Ma nel mio caso non era niente di eccezionale. Una piccola università nel Texas: venivano accettati tutti quelli che sapessero parlar bene inglese e non fossero deficienti.» «Dove in Texas?» «San Antonio.» Dissi: «Bella città. Ci sono stato dieci anni fa per una consulenza all'istituto di medicina. Ho fatto un giro sul fiume, ho mangiato per la prima volta i fiocchi d'avena e ho comprato un paio di stivali». «Perché non fa più terapia? L'ispettore Sturgis mi ha detto che lei non esercita più. Mi aspettavo una persona anziana.» «Ho smesso qualche anno fa e non ho ancora ripreso: una storia lunga.» «Mi piacerebbe ascoltarla», disse. Le raccontai a sommi capi i miei ultimi cinque anni di vita: Casa de Los Ninos, morte e abbrutimento. Un'overdose di miseria umana, il ritiro, vivere con gli investimenti immobiliari fatti nel periodo di boom che si era avuto in California alla fine degli anni Settanta. Poi il riscatto: sentendo la mancanza delle gioie dell'altruismo, ma riluttante a impegnarmi in una terapia a lungo termine, avevo raggiunto un compromesso: mi ero limitato a lavori temporanei, consulenze legali per avvocati e giudici. «E poliziotti», disse. «Solo uno. Io e Milo siamo vecchi amici.»
«Investimenti immobiliari, uhm? Beato lei. Non so cosa avrei fatto se non avessi dovuto lavorare. A volte mi capita di disprezzare il mio lavoro. Odio i burocrati. Poi un giorno alzo la testa, guardo tutta la cartaccia sulla mia scrivania, e mi rendo conto di esserlo io stessa.» «Ha mai pensato di fare qualcos'altro?» «Cosa, ritornare a scuola? Nossignore. Ho già ventinove anni. Arriva un momento in cui devi sistemarti e accettare il tuo destino.» Mi asciugai la fronte. «Ventinove anni? Oh! Pronta per la sedia a dondolo sulla veranda.» «A volte sento di averne bisogno», disse. «Senti chi parla: lei non è molto più vecchio.» «Otto anni di più.» «Ehi, nonno, stringa il cinto erniario e mi passi il Geritol.» Venne la cameriera e chiese se volevamo un dessert. Linda ordinò un dolce di pastafrolla alle fragole. Io scelsi un gelato al cioccolato, ma era farinoso e lo lasciai. «Non è buono? Prenda un po' di questo.» E arrossì di nuovo. Dall'intensità del rossore sembrava mi avesse offerto un seno nudo. Ricordandomi come si schermiva dai complimenti, la classificai come una che ha paura dell'intimità, una persona sospettosa, con una qualche ferita interiore ancora aperta. Ma poi pensai, perché non avrebbe dovuto essere riservata? Ci conoscevamo appena. Presi un pezzetto di torta, più per non respingere la sua offerta che per fame. Tirò via quasi tutta la panna montata, mangiò una fragola e disse: «Mi trovo molto bene a parlare con lei; perché non è sposato?» «C'è una certa donna che potrebbe rispondere alla sua domanda», dissi. Alzò lo sguardo. Aveva una briciola di torta sul labbro inferiore. «Gesù, mi dispiace.» «Non c'è niente di cui lei si debba preoccupare.» «No, mi dispiace veramente, non volevo ficcare il naso... Beh, naturalmente l'ho fatto, non è vero? È esattamente quello che stavo facendo. Ficcare il naso. Ma non mi sono resa conto di curiosare su una ferita che ancora duole.» «Non fa niente», dissi, «è quasi guarita. In ognuno di noi c'è qualche ferita non rimarginata.» Ma non si fermò. «Il divorzio è così meschino. Comune come un passero, ma ugualmente meschino.» «Niente divorzio», dissi, «non siamo mai stati sposati, anche se avrem-
mo potuto esserlo.» «Quanto tempo siete stati insieme?» «Poco più di cinque anni.» «Mi dispiace.» «Non c'è nessun motivo per rammaricarsi neanche adesso.» Mi resi conto che il mio tono era brusco: l'irritazione causata da tutte quelle rivelazioni. La tensione riempì lo spazio tra di noi come una bolla d'aria. Ci demmo da fare con il dessert e la lasciammo sgonfiare lentamente. Una volta finito, lei insistette sui conti separati e pagò in contanti. «Bene, dottor Alex Delaware», disse mettendo via il portafoglio, «è stato istruttivo, ma adesso devo tornare a casa e mettermi al lavoro. Verrà domani?» «Stessa ora, stesso posto.» Ci alzammo. Lei prese la mia mano tra le sue. Lo stesso tocco morbido e come deferente, così in contrasto con il resto della sua persona. I suoi occhi erano ardenti. «Voglio sinceramente ringraziarla», disse, «lei è un uomo delizioso e io so che non è molto facile starmi vicino.» «Neanch'io sono sempre uno zuccherino.» A faccia a faccia. Silenzio assoluto. Volevo baciarla, mi accontentai di accompagnarla alla macchina guardandole le gambe e i fianchi mentre saliva. Quando partì, mi resi conto che avevamo parlato più di noi stessi che dell'attentato. Ma rimasto solo, nella Seville, l'idea dell'attentato riprese possesso della mia mente. Presi un'edizione della sera in un'edicola vicino a Barrington, mi diressi verso Westwood e, mentre stavo attraversando quel quartiere, diedi un'occhiata alla prima pagina mentre aspettavo a un semaforo rosso tra Hilgard e Sunset. Due foto, una della baracca con la didascalia IL NASCONDIGLIO DELL'ATTENTATORE; l'altra un primo piano di Holly Lynn Burden, si dividevano la parte centrale alta nella pagina. A destra un titolo a caratteri cubitali recitava: SCUOLA FATTA SEGNO DI COLTI D'ARMA DA FUOCO. ASSISTENTE DI LATCH METTE FINE ALLA SPARATORIA. I bambini nel cortile scappano in preda al panico. L'attentatrice uccisa da un uomo di Latch. La fotografia sembrava presa da una fatta per ricordo alla fine di un anno
scolastico: colletto bianco su maglione scuro, filo di perle, posa rigida. Lo stesso viso che avevo visto nella fotocopia della patente, ma più giovane, con un po' di grasso infantile che ammorbidiva i lineamenti. Capelli più lunghi che sfioravano le spalle. Occhiali dalla montatura scura, stessa accigliata ottusità dietro. Il semaforo diventò verde. Qualcuno suonò il clacson. Misi via il giornale e mi unii alla corrente metallica di Sunset Boulevard. Il traffico era lento, ma continuo. Quando arrivai a casa, cominciai a leggere, scorrendo la cronaca dell'attentato e soffermandomi sulla biografia dell'attentatrice. Holly Burden aveva vissuto tutti i diciannove anni della sua vita nella casa di Jubilo Drive, dividendola con il padre Mahlon Burden, di cinquantasei anni, un «consulente tecnico libero professionista, vedovo». I risultati del suo interrogatorio non erano stati resi noti dalla polizia e lui si era rifiutato di parlare con la stampa, come pure il fratello, Howard Burden, trentenne, di Encino. Negli archivi del provveditorato, il giornale aveva scoperto che Holly aveva fatto gli studi elementari alla Hale, ma non citava Esme Ferguson o qualcun altro che la ricordasse. La futura attentatrice aveva poi frequentato una scuola media di primo grado nei paraggi e una scuola media superiore a Pacific Palisades, da dove si era ritirata un anno prima del conseguimento del diploma. I consiglieri per l'orientamento non riuscivano a ricordarsi di lei, ma uno di loro aveva trovato alcune pagelle di fine anno che evidenziavano mediocri risultati e «nessuna partecipazione alle attività extracurricolari». I pochi docenti che la ricordavano la descrivevano tutti come una ragazza tranquilla e riservata. Un insegnante di inglese ricordava che non era molto motivata, non era orientata verso studi universitari, né competitiva «ma non aveva partecipato a nessun corso di recupero. Non un'allieva di cui vantarsi, ma neanche una che aveva evidenziato il minimo segno di disturbi mentali o di tendenza alla violenza». I vicini di casa «lungo la tranquilla strada fiancheggiata da alberi di questo ricco distretto del West Side» erano molto più prodighi di informazioni. Coperti dall'anonimato descrivevano i Burden, père et fille, «poco amichevoli e riservati», «non coinvolti nella vita della comunità, conducevano un'esistenza appartata, sempre chiusi in casa». Mahlon Burden veniva descritto come «una specie d'inventore, alcuni pensano sia eccentrico»; Holly veniva definita «una strana ragazza che ciondolava attorno alla casa tutto il giorno, spesso senza uscire neanche: non prendeva mai il sole, era bianca
come un lenzuolo». «Nessuno sapeva veramente cosa facesse: si era ritirata da scuola e non faceva nessun genere di lavoro.» «Correvano voci che fosse malata. Forse di mente.» Il cronista aveva usato quel «forse» per collegarsi al successivo punto focale dell'articolo: congetture sullo stato di salute mentale di Holly Burden offerte dalla solita masnada di esperti desiderosi di pontificare senza elementi concreti su cui appoggiarsi. Primo fra tutti il «dottor Lance L. Dobbs, psicologo e direttore del Cognitive-Spiritual Associates di West Los Angeles, un'autorità sull'impatto psicologico dello stress infantile, incaricato dal provveditorato di curare le giovani vittime a scuola». Dobbs definiva la ragazza uccisa «una probabile personalità schizoide affetta da disturbi sociopatici, il tipo di personalità anormale che si forma e che non è presente dalla nascita» e continuava rimproverando severamente la società per «non saper appagare il bisogno di crescita spirituale dei suoi giovani». Descriveva il suo progetto di trattamento come «un programma esauriente e sistematico di intervento di emergenza, che include l'uso di terapisti bilingue. Abbiamo già iniziato a lavorare con i bambini con eccellenti risultati. Tuttavia, basandoci sulle nostre precedenti esperienze, prevediamo serie reazioni in alcuni dei giovani. Essi dovranno essere seguiti in modo più deciso». Vendita rateale. L'articolo terminava con un profilo dell'eroe del giorno. Darryl «Bud» Ahlward, indicato come «assistente amministrativo» di Gordon Latch. Più di una guardia del corpo, a meno che non fosse il modo escogitato da Latch per farsi rimborsare abbondantemente la protezione di uomini nerboruti dall'amministrazione cittadina. E i muscoli sembravano la sola cosa che Ahlward possedesse: ex istruttore dei Marines, soldato dei reparti speciali, cultore di body-building, esperto di arti marziali. Cosa che ben si adattava all'atteggiamento riservato e al portamento da macho che avevo visto il giorno prima. Ciò che non quadrava era che quella specie di soldato lavorasse per un uomo dal pedigree politico di Latch. A una domanda in tal senso fatta a Latch precedentemente, lui aveva risposto parlando di «un forte legame condiviso da entrambi, soprattutto proiettato verso i problemi ambientali». Misi via il giornale. Un'accozzaglia di chi, cosa, come. Nessun perché. Chiamai il servizio segreteria per vedere se qualcuno mi aveva cercato.
Le solite cose, tranne una richiesta di mettermi in contatto con l'ufficio del deputato Samuel Massengil, seguita da due numeri, uno locale e l'altro con prefisso 916. Sacramento. Incuriosito telefonai al numero di Los Angeles e trovai un messaggio registrato in cui il deputato Samuel Massengil si diceva pronto a mettersi al servizio dei suoi elettori, seguito da una lista di altri uffici e numeri in cui molti «servizi comunali o distrettuali» potevano essere ottenuti senza che fosse necessario contattare il deputato Massengil. Alla fine un bip. Lasciai nome e numero telefonico ed andai a letto con la testa piena di perché. 7 Alle otto e mezzo del mattino seguente ricevetti la chiamata di una donna che frammischiava alle parole piccoli scoppi di risa. Si presentò come la signorina Beth Bramble, segretaria di direzione del deputato Massengil. «Grazie di aver risposto alla nostra chiamata, dottore.» «Segretaria di direzione», dissi, «l'equivalente di Bud Ahlward.» Pausa. «Non esattamente, dottor Delaware.» «Lei non è cintura nera?» Un'altra pausa, più breve. «Non ho mai conosciuto uno psichiatra con il senso dell'humour.» «Sono psicologo.» «Ah. Questo forse spiega tutto.» «Cosa posso fare per lei signorina Bramble?» «Il deputato Massengil desidera incontrarla.» «Per quale motivo?» «Veramente non lo so, dottore. Tornerà oggi pomeriggio a Sacramento per una votazione e sarebbe felice se lei potesse passare questa mattina per prendere un caffè insieme a lui.» «Immagino si tratti della scuola Hale.» «È possibile», disse, «che ora le va bene?» «Temo che non vada bene nessun momento. Il mio lavoro con i bambini è riservato.» «Il deputato ne è perfettamente consapevole.» «Essere coinvolto in beghe politiche è l'ultima cosa che desidero, signorina Bramble.» «Le assicuro, dottore, che nessuno ha intenzione di corromperla.» «Ma ha idea di che cosa possa trattarsi?»
«No, mi dispiace, non lo so veramente: sto solo trasmettendo il messaggio. Le nove e mezzo è troppo presto?» L'invito mi incuriosiva, sentivo che c'era sotto qualcosa; il mio istinto era quello di starne alla larga. Visto il carattere di Massengil la situazione era complicata. Se avessi rifiutato avrebbe potuto sfogare ancora il suo malumore sulla scuola. Poi c'era la mia curiosità... «Va bene alle nove e mezzo. Dove?» dissi. «Il nostro ufficio distrettuale è a San Vicente. A Brentwood.» Mi diede l'indirizzo e mi ringraziò della collaborazione. Dopo che ebbe riattaccato, mi resi conto che la sua voce aveva rapidamente perso, senza più ritrovarla, l'intonazione allegra dell'esordio. L'ufficio distrettuale occupava due appartamenti a pianterreno di un edificio tutt'altro che monumentale. Vicino c'erano un agente assicurativo, un grafico, un'agenzia di viaggi e un editore di manuali tecnici. Sulla porta del primo appartamento c'era un cartello che invitava a usare quella del secondo. Prima che avessi il tempo di farlo, la porta si spalancò e una donna uscì nel giardino. Aveva più o meno trentacinque anni, capelli neri, molto scuri, pettinati indietro e raccolti in uno chignon, viso pieno, occhi verdi che sfumavano sul grigio, freddi, bocca carnosa e cinque chili di troppo nei punti giusti. Indossava un vestito di sartoria, che metteva in risalto le sue curve, una blusa di seta bianca e un cravattino fermato da un enorme topazio giallo. La gonna le arrivava alle ginocchia. I tacchi a spillo erano talmente lunghi e affilati da sembrare stiletti. «Dottor Delaware, sono Beth Bramble.» Il suo sorriso fu luminoso e repentino come un flash. «Entri pure. Il deputato è libero.» Resistetti alla voglia di chiederle se era anche disponibile e la seguii all'interno. Camminò ancheggiando, ulteriore ostentazione delle sue forme, e mi condusse nella reception. Una musica soft usciva da un altoparlante nascosto. Il mobilio era da motel d'epoca: legno venato e Mylar, ostentatamente sobrio. Alcune stampe sbavate e riproduzioni di Rockwell erano appese a pareti tappezzate con tela color limone. Ma lo spazio era soprattutto occupato da fotografie, decine di fotografie, con cornici nere: Massengil che intrattiene dignitari stranieri, che consegna premi, solleva proclami ufficiali zeppi di scritte a mano, che afferra badili cromati, che fa il giro di banchetti circondato da divoratori di polli gommosi, in smoking e con gli occhi lucidi per l'alcol. E mentre si mescola al popolo: vegliardi inchiodati
a una sedia a rotelle, pompieri dalla faccia fuligginosa, bambini che portano le maschere di zucca per Halloween, mascotte di squadre di atletica travestite da animali mostruosi. «È un uomo molto amato», disse lei, «ha rappresentato per ventotto anni il suo distretto.» Suonò come una minaccia. Facemmo una brusca curva a sinistra e arrivammo davanti ad una porta con la scritta PRIVATO. Bussò una sola volta, aprì e poi fece un passo indietro per permettermi di entrare. Sparì chiudendo la porta dietro di me. L'ufficio era piccolo, beige, con un'aria quasi logora. Massengil sedeva dietro una scrivania di noce ordinaria, consunta. Una giacca grigia era appoggiata su uno schedario metallico grigio. Portava una camicia bianca a mezze maniche e una cravatta. Il piano della scrivania era protetto da una lastra di vetro ed era vuoto, salvo due apparecchi telefonici, un tampone e un vaso di vetro pieno di caramelle dure incartate nel cellofan. Dietro di lui altre fotografie e un diploma: una laurea in ingegneria rilasciata quarant'anni prima da un college statale nella Central Valley. Perpendicolare alla scrivania c'era un solido divano marrone dalle gambe di legno. Vi stava seduto un uomo, corpulento, dalla barba bianca. Faccia flaccida e colorito rosso. Babbo Natale con l'indigestione. Proprio come in TV. Un altro completo, questa volta di loden verde, pesante come il piombo, che si accartocciava sgraziatamente intorno alle spalle. Giocherellava con la catenella di un orologio da taschino d'oro lucente. Un'enorme pancia che gli tendeva la patta sporgeva sotto le punte del panciotto. La camicia era gialla e con un ampio colletto rigido. La cravatta, verde con dei motivi, era annodata con un enorme nodo alla Windsor. Continuò a giocare con la catenella evitando il mio sguardo. Massengil si alzò. «Dottor Delaware, sono Sam Massengil. Sono felice che lei sia venuto.» La voce era debole anche se probabilmente si stava sforzando di parlare forte. Ci stringemmo la mano. Aveva una mano grande, callosa, che strinse le mie dita un po' troppo anche per il cameratismo che cercava di fingere. Un uomo incline all'eccesso, anche se non era più di moda. La sua camicia lava e indossa era molto ordinaria e la sua cravatta un'orgia di aquile in volo in un cielo beige di poliestere. Le maniche corte rivelavano braccia troppo lunghe anche per il suo corpo allampanato, molto magre, ma nodose e coperte di peluria bianca. Braccia tornite dal lavoro manuale. Un viso macchiato dal sole e grinzoso come un frutto avvizzito. I suoi baffetti bianchi
erano più lunghi da un lato. Come se si fosse rasato a occhi chiusi. Dimostrava tutti i suoi anni, ma aveva un aspetto sano e forte. Spaccava legna? Non riuscivo a immaginarmelo in mezzo alla massa di gente che fa jogging per mantenere la linea. Si rimise a sedere senza levarmi lo sguardo di dosso. «Non immaginavo che saremmo stati in tre, onorevole», dissi. «Sì, sì. Questo è un suo distinto collega, il dottor Lance Dobbs. Dottor Dobbs, il dottor Delaware.» «Ho visto il dottor Dobbs in TV.» Dobbs fece un vago sorriso e fece cenno di sì, ma non accennò nemmeno ad alzarsi o a stringermi la mano. «Cosa posso fare per lei, onorevole?» Massengil e Dobbs si guardarono. «Perché non si siede?» Mi sedetti su una sedia di fronte alla scrivania. Dobbs cambiò posizione per studiarmi meglio e il divano marrone cigolò. Massengil mi porse il vaso di vetro. «Caramella?» «No, grazie.» Del caffè promesso neanche l'ombra. «E lei Lance?» Dobbs prese il vasetto, afferrò un pugno di caramelle, ne scartò una verde e la mise in bocca, girandola tra il palato e la lingua. Il suo sguardo, oltrepassandomi, fissava Massengil. Ansioso. Pensai a un bambino debole e viziato abituato alla protezione dei genitori. Come se avesse avuto l'imbeccata, Massengil si schiarì la voce e disse: «Apprezziamo il fatto che sia venuto subito, dottore». «Tutto nell'interesse di una buona gestione della cosa pubblica?» Si accigliò, scambiò un altro sguardo con Dobbs. Dobbs mangiò un'altra caramella e fece un movimento laterale con gli occhi, una specie di segnale. Cominciai a essere incuriosito dalla relazione che c'era fra loro. Chi era il padre. Massengil disse: «Bene, non ha senso tirarla per le lunghe. Ovviamente, l'ho fatta venire per la tragedia a scuola. È successo un paio di giorni fa, vero dottore?» «Sì, onorevole.» «Sappiamo che lei ha lavorato con quei bambini. Il che è bello, naturalmente, assolutamente bello.» Un sorriso fatto controvoglia. «Ma lei, come è stato coinvolto esattamente?» «La polizia.» Un altro sorriso. Da ritratto fotografico. Lo incorniciai di nero. «Bene, bene. Non sapevo che la polizia facesse questo genere di co-
se.» «Che tipo di cose?» «Consultare specialisti. Immischiarsi nei problemi di carattere sociale. Lei è incluso in qualche lista ufficiale di consulenti della polizia?» «No. Sono amico di un ispettore di polizia. Ho già lavorato con bambini traumatizzati. Lui ha pensato...» «Un ispettore», disse Massengil, «sono un grande amico della polizia, sa. In effetti il migliore amico che la polizia abbia a Sacramento. I crimini devono essere puniti. Sono la prima persona a cui si rivolge il capo della polizia. E anche lo sceriffo di contea.» Si girò verso Dobbs e ricevette un altro piccolo segno di incitamento. «Così un ispettore le ha chiesto di intervenire. Di chi può trattarsi?» «L'ispettore Sturgis. Milo Sturgis. È il nuovo D-tre: il nuovo ispettore capo della sezione omicidi nel West Side.» «Sturgis», disse assorto, «ah sì, quel tipo grosso con la pelle rovinata. Non l'hanno fatto entrare quando hanno fatto gli interrogatori.» Si schiarì la voce. Un altro scambio di sguardi. Pausa. «È omosessuale, mi hanno detto, anche se non si direbbe vedendolo.» Aspettò una qualche spiegazione. Quando non ne diedi alcuna emise un gridolino di soddisfazione, come se mi stessi comportando come previsto. «Allora è vero?» disse Massengil. «Cosa?» «È omosessuale?» «Onorevole, non credo che la vita sessuale dell'ispettore Sturgis sia...» «Non serve tergiversare. La vita sessuale dell'ispettore Sturgis è nota al dipartimento di polizia. E c'è anche un po' di risentimento nei suoi colleghi per la sua promozione. In primo luogo per la sua stessa presenza nel dipartimento. Tutte quelle malattie e i rischi che comportano.» Conficcai le unghie nei braccioli della sedia. «C'è nient'altro? Devo andare a scuola.» «Ah, la scuola. Come vanno i bambini?» «Bene.» «Molto bene.» Si chinò in avanti, appoggiò le mani sulla scrivania, allargando le grosse dita dalle unghie gialle. «Mi permetta di farle una domanda senza peli sulla lingua. Anche lei è uno di quelli?» «Quelli chi?» «Omosessuali.» «Onorevole, io non...»
«Il fatto è, dottore, che c'è una gran confusione, socialmente parlando. Penso che possiamo essere d'accordo su questo, vero? È mia responsabilità fare in modo che le cose non diventino ancor più confuse, più di quanto lo siano mai state. Viviamo in un mondo impazzito. Teppisti che sparano a un rappresentante dello stato. L'autorità che costringe la gente a stili di vita alternativi, trasportando bambini come se fossero ortaggi. Cercando di imporre teorie astratte non suffragate da esperienze reali di vita. Causando un ulteriore degrado, una forma di erosione.» Prese il vaso di vetro, lo accarezzò e disse: «Erosione. È una parola importante: il suolo ha molto da insegnarci. Perché se andiamo al nocciolo del problema, possiamo parlare di erosione di principi. Limiti. Graduale, ma gravemente nociva, proprio come per l'erosione del suolo. Tutto si riduce a questo. La conservazione e l'erosione: quello che resta e quello che passa. Questo è il mio distretto, ragazzo. Ne sono responsabile. Lo sono stato per quasi trent'anni. E quando vedo cambiamenti che non mi piacciono, l'erosione, io intervengo». Fece una pausa d'effetto, da cicerone da grandi magazzini. «Voglio... devo sapere se i principi sono stati compromessi, se i limiti sono stati ulteriormente erosi. Voglio sapere esattamente chi è responsabile.» «Responsabile di cosa?» «Dei sistemi. Sistemi d'influenza. Sistemi educativi. Sistemi di trattamento psichiatrico. Tutto quanto influenzi le giovani menti impressionabili.» Dobbs sorrise e disse: «Dottor Delaware, considerato ciò che hanno passato i bambini, noi abbiamo bisogno di essere certi che vengano seguiti in modo ottimale». «Noi?» «Noi», disse Massengil, «il mio staff.» «Il dottor Dobbs fa parte del suo staff?» Un altro flash di alfabeto morse oculare. «Sì, ne fa parte», disse Massengil, vantandosi ma stranamente un po' sulla difensiva. «Insieme a molte altre valide persone.» Dobbs disse: «Ho lavorato a lungo con lo staff dell'onorevole: seminari di gestione». «Naturalmente», disse Massengil troppo frettolosamente, «un lavoro eccellente.» Contò con le dita: «I fondamenti della personalità. Le vie alla leadership. La crescita spirituale al servizio dell'anima». Dobbs sorrideva, ma sembrava un inquieto maestro d'arte drammatica
che osserva la performance di un'ingenua inaffidabile. Massengil disse: «Noi tutti abbiamo tratto beneficio dal lavoro del dottor Dobbs, l'intero staff. Vede dunque che non ci opponiamo alla sua azione di intervento di per sé. Ma abbiamo bisogno di sapere chi interviene. Lance è una persona che conosciamo e di cui ci fidiamo, perché capisce il mondo reale, la realtà del distretto. La vita reale e i suoi fondamenti spirituali. Ecco perché gli abbiamo chiesto di seguire quei bambini, perché lui è estremamente qualificato per farlo». Un ampio sorriso. «Poi improvvisamente se ne occupa lei e noi approviamo il modo in cui l'ha fatto: apprezziamo molto il suo entusiasmo e gliene siamo grati. Ma non sappiamo chi è lei, qual è il suo curriculum.» Gli diedi le mie credenziali accademiche, usando la formula completa. Ascoltò appena lisciando il vaso di vetro. «Sembrano buone, signore. Ma lei non ha risposto alla domanda più importante.» «Se sono gay? No, non lo sono. Ma l'ispettore Sturgis è mio amico: pensa che ci sia il pericolo che me lo attacchi?» Le pieghe intorno agli occhi diventarono dei tagli e le dita si piegarono sul piano della scrivania. Graffiando il vetro e facendo sbiancare le unghie indurite. Ma continuò a sorridere, mostrando i denti gialli. «Non si sa cosa si può contrarre oggigiorno, giusto? In fondo stiamo cercando di fare la stessa cosa, non è vero?» «E cosa?» «Far pulizia di tutto questo sudiciume. Agire nel modo giusto con quei giovani. Vegliare a che diventino dei bravi cittadini. Sono sicuro che lei vuole esattamente le stesse cose, vero dottore?» «In questo momento», dissi, «sono più interessato a farli dormire la notte che a insegnargli educazione civica.» Il suo sorriso svanì. Dobbs disse: «L'onorevole Massengil stava solo dicendo che i valori sono estremamente importanti quando si lavora con questi bambini, con tutti i bambini. Occorre mantenere un ordine». «Che tipo di ordine?» «Un sistema di valori. Manifestare apertamente e in modo chiaro il proprio sistema di valori è una necessità nel trattamento clinico, troppo spesso negletta. La consapevolezza che le persone che per loro sono significative credono in qualcosa. Non può non concordare con me.» Massengil disse: «Veniamo al sodo, dottore. Noi apprezziamo molto tutto quanto ha fatto. Siamo sicuri che lei ha impostato molto bene il lavoro
dal punto di vista psicologico. Ma da questo momento in poi il personale di Lance prenderà il suo posto. Esattamente come avrebbe dovuto essere fin dall'inizio». «Non posso accettarlo, onorevole», dissi, «interrompere e iniziare con nuove persone confonderebbe ulteriormente i bambini, indebolirebbe quel poco di sicurezza che hanno ricostruito.» Scrollò leggermente la testa. «Non si preoccupi di questo. Sono sicuro che Lance saprebbe porvi rimedio.» «Assolutamente», disse Dobbs, «se lei sta usando un metodo standard per gli interventi di emergenza, da una figura di riferimento a...» «Andiamo, dottore», dissi, «l'ultima cosa di cui i bambini hanno bisogno è un altro cambiamento inutile.» Prima che avesse il tempo di rispondere mi alzai e guardai verso Massengil: «Onorevole, se lei è veramente interessato al loro benessere, tenga la sua politica fuori dalle loro vite e mi lasci fare il mio lavoro». Massengil appoggiò le mani ai braccioli della sedia, inspirò e inarcò le spalle come se stesse per tirarsi su. Ma restò fermo, mentre tutta la tensione gli saliva in faccia, gonfiandola e facendola diventare scura, come carne girata per farla essiccare al sole. «La politica, eh? Come se fosse qualcosa di sporco? Come se fosse in qualche modo criminale voler servire Dio e la patria.» Agitò il dito contro di me. «Se lei trova la politica così deplorevole, mi permetta di dirle qualcosa. Il suo amico omosessuale è grazie alla politica che ha ottenuto la promozione. È grazie alla politica che ha chiamato lei. E tutta questa confusione è cominciata proprio a causa della politica: quei bambini e gli agitatori che stanno loro dietro, scelgono deliberatamente di portare la politica nelle loro vite tutte le mattine quando salgono su quell'autobus a Boyle Heights e si dirigono a ovest! Perciò se vuol parlare di politica, parliamo dell'intera fottuta faccenda!» «Non mi interessa niente di tutto questo. Mi interessa solo aiutarli a far fronte al fatto che gli hanno sparato addosso», dissi. «Non erano loro. Io! Io ero l'obiettivo. Proprio per ciò che rappresento. Tenuto sotto mira da qualche depravato teppista radicale che cercava di erodere i limiti!» «È questo che ha raccontato all'ATD?» Esitò un istante, guardò Dobbs, poi di nuovo me. «Io so solo qual è il mio lavoro. Conservazione ed erosione. In realtà, è tempo che qualcuno si prenda cura di quella scuola, rimetta le cose a posto. Quel luogo è solo una
piaga aperta sulla faccia del distretto: sperimentazione sociale a spese della stabilità. Ho cercato di parlar chiaro su questo fatto e quasi sono stato ammazzato a sangue freddo. Ecco a chi hanno sparato addosso!» Respirava affannosamente e le dita avevano lasciato un'impronta umida sul vetro. Dobbs disse: «Sam, onorevole». Agitò leggermente una mano, poi l'abbassò come un mago che fa ridiscendere un assistente in levitazione. Massengil si buttò indietro sulla sedia ed espirò. «Bene, dottore», disse Dobbs, «mettiamo l'accento sulla collaborazione e non sullo scontro. Lavoriamo insieme. Sarò felice di integrarla nel mio programma.» Tutto sorrisi. Ricordai ciò che Linda mi aveva detto sul suo «programma» dopo il terremoto e scossi la testa. «Sarebbe completamente inutile, dottor Dobbs. Sono già in pieno trattamento; i bambini rispondono bene. Non c'è nessun motivo per complicare le cose.» Il sorriso resistette, ma divenne più accondiscendente. «È sicuro che non si tratti di egoismo da parte sua, dottore?» «Non egoismo», dissi, «solo comune buonsenso.» «Sono due termini che si contraddicono, dottor Delaware. Se il buonsenso fosse comune, noi due non avremmo più lavoro, non è vero? Lo stesso vale per i buoni valori.» «Valori», dissi, «come una propaganda veritiera?» Increspò le labbra. Prima che potesse metterle in movimento, mi girai verso Massengil e dissi: «Ieri a scuola ho incontrato un'assistente del dottor Dobbs che distribuiva cassette registrate. Si faceva passare per una psicologa e rivendicava il possesso di un dottorato che non aveva. Due violazioni del codice di etica professionale, onorevole. Questa non è erosione?» Dobbs rise e disse: «Sciocchezze, Sam. Un dettaglio tecnico. Patty Mendez è una brava ragazza, ma giovane. Non molto esperta nel fronteggiare le pastoie burocratiche che ci troviamo fra i piedi. Il dottor Delaware è stato piuttosto duro con lei. Le ho parlato e ho chiarito la cosa». Massengil lo fissò un istante, poi si girò nuovamente verso di me. «Ha sentito. Non facciamo di una mosca un elefante.» «Perché non torniamo al dunque?» disse Dobbs a bassa voce. «Giusto», disse Massengil, «voglio che Lance sia coinvolto. In un modo o nell'altro. Chiaro e semplice.» Guardai Dobbs. Compiaciuto. Padrone di sé. Improvvisamente compre-
si. Tutti quegli sguardi che si incrociavano. Quei segnali con la mano. Il legame fra loro oltrepassava i seminari di gestione. Era qualcosa di più profondo. Aveva il sapore di un rapporto padrefiglio. Questo spiegava perché Massengil era stranamente rimasto sulla difensiva quando gli avevo chiesto se Dobbs faceva parte del suo team. «Noi tutti abbiamo tratto beneficio dal lavoro del dottor Dobbs, l'intero staff.» Tutti noi. Non solo io. Paziente e terapista? Il pilastro della comunità apriva la sua mente a Babbo Natale? Perché no? Psicoterapia camuffata da seminari di gestione: poteva essere una splendida copertura, che legittimava la presenza di Dobbs negli uffici di Massengil e gli risparmiava il disturbo di andare nello studio del medico. Crescita spirituale al servizio dell'anima... Esplorazione della mente mascherata da brainstorm. Le parcelle potevano essere inserite tra le fatture delle spese di gestione... La debole voce di Massengil mi riportò bruscamente al presente. Stava tenendo un'altra conferenza. Ancora discorsi magniloquenti sui valori... «Signori», lo interruppi, «se questo è tutto, io vado. E conto di finire il lavoro intrapreso senza ulteriori interruzioni.» «Lei sta commettendo un grosso errore», disse Massengil, «enorme.» «No, lei lo sta facendo», dissi a voce talmente alta da stupire tutti, me compreso. «L'ultimo di una serie di errori. Come quello di usare la scuola, sfruttare quei bambini, per riempire la sua agenda. Ossessionandoli con stupide sciocchezze quando ci sono cose serie di cui occuparsi. E se è vero che lei era l'obiettivo, ha fatto una cosa ancor peggiore: ha attirato il killer in quel cortile, mettendo in pericolo la vita dei bambini.» Massengil balzò in piedi e girò attorno alla scrivania. «Tu spocchioso bastardo finocchio.» Gli angoli della bocca si erano riempiti di schiuma. Qualche particella schizzò via mentre parlava e una di esse si posò sulla sua cravatta. Dobbs sbigottì. «Sam!» disse, mettendoglisi davanti e cercando di fermare il vecchio. Ma Massengil era forte per la sua età e pieno di rabbia. I due lottarono goffamente per un istante. Poi Dobbs disse energicamente: «Sam!» e Massengil smise di opporre resistenza. «Ha veramente un brutto carattere, onorevole.»
Massengil disse: «Non preoccuparti Lange. Lui è fuori e tu sei dentro. Hai la mia parola. Chiara e semplice». «Onorevole», dissi, «ecco una cosa chiara e semplice: il minimo tentativo di interferire con il mio trattamento e io mi rivolgo immediatamente alla stampa. Non hanno molte notizie concrete sull'attentato e può scommettere che saranno ben felici di cogliere quest'aspetto succoso della faccenda: l'ingerenza politica.» Massengil scattò in avanti. «Adesso hai proprio...» Dobbs lo trattenne guardandomi però a sua volta minaccioso. Mi incamminai verso la porta. «Ne racconteranno di belle, onorevole. Dottori che non sono dottori, programmi di interventi di emergenza che non sono ancora iniziati nonostante gli ispirati discorsi di Dobbs in TV. Un programma inesistente che il suo ufficio ha già pagato. Nel migliore dei casi sembrerà una gestione poco oculata del pubblico denaro e nel peggiore frode continuata. Qualcuno vorrà sapere perché... come mai il legame fra lei e il dottor Dobbs è talmente forte da farle spingere le cose fino a questo punto. E a dir poco ci sarà un'inchiesta sulla sua etica professionale. Lei sa la piega che prendono queste faccende quando cominciano a gonfiarsi. Vedremo poi se quei segugi di notizie le riterranno delle sciocchezze.» La faccia di Massengil sbiancò. Quella di Dobbs si gelò. Prese in mano la catenella dell'orologio e cominciò a strofinarla energicamente. Gli voltai le spalle e uscii. 8 Avevo ostentato un buon sangue freddo, ma, mentre mi dirigevo verso la Seville, la rabbia s'impadronì di me. Scovai un telefono pubblico vicino a un bar frequentato da sportivi e telefonai a Milo. Era fuori e gli lasciai un messaggio. Entrai, presi una tazza di caffè, la bevvi, ne presi un'altra, sempre in piedi vicino al banco. Intorno a me, la gente chiacchierava delle pulsazioni cardiache; il mio cuore, intanto, andava a mille. Uscii e mi diressi in macchina verso la scuola. Andai piano, cercando di calmarmi, e arrivai a scuola poco prima delle undici ancora teso e non del tutto pronto ad affrontare i bambini. Parcheggiai, inspirai profondamente un paio di volte, uscii dalla macchina. Sia il poliziotto sia il pazzo che portava la croce erano scomparsi. Mentre camminavo verso il cancello una macchina cominciò ad avanzare
lentamente nella strada. Un'utilitaria color grigio metallizzato. Un'Honda Accord molto sporca, con la carrozzeria ammaccata e graffiata, e la vernice che avevo perso di lucentezza. Ma una singola ostentazione di gusto «stile californiano» attirò la mia attenzione: vetri scuri brillanti che facevano il giro della macchina come un nastro adesivo, facendo sembrare la vernice già spenta ancor più opaca. Finestrini che sarebbero stati più adatti a una limousine. La piccola auto grigia si fermò e mi lasciò passare, indugiò qualche istante e riprese ad avanzare lentamente per un isolato per poi girare a sinistra. Entrai nel cortile della scuola. Linda era nel suo ufficio, dietro una pila di carte. Quando mi vide, fece girare la sedia, si alzò e mi sorrise. Indossava una camicia blu scuro e una gonna cachi, stivali marrone con tacchi piuttosto bassi. Il pezzo di gamba che mostrava era bianco e liscio. I capelli, raccolti sulla nuca e fermati sulle tempie da mollette di tartaruga, scoprivano due orecchie piccole e attaccate alla testa, ornate di minuscoli bottoncini d'oro. «Salve. È in anticipo», disse spostando un po' di carte. «Mi hanno fatto scombinare tutti gli orari della giornata.» Nonostante gli esercizi respiratori, c'era ancora rabbia nella mia voce. «Cosa è successo?» chiese. Le raccontai dello scontro avuto con Massengil e Dobbs, tralasciando la parte riguardante la sessualità di Milo. «A proposito di Dobbs.» Prese qualcosa dalla sua scrivania e me lo porse. Era una cassetta di plastica bianca con su una scritta nera, un po' sbavata: COME MANTENERE UNA MENTE LIMPIDA, età 5-10 anni. Copyright 1985, Lance Dobbs, Ph.D. Cognitive-Spiritual Associates, Inc. «Questo è ciò che distribuiva Miss Falsa Dottoressa prima che lei la sistemasse», disse. «Le ho confiscate tutte, ne ho portata una a casa e l'ho ascoltata. Secondo me ne viene fuori una specie di lavaggio del cervello. Letteralmente. Dobbs comincia col dire che i cattivi pensieri rendono i bambini tristi e arrabbiati. Poi gli chiede di immaginare che le loro mamme gli tirino fuori il cervello e lo strofinino forte con acqua e sapone finché non è pulito. Tutti i cattivi pensieri sono spariti e restano solo pensieri buoni, limpidi, raggianti. Puzza d'imbroglio. È possibile che una cosa del genere possa avere una qualche efficacia?» «Ne dubito», dissi. «Tecniche simili sono state usate con malati cronici: pensiero positivo, immagini indotte, il tentativo di farli distogliere dal loro
disagio. Ma in genere quei pazienti vengono prima selezionati e poi spinti a esprimere le loro sensazioni prima di fargli il lavaggio del cervello. Ed è ciò di cui hanno bisogno i nostri bambini. Scaricarsi.» «Quindi lei sta dicendo che questo può danneggiarli, bloccarli?» «Se lo prendono troppo sul serio. Può anche provocare sensi di colpa se cominciano ad avvertire la loro paura e la loro rabbia come 'cattive'. Per i bambini 'cattivo' significa che si sono comportati male.» «Dannati impostori», disse, guardando con occhio torvo la cassetta. «Nella cassetta c'è niente che possa attirare l'attenzione di un bambino?» «Non mi sembra», disse. «Solo una musichetta in sottofondo e Dobbs che parla con tono monotono come una specie di guru. Non vale molto.» «Allora forse il rischio è minimo. I bambini non l'ascolteranno abbastanza a lungo da esserne danneggiati.» «Lo spero.» «Di poco valore», dissi. «Come l'arredamento dell'ufficio di Massengil. Capisco perché è attratto da quel genere di cose. Una soluzione transitoria. Senza bisogno di perder tempo in cose che possono costituire una minaccia per il suo equilibrio mentale. E apparentemente efficace dal punto di vista economico: un unico trattamento per duecento bambini. Dobbs probabilmente prepara un qualche test computerizzato che mostra che i bambini stanno andando ottimamente; poi tutti e due convocano una conferenza stampa e finiscono col diventare eroi.» Misi la cassetta in tasca: «La porto a casa, voglio ascoltarla». «Quello che mi brucia sono le pene che dobbiamo patire per cercare di ottenere dal parlamento fondi per la salute mentale. Chiedono in continuazione analisi dei risultati, prove di efficacia, pagine di statistiche. Poi un rettile come Dobbs succhia i fondi statali con quelle stupidaggini.» «Ma perché questo rettile ha un appoggio speciale.» «Quale?» «Non ne sono certo, ma scommetterei che è l'analista di Massengil.» Chinò il viso e inarcò le sopracciglia. «Il vecchio spaccone in analisi? Andiamo. Ha appena detto che non farebbe mai niente di psicologicamente minaccioso.» «È vero. Dobbs probabilmente la nasconde con una terminologia inoffensiva, non terapeutica. Tecniche di rilassamento, efficienza di gestione. O persino cose dal sapore religioso; uno dei seminari aveva a che fare con l'anima.» «Cadi in ginocchio e commuoviti?»
«Qualunque cosa sia, sono quasi sicuro che tra loro ci sia un legame particolare.» Le raccontai lo scambio di segnali che avevo visto tra Dobbs e Massengil, le imbeccate, gli sguardi di nascosto. «Quando ho accennato al fatto che avrei smascherato la vera natura della loro relazione, Massengil ha quasi perso le staffe.» «Non suonerebbe molto bene alle orecchie della brava gente di Ocean Heights, vero?» «Di qui la copertura dei seminari», dissi. «E compenso extra per comprare la discrezione di Dobbs, come le consulenze dopo il terremoto. E le cassette. Quanto vuol scommettere che le ha pagate l'ufficio di Massengil? Con un piccolo investimento Massengil si compra la possibilità di venir fuori pulito da tutta questa faccenda. Lui e Dobbs non potevano sapere che sarei arrivato prima di loro, dopo che Dobbs aveva già parlato con la stampa. Lo scandalo potenziale è lì. Massengil ci farebbe perlomeno la figura del buffone.» Scrollò la testa. «La storia di sempre. Lei penserà che dovrei esserci abituata. Spero che tutto questo non l'abbia abbattuta troppo.» Mi resi conto che parlandone avevo smaltito la rabbia. «Non si preoccupi. Ho visto di peggio. Comunque sono qui per lavorare. Quanti bambini si sono presentati oggi a scuola?» «Qualcuno in più di ieri, ma sono ancora troppo pochi. Molti genitori non erano rintracciabili telefonicamente durante l'orario di lavoro. Io e Carla proveremo questa sera.» Notai il suo aspetto molto stanco e dissi: «Sono contento di vedere che neanche lei si è lasciata abbattere». Si guardò con attenzione una pellicina di un'unghia. «Si fa quel che si può.» «Ho visto che è sparita la guardia», dissi. «Forse significa che siamo al sicuro, no?» «Non si sente al sicuro?» «Veramente sì. Credo fermamente che Massengil abbia portato le cose al culmine. Il peggio è passato.» L'espressione del suo viso non confermava quelle parole. «Cosa c'è allora?» dissi. Aprì un cassetto, tirò fuori una busta e me la porse. Dentro c'erano tre fogli di carta, uno a righe blu strappato da un blocco a spirale, gli altri di carta da lettere di qualità scadente, senza marchio. Il messaggio su uno dei fogli bianchi era stato scrìtto con una vecchia mac-
china per scrivere manuale; l'altro era stato scritto a mano con uno stampatello molto marcato. Il foglio a righe era coperto da scritte quasi illeggibili in penna rossa. Diverse mani, ma stesso messaggio. AMANTI MESSICANI!!! FOTTETE LE VOSTRE CAGNE BASTARDE!!! IL GIORNO DEL GIUDIZIO È PER VOI VICINO. PENTITEVI O BRUCERETE CON TUTTI I NEGRI NELL'INFERNO DEI NEGRI... CLANDESTINI TORNATE A MANGIARE FAGIOLI NELLA VOSTRA TERRA. SMETTETELA DI RUBARE IL PANE AI LAVORATORI AMERICANI... FRONTE DI LIBERAZIONE DEI BIANCHI. «Ricevevo regolarmente queste porcherie», disse. «Ma da qualche tempo non arrivavano più. Immagino che mi faccia ricordare come è stata dura all'inizio.» «L'ha raccontato alla polizia?» Fece cenno di sì. «Ho chiamato quell'ispettore dell'antiterrorismo, Frisk. Mi ha fatto leggere tutto quanto al telefono e ha detto che avrebbe mandato qualcuno a prendere le lettere. Ma non sembrava avere molta fretta; veramente sembrava scocciato. Non si è curato del fatto che ci siano su le mie impronte digitali o che Carla abbia buttato via le buste. Gli ho chiesto di mandare di nuovo la guardia per sorvegliare la scuola, solo per qualche tempo. Quel tipo non era certo eccezionale, ma meglio di niente, no? Frisk ha detto che la guardia era stata mandata dal provveditorato e la cosa non era di sua competenza, ma che non sembrava esserci veramente di che preoccuparsi: l'attentatrice aveva agito da sola. Gli ho chiesto se sussisteva l'eventualità che qualcuno la imitasse, mi ha risposto che era molto improbabile.» «Gli ha parlato del pazzo con la croce?» «Il vecchio Elia? Lo chiamo così: il profeta folle. Gliene ho fatto cenno, ma Frisk ha detto che non poteva farci niente, a meno che non violasse una legge o che io non andassi dal giudice e ottenessi un'ordinanza restrittiva. A proposito, Elia si è fatto vivo questa mattina. Urlando dal recinto qualcosa sull'inferno e la perdizione. Sono uscita per andare da lui e gli ho detto che aveva fatto un buon lavoro qui: tutti avevano ascoltato le sue parole. Poi gli ho chiesto se potevo leggere la Bibbia con lui. Ha accettato con entusiasmo. Ha cercato qualcosa di Geremia, morte e distruzione del sacro
tempio. Avrebbe dovuto vederci declamare ad alta voce sul marciapiede. Quando abbiamo finito, gli ho detto che sarebbe dovuto andare a Hollywood Boulevard: da quelle parti c'era un gran numero di spiriti bisognosi che desideravano ardentemente la salvezza. Mi ha detto che ero una donna di valore, mi ha benedetto e se n'è andato a passo di marcia cantando.» Quando smisi di ridere dissi: «Interventi di emergenza. Lei ne ha le capacità, dottoressa». «Proprio così. Mentre lisciavo l'amor proprio di quell'imbecille, in realtà avevo solo voglia di dargli un bel calcio nel sedere.» «Frisk le ha detto quand'è che i bambini potranno tornare nel cortile?» «Possono andarci già da questa mattina. Quando mi ha detto che non c'era niente da temere per la loro sicurezza, gli ho chiesto di permettere l'uso del cortile. Ha detto 'Ah, sì, certo, faccia pure'. Chiaramente l'aveva completamente dimenticato: non aveva alcuna importanza per lui che noi dovessimo tenere rinchiusi duecento bambini. Non è certo un esempio di sensibilità.» «Aveva nient'altro da dire sull'attentato?» «Non una parola. E gliel'ho chiesto.» «Gliel'ha detto che la Ferguson conosceva la ragazza?» Fece cenno di sì. «Ha detto di chiederle di telefonargli, con lo stesso tono annoiato. Come se mi stesse facendo un grosso favore. La vecchia Esme è rimasta a casa per malattia oggi, così le ho telefonato e le ho trasmesso il messaggio. Le ho anche chiesto cosa ricordava della ragazza. Non era poi granché: Holly era una bambina solitaria, non molto brillante, che tendeva a estraniarsi in classe e aveva problemi di apprendimento. Ma aveva un pettegolezzo di prim'ordine: la ragazza aveva un fidanzato di colore. La vecchia Esme me lo ha detto a bassa voce. Come se me ne importasse qualcosa. Come se c'entrasse qualcosa con quanto è successo. Ha detto anche che suo padre viene considerato un tipo un po' strano. Lavora in casa, una specie d'inventore; nessuno sa veramente come si mantenga. Per inciso, ho messo le mani sulle vecchie pagelle e non ho trovato niente che la riguardasse. Apparentemente tutte le pagelle di quel periodo sono state portate negli archivi del provveditorato. Ho chiamato gli archivi e mi hanno detto che era in corso la ricerca delle pagelle, ma che tutto ciò che aveva a che fare con lei era informazione riservata, su ordine della polizia.» «Un amichetto», dissi. «Pensa sia importante?»
«Non il fatto che sia di colore. Ma se la loro relazione è abbastanza recente, lui potrebbe essere in grado di dirci qualcosa sul suo stato mentale. La Ferguson ha detto nient'altro oltre al fatto che è negro?» «Solo questo. Con la N maiuscola. E siccome non ho fatto commenti, ha cominciato a tossire e io ho riattaccato.» «Sento che non le piace molto.» «Sono sicuro che la cosa è reciproca. Lavora controvoglia, aspettando il momento buono per andare in pensione. Non mi aspettavo di ottenere da lei nessuna informazione importante né sulla Burden né su nient'altro.» «A proposito di informazioni, Ahlward, o qualcun altro dell'ufficio di Latch, non ha ancora chiamato?» «Per quale motivo avrebbe dovuto?» «Per fornirci informazioni», dissi con voce tronfia. «Noi brava gente avremmo dovuto ricevere tutte le informazioni di cui avevamo bisogno non appena la polizia avesse dato il via libera. Giusto?» «Promesse, promesse.» «Non che importi molto, a questo punto. In effetti è meglio che sia stato alla larga. I bambini non hanno bisogno di un'ulteriore intromissione della politica.» «Nemmeno gli adulti», disse. Nel corridoio suonò il campanello di mezzogiorno; tanto forte da far vibrare le pareti dell'ufficio. Mi alzai. «È tempo di curare le giovani menti.» Mi accompagnò alla porta. «Non credo di riuscire ad avvisare i genitori per venerdì. Lunedì può andare lo stesso?» «Lunedì andrà bene», dissi. «D'accordo. Continuerò a chiamare. Voglio che lei sappia che apprezzo molto quanto sta facendo.» Sembrava esausta. Mi venne voglia di abbracciarla. Mi limitai a sorridere e dissi: «Coraggio. Non illegitimati carborundum». «Ah, e per di più quest'uomo è anche un erudito. Mi dispiace prof, ho scelto spagnolo.» «Un'iscrizione su un'antica tomba romana: non lasciamo che i bastardi ci fiacchino.» Buttò indietro la testa e rise. Quella risata mi risuonava ancora in testa mentre andavo in classe. 9
I bambini mi salutarono con entusiasmo, parlando liberamente. Feci fare ai più piccoli copie della baracca con i blocchi, li feci giocare con figurine che rappresentavano Holly Burden, Ahlward, gli insegnanti, loro stessi. Rappresentarono la scena della sparatoria molte volte, finché subentrò la noia e l'ansia manifesta diminuì. Gli alunni più grandi volevano sapere cosa avesse spinto Holly Burden a diventare cattiva, a odiarli. Gli garantii che non voleva colpire loro, che era squilibrata, fuori di sé. Mi rammaricai di aver poco su cui appoggiarmi. Un alunno di sesta disse: «Cosa l'ha fatta impazzire?» «Nessuno può dirlo.» «Ma non è il suo lavoro scoprire cosa fa impazzire la gente?» «Cercare di scoprire. Ci sono molte cose che ancora non sappiamo sulla follia.» «Ho una zia pazza», disse una bambina. «L'hai fatta impazzire tu», disse il bambino accanto. E già non erano più lì... Uscii dall'ultima classe esausto, ma soddisfatto dei risultati; volevo dividere quella sensazione con Linda e rallegrare la sua giornata. Ma il suo ufficio era chiuso e me ne andai. Mentre entravo nella Seville, notai una macchina che girava l'angolo e si avvicinava. Lentamente. Un'Honda color grigio metallizzato. Sporca. Finestrini neri. Mi raggiunse. Si fermò. Bloccai le sicure della Seville. L'Honda restò ferma, con il motore al minimo, poi partì all'improvviso. Girai la testa di scatto e riuscii a leggere i quattro numeri e le tre lettere della targa. Li tenni a mente mentre estraevo carta e penna dalla mia cartella e li scrissi. Poi rimasi seduto cercando di capire. Una qualche intimidazione? O solo un abitante del posto curioso, che controllava gli estranei. Pensai al turpiloquio razzista che mi aveva mostrato Linda e mi chiesi se poteva esserci una connessione. Guardai il cortile della scuola, che diventava grigio sotto il tramonto autunnale. C'era ancora una manciata di bambini. Aspettavano che qualcuno li venisse a prendere giocando sotto l'occhio attento di un sorvegliante. Gli scuolabus erano partiti, riportando i bambini dalla periferia ricca alle loro squallide strade; ma quali erano le strade più squallide?
Guardai su e giù nella via prima di partire. Tornai a casa correndo troppo e controllando in continuazione lo specchietto retrovisore. La prima cosa che feci entrando in casa fu prendere in mano il telefono e comporre il numero della Sezione omicidi di West L.A. Questa volta il nuovo ispettore capo c'era. «Ehi, Alex. Ho ricevuto il tuo messaggio e stavo richiamandoti proprio in questo momento.» «Stanno succedendo strane cose, Milo. Vorrei parlartene.» «Certo. Più tardi», disse, facendomi capire che non era solo. «Sbrigo un paio di faccende e sono da te.» Suonò il campanello poco prima delle sette e, meccanicamente, si diresse verso la cucina. Rimasi seduto sul divano di pelle ad ascoltare il sommario del telegiornale. Nessuna novità sull'attentato: solo qualche primo piano della foto di fine anno di Holly Burden, un funzionario del provveditorato che raccontava che «ricerche vaste e dettagliate su molti anni di documentazioni scolastiche» avevano confermato che Holly Burden aveva frequentato la scuola elementare Nathan Hale e vi aveva conseguito la licenza, senza fornire nuovi elementi. Poi ancora congetture psichiatriche, compresa la teoria che fosse tornata alla Hale per vendicare una presunta offesa. Quando gli fu chiesto di essere più preciso, lo psichiatra che aveva formulate queste ipotesi sollevò obiezioni, dicendo che il suo era un discorso teorico, in termini di «normale valutazione psicodinamica». Poi fu ancora il turno di Dobbs in un pezzo che sembrava registrato. Accarezzando la catenella dell'orologio, parlava ancora del suo programma di trattamento alla Hale e criticava aspramente la «società». Mi chiesi per quanto tempo avrebbe continuato quella pagliacciata. Milo tornò addentando una pera, una della dozzina che ogni anno mi spediva un paziente riconoscente che viveva nell'Oregon. La sgranocchiò. «Mi fa piacere che tu stia di nuovo comprando cibo sano.» «Lo faccio per te», dissi, «nutrimento per un bambino che cresce.» Si diede dei colpetti sulla pancia e si sedette, guardandomi accigliato. Poi allungò le gambe e disse: «Allora, le cose strane. Le tiriamo fuori?» Cominciai dall'incontro con Massengil e Dobbs. «Non mi sembra ci sia niente di strano», disse. «È la solita storia: lo stronzo considera la scuola il suo orticello e vuole che il suo uomo prenda
parte a tutto ciò che vi succede. Devi entrare nella loro testa: il potere è la loro droga. Tu ti sei immischiato in modo poco opportuno e lui se l'è presa.» «Allora cosa devo fare?» «Un bel niente. Che cosa ti può fare?» «Non molto», dissi. «Ma potrebbe fare qualcosa a te. Ha parlato di come la tua promozione ha suscitato malcontento.» «Tremo dalla paura», disse scuotendo la mano; «ma ha ragione su quel punto. La truppa non è contenta dei miei progressi nella carriera. Una cosa è sopportare un finocchio, un'altra è ricevere ordini da lui. Comunque, liberarsi di me creerebbe più problemi che vantaggi: il dipartimento è come uno di quei dinosauri dal cervello di topolino. È impossibile smuoverlo, ma è molto facile muoversi se stai attento a dove metti i piedi. Perciò non preoccuparti per me, fai il tuo lavoro e non pensarci.» «È proprio ciò che ha detto Linda.» Rise. «Linda? La chiamiamo per nome adesso? Uh uh!» «Calma, amico.» «Linda. Tutti quei capelli biondi vaporosi, l'accento meridionale. Ma energica; e questo le conferisce un certo fascino. Non è una brutta scelta, amico. Era ora che ricominciassi a guardarti intorno.» «Non ho scelto un bel niente.» «Uh uh.» Disse quasi facendo dei versi. «Linda, mia Linda.» «Come sta Rick?» «Bene. Non cambiare discorso.» «È proprio quello che sto per fare», dissi. Gli raccontai dell'Honda grigia. Ma non sembrò nient'affatto turbato. «Cos'altro ha fatto oltre a fermarsi per qualche secondo?» «Niente. Il sincronismo era strano. Era lì quando sono arrivato ed è passata quando stavo andando via.» «Forse qualcuno ti trova attraente, Alex. Oppure è solo uno degli abitanti del quartiere che gioca in modo paranoico a far la ronda per controllare gli estranei e ha pensato fossi tu lo strambo.» «Forse.» «Se vuoi stare più tranquillo, dammi il numero di targa», disse. Glielo diedi e lui se lo appuntò. «Al tuo servizio col sorriso sulle labbra», disse, «posso esserti ancora utile?» «Massengil sembrava sicuro di essere lui l'obiettivo. Hai sentito niente
che lo confermi?» «Niente: non che Frisk mi abbia aperto i suoi archivi. Forse lo scemo sa qualcosa, ma è più probabile che abbia un'eccessiva considerazione di sé e pensi che valga la pena sparargli. O la sua è semplice paranoia, quella che appunto cura il dottor Dobbs.» Addentò ancora la pera, e disse: «Ci starebbe bene un po' di latte con questa», e andò in cucina a prenderne. Ritornò bevendo direttamente dal cartone. «C'è qualcos'altro che devi sapere», dissi e gli raccontai delle lettere minatorie. «I soliti sciacalli», rispose, «peccato debba sopportare anche questo.» «Ha detto che Frisk non le ha prese troppo sul serio.» «A dire il vero, non c'è molto da fare con queste porcherie. Ma se salta fuori che la Burden era affiliata a qualche gruppo razzista, le cose cambiano.» «Frisk può dirtelo, se lo era?» «Non prima di essersi messo il suo vestito Armarli, essere andato davanti alle telecamere e averne informato l'intera area metropolitana. Ma, se lei fosse stata molto impegnata politicamente, lui avrebbe già dovuto saperlo. L'antiterrorismo ha tutto schedato col computer, avrebbe proceduto contro i suoi complici e mi sarebbe già giunto alle orecchie tramite il vecchio sistema di diffusione delle notizie: i pettegolezzi.» «Puoi raccontarmi qualcos'altro su di lei? I bambini fanno domande.» «Ho saputo qualcosa dal mio informatore negli uffici del magistrato inquirente, ma dubito che possa esserti utile. Era vestita di nero: jeans, maglione, scarpe, giù fino alla biancheria intima.» «Sembra una divisa da commando.» «O da samurai assassini. O i suoi gusti in fatto d'abbigliamento si limitavano al nero e a una bandoliera. O forse voleva semplicemente mimetizzarsi al buio; chi lo sa? Cos'altro... sì, non risultava che avesse assunto stupefacenti o alcol ed era vergine, in eccellenti condizioni fisiche prima di essere sforacchiata. Il contenuto dello stomaco mostrava che aveva cenato intorno alle sei della sera precedente. C'era un contenitore di plastica con le urine nella baracca. La composizione chimica delle urine indicava che si era accampata lì per qualche tempo nella notte, bevendo nell'attesa. Vuoi raccontarlo ai bambini?» «Anch'io ho imparato qualcosa. Aveva un ragazzo negro.» Mise giù il cartone di latte. «Ah, sì? Come l'hai saputo?»
«Una delle insegnanti della Hale vive nel quartiere e l'ha avuta come allieva anni fa. È lei che ha parlato a Linda del ragazzo e Linda me lo ha raccontato. Lo ha detto anche a Frisk, ma lui non ha mostrato più interesse di quanto avesse fatto per le lettere minatorie.» «Beh», disse, «le coppie miste non sono un reato. Ufficialmente.» Pensai alle lettere minatorie: «Cagne bastarde». «Anche vedersi qualche volta con una persona di razza diversa sarebbe considerato un crimine a Ocean Heights, Milo. Voglio dire che avrebbe potuto avere pesanti conseguenze sociali: commenti malevoli, ostracismo o peggio. E questo implica che era tutto fuorché razzista: non avrebbe mai sparato a quei bambini.» «A meno che non abbia avuto una brutta rottura col ragazzo e abbia cominciato a odiare le minoranze.» «Forse», dissi, «ecco un altro scenario più plausibile: e se trovarsi alle prese con il razzismo del posto ha radicalizzato le sue idee, mettendola contro qualcuno che lei considerava razzista. Un uomo politico per esempio.» «Massengil?» «Forse c'è stato un qualche scontro tra lei e Massengil prima dell'attentato. Qualcosa che lui non avrebbe mai ammesso. Avresti dovuto vedere come ha reagito quando l'ho accusato di aver attirato il killer a scuola, Milo. L'ho certamente toccato sul vivo. Con il suo carattere anche il minimo scontro con lei avrebbe potuto degenerare. Aggiungi la sua storia di problemi psicologici... Metti insieme tutti questi elementi e hai qualcosa di potenzialmente esplosivo. Questo spiegherebbe perché Massengil era così sicuro di essere lui l'obiettivo.» Milo ci pensò un attimo e disse: «Un conto è fare ipotesi, un altro provarle». «Non pensi che valga la pena di parlare con il ragazzo? Controllare i possibili complici di cui si conosce già l'esistenza?» «Certo. Ma forse Frisk l'ha già fatto.» «Non ne ha parlato a Linda.» «Non lo farebbe mai. Farebbe voto di smettere di avere orgasmi, pur di non svelare qualcosa.» «Vince chi muore con il maggior numero di segreti?» «Hai capito perfettamente.» «Dev'essere una tortura lavorare con lui.» «Oh, sì. Come un pungolo sulla prostata. Comunque, come si chiama quest'insegnante?»
«Esme Ferguson. Insegna in quarta elementare. Oggi è in malattia. Puoi avere il suo numero di casa da Linda.» 10 Quando se ne fu andato ascoltai la cassetta bianca. Non conteneva niente che potesse destare la curiosità di un alunno delle elementari: musica di arpa al sintetizzatore che sembrava registrata sott'acqua e Dobbs che parlava con quel tono sdolcinato, condiscendente, che le persone che non amano i bambini assumono quando parlano con loro. Il succo del messaggio era «fai lo struzzo, ripulisci il tuo cervello, nascondi la realtà, ed essa sparirà». Psicologia da quattro soldi in tutto il suo splendore. Freud si sarebbe rivoltato nella tomba. B. F. Skinner non avrebbe certo schiacciato il bottone della ricompensa. Spensi il registratore, estrassi la cassetta e feci un tiro da due punti nel cestino per la carta straccia, domandandomi quanto si facesse pagare Dobbs a cassetta. Quante copie ne avesse rifilato alla pubblica amministrazione attraverso i rimborsi spese di Massengil. Il telefono squillò. Presi la chiamata in cucina. «Ciao, Alex, sono io.» «Ciao, Robin.» Una voce che un tempo mi aveva dato gioia, poi dolore. Era la prima volta che la sentivo da mesi. «Ho lavorato fino a tardi», disse, «aspettando che si asciugasse la lacca. Volevo solo sapere come stai.» «Sto bene grazie. E tu?» Niente male come inizio di una conversazione brillante. «Anch'io», disse. Silenzio. «Alex, penso ancora molto a te.» «Anch'io ti penso.» Il meno possibile. «Io... mi stavo chiedendo: pensi che potremmo vederci ancora qualche volta, per parlare? Da amici?» «Non lo so.» «Mi rendo conto che ti dico questo dopo averti lasciato. È che stavo pensando a come è rara l'amicizia, tra un uomo e una donna. Parte di ciò che c'era fra noi era amicizia. Perché dobbiamo perderla? Perché quella parte non può essere preservata?»
«Ha senso. Razionalmente.» «Ma non emotivamente?» «Non lo so.» Ancora silenzio. «Alex, non voglio trattenerti. Abbi cura di te, okay?» «Anche tu», dissi, «telefona ancora.» Rimasi alzato a guardare brutti film in TV finché il sonno non mi vinse un po' dopo mezzanotte. I venti da Santa Ana arrivarono nel buio. Mi svegliai sul divano e li sentii fischiare nella valle e spazzar via l'umidità della notte. Mi bruciavano gli occhi e i vestiti mi si erano attorcigliati intorno. Andai a letto senza preoccuparmi di spogliarmi. Scivolai sotto le coperte e crollai. L'alba si levò su uno splendido mattino, un cielo azzurro, terso e lucido come una perfetta maiolica di Delft, gli alberi e gli arbusti avevano le parvenze di una bellissima decorazione natalizia. Ma la vista dalla portafinestra aveva la stessa stonata, fredda perfezione di un'immagine dei grandi dipinti del Rinascimento italiano ricostruita al computer. Mi sentivo indolente, intontito da residui di sogno. Disorientato da immagini iperattive che si erano annidate nel mio subconscio come fossero ami. Era troppo doloroso strapparli; meglio ignorarne l'esistenza. Mi trascinai sotto la doccia. Mi stavo asciugando quando chiamò Milo. «Ho controllato la targa dell'Honda. È una macchina dell'83, intestata alla New Frontiers Technology Limited. Casella postale a Westwood. Ti dice niente?» «New Frontiers», dissi, «no. Sembra una ditta di attrezzature ad alta tecnologia, il che potrebbe aver senso se il conducente è uno del posto.» «Ma! Forse. A proposito, penso ti interessi sapere che ho appuntamento questo sabato con la signora Esme Ferguson. A casa sua, alle due. Tè, simpatia e magari anche una bibita.» «Pensavo che Frisk conducesse tutti gli interrogatori.» «Aveva pensato di farlo, ma non l'ha mai chiamata. È quasi pronto a chiudere l'inchiesta. Sembra che le ricerche d'archivio non abbiano fatto emergere niente sulla Burden: non ci sono reati schedati, neanche un parcheggio non pagato. Non ci sono telefonate strane partite da casa sua, né ha lavorato per Massengil o Latch. Considerano quell'attentato l'atto di un folle e sono pronti ad archiviare il caso come risolto. Non è bello quando le cose filano lisce?»
Le dieci. Di nuovo alla scuola Hale. Decine e decine di bambini erano in cortile per la ricreazione, intenti a correre, arrampicarsi, nascondersi, cercarsi. L'asfalto brillava come granito sotto un sole pieno. Finii i miei incontri di un gruppo intorno a mezzogiorno e dedicai il resto della giornata all'esame individuale dei bambini che avevo etichettato come a rischio. Dopo un paio d'ore di valutazione, decisi che cinque di loro erano a posto; gli altri avevano bisogno di un trattamento individuale. Passai un altro paio d'ore facendo un gioco terapeutico, attività di supporto e tecniche di rilassamento e andai nell'ufficio di Linda. Carla stava spulciando una pila di moduli. La sua pettinatura punk era coperta da un fazzoletto blu che la faceva sembrare una dodicenne. «La dottoressa Overstreet è in città», disse, «per un meeting.» «Povera dottoressa Overstreet.» Il suo sorriso sembrava meno spensierato del solito. «Nessun assistente di Dobbs si è fatto vivo?» domandai. «No, in compenso è venuto qualcun altro.» Si portò il dito alla bocca con un gesto che sembrava dire «è meglio stia zitta». «Chi?» Me lo disse. «Dov'è?» «Probabilmente in una delle classi, provi a cercarlo.» Non dovetti sforzarmi molto per trovarlo. Sentii la musica mentre percorrevo il corridoio. Goffi tentativi di motivetti blues suonati su un'armonica dalle linguette deformate. Aprii la porta dell'aula e trovai una decina di alunni di quinta che sembravano più calmi del solito. Gordon Latch era seduto sulla cattedra, con le gambe piegate stile yogi, la cravatta allentata, le maniche arrotolate sui polsi. In una mano aveva un'armonica a bocca cromata, con l'altra accarezzava la zazzera di capelli bruna striata di grigio. In piedi dietro di lui c'era Bud Ahlward; casacca e pantaloni nerofumo, braccia conserte sul suo torace massiccio, volto inespressivo. Fu il primo a notarmi. Poi Latch si girò, sorrise e disse: «Dottor Delaware! Entri e si unisca alla compagnia». L'insegnante stava seduta in fondo all'aula fingendo di mettere in ordine dei temi. Era una delle più giovani, appena laureata, calma e piuttosto insi-
cura. Mi guardò e strinse le spalle. L'aula era diventata silenziosa. I bambini mi stavano fissando. Latch disse: «Ehi, ragazzi», portò l'armonica alle labbra e suonò qualche nota di Oh Susanna. Ahlward batteva il ritmo con un piede. Concentrandosi. Come se richiedesse un grande sforzo. Latch chiuse gli occhi e soffiò più forte. Poi si fermò, facendo un sorriso ai bambini. Alcuni di loro sembrarono a disagio. Avanzai verso la cattedra. Latch abbassò l'armonica e disse: «Io e Bud abbiamo pensato che poteva essere utile venire qui. Volevamo dare a questi bambini la possibilità di chiedere qualcosa». Strizzatina d'occhio e, a voce bassa: «Mi riferisco al discorso fatto l'ultima volta». «Capisco.» «Ho anche portato LD», disse, alzando l'armonica. Girandosi di nuovo verso i ragazzi, agitò la mano con l'armonica con un gesto da capo cinque. «Per cosa sta LD, ragazzi?» Fruscio fra i banchi. Vociare di bambini. «Giusto», disse Latch, «Little Dylan.» Un paio di note. «Eccola, la vecchia LD. Ce l'ho dai tempi di Berkeley. È un college su a nord, vicino a San Francisco, ragazzi. Nessuno di voi sa dov'è San Francisco?» Nessuna risposta. Latch disse: «Allora. C'è qualcosa che volete ascoltare?» Silenzio. Ahlward disincrociò le braccia e le lasciò penzolare. Latch disse: «Proprio niente?» Un bambino dall'ultima fila disse: «Bon Jovi: Living on a Prayer». Latch fece schioccare la lingua un paio di volte, tentò qualche nota sull'armonica e l'allontanò dalle labbra, scuotendo la testa. «Mi dispiace, amigo, non è nel mio repertorio.» Dissi: «Signor consigliere, posso parlarle un momento? In privato». «In privato, uhm?» Smorfie in direzione dei bambini. Abbassò la voce a un sussurro: «Sembra piuttosto misterioso, uhm?» Alcuni bambini risposero con deboli sorrisi, la maggioranza rimase impassibile. In piedi vicino alla lavagna, Ahlward aveva nuovamente incrociato le braccia e guardava ora fuori dalla finestra ora in un punto imprecisato della parete di fronte, sopra le teste dei bambini. Annoiato e guardingo allo stesso tempo. Mi schiarii la voce.
Latch diede un'occhiata all'orologio da polso e fece scivolare l'armonica nella tasca della camicia. «Certo, dottor Delaware, parliamo.» Strizzata d'occhio piena. «Aspettate, ragazzi.» Scese dalla cattedra, si buttò la giacca sulle spalle e venne verso di me. Tenni la porta aperta per lui e uscimmo insieme nel corridoio. Ahlward ci seguì, in silenzio, ma restò sull'entrata dell'aula. Latch gli fece un piccolo cenno e l'uomo dai capelli rossi chiuse la porta, riassunse la posizione a braccia conserte da agente dei servizi segreti e guardò su e giù per il corridoio: un cane da guardia pensante. Latch appoggiò la schiena alla parete e piegò una gamba. L'armonica andò a finire nella tasca. Le lenti rotonde dei suoi occhiali, tipo quelli del servizio sanitario, erano perfettamente trasparenti; gli occhi dietro irrequieti. «Buon gruppo di bambini», disse. «Sì, è vero.» «Sembra che affrontino abbastanza bene la situazione.» «Vero anche questo.» «Allora, cosa deve dirmi?» chiese. «Con tutto il dovuto rispetto per le sue intenzioni, consigliere, sarebbe meglio farmelo sapere la prossima volta che pensa di venire.» Sembrò perplesso. «È così importante per lei?» «Non per me, per loro. È importante che le cose siano prevedibili.» «Per quale motivo?» «Hanno bisogno di regolarità. Di sentire che possono controllare il loro ambiente. Non che gli cadano addosso nuove sorprese.» «Forse c'è stato un malinteso, ma io ho pensato che questo fosse esattamente quello che lei voleva. Esattamente quello che ha detto di volere la prima volta che ci siamo incontrati. Un'informazione accurata: di prima mano. Io e Bud abbiamo avuto il via libera dalla polizia riguardo alla possibilità di trasmettere informazioni, così ho pensato: perché no?» «Avevo in mente qualcosa di più organizzato.» «Veramente è capitato che io e Bud fossimo da queste parti. Eravamo sul Sunset Boulevard di ritorno da un meeting a Palisades, così ho detto a Bud di venire qui e usare in modo utile il tempo di cui disponevamo.» «Capisco, consigliere...» «Gordon.» «Apprezzo ciò che voleva fare, Gordon, ma, con tutto quello che hanno passato i bambini, è meglio coordinare le cose. Quali sono i suoi piani, Gordon?»
«I miei piani? Le ho appena detto che non ne avevo.» «Allora le sue intenzioni riguardo ai bambini.» «Le mie intenzioni erano di rompere il ghiaccio aiutandomi un po' con LD, poi rispondere alle loro domande. Dar loro la possibilità di riversarmi addosso le loro cose, qualsiasi cosa volessero. Dare la possibilità di scoprire che il sistema lavora per loro. Dare l'opportunità di apprendere da Bud come ci si sente a essere un eroe. Le mie intenzioni erano di ascoltare le loro sensazioni e renderli partecipi della mie: come ci si sente a essere sotto il fuoco. Il fatto che ci siamo dentro tutti, e che faremmo meglio a collaborare, altrimenti il mondo è in pericolo. Stavo proprio arrivando a questo quando lei è entrato.» Dribblando il rimprovero dissi: «Aveva intenzione di farlo in tutte le classi?» «Certo. Perché no?» «Per farlo in modo esauriente occorre un bel po' di tempo. Molti giorni. I media senz'altro verranno a saperlo. E quando questo accadrà, correremo il rischio di un'altra baraonda.» «I media possono essere tenuti a bada», disse velocemente. «Il mio unico scopo è proteggere i piccoli.» «Da cosa?» «Non da cosa, Alex. Da chi. Chi li usa. Gente che non esiterebbe un istante a sfruttarli per vantaggi personali.» Pronunciò con enfasi le ultime tre parole e fece una pausa, lanciando uno sguardo da chi la sa lunga ad Ahlward, che rimase impassibile. «La cosa triste è che», disse, «con l'esperienza che hanno fatto qui, quello che hanno visto della politica, corrono veramente il rischio di diventare cinici. Indifferenti. Il che non promette niente di buono per noi come società, non è vero? Parlo di immobilismo, Alex. Se questo genere di cose finisse con il prevalere su larga scala, saremmo nei guai. Perciò voglio che vedano che c'è un'altra faccia della politica. Che non c'è motivo di diventare indifferenti o di arrendersi.» Dall'erosione all'immobilismo. La seconda dose di retorica politica in due giorni. «Un'altra faccia opposta a quella rappresentata dall'onorevole Massengil?» dissi. Sorrise. «Voglio parlar chiaro con lei. Le mie opinioni sull'onorevole Massengil sono di pubblico dominio. Quell'uomo è un dinosauro, appartiene a un'era che dovrebbe essere già dimenticata da molto tempo. E il suo
coinvolgimento ha fatto sì che prendessi particolarmente a cuore questa situazione. Questa città sta cambiando, l'intero stato sta cambiando. E persino il mondo. È iniziata una nuova era di interdipendenza planetaria che non può essere fermata. Siamo ineluttabilmente legati all'America Latina, alla vasta area del Pacifico. L'epoca dei cowboy è finita, ma Sam Massengil non ha abbastanza immaginazione per concepirlo.» Pausa. «Le ha causato altri problemi?» «No.» «Sicuro? Non abbia timore di dirmelo, Alex. Le assicuro che lei non è il vaso di coccio fra due vasi di ferro.» «La ringrazio, Gordon.» Fece scivolare con un colpetto la giacca dalle spalle e se l'infilò. Si sistemò i capelli con le mani. «Così», disse, «mi sembra soddisfatto di questo lavoro.» «Sì, è vero.» «Ho notato che c'è un altro psicologo che fa molte chiacchiere in TV su questi bambini. Un tipo con la barba.» «Lance Dobbs. Finora il suo coinvolgimento si è limitato alle chiacchiere.» «Vuol dire che non è mai stato qui?» Indignazione, derisione o altro. «Non c'è stato, Gordon. È venuta una delle sue assistenti, ma ho convinto il dottor Dobbs che troppi cuochi rovinano la cena e da quella volta non è più tornata.» «Capisco», disse, «troppi cuochi: è proprio vero. E per molti altri versi.» Non risposi. «Allora», riprese, «pensa di aver risolto la questione, col dottor Dobbs?» «Per ora sì.» «Ottimo. Buon per lei.» Fece una pausa, toccò la tasca dov'era l'armonica. «Bene, buona fortuna e dateci sotto.» La solita stretta a due mani e un cenno ad Ahlward. L'uomo dai capelli rossi si staccò dalla porta e sistemò i risvolti della giacca. Dall'interno dell'aula vennero grida, risate, e la voce della giovane insegnante, tesa per la frustrazione, che cercava di farsi udire sopra la ressa. Latch mi girò le spalle e i due cominciarono ad allontanarsi. «Pensa di tornare, Gordon?» dissi. Si fermò, corrugò la fronte come stesse valutando un problema di dimensioni cosmiche. «Mi ha dato di che pensare, Alex. L'ho ascoltata, veramente. Sul fatto di agire correttamente. Coordinarsi. Mi lasci il tempo di
pensare. Un'occhiata alla mia agenda e sarò di nuovo da lei.» Aspettai finché il corridoio non fu vuoto, poi li seguii a sufficiente distanza e li osservai mentre attraversavano il cortile ignorando i bambini che vi giocavano. Uscirono dal cancello ed entrarono in una Chrysler New Yorker nera, Ahlward si mise al volante e partirono. Nessun altro veicolo li seguì. Nessuna scorta di rincalzo, nessun segno dei media. Forse era veramente capitato in zona per caso. Ma non la bevevo con facilità. La pronta risposta di Latch su Massengil, le sue domande su Dobbs mi convinsero che la loro venuta era tutt'altro che disinteressata. E venire subito dopo la mia convocazione nell'ufficio di Massengil: il sincronismo era troppo evidente. Non che la visita del giorno prima fosse stata di pubblico dominio. Ma Latch aveva già mostrato di essere in grado di conoscere le mosse di Massengil, come il giorno dell'attentato. Pronto a dar battaglia davanti alle telecamere. Ora entrambi erano sedicenti eroi. Una coppia di squali che si azzuffano per dare il primo morso nel ventre molle della tragedia. Mi domandai quanto tempo sarebbe ancora andata avanti questa storia. La politica, sempre la stessa roba. Mi fece ricordare perché avevo rinunciato alla carriera accademica. Lasciai la scuola e cercai di liberarmi la mente da tutti i pensieri sulla politica per riuscire a mandar giù qualcosa per cena. Guidando quasi a caso, finii con l'arrivare al Santa Monica Boulevard e mi fermai nel primo posto che trovai con vicino un parcheggio libero: una caffetteria vicino alla Twenty Fourth Street. Qualcuno aveva iniziato a fare le decorazioni natalizie: stella di natale di plastica su ogni tavolo, vetri smerigliati alle finestre con su disegnati vischio, renne dai denti sporgenti e dalle caviglie ingrossate, qualche piccolo candelabro azzurro. Ma alla gradevole atmosfera natalizia non corrispondeva un cibo altrettanto gustoso. Lasciai quasi tutto il panino al roast beef sul piatto, pagai e uscii. Era buio. Entrai nella Seville e uscii dal parcheggio. Il traffico era troppo intenso per poter girare a sinistra, così andai verso ovest; i fari di un'altra macchina riempirono il mio specchietto retrovisore. Non ci pensai molto finché, dopo qualche isolato, girai ancora a destra e i fari mi restarono dietro. Mi diressi verso Sunset. Ancora i fari. Ne ero sicuro perché quello di sinistra tremolava. Fasci di luce poco distanziati. Una macchina piccola. Un'utilitaria. Troppo lontana
per individuarne il colore o la marca. Mi immisi nel flusso diretto a est sul boulevard. Ogni volta che guardavo nello specchietto, i fari ricambiavano lo sguardo come un paio di occhi gialli senza pupille. Presi un semaforo rosso a Bundy. I fari mi si attaccarono dietro. Una stazione di servizio si trovava all'angolo più vicino, del tipo di prima dell'austerity: parcheggio, pompe di benzina, telefono pubblico. Ripartii. I fari fecero altrettanto. Quando il semaforo diventò giallo per i veicoli in direzione nord-sud, avanzai per un paio di secondi, poi girai bruscamente nel vialetto d'accesso alla stazione di servizio e continuai ad avanzare fino al telefono pubblico. La macchina con il faro tremolante partì e attraversò l'incrocio. La seguii con lo sguardo cercando di fissare il maggior numero di dettagli. Una Toyota marrone. Due persone nei posti anteriori. Uno dei due passeggeri era una donna, mi sembrò. Non riuscivo a vedere il conducente. Parlavano fra loro. Neanche uno sguardo verso di me. In cuor mio mi accusai di essere paranoico, ritornai sul Sunset e andai a casa. Il centralinista del servizio di segreteria telefonica mi comunicò una sfilza di messaggi: uno di Milo, tutti gli altri comunicazioni di lavoro. Richiamai qualcuno, riuscii a parlare con un procuratore legale che lavorava fino a tarda sera, con qualche segreteria telefonica e con il sergente di servizio alla sezione omicidi. Mi disse che Milo non c'era e che non aveva idea di perché avesse chiamato. Portai dentro la posta, mi misi in pantaloncini, scarpe da tennis e maglietta e andai a fare un po' di jogging notturno. I venti da Santa Ana erano ritornati, più lievi. Corsi spinto dal vento e mi sentii librare in aria. Tornai un'ora dopo e accesi la TV. Dopo qualche tempo suonò il campanello. Forse era Milo, venuto di persona a dirmi perché aveva chiamato. Aprii la porta, alzando gli occhi al livello del metro e novanta di altezza del mio amico. Ma gli occhi che ricambiarono lo sguardo erano un buon venti centimetri più in basso. Occhi grigio azzurri, arrossati, dietro occhiali dalla montatura di plastica chiara. Arrossati, ma così svegli e concentrati che sembravano forare il vetro della lente. Erano l'elemento più notevole di un viso piccolo, triangolare. Colorito pallido, reso giallastro dalla piccola luce sopra la porta. Labbra sottili. Naso piccolo, magro, con narici strette che si accompagnavano in modo bizzarro a una punta assurdamente grossa. Ciuffi di capelli castani brizzolati che svolazzavano al vento della notte.
Un viso indefinibile sopra una giacca a vento marrone chiaro chiusa fino al mento. Il mio sguardo cadde sulle sue mani. Pallide e con lunghe dita che si intrecciavano. «Il dottor Delaware, suppongo.» Voce nasale. Nessuna traccia di leggerezza. La formula trita ripetuta tante volte... No, ancor più innaturale. Programmata. Guardai oltre le sue spalle. Giù nel parcheggio coperto c'era un'Honda color grigio metallizzato dai vetri scuri. Fui subito certo che era stato lì per un po'. Sentii un formicolio sui peli del collo. Misi una mano sulla porta e feci un passo indietro. «Chi è lei e cosa vuole?» «Mi chiamo Burden», disse quasi con tono di scusa. «Mia figlia è... Ci sono stati dei problemi... con lei. Lei... sono sicuro che lo sa.» «Sì, lo so signor Burden.» Allungò tutt'e due le mani in avanti, congiunte, come se contenessero qualcosa di prezioso o letale. «Quello che... vorrei parlare con lei, dottor Delaware, se può dedicarmi un po' di tempo.» Indietreggiai e lo feci entrare. Si guardò intorno, sempre tenendo le mani unite, con lo sguardo che rimbalzava nel soggiorno come una palla da biliardo in un tiro a più sponde. «Ha una bella casa», disse; poi cominciò a piangere. 11 Lo feci entrare e lo misi a sedere sul divano di pelle. Singhiozzò senza lacrime per qualche tempo, emettendo suoni secchi, strozzati; si copri il viso con le mani, quindi mi guardò e disse: «Dottore...» Poi niente. Aspettai. Gli occhiali gli erano scesi sul naso. Li risistemò. «Io... posso usare i suoi... servizi?» Gli indicai il bagno in fondo al corridoio, andai in cucina e preparai un caffè forte, lo portai nel soggiorno con le tazzine e una bottiglia di whisky irlandese. Sentii tirare lo sciacquone. Dopo qualche minuto tornò, intrecciò le mani sul grembo e fissò il pavimento, come dovesse memorizzare il motivo del mio Bukhara.
Gli misi una tazza di caffè in mano e gli offrii la bottiglia di whisky. Scrollò il capo. Corressi il mio caffè, ne bevvi un bel sorso bollente e mi sedetti. «È...» disse. «Grazie per avermi fatto entrare in casa sua.» La voce era nasale, come il suono di un oboe. «Mi dispiace per la morte di sua figlia, signor Burden.» Si coprì la faccia con una mano, e la passò da una parte all'altra come volesse scacciare un brutto sogno. La mano che reggeva la tazza tremò e il caffè fuoriuscì dai bordi cadendo sul tappeto. Si coprì il viso, mise giù la tazza facendola tintinnare sul piano di vetro, afferrò un tovagliolo e si diede da fare per asciugare tutto agitato. Gli toccai il gomito e dissi: «Non si preoccupi». Si allontanò al contatto della mia mano, ma mi permise di prendere il tovagliolo inzuppato. «Mi dispiace... non volevo imporle la mia presenza.» Portai il tovagliolo in cucina per dargli altro tempo per ricomporsi. Si alzò e camminò su e giù per la stanza. Potevo sentire i suoi passi dalla cucina. Rapidi, aritmici. Quando tornai, le sue mani erano nuovamente in grembo e gli occhi fissavano il tappeto. Trascorse un lungo minuto, poi un altro. Bevvi il caffè. Lui restò seduto. Siccome non faceva nessun tentativo di parlare, dissi: «Cosa posso fare per lei, signor Burden?» Rispose prima che avessi finito di dire l'ultima parola. «Psicanalizzarla. Scoprire la verità e dirgli che si stanno sbagliando.» «Dirlo a chi?» «A loro. La polizia, la stampa, tutti quanti. Prendono un abbaglio quando dicono che ha sparato ai bambini, che era una specie di mostro omicida.» «Signor Burden...» Scosse violentemente la testa. «Mi ascolti! Mi creda! Per niente al mondo avrebbe fatto ... potuto fare una cosa simile. Non avrebbe mai potuto usare un fucile, odiava i miei... Era una pacifista. Un'idealista. E mai e poi mai i bambini! Li adorava!» Immaginai la scena finale nella baracca. Il suo nascondiglio. Vestiti neri, un fucile, un contenitore con l'urina. Scosse la testa e disse: «Impossibile». «Perché è venuto da me, signor Burden?»
«Per l'analisi», disse con solo un briciolo d'impazienza. «Psicanalisi. È la sua specializzazione, vero? La motivazione infantile, i processi mentali nell'organismo in sviluppo. E nonostante l'età, Holly era una bambina. Dal punto di vista psicologico. Mi creda, io dovrei saperlo. E questo la collocherebbe nel suo campo professionale, non è vero? Mi sbaglio?» Siccome non risposi immediatamente, disse: «La prego, dottore. Lei è uno studioso, un uomo profondo; questa è la cosa su cui lei è meglio preparato. So di aver scelto bene». Cominciò a elencare i titoli di studi che avevo pubblicato su riviste scientifiche. In perfetto ordine cronologico. Quando ebbe finito, disse: «Faccio le mie ricerche, dottore. Sono preciso. Quando qualcosa conta, si può solo agire così». Il dolore era sparito dal suo volto, soppiantato da un sorriso presuntuoso: il primo della classe che si aspetta un encomio. «Come mi ha trovato, signor Burden?» «Dopo aver parlato con la polizia, mi sono subito reso conto che non stavano cercando la verità: avevano idee preconcette. Persone indolenti, preoccupate solo di chiudere l'inchiesta. Così ho cominciato a sorvegliare la scuola, sperando di scoprire qualcosa, qualsiasi cosa. Perché tutto quello che mi avevano detto non aveva senso. Ho preso nota dei numeri di targa di tutte le persone che entravano o uscivano e li ho controllati nei miei archivi. Il suo compariva in molti dei miei elenchi.» «I suoi elenchi?» L'oboe suonò un paio di note lunghe che somigliavano a una risata. «Non si allarmi: non è niente di sinistro. Fare elenchi è il mio lavoro. Avrei dovuto dirglielo subito. Elenchi postali. Demografia applicata. Dati che possono essere richiamati a seconda dell'occupazione, del codice postale, dello stato civile: qualsiasi tipo di variabile. Lei era nell'elenco degli specialisti della salute mentale. Sottoclasse 1B: psicologi clinici. Eppure lei non era lo psicologo che parlava sui media sostenendo di avere i bambini in cura. Questo fatto mi ha incuriosito. Ho fatto ulteriori ricerche e quanto ho scoperto mi ha fatto sperare.» «I miei articoli sulle riviste specializzate l'hanno fatta sperare?» «I suoi articoli specialistici erano buoni, scientificamente fondati. Una metodologia abbastanza solida per una scienza piuttosto debole. Questo mi ha fatto capire che lei era una persona con un buon cervello, non un dipendente statale che tira a campare. Ma ciò che mi ha maggiormente incoraggiato sono gli elementi che ho ottenuto dalla stampa non specializzata, gli
articoli di giornale. Il caso della Casa dos Niños. Lo scandalo Cadmus. Lei è certamente un uomo che cerca la verità senza indugi, non si sottrae alle sfide. Sono un buon giudice del carattere. Lei è l'uomo che fa per me.» Ancora tracotanza da primo della classe. E qualcos'altro: il sorriso del cacciatore. Dov'era finito il dolore? Un piccolo uomo sinistro. «A proposito di verità», dissi, «perché non mi mostra un documento d'identità? Solo per amor di precisione.» Esibì un portafoglio dozzinale e tirò fuori una patente di guida, la tessera della previdenza sociale e molte carte di credito. La foto della patente mostrava uno sguardo furtivo, accigliato, che mi ricordò quello della ragazza morta. Diedi un'occhiata veloce alle carte di credito, tutte dorate, intestate a Mahlon M. Burden. Ritornai alla patente e la guardai ancora qualche istante. «So cosa sta pensando», disse, «ma assomigliava più a sua madre.» Gli restituii i documenti d'identità. «Aveva anche l'innata bontà di sua madre», disse, «la compassione per tutti gli esseri viventi. L'intera faccenda è una montatura: lei deve aiutarmi.» «Signor Burden, cosa pensa esattamente che possa fare per lei?» «Condurre una psicobiografia. La vita e i tempi di Holly Lynn Burden.» Menzionare il suo nome fece vacillare il suo sguardo per un istante, ma solo per un istante. «Applichi gli stessi strumenti culturali che lei usa nella sua ricerca e analizzi a fondo la mia bambina: i motivi che l'hanno spinta ad agire. Scavi a fondo quanto vuole. Non risparmi domande. Faccia tutto quanto occorre per arrivare al bandolo di questa matassa. Scopra la verità, dottor Delaware.» Mi fermai a riflettere prima di rispondere. I suoi occhi non mi abbandonarono un istante. «Mi sembra che lei stia parlando di due cose distinte, signor Burden. Ricostruire la vita di sua figlia: quella che comunemente viene chiamata un'autopsia psicologica. E vendicarla. L'una può non condurre all'altra.» Mi aspettavo un'esplosione. Ricevetti invece un altro sorriso da cacciatore. «Oh, lo farà, dottor Delaware. Lo farà. Un padre sa.» «Un padre sa.» «Una madre sa.» Quante altre volte l'avevo già sentito. «C'è una cosa che lei deve sapere», dissi. «Ovviamente lei non è soddisfatto del modo in cui la polizia sta conducendo le indagini, ma è stata proprio la polizia a chiamarmi.»
«A meno che lei non menta per farli contenti, la cosa non mi disturba.» «Un'altra cosa. Non posso prometterle riservatezza. Al contrario. La mia lealtà va ai bambini della Hale. Il mio scopo principale è aiutarli a far fronte a quanto gli è successo, e non permetto che niente mi distragga da questo. Se scopro qualcosa di negativo su Holly e rivelarlo può servire a fini terapeutici, lo rivelerò. Cose spiacevoli possono diventare di pubblico dominio.» «La verità non mi spaventa, dottor Delaware. I dati ben fondati non mi spaventano mai.» Millanterie. Pensai a lui mentre mi sorvegliava dietro i finestrini scuri. Mentre usava i suoi archivi per intromettersi nella mia vita privata. Mentre si serviva delle lacrime per guadagnarsi l'accesso nella mia dolce casa. Aveva forse interpretato il ruolo del paziente per spingermi ad assumere quello del terapista? Qualunque fosse la sua motivazione, ero stato manipolato. Bevvi un altro sorso di caffè corretto e provai un senso di vertigine. L'alcol o la stranezza del momento? Misi giù la tazza, mi sedetti di nuovo, incrociai le gambe e lo studiai. Cercai di recuperare l'obiettività, di uscire dal circuito dolore-simpatia che aveva innestato in me già sulla porta di casa. «Accetto nel modo più assoluto le condizioni che mi ha posto», disse, «mi aiuterà?» Si sporse in avanti sul divano. Occhi asciutti. Una parte di me, il padrone di casa, voleva cacciar via l'intruso. Ma mi ritrovai a valutare la sua proposta. In fondo mi stava offrendo proprio quanto avevo detto a tutti di volere. La chance di conoscere l'«orco». L'opportunità di ottenere qualche informazione che mi avrebbe permesso di accelerare il recupero dei bambini alla Hale. «Scavi a fondo quanto vuole. Non risparmi domande.» Considerato il fatto che la tragedia era appena avvenuta e data la sua incapacità in quel momento di confrontarsi con quanto era veramente accaduto in quella baracca, il suo impegno significava poco. Poteva iniziare con il rispondere alle mie domande e finire con il vedermi come il nemico. Ma nel frattempo potevo anche scoprire qualcosa. A quale prezzo? «Mi dia un po' di tempo per pensarci.» Questo non gli piacque molto, tirò con forza il cursore della sua lampo, aprì e chiuse la giacca a vento e continuò a fissarmi, come aspettando che
cambiassi idea. Alla fine disse: «È tutto ciò che chiedo, dottore». Si alzò. Tirò fuori il portafoglio dozzinale. Mi porse un biglietto da visita. NEW FRONTIERS TECHNOLOCY, LTD. MAHLON M. BURDEN. PRES. E un numero di telefono con i primi numeri corrispondenti a Pacific Palisades scritto a matita sotto il suo nome. «È una linea privata: pochissime persone hanno questo numero. Mi chiami, in qualsiasi momento, ventiquattr'ore su ventiquattro. È facile che domani non sia in ufficio per quasi tutto il giorno, vado in città, al Parker Center. A cercare di farmi riconsegnare dalla polizia il... suo corpo. Ma controllerò i messaggi.» Il suo mento tremò. Abbassò il viso. Lo accompagnai alla porta cercando di non guardarlo. Stavo ancora pensando a lui quando chiamò Milo. «Ho scoperto a chi appartiene la tua Honda», disse. «La New Frontiers Tech è l'impresa del padre della Burden.» «Lo so.» E gli raccontai della visita. «È passato da te, giusto così per farti una visita?» «Proprio così.» «Ti ha rintracciato controllando la targa?» «È quanto ha detto.» «Hai avuto la sensazione che fosse pericoloso?» «Veramente no. Solo strano.» «Strano come?» «Calcolatore. Manipolatore. Ma forse sono troppo duro con lui. È uscito da un inferno. Dio sa se l'ho conosciuto al meglio di sé.» «Mi sembra che abbia stuzzicato la tua curiosità professionale.» «In qualche modo sì.» «In qualche modo. Questo significa che accetterai la sua proposta?» «Ci sto pensando. C'è qualche problema se lo faccio?» «Personalmente non mi secca, Alex, ma sei sicuro di volerti far coinvolgere di più?» «Se posso scoprire qualcosa che aiuti i bambini, lo farò. Gli ho detto
chiaramente che il mio primo impegno è con loro. Nessuna riservatezza. Ha accettato.» «Lo accetta adesso. Ma pensa allo stato mentale di quell'uomo. Negazione assoluta: pretende ancora che sia innocente. Cosa succederà quando la realtà lo ferirà? Cosa accadrà se tu accetti, fai il tuo lavoro e arrivi alla conclusione che la sua bambina era una folle sanguinaria? Come pensi che possa accettarlo?» «Ho sollevato quest'eventualità con lui.» «E?» «Ha detto che voleva correre il rischio.» «Bene. Ti ha anche detto che il fucile che lei ha portato nelle braccia era suo? Sembra che sia un collezionista di fucili e lei ha rubato un pezzo della sua collezione. Pensi che questo sia compatibile con la capacità di una corretta valutazione dei fatti da parte sua?» Odiava i miei... «Quando l'hai scoperto?» «Poco fa.» Pausa. «Le mie fonti al laboratorio balistico.» Imprecò. Non riuscivo a capire quanto il suo risentimento fosse dovuto al fatto di ricevere informazioni sull'inchiesta di seconda mano e quanto dalla possibilità che io lavorassi con Mahlon Burden. «Così», dissi, «stai dicendo che dovrei rifiutare la proposta?» «Io dirti cosa fare? Toglitelo dalla testa. Voglio semplicemente che ci pensi bene.» «È esattamente quanto sto facendo, Milo.» «Mentre era lì gli hai chiesto del ragazzo?» «Non gli ho chiesto niente. Non volevo impegnarlo prima di essere sicuro della decisione che avrei preso.» «Mi sembra che tu ti sia già impegnato, amico. A quando il matrimonio?» «Cos'è che ti scoccia?» «Niente. Oh, maledizione, non lo so. Forse è il pensiero che tu possa lavorare per l'altra parte.» «Non per. Con.» «Non cambia nulla.» «Comunque cos'è che te lo fa collocare così risolutamente dall'altra parte?» «Buoni e cattivi. Conosci una distinzione più significativa?» «Non ha premuto il grilletto, Milo. Tutto quel che ha fatto è stato gene-
rarla.» «Era pazza. Da dove viene la sua pazzia?» «Cos'è, colpevole di procreazione?» Lungo silenzio imbarazzato. «Sì, sì, lo so», disse, «dov'è la mia compassione umana per lui: anche lui è una vittima. È che ti ho chiamato per aiutare i bambini. Cercare di far qualcosa di positivo in mezzo a tutta questa merda. Immagino di non volerti vedere usato per lavare quello che ha fatto.» «Sarebbe impossibile. Quello che ha fatto è indelebile, Milo.» «Sì. Okay, scusa. Non volevo rompere. È che oggi è stata una giornata terribile. Torno adesso da un posto dove è stato commesso un delitto. Hanno ucciso un bambino.» «Oh, merda.» «Pura merda. Una vittima di due anni. L'uomo della madre, fatto di polvere e Dio sa cos'altro, ha usato il bambino come punching-ball.» 12 Rimuginai sull'offerta di Burden senza arrivare a una conclusione e mi alzai il venerdì mattina pensandoci ancora. Misi da parte il problema e andai a scuola a lavorare con quelli che, sicuramente, erano dalla parte dei buoni. Potevo dire di aver ottenuto dei miglioramenti: i bambini sembravano annoiati e una buona parte di ogni incontro venne impiegata per fare gioco libero. Passai gran parte del pomeriggio lavorando individualmente con i ragazzi a rischio. Alcuni avevano problemi di insonnia, ma anche loro sembravano nel complesso più calmi. Stavano andando abbastanza bene. Ma quali sarebbero stati gli effetti a lungo termine? Verso le quattro ero seduto in una classe vuota pensando a questo. Decisi di tenere delle cartelle cliniche dettagliate e stavo ancora scrivendo quando, alle cinque, un custode, che trascinava un secchio e una scopa per lavare, ficcò la testa nell'aula e mi chiese quanto tempo pensavo di rimanere ancora. Raccolsi le mie cose e uscii, passando nell'ufficio di Linda. La stanza dove lavorava Carla era vuota, ma nell'ufficio interno la luce era accesa. Bussai. «Avanti.»
Stava leggendo seduta alla scrivania, leggermente piegata e con lo sguardo assorto. «Si sgobba?» Mise giù il libro, fece ruotare la sedia e si diresse verso il divano a elle. Indossava un vestito a maglia bianco panna, una sottile catenella d'oro, calze bianche con un motivo ondulato che le percorreva verticalmente, scarpette di vernice dal tacco medio. «Mi chiedevo se sarebbe passato», disse, «ho saputo che abbiamo avuto visite ieri.» «Oh, sì», risposi, «sommersi da uno slancio di generosità.» «Gesù. E sta continuando anche oggi.» Si girò verso la scrivania e tirò fuori qualcosa da un cassetto. Una cassetta bianca. «Ne sono arrivate tre scatole oggi per raccomandata. Carla non sapeva cosa fosse e ha firmato la ricevuta per l'intero malloppo.» «Solo cassette, non persone?» «Solo cassette. Ma l'ufficio di Dobbs ha chiamato per avere conferma dell'avvenuto recapito. Carla stava consegnando circolari nelle classi e ho preso io la chiamata.» «Si è parato il sedere», dissi, «le ricevute delle raccomandate costituiscono una prova per qualsiasi revisore contabile pubblico dell'avvenuta esecuzione del contratto, così ha diritto di ricevere l'intera somma pagatagli da Massengil.» «Era quello che avevo immaginato. Ho chiesto di parlare con lui direttamente e me lo hanno passato. Il bruto era tutto zucchero e miele. Voleva saper come andavano le povere creature. 'Creature,' Li vede probabilmente così. Mi ha assicurato che era reperibile ventiquattr'ore su ventiquattro in caso di emergenza. Dormo sonni più tranquilli adesso che lo so.» «E senza dubbio anche la chiamata verrà registrata come consulenza e fatturata.» «Si è premurato di farmi sapere che avevate avuto uno scambio di idee», disse, «che eravate esattamente dello stesso parere sulle modalità d'intervento terapeutico. Approva i suoi metodi, dottore; questo non la fa lavorare più tranquillo?» «Sembra che voglia cercare un compromesso», soggiunsi, «noi non sveliamo le sue porcherie, gli facciamo guadagnare qualche dollaro con le cassette e lui si tira indietro.» «Pensa di poterlo accettare?» Ci pensai un attimo. «Posso sopportarlo se questo significa che lo avre-
mo fuori dai piedi.» «Anch'io», disse, «e noi come possiamo considerarci se lo accettiamo?» «Realisti.» «Puah!» Allontanò il pensiero con un gesto della mano. «Mi rifiuto di sprecare altro tempo in sciocchezze. Come le sembrano i bambini?» «In buone condizioni, veramente.» Le riferii come stava andando il lavoro. Fece dei cenni di assenso. «Ho sentito dire le stesse cose dai genitori con cui ho parlato al telefono. Sicuramente meno ansia. Questo mi ha aiutato a convincere alcuni di loro a rimandare i loro figli a scuola. Ha fatto un ottimo lavoro.» «Ne sono contento.» «All'inizio, badi bene, erano scettici. Confusi da ciò che facevano i bambini: fare disegni dell'attentatore, farlo a pezzi, infuriarsi. C'è sempre quell'impulso di proteggere, di cercare di mettere a tacere le cose. Ma i risultati parlano chiaro. Ho convocato venti, venticinque madri per il suo incontro di lunedì.» «C'è qualcos'altro che lei deve sapere», dissi, «un'altra visita.» Le raccontai di Mahlon Burden. «Che strano: così all'improvviso.» «Sì, è vero, ma è abbastanza stressato. È convinto che Holly sia innocente, vuole che io conduca un'autopsia psicologica, per mostrare al mondo cosa l'ha spinta ad agire. Il che dovrebbe in qualche modo portare a provare la sua innocenza.» Disse senza esitazione: «Penso che lei debba farlo. È una magnifica occasione». «Occasione per cosa?» «Scoprire. Capire cosa non ha funzionato: cosa l'ha fatta agire.» «Non sono sicuro di arrivare a qualcosa di significativo, Linda.» «Qualsiasi cosa lei scopra, sarà sempre più di quanto abbiamo adesso, giusto? E più continuo a pensarci, ora che lo choc è passato, più la cosa mi sembra strana. Una ragazza, Alex. Cosa al mondo può spingerla a fare un gesto simile? A chi stava sparando? Fondamentalmente i media hanno trascurato questo aspetto. La polizia non ci ha detto una sola cosa. Se suo padre è disposto a parlare con lei, perché non accettare la sua offerta? Forse può scoprire qualcosa su di lei, qualche segno premonitore, che possa aiutare a prevenire, a evitare che una cosa simile accada ancora.» «La sua propensione a farla riesumare psicologicamente è influenzata da
un atteggiamento di negazione assoluta, Linda. Una volta che le sue difese vengono meno, può anche darsi che cambi idea. Se comincio ad arrivare a cose che non approva, probabilmente porrà fine a tutto.» «E allora? Nel frattempo scoprirà quel che può.» Non risposi. «Qual è il problema?» disse. «Il mio primo impegno è verso i bambini. Non voglio essere percepito come schierato con i cattivi.» «Non me ne preoccuperei molto. Ha guadagnato i gradi sul campo in questo posto.» «Milo, l'ispettore Sturgis, ha delle riserve in proposito.» «Certo che ne ha. Tipico modo di pensare da poliziotto: la mentalità del bunker.» Prima che potessi rispondere disse: «Non importa cosa pensano gli altri, alla fine la decisione deve essere sua. Perciò faccia quello che per lei è la cosa migliore». Distolse lo sguardo da me, mise giù la cassetta e cominciò a mettere in ordine la scrivania. Un senso di gelo... «Comincio a propendere per il sì. Penso di comunicarglielo dopo il weekend.» «Ah, il weekend», disse, continuando a mettere in ordine. «Penso sarà lunghissimo.» «Ne ha in programma uno molto impegnativo?» «Le solite cose. Lavori di casa, la TV.» «Che ne dice di dimenticare il lavoro per un po'?» dissi. Inarcò le sopracciglia, ma non mi guardò. «Voglio essere più esplicito. A cena presto, diciamo fra mezz'ora. In un posticino tranquillo con un bar ben fornito. Proibiti i discorsi di lavoro. Un tocco di eleganza nelle nostre vite altrimenti monotone.» Guardò i suoi vestiti, si toccò un ginocchio. «Non sono proprio vestita per una serata elegante.» «Certo che lo è. Mi passi il telefono e prenoto immediatamente.» Inarcò ancor più le sopracciglia. Fece una breve risata e si girò verso di me: «Lei è uno che prende in mano le situazioni?» «Se ne val la pena sì.» Dissi quasi recitando un verso. «Allora, baby, qual è la risposta?» Rise più forte e mi passò il telefono.
Le ci volle un po' per organizzare le sue cose, scrivere circolari e promemoria. Ne approfittai per andare nell'ufficio di Carla e telefonare per controllare se c'erano messaggi per me. Due persone che avevano iniziato il college a sedici anni non riuscivano a fare a meno di comportarsi come bambini remissivi. Finalmente lasciammo l'edificio scolastico. Lei sembrava tesa, ma mi prese sottobraccio. Il custode era ansioso di chiudere la scuola e iniziare il suo weekend, così spostò la macchina nella strada e parcheggiò fuori dal cancello. Prendemmo la Seville e ci dirigemmo verso ovest. Il ristorante che avevo scelto era in un tratto affollato di Ocean Avenue, di fronte alla scogliera che guarda sull'inizio della Pacific Coast Highway. Francese ma accogliente, un arredamento completamente bianco, un portico frontale coperto da una tenda, circondato da un muretto di mattoni che permetteva di cenare all'aperto isolati dalla ressa del marciapiede. Arrivammo verso le sei e un quarto. Molti poveracci contendevano il posto ai custodi del parcheggio. Distribuii qualche dollaro e ricevetti occhiatacce dai custodi. Ci sedemmo al bar per altri venti minuti prima di essere accompagnati a un tavolo sotto la tenda. Il cameriere accese la candela ed elencò i piatti del giorno. La cucina doveva avere un surplus di conigli da smaltire, perché insistette molto su uno stufato di lepre alla provenzale. Lei gli sorrise e disse: «Mi dispiace, ma non riesco proprio a mangiare coniglio» e scelse una spigola alla griglia. Io ordinai una bistecca al pepe nero e una bottiglia di Beaujolais nouveau. Bevemmo e scambiammo solo qualche parola. Ci volle molto tempo per essere serviti. Quando portarono i piatti, lei mangiò con lo stesso gusto che aveva mostrato la prima volta. La prima volta. Era la nostra seconda cena insieme. Ciò nonostante e nonostante tutte quelle chiacchiere nel suo ufficio, sapevo poco di lei. Incrociai il suo sguardo e sorrisi. Rispose al sorriso, ma sembrò preoccupata. «Cosa c'è?» dissi. «Niente.» «Non pensa al lavoro, spero.» «No, no, nient'affatto. È incantevole qui.» «Ma c'è ancora qualcosa che la preoccupa?» Passò un dito sul bicchiere. «Sto cercando di capire, immagino, se que-
sto è un incontro galante.» «Vuole che lo sia?» Agitò il dito verso di me. «Ora mi sembra uno strizzacervelli.» «Okay», dissi, tirandomi su a sedere e schiarendomi la gola, «sono di nuovo io che decido. È un incontro galante, baby. Ora faccia la brava e mangi il suo pesce.» Fece un cenno come di saluto e appoggiò la mano sul tavolo. Lunghe graziose dita che coprii con le mie. Inspirò profondamente. Nonostante la luce fioca vidi che stava arrossendo. «Ho mangiato abbastanza: che ne dice di saltare il dessert?» Il tempo era volato. Erano quasi le nove quando tornammo in macchina. Chiuse gli occhi, buttò la testa indietro e allungò le gambe. Poi ancora silenzio. «Facciamo un giro in macchina?» e quando fece cenno di sì presi l'Ocean Avenue in direzione nord e girai nella rampa che porta giù sulla Pacific Highway. Infilai una cassetta di Pat Metheny nel registratore e guidai lentamente sulla corsia di destra tutto il tratto fino a Malibu ovest, subito dopo il confine della contea di Ventura. Montagne da un lato, oceano dall'altro, oltre il Decker Canyon pochissime tracce della fastidiosa presenza dell'uomo. Arrivai fino a Point Mugu, prima di cominciare a sentire sonno. Guardai Linda. La luce del cruscotto mi permetteva a malapena di distinguere i suoi lineamenti. Ma riuscii a vedere che i suoi occhi erano chiusi e aveva sul volto un sorriso da bambino soddisfatto. L'orologio sul cruscotto segnava le dieci e un quarto. Un segnale stradale mi segnalò che eravamo vicini a Oxnard. Pensai all'ultima volta che avevo fatto questa strada. Verso Santa Barbara, con Robin. Feci dietro front, estrassi Metheny, inserii Sonny Rollins nella fessura del registratore e mi diressi di nuovo verso Los Angeles, ascoltando il magico sax che trasformava Just Once in qualcosa di trascendentale. Quando mi fermai al semaforo di Sunset Beach, Linda si stirò e aprì gli occhi. «Ben svegliata», dissi. Si tirò su. «Buon Dio! Mi sono addormentata vicino a lei?» «Come la classica bimba.» «Che maleducata. Scusi.» «Non c'è niente di che scusarsi. Mi ha trasmesso la sua tranquillità.» «Che ore sono?» «Le undici e dieci.»
«Incredibile: ho perso due ore.» Si sedette più comoda e si sistemò i capelli. «Non riesco a credere di essere crollata così.» Le diedi dei colpetti sul polso. «Sciocchezze. Mi aspetto una vivacità strepitosa la prossima volta.» Rise come per intendere «Non posso prometterlo» e disse: «Forse è meglio che mi riporti alla macchina». Il semaforo diventò verde. Entrai nel Sunset Boulevard e raggiunsi le magnolie ben potate di Ocean Heights prima di mezzanotte. Era scesa una nebbia fitta e fredda. Esperanza Drive era silenziosa e avvolta da un'opprimente oscurità. Non un'anima per strada, le finestre a losanga delle villette erano scure come ossidiana, il bagliore dei lampioncini dei giardini creava tenui macchie giallastre. Solo alcuni campanelli illuminati riuscivano a oltrepassare i vapori umidi. Dischetti arancione che ci seguivano, un battaglione di occhi di minuscoli ciclopi. Il parabrezza si appannò e azionai i tergicristalli. Cominciarono a raschiare il vetro con un monotono tric trac e sentii che mi si abbassavano le palpebre. Linda disse: «Non sono mai stata qui a quest'ora. È strano: così... vuoto». «Los Angeles, ma qualcosa di più», e avanzai lentamente verso la scuola. Mentre ci avvicinavamo al punto in cui aveva lasciato la macchina, vidi qualcosa. Altri due occhi. Iridi rosse. Luci di posizione. Un'altra macchina, ferma in mezzo alla strada. La nebbia si era infittita; non riuscivo a vedere a più di tre metri. Portai i tergicristalli alla massima velocità, ma continuarono a formarsi goccioline di umidità e ad appannarsi i vetri subito dopo il passaggio della spazzola. Ridussi la velocità avvicinandomi e notai un movimento nella nebbia: una sagoma che si muoveva freneticamente, intrappolata dai fasci di luce dei miei fanali. Poi una musica violenta: percussioni sorde seguite da un assolo di vetri infranti. «Ehi!» disse Linda, «che diavolo... quella è la mia macchina!» Altri tonfi e rumori di vetri mandati in frantumi. Lo scricchiolio e lo stridore di metallo contro metallo. Premetti sull'acceleratore e avanzai a tutta velocità. Movimento. Più chiaro, ma non distinto. Una figura umana. Rumore di passi sopra l'attrito. Poi un altro motore che andava su di giri. Aprii il finestrino e urlai: «Che diavolo succede?» Uno stridore di gomme e i fanali di coda si ridussero a due puntini prima
di scomparire nella nebbia. Inchiodai la Seville e rimasi seduto, respirando affannosamente. Potevo sentire Linda respirare ancor più affannosamente. Aveva un aspetto terrorizzato, ma accennò a uscire dalla macchina. Le afferrai il polso e dissi: «Aspetti». «Oh, Gesù mio.» Fermai i tergicristalli. Resistemmo un minuto, poi un altro. Quando fui sicuro che eravamo soli, uscii dalla macchina. La strada era fredda e silenziosa. La nebbia odorava di ozono. La via era cosparsa di frammenti di vetro, che, sul fondo bagnato della strada, sembravano granelli di grandine che si stessero sciogliendo. Guardai su e giù per Esperanza Drive. Giù nella fila di villette. Buio pesto. Il silenzio continuò diventando assurdo. Non un segno di movimento, non una sola finestra illuminata. O il semplice cigolio di imposte che si aprivano per occhi curiosi. Nonostante il clamore, Ocean Heights dormiva profondamente, o fingeva di farlo. Linda uscì dalla Seville. Esaminammo la sua Escort. Il parabrezza della piccola vettura era stato sfondato. Come pure i finestrini dal lato del conducente. Il cofano era stato schiacciato e crivellato di fenditure, ai bordi delle quali spuntava il metallo vivo della lamiera. Mucchi di schegge di vetro infrangibile erano sparsi sulla sua superficie e si ammassavano nei punti più bassi. «Oh, no», disse afferrandomi il braccio e indicando col dito. Un altro tipo di violenza: il tetto, un tempo bianco, era coperto da un immenso scarabocchio di vernice a spray rossa e nera. Arte astratta: un serpeggiante e gocciolante ritratto dell'odio. Astratta tranne che per un particolare molto significativo. Copriva la portiera lato conducente, con lo spray passato più volte per enfasi e la sua diagonale crudeltà era inconfondibile anche nella nebbia: una svastica nera. 13 Le mani le tremavano troppo per riuscire a infilare la chiave nella serratura, così aprii io la porta della scuola. Riuscì a trovare l'interruttore della luce nel corridoio, lo accese e andammo nel suo ufficio, da dove telefonai a Milo. Sembrava brillo quando rispose. Quando gli raccontai quanto era
successo disse: «Aspettatemi lì». Arrivò mezz'ora dopo. Trenta minuti di silenzio, il mio braccio intorno alle spalle di Linda, la rigidità del suo corpo e poi l'immagine di lei che si allontanava, passeggiava su e giù per la stanza, spostava carte, giocava nervosamente coi capelli. Quando Milo arrivò si ricompose, lo ringraziò di essere venuto, ma sembrò fredda. C'era qualcosa nei poliziotti che... Se Milo lo notò, non lo fece capire. Le fece delle domande con una gentilezza che gli avevo visto usare solo con testimoni bambini, poi ripose il blocchetto per gli appunti e disse: «Mi dispiace che le sia successa una cosa del genere». «C'era da aspettarselo», disse Linda. Milo si alzò. «Userò il suo telefono per far venire i ragazzi della scientifica, ma ci vorrà un po' di tempo. Perché non ve ne andate a casa, voi due? Ho avuto tutte le informazioni che mi occorrono.» Lei disse: «Niente scientifica. Non voglio un altro circo di mass media». Milo guardò me, poi di nuovo lei. «Dottoressa Overstreet, in questo posto la gente non vede e non sente niente: se qualcuno dall'altra parte della strada ha visto cosa è successo, non ce lo verrà a dire. E anche se riusciamo a trovare una persona onesta, c'è la possibilità che non abbia visto niente d'importante a causa della nebbia. Così cercare di trovare le impronte digitali sulla macchina è veramente l'unica possibilità che abbiamo per arrivare a qualche risultato.» «Hanno usato barre di ferro o qualcosa di simile. Che probabilità abbiamo di trovare impronte sulla macchina?» disse. «Scarse», ammise, «a meno che non siano scivolati e abbiano toccato l'auto. Ma senza impronte non abbiamo niente: possiamo anche lasciar perdere.» «È ciò che voglio fare, ispettore Sturgis. Lasciar perdere.» Milo si grattò il naso. «Sta dicendo che non vuol sporgere denuncia?» «Linda...» dissi. «È esattamente quanto sto dicendo. I bambini ne hanno passate abbastanza. Noi tutti. Ancora paura, ancora l'attenzione della gente, è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno», disse. «Linda, se c'è qualche pericolo, non pensi che i bambini e i genitori dovrebbero esserne informati?» dissi. «Non c'è nessun pericolo: è un altro po' di quello schifo che abbiamo ricevuto fin dall'inizio. L'attentato ci ha fatto tornare di nuovo alla ribalta e
un altro scarafaggio è uscito dal suo buco. E ce ne saranno altri: telefonate, lettere. Finché non trovano qualcun altro con cui prendersela. Perciò che vantaggio c'è a pubblicizzare la cosa? Non verrebbe preso nessuno e altri bambini sarebbero spinti dalla paura a ritirarsi dalla scuola. Ed è esattamente ciò che vogliono.» Discorso infervorato, ma alla fine parlava singhiozzando, quasi in iperventilazione e conficcando le unghie nei braccioli del divano talmente forte che si sentiva la stoffa scricchiolare. Guardai Milo. «Ha conservato le lettere minatorie?» disse. «Perché?» «Se caso mai troviamo lo stronzo che ha demolito la sua macchina, forse possiamo mettere a confronto le sue impronte digitali con quelle lasciate nelle lettere e aggiungere così ai guai che passerà anche una denuncia dalla polizia federale. Lei non sa come possono essere sgradevoli quegli ispettori postali.» «Le ho detto che non voglio pubblicità», disse. Milo sospirò. «Lo capisco e le prometto che non ci saranno indagini ufficiali. È per questo che ho detto 'caso mai': forse 'nella remota eventualità' sarebbe stato più preciso. Ma immaginiamo che l'autore del reato ritorni, incoraggiato dall'averla fatta franca. E immaginiamo che qualcuno lo colga sul fatto. Lei non vorrà mica che lo lasciamo andare, vero?» Lo fissò, aprì un cassetto, tirò fuori con violenza un mucchio di buste legate con uno spago. «Eccole», disse allungando la mano, «l'intera collezione. Le avrei regalate allo Smithsonian, ma sono tutte per lei. Buona lettura.» «Chi altro le ha toccate oltre a lei e alla sua segretaria?» «Solo noi e il dottor Delaware.» Milo sorrise. «Penso che possiamo escluderlo.» Lei gli disse: «Mi dispiace di averla fatta venire qui. Se ci avessi pensato in modo più razionale non l'avrei disturbata». «Nessun disturbo», rispose, «se cambia idea o ha bisogno di sporgere denuncia per l'assicurazione, me lo faccia sapere. Forse posso far accelerare la pratica. Nel frattempo si faccia rimorchiare la macchina.» «Se va ancora, la porterò da sola a casa.» «Vorrà scherzare?» dissi. «Perché no», rispose, «probabilmente solo la carrozzeria è danneggiata. Se riesce a mettersi in moto arriva anche a casa. Domani chiamo la mia as-
sicurazione e la faccio portar via da lì. Il provveditorato mi pagherà una macchina a noleggio. Uno dei vantaggi di essere un dipendente pubblico.» «Linda, senza parabrezza congelerà.» «Un po' d'aria fresca. Sopravviverò.» Frugò nella borsetta e tirò fuori le chiavi. Guardai Milo. Lui alzò le spalle come per dire: «Nolo contendere». Uscimmo tutti e tre dall'ufficio con Linda che camminava qualche passo davanti a noi. Nessuno parlava. Fuori, la strada era ancora silenziosa e sembrava più umida, la nebbia vi stagnava. La macchina pareva un pezzo di junk art. Linda entrò dalla portiera dal lato del passeggero. Quando la chiuse, produsse un rumore sferragliante e malsano e qualche pezzetto di vetro cadde sulla strada tintinnando come campanelle al vento. Io e Milo restammo in piedi lì vicino mentre infilava la chiave dell'accensione. La piccola macchina scoppiettò, buttò fuori fumo e per un istante pensai che ci fosse anche qualche danno al motore. Poi mi ricordai che aveva fatto gli stessi rumori la prima volta che l'avevo sentita partire. Provò ancora. Milo disse: «Una donna piena di energia. Vai a fare il tuo dovere di cittadino». «Cosa vuoi dire?» «Accertati che la dottoressa Blondie arrivi a casa sana e salva.» Mi diede un colpetto sulla spalla e si incamminò dinoccolato verso la sua macchina. Proprio mentre Milo stava andando via, il motore si mise in moto e rimase acceso. Linda premette il pedale del gas. Mi affacciai al finestrino frantumato. «La seguo fino a casa.» «Grazie, ma è tutto a posto: non è necessario. Veramente.» Il suo viso era rigato di lacrime ma si sforzava di avere uno sguardo duro, quasi comicamente serio. La mano sul volante era tesa e bianca. La toccai. Schiacciò il pedale del gas diverse altre volte. L'Escort emise un rumore simile a quello di un vecchio che si schiarisce la gola. «Potrebbe avere un guasto al radiatore», dissi, «qualcosa che non è poi così semplice. L'ultima cosa di cui ha bisogno è rimanere per strada da qualche parte.» Guardò verso di me. I bei capelli chiari si erano in parte sciolti. Il mascara era colato formando delle righe da clown triste sul volto. Le toccai la guancia. «Andiamo: a cosa servono altrimenti gli amici?» Mi guardò, cominciò a dire qualcosa, poi chiuse gli occhi e fece cenno di
sì. La seguii verso est sul Sunset Boulevard, poi a sud, oltrepassando i padiglioni cinematografici bui di un deserto Westwood Village, Pico e l'eccesso postmoderno del Westside Pavilion. Non lontano da Overland Avenue, dove avevo abitato in uno squallido appartamento quando ero uno studente squattrinato. L'Escort procedeva sferragliando, senza fanali di coda e senza fari, seminando pezzi di vetro e pezzi di vernice. La svastica mi faceva pensare a una macchina di nazisti cannoneggiata. Ma, nonostante il suo aspetto patetico, il relitto procedeva abbastanza celermente, tanto che dovevo concentrarmi sulla guida per starle dietro mentre faceva una serie di brusche svolte in strade laterali. Si fermò davanti a un condominio in fondo a un vicolo cieco. L'edificio era una struttura monolitica priva di qualsiasi grazia, quattro piani con un rivestimento plastico color pesca, circondato da una grata di tubi di ferro verde acqua e con intorno un giardino che soddisfaceva appena i requisiti richiesti dal piano regolatore. C'era un rombo smorzato in sottofondo. Attraverso i rami di un esile falso pepe, la San Diego Highway era un frenetico spettacolo di luci. Un vialetto d'accesso scosceso conduceva a un parcheggio sotterraneo chiuso da un cancello verde acqua. Infilò una carta magnetica in una fessura e il cancello si aprì. Entrò, lasciando la carta inserita. Spinsi la carta per mantenerlo aperto, la ritirai e seguii Linda. Il garage era mezzo vuoto e trovai un posto vicino a lei. «Casa dolce casa», disse uscendo dalla macchina. I capelli erano scompigliati, le guance rosee. Se le toccò. «Ah, l'aria fresca corroborante. Dovrebbero dirlo a chi vuol comprarsi una decappottabile.» «La accompagno in casa.» «Se insiste», disse. Ma non sembrò seccata. Attraversò il garage, salì le scale fino all'ingresso, talmente piccolo da provocare un senso di oppressione, con dentro solo una panca imbottita e un estintore, e tappezzato con carta da parati verde con un motivo di canne di bambù color argento. «Abito al terzo piano», disse e schiacciò il bottone del minuscolo ascensore. Quando le porte si chiusero, ci trovammo uno accanto all'altra. Con i fianchi che si toccavano. I respiri che si mescolavano. Il suo profumo. Il mio dopobarba. Il tutto coperto dall'essenza amara, ormonale, dello stress. Lei guardò a terra. «Un incontro galante, eh?»
«Non può dire di essersi annoiata.» Rise, poi scoppiò in un pianto forte e spasmodico e si piegò in un angolo dell'ascensore. La circondai col braccio e la tirai verso di me. Appoggiò la testa sulla mia spalla, nascondendo il viso. Le baciai i capelli. Pianse ancora. La strinsi più forte. Mi guardò e socchiuse la bocca. Le asciugai il viso. Le guance erano gelate. L'ascensore si fermò e le porte si aprirono. «Finalmente siamo arrivati», mormorò. Percorremmo un corridoio tappezzato di carta verde che odorava di muffa, con le sue braccia che mi cingevano la vita. Dentro, l'appartamento era pieno del suo profumo. Il soggiorno era piccolo, quadrato con pareti color ostrica, piante in vaso, mobili di teck e pioppo lucidato, una moquette dorata solcata da spazi vuoti. Tutto bene in ordine e tirato a lucido. La feci sedere su un divano a righe blu e rosa, le appoggiai i piedi su un'ottomana dai colori abbinati e le tolsi le scarpe. Coprì gli occhi con un braccio e si sdraiò. La cucina era minuscola e dava su una sala da pranzo di due metri per due dove trovava a malapena posto un tavolo col piano in marmo e le gambe massicce. Una macchina per caffè, una pila di filtri e una lattina di caffè colombiano ben tostato erano appoggiati sul piano vicino a una lavagnetta con su scritto COSE DA FARE. Preparai un po' di caffè e riempii due tazze con su disegnati animali dello zoo, zebra e koala, che afferrai da un servizio appeso su una rastrelliera a fisarmonica accanto al telefono. Quando tornai nel soggiorno era seduta e mi guardava stordita coi capelli ancora scompigliati. Le diedi il caffè facendo attenzione a che afferrasse bene la tazza e mi sedetti di fronte a lei. Appoggiò le labbra sul bordo della tazza, inspirò il vapore che saliva dal caffè e bevve. «Posso fare nient'altro?» Mi guardò. «Vieni più vicino, ti prego.» Mi sedetti accanto a lei. Bevemmo, svuotammo le nostre tazze. «Ancora?» dissi. Appoggiò la tazza sul tavolino e disse: «Oh, Signore, adesso, che altro?» Le appoggiai ancora la testa sulla mia spalla. La circondai col braccio. Singhiozzò. Strofinai il viso contro ì suoi capelli. Si girò in modo da sfiorare con la bocca la mia, appena un contatto, poi si girò dall'altra parte fino a raggiungere nuovamente la mia bocca e
premette le sue labbra contro le mie, prima in un semplice tentativo, poi più forte. Sentii che si abbandonava. La sua lingua era calda e sapeva di caffè. Scivolava tra i miei denti, si muoveva accanto alla mia, premendo, stuzzicandola. Senza interrompere il bacio, appoggiai la mia tazza. Avvinghiati, ci stringemmo quasi fino a toglierci il respiro. Lei rabbrividì per l'emozione e mi accarezzò il collo. Le massaggiai le spalle, poi le mie mani scesero più in basso, percorsero i nodi delle sue vertebre, gli scarni contorni del suo corpo. Mi baciò più intensamente, con un gemito di piacere. Toccai i suoi fianchi carnosi. Un ginocchio. Mi guidò più in alto. Sentii la coscia, liscia, rilassata e soda, sotto il nailon delle sue calze. Si sollevò e sfilò il collant, scoprendo una lunga gamba bianca. La toccai. La pelle nuda. Più morbida, più rilassata. Poi una vampata di calore. Si eccitò, tremò più forte. Le mani lasciarono il mio collo e scesero accarezzandomi fino alla patta. Cercò a tentoni. Mi trovò. I suoi occhi si spalancarono. «Oh, mio Dio», trattenne il fiato e si piegò verso di me. Si abbassò come in preghiera. Quando le sensazioni diventarono più intense, la staccai, la baciai sulla bocca, la sollevai sulle braccia e la portai in camera da letto. Oscurità totale, solo un raggio di luna filtrava dalle tende delle finestre. Un letto d'ottone stretto, coperto da qualcosa che sembrava raso. Ci sdraiammo, abbracciati, uno nell'altra anche se ancora parzialmente vestiti, muovendoci all'unisono, in una danza orizzontale, senza smettere di baciarci, come fossimo vecchi partner. Venne molto presto, improvvisamente, urlando e tirandomi i capelli così forte da farmi male. Io mi ero trattenuto, stringendo i denti. Mi lasciai andare e sentii che le dita dei piedi si rilassavano. Respirò affannosamente, a lungo, aggrappandosi a me. Poi disse: «Oh Dio, non riesco a credere che sto facendo questo!» Mi sollevai sui gomiti. Lei mi tirò giù con forza, mise le braccia dietro la mia schiena e mi tenne così stretto che potevo respirare appena. Ricominciammo a baciarci, più dolcemente. Ci perdemmo in quel bacio. Poi si staccò, boccheggiante. «Ho bisogno... di respirare.» Mi staccai girandomi su me stesso e anch'io presi fiato. Ero inzuppato di sudore, con i vestiti attorcigliati e appiccicati. Si mise seduta. I miei occhi si erano abituati al buio. Vidi che i suoi erano ancora chiusi. Allungò la mano dietro la schiena e tirò giù la lampo del
vestito, che, scivolando lungo le braccia, cadde sul letto intorno a lei. Distinsi le curve delle sue spalle. Bianche. Dall'ossatura piccola, ma forti. Le baciai: lei lanciò un gridolino, scosse i capelli per toglierli dal viso e si appoggiò all'indietro sui palmi delle mani. Sganciò il reggiseno e liberò i seni, piccoli ma sodi. Li toccai, li baciai. Aveva dei capezzoli minuscoli, lisci e duri come sassolini levigati. Ci svestimmo e scivolammo sotto le lenzuola. Aveva una bocca avida. Una linea di peluria le divideva la pancia dall'ombelico al monte di Venere. E quei fianchi, sporgenti, quasi perpendicolari a una vita piccola, stretta. Li afferrai e li massaggiai, sentii un movimento fluido sotto la pelle: calore e vitalità. Le sue mani erano di nuovo calde. Mi tirò su di sé. Grossi fianchi carnosi, accoglienti che mi cullavano in un cuore liquido e dolce. Anche questa volta venne lei per prima e aspettò che finissi con un sorriso sognante e soddisfatto sul viso, poi cadde addormentata tenendomi stretto. Mentre sprofondava sempre più nel sonno, continuò a tenermi il braccio intorno alla vita, e ad appoggiare la testa nella piega del mio collo, russando leggermente contro il mio orecchio. Così diversa da Robin, che concludeva con un fermo bacio amichevole e rotolava via sbadigliando. Aveva bisogno di allungarsi. Aveva bisogno di spazio... Robin, dai riccioli dorati e dagli occhi a mandorla. Corpo solido, forti mani da lavoratrice, muschiata, dai godimenti atletici... Questa. Quest'estranea... morbida, dal corpo lungo e bianco come una calla, abbandonata nel riposo. Ma questa aveva bisogno di me, mi stringeva ardentemente mentre sognava. Una mano toccava i miei capelli. L'altra stretta intorno alla mia vita. Con tutte le forze. Una dolce prigione. Restai sdraiato, senza muovermi, facendo solo scorrere lo sguardo per la stanza. Mobili bianchi, stampe alle pareti. Un paio di animali impagliati su un cassettone. Bottigliette di profumo su un vassoio a specchio. Libri in brossura. Un orologio digitale che segnava l'1.45 del mattino. Una macchina con il motore truccato passò rombando tre piani più in basso. Linda sobbalzò e il suo respiro si interruppe, poi riprese veloce, ma restò addormentata.
Distinsi altri rumori. Uno sciacquone tirato in un bagno da qualche parte nell'edificio. Un'altra macchina. Poi un debole ronzio, profondo e continuo come un canto gregoriano. Il lamento dell'autostrada. Un suono isolato. Anni prima avevo imparato ad ascoltarli come una ninna nanna... Si rannicchiò più vicino. Una delle mie mani era tra le sue gambe, meravigliosamente intrappolata. L'altra le era finita sotto il collo. Sentii una pulsazione lenta e forte. Sollevai le coperte con un dito, sbirciai i nostri corpi incollati l'uno all'altro, quasi della stessa lunghezza, ma il suo molto più leggero, più morbido, liscio. Una tranquilla coppia di mezz'età su un letto stretto. Le baciai la guancia. Mi strinse più forte, mi ficcò le dita tra le costole e buttò una gamba sulla mia. Mi chiesi in che situazione mi ero cacciato. 14 Mi svegliai il mattino successivo solo nel letto, con nell'aria odore di shampoo. Passai davanti al bagno: fuoriusciva vapore caldo. Lei era seduta al tavolo col piano di marmo, con addosso un kimono nero con un motivo a fiori di ciliegio. I capelli erano bagnati e pettinati all'indietro. L'acqua li aveva scuriti facendoli diventare color caramello. Il viso pallido e struccato. Un paio di orecchini di corallo. Un bicchiere non ancora iniziato di succo d'arancia di fronte. Senza trucco poteva passare per una studentessa universitaria. «Buongiorno, prof», dissi. «Ciao.» Il suo sorriso era circospetto. Si strinse la vestaglia. I pochi centimetri di petto che riuscivo a vedere erano bianchi e cosparsi di goccioline. Le andai dietro e la baciai sul collo. La sua pelle sapeva di lozione. Premette la testa sulla mia pancia e la mosse avanti e indietro. Le toccai la guancia e mi misi a sedere. «Cosa posso prepararti?» «Solo un succo di frutta. Lo prendo da solo.» «Eccolo, prendi il mio.» Mi passò il bicchiere. Bevvi. «Salute», disse. «Salute.» Guardai verso la cucina. «Ho visto che la tua lavagna è vuota. Hai qualche progetto per oggi?»
Scrollò la testa e sembrò preoccupata. «C'è qualcosa che non va?» Scrollò ancora la testa. «Cosa c'è, Linda?» «Niente. Va tutto bene.» Sorriso smagliante. «Okay.» Bevvi il succo. Si alzò e si mise a riordinare il soggiorno che non ne aveva affatto bisogno. I capelli le pendevano sulla schiena. Un sottile strato umido che sbatteva contro la seta nera. I piedi erano nudi, lunghi, con le dita piegate e le unghie smaltate di rosa, sebbene quelle delle mani non avessero niente. Vanità segreta. Una donna che teneva in gran conto l'intimità. Mi avvicinai a lei e la abbracciai. Non resistette, ma non si abbandonò. «Lo so. Troppo e troppo in fretta.» Fece una breve risata nervosa. «Per quanto tempo ho preteso di non aver bisogno di niente. Adesso arrivi tu e sono un groviglio di desideri. Se non è debolezza non saprei come definirla altrimenti.» «Capisco bene cosa intendi dire. Lo è stato anche per me per molto tempo.» Si girò di scatto, cercò il mio viso per vedere se mentivo. «È vero?» «Sì.» Mi fissò ancora, poi afferrò il mio viso con entrambe le mani e mi baciò così forte che sentii come una vertigine. Quando si staccò, disse: «Oh Dio, tutte le spie di pericolo sono accese». Ma prese la mia mano destra e la premette contro il suo seno sinistro, all'altezza del cuore. Poi mi preparò un bagno, si inginocchiò sul tappetino e mi strofinò la schiena con una spugna. Troppo servile per i miei gusti, ma insistette. Dopo circa un minuto dissi: «Perché non entri dentro?» «No.» Si toccò i capelli ancora umidi. «Sono ancora impregnata d'acqua.» Continuò a strofinare. Chiusi gli occhi. Cominciò a canticchiare qualcosa con intonazione da soprano. Mi resi conto che aveva una voce molto particolare: dolce, una risonanza controllata. Una voce allenata. Ascoltai con maggior attenzione. Canticchiò più forte. Quando smise dissi: «Hai una voce veramente splendida». «Oh sì, una vera e propria star.» «Hai mai cantato da professionista?» «Oh, certo: il Metropolitan, la Carnegie Hall, il tutto esaurito al Super-
dome. Ma il fascino dell'insegnamento era troppo forte. Passami lo shampoo.» Il tono teso della sua voce mi fece capire che avevo toccato un altro nervo scoperto. Quante altre zone pericolose nel cammino verso la sua conoscenza? Stanco di tirarmi indietro, dissi: «Quanto tempo fa è successo?» «Una vecchia storia.» «Non può essere troppo vecchia.» «Ai tempi dell'università. È abbastanza lontano.» «Quand'ero all'università anch'io facevo musica.» «Veramente?» «Suonavo la chitarra la sera, per mantenermi.» «La chitarra.» La bocca le diventò triste. «Che bello.» Senso di gelo. «Un'altra zona pericolosa, Linda?» «Cosa... di cosa stai parlando?» «Quando mi avvicino a certi argomenti: i poliziotti, adesso la musica, comincia a lampeggiare il cartello LIMITE INVALICABILE.» «Non essere stupido.» Puntò il dito verso la bottiglia dello shampoo. «Vuoi che ti lavi i capelli o no?» Le passai la bottiglia. Mi insaponò. Quando finì, mi diede un asciugamano e uscì dal bagno. Mi asciugai, mi vestii e andai in camera da letto. Era seduta davanti al tavolino da toilette e si metteva l'ombretto. Era demoralizzata. «Scusa», dissi, «non parliamone più.» Cominciò a pettinarsi i capelli. «Il poliziotto si chiamava Armando Bonilla. Mondo. Dipartimento di polizia di San Antonio, recluta in una pattuglia mobile. Avevo solo vent'anni quando lo incontrai. Ero studentessa al terzo anno nella Texas University. Lui aveva ventidue anni, era orfano. Una vecchia famiglia messicana, ma lui parlava appena spagnolo. Uno di quei cowboy latini che si incontrano in Texas. Portava i capelli più lunghi di quanto piacesse al dipartimento, passava le sere suonando in un gruppo. La chitarra.» Scrollò la testa. «La cara vecchia chitarra. Deve essere nel mio karma, eh?» La sua risata era amara. «Una chitarra a sei corde. Dita che volavano; aveva imparato da solo: un talento naturale. Anche gli altri tre componenti del gruppo erano poliziotti. Anche loro cowboy latini. Si conoscevano dalle medie ed erano entrati in polizia per avere un posto stabile, ma il gruppo era il loro primo amore.
Magnum Four. Fantasie di contratti di registrazione, ma nessuno di loro era abbastanza ambizioso o aggressivo per perseguirle tenacemente e non sono mai usciti dal circuito dei bar. È lì che li incontrai... lo incontrai. Una serata per cantanti dilettanti vicino ad Alamo. Erano l'orchestrina della sala. Mio padre, che amava suonare il violino, country tradizionale, western swing, mi aveva insegnato ad amare la musica e il canto. Quella sera mi accompagnò lui al concorso di canto. Vinsi e fui invitata a unirmi al gruppo. Mio padre all'inizio non disse no, ma non era contento perché i musicisti, anche se poliziotti come lui, erano messicani. Non lo ammetteva apertamente, ma si lamentava della brutta musica che suonavano e del fatto che tornavo a casa tardi la sera, con addosso la puzza di alcol e di fumo. Mondo, che lavorava nello stesso dipartimento di papà, cercò di parlargli, ma lui lo trattò con freddezza. Più cercava di farmi smettere e più io mi avvicinavo a quei ragazzi. Finii con l'andare ad abitare con loro e subito dopo Natale mi misi con Mondo. Un mese dopo a Mondo venne assegnata una missione segreta. Smise di portare l'uniforme, cominciò a bere e a fumare marijuana, a farsi crescere i capelli fino a sembrare un vero drogato. Non suonò più nell'orchestrina, che senza di lui si sciolse. Io ero sempre più sola e spaventata, ma non volevo tornare da mio padre. Dopo qualche tempo Mondo venne ucciso in un conflitto a fuoco con trafficanti di droga e i giornali parlarono di poliziotti non all'altezza della missione loro assegnata. Ero distrutta. Non mangiavo più. Non dormivo più. Poi arrivò mio padre e mi riportò a casa. Cercai di ottenere informazioni dal capo della polizia, un amico di mio padre, ma lui me le negò col pretesto che non ero la moglie di Mondo. Ma il giorno dopo venne stranamente a casa mia, recitando, spalleggiato da papà, la parte della persona comprensiva. Mi consegnò una somma raccolta tra i colleghi per me e tessé le lodi di Mondo. Dopo un mese uno dei ragazzi del gruppo mi chiamò dicendo che doveva parlarmi. Ci incontrammo in un ristorante e mi raccontò la verità: a Mondo era stata affidata una missione difficile non per i suoi meriti, in fondo come poliziotto non era granché, ma su pressione di mio padre. Lo avevano condannato a morte dandogli un incarico per cui non era all'altezza. Mi precipitai a casa da mio padre. Appena mi vide, capì subito che avevo scoperto tutto e reagì con molta calma dicendomi che ormai era successo e non si poteva più tornare indietro. Io gli strappai il violino di mano, lo sbattei con tutta la mia forza contro il caminetto facendolo in mille pezzi. Uscii di casa e da quel giorno non ci rimisi più piede. Solo da un paio d'anni abbiamo cominciato a scambiarci qualche cartolina d'auguri a Nata-
le. So che adesso si è risposato con un'oca di Huston che ha la metà dei suoi anni, che si occuperà di lui nella vecchiaia e si godrà la pensione e la casa.» Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «Poliziotti e chitarre.» «Molto tempo fa», dissi. Scosse la testa. «Nove anni. Dio. Non ho più avuto voglia di musica per tanto tempo, non ho nemmeno un giradischi, ed eccomi qui a canticchiare per te, a fare la geisha e ti conosco appena.» Prima che potessi rispondere disse: «E neanche ho più avuto niente a che fare con i poliziotti prima di tutto questo casino». Ma ricordai che aveva detto a Milo di essere la figlia di un ranger. Schiudendo quella porta sul passato si erano riaperte vecchie ferite. «Forse i tempi sono maturi per il cambiamento, Linda.» Una lacrima le solcò una guancia. Mi avvicinai per poterla abbracciare. 15 Dopo un po' si alzò e disse: «Devo sbrigare qualche faccenda. Cose noiose: fare la spesa, pulire. Le ho trascurate troppo a lungo». «Come pensi di muoverti ora che non hai la macchina?» «Troverò una soluzione», disse, inquieta e imbarazzata. «Anch'io ho delle cose da sbrigare. Le gioie della vita da single.» «Oh, sì.» Lasciammo la camera da letto e ci incamminammo verso la porta d'ingresso. Aprii la porta e uscii nel corridoio verde. Silenzio da fine settimana. L'odore di muffa sembrava più forte. Per terra, davanti a molte porte c'erano giornali. I titoli di prima pagina parlavano dell'Afghanistan. «Grazie», disse, «sei stato meraviglioso.» Le presi il mento e la baciai sulla guancia. Mi offrì la bocca, la lingua e mi strinse per un attimo, poi si staccò e disse: «Via, prima che ti tiri di nuovo dentro». «È una minaccia o una promessa?» Sorrise, ma così rapidamente che mi chiesi se l'avessi sognato. «Capisci, ho solo bisogno di...» «Respirare?» Fece cenno di sì. «Non c'è niente di meglio per ravvivare le cose», dissi, «chiederti di uscire domani sera ti fa abbassare il livello di ossigenazione?»
Rise e i capelli umidi sbatterono rigidi contro le spalle. «No.» «Allora che ne dici domani sera alle otto? Andiamo in un paio di gallerie d'arte e poi a cena.» «Ottima idea.» Ci stringemmo la mano e partii, provando un curioso miscuglio di malinconia e di sollievo. Lei mi vedeva sicuramente come la personificazione della sensibilità. Ma anch'io ero contento di respirare un po'. Quando arrivai a casa chiamai Milo. «Come va?» disse. «Resisto.» «Ti ho chiamato un'ora fa. Non c'era nessuno. Dev'essere stata una consulenza molto lunga.» Perdinci, devi essere un detective o qualcosa del genere.» «Ehi, sono contento per te. Siete una bella coppia, degli autentici Ken e Barbie.» «Grazie per la benedizione, papà. Cos'hai scoperto dalla Ferguson?» «Mi ha detto che Holly era una studentessa spenta, passava del tutto inosservata. Una ragazza strana; l'intera famiglia lo era. Chiusa, fredda e viveva in una casa non molto curata. Il fatto che nessuno sappia come il signor Burden si guadagni da vivere le dà fastidio. Ha continuato a farmi domande in proposito, e non mi credeva quando le ho detto di non avere la minima idea degli affari trattati dalla New Frontiers Tech. È una persona drogata di conformismo, Alex. Sembra che i Burden abbiano infranto troppe regole.» «Negri comportamentali», dissi. Fece una pausa. «Sai sempre trovare le parole giuste.» «In cosa era strana Holly?» «Non andava a scuola, non lavorava, usciva raramente da casa se non per fare passeggiate notturne; furtive, le ha definite. Ha detto di averla vista qualche volta mentre stava curando i suoi fiori in giardino. Holly camminava fissando il marciapiede.» «Ti ha detto qualcosa del suo ragazzo?» «Mi sembra che abbia un po' ingigantito la faccenda chiamandolo il suo ragazzo. Solo un ragazzo di colore che aveva visto di tanto in tanto parlare con Holly. Nella ristretta visione del mondo della vecchia Esme questo implica fornicazione, ma poiché sappiamo che Holly era vergine, forse i due potevano aver solo parlato insieme. O qualsiasi cosa tra i due estremi. Esme ha detto che lo scorso anno il ragazzo lavorava per la drogheria del
quartiere, ma è un po' di tempo che non lo vede più. Il ragazzo delle consegne a domicilio. Era sempre molto nervosa quando entrava in casa sua, puoi immaginarti perché. Non sapeva molto di lui, solo che era molto alto e nero. Ma la gente tende a ingigantire le cose di cui ha paura: non scommetterei molto sull'alto.» «Vigilanza percettiva. L'ho imparato studiando psicologia sociale.» «Quando sono uscito da casa sua mi sono fermato alla drogheria, un posto chiamato Dinwiddie's, per vedere se potevo scoprire qualcos'altro sul ragazzo, ma era chiusa.» «Pensi di tornarci?» «Prima o poi.» «Che ne dici di oggi?» «Certo, perché no? Non che scopriremo chissà che. Ma Rick è fuori a far lavoro volontario in ospedale e se resto qui finirò col fare il bucato.» O col bere troppo. «All'una a pranzo da me?» «Va bene l'una ma lascia stare il pranzo. Quando saremo nel negozio ruberò una mela, come Pat O'Brian nel giro d'ispezione. Ho sempre voluto farlo. Essere un vero poliziotto.» Nonostante il pessimismo, Milo arrivò vestito da lavoro: completo grigio, camicia bianca, cravatta rossa e un taccuino in tasca. Mi portò in una via, Abundancia Drive, che attraversava il centro di Ocean Heights e finiva in una piazzetta con al centro un prato senza alberi. Un cartello scritto a mano, tipo quelli che si vedono nei piccoli parchi di Mayfair a Londra, indicava l'area come Ocean Heights Plaza. Sul prato non c'era niente, se si esclude una panchina stile Lutyens, fissata con catene al terreno, vicino a un cartello che ammoniva: VIETATO L'ACCESSO A CANI E BICICLETTE. Tutt'intorno c'erano negozi. La drogheria di Dinwiddie, grande il doppio degli altri negozi, aveva un rivestimento in legno verde scuro e un cartello ovale color crema sopra la porta d'ingresso che recitava FONDATA NEL 1961. Un'antichità californiana. La vetrina era incorniciata da una modanatura verde e dominata da una cornucopia di paglia, dalla quale fuoriusciva frutta finta, lucente e più grande del naturale. Altra frutta era esposta in vassoi stracolmi, con sopra etichette colorate vecchio stile. Ogni singola mela, pera, arancia e pom-
pelmo erano stati perfettamente lucidati e avvolti a uno a uno in carta crespata color prugna. «Mi sembra che tu abbia scelto il posto giusto, per rubare un frutto», dissi. Dentro il negozio era pulitissimo e pieno di gente indaffarata, rinfrescato da ventilatori con palette di legno, e con musica diffusa. SPECIALITÀ GASTRONOMICHE in un banco di fronte all'entrata. Una sezione liquori abbastanza grande da intossicare l'intero quartiere. Prodotti alimentari accatastati sugli scaffali. Tutto perfettamente in ordine. Spaziosi corridoi contraddistinti in alto da cartelli di legno dipinti dello stesso verde scuro. Un paio di donne con il grembiule verde lavoravano costantemente a vecchi registratori di cassa di ottone, collegati a scanner computerizzati. Tre o quattro clienti in attesa per ogni coda. Nessuno parlava. Milo si avvicinò a uno dei registratori di cassa e disse: «Salve. Dov'è il padrone?» La cassiera era giovane, paffuta e bella. Senza alzare lo sguardo disse: «Nel retro». Avanzammo nel reparto pasta e pane. Dopo il contenitore dei formaggi c'era una porta di legno verde con un lucchetto d'ottone che pendeva da una cerniera aperta. Milo la aprì ed entrammo in un corridoio corto e buio, freddo come una cella frigorifera, che puzzava di lattuga marcia ed era pieno del rumore di un generatore. In fondo c'era un'altra porta con su scritto PERSONALE DI SERVIZIO. Milo bussò e l'aprì. Vedemmo un piccolo ufficio, privo di finestre, rivestito di finto pino e ammobiliato con una vecchia scrivania di mogano e tre sedie rosse Naugahyde. La scrivania era sommersa di carte. Un piatto di bilancia di ottone serviva da fermacarte per una pila alta tre centimetri. Un assortimento di calendari di propaganda era appeso alle pareti, insieme a un paio di stampe sbiadite rappresentanti scene di caccia e alla foto incorniciata di una brunetta dall'aspetto piacevole e un po' in sovrappeso, inginocchiata vicino a un paio di bambini rubicondi dai capelli biondo platino in età prescolare. Una distesa d'acqua bordata da pini sullo sfondo. I bambini sostenevano faticosamente una canna da pesca da cui pendeva una bella trota. L'ovvia fonte genetica della pigmentazione dei bambini sedeva dietro la scrivania. Poco più di trent'anni, carnagione rosea, radi capelli quasi albini, tagliati corti e con la scriminatura a destra. Spalle larghe e muscolose, un naso con una protuberanza che lo faceva sembrare rotto, con sotto un paio di folti baffi del colore e della consistenza del fieno ingiallito. Gli occhi e-
rano grandi, di un curioso marrone grigio e con le palpebre leggermente abbassate. Indossava una camicia di flanella blu e una cravatta rossa e blu sotto un grembiule verde. Le maniche della camicia erano arrotolate al gomito. Gli avambracci erano pallidi, lisci e grossi. Ricordavano quelli di Braccio di ferro. Mise giù la calcolatrice tascabile e ci guardò da dietro una pila di fatture sorridendo stancamente. «Pesi e misure? Siamo passati la settimana scorsa, signori.» Milo gli mostrò il tesserino di poliziotto. Il sorriso dell'uomo biondo si affievolì. Batté più volte le palpebre, come per svegliarsi. «Oh.» Si alzò e tese la mano. «Ted Dinwiddie. Cosa posso fare per voi?» Milo disse: «Siamo qui per parlare dell'attentato alla scuola elementare Hale, signor Dinwiddie». «Oh, sì. Terribile.» Il suo trasalimento sembrò involontario e sincero. Batté le palpebre un altro paio di volte. «Grazie a Dio non è stato ferito nessuno.» «Nessuno tranne Holly Burden.» «Oh, sì. Certo. Naturalmente.» Batté ancora le palpebre, si sedette e spostò le carte su cui lavorava. «Povera Holly», disse, «è difficile credere che abbia fatto una cosa simile.» «La conosceva bene?» «Come chiunque altro qui, penso. Il che significa non molto. Veniva qui, con suo padre. Parlo di molti anni fa. Quando era ancora una bambina. Subito dopo la morte di sua madre. E quando era ancora vivo mio padre.» Fece una pausa e toccò il piatto della bilancia. «Io venivo in negozio dopo la scuola e la domenica ad aiutare a riempire le borse e a controllare. Holly si nascondeva in genere dietro le gambe di suo padre, sbirciava e poi si ritraeva ancora. Davvero molto timida. È sempre stata una bambina timorosa. Tranquilla, come se si fosse costruita un suo piccolo mondo. Cercavo di parlarle, ma lei non rispondeva mai. Una volta ogni tanto accettava una caramella in regalo, se suo padre glielo permetteva. La maggior parte delle volte mi ignorava quando gliele offrivo. Eppure, non c'era niente...» Alzò lo sguardo verso di noi. «Scusate. Prego. Sedete. Volete un caffè? Abbiamo una nuova miscela europea in negozio, nel boccale per la degustazione.» «No, grazie», disse Milo.
Ci sedemmo sulle sedie rosse. Milo disse: «Qualche impressione più recente sulla ragazza?» «In verità no», disse Dinwiddie, «non la vedevo molto. Erano clienti a cui in genere facevamo la consegna a domicilio. Le poche volte che l'ho vista in giro per strada sembrava un po'... distaccata.» «Distaccata da che?» «Da ciò che la circondava. Dal mondo esterno. Non attenta a quanto le succedeva intorno. Non voglio parlar male dei morti, ma fondamentalmente Holly non era molto intelligente. Alcuni bambini le davano della ritardata, il che probabilmente non era vero. Solo lenta, un po' al di sotto della media. Ma nella sua famiglia questo doveva essere molto difficile da accettare: i Burden sono tutti un po' intellettuali. Suo padre è decisamente geniale: lavorava per l'amministrazione dello stato in qualità di scienziato o matematico di primo piano. La madre faceva lo stesso, penso. E Howard, suo fratello, era un asso a scuola.» «Mi sembra che conosciate la famiglia abbastanza bene.» «No, veramente no. Più che altro andavo a consegnare la spesa e a prendere ripetizioni. Da Howard. Era un mago in matematica, assolutamente geniale con i numeri. Eravamo nella stessa classe, ma lui avrebbe potuto insegnarci. Molti ragazzi andavano da lui per farsi aiutare. Tutto gli riusciva facile, ma era particolarmente portato per la matematica.» Ci lanciò uno sguardo malinconico. «Lui è riuscito a continuare a fare le cose che gli piacevano, è diventato uno statistico. Ha raggiunto una buona posizione in una società giù nella Valley.» «Quando dice che eravate nella stessa classe, intende alla Nathan Hale?» Dinwiddie fece cenno di sì. «Tutti i bambini andavano alla Hale in quei tempi. Le cose erano diverse.» Si aggiustò nervosamente il nodo della cravatta. «Non necessariamente migliori, sia ben chiaro. Solo diverse.» «E come erano?» dissi. Giocherellò ancora e abbassò la voce. «Ascolti, io lavoro qui, vivo qui, la mia famiglia vi è sempre vissuta: è un bel quartiere per molti versi, un ottimo posto per far crescere i bambini. Ma la gente che ci vive pretende che non cambi mai niente. Che non dovrebbe mai cambiar niente. E questo non è molto realistico, non le pare?» Pausa. «Stando dietro il banco, facendo consegne, o trasportando i bambini della Little League, ho la possibilità di notare, si sente di tutto, cattiverie dette da persone che pensavi fossero rispettabili, gente con cui i miei bambini giocano e mia moglie prende il caffè.»
«Commenti razzisti?» disse Milo. Dinwiddie rispose con uno sguardo angosciato. «Non che qui sia diverso da altrove: il razzismo è abbastanza endemico nella nostra società, non è vero? Ma quando si tratta del tuo quartiere... ti piacerebbe fosse migliore.» «Abbastanza endemico nella nostra società.» Sembrava una frase da manuale. Milo disse: «Pensa che tutto questo, l'attitudine razzista del posto, abbia qualcosa a che fare con l'attentato?» «No, non credo», rispose in fretta Dinwiddie. «Se si fosse trattato di qualcun altro forse sarebbe stato possibile fare il collegamento. Ma non riesco a immaginarmi Holly razzista. Voglio dire il razzismo è un atteggiamento da persona politicizzata, almeno in qualche grado, no? E lei non lo era. Per lo meno non mi risulta. Come ho detto non era molto in contatto con il suo quartiere.» «Che idee politiche ha la sua famiglia?» «Non so se ne abbia», rispose in fretta. Portò velocemente la mano alla cravatta e batté le palpebre molte volte in successione. Mi chiedevo se qualcosa della discussione lo facesse stare sulle spine. «Veramente, signori, non riesco a vedere nessun collegamento politico», disse, «penso che qualsiasi cosa Holly abbia fatto, essa nasceva da lei, dai suoi problemi. Qualcosa di intrapsichico.» «Disturbi mentali?» disse Milo. «Doveva essere pazza per fare una cosa simile, non le pare?» «Oltre a essere assente, ha mai mostrato segni di altri disturbi mentali?» «Non saprei», disse Dinwiddie, «come le ho detto, non l'ho più vista da tanto tempo. Parlavo solo in via teorica.» «Può dirci nient'altro sulla famiglia che possa essere collegato all'attentato?» Pensò. «Veramente no, ispettore. Non sono mai stati socievoli. Avevano le loro idee ma fondamentalmente erano persone rispettabili. Si può capire il carattere di una persona controllando la sua spesa. Quando era vivo, mio padre aveva un sistema per classificare le persone: brontoloni, spilorci, pignoli, rompiscatole.» Un sorriso imbarazzato si disegnò sotto i baffi. «Una di quelle situazioni noi-loro. Succede in tutte le professioni, no? Non lo sveli ai miei clienti o resterò senza lavoro.» Milo sorrise e portò il dito sulle labbra. Dinwiddie disse: «È buffo. Quando ero più giovane sentivo mio padre lamentarsi continuamente quando tornava a casa e pensavo che fosse intol-
lerante, che non capisse la gente. Ho studiato sociologia all'università e avevo tutta una serie di spiegazioni e teorie sul perché fosse diventato così misantropo. Pensavo gli mancasse soprattutto una maggior soddisfazione intrinseca per il suo lavoro. Adesso eccomi qui, a fare il suo stesso lavoro e a scoprire che uso anch'io le stesse etichette». «Quale delle etichette di suo padre lei assegnerebbe ai Burden?» dissi. «Veramente nessuna. Erano persone facili da trattare, non si lamentavano mai e pagavano in contanti. Il signor Burden aveva sempre pronta una mancia generosa, anche se non amava molto la conversazione. Sembrava andasse sempre di fretta, doveva sempre fare qualcosa.» «Un altro tipo con la testa sulle nuvole?» «Non come Holly. Con lui sentivi sempre che era concentrato su qualcosa. Che pensava a qualcosa d'importante. In Holly invece sembrava, come dire, una specie di torpore. Come se si stesse ritraendo dalla realtà. Ma se questo significa dipingerla come una pericolosa psicotica, non è affatto quanto intendo dire. Era l'ultima persona da cui mi sarei aspettato un'azione violenta. Al contrario era timida, un topolino sperduto.» Milo disse: «Quando morì sua madre?» Dinwiddie si toccò i baffi, poi picchiettò distrattamente col dito sulle labbra. «Vediamo. Penso che Holly avesse quattro o cinque anni, il che significa circa quindici anni fa.» «Di cosa morì?» «Una malattia allo stomaco, penso. Tumore, ulcera o qualcos'altro, non ne sono sicuro. Il solo motivo per cui lo ricordo è che comprava una gran quantità di antiacidi, faceva delle vere scorte. Qualunque cosa fosse, non doveva essere mortale, ma fu ricoverata per un intervento chirurgico e non ne venne fuori. Howard era quasi impazzito, noi tutti lo eravamo. Era la prima volta che qualcuno della classe perdeva un genitore. Eravamo al secondo anno delle superiori. Howard non aveva mai amato la compagnia, ma dopo la morte di sua madre si isolò, si ritirò dal club di scacchi, dal circolo culturale e prese molti chili. Continuò a prendere buoni voti, era ossigeno per lui, ma si tagliò fuori da qualsiasi altra cosa.» «Come reagì Holly?» chiesi. «Non ricordo niente di particolare. Ma era solo una bambina, perciò immagino che ne sia stata sconvolta.» «Perciò non può affermare con sicurezza che quel suo estraniarsi fosse dovuto alla morte della madre?» «No...» Si fermò e sorrise. «Ehi, sembra più psicanalisi che lavoro di po-
liziotti. Non pensavo che voi faceste questo tipo di cose.» Milo disse indicandomi col pollice: «Questo signore è un noto psicologo. Il dottor Alex Delaware. Lavora con i bambini alla Hale. Stiamo cercando di ricostruire quanto è accaduto». «Psicologo, uhm?» disse Dinwiddie. «Ho visto uno psicologo intervistato a proposito dei ragazzi in TV. Un tipo corpulento, con una barba bianca.» «Cambiamento di programma», disse Milo, «è il dottor Delaware che li segue.» Dinwiddie mi guardò. «Come stanno? I bambini.» «Bene, nei limiti del possibile.» «Mi fa piacere sentirlo. Ho mandato i miei bambini in una scuola privata.» Sguardo colpevole. Scrollata di capo. «Non avrei mai pensato di arrivare a fare una cosa simile.» «Perché?» Un'altra tirata al nodo della cravatta. «A dire il vero», disse, «io ero abbastanza estremista.» Risata di imbarazzo. «Perlomeno per Ocean Heights. Il che significa che votavo democratico e cercavo di convincere mio padre a boicottare l'uva da tavola per aiutare i braccianti delle fattorie. In quel tempo l'ultima cosa che volevo fare era gestire una drogheria. La mia meta era fare quello che sta facendo lei, dottore. Terapia. O assistenza sociale. Qualcosa in questi due campi. Volevo lavorare con la gente. Papà pensava che fosse un lavoro poco serio: la critica più dura nel suo linguaggio. Diceva che alla fine sarei tornato coi piedi per terra. Mi riproposi di dimostrargli che sbagliava, feci lavoro volontario, con bambini paralizzati, agenzie di collocamento, centri di adozione. Seguii un ragazzo di East L.A. Poi mio padre morì di un attacco cardiaco, non aveva fatto nessuna assicurazione, ci lasciò solo questo posto e mamma non era in grado di gestirlo, così subentrai io. A un anno dalla laurea. Doveva essere una cosa transitoria. Non ne sono più uscito.» La fronte si corrugò e le palpebre scesero ancora. Ricordai il commento fatto su Howard Burden, lo sguardo pensieroso: «Lui è riuscito a continuare a fare le cose che gli piacevano...» «Un'ultima cosa, signor Dinwiddie», disse Milo, «c'è un giovane che lavora o lavorava per lei, faceva le consegne. Isaac o Jacob?» Dinwiddie strinse le spalle e trattenne il respiro. Lo lasciò uscire dopo qualche istante, lentamente. «Isaac. Ike Novato. Cosa vuol sapere di lui?» «Novato», disse Milo, «è ispanico? Mi hanno detto che è un negro.»
«Negro. Con la carnagione relativamente chiara. Cosa... cosa c'entra con quella storia?» «Ci hanno detto che era amico di Holly Burden.» «Amico?» Inarcò le spalle e le strinse di nuovo. Milo disse: «Lavora ancora per lei?» Il droghiere ci guardò fisso. «Non più.» «Sa dove possiamo trovarlo?» «È difficile che ci riusciate, ispettore. È morto e cremato. Ho disperso io stesso le sue ceneri. Sul molo di Malibu.» Gli occhi di Dinwiddie erano arrabbiati, duri. Alla fine distolse lo sguardo, lo abbassò sulla scrivania, prese un modulo d'ordine, lo fissò senza guardarlo e lo mise da parte. «È strano che lei non lo sappia», disse, «che sia io a dirglielo. O forse no, viste le dimensioni di questa città e tutti gli omicidi che avete. Ebbene è stato ucciso, lo scorso settembre. È stato colpito, a quanto pare, in uno scontro a fuoco tra spacciatori, da qualche parte giù a South Central.» «A quanto pare?» disse Milo. «Lei ha dei dubbi?» Dinwiddie esitò prima di rispondere. «Tutto è possibile ma io ho dei seri dubbi.» «E perché?» «Era una pianticella che cresceva dritta: non era il tipo del drogato. So che i poliziotti pensano che tutti gli altri sono ingenui, ma io ho lavorato abbastanza con delinquenti minorenni per essere un buon giudice. Ho cercato di dirlo alla polizia, ma loro non si sono neanche presi il disturbo di venire qui per parlare con me a faccia a faccia. Ho scoperto che era stato assassinato solo perché non si è presentato al lavoro per due giorni consecutivi. Ho chiamato la donna che lo teneva a pensione e mi ha detto cosa era successo. Ha detto che la polizia era passata a casa sua raccontandole che era una storia di droga. Ho saputo il nome dell'ispettore che si occupava del caso da lei. Gli ho telefonato, gli ho detto che ero il datore di lavoro di Ike e mi sono offerto di passare da lui per dargli tutte le informazioni che voleva. Non mi è sembrato proprio entusiasta. Mi ha richiamato un paio di settimane dopo, chiedendomi se volevo andare a identificare il corpo. 'Una formalità', parole sue, per chiudere il caso. Era ovvio che per lui questo non era altro che il solito omicidio del ghetto, l'ennesima pratica da aprire. La cosa che mi ha sorpreso quando sono andato, è stato vedere che lo stesso ispettore era negro. Non me ne ero accorto al telefono. Smith. Maurice Smith. Divisione Southeast. Lo conosce?»
Milo fece cenno di sì. «Perché aveva bisogno che lei identificasse il corpo?» «Nessuno sapeva se Ike avesse una famiglia e dove fosse.» «E la padrona di casa?» Dinwiddie scrollò ancora le spalle e lisciò i baffi. «È piuttosto vecchia. Forse non avrebbe retto lo choc. Perché non lo chiede a Smith?» «Cos'altro può dirci su Novato?» «Un ragazzo eccezionale. Sveglio, delizioso, imparava in fretta, non dava il minimo fastidio. Sempre disposto a fare più e oltre il suo dovere e, mi creda, oggi è raro.» «Come lo ha assunto?» «Ha risposto a un annuncio che avevo affisso sulla bacheca dell'ufficio di collocamento del Santa Monica College. Stava seguendo dei corsi lì, part time. Aveva bisogno di lavorare per mantenersi. L'etica del lavoro tutta americana che mio padre usava esaltare.» I suoi occhi grigi si strinsero. «Naturalmente non avrebbe mai assunto Ike.» «Ha mai avuto problemi facendolo lavorare qui? Visto il modo di pensare della gente del posto che lei ha descritto.» «Veramente no. La gente accetta i negri se occupano posizioni umili.» Milo chiese: «Ha ancora la sua domanda di assunzione in archivio?» «No.» «Ricorda il suo indirizzo?» «Venice. Una delle vie numerate, la quarta o la quinta, penso. Il nome della padrona di casa è Gruenberg.» Milo prese nota. «Ha per caso una foto?» Dinwiddie esitò, aprì un cassetto, tirò fuori una foto a colori e la passò a Milo. Allungai il collo e ci diedi un'occhiata. Una foto di gruppo. Dinwiddie, le due cassiere ora in negozio e un ragazzo alto, allampanato, color caffè, posavano davanti al negozio, salutando. Tutti indossavano grembiuli verdi. Ike Novato aveva capelli crespi marrone chiaro, tagliati corti, labbra piene, occhi a mandorla e un naso greco. La postura curvata di uno che si è sviluppato presto in altezza. Alto, mani goffe, sorriso timido. «È stata scattata lo scorso quattro luglio», disse Dinwiddie, «facciamo sempre una bella festa per i ragazzi del quartiere. Festeggiamenti sani e sicuri. Caramelle gratis e bibite invece di fuochi d'artificio. Uno dei genitori ha portato un apparecchio fotografico e l'ha scattata.» «Posso tenerla?» disse Milo.
Dinwiddie disse: «Penso di sì. Pensa ci sia qualche collegamento tra Ike e quanto è successo nella scuola?» «È quanto stiamo cercando di scoprire», disse Milo. «Non riesco a vederne alcuno», replicò Dinwiddie. «C'era qualche problema per il fatto che facesse lui le consegne?» dissi, «dovendo entrare nelle case della gente?» La mano destra di Dinwiddie si strinse a pugno. Mucchi di muscoli e nervi apparvero lungo il massiccio avambraccio. «All'inizio c'è stato qualche commento. Li ho ignorati e dopo un po' hanno smesso di farne. Anche un razzista incallito poteva vedere che ragazzo per bene era.» Strinse anche l'altra mano. «Un piccolo punto segnato a favore della giustizia e della verità, non è vero? Ma all'epoca pensavo di fare una cosa importante: volevo schierarmi. Poi va a Watts e si fa ammazzare. Mi dispiace ma ancora mi ci arrabbio. L'intera storia è deprimente.» «Poteva avere qualche altro motivo per recarsi a Watts?» disse Milo. «È quanto ha chiesto anche l'ispettore Smith. La via in cui è stato ucciso è un noto luogo di spaccio; per quale altro motivo poteva esserci andato se non per comprare o vendere droga? Ma ho ancora dei dubbi. Ike mi ha detto più di una volta quanto odiasse la droga, che aveva distrutto la sua gente. Forse era lì per acciuffare un pusher.» «La sua gente», disse Milo, «pensavo non avesse famiglia.» «Parlavo in modo generico, ispettore. La nazione nera. Ed è stato Smith a dirmi che non aveva famiglia. Ha detto di aver controllato le sue impronte digitali in tutti gli archivi: bambini scomparsi e altre cose del genere, e non è saltato fuori niente. Ha detto che Ike aveva chiesto la tessera della previdenza sociale solo qualche mese prima di lavorare per me. Non hanno nessuna registrazione di un suo precedente indirizzo. Ha detto che lo avrebbe fatto seppellire nel cimitero dei poveri se nessuno si fosse fatto avanti per reclamare il suo corpo.» Fremito. «Così l'ho portato a casa.» «Cosa le aveva raccontato il ragazzo delle sue origini?» «Non molto. Non avevamo lunghe conversazioni: era un rapporto di lavoro. Ho avuto l'impressione che avesse ricevuto un'istruzione perché parlava abbastanza bene. Ma non siamo mai entrati nei particolari. Qui si corre da mattino a sera.» «Non gli ha mai chiesto referenze?» «Veniva dal college; li selezionano lì. E la sua padrona di casa ha detto che era affidabile.» «Ha più parlato con la sua padrona di casa in seguito?»
«Solo una volta. Al telefono. Le ho chiesto se sapeva qualcosa della sua famiglia. Ma neanche lei sapeva nulla. Così mi sono occupato io di tutto. Ho fatto quel che ho potuto. Ho pensato che la cremazione sarebbe stata più... non so, più pulita. Dal punto di vista ecologico. È quanto voglio anche per me.» Sollevò le mani e le lasciò cadere sulla scrivania. «E questo è quanto posso dirvi, signori.» Milo disse: «Che tipo di relazione c'era tra lui e Holly?» «Relazione?» Dinwiddie fece delle smorfie. «Niente di romantico, se vuol arrivare a questo. Era a un altro livello rispetto a lei. Intellettualmente. Non c'era niente in comune fra i due.» «Ci hanno raccontato che era il suo ragazzo.» «E allora siete stati informati male», disse mangiandosi le parole Dinwiddie. «Ocean Heights è la capitale dei pettegolezzi: troppa gente meschina con troppo tempo a disposizione. Prenda tutte le cose che le dicono da queste parti con beneficio d'inventario.» «Ci hanno informati che Ike e Holly parlavano spesso insieme.» Dinwiddie portò la mano alla cravatta e l'allentò. «Ike mi ha detto che quando andava a fare le consegne a casa sua, di tanto in tanto conversavano. Ha detto che era sola. Si dispiaceva per lei e si fermava un po' per tirarla su di morale: era fatto così. Lei aveva cominciato a preparargli qualcosa, tè e biscotti. Cercava di trattenerlo. Il che era veramente insolito per Holly: non voleva mai parlare con nessuno. Ho detto a Ike che era una cosa inconsueta e l'ho messo in guardia.» «Da cosa?» «Dai rapporti sessuali. Che lei prendesse una cotta per lui. Lei sa le fantasie che la gente ha sui negri, tutte quelle sciocchezze sui loro attributi sessuali. Metti un bianco e un nero insieme e tutti penseranno che c'è qualcosa di sporco. Aggiungi il fatto che Holly non era normale dal punto di vista psicologico e il rischio di guai era certamente qualcosa di cui preoccuparsi. L'intenzione di Ike era solo esserle amico, nel modo in cui lo si è con un bambino che ha bisogno d'affetto. Ma vedevo che lei vi leggeva più dell'amicizia che lui intendeva offrirle. Poteva fare delle avance, essere rifiutata e gridare allo stupro. Così gli ho consigliato di essere prudente. Per il bene di tutti.» «L'ha ascoltata?» Dinwiddie scrollò la testa. «Pensava che mi preoccupassi inutilmente; mi ha assicurato che non c'era pericolo che succedesse qualcosa: Holly non
aveva mai cercato di sedurlo. Tutto ciò che voleva era l'amicizia. Cosa potevo rispondere? Che avrebbe dovuto evitarla? Perché era bianca? Che lezione ne avrebbe tratto?» Nessuno di noi rispose. Dinwiddie continuò a parlare, a bassa voce, lentamente, come inconsapevole della nostra presenza. «Una volta, mentre stavo tornando a casa da una consegna, sono passato davanti alla casa dei Burden e li ho visti. Ike teneva in mano una pila di libri e Holly lo guardava col naso all'insù, come fosse una specie di fratello maggiore. Lei e Howard non erano mai stati molto vicini. Ike sembrava molto più fraterno con lei di quanto non fosse mai stato Howard. Ricordo di aver pensato quanto fosse strano: una ragazza bianca e un ragazzo nero che comunicavano. A Ocean Heights. Avrebbe potuto essere un manifesto per la tolleranza. Poi ho pensato com'era stupido che una cosa così naturale fosse considerata strana.» Schiacciò un bottone della sua calcolatrice, studiò il numero che ne uscì come fosse un rompicapo. «Erano solo due bambini», disse, «che cercavano di affrontare la vita. E ora se ne sono andati entrambi. E io ho asparagi in offerta speciale.» 16 Ci accompagnò verso l'uscita. Il ritmo del lavoro era rallentato e la cassiera grassottella era libera. Sollevai una grossa mela gialla dalla sua carta crespata e gliela passai insieme a un biglietto da un dollaro. Prima che potesse aprire la cassa, Dinwiddie disse: «Lascia stare, Karen», e sfilò il dollaro dalle sue dita. Ridandomelo disse: «Omaggio della casa, dottor Delaware. Ed eccone una per lei, ispettore». «Non posso accettare regali», disse Milo, «grazie lo stesso.» «Allora eccone due per il dottor Delaware.» Sorridente, ma teso. Lo ringraziai e presi il frutto. Tenne la porta aperta per farci passare e restò in piedi sul marciapiede, vicino a un ficus a forma di fungo, seguendoci con lo sguardo mentre ci allontanavamo. Percorsi lentamente Abundancia Drive e arrivai a uno stop. C'era una piccola etichetta adesiva dorata su ogni mela. Milo staccò la sua, la lesse e disse: «Figi. Oh oh, guarda. Gauguin». «Quella era Tahiti.» «Non fare il pignolo», disse e diede un morso, masticò e inghiottì. «Un po' snob, ma profumo e consistenza sono buoni. Questa gente di Ocean
Heights sa vivere.» «Assaporiamo come è bella la vita», dissi. Sollevai la mia mela come per un brindisi e diedi un morso. Croccante e dolce, ma mi aspettavo da un momento all'altro di vedere divincolarsi un verme. Percorsi vie vuote; perfette per una cartolina illustrata. Allo stop successivo Milo disse: «Allora. Cosa pensi di El Droghero?» «Frustrato. Gli piace considerarsi un pesce fuor d'acqua, ma ha sensi di colpa perché mantiene le sue branchie umide.» «Conosco la sensazione», disse Milo e mi dispiacque l'insolenza del mio commento. Sapeva a cosa pensavo. Rise e mi diede uno schiaffetto sul braccio. «Non ti preoccupare, amico. È una posizione privilegiata essere fuori e guardar dentro.» Girai in Esperanza Drive e apparvero le magnolie tutte uguali. «A quanto pare l'amichetto non era un amichetto.» «Forse sì, forse no. Se questo Novato aveva una storia con Holly non l'avrebbe raccontato certo al suo boss.» «È vero», dissi, «così tutto quel che sappiamo su di lui è che ha chiacchierato con Holly qualche volta. E che è morto. Che in termini di, scusa l'espressione, conoscenza di Holly può essere rilevante. Se Ike significava qualcosa per lei, la sua morte può averla sconvolta.» «Un trauma porta a giocare col fucile?» «Certo. La perdita può essere stata particolarmente traumatica per una con la sua storia: la morte prematura di sua madre. Si è isolata dal mondo. Ritratta. Ho lavorato con pazienti che hanno perso un genitore da bambini e non ne sono più usciti. Quando non lo tiri fuori, il dolore si sedimenta e imputridisce. Smetti di credere, impari a odiare il mondo. Holly era sola. Se Ike era veramente la prima persona che aveva cercato di comunicare con lei, avrebbe potuto facilmente sostituirsi alla figura di un genitore: Dinwiddie ha detto che lo guardava come fosse un fratello maggiore. Diciamo che l'ha fatta credere ancora, l'ha tirata fuori dal suo guscio. Poi muore. Di morte violenta. E fa liberare tutto il marcio che si è depositato in lei in quindici anni. Esplode. Fin qui ha senso?» «Come qualsiasi altra ipotesi», disse, «lo sai meglio di me.» Superai un altro blocco di giardinetti a prato. Fuori c'era qualche persona, che portava a spasso il cane o lavava la macchina. Pensai alla macchina di Linda, ricordai la nebbia e il terrore che erano scesi su Ocean Heights la notte precedente. I vetri rotti, la croce uncinata.
Quali altri demoni si nascondevano, acquattati e ridacchianti, dietro quelle finestre dai pannelli a losanga? Milo fissava fuori dal finestrino e masticava rumorosamente. Attenzione di poliziotto, o forza dell'abitudine. Alcune immagini affiorarono nella mia mente. Ripugnanti possibilità. Quando si girò un attimo, dissi: «E se Holly e Ike hanno fatto più che chiacchierare? Se sono scivolati in conversazioni filosofiche: il mondo diventato marcio, l'ingiustizia, la povertà, il razzismo. Considerata la vita protetta di Holly, le esperienze di uno come Ike possono averle aperto gli occhi, possono averla veramente cambiata. Questo è quanto è accaduto negli anni Sessanta quando i ragazzi bianchi delle periferie ricche sono andati all'università e hanno incontrato per la prima volta studenti delle minoranze. Radicalizzazione immediata. Qualcun altro avrebbe potuto incanalarlo in modo costruttivo: lavoro volontario, altruismo. Ma Holly era vulnerabile, a causa della solitudine, della rabbia, della sfiducia. È il classico profilo dell'assassino solitario, Milo. Avrebbe potuto vedersi come la vendicatrice di Ike. Trionfare su Massengil, un simbolo del razzismo, poteva sembrarle nobile». «Trionfare», disse Milo, «suona un po' medievale. Forse voleva solo sparare ai bambini.» «Per quale motivo avrebbe dovuto farlo?» dissi. «Non abbiamo segni che indichino una sua insofferenza alla loro presenza.» «Ascolta, Alex. Stai parlando di una probabile pazza. Chissà cosa in realtà le passava in quella testa matta? Chissà quali erano le motivazioni che l'hanno spinta ad agire? E anche se riesci a trovarne, cosa sai veramente di lei?» «Quasi niente», dissi, sentendomi all'improvviso uno di quegli esperti che pontificano in TV. Uscii da Ocean Heights, ritornai nella strada ventosa in fondo al Canyon che porta a Sunset. Milo disse: «Non tenere il broncio» e continuò a guardare dal finestrino. Sul boulevard dissi: «Prendi in considerazione altre domande, o hai chiuso bottega per oggi, poliziotto?» «Domande a proposito di che?» «L'assassinio di Novato. Il modo in cui ne ha parlato Dinwiddie. Non c'è niente che ti incuriosisce?» Si girò verso di me. «Cos'è che dovrebbe incuriosirmi?» «Sembrava che Dinwiddie mettesse molta ... passione nel parlare di Ike.
È diventato veramente teso, emotivo. E mi è sembrato decisamente sulla difensiva quando ha negato che Ike e Holly fossero amanti. Poteva essere gelosia. Forse c'era qualcosa di più del rapporto di lavoro tra lui e Ike.» Milo chiuse gli occhi e fece una breve risata stanca. «Succede», disse con un sorriso perfido. Poi passò la mano sulla faccia. «Sì, l'ho pensato anch'io: faceva la parte della persona molto onesta. Ma se c'era una relazione sessuale tra loro, non pensi che avrebbe fatto molta attenzione a non rivelarcelo? Voglio dire, quante mele delle isole Figi pensi venderebbe se la brava gente di Ocean Heights sospettasse una cosa del genere?» «È vero», dissi, «allora forse la sua emotività era il risultato, come ha detto lui stesso, del senso di colpa di un progressista.» 17 Il messaggio della segreteria telefonica di Burden consisteva in dieci secondi di musica da camera seguiti da un veloce «lasciate il vostro messaggio» e tre bip. «Sono Alex Dela...» non riuscii a finire. Clic. «Salve, dottore. Cosa ha deciso?» «Sono disposto a fare il tentativo, signor Burden.» «Quando?» «Ho tempo oggi.» «Dottore, il tempo non mi manca. Dica dove e quando.» «All'una, a casa sua.» «Perfetto.» Strana parola date le circostanze. Mi diede un indirizzo che conoscevo già, seguito da indicazioni molto dettagliate relative al percorso da fare per arrivarci. «All'una», disse, «non vedo l'ora di incontrarla.» Una casa non molto curata. Mi aspettavo qualcosa di manifestamente deviante, sciatto, al 1723 di Jubilo Drive. Ma a prima vista la casa era come le altre dell'isolato. Una villetta a un piano, pareti rivestite di alluminio, ma che sembravano di legno e dipinte di un verde grìgio da mare in tempesta. I telai delle finestre e la porta d'ingresso erano dello stesso grigio: il primo segno di devianza, un'asserzione di monocromatismo se confrontata con gli accurati schemi di colori contrastanti delle case vicine. Parcheggiai e cominciai a notare altre trasgressioni. Il piccolo prato, fal-
ciato dai contorni precisi, ma di un verde un po' più chiaro rispetto allo smeraldo degli altri prati ben annaffiati dell'isolato. Qualche piccola macchia senza erba che rischiava di innalzare la trasgressione al livello di un grave reato. Niente aiuole. Solo una fascia di ginepro rampicante divideva il prato dalla casa. Niente alberi: nemmeno uno di quegli agrumi nani, avocados o terzetti di betulle che ingentilivano i prati delle altre case. Il carattere peculiare dell'insieme: austero ma per niente originale. Ocean Heights si offendeva per poco. La porta d'ingresso era stata lasciata leggermente socchiusa. Suonai lo stesso il campanello, aspettai, poi entrai in un ingresso con un tappeto rotondo finto persiano. Davanti a me c'era un soggiorno compatto, squadrato, con le pareti bianche, il soffitto piatto, orlato da una fascia, sporgente e molto ornata, di una cornice a corona con decorazioni ovoidali. La moquette era di lana verde, senza macchie, ma sottile come il prato, e sembrava avere trent'anni. I mobili risalivano alla stessa epoca, il legno presentava macchie scure, rossicce, le sedie e il divano imbottiti erano ricoperti da una stoffa stampata con un motivo di crisantemi, molto sgargiante, sgualcita sui bordi e rivestita da un telo di plastica trasparente, così aderente da sembrare un preservativo. Tutto quanto era ben assortito, ogni pezzo sistemato con la precisione di una sala d'esposizione. Un ensemble. Ero sicuro che il tutto era stato comprato in un'unica occasione. «C'è nessuno?» dissi. Un caminetto di mattoni dipinto di bianco circondava un focolare troppo pulito per essere stato usato anche una sola volta. Non c'erano parafuoco, alari, attizzatoi. Il piano del caminetto era nudo come le pareti. Pareti bianche e vuote come fogli giganti di un taccuino mai usato. L'approccio tabula rasa alla vita domestica... Oltre il soggiorno c'era una sala da pranzo più piccola di circa un terzo. Modanatura merlata. Ancora moquette verde, ancora pareti spoglie. Set di vetrina e credenza con rifiniture in noce americano. Un paio di piatti ricordo di ceramica in uno dei ripiani della credenza. La grande diga. Disneyland. Il resto dei ripiani era vuoto. Un tavolo ovale circondato da otto sedie, coperte anche queste di plastica e con sopra un cuscino, occupavano gran parte dello spazio. Un passaggio con porte scorrevoli di legno era stato aperto in una parete dietro il lato breve del tavolo e offriva la vista di una cucina gialla. Mi avvicinai per curiosare. Un frigorifero vecchio di trent'anni e un for-
nello rivestito di porcellana gialla. Nessun promemoria attaccato sul frigo. Nessun odore di cucina. C'era un passaggio che conduceva sul retro della casa. Sulla soglia era attaccato un biglietto: DOTTOR D.: SONO SUL RETRO. M.B. Oltre il biglietto un corridoio buio con delle porte chiuse ai lati. La superficie bianca gradualmente diventava grigia. Mi avvicinai, distinsi una musica. Un quartetto d'archi. Haydn. Mi incamminai in direzione della musica, seguii il corridoio che girava a sinistra e arrivai a una porta. La musica era talmente forte e chiara da sembrare dal vivo. Girai la maniglia, entrai in una grande stanza dal soffitto a punta, con assi e travi dipinte di bianco. Pavimento di legno duro, scuro. Tre pareti rivestite da pannelli chiari di betulla; la quarta era costituita da una serie di porte di vetro scorrevoli che davano su un piccolo cortile occupato quasi per intero da un vialetto di cemento. Un'Honda color grigio metallizzato si trovava davanti alla porta in lamiera ondulata di un garage. La parete di vetro dava l'impressione a chi era nella stanza di essere allo stesso tempo dentro e fuori. Quella che gli agenti immobiliari chiamavano un «lanai», nei tempi in cui cercavano di vendere sogni tropicali. Nell'epoca della transitorietà e della crisi della coppia era diventata la stanza di famiglia. La stanza di famiglia dei Burden era grande, fredda e priva di mobilio. Priva di qualsiasi cosa, se si esclude un impianto stereo che valeva milioni, sistemato su un banco contro una delle pareti di betulla. Casse nero opaco, quadri strumenti in vetro nero. Quadranti o display digitali che lampeggiavano di luci verdi, gialle, rosse e blu fiamma di gas. Onde sinusoidali di oscilloscopio. Colonne fluttuanti di laser a liquido. Puntini luminosi che rimbalzavano. Amplificatori e preamplificatori, sintonizzatori, equalizzatori grafici, circuiti di potenziamento dei bassi, chiarificatori di acuti, filtri acustici, registratori a bobina, un paio di registratori a cassette, un paio di giradischi, un lettore compact disc, un giradischi laser. Tutto collegato con un groviglio di cavi a colonne di altoparlanti, con pannello frontale in tessuto, disposte alla Stonehenge. Otto obelischi sparsi per tutta la stanza, abbastanza grandi da diffondere la musica di un gruppo heavy metal sulle gradinate di uno stadio da baseball. Un quartetto d'archi fluiva a volume medio. Tre quarti di un quartetto. Le parti dei due violini e la viola. Mahlon Burden era seduto su uno sgabello al centro della stanza stringendo a sé un violoncello. Suonando a orecchio, occhi chiusi, dondolando-
si a tempo, labbra sottili increspate come per un bacio. Indossava una camicia bianca, pantaloni neri e scarpe da tennis di tela bianca. Le maniche della camicia erano arrotolate negligentemente ai gomiti. Un'ispida barba grigia gli punteggiava il mento e i capelli erano arruffati. Sembrava non si fosse accorto della mia presenza, continuava a suonare e le sue dita si spostavano lungo la tastiera d'ebano, premendo e vibrando. Faceva scivolare l'arco sulle corde come in una leggera carezza. Controllava il volume con maestria tale da fondersi perfettamente con i suoni registrati che provenivano dagli altoparlanti. L'uomo e la macchina. L'uomo come una macchina. Alle mie orecchie sembrava buona, da orchestra sinfonica o quasi. Ma ero infastidito dalla sterile artificiosità del tutto. Ero qui per esumare, non per ascoltare una serenata. Ma non lo interruppi, aspettai che facesse un errore: qualche imperfezione nel tempo o una nota incerta che potesse giustificare un'intrusione. Continuò a suonare alla perfezione. Resistetti un intero movimento. Quando il pezzo finì, continuò a restare a occhi chiusi, ma piegò il braccio che sosteneva l'arco e respirò profondamente. Prima che potessi dire qualcosa, iniziò il movimento successivo, che si apriva con un arpeggio del primo violino. Burden sorrise come se incontrasse un vecchio amico e preparò l'arco. «Signor Burden», dissi. Aprì gli occhi. «Molto bello», aggiunsi. Mi rivolse uno sguardo privo di espressione e contrasse la faccia. Si unì il secondo violino. Poi la viola. Guardò indietro verso le colonne, come se fissare quelle superfici di tessuto potesse in qualche modo impedire l'inevitabile, l'interruzione di ciò che aveva iniziato. Arrivò il momento dell'entrata del violoncello. La musica fluì, squisita ma incompleta. Scomposta. Come una donna bellissima priva di coscienza. Burden diede un altro sguardo dispiaciuto, poi si alzò, ripose prima il violoncello, poi l'arco, nella custodia. Da una tasca dei pantaloni uscì un telecomando nero. Un solo tasto schiacciato. Chiusura in dissolvenza. Il silenzio privò la stanza di qualcosa di più della musica. Notai per la prima volta che i pannelli di betulla erano solo compensato stampato. I segni d'usura sul parquet risaltavano come sgradevoli cicatrici fibrose. Le
porte di vetro scorrevoli non erano state pulite da molto tempo. Attraverso i vetri sporchi, lo spettacolo del cemento che soffocava la poca erba era deprimente. Una stanza di famiglia senza famiglia. «Suono regolarmente tutti i giorni. Mi concentro sui pezzi stimolanti dal punto di vista tecnico.» «Suona molto bene.» Un cenno di assenso. «C'è stato un tempo in cui ho avuto l'ambizione di guadagnarmi da vivere suonando. Ma non si guadagna molto se non si è fortunati. E io non ho mai contato sulla fortuna.» Nelle sue parole c'era più orgoglio che amarezza. Si avvicinò all'impianto stereo. «Penso che le cose vadano fatte con sistematicità, dottor Delaware. In realtà questo è il mio principale talento. Non sono un innovatore, ma so mettere le cose insieme. Creare dei sistemi. E usarli in modo ottimale.» Accarezzò il suo impianto e cominciò a tenere una conferenza su tutti i suoi componenti. Aspettare la fine delle tecniche di dilatazione era uno dei miei talenti. Restai in piedi ad ascoltare. Quando ebbe finito, disse accarezzando un quadrante dal vetro scuro: «Penso che lei voglia sapere qualcosa sul nostro passato: sul passato di Holly». «Sarebbe un buon inizio.» «Venga con me.» Percorse il corridoio. Aprì la prima porta a sinistra ed entrammo in una stanza dalle pareti bianche con una sola finestra coperta da tende grigie. Le tende erano tirate. La luce proveniva da una lampada alogena affusolata sistemata in un angolo. La moquette era un proseguimento di quella verde che avevo visto nel soggiorno. Dalla dimensione e dalla posizione immaginai che doveva essere stata la camera da letto principale. L'aveva trasformata in ufficio: una parete coperta da un armadio guardaroba con le porte a specchio scorrevoli e, contro le altre tre, una serie di armadietti di formica sistemati a U, con sopra degli scaffali, e in mezzo un tavolo da lavoro di formica nera. Gli scaffali erano pieni di scatole di floppy disc, manuali di informatica, di software, ricambi di hard-disc, cancelleria, materiale d'ufficio, e libri, soprattutto opere di consultazione. Un'intera parete era dedicata agli annuari telefonici: erano centinaia. Elenchi comuni, di sole imprese, uno di «codici invertiti», sommari di CAP, e un volume col seguente titolo scritto a penna: CAP: SOT-
TOANALISI. Le pareti dietro il piano della scrivania erano solcate da cavi elettrici: una striscia continua di prese di corrente, ognuna delle quali collegata a qualcosa da robusti cavi neri: tre PC, ognuno con accanto una sedia da ufficio in acciaio lucido e plastica nera, un sistema di alimentazione di riserva, stampante laser e modem. Una decina di apparecchi telefonici multilinee, cinque dei quali collegati con modem e fax, gli altri a segreterie telefoniche; un trio di telefoni automatici; un'enorme fotocopiatrice, di cui era visibile solo la metà superiore del massiccio telaio, che emergeva da uno degli armadietti; una fotocopiatrice da scrivania più piccola, un'etichettatrice, un'affrancatrice elettronica. Altre apparecchiature che non riuscivo a identificare. La stanza era tutto un ronzare e lampeggiare. Telefoni che suonavano due volte prima che rispondessero le segreterie telefoniche. Fax che emettevano fogli di carta a intervalli irregolari e ogni foglio cadeva con precisione in un raccoglitore. Sui monitor dei computer apparivano file di numeri e lettere gialli in gruppi di quattro o cinque: una serie incomprensibile di codici alfanumerici che avanzavano sullo schermo con piccoli spostamenti, come macchine in un ingorgo stradale. Spasmodici movimenti elettromagnetici che si affannavano a voler simulare la vita. Burden appariva orgoglioso, di un orgoglio paterno. I suoi vestiti, una tuta mimetica bianca e nera, si intonavano ai colori della stanza. Era questo il posto in cui scompariva. «Il mio centro nervoso», disse, «il fulcro delle mie attività.» «Indirizzari?» Fece cenno di sì. «E anche consulenza di marketing per le altre imprese: individuazione di gruppi mirati. Datemi il codice d'avviamento postale e io vi dirò un mare di cose di una persona. Datemi un indirizzo e io farò molto di più: predirò una tendenza. Sono partito di lì per fare tutto questo.» Aprì un cassetto, prese un libro in brossura e me lo passò. Pesante. Lucido. Un titolo in lettere tipo computer color giallo vivo: New Frontiers Technology, Ltd., su fondo nero ebano. Sotto il titolo, un uomo dai capelli scuri, ostentatamente muscoloso, nudo dalla cintola in su e con addosso un paio di pantaloni Spandex, montava un attrezzo per ginnastica fornito di contatore. Dall'attrezzo partivano delle corde collegate a una cintura gialla e a una fascia per capelli dello stesso colore. I suoi deltoidi, bicipiti e pettorali erano ipertrofici: sculture di car-
ne. Le vene gonfie come vermi che scavavano cunicoli a fior di pelle; ogni gocciolina di sudore risaltava come un bassorilievo vitreo. Il suo sorriso faceva capire che per lui il dolore era il massimo stato di eccitazione. Dietro di lui, una donna bionda ugualmente muscolosa, in un body giallo, anche lei agganciata alla cinta e alla fascia, creava una sagoma confusa di maratoneta su una macchina da sci di fondo, non molto diversa da quella che avevo a casa. Le corde e quella specie di copricapo li facevano sembrare due condannati alla sedia elettrica. Girai la pagina. Catalogo di ordinazioni per corrispondenza. Una di quelle pubblicità dirette ai giovani rampanti che sembra arrivare con la posta di tutti i giorni. Ricordai di averlo buttato via. «Lei era nella lista speciale degli psicologi.» Avevo comprato la mia macchina da sci di fondo ordinandola da un catalogo. Ma non era questo... Burden mi stava fissando, più orgoglioso che mai. In attesa. Sapevo cosa si aspettava da me. Perché no? Faceva parte del lavoro. Esaminai il catalogo. L'interno della copertina era occupato da una lettera di due paragrafi sopra la foto a colori di un bell'uomo, dalle spalle larghe, di poco più di trent'anni. Capelli ondulati, baffi spioventi e barba corta: l'uomo della Schweppes in gioventù. Portava una camicia rosa dal colletto perfettamente stirato, un foulard blu e bretelle di cuoio e posava in un ambiente esclusivo: una stanza con rivestimento di m.ogano, sedie di pelle, scrivania intagliata col piano di cuoio. Sulla scrivania c'erano un'antica clessidra, strumenti nautici di ottone, una lanterna dai vetri azzurri e un calamaio di vetro intagliato. Ritratti a olio pendevano sullo sfondo. Si poteva sentire l'odore del sigillo di ceralacca. Sotto la lettera c'era una firma in penna stilografica, elaborata e illeggibile. La legenda della foto lo identificava come il signor Gregory Graff, consulente amministrativo della New Frontiers Technology, Ltd, con sede a Greenwich, nel Connecticut. La lettera era breve, ma amichevole e un po' sermoneggiante. Esaltava le virtù delle vitamine, dell'esercizio fisico, di una dieta equilibrata, dell'autodifesa e del rilassamento tramite meditazione. Ciò che Graff chiamava: «la realizzazione dello stile di vita della nuova era per l'uomo e la donna combattivi di oggi». Il secondo paragrafo era un lancio di nuovi prodotti per il mese corrente, offerti con uno sconto speciale ai primi clienti. La pagina di fronte era un modulo di ordinazione con indicati 800 codici di articoli e l'assicurazione
che venditori specializzati avrebbero risposto alle chiamate ventiquattr'ore su ventiquattro. Il catalogo era diviso in sezioni precedute da pagine azzurre riportanti l'indice. Lo aprii sulla prima. «Il corpo e l'anima.» Un assortimento di aggeggi per body building che sarebbero stati l'orgoglio dell'inquisizione, i cui effetti erano mostrati dalla coppia scolpita in copertina, seguiti dai toccasana da nirvana per il rilassamento dopo l'esaurimento: unguenti, purificatori per l'aria, emettitori di onde, simulatori di rumore bianco, piccole scatole nere che promettevano di trasformare l'atmosfera in ogni casa rendendola adatta a stimolare «meditazione a onde di particelle alfa». «Una campana dell'armonia tibetana» elettrica, che pretendeva di riprodurne una creata centinaia di anni prima in Himalaya per catturare le armonie superiori sviluppate dai venti di alta quota. La sezione due era intitolata «Bellezza ed equilibrio». Cosmetici naturali, biscotti e caramelle ricchi di fibre, bottigliette gialle di betacarotene in polvere, capsule di lecitina, polline di api, pastiglie allo zinco, cristalli depuratori per l'acqua, composti di aminoacidi, un nuovo prodotto chiamato «NiteAfter 100» che avrebbe dovuto porre rimedio ai danni psicologici causati dai maggiori pericoli della vita di oggi: «l'inquinamento, la sovralimentazione e gli eccessi». Pillole per far dormire, pillole per svegliarsi allegramente, per aumentare «il potere personale nelle riunioni e nei pranzi di lavoro». Un preparato minerale che assicurava di «ristabilire l'omeostasi psicologica e accrescere la tranquillità personale», presumibilmente nelle soste in bagno. Poi venne «Stile e sostanza». Abbigliamento e accessori in pelli esotiche e acciaio lucido. Una «cartella intelligente» programmabile, che si apriva e si chiudeva da sola; equipaggiamenti pseudo antichi «concepiti per il XXI secolo e oltre»; giubbotti da aviatore antistress; completi autoriscaldanti per una sauna personale, fatti con nailon, lattice, teflon, imbottiti di piumino, nappa e cachemire. Scorsi il resto in fretta e stavo per chiudere il catalogo quando il titolo dell'ultima sezione catturò il mio sguardo: «Sani e salvi». Un saggio sulla paranoia cosciente. Dispositivi per l'intercettazione telefonica, detector per dispositivi di intercettazione, macchine fotografiche e cannocchiali ai raggi infrarossi per «trasformare la notte dei vostri nemici nel vostro giorno». Dispositivo di blocco per apparecchi telefonici convenzionali. Telefoni in collegamento diretto sulle linee preferenziali («tieni sotto controllo la compagnia dei telefoni. Parla solo quando vuoi e con chi
vuoi»). Macchine della verità mimetizzate da transistor che promettono di «decodificare e di digitalizzare i significati doppi o multipli della comunicazione della gente». Modificatori della voce, latrati di cani da aggressione azionati dal rumore dei passi («scelta fra 345D. dobermann, 345S. pastore alsaziano, o 345R. rottweiler»). Trituratore di fogli ultrasottile che entra in una borsa portadocumenti. Macchine fotografiche che sembrano penne. Radio che sembrano penne. Pacchetti di «alimenti di sopravvivenza» disidratati. Una ripresa dei cristalli depuratori per l'acqua. Quando arrivai al coltello dell'esercito svizzero con il manico in grafite e con una miniattrezzatura chirurgica, chiusi il catalogo. «Molto interessante.» Lo restituii a Burden. Scrollò la testa. «Lo tenga, dottore. Un mio omaggio. Lei lo ha ricevuto per cinque mesi, ma non ha ancora ordinato niente. Forse un esame più attento le farà cambiare idea.» Il catalogo finì nella tasca della mia giacca. «Una collezione abbastanza eclettica», dissi. Rispose con l'esitazione di un toro di rodeo liberato dal box. «Il frutto del mio ingegno. Ero nell'esercito subito dopo la Corea. Crittografia, decifrazione e tecnologia informatica: l'infanzia dell'era del computer. Dopo il congedo andai a Washington, Columbia, e lavorai per l'ufficio demografico. Stavamo appena iniziando a informatizzare, i vecchi tempi degli sferraglianti elaboratori a prestazioni elevate e delle schede IBM. È lì che ho incontrato mia moglie. Era una donna molto intelligente. Dottorato in matematica. Io sono un autodidatta, non ho mai concluso la scuola secondaria, ma finii col diventare il suo formatore. Tutti quegli anni a lavorare con campioni statistici e demografici: abbiamo cominciato a farci un'idea sui mutamenti che si verificavano a livello di massa, i trend, come le persone di diverse regioni o strati sociali differiscono nei modelli di acquisto. La possibilità di fare ipotesi partendo dalle variabili residenziali. Quando poi sono arrivati i codici di avviamento postale è stato meraviglioso: una tale semplificazione. E ora i sottocodici rendono la cosa ancor più facile.» Si sedette su una delle sedie girevoli, la ruotò un po' e tornò indietro. «La bellezza dell'era informatica, dottore, è che le cose possono essere fatte con la massima semplicità. Quando lasciai il pubblico impiego, adattai le mie conoscenze al mondo degli affari. Le mie eccellenti capacità nello scrivere a macchina unite a quelle di programmatore fanno della mia persona un'impresa: non ho neanche bisogno di una segretaria. Solo qual-
che linea a tariffa ridotta, alcuni operatori che lavorano a casa, e alcuni tipografi con contratti privati sparsi qua e là per il paese. Mi collego con loro tramite modem. Non ci sono costi di inventario o di magazzinaggio, perché non c'è affatto un inventario. Il consumatore riceve il catalogo e fa le sue scelte. Gli operatori prendono l'ordine e lo comunicano immediatamente ai produttori. I produttori spediscono l'articolo direttamente al consumatore. Su conferma dell'ordinativo, al produttore viene emessa una fattura per l'utile sulla vendita: il compenso per il mio servizio.» «Un intermediario elettronico.» «Sì. Esattamente. L'avanzato stato della tecnologia mi permette di essere estremamente flessibile. Posso aggiungere o cancellare articoli in base all'andamento delle vendite, modificare i modelli, ed effettuare consegne in modo preciso e puntuale nel giro di ventiquattr'ore. Ho persino iniziato a sperimentare un sistema automatico di ricezione degli ordini: messaggi preregistrati che alternano la voce a pause attivabili: il registratore aspetta che il cliente abbia finito di parlare, poi risponde in un inglese adeguato, corretto e senza inflessioni regionali. Così forse un giorno non avrò affatto bisogno di personale. La perfetta industria domestica.» «Chi è Graff?» «Un modello. L'ho trovato tramite un'agenzia newyorchese. Se ci fa caso viene indicato come consulente amministrativo, un titolo che non significa niente dal punto di vista legale. Io sono il presidente e il direttore amministrativo. Ho esaminato centinaia di foto prima di sceglierlo. Le mie ricerche di mercato mi hanno indicato esattamente il tipo di persona di cui avevo bisogno: vitalità giovanile unita ad autorevolezza: una barba funziona molto bene per la seconda, se è corta e ben curata. I baffi denotano generosità. Il cognome Graff è stato scelto perché il consumatore medio rispetta qualsiasi cosa di sapore teutonico: lo vede come efficiente, intelligente e affidabile. Ma fino a un certo punto. Un nome come Helmut o Wilhelm non avrebbe funzionato. Troppo tedesco. Troppo straniero. 'Gregory' gode di molta simpatia. È americano fino in fondo. Greg. È uno dei ragazzi con antenati teutonici. Un grande atleta, il ragazzo più sveglio dell'isolato, ma uno che ti piace. La mia ricerca mostra che molte persone pensano abbia una laurea: di solito in legge o in economia e commercio. La camicia comunica stabilità; la cravatta, ricchezza; e le bretelle denotano gusto, creatività. È un uomo a cui credi istintivamente. Aggressivo e volitivo ma non ostile, fidato ma non noioso. E impegnato. Altruista. L'altruismo è importante per il mio target di consumatori: si sentono caritatevoli.
Due volte all'anno do loro la possibilità di devolvere l'un per cento dell'ammontare totale dei loro acquisti a una selezione di istituti di beneficenza. Gregory è un eccellente procacciatore di fondi. La gente è pronta a sborsare molti soldi. Sto pensando di dargli una rappresentanza.» «Sembra proprio ben congegnato.» «Oh, sì. E molto redditizio.» Pronunciò con enfasi l'ultima parola per farmi capire che parlava di milioni di dollari. Un magnate dell'industria domestica. Quell'immagine non andava molto d'accordo con la moquette consumata, i mobili di trent'anni prima, l'Honda sporca. Ma avevo incontrato altri ricchi che non si preoccupavano di mostrarlo. O avevano paura di farlo e lo nascondevano dietro una facciata di persone umili. Proprio in quel momento stava nascondendo qualcos'altro. «Parliamo di Holly», dissi. Sembrò sorpreso. «Holly. Naturalmente. Ha bisogno di sapere nient'altro su di me?» Quel narcisismo senza veli mi sconcertò. Avevo pensato che il suo egocentrismo fosse il mezzo per evitare domande penose. Adesso non ne ero più sicuro. «Sono sicuro di avere molte domande da fare su tutti i membri della sua famiglia, signor Burden. Ma adesso vorrei vedere la stanza di Holly.» «La sua camera. È giusto. Certamente.» Lasciammo l'ufficio. Aprì una porta dall'altra parte del corridoio. Ancora pareti bianche. Due finestre, coperte da tende veneziane. Un sottile materasso giaceva sul pavimento accanto al telaio di un letto. Il materasso era stato aperto in più punti, la fodera era stata strappata ed erano stati staccati pezzi di gommapiuma. Una massa sgualcita di lenzuola bianche era arrotolata in un angolo. Vicino, in mezzo a un mucchio di pezzetti di gommapiuma, c'era un cuscino anch'esso tagliato in più punti. L'unico altro mobile era un cassettone di truciolare a tre cassetti con uno specchio ovale. Sullo specchio c'erano impronte di dita. I cassetti erano aperti. Dentro c'era qualche capo d'abbigliamento: biancheria intima di cotone e bluse dozzinali. Altri indumenti erano stati tolti e ammassati sul pavimento. Sul cassettone era appoggiata una radiosveglia di plastica. Il pannello posteriore era stato rimosso ed era stata sventrata. I pezzi erano sparsi sul piano. «Un regalino della polizia», disse Burden. Cercai di guardare oltre il disordine e vidi il vuoto che era preesistito all'intrusione della polizia. «Cos'hanno portato via?»
«Assolutamente niente. Cercavano diari, qualche testimonianza scritta, ma lei non ne teneva mai. Continuavo a ripeterglielo, ma sono venuti qui e hanno buttato per aria tutto.» «Le hanno detto che poteva pulire la stanza?» Giocherellò con gli occhiali. «Non lo so. Penso di sì.» Si chinò e raccolse un pezzo di gommapiuma dal pavimento. Lo fece rotolare fra le dita e si tirò su un po'. «Holly si occupava della pulizia della casa. Due volte all'anno chiamavo un'impresa, ma normalmente ci pensava lei. Le piaceva ed era molto brava. Mi aspetto ancora che da un momento all'altro... entri dentro con un panno e cominci a riassettare.» La sua voce si incrinò. Si incamminò in fretta verso la porta. «La prego di scusarmi. Stia tutto il tempo che vuole.» Lo lasciai andare e rivolsi la mia attenzione alla stanza, cercando di rievocare come doveva essere stato quel posto con Holly viva. Non c'era molto su cui lavorare. Quelle pareti bianche: niente chiodi o mensole, non un singolo foro o riquadri anneriti. Le ragazze in genere usano le pareti come un foglio di quaderno. Holly non aveva mai appeso una fotografia, mai attaccato una bandiera, mai addolcito la sua vita con la ribellione di un poster rock o le immagini di un calendario. Cosa aveva sognato? Continuai a cercare una qualche impronta personale, ma non ne trovai. La stanza sembrava una cella, volutamente spoglia. Il padre si era reso conto che non era normale? Ricordai la stanza sul retro, nuda, se si escludono i suoi giocattoli. Il suo rifugio freddo come un ghiacciaio. Il vuoto era uno stile di famiglia? La figlia come donna di servizio, serva del magnate dell'industria domestica? Cominciai a provare un senso di soffocamento. L'aveva avvertito anche lei? Vivendo qui, dormendo qui, sentendo la sua vita andare alla deriva? Ike, chiunque si fosse interessato a lei, avesse trovato il tempo di farlo, sarebbe stato visto come un liberatore. Un principe azzurro. In fondo anche la morte poteva sembrarle una liberazione. Nonostante quello che era diventata, malgrado quello che aveva fatto, provai compassione per lei. Sentii la voce di Milo in testa. «Stai diventando sentimentale, amico?» Ma volevo credere che, se Milo fosse venuto in questo posto, avrebbe
anche lui provato qualcosa. La porta del guardaroba era parzialmente aperta. La aprii e guardai dentro. Il veleno/profumo di canfora. Altri indumenti, non molti: soprattutto vestiti a maglia sportivi, magliette, maglie di lana, un paio di giacche. Le tasche erano state tagliate, le fodere tagliuzzate. Colori sbiaditi. Un altro mucchio di vestiti per terra. Di cattiva qualità. La figlia di un magnate dell'industria. Sopra la barra appendiabiti c'erano due scaffali. Su quello più in basso si trovavano due giochi: Candy Land e Scale e serpenti. Giochi da età prescolare. Aveva smesso di giocare a sei anni? Oltre a questo niente. Non c'erano libri, riviste per ragazzi, animali di peluche o tazze con scritte frasi sciocche. Non una di quelle campane di plastica trasparente dentro cui sembra nevicare quando le capovolgi. Chiusi la porta del guardaroba e mi girai verso la stanza saccheggiata, cercai di immaginarmela prima dell'arrivo della polizia. I danni la facevano apparire più umana. Lettino e cassettone. Pareti nude. Una radio. La parola cella cominciò a lampeggiare. Ma avevo visto celle più accoglienti. Questa era peggiore. Punitiva. Cella di isolamento. Dovevo uscire di lì. 18 Burden era tornato nel suo ufficio, seduto davanti a uno dei computer. Spinsi una delle sedie girevoli al centro della stanza e mi sedetti. Batté qualcosa senza guardare la tastiera per qualche momento prima di alzare lo sguardo. Occhi asciutti. «Allora. Qual è il passo successivo, dottore?» «Non mi sembra che Holly avesse molti interessi.» Sorrise. «Ah, la stanza. Lei sta pensando che la isolavo. Per qualche secondo fine.» Era esattamente quanto avevo pensato, ma dissi: «No. Sto solo cercando di farmi un'idea su come viveva». «Come viveva. Non era come potrebbe pensare, mi creda. Anche se capisco che può essere logico pensarlo. Ho fatto le mie letture sulla psicologia infantile. Perciò conosco tutte le teorie sul maltrattamento minorile. I-
solare la vittima designata in modo da massimizzare il controllo. Ma questo non aveva niente a che fare con noi. Neanche lontanamente. Ciò non significa che eravamo persone socievoli. Sia come famiglia, sia individualmente. I nostri divertimenti sono sempre stati solitari. Lettura. Buona musica. Holly amava la musica. L'ho sempre incoraggiata a conversare su fatti d'attualità, sui vari dibattiti culturali. Howard, il mio primogenito, vi si è appassionato; Holly no. Ma ho sempre cercato di procurarle tutte quelle cose che sembrano piacere agli altri bambini: giocattoli, giochi di società, libri. Holly non ha mai mostrato il minimo interesse per tutte queste cose. Odiava leggere. La maggior parte delle volte i giocattoli restavano nella scatola.» «Come si divertiva?» «Divertiva.» Pronunciò quella parola come se fosse straniera. «Come si divertiva. Parlava con se stessa. Creava delle fantasie. Ed era ricca d'inventiva, gliene do atto: poteva prendere un pezzo di spago, una pietra o un cucchiaio in cucina e usarli per costruire una storia. Aveva una straordinaria capacità immaginativa, genetica, senza dubbio, lo sono molto ricco di immaginazione. Ho però imparato a incanalarla. In modo produttivo.» «Lei no?» «Si limitava a fantasticare, non andava oltre.» «Che tipo di fantasie aveva?» «Non ne ho idea. Era di una riservatezza terribile, le piaceva chiudere la porta della sua stanza fin da quando era molto piccola. Si sedeva sul pavimento o sul letto e parlava, borbottava. Se la spronavo a uscire un po' all'aperto, andava in cortile, si sedeva sull'erba e cominciava a fare esattamente la stessa cosa.» «Quando era bambina», dissi, «si dondolava avanti e indietro o cercava di ferirsi?» Sorrise come uno studente ben preparato. «No, dottore. Non era autistica, nemmeno lontanamente. Se le si rivolgeva la parola lei rispondeva, se ne aveva voglia. Non era affetta da ecolalia, niente di psicotico. Era semplicemente molto autosufficiente. Per quanto riguarda il divertimento: creava i propri svaghi.» Guardai i telefoni che suonavano a intermittenza e le immagini in continuo movimento sui computer. Il suo svago. «Non ha mai tenuto qualche sorta di diario?» «No. Odiava la carta, buttava vìa tutto. Odiava il disordine, era una maniaca della pulizia. Forse un altro esempio di eredità genetica. Mi ricono-
sco colpevole di quel tipo di meticolosità.» Sorrise senza mostrare però il minimo senso di colpa. «Ho visto solo due giochi nel suo guardaroba. Cosa è successo a tutti i giocattoli e ai libri?» «Quando aveva tredici anni ha ripulito a fondo la sua stanza, e ha ammucchiato ordinatamente tutto nel corridoio lasciando solo la radio e i vestiti. Quando le ho domandato cosa stesse facendo, mi ha chiesto di portar via tutto. E io naturalmente l'ho fatto. L'ho dato in beneficenza. Non si poteva discutere con Holly se aveva preso una decisione.» «Non ha voluto niente per sostituire le cose di cui si era liberata?» «Non una sola cosa. Era contenta di restare senza niente.» «Niente tranne Scale e serpenti e Candy Land.» «Sì. Quelli sì.» Appena un attimo di esitazione. Presi la palla al balzo. «Quanti anni aveva quando ha ricevuto quei giochi?» «Cinque. Sua madre glieli ha comprati per il suo quinto compleanno.» Ebbe un altro momento di esitazione e si sforzò di sorridere. «Vede, siamo già arrivati a qualcosa. Come la interpreta? Un tentativo da parte sua di aggrapparsi al passato?» Il suo tono era clinico, distaccato: il classico teorizzatore. Tentava di trasformare il colloquio in uno scambio di idee tra colleghi. «Non sono molto orientato verso l'interpretazione. Parliamo del suo rapporto con la madre.» «Un approccio freudiano?» Cercando di non far trasparire la minima stizza, dissi: «Nel modo più completo, signor Burden». Non disse niente. Girandosi appena un po' batté qualcosa sulla tastiera. Aspettai, guardando i numeri e le lettere nel loro procedere lento da ingorgo stradale. «Allora», disse alla fine, «immagino che questo sia quello che le persone che lavorano nel suo campo chiamano ascolto attivo? Un silenzio strategico. Tirarsi indietro per far sì che il paziente si apra?» Sorrise. «Ho letto anche questo.» Parlai con tono volutamente paziente. «Signor Burden, se questo la mette a disagio, possiamo smettere.» «Io voglio continuare!» Si tirò su a sedere di scatto, con goffaggine e gli occhiali gli scivolarono sul naso. Il tempo di raddrizzarli ed era di nuovo sorridente. «Deve scusare la mia... resistenza, immagino la chiamiate così. Tutta questa storia è stata molto... difficile.»
«Naturalmente. Ecco perché non c'è motivo di parlare di tutto in una sola volta. Posso tornare in un altro momento.» «No, non c'è momento migliore di questo.» Distolse lo sguardo da me e toccò ancora la tastiera. «Posso offrirle qualcosa? Succo di frutta? Tè?» «Niente, grazie. Se le cose che abbiamo introdotto nella conversazione adesso sono troppo dure da discutere in questo momento, forse c'è qualche argomento di cui vuol parlare?» «No, restiamo in argomento. Teniamo duro. Sua madre. Mia moglie. Elizabeth Wyman Burden. Nata nel 1930 e morta nel 1974.» Buttò la testa indietro e fissò il soffitto, «Una donna eccezionale. Deduttiva, intuitiva e molto dotata: un talento per la musica. Era molto brava con la viola da gamba. Howard suonava la viola moderna, sembrava promettente, ma poi l'ha abbandonata. Ho aiutato Elizabeth a sviluppare le sue abilità. Mi completava meravigliosamente.» Storse la bocca come per cercare l'espressione giusta e ne assunse una di rammarico. «Holly non era affatto come lei. E neanche come me. Tutti e due, Betty e io, siamo, eravamo, molto intelligenti. Non è un vanto, è semplicemente una constatazione. Piuttosto sull'intellettuale come coppia. Come lo è Howard. Ho visto subito che era molto portato per la matematica e gli ho dato molte lezioni, non di recupero, è stato sempre un ottimo studente: lezioni di approfondimento, per non farlo sprofondare al livello della scuola pubblica, trascinarlo al massimo comun divisore.» «La scuola non soddisfaceva le sue esigenze?» «Non a lungo termine. Sono sicuro che la sua esperienza le ha mostrato che l'intero sistema scolastico è orientato verso la mediocrità. Howard ha sviluppato al più alto livello le basi che gli avevo fornito, è rimasto nel campo della matematica. È laureato in matematica attuariale, ha superato tutti i dieci esami al primo tentativo, un fatto quasi unico. Il più giovane laureato in quella disciplina. Lei dovrebbe parlare con lui a proposito di Holly, sentire il suo punto di vista. Ecco, le do il suo numero. Vive fuori, nella Valley.» Si girò verso la scrivania, prese un foglietto da un cassetto e ci scarabocchiò qualcosa. Lo misi in tasca. «Howard è eccezionalmente intelligente», disse. «Ma Holly non era una buona studentessa?» Scrollò la testa. «Se prendeva un appena sufficiente era per carità dell'insegnante.»
«Che problemi aveva?» Esitò. «Potrei raccontarle qualche storiella sulla scarsa motivazione, sul fatto che si annoiava in classe o che non si era mai inserita. Un quoziente di intelligenza 87. Non ritardata, ma nella fascia più bassa della normalità.» «Quando le ha fatto fare il test?» «A sette anni. Gliel'ho fatto io.» «L'ha sottoposta lei al test?» «Proprio così.» «Quale test ha usato?» dissi, aspettandomi qualche questionario approssimativo tratto da qualche manuale «fai da te». «La scala di intelligenza Wechsel per bambini. È un test di qualità. Quello che ha ricevuto maggiori conferme sperimentali.» «Il test di Wechsel è eccellente, ma richiede molto addestramento per poter essere sottoposto ai bambini e valutato in modo adeguato.» «Non dubiti», disse con improvvisa allegria. «Mi sono preparato. Ho letto attentamente il manuale e ho studiato approfonditamente alcuni articoli sull'argomento sulle riviste specializzate. Poi l'ho provato su Howard, che lo ha eseguito con estrema facilità. Ha conseguito un punteggio di 149, quasi il massimo, penso.» «Il Wechsel test non dovrebbe essere venduto ai profani. Come ne è entrato in possesso?» Un sorriso malizioso. «Non penserà di presentare un reclamo, vero, dottore?» Incrociai le gambe con disinvoltura, risposi al sorriso e scrollai la testa. «Lei deve essere pieno di risorse.» «Veramente», disse, «è stato penosamente semplice. Ho riempito un modulo d'ordine trovato in una rivista di psicologia, fatto il versamento mettendo un dottore prima del mio nome, includendo un biglietto da visita dell'ente per cui lavoravo allora: Società demografica. Ricerca sociale applicata. Deve essere suonato abbastanza psicologico all'editore, perché il test è arrivato una settimana dopo, col servizio pacchi postali.» Vantava la sua doppiezza. D'altra parte perché uno che viveva vendendo campane dell'armonia tibetana e pillole per il potere personale avrebbe dovuto esitare davanti a qualche utile sotterfugio? «Ho fatto un buon lavoro con quel test», disse, «più accurato di quello che avrebbe fatto qualsiasi psicologo. Mi son preso la briga di farlo due volte. A sette e a undici anni. I risultati sono stati quasi identici: ottantaset-
te e ottantacinque. Non c'erano lacune o punti di forza particolarmente marcati, o squilibrio tra le prove verbali e quelle pratiche. Un'ottusità generale. La mia teoria è che abbia subito un qualche trauma intrauterino che ha danneggiato il suo sistema nervoso centrale. Forse dovuto all'età avanzata della madre: Betty aveva trentanove anni quando la concepì. In ogni caso doveva esserci un qualche danno a livello cerebrale, non le pare? La cosa avrebbe potuto essere peggiore se non fosse stato per un'unica circostanza.» «Cosa intende dire?» «Dato un patrimonio genetico medio, avrebbe potuto benissimo uscirne realmente ritardata. Ma con Betty e me come genitori, ha avuto quell'incremento genetico che le ha permesso di arrivare allo scalino più basso del livello normale.» «Ha il profilo emerso dal test?» «No, l'ho buttato via anni fa. Non c'era motivo di tenerlo.» «Ha mai consultato uno specialista sui suoi problemi di apprendimento?» «All'inizio ho dato alla scuola la possibilità di fare qualcosa: ho visto il solito assortimento di falliti del pubblico impiego. Consulenti, insegnanti di sostegno, e così via. Holly non rientrava in nessuna delle loro categorie codificate; troppo sveglia per il gruppo di ritardati mentali, troppo ottusa per una classe normale, non aveva problemi comportamentali o cognitivi che potevano farla considerare un'handicappata. Hanno fatto consultazioni: quei tipi amano consultarsi. Hanno avuto incontri con me parlandomi col loro gergo: pensavano di potersi nascondere dietro quel linguaggio perché nessuna laurea accompagnava il mio nome.» «Ci sono i verbali di questi incontri?» «No. Ho chiesto di distruggerli. Io lavoro nel settore dell'informazione. So come le schedature possano riemergere per tormentarti. Hanno cercato di protestare, qualche stupido regolamento, ma l'ho spuntata. Pura forza della personalità. Erano un branco di persone senza volontà, loro stessi ottusi. Chiacchiere a non finire e non un briciolo d'azione. Mi sono subito reso conto che dovevo affrontare il problema da solo; qualsiasi rimedio degno di tale nome poteva essere trovato solo a casa. Così ho interrotto tutti i contatti con loro. Provo la stessa cosa per quel poliziotto, Frisk. Ecco perché ho preso l'iniziativa di chiamarla. Lei è diverso.» Era la seconda allusione negativa che aveva fatto sulla scuola. «Ha parlato delle sue opinioni sulla scuola con Holly?»
Mi diede un lungo sguardo, penetrante. Illuminato da un'intuizione sgradevole. «Dottore, sta cercando di dire che ho instillato l'odio nella sua mente?» «Sto cercando di farmi un'idea su cosa provasse nei confronti della scuola.» «La odiava. Non poteva fare altrimenti. Rappresentava per lei il fallimento. Tutti quegli anni di incompetenza e di indifferenza. Cos'altro avrebbe potuto sentire? Ma non al punto di uccidere qualcuno per questo motivo.» Fece una risata beffarda. «Che tipo di rimedi ha provato con lei?» dissi. «La seguivo personalmente, quando lo accettava. Mi sedevo accanto a lei ogni sera dopo cena e la aiutavo nei compiti. Cercavo di farla concentrare, cercavo di invogliarla allo studio. Quello che chiamate condizionamento strumentale. Ma non ha funzionato perché lei non voleva veramente niente. Alla fine sono riuscito a portare la sua capacità di lettura e le sue abilità matematiche a un livello che le permettesse di cavarsela nel mondo reale: semplici indicazioni e calcoli, segnali stradali. Non era interessata né capace di astrazioni maggiori.» «Com'era la sua capacità di attenzione?» «Buona per le cose a cui era interessata: pulire e riassettare, ascoltare canzonette alla radio o ballare seguendo la musica quando pensava di non essere osservata. Inesistente per le cose che non la interessavano. Ma non è forse vero per tutti?» «Ballava», dissi, cercando di immaginarmelo. «Così la sua coordinazione fisica era buona?» «Passabile. Che è quanto basta per i balli che fanno oggi.» «Ha mai pensato a dei farmaci, il Ritalin o cose simili?» «No, dopo che ho letto gli effetti derivanti dall'uso prolungato di anfetamine. Difficoltà nello sviluppo. Anoressia. Possibili danni al cervello. Inoltre non era iperattiva: un po' più sul letargico in verità. Amava dormire fino a tardi, restare sdraiata. Io sono un tipo mattiniero.» «Ha avuto periodi di depressione emotiva?» Lo escluse con un gesto della mano. «Il suo umore era buono. Mancava solo di energia. All'inizio ho pensato fosse un problema di alimentazione: qualcosa che avesse a che fare col glucosio o la tiroide. Ma tutti i risultati degli esami del sangue erano nella norma.» Esami del sangue. Aspettando quasi che mi rispondesse che faceva il
prelievo lui stesso, chiesi: «Il vostro medico di famiglia vi ha dato qualche consiglio comunicandovi i risultati?» «Non ho mai avuto un medico di famiglia. Non ne ho mai avuto bisogno. Li ho portati entrambi, lei e Howard, negli ambulatori del servizio sanitario pubblico per i prelievi del sangue. E anche per le vaccinazioni. Ho detto ai medici che sospettavo una qualche malattia contagiosa. È loro compito controllare quel tipo di cose, perciò sono stati obbligati a farlo. Ho anche pensato che avrei potuto detrarre anche qualcosa dalla mia dichiarazione dei redditi.» La simulazione gli procurava una genuina gioia. Quanto di quello che mi aveva detto poteva essere creduto? Cambiando argomento, dissi: «C'è quasi una generazione di differenza tra Howard e Holly». «Undici anni. E sì, era un figlio non programmato. Ma non indesiderato. Quando Betty ha scoperto di essere incinta era sorpresa, ma felice. E questo la dice lunga, perché aveva una salute malferma: ulcere sanguinanti, disturbi intestinali. Non so se lei ha dimestichezza con queste cose, ma soffriva di flatulenza, un male cronico molto fastidioso. Nonostante tutto ha tirato dritto come un carrarmato, ha allattato Holly per undici mesi, esattamente lo stesso periodo di tempo che avevamo concesso a Howard. Era un'ottima madre, molto paziente.» «Holly è stata molto colpita dalla morte della madre.» «Sì. Duramente, penso.» «Pensa?» «Penso. Con Holly non c'era modo di sapere cosa provasse per qualsiasi cosa, perché non parlava, non sapeva esprimersi molto bene.» «Ha partecipato al funerale?» «Sì, lo ha fatto. L'ho fatta restare con uno dei custodi dell'obitorio in una stanza fuori della cappella durante il servizio funebre e la sepoltura. Poi mi sono seduto accanto a lei e le ho spiegato cosa era successo. Mi ha fissato, non ha detto una parola, ha pianto solo un po' e poi se n'è andata. Fuori sul prato. Seduta. A tessere le sue fantasie. Gliel'ho lasciato fare per qualche tempo, poi l'ho portata a casa. Un paio di volte l'ho sentita piangere la notte, ma quando entravo nella sua stanza smetteva, si girava dall'altra parte e si rifiutava di parlare con me.» «Come le ha spiegato cosa era successo?» «Le ho detto che sua madre era stata molto malata. Lei lo sapeva: aveva visto Betty a letto. Le ho detto che era andata in ospedale per farsi curare il
mal di stomaco e che i dottori erano stati stupidi, avevano fatto degli errori e con la loro stupidità l'avevano uccisa. Che ora dovevamo continuare senza di lei ed essere forti. Che eravamo ancora una famiglia e avremmo continuato a vivere come una famiglia.» «La morte di sua moglie è stata causata dalla negligenza dei medici?» Mi guardò come se appartenessi al «gradino più basso del livello normale». «La donna non versava in condizioni disperate, dottore. È morta di emorragia sul tavolo operatorio, sotto gli occhi di un'intera équipe chirurgica.» «Deve essere stato un periodo molto duro per lei.» «A dire il vero no. Ho affrontato con determinazione la situazione e sono riuscito a organizzare bene il tutto. Howard ha continuato a prendere buoni voti. Eppure penso che, se Holly è finita così, è in parte colpa mia.» «Perché dice questo?» «Sono fornito di numerose doti di abilità e capacità, ma non sono riuscito a trasmetterle a lei, a orientarla verso qualcosa, darle una prospettiva. Lei mi ha costantemente escluso e io gliel'ho permesso perché non volevo essere crudele. Forse sono stato troppo debole.» Alzò le spalle. «Del senno di poi son piene le fosse, non è vero?» Si crogiolava in una finta confessione. Nonostante la mia avversione per le diagnosi affrettate, una definizione si insinuava nella mia mente: disordini narcisistici della personalità, egoismo patologico. Cercai di immaginare cosa potesse significare essere suo figlio e la mia simpatia per Holly salì di un altro gradino. «Allora, dottore», disse, «mi sembra che stiamo procedendo bene. In cos'altro posso aiutarla?» «Holly e Howard andavano d'accordo?» «Molto, non avevano scontri.» «Avevano delle cose in comune?» «Non molto. Howard era impegnato nelle sue attività: studi, club, e Holly stava nella sua stanza. Questo non significa che lui non le volesse bene. Si è sempre interessato a lei, anche se era un po' perplesso nei suoi confronti.» «Come se la passa adesso?» «Benissimo.» «È sposato?» «Certo che sì. Ha una grande casa a Encino, a sud del boulevard. Una fi-
glia deliziosa, molto sveglia. Se la passano tutti molto bene. Vada a trovarli, se ne renda conto di persona Adesso che ci penso lei dovrebbe proprio farlo. Parli con Howard.» Sembrava insistente. Va a parlare con il mio figlio intelligente. Quello che è riuscito bene, sembrava dicesse. «Aveva amici?» dissi. «Holly? No, non ne aveva nessuno. Quando era molto piccola ricordo che veniva da noi qualche bambino del vicinato. Ma facevano rumore e disturbavano il mio lavoro, così dovevo allontanarli. Ma poi hanno smesso di venire. A Holly non piaceva giocare con gli altri.» «E quando è cresciuta, si è fatta qualche amico a scuola?» «Nessuno. Non le piaceva niente che avesse a che fare con la scuola, voleva smettere già a quindici anni, mi tormentava perché voleva dare gli esami da privatista. Sapevo che non li avrebbe superati e così ho detto no, ma lei ha continuato a insistere: sapeva essere molto testarda quando si metteva in testa qualcosa. Alla fine, quando aveva sedici anni, ho acconsentito. Ci ha provato ed è stata bocciata.» «Questo fatto le ha dato fastidio?» «Veramente no. Nessuno di noi ne era sorpreso. L'ho fatta continuare a Pali finché non si è diplomata, perlomeno ha preso il diploma.» «Cos'ha fatto dopo il diploma?» «È rimasta a casa. Ad ascoltare la sua radio, musica pop e talk-show. La teneva accesa tutto il giorno. Le ho assegnato qualche lavoretto domestico: rassettare, pulire, fare semplici lavori di ufficio. Le piaceva lavorare per me.» Donna di servizio residente gratuita. Conveniente. L'idea che qualche uomo si fa di una moglie. «Ha conosciuto qualcuno di recente? Dopo il diploma?» «E come avrebbe potuto? Non andava mai da nessuna parte.» «Mi hanno detto che aveva fatto amicizia con il ragazzo delle consegne del negozio di Dinwiddie. Isaac Novato.» La sua mascella si irrigidì e si chinò in avanti sulla sedia. «Chi le ha parlato di questa presunta amicizia?» «Mi hanno detto che lei lo conosceva. Li hanno visti parlare insieme.» «Parlare. Beh, è possibile. Il ragazzo consegnava la spesa in casa nostra. Una volta a settimana. Holly lo faceva entrare e gli dava la mancia, così penso che abbiano potuto anche parlare. Cos'altro le hanno detto?»
«Tutto qui.» «Sì? Beh, dubito che fossero veramente amici. Non che mi sarebbe seccato se lo fossero stati. Senza dubbio lei sa che lui è negro. A differenza degli altri abitanti di questo quartiere, di questo paese, considero la razza una cosa irrilevante. Giudico una persona dalle sue qualità, non dalla concentrazione di melanina nella sua pelle.» Dopo questa professione di fede, mi chiesi come avesse giudicato sua figlia. «Sembra scettico», disse. «Nient'affatto.» «Novato era trattato bene in questa casa. Glielo chieda pure.» «Non è possibile», risposi, «è morto.» «Morto?» Lo choc gli raggelò il viso, che poi si rilassò gradualmente, ma non del tutto, lasciando un'espressione assente nei suoi occhi. La prima reazione sicuramente spontanea che avevo visto in lui. «Quando è morto?» «Lo scorso settembre.» «Settembre. Mi ci faccia pensare, non ricordo di averlo visto negli ultimi tempi.» «Le è mai sembrata sconvolta Holly in quel periodo?» «Sconvolta? Non l'ho notato. Come è morto?» «È stato assassinato.» «Oh, mio... Da chi?» «Non si è scoperto. La polizia pensa che si sia trattato di un acquisto di droga finito male.» «La polizia... Pensano ci sia qualche collegamento con Holly?» «No. È saltato fuori quando hanno cercato di rintracciare le sue conoscenze.» «Conoscenze», disse, «una cosa posso garantirle, Holly non aveva niente a che fare con la droga.» «Ne sono certo.» «E nemmeno avrebbe mai sparato a dei bambini.» Pausa. «E se fosse stata ... coinvolta in qualcosa? Se Novato l'avesse coinvolta in qualche storia?» «Per esempio?» «Qualche forma di corruzione.» Chiuse gli occhi. Trascorse un lungo periodo di silenzio e il suo volto diventò inespressivo, nascondendo il suo egoismo. Una delle stampanti la-
ser spinse fuori dei fogli. Alcuni di essi caddero sul pavimento. Li ignorò e infine aprì gli occhi. «C'è qualcos'altro?» disse, ancora preoccupato. «La polizia ha detto che è suo il fucile che ha portato nella scuola. Holly sapeva sparare?» «No. Odiava le armi. La mia collezione di fucili era l'unica parte della casa che si rifiutava di pulire. Perciò l'intera teoria non ha senso.» «È stata trovata col fucile.» «Questo non significa che è un'assassina. Potrebbe essere stata adescata, attirata lì con l'inganno e convinta a portare il Remington con sé.» «Adescata come?» «Non lo so, ancora. Ma quello che è successo a Novato mi dà da pensare. Forse uno dei componenti della sua banda c'entra qualcosa.» «Non c'è nessuna prova che appartenesse a una banda.» «In città la droga significa bande.» Un altro lungo silenzio. «Quando ha notato che mancava il fucile?» dissi. «Non l'ho notato, ma questo non significa niente. Raramente guardo la collezione: non mi interessa più molto.» «Dove la tiene?» Si alzò e mi riportò nel corridoio. La porta accanto a quella di Holly dava su uno stanzino profondo, con le pareti di cedro, con le rastrelliere dei fucili disposte su tre pareti. Le rastrelliere erano vuote. Sul pavimento era stato passato l'aspirapolvere. L'aria sapeva di olio per macchine e di sporco. «La polizia ha preso tutto», disse, «ogni pezzo. Per analisi. Dovrebbero riportarmeli presto. Ma può scommettere che dovrò lottare molto con la burocrazia per riaverli.» Notai otto scanalature in ogni rastrelliera. «Una bella collezione.» «Tutti fucili a canna lunga. Per lo più pezzi d'antiquariato. Fucili a pietra focaia. Polvere nera. Non in condizioni di funzionare. Ho acquistato la serie per fare un investimento quando sono stato congedato. Una vecchia conoscenza dell'esercito aveva bisogno di contanti. In effetti sono stati un buon investimento, anche se non mi sono mai interessato a venderli, perché, francamente, non ho bisogno di denaro.» Pensando alla scarsa abilità nel tiro di Holly, dissi: «E il Remington?» «Cosa vuol sapere?» «Anche quello un pezzo da collezione?»
«No, un comunissimo Remington. Legale e registrato.» «La notte prima dell'attentato», dissi, «l'ha sentita uscire di casa?» «No», rispose, «sono andato a letto presto e ho un sonno molto profondo.» «La casa ha un sistema d'allarme?» «Sì. Anche se avrà notato che non c'è un quadro di comando nell'ingresso. Il mio sistema è molto più raffinato.» «Holly sapeva azionarlo?» «Certo, non era mica prigioniera.» «E lo ha spento prima di uscire?» «L'allarme era sempre in funzione, quindi per forza lo ha fatto. Ma l'ha anche riattivato: era in funzione quando mi sono alzato; non sapevo che fosse uscita.» «Lo faceva sempre quando usciva la notte?» «Ma non usciva in genere la notte.» «Signor Burden, Holly è stata vista passeggiare di notte nel quartiere.» Ancora sorpresa genuina. «Beh... può essere uscita di tanto in tanto, a correre dietro a qualche gatto, o a prendere un po' d'aria. Ma in genere restava in camera sua. Aveva tutto quanto le occorreva qui.» Il suo sguardo era furioso. Guardò l'orologio. «Immagino che per oggi sia tutto.» Un'affermazione, non una domanda. «Certo», dissi. Mi accompagnò alla porta. «Allora», soggiunse, «come pensa che stiamo andando?» «Stiamo procedendo bene.» Mi afferrò per la manica. «Era innocente, mi creda. Un'ingenua. Quoziente d'intelligenza ottantasette. Lei più di chiunque altro sa cosa significa. Le mancava la facoltà intellettiva per complottare. E non aveva una natura violenta, non l'ho cresciuta in quella maniera. Non aveva alcun motivo per sparare a nessuno. E men che meno ai bambini.» «Poteva avere qualche motivo per sparare a un politico?» Scrollò la testa, esasperato. «Dottore, sento che lei non ha ancora capito chi era, come viveva. Non leggeva mai giornali, non si interessava affatto di politica, di fatti d'attualità o del mondo esterno. Dormiva fino a tardi, faceva i suoi balli, puliva la casa. Strofinava finché non risplendeva. Quand'era l'ora, preparava semplici pasti per entrambi, piatti freddi. Se c'era bisogno di cucinare lo facevo io. Amava la sua routine. Vi trovava confor-
to.» Si tolse gli occhiali, li sollevò controluce e controllò che le lenti fossero pulite. «Senza di lei non sarà lo stesso. Farò queste cose solo per me, ora.» Il sole era già tramontato e uscii con il buio. Questo accrebbe la sensazione di esser stato via per tanto tempo. Di essere stato su un altro pianeta. Indipendentemente dalle sue intenzioni, un'immagine di Holly Lynn Burden era sorta dai meandri di quella conversazione. La perdita di un genitore nella prima infanzia. Rabbia repressa. Confusione mentale. Basso rilievo di intelligenza. Basso rendimento scolastico. Limitata stima di sé. Isolamento sociale. Una giovane donna senza una vita esterna alla famiglia e con un fiume di fantasie sconosciute che scorreva nella sua mente. Fantasie cupe? Si aggiunga a ciò un atteggiamento di disprezzo per l'autorità da parte del padre. Disprezzo verso la scuola in generale e una in particolare. E poi un pizzico di nuova amicizia, recisa crudelmente dalla violenza. Rabbia sepolta che germoglia ancora. E cresce. Passeggiate notturne. Fucili in uno stanzino. Mahlon Burden non poteva offrire un profilo migliore dell'assassino di massa se glielo avessi dettato io. Il profilo di una bomba a orologeria che segna col suo tic tac sinistro il passare del tempo. 19 Rientrai in una casa vuota e buia. Negli ultimi due mesi, quelli del dopo Robin, avevo lavorato sodo per considerare la solitudine un lenitivo: mi ero mosso sotto la guida di una terapista di nome Ada Small. Allievo diligente, come sempre, mi ero applicato, e avevo guadagnato un buon voto sull'argomento: il sollievo e la pace che potevano derivare da moderate dosi di introspezione. Non troppo tempo prima io e Ada avevamo deciso di
tagliare il cordone ombelicale. Ma quella sera, la solitudine assomigliava troppo alla cella d'isolamento. Accesi tutte le luci, sintonizzai lo stereo sulla KKGO e alzai il volume anche se il jazz che strombettava era una porcheria di sax soprano new wave, stile urla raccapriccianti come forma d'arte. Tutto tranne il silenzio. Dopo un po' la musica era diventata troppo assordante. Mi accorsi che avevo messo il volume al massimo. Ora riuscivo a sopportarlo a malapena, andai a cambiar stazione e appena toccai la manopola di sintonizzazione il sassofonista smise e attaccò la magica chitarra di Stanley Jordan. Buon segno. Era ora di togliere dalla testa tutti i pensieri sui Burden. Ma la mia mente non era diversa da quella di chiunque altro: aborriva il vuoto. Avevo bisogno di qualcosa per riempire lo spazio. Chiamai Linda. Poi ricordai la sua inquietudine. Il bisogno di respirare. E avevo imparato com'era difficile non soffocare qualcuno. Mi accorsi di aver fame, andai in cucina e presi uova, funghi e una cipolla. Jordan lasciò il posto a Spyro Gyra che suonava Shake her. Ruppi le uova, sminuzzai le verdure a tempo di musica. Stando attento a non sbagliare il ritmo. Frissi l'omelette, la mangiai, lessi riviste di psicologia e sbrigai qualche pratica per un'ora, poi salii sulla macchina da sci di fondo fingendo di attraversare una prateria innevata in Norvegia. Smisi dopo mezz'ora, grondante e pronto per immergermi in un bagno caldo. Il telefono squillò. Milo disse: «Allora com'è andata?» «Nessuna grossa sorpresa. Era una ragazza con molti problemi.» «Tali da spingerla a un omicidio?» «Non in modo così palese.» Gli feci un breve resoconto di quanto mi aveva raccontato Burden. «La sua vita deve essere stata meravigliosa.» Mi parve di scorgere simpatia nella sua voce. «Questo è tutto quanto sa su Novato?» «Così ha detto. Hai scoperto niente di nuovo?» «Ho chiamato Maury Smith a Southeast. Ricordava quel caso: ha detto che è ancora irrisolto, uno dei tanti. Non ci ha lavorato sopra molto perché non è saltata fuori nessuna pista. Aveva un po' dell'atteggiamento che aveva percepito Dinwiddie, un'altra sparatoria tra spacciatori. Ha drizzato un po' le orecchie quando gli ho detto che poteva essere collegato a qualcosa successo nel Westside e ha accettato di incontrarmi domani a pranzo e portarmi la scheda. Ho anche avuto l'indirizzo della padrona di casa, Sophie
Gruenberg. Se la ricordava abbastanza bene. Ha detto che era una vecchia comunista, molto ostile con la polizia, che continuava a chiedergli come poteva sopportare di essere un cosacco negro. Sembrava così invitante che ho pensato di passare da lei domani mattina.» «Ti va se vengo con te?» «Non lo so. I socialistoidi vanno d'accordo con gli strizzacervelli?» «Per Dio, certo che sì. Marx e Freud giocavano a bocce insieme nei vicoli di Vienna. A che ora?» «Va bene alle nove?» «Perfetto.» Arrivò alle otto e mezzo, alla guida di una Ford che non gli avevo mai visto prima. L'indirizzo di Sophie Gruenberg era sulla Fourth Avenue, a nord di Rose. Un giretto sul lungomare, ma non era quello di Malibu. Era una mattinata fredda, il sole si nascondeva come un coccodrillo dietro un banco di esili e striate nubi grigie, ma pedoni dal naso gelato stavano già attraversando Rose, diretti verso l'oceano. Le attività frenetiche di Rose Avenue erano il segno di lavori di risistemazione in corso. Per Venice era ordinaria amministrazione: il quartiere non aveva mai smesso di trasformarsi. Rosticcerie, gelaterie, raccolte boutique alla moda si alternavano a lavanderie, negozi di rigattiere, bar frequentati da ubriaconi e cortili di case cadenti che, se controllati dall'ufficio immigrazione, sarebbero stati subito svuotati. Milo girò sulla Fourth Avenue e avanzò di un isolato. La casa era una villetta bifamiliare a un piano, su un appezzamento largo dieci metri. Le finestre erano chiuse da sbarre che sembravano nuove. Le pareti bianche erano bordate da rifiniture di legno dipinte di rosso e sovrastate da un tetto di materiale sintetico color mattone. Il prato davanti era piccolo, ma abbastanza verde da essere approvato dalla commissione per l'arredo urbano di Ocean Heights. In fondo c'erano una iucca che già germogliava e un'aiuola irregolare di erba cristallina. Rose nane fiancheggiavano un vialetto di cemento che si biforcava per arrivare a due scalette esterne. Le due porte erano di legno e verniciate di rosso. Lettere di ottone le designavano come «A» e «B». Una targa di ceramica, con scritto SANDERS, era stata attaccata sotto la lettera «A». La lettera «B» era contrassegnata da qualcos'altro: un manifesto bianco attaccato alla porta con lo scotch con scritto a pennarello SCOMPARSA: RICOMPENSA!!! Sotto, la foto di una donna anziana: faccia da scoiattolo, raggrinzita come una noce,
circondata da un'aureola di capelli bianchi crespi. Faccia seria, al limite dell'ostilità. Grandi occhi scuri. Poi un paragrafo scritto a macchina: SOPHIE GRUENBERG, VISTA L'ULTIMA VOLTA IL 27/9/88, ALLE 20 IN PROSSIMITÀ DELLA SINAGOGA BETH SHALOM, 402 1/2 LUNGOMARE DI VENICE, INDOSSAVA UN VESTITO A FIORI BLU E PORPORA, SCARPE NERE. PORTAVA UNA GROSSA BORSA DI PAGLIA. DATA DI NASCITA: 13/5/16 ALTEZZA: 1 M 50 PESO: 43 KG CIRCA STATO DI SALUTE FISICA E MENTALE: ECCELLENTE SOSPETTO OMICIDIO VIENE OFFERTA UNA RICOMPENSA DI 1000 DOLLARI A CHIUNQUE FORNISCA INFORMAZIONI CHE PERMETTANO DI RINTRACCIARE LA SIGNORA SOPHIE GRUENBERG. CHI È IN POSSESSO DI TALI INFORMAZIONI È PREGATO DI METTERSI IN CONTATTO CON LA SINAGOGA BETH SHALOM. In fondo alla pagina veniva ripetuto l'indirizzo della sinagoga, insieme a un numero di telefono con prefisso 398. «Il ventisette settembre», dissi, «quando è stato ucciso Novato?» «Il ventiquattro.» «Una coincidenza?» Milo si accigliò e bussò alla porta dell'unità «B», battendo abbastanza forte da far vibrare il legno. Nessuna risposta. Suonò il campanello. Niente. Andammo all'«A» e provammo lì. Ancora silenzio. «Proviamo dietro», disse. Sbirciammo in un piccolo cortile in cui cresceva solo un fico. Il garage era vuoto. Tornati sulla strada, Milo si mise a braccia conserte e sorrise a un piccolo ragazzo messicano dall'altra paite della via che era uscito per curiosare. Il ragazzo fuggì. Milo sospirò. «È domenica», disse, «è un sacco di tempo che non vado in chiesa la domenica. Pensi che potrà valere per lo meno un po' se vado in sinagoga?» Seguimmo Rose Avenue in direzione del Pacifico, ci dirigemmo a sud per un paio di isolati, girammo bruscamente a sinistra in una stradina che
correva parallela al Paloma Boulevard. Il sole non riusciva ancora a farsi vedere, ma le strade e i marciapiedi pullulavano di gente: persino i passaggi pedonali erano intasati. La macchina procedette lentamente tra la folla prima di girare in un parcheggio a pagamento accanto all'autostrada. Ci incamminammo verso il lungomare, ci facemmo largo tra i venditori ambulanti di occhiali da sole e cappelli di paglia che potevano durare una settimana, bancarelle che vendevano cibi esotici di dubbia origine. La folla era fitta come a una svendita: tribù ispaniche multigenerazionali, barboni che sembravano fossero stati immersi nell'immondizia, psicotici che parlavano da soli e hippie nostalgici con lo sguardo da fumo, giovani rampanti che indossavano magliette polo accanto a pattinatori punk con la pettinatura a cresta di gallo, un assortimento di tipi scultorei seminudi che sfidavano i limiti della decenza, turisti europei, asiatici e newyorchesi, sorridenti e col naso per aria, contentissimi di aver finalmente trovato la vera Los Angeles. Una scultura umana in movimento, una trapunta di pezze con tutte le sfumature della pelle, dalla vaniglia alpina alla liquirizia. La colonna sonora: rap poliglotta. «Un'insalatiera?» dissi. «Come?» disse Milo, parlando forte per farsi udire in mezzo a quel fracasso. «Niente, stavo pensando ad alta voce.» «Insalatiera, uh?» Squadrò una coppia di pattinatori. Il torso lucido. Perizoma zebrato e nient'altro sull'uomo, minibikini e tre anelli al naso sulla donna. «Si sono scordati di vestirsi.» Panchine spaccate lungo il lato occidentale della passeggiata erano stracolme di gruppi di vagabondi. Dietro le panchine c'era una striscia di prato in cui molto tempo prima qualcuno aveva piantato delle palme ormai gigantesche. I tronchi delle piante erano stati imbiancati fino a un metro da terra per proteggerli dagli animali a due e quattro zampe. Ma inutilmente: i tronchi erano sfregiati, mutilati, scavati, coperti di scritte. Oltre il prato, la spiaggia. Altri corpi lucenti, seminudi, ubriachi di sole. Poi una lama di coltello color platino opaco che doveva essere il mare. La sinagoga Beth Shalom era un edificio marrone chiaro, tozzo e a un solo piano, con al centro porte doppie verde acqua, incassate sotto un'insegna di legno con una scritta in ebraico. Sopra l'insegna c'era un cerchio di vetro contenente una stella di Davide impiombata. Identiche stelle erano
sospese sopra le finestre munite di sbarre che si trovavano ai due lati della porta d'ingresso. Adiacente alla sinagoga, verso nord, c'era un centro di riabilitazione per drogati ospitato in un edificio di tre piani. Verso sud un palazzo dalla facciata a mattoncini il cui pianterreno era occupato dalle vetrine di due negozi. Una era vuota e chiusa da una grata a fisarmonica, e l'altra era quella di un negozio di souvenir con un'insegna: CHI HA I SOLDI PARLI E IL RESTO VADA. Ci dirigemmo verso l'entrata della sinagoga. In una parete della nicchia dell'entrata era stato attaccato un altro manifesto uguale a quello che avevamo visto sulla porta di casa di Sophie Gruenberg. Sotto c'era una bacheca con uno sportello di vetro: una superficie nera solcata da fessure orizzontali con lettere bianche movibili che informavano i fedeli curiosi sugli orari dei servizi settimanali e del sabbath. Il sermone della settimana era: «Quando le buone cose capitano ai malvagi»; predicatore, il rabbino professore David Sanders. «Sanders. L'appartamento 'A'», dissi. Milo grugnì. Sulle porte c'erano un paio di serrature a chiavistello e una specie di pulsante collegato a un campanello d'allarme. Ma quando Milo girò la maniglia, la porta si aprì. Entrammo in una piccola anticamera con il pavimento in linoleum, alcuni scaffali spaiati e un tavolo a muro. Un vassoio di carta pieno di biscotti, lattine di gazzosa, una bottiglia di whisky, e una pila di bicchieri di carta erano posati sul tavolo. Su una porta di legno c'era scritto TEMPIO. Accanto, su un mobiletto di metallo, c'era un cesto di cuoio rovinato pieno di zucchetti di raso nero. Milo ne prese uno e se lo mise in testa. Io feci altrettanto. Aprì la porta. il tempio era grande quanto la stanza principale di un appartamento a Beverly Hills, poco più grande di una cappella. Pareti celesti con appesi dipinti a olio rappresentanti scene bibliche, una dozzina di file di panche di legno chiaro tagliate a metà da un passaggio su cui correva una passatoia logora. Il corridoio terminava con un pulpito ornato da un'altra stella a sei punte e rivestito di velluto blu frangiato ai bordi. Dietro il pulpito c'era una tenda di velluto pieghettata con ai lati due sedie ricoperte della stessa stoffa blu. Sospeso sopra il pulpito un cono di vetro rosso, con una lampada accesa. Un paio di finestre strette, sulla parete di fronte, facevano entrare fasci di luce polverosa. Il retro era immerso nella penombra. Io e Milo restammo in piedi lì, seminascosti. L'aria era calda e stantia, satura di odori di cucina.
Un uomo poco meno che trentenne, con un bel colorito e la barba sul viso, era in piedi dietro il pulpito, con un libro aperto davanti e si rivolgeva a una platea di quattro persone, tutte anziane. Un uomo e tre donne. «Così vediamo», disse appoggiandosi sui gomiti, «che la vera saggezza dell'Etica dei Padri risiede nella capacità dei tana'im, i rabbini del Talmud, di considerare le nostre vite in prospettiva, generazione dopo generazione. Di insegnarci cosa è importante e cosa non lo è. I valori. 'Chi è l'uomo ricco?' chiedono i rabbini. E rispondono: colui che è soddisfatto della sua parte. Cosa c'è di più profondo? 'Senza consuetudini non c'è dottrina, senza dottrina non ci sono consuetudini.' 'Più carne c'è, più vermi ci sono.'» Aveva una voce soave e chiara. Un'enunciazione precisa. Un qualche accento: australiano, pensai. «Vermi! Oh, ragazzi, è proprio vero», disse l'unico ascoltatore maschio, muovendo le mani con enfasi. Era seduto in mezzo alle donne. Potevo vedere solo la sua testa calva, con qualche ciuffo di capelli bianchi sulle tempie e coperta da uno zucchetto uguale a quello che portavo io su un collo corto e tozzo. «Sempre vermi: oggi i vermi sono tutto ciò che abbiamo, il modo in cui facciamo funzionare la società.» Mormorii di assenso fra le donne. L'uomo con la barba sorrise, guardò il suo libro, inumidì il pollice e girò una pagina. Aveva le spalle larghe e una faccia rosea da bambino che la barba biondo sporco non era riuscita a rendere più matura. Indossava una camicia con le mezze maniche a scacchi bianchi e blu e uno zucchetto di velluto nero che copriva gran parte dei suoi riccioli biondi e fitti. «È sempre la stessa cosa, rabbino», disse l'uomo calvo, «complicazioni, rendere le cose difficili. Prima costruisci un sistema. Per fare qualcosa di buono. E fin qui va bene. Dovremmo sempre cercare di fare qualcosa di buono: come potremmo fare altrimenti? Cosa ci distingue dagli animali se no? Ma poi i problemi arrivano quando troppe persone sono coinvolte: il sistema prende il sopravvento e siamo noi a lavorare per lui e non il contrario. E allora arrivano i vermi. Molta carne, molti vermi.» «Sy, penso che il rabbino intenda dire un'altra cosa», disse una donna grassottella, l'ultima a destra nella fila. Aveva capelli vaporosi con riflessi azzurri, braccia grasse che vibravano quando muoveva le mani con enfasi. «Sta parlando del materialismo. Più cose assurde accumuliamo, più problemi abbiamo.» «Veramente avete ragione entrambi», disse l'uomo biondo in un tono conciliante. «Il Talmud mette l'accento sulla virtù della semplicità. Il si-
gnor Morgenstern parla di semplicità nelle procedure; la signora Cooper intende la semplicità materiale. Quando complichiamo le cose, ci allontaniamo un po' dal fine del nostro mondo, che è avvicinarci a Dio.» Ci vide e alzò le sopracciglia. Milo fece un piccolo cenno di risposta. Il rabbino lasciò il pulpito e si diresse verso di noi. Alto, con un fisico da atleta e un passo sicuro. I suoi allievi, abbastanza vecchi da essere suoi nonni, girarono la testa e lo seguirono con lo sguardo. Ci videro. La sinagoga diventò silenziosa. «Sono il rabbino Sanders. Posso fare qualcosa per voi, signori?» Milo mostrò il suo tesserino. Sanders lo esaminò. Milo disse: «Scusi l'interruzione, rabbino. Quando ha finito vorremmo parlare con lei». «Certamente. Posso chiederle a proposito di che?» «Sophie Gruenberg.» Quella faccia di bambino fece appello a tutte le sue energie. Un bambino nello studio di un dottore, che si aspetta la puntura dell'ago. «Avete delle notizie da darci, ispettore?» Milo scrollò la testa. «Solo domande.» «Oh», disse Sanders, come un prigioniero che ha avuto la sentenza rinviata ma non commutata. «Cosa?» disse una delle donne in prima fila. «Cosa c'è?» Il rabbino Sanders disse: «Questi signori sono della polizia e sono qui per fare delle domande su Sophie». «Domande», disse la donna grassottella, la signora Cooper. Portava un paio d'occhiali, un maglioncino bianco abbottonato al collo, e un filo di perle. I capelli bluastri e ondulati erano pettinati con cura. «Perché altre domande ora?» «La polizia non sa far altro», disse Morgenstern agitando la mano. «Niente risposte: niente carne, molti vermi. Quanto tempo fa è stato? Un mese e mezzo?» Le donne fecero cenno di sì. «Pensate che ci sia qualche possibilità?» disse una delle donne che aveva i capelli neri tagliati corti con la frangia e un viso bianco gesso, sottile, che un tempo doveva essere stato molto bello. Me la immaginai sgambettante nella prima fila in un corpo di ballo nei ruggenti anni Venti. «Anche una piccola possibilità che sia ancora in vita?» Cinque volti che aspettavano una risposta. Milo fece un passo indietro. «Vorrei sperare di sì, signora», disse. E a Sanders: «Torniamo dopo per parlarne, rabbino».
«No, va bene adesso», disse Sanders. «Stavamo per concludere. Se ha pazienza, fra un minuto sarò da lei.» Tornò dietro il pulpito, parlò ancora un po' sui valori e le giuste prospettive, congedò il gruppo e tornò da noi. Le persone anziane si fermarono un po' vicino all'uscita, stringendosi in crocchio per consultarsi. «Il rinfresco è là fuori, signori», disse Sanders. Bisbigliarono ancora un po', poi tacquero. Le donne restarono indietro e si fece avanti il signor Morgenstern, il rappresentante designato. Era alto un metro e sessanta circa, tarchiato e con lo sguardo risoluto. Una miniatura d'uomo, che indossava pantaloni da lavoro cachi e camicia bianca sotto una giacca di lana grigia. «Lei deve fare delle domande», disse, «forse possiamo darle delle risposte.» Sanders guardò Milo. Milo disse: «Certo. Siamo contenti di avere qualsiasi informazione». Morgenstern fece cenno di sì. «È bene che lei abbia accettato», disse, «perché l'abbiamo votato: ha parlato il popolo. Questo deve essere rispettato.» Ci raccogliemmo di nuovo vicino al pulpito. Milo vi si mise davanti. Sanders si sedette e tirò fuori dalla tasca una pipa di radica. Milo disse: «Voglio essere schietto con voi. Non ho assolutamente niente di nuovo da dirvi sulla signora Gruenberg. In effetti, non sto investigando sul suo caso e sono venuto qui solo perché la sua scomparsa può essere collegata con un altro caso. E non posso dirvi niente su quest'ultimo». «Un bell'affare», disse Morgenstern, «deve essere divertente trattare con lei.» «Proprio così», disse Milo, sorridendo. «In cosa possiamo esserle utili, ispettore?» disse il rabbino Sanders. «Raccontatemi della signora Gruenberg. Tutto ciò che sapete sulla sua scomparsa.» «Abbiamo già detto tutto alla polizia», disse la signora Cooper, «era qui, è uscita, ed è tutto. Puff. Sparita.» Le grosse braccia ondeggiarono. «Dopo un paio di giorni hanno accettato di parlare con noi e hanno mandato un investigatore che ci ha fatto delle domande. Ha registrato una denuncia di scomparsa e promesso di restare in contatto con noi. Finora niente.» «Ricorda il nome dell'investigatore?» disse Milo. «Ma che investigatore?» rispose Morgenstern. «Ha raccolto una denun-
cia, e tutto è finito lì.» «Mehan», disse il rabbino, «l'ispettore Mehan della divisione Pacific. E ha fatto più che raccogliere una denuncia. Ha ispezionato la sua... la casa di Sophie. Lo so perché l'ho fatto entrare. Noi, io e la mia famiglia eravamo, siamo, suoi inquilini. Abitiamo accanto a lei e ognuno di noi ha le chiavi dell'altro. L'ispettore Mehan è entrato in casa sua e non ha trovato nessuna prova che fosse stato commesso un crimine. Tutto era in ordine. Ha anche controllato nella sua banca e non ha scoperto nessun prelievo consistente fatto di recente. E Sophie non ha neanche chiesto all'ufficio postale di conservare o di inoltrare altrove la posta in arrivo; perciò gli è sembrato che non avesse progettato di fare un viaggio. Ha pensato che si fosse persa da qualche parte.» «Impossibile», disse la signora dai capelli neri, «conosceva Venice come le sue tasche. Non si sarebbe mai persa. Giusto?» Cenni di approvazione. «È vero, signora Steinberg, ma chi può dirlo?» disse la signora Cooper. «Tutto può succedere.» I volti dei presenti assunsero un'aria vulnerabile. Seguì un lungo silenzio. «Ah», disse Morgenstern, «tutte ipotesi. Compresa la storia della banca: secondo me non significa niente. Forse teneva il suo gruzzolo da qualche altra parte.» «E dove?» disse Milo. «Non lo so», rispose Morgenstern, «non lo ha mai detto a nessuno e pensa che lo abbia detto a me? Sto solo facendo ipotesi, come lei. Forse in casa, sotto il letto, chi lo sa?» «Allora non sapete per certo che tenesse grosse somme in casa.» Sapevo a cosa stava pensando: droga. «No, no», disse Morgenstern, «non ne so niente. Come tutti d'altronde. Non tirava fuori i fatti suoi con facilità. Non diceva mai cosa pensava o faceva.» «Rabbino», disse la donna che non aveva ancora parlato. «Sì, signora Sindowsky?» «Gli racconti delle fotografie.» «Oh», disse il rabbino a disagio. «Quali fotografie?» chiese Milo. «L'ispettore Mehan è andato alla morgue e ha fotografato tutte... le persone anziane che erano... tutte le vittime non identificate della stessa età di
Sophie. Me le ha portate a far vedere. Ha pubblicato qualche comunicato, chiamato altri dipartimenti di polizia: Long Beach, la contea di Orange, e chiesto se avevano persone... non identificate. Nessuna era Sophie. Grazie a Dio.» Altri quattro «grazie a Dio» gli fecero eco. Sanders disse: «In tutta onestà mi sembra scrupoloso, l'ispettore Mehan. Ma dopoché tre settimane erano passate senza che lei si facesse viva, ci ha detto che esistevano dei limiti a quanto poteva fare. Non c'era la prova che fosse stato commesso un delitto. La scelta era tra aspettare o assumere un investigatore privato. Abbiamo discusso sulla possibilità di farlo, assumere l'investigatore, abbiamo chiamato qualche agenzia. È molto caro. Abbiamo chiesto alla Federazione ebraica di valutare la possibilità di un finanziamento. Non avrebbero concesso un investigatore, ma sono stati d'accordo per la ricompensa». «Quegli spilorci: per loro sono spiccioli», disse Morgenstern. Milo chiese: «Aveva qualche ragione per partire?» Sguardi disorientati. «Questo è il punto», disse la signora Steinberg, «non aveva nessun motivo per partire. Era contenta qui. Perché avrebbe dovuto andarsene?» «Contenta?» disse la signora Sindowsky. «L'hai mai vista sorridere?» «Sto solo dicendo, Dora», disse la signora Steinberg, «che dopo tutto questo tempo forse dobbiamo aspettarci il peggio.» Milo guardò la signora Steinberg. «Oltre al periodo trascorso da quando è sparita, ci sono altri motivi per pensare al peggio?» Tutti gli occhi fissarono la donna dai capelli neri. Sembrò a disagio. «Non ha senso: Sophie non era il tipo da andarsene in giro. Era una persona molto... metodica. Attaccata alla sua casa, ai suoi libri. E amava Venice, è vissuta qui più a lungo di tutti noi. Dove sarebbe potuta andare?» «Aveva dei parenti?» disse Milo, «ne ha mai menzionato qualcuno?» Il rabbino Sanders disse: «Gli unici componenti della famiglia di cui parlava erano i suoi fratelli e sorelle uccisi dai nazisti. Parlava molto dell'olocausto, dei mali del fascismo». La signora Sindowsky disse: «Parlava molto di politica, punto». «Di' tutta la verità», disse Morgenstern, «era una rossa.» «E allora?» disse la signora Cooper, «è un reato in questo paese libero, Sy? Esprimere le proprie opinioni politiche? Non farla passare per una criminale.» «Chi ha detto che è un reato?» ribatté Morgenstern, «ho solo affermato
un fatto. La pura verità. Era quello che era. Rossa come un pomodoro.» Milo disse: «Il manifesto dice che è scomparsa qui vicino. Com'è successo?» «Stavamo facendo una festa», disse il rabbino, «un paio di settimane dopo il Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Cercando...» «Cercando di ringiovanire lo spirito della comunità», l'interruppe la signora Sindowsky, come recitando una lezione, «di organizzare qualcosa, giusto rabbino?» Sanders le sorrise, poi si girò verso Milo. «La signora Gruenberg si è fatta viva, ma se n'è andata poco dopo. È stata l'ultima volta che l'abbiamo vista. Ho pensato che fosse tornata a casa. Quando la posta ha cominciato ad accumularsi davanti alla porta, mi sono preoccupato. Ho usato la chiave che ho io per entrare e ho visto che non c'era. Ho telefonato alla polizia. Trascorse quarantotto ore, l'ispettore Mehan ha acconsentito a venire.» «E l'ultima volta che l'avete vista, alla festa, era intorno alle otto?» «Otto, otto e mezzo», disse Sanders, «nessuno se lo ricorda con precisione.» «Era venuta in macchina o a piedi?» «A piedi. Non guidava, le piaceva camminare.» «È diventato un po' problematico da queste parti andare in giro di notte», disse Milo. «Vedo con piacere che l'ha notato», disse Morgenstern, «e di giorno le cose non vanno meglio.» «Non se ne preoccupava?» «Avrebbe dovuto», disse la signora Steinberg, «con tutti gli avanzi di galera e i barboni che girano qui intorno e che ormai dettano legge e tutta la droga che gira. Ma non c'era verso di farglielo capire: era testarda. Se ne andava in giro come se fosse la padrona del quartiere.» «Le piaceva camminare», disse Sanders, «come esercizio.» «A volte» replicò Morgenstern, «l'esercizio non è così salutare.» La signora Cooper lo guardò in cagnesco. Lui le strizzò l'occhio e sorrise. Milo disse: «Rabbino, lei era suo vicino di casa. Com'era il suo stato mentale gli ultimi giorni prima che scomparisse?» «Gli ultimi giorni?» disse Sanders. Fece ruotare la pipa tra le mani. «A dire il vero, probabilmente era sconvolta.» «Probabilmente?» «Non era una che esprimesse le sue emozioni liberamente. Stava sulle
sue.» «Allora come fa a dire che era sconvolta?» Sanders esitò, guardando prima i suoi allievi, poi Milo. «C'è stato», disse, «un crimine. Una persona che conosceva.» «Quale crimine?» disse Morgenstern. «Lo dica chiaramente. Un omicidio. Droga e armi, la storia al completo. Un ragazzo negro a cui dava alloggio. È stato ucciso, per droga.» Corrugò la fronte e le sue sopracciglia si unirono come due bruchi che si accoppiano. «Ah! Ecco il grande segreto che lei non poteva svelarci, vero?» Milo chiese: «Ne sapete niente?» Silenzio. La signora Sindowsky disse: «Solo quanto abbiamo sentito dal rabbino qui. Aveva un inquilino che è stato ucciso». «Nessuno di voi lo conosceva?» Scrollate di capo. «Sapevo di lui ma non lo conoscevo di persona», disse la signora Cooper. «Cosa sapeva?» «Che aveva preso qualcuno a pensione. Una volta l'ho visto con il suo motorino mentre andava a casa. Un ragazzo di bell'aspetto. Molto alto.» «C'erano molte chiacchiere», disse Morgenstern. «Che tipo di chiacchiere?» chiese Milo. «Un ragazzo negro, cosa pensa? Si stava mettendo in una situazione pericolosa.» Morgenstern rivolse alle donne uno sguardo accusatorio. Loro sembrarono imbarazzate. «Tutti siamo buoni e progressisti», disse, «finché dalle parole non si passa ai fatti. Ma Sophie era una rossa: era proprio il genere di cose che avrebbe fatto. Lei pensa che l'abbia cacciata in qualche guaio, il ragazzo? Portando in casa i soldi della droga? Sono venuti a prenderli e hanno preso lei?» Milo rispose: «No. Non c'è nessuna prova che lo confermi». Morgenstern gli indirizzò una strizzata d'occhio complice. «Nessuna prova, ma lei è venuto qui a far domande. La faccenda si complica, eh, signor poliziotto? Altra carne, altri vermi.» Milo fece qualche altra domanda, decise che non avevano altro da offrirci, li ringraziò e ce ne andammo. Uscendo rimettemmo gli zucchetti nel cesto di cuoio, camminammo un po' sul lungomare e prendemmo una tazza di caffè in un chiosco giapponese. Milo fissò i barboni che ronzavano in-
torno e questi si allontanarono, come pelle morta che si squama. Sorseggiò, guardò su e giù tra la gente che passeggiava, poi fermò lo sguardo sulla sinagoga. Dopo qualche istante i quattro vecchietti uscirono dall'edificio e si incamminarono insieme, con in testa Morgenstern. Un battaglione di anziani. Quando scomparvero dalla vista, Milo buttò il bicchiere di plastica nel cestino e disse: «Andiamo». I chiavistelli nella porta della sinagoga erano chiusi. I colpi di Milo fecero venire Sanders alla porta. Il rabbino aveva addosso una giacca grigia, la sua pipa in bocca, ancora spenta, e teneva in mano un grosso libro marrone con il taglio marmorizzato. «Può dedicarci ancora un po' del suo tempo, rabbino?» Sanders tenne la porta aperta e ci fece entrare nell'anticamera. Era sparita gran parte dei biscotti e restavano due lattine di gazzosa. «Posso offrirvi qualcosa?» disse Sanders mentre infilava il libro in uno degli scaffali. «No grazie, rabbino.» «Torniamo nel tempio?» «Va bene qui, grazie. Mi chiedevo se non ci fosse qualcosa di cui non si sentiva di discutere di fronte ai suoi allievi.» «Allievi.» Sanders sorrise. «Mi hanno insegnato molte più cose di quanto non abbia insegnato io a loro. Questo è solo un impegno part time. Durante la settimana insegno in una scuola elementare nel distretto di Fairfax. Qui tengo le funzioni il fine settimana, faccio le prediche la domenica e organizzo occasionali feste sociali.» «Sembra un programma molto pieno.» Sanders alzò le spalle e si sistemò lo zucchetto. «Cinque bambini. Los Angeles è una città cara. È per questo motivo che mi è capitato di conoscere Sophie, la signora Gruenberg. Trovare un alloggio a prezzi accessibili è impossibile, specialmente se si hanno bambini. La gente di questa città sembra non amare i bambini. Alla signora Gruenberg non importava, anche se non era proprio ... una nonna. Ed era molto ragionevole sull'affitto. Diceva che lo faceva perché io e mia moglie avevamo ideali. Ci rispettava per questo. Anche se lei non aveva bisogno della religione per se stessa. Il marxismo era la sua fede. Era veramente una comunista incallita.» «Parlava spesso e volentieri delle sue idee politiche?» «Se glielo chiedevi, diceva come la pensava. Ma non andava in giro a
sbandierarle: non era una donna amante della compagnia. Piuttosto il contrario. Stava per i fatti suoi.» «Non amava la compagnia?» Sanders fece cenno di sì. «Ho cercato di tirarla verso la sinagoga, ma non era interessata alla religione, non era affatto socievole. A dire il vero non era molto benvoluta. Ma gli altri si preoccupavano per lei. Tutti si prendono cura l'uno dell'altro. La sua scomparsa li ha veramente terrorizzati: gli veniva sbattuto in faccia il loro essere indifesi. Sono perciò contento che lei sia tornato dopo che se ne sono andati. Parlare di Ike li avrebbe solo sconvolti ulteriormente. È ciò di cui vuol parlare, vero?» «Perché l'ispettore Mehan ha pensato che fosse una perdita di tempo?» Sanders abbassò lo sguardo e si morse il labbro. «Mi ha detto, e questo non gliel'ho raccontato, che la storia non prometteva niente di buono. Il fatto che non avesse fatto preparativi per una partenza significava che molto probabilmente è stata vittima di un omicidio, mentre tornava a casa. Se si fosse persa e avesse cominciato a vagare o se avesse avuto un ictus, sarebbe saltata fuori nel giro di tre settimane. In un modo o nell'altro. E i detective privati possono trovare le persone vive, ma non servono molto per scoprire i cadaveri.» Alzò lo sguardo. Occhi azzurri, fermi. Stringendo la pipa tra i denti morse così forte che le mascelle si serrarono e la barba diventò irta. «È la sua padrona di casa. C'è un'ipoteca sull'abitazione?» Sanders scrollò la testa. «No, è libera da ipoteche, da molti anni. L'ispettore Mehan l'ha verificato controllando i suoi redditi.» «E i suoi pagamenti? Chi li salda?» «Lo faccio io. Ma non è arrivata molta roba, solo bollette. Ho anche conservato la sua posta. Quando sembra qualcosa da pagare apro la lettera e pago. So che non è perfettamente legale fare questo, ma l'ispettore Mehan mi ha assicurato che non ci sarebbero stati problemi.» «E per quanto riguarda il suo affitto?» «Ho aperto un conto corrente fruttifero, e vi ho depositato le quote di ottobre e novembre. Mi è sembrata la cosa migliore finché non scopriamo... qualcosa.» «Dove tiene la sua posta, rabbino?» «Proprio qui, nella sinagoga, sotto chiave.» «Vorrei dare un'occhiata.» «Certamente», disse. Mise la pipa nella tasca della giacca ed entrò nel tempio. Lo osservammo mentre apriva un armadietto dietro il pulpito e ti-
rava fuori due buste di carta. Consegnò le buste a Milo. Su una c'era scritto SETT./OTT.; sull'altra NOV. Milo disse: «È tutto?» «Sì.» Sguardo triste. Milo aprì le buste, estrasse il contenuto e lo sparse sul ripiano della libreria. L'esaminò pezzo per pezzo. Per lo più volantini e lettere pubblicitarie indirizzate col computer. La parola «occupante» era più frequente del suo nome. Qualche bolletta aperta e con il timbro «pagato», seguita dalla data di pagamento. Sanders disse: «Speravo ci fosse qualcosa di personale, che fornisse un indizio. Ma non era molto... in contatto col mondo esterno». La sua faccia da bambino diventò triste. Ficcò la mano nella tasca e tastò finché non trovò la pipa. Milo rinfilò le lettere nelle buste di carta. «C'è qualcos'altro di cui vuole parlarmi, rabbino?» Sanders strofinò il fornello della pipa sul naso. «Solo una cosa», disse, «l'ispettore Mehan ha una regolare denuncia su questo e dovreste averlo registrato da qualche parte. I vecchi non sanno niente neanche di questo: non ho ritenuto utile dirglielo. Qualche giorno dopo la sua scomparsa, era un martedì, quindi dev'essere successo durante il weekend, sono entrati in casa dei ladri. In entrambi gli appartamenti. Io e la mia famiglia eravamo fuori, a un ritiro organizzato dalla scuola in città. L'ispettore Mehan ha detto che si trattava probabilmente di un drogato che cercava cose da vendere. Un vigliacco: ha sorvegliato la casa, ha aspettato che uscissimo e poi, quando era certo che non c'era nessuno, è entrato.» «Cosa è stato preso?» «Da quanto ho potuto vedere, in casa di Sophie ha preso un televisore, una radio, un samovar placcato in argento, un po' di bigiotteria senza valore. Da noi anche meno: non abbiamo neanche il televisore. Ha preso solo posate, una cassettina rituale per le spezie, un candelabro e un registratore che usavo per insegnare l'ebraico. Ma ha buttato tutto per aria. Tutti e due gli appartamenti erano in gran disordine: cibo tirato fuori dal frigorifero e buttato in giro, cassetti aperti, documenti sparsi dappertutto. Mehan ha detto che mostrava segni di disordine mentale. Immaturità: adolescenti o qualche drogato.» «Da dove è entrato?» «Dalla porta sul retro. Da allora abbiamo cambiato la serratura e messo sbarre alle finestre. Ora i miei figli guardano fuori attraverso le sbarre.»
Scrollò la testa. «Il danno materiale è stato insignificante», disse, «ma il sentirsi violati, l'odio... il modo in cui il cibo era stato disseminato sembrava così malevolo. E un'altra cosa... che sembrava essere ... personale.» «Di che si tratta, rabbino?» «Il drogato, o quel che era, ha scritto sui muri. Con una vernice rossa che aveva preso in garage, la stessa vernice che avevamo usato per dipingere le finestre una settimana prima. Sembrava sangue. Minacce, frasi antisemite. Bestemmie: ho dovuto coprire gli occhi dei miei bambini. E un'altra cosa che ho trovato molto strana: «Ricorda John Kennedy!» Seguito da molti punti esclamativi. Il che non ha nessun senso, no? Kennedy era antirazzista. Ma l'ispettore Mehan ha detto che se si trattava di un drogato o di un pazzo, non dovevamo aspettarci nessuna razionalità. Così penso che questa sia l'unica spiegazione.» Si accigliò e mordicchiò ancora la pipa. Milo disse: «A lei non piace questa spiegazione?» «Non è questo il punto», rispose Sanders, «non è niente di... tangibile. Solo una sensazione che io e mia moglie abbiamo. Da quando Ike è stato ucciso. Da quando è sparita Sophie. Come se fossimo in pericolo, come se là fuori ci fosse qualcuno che vuol farci del male. Nonostante le serrature e le sbarre. In realtà non vedo mai nessuno, quando ci guardo davvero, così penso sia solo un fatto nervoso. Mi son detto che l'America è così: bisogna farci l'abitudine. Ma mia moglie vuole trasferirsi di nuovo a Auckland in Nuova Zelanda. Le cose erano diverse lì.» Milo ficcò la mano nella tasca della giacca, tirò fuori la foto che aveva preso da Dinwiddie e la mostrò al rabbino. «Sì, è Ike», disse Sanders, «la sua morte ha qualcosa a che fare con la scomparsa di Sophie?» «Niente per quanto ne sappiamo, rabbino. Cosa può dirci di lui?» «Non molto. Lo conoscevo appena. Ci siamo incrociati qualche volta e nient'altro.» «Per quanto tempo ha abitato qui prima di essere ucciso?» Sanders scrollò la testa. «Non lo so. La mia impressione è che abitasse qui da molto tempo.» «Da cosa lo ha capito?» «Loro, lui e Sophie, avevano ... un rapporto sereno. Andavano molto d'accordo.» «Avevano un buon rapporto?»
«Sembrava di sì.» Sanders portò la pipa alla bocca, poi la tolse. «Veramente discutevano molto. Potevo sentirlo attraverso le pareti. A essere onesto, lei era una vecchia donna irascibile. Ma lei e Ike sembravano avere una certa ... naturalezza nei loro rapporti. Lui faceva lavoretti per lei, curava il giardino, portava la spesa; penso lavorasse in una drogheria. E il fatto che lei lo tenesse in casa, presupponeva molta fiducia, non pensa?» «C'era qualche motivo per cui non dovesse fidarsi di lui?» Sanders scrollò la testa. «No, non intendevo dire questo. Il fattore razziale non ha la minima rilevanza per me. Ma è inconsueto. Gli anziani hanno avuto brutte esperienze con negri e tendono ad averne paura. Non che ci fosse nessun motivo di aver paura di Ike. Dai pochi contatti che ho avuto con lui, mi sembrava un bravo ragazzo. Educato, piacevole. La sola cosa che ho trovato strana in lui era l'interesse per l'olocausto.» «Perché strana?» «Per il fatto stesso che se ne interessasse. Uno della sua età, non ebreo: non è un interesse comune, non trova? Anche se penso che vivendo con Sophie la cosa non era poi così curiosa. Era il suo argomento favorito e quindi può aver suscitato l'interesse di Ike.» «Come mai sa di questo interesse di Ike per l'olocausto?» «Per un fatto successo la scorsa estate, circa una settimana dopo che ci eravamo trasferiti qui. L'ho incontrato in garage. Stavo disfacendo dei pacchi e lui era appena entrato con il suo motorino. Aveva un pila di libri sottobraccio e li ha fatti cadere. L'ho aiutato a raccoglierli. E ho notato un titolo: qualcosa sull'origine del partito nazista. L'ho aperto e ho visto dall'ex libris che proveniva dall'Holocaust Center di Pico, a West L.A. come pure gli altri che avevo raccolto. Gli ho chiesto se stava facendo una relazione per la scuola e lui ha sorriso e mi ha detto di no; era un progetto di ricerca personale. Mi sono offerto di aiutarlo, se ne aveva bisogno, ma lui ha sorriso ancora e mi ha detto che aveva tutto ciò che gli serviva. Ho pensato che era insolito, ma mi ha fatto piacere che qualcuno della sua età si interessasse a quelle cose. La maggior parte dei ragazzi non ha idea di cosa sia successo cinquant'anni fa.» «Su cosa vertevano in generale le discussioni tra la signora Gruenberg e Ike?» «Non discussioni nel senso di liti. Quando ho parlato di discussioni intendevo dire conversazioni.» «Alzavano la voce quando parlavano?» «Discutevano animatamente, ma non riuscivamo a distinguere le parole,
non ascoltavamo. Conoscendo Sophie, comunque, penso parlassero di politica.» «Ha idea di quali fossero le opinioni politiche di Novato?» «Assolutamente no.» Sanders pensò per un momento. «Ispettore. Sospetta che quanto è successo possa avere qualche relazione con ... la politica?» «Neanche su questo c'è la minima prova, rabbino. La signora Gruenberg è stata molto turbata dalla morte di Novato?» «Come le ho già detto, ho pensato che fosse sconvolta. Ma non ho potuto osservare molto la sua reazione perché stava sempre chiusa in casa ed è uscita poche volte dopo il fatto. Pensandoci adesso, mi rendo conto che era strano: prima di solito usciva in cortile a stendere la biancheria o andava a fare le sue passeggiate nel quartiere. Ho scoperto che Ike era stato ucciso solo perché un altro poliziotto, un negro di cui non ricordo il nome, è passato a casa mia per farmi qualche domanda. Su Ike. Se usava droga. Gli ho detto che non ne ero a conoscenza. Con chi usciva. Non avevo mai visto nessuno. Poi mi ha chiesto di Sophie. Se lei usava droga. Se comprava cose costose che non poteva permettersi. E io mi sono messo a ridere. Ma quando mi ha detto il motivo per cui era venuto, ho smesso. Quando è andato via, sono andato all'appartamento di Sophie e ho bussato alla porta. Non ha risposto. Non volevo violare la sua privacy, così me ne sono andato. Il giorno dopo ho provato ancora, ma anche quella volta non ha risposto. Ho cominciato a preoccuparmi: a una persona anziana può capitare di tutto, così ho deciso di aspettare un po' prima di usare la mia chiave. Poco dopo l'ho vista uscire e incamminarsi verso Rose Avenue. Sembrava arrabbiata. Lo sguardo torvo. Le sono corso dietro e ho cercato di parlarle, ma ha scrollato la testa e ha tirato dritto. La volta successiva l'ho vista qui in sinagoga. Era venuta alla festa. Visto il suo umore nero ne sono stato sorpreso. Ma è restata in disparte, evitando la gente. Girava per la stanza, si guardava attorno, toccava le pareti, le panche. Quasi le stesse vedendo per la prima volta.» «O l'ultima», disse Milo. Sanders spalancò gli occhi. Tenne la pipa con le due mani, come se fosse improvvisamente diventata pesante. «Sì, ha ragione», disse. «Poteva essere così. Le vedeva per l'ultima volta. Stava dicendo addio.» 20
Tornammo al parcheggio. Il custode fermò il traffico sulla superstrada per lasciarci uscire. Milo non ringraziò per la cortesia. «Svastiche sulle macchine, scritte minacciose alle pareti», dissi, «cosa ne pensi?» «Penso che il mondo sia un luogo davvero penoso», disse avanzando a passo d'uomo in mezzo alla ressa caotica. I pedoni non collaboravano molto quel giorno. Milo imprecò mentre si faceva largo faticosamente, ma la sua mente era altrove. «Ricorda Kennedy», dissi, «non ha molto senso. A meno che non fosse una minaccia e non un tributo. Come a dire ricorda cosa è successo a Kennedy: colpiremo anche te.» «Chi minaccia chi?» «Non lo so», risposi e rimasi in silenzio. Sorrise. «Cominci a vedere il male dappertutto? Sembra un modo di vedere le cose da poliziotto.» «A proposito di poliziotti, questo Mehan è in gamba?» «Molto.» «Pensi che lui e Smith si siano messi in contatto?» Mi guardò sarcastico. «Cos'è la commissione di controllo della polizia?» «Stavo solo chiedendomelo.» «Chiedendoti cosa, se un tentacolo della piovra sa cosa fa l'altro? Di solito no. Ma anche se Mehan e Smith avessero preso contatti, a cosa sarebbero arrivati? A un doppio vicolo cieco.» «La pista della droga poteva condurre a qualcosa», dissi, «Smith era orientato in quella direzione; il rabbino ha detto che ha chiesto se la Gruenberg era coinvolta in storie di droga. Non che la cosa mi sembri probabile.» «Perché no?» «La nonnina spacciatrice? Non ne aveva lo stile di vita.» «Alex, molto probabilmente Smith stava solo indagando: lavorava con quello che aveva, che in questo caso è quasi zero. Ma per la piega presa dagli eventi, non puoi eliminare nessuna probabilità. Con tutti i soldi che ci si possono guadagnare, ne succedono di cose strane. Abbiamo preso vecchiette che riempivano la calzetta con la roba. Gente che abbracciava teneri bambini e i marmocchi erano imbottiti di polvere bianca. Mutilati che usavano falsi arti artificiali. E il profilo della Gruenberg non contraddice quello della nonnina spacciatrice: aveva idee politiche estremiste, il che si-
gnifica che non era riluttante a opporsi al sistema. Viveva in disparte, non le piaceva la compagnia e dava alloggio a Novato, un ragazzo sbucato dal nulla, senza documenti di identità, senza passato, ospitato in casa sua. Un ragazzo negro. È strano anche per Venice: hai visto cosa pensavano i vecchietti. Poi, qualche giorno dopo la sua morte, è sparita. Forse era anche una comunista, quello era il legame fra i due. Forse i due avevano qualche storia politica in corso. Ehi, forse il denaro finiva proprio lì.» «Soldi per la causa?» «Volevi fare congetture, e io le ho fatte.» Ci pensai mentre era alle prese col volante e finalmente riusciva a rientrare sulla Pacific Highway. «Milo, se la Gruenberg era coinvolta in una storia di droga, forse aveva fatto arrabbiare molto qualcuno ed è scappata per sfuggire al pericolo. O forse la gente che temeva è arrivata prima. O ancora non aveva restituito un quantitativo di droga o di soldi a chi doveva e l'irruzione in casa sua è stata fatta da qualcuno che cercava di riscuotere.» «Forse», disse, «ma devi anche tener conto che i tossici sono opportunisti di prim'ordine. I manifesti li hanno informati che era sparita. La sua casa era vuota: un obiettivo perfetto. Il fatto è che tutte queste sono solo elucubrazioni: non sappiamo un cazzo.» Un isolato dopo dissi: «Holly poteva far parte della banda, quella della Gruenberg e di Novato?» «Banda? Una vecchia signora, un fattorino e una ragazza ritardata che non figura in nessuna lista di sovversivi? Non mi sembra una gran banda.» «Non era ritardata...» «Okay, solo stupida. Non cambia niente.» «Non ho detto che fosse un gruppo efficiente. Due di loro sono morti e una è scomparsa. Ma forse l'attentato di Holly a Massengil aveva una motivazione politica.» «Se era a Massengil che sparava.» «Se.» Milo si fermò brevemente a uno stop sul Washington Boulevard. «Troppo strano, Alex. Mi è venuto il mal di testa.» Entrò in una stazione di servizio self-service con un minimarket sul retro del parcheggio. Aspettai in macchina mentre comprava una scatola di aspirine. Prima di tornare in macchina andò verso un telefono pubblico e si fermò qualche tempo buttando giù pasticche, inserendo quarti di dollaro e parlando con la cornetta incollata al mento. Fece due chiamate.
Quando tornò disse: «Mehan è fuori città, due settimane di vacanza, nessuno sa dove siano i suoi rapporti, mi richiameranno». «Per chi era la seconda telefonata?» Mi guardò: «Che segugio! Ho provato all'Holocaust Center, volevo lasciare un messaggio a una persona che conosco là. Ho trovato una segreteria telefonica, sono chiusi la domenica». «È vero», dissi, «ti conoscono. Li hai aiutati a rintracciare uno scienziato nazista. Quello protetto dall'esercito.» «Il vecchio Werner Kaltenblud, presidente del club Gas velenoso. Il bastardo è ancora vivo, vive come un nababbo in Siria, impenitente. Ho collegamenti più recenti con il centro. Lo scorso anno qualcuno ha disegnato svastiche sul cantiere dell'edificio che stanno costruendo per ospitare il museo. Non è un lavoro che faccio normalmente, ma mi hanno chiamato a causa del caso Kaltenblud. Poi il caso è arrivato alla stampa e sono stato sostituito dagli alti papaveri. L'ATD.» «Frisk?» «No. Lo stronzo che lo ha preceduto, ma è la stessa vecchia storia: le troupe televisive e i politici che fanno discorsi: Gordon Latch, in effetti.» «E Massengil?» «No. Non era il suo distretto.» «E forse nemmeno rientrava nella sua sfera di interessi.» «Può darsi. Un vero e proprio circo, Alex. L'ATD che giocava a I Spy, faceva un sacco di belle domande, riempiva molte carte, ma nessuno si è mai presa la briga di sorvegliarli. La settimana successiva ci sono stati dei vetri rotti e un incendio doloso nella roulotte del cantiere. Non abbiamo mai scoperto i colpevoli. Ce n'è abbastanza per perdere di credibilità. Ma forse hanno ancora un residuo di amicizia nei miei confronti per pensare al passato e cercare di ricordare qualcosa su Novato. Qualcosa di più della sua tessera di iscrizione alla biblioteca.» Girò a sinistra sul Washington Boulevard, che correva parallelo alla costa. Altro tipo di gente qui. Pantaloni bianchi e belle abbronzature, piccole macchine straniere aggressive. Il boulevard era fiancheggiato da nuove costruzioni, per lo più moderni edifici bassi, adibiti a uffici, con motivi ornamentali che ricordavano un'eredità architettonica mai esistita e ristoranti in stile marinaro con davanti striscioni che pubblicizzavano piatti unici e orari con consumazioni a tariffa ridotta. «Carino, eh?» disse, «bella la vita qui!» Continuò per un paio di isolati, poi girò su una strada che finiva con l'i-
solato successivo. Case basse, a vari stadi di ristrutturazione. Macchine sui lati delle strade, nessuno in giro. Parcheggiò davanti a un idrante, lasciò il motore acceso, uscì e aprì il bagagliaio. Tornò con in mano un fucile. Lo fissò sul cruscotto, con la canna rivolta verso l'alto, e ripartì. «Dove andiamo?» dissi. «In un posto meno carino.» Rientrò sul Washington Boulevard, prese la Marina Freeway, passò sulla 405, si districò per un po' nel traffico in prossimità dell'aeroporto, per poi uscire sull'Imperial Highway in direzione est. Intorno alla rampa d'uscita c'erano i grandi parcheggi grigi del terminal d'imbarco, compagnie di import-export, spedizionieri accreditati e un deposito su quattro piani che sembrava una scatola grande abbastanza da contenere un intero edificio di uffici. Un semaforo rosso ci fermò all'incrocio tra l'Imperial e la Cienega, e aspettammo il verde guardando l'enorme massa tronca della Century Freeway: zampe di dinosauro di cemento alte trenta metri sostenenti una lastra a sei corsie che finiva a mezz'aria con una frangia di vene d'acciaio arricciate: un'amputazione non ricucita. Apparve la freccia verde e Milo girò. Il paesaggio circostante si deteriorò bruscamente riducendosi a schiere di casette a un piano dai muri grezzi dietro cortili polverosi. Una sala da biliardo, un negozio di liquori e un bar che pubblicizzava «ballerine nude», tutti con insegne di compensato e coperti di scritte. Persino il peccato non riusciva ad attecchire in questi luoghi. Ma un isolato dopo c'erano segni di rivitalizzazione. Motel che affittavano camere a settimana, autosaloni, commercianti di auto usate, negozi di parrucche, appartamenti cadenti. Alcune chiese perfettamente conservate, un paio di centri commerciali. La massa disordinata del campus del Southwestern College. E, per ravvivare un po' il tutto, i Golden Arches e la loro clonazione color arcobaleno: un fast-food in un prefabbricato a struttura modulare, così pulito e senza graffi che sembrava essere stato posato lì per sbaglio da qualche minuto. Milo guidava senza parlare. Notai che andava più veloce del solito. Reggeva il volante con le due mani. Mentre sfrecciavamo verso est, i negozi diventarono più piccoli, più tristi, più squallidi. Notai una certa costanza nella loro composizione: rigattieri, macellai, taverne e negozi di liquori. Molti negozi di liquori. Uomini magri, scuri, stavano appoggiati ai muri, con in mano sacchetti di carta, fumando e fissando il vuoto. Alcune donne
in short e pattini ricevevano dei fischi passando. Ma per lo più le strade erano deserte: la sola cosa che South Central aveva in comune con Beverly Hills. Dopo mezzo chilometro non si vedevano più neanche i negozi di liquori, e le vetrine si alternavano alle facciate di compensato. Sale cinematografiche trasformate in chiese, a loro volta trasformate in discariche. Appezzamenti vuoti. Cimiteri di macchine improvvisati. Interi isolati di edifici abbandonati la cui ombra offriva riparo a occasionali straccivendoli o a qualche bambino smarrito. Ancora giovani uomini, sazi di tempo e vuoti di speranza. Non una faccia bianca in vista. Milo girò a sinistra sul Broadway Boulevard, avanzò fino alla Avenue 108 e prese a destra. Oltrepassammo un'enorme fortezza di mattoni, marrone, senza finestre. «La divisione Southeast», disse, «ma non è qui che abbiamo appuntamento.» Continuò per qualche altro chilometro, attraverso isolati silenziosi di casette minuscole e anonime. L'ocra, il rosa e il turchese dei rivestimenti esterni emergevano a stento dal groviglio di scritte nere o vivacemente colorate scarabocchiate dalle gang. Prati sporchi erano circondati da recinzioni di lamiera. Cani malnutriti rovistavano tra i rifiuti che costeggiavano il bordo della strada. Una brusca svolta ci portò sulla Avenue 111. Un'altra ci condusse in un vicolo dal fondo stradale dissestato e circondato da una fila di garage che si alternavano ad altre recinzioni di lamiera. Un gruppo di negri sui vent'anni bighellonava a metà vicolo. Quando videro la Ford che si avvicinava lentamente ci fissarono con aria spavalda, poi si allontanarono senza fretta scomparendo in uno dei garage. Milo disse: «A essere precisi, questo non è Watts: è un po' più a est. Ma non cambia niente». Spense il motore e mise in tasca le chiavi, poi sganciò il fucile. «È qui che è successo», disse, «Novato. Se vuoi restare in macchina, fai pure.» Uscì. Feci altrettanto. «Questo posto era un grosso punto di spaccio», disse, guardando su e giù per la via col fucile in mano; «poi è stato ripulito: una di quelle retate di quartiere. Adesso hanno ricominciato. Dipende dalla settimana in cui capiti.» I suoi occhi si muovevano in continuazione. Passando da un'estremità all'altra del vicolo. Soffermandosi sulle porte dei garage. Seguii il suo sguardo e vidi i fori e le fessure provocati dalle pallottole sui muri e sugli infis-
si: malvagi occhi neri tra le macchie dei graffiti. Il terreno era un viluppo di erbacce, immondizia, preservativi usati, sacchetti di cellofan, scatole di fiammiferi vuoti e il luccichio da bigiotteria dei pezzetti di carta stagnola. L'aria puzzava di cacca di cane e di cibo andato a male. «Dimmi», disse Milo, «che motivo poteva avere per venire qui se non per vendere o comprare droga?» Il rumore di un motore di macchina dal lato nord del vicolo ci fece girare entrambi. Milo sollevò il fucile e lo afferrò con tutt'e due le mani. Sembrava un'auto civetta della polizia. Una Matador. Verde salvia. Milo si rilassò. La macchina si mise col muso contro quella di Milo. L'uomo che ne usci aveva all'incirca la mia età, di altezza media, magro, molto scuro, ben rasato, un'acconciatura di capelli afro di media lunghezza. Indossava un vestito grigio a righe sottili da bancario, camicia bianca, cravatta di seta rossa e un paio di scarpe a punta lucide. Mascella squadrata e schiena dritta. Molto bello. Ma, nonostante l'atteggiamento fiero, sembrava stanco. Milo disse: «Maury». «Milo. Congratulazioni per la promozione.» «Grazie.» I due si strinsero la mano. Smith mi guardò. La faccia era perfettamente rasata e profumava di acqua di colonia. Ma gli occhi erano affaticati e arrossati sotto le lunghe ciglia folte. Milo disse: «Questo è Alex Delaware. È uno strizzacervelli, l'ho chiamato a lavorare con i bambini alla scuola elementare Hale. È lui che ha scoperto il collegamento tra la Burden e il tuo uomo. Da anni è un consulente del dipartimento e non ha mai fatto un giro da queste parti. Ho pensato che il Southeast sarebbe stato istruttivo». «Dottore», disse Smith. La sua stretta era ferma, molto secca. E a Milo: «Se volevi essere istruttivo, come mai non gli hai dato un fucile?» Milo sorrise. Smith tirò fuori un pacchetto di Marlboro, ne accese una, e disse: «Bene». Milo chiese: «Dov'è stato fatto fuori?» «Se ricordo bene», rispose Smith, «esattamente nel punto in cui hai parcheggiato. È difficile da ricordare con tutti i morti ammazzati che abbiamo da queste parti. Ho portato il rapporto. Aspetta un attimo.» Ritornò alla macchina, aprì la portiera dal lato del passeggero, si sporse all'interno e tirò fuori una cartella. Nel passarla a Milo disse: «Non far ve-
dere le foto al dottore, a meno che tu non voglia perdere un consulente». «Così brutte?» «Una fucilata a bruciapelo, sai come ti riduce. Deve aver messo le mani davanti alla faccia in un riflesso di difesa perché sono state ridotte a brandelli, e sono bazzecole, la faccia era... come te la può ridurre una fucilata. Quando sono arrivati i ragazzi della scientifica era in pratica dissanguato. Dalle analisi fatte risultava che era drogato. Coca, alcol e tranquillanti: una vera farmacia ambulante.» Milo sfogliò il contenuto della cartella col volto impassibile. Mi avvicinai e guardai. Fogli di carta, molta prosa dattiloscritta da verbale di polizia. Un paio di foto. Colori vivi. Inquadratura a campo lungo della scena dell'omicidio. Primi piani di qualcosa che giaceva supino sull'asfalto sporco. Qualcosa di lacero e umido che un tempo era stato un uomo. Mi si rivoltò lo stomaco. Distolsi lo sguardo e lottai per mantenermi esteriormente calmo. Smith mi aveva osservato tutto il tempo. Disse: «Immagino che voi vediate queste cose; la facoltà di medicina e tutto il resto». «È uno psicologo», disse Milo. «Psicologo», fece Smith, «facoltà di filosofia. Ha idea di quale sia la filosofia di un posto come questo?» Scrollai la testa e sorrisi. Mentre Milo leggeva, Smith continuò a ispezionare il vicolo con lo sguardo. Fui colpito dal silenzio del luogo: un silenzio malsano, innaturale, come quello di un obitorio. Niente canto degli uccelli o traffico, brusio dei commerci o della conversazione. Nutrii fantasie postnucleari. Poi, all'improvviso, un rumore si intromise con tutto lo choc e la durezza di una rapina a mano armata: l'urlo vibrante della sirena di una lontana ambulanza, seguito da urla acute: uno sgradevole duetto di violenza domestica da qualche parte lì vicino. Smith diede uno sguardo disgustato, poi un'occhiata al fucile di Milo, aprì la giacca e toccò il calcio della sua pistola nascosta nella fondina. Ancora silenzio. «Okay. Vediamo un po'. Ah sì, ecco l'analisi tossicologica», disse Milo scorrendo le pagine, «sì, il ragazzo era decisamente fatto.» «Completamente fatto», disse Smith tirando su col naso. «Per quale altro motivo sarebbe venuto qui?» Milo disse: «Mi chiedo una cosa, Maury. Il ragazzo abitava a Venice. Ocean Front ha una sua farmacia: perché venire qui?» Smith pensò un momento e rispose: «Forse non gli piaceva la qualità che vendevano sul posto. La gente lo fa oggi, diventa schizzinosa. I trafficanti
con cui abbiamo a che fare impacchettano ed etichettano. Ghiaccio secco, Dolci sogni, Mouton di Medellin: scegli il tuo veleno. O forse era lui stesso un trafficante, vendeva, non comprava, ed era venuto qui a prendere qualcosa che i ragazzi su a Venice non fornivano». «Forse», disse Milo riconsegnandogli il rapporto. «Non c'è molto sul suo passato: nessun precedente, nessuna famiglia, nessuna storia.» «Il fantasma dell'opera», disse Smith, «un cucciolo venuto dal nulla, mai registrato in nessun archivio. Il che quadra se era un trafficante agli esordi. Sono diventati scaltri. Organizzati. Comprano documenti falsi, si spostano molto, si nascondono dietro nomi di copertura, proprio come fanno le società. Prendono persino i sussidi. In altre città, in altri stati. Novato ha detto alla sua padrona di casa che veniva da una città dell'est; mi ha detto proprio così. Aveva dimenticato quale. O non voleva ricordarselo.» «Pensi che stesse mentendo?» «Forse. Era una bella tipa quella: comunista fervente, non le piacevano i poliziotti e non esitava a dirlo.» «Ti ha raccontato qualcosa?» «Mi ha preso in giro. Sono a malapena riuscito a convincerla a farmi entrare in casa. Mi ha chiamato cosacco e mi ha chiesto che effetto faceva essere un cosacco nero. Come se fossi una specie di traditore della razza. Tu sei riuscito a sapere qualcosa da lei?» «Non è stato possibile», disse Milo, «è sparita. Scomparsa quattro giorni dopo l'uccisione di Novato. E da allora nessuno l'ha vista o ha saputo qualcosa di lei.» Smith spalancò gli occhi per la sorpresa. Disse: «Chi sta seguendo il caso?» «Hal Mehan della Pacific. È in vacanza, tornerà fra due settimane. In base a quanto ho saputo, ha fatto le solite cose che si fanno per una persona scomparsa.» Smith battendo nervosamente un piede disse: «Mehan sa di Novato?» «Gli amici dicono di averglielo raccontato.» Smith fece: «Uhm». E socchiuse gli occhi. Milo disse: «Sì, lo so, avrebbe potuto dirtelo. Dovuto. Ma molto probabilmente non hai perso niente. C'è un'altra cosa che devi sapere. Qualche giorno dopo la sua scomparsa, qualcuno ha scassinato la sua casa. E anche quella del rabbino. Ha preso cose di poco valore, ha buttato per aria tutto e ha scritto frasi offensive sulle pareti». «Che tipo di frasi?»
«Antisemite. E qualcosa sul fatto di ricordare John Kennedy, con una vernice rossa presa in garage. Coincide con le scritte di qualche gang che tu hai visto?» Smith disse: «Kennedy? No». «Bene», disse Milo, «ho pensato che fosse giusto informarti.» «Grazie», disse Smith. «Per la storia della droga ho controllato se Novato era registrato negli archivi della DEA, anche in quello dei soprannomi. Ho chiesto agli agenti del dipartimento che si occupano di droga e anche agli uomini dello sceriffo. Niente. Il ragazzo per loro non era nessuno.» «Forse era un novizio», azzardò Milo, «a cercato di prendere il posto di qualcuno ed è stato ucciso.» «Un novizio», intervenni io, «Novato. Sono quasi sicuro che novizio si dice così in spagnolo.» Tutti e due mi guardarono. «Un nome spagnolo per un ragazzo negro. Potrebbe essere uno pseudonimo», aggiunsi. «El Novato, uhm?» disse Smith, «beh, non è un soprannome, per lo meno non uno di quelli che ho in archivio.» «Siete riusciti a prendere le impronte digitali?» chiese Milo. Smith scrollò la testa. «Hai visto le foto.» «Come l'avete identificato?» «Un portafoglio in tasca. Aveva una patente di guida, proprio così, e un biglietto da visita del negozio in cui lavorava, una drogherìa. Ho chiamato il padrone, gli ho chiesto se esisteva una famiglia a cui notificare il decesso. Ha detto che non sapeva se esistesse. In seguito, siccome nessuno aveva reclamato il corpo, ho chiamato di nuovo il padrone, e gli ho detto che, se voleva, poteva richiederlo per dargli una sepoltura decente.» «Anch'io ho parlato con lui», disse Milo, «lo ha fatto cremare.» «Immagino sia una sepoltura decente», disse Smith, «a quel punto non fa molta differenza un modo o l'altro, no? C'è qualcos'altro che vuoi sapere su Novato?» «Non mi viene in mente altro, Maury. Grazie.» «Per quanto mi riguarda, Milo, una bella liberazione. Se era uno spacciatore e la sua uccisione ne ha bloccato l'attività, sono anche più contento. Uno stronzo in meno di cui occuparsi.» Smith lasciò cadere la sua sigaretta e la schiacciò col tacco. «A che livello la Burden conosceva Novato?» «Li hanno visti chiacchierare insieme. Forse non significa niente. Sto
seguendo la catena, dovunque porti. Se viene fuori qualche collegamento ti chiamo.» Sulla via del ritorno, Milo evitò le stradine dirigendosi verso la Harbor Freeway e prendendola dallo svincolo in direzione del centro verso il West Side della città. Nessuno di noi parlò molto. Milo sembrava ansioso di andarsene. Arrivai nell'appartamento di Linda alle otto. Venne alla porta indossando una blusa nera di seta, jeans grigi e stivali neri. I capelli erano pettinati all'indietro e fermati da un pettinino d'argento. Portava grossi cerchi d'argento alle orecchie, un fondotinta rosa che faceva risaltare i suoi zigomi, più ombretto di quanto le avessi mai visto e aveva un atteggiamento riservato che il sorriso non riusciva a coprire. Lo avvertivo anche in me: un riserbo, una timidezza quasi. Come se questo fosse il primo appuntamento: tutto quello che era successo due sere prima era fantasia e dovevamo ripartire da zero. «Ciao, sei in orario», disse. Mi prese per mano e mi condusse dentro. C'erano una bottiglia di Chablis e due bicchieri sul tavolino da caffè, insieme a piatti di verdure crude tagliate, cracker, salsa e dadini di formaggio. «Solo un bicchierino prima di cena», disse. «Sembra ottimo.» Mi sedetti. Lei occupò un posto accanto a me, versò il vino e fece: «Che ne dici di un brindisi?» «Vediamo. Sono successe molte cose strane ultimamente. Allora che ne dici di brindare alla noia?» «Evviva.» Toccammo i bicchieri e bevemmo. «Allora... che novità ci sono?» Avevo molte cose da raccontarle: Mahlon Burden e il suo habitat naturale. Novato e la Gruenberg. Macchine danneggiate. Neonazisti in periferia, una via di spaccio... «Rispettiamo il brindisi per un po'.» Rise e rispose: «Certo». Sgranocchiammo le verdure e bevemmo ancora. «Ho qualcosa da farti vedere», disse; si alzò e attraversò la stanza verso la camera da letto. I jeans mettevano in risalto le sue forme. Gli stivali avevano i tacchi molto alti e la facevano camminare in un modo tale che mi convinse che due notti prima era stato vero.
Tornò con uno stereo portatile. «È impressionante la quantità di suono che puoi ottenere da uno di questi aggeggi.» Lo appoggiò sul tavolino, vicino al cibo. «Prende cassette e compact disc.» Come un bambino la mattina di Natale, attivò l'alimentazione a batteria, schiacciò il tasto eject e mi porse il compact disc che ne uscì. Kenny G., Silhouette. «So che ti piace il jazz, il sassofono. Così ho pensato che questo sarebbe andato bene. È così?» disse. Sorrisi. «È meraviglioso. È molto carino da parte tua.» Inserii nuovamente il disco e schiacciai play. Dolci suoni di soprano riempirono il piccolo appartamento. «Uhm, come è bello!» fece, rimettendosi a sedere. Ascoltammo. Dopo un po' la circondai col braccio. Nel breve intervallo tra il primo e secondo pezzo ci baciammo. Delicatamente, con riserbo: un volontario tirarsi indietro che era reciproco. Si staccò. Disse: «Sono contenta che tu sia qui con me». «Anch'io.» Le toccai il viso, seguii le linee del mento. Chiuse gli occhi e si buttò indietro. Restammo abbracciati in una piacevole inerzia. Kenny G. continuò a suonare. Sembrava una serenata personale. Dopo il quarto pezzo facemmo uno sforzo per alzarci e uscimmo. Andammo in giro per gallerie, visitammo i nuovissimi posti a La Brea, guardammo molta brutta arte e qualche esperimento riuscito. L'ultima galleria che vedemmo era stata appena aperta e fu una sorpresa: vecchi quadri, secondo gli standard di Los Angeles. Lavori su carta dei primi del secolo. Trovai qualcosa che mi piaceva e che potevo permettermi: una stampa con soggetto di boxe di George Bellows, una delle minori. Non ero riuscito a procurarmene una della stessa edizione a un'asta l'anno precedente. Dopo qualche riflessione la comprai e la feci impacchettare per portarla via. «Ti piacciono i combattimenti?» disse quando lasciammo la galleria. «Non nella realtà. Ma sulla carta ne risulta una buona composizione.» Andammo alla macchina. Misi la stampa nel bagagliaio e ci dirigemmo verso un posto a Melrose: piatti dell'Italia settentrionale, con posti a sedere sia all'interno sia sulla terrazza. La brezza notturna era dolce: quella calda carezza che spinge la gente a trasferirsi a Los Angeles, nonostante la falsità
e la pazzia di questa città, e scegliemmo la terrazza. Alberelli dalle chiome merlettate in vasi ricoperti di paglia separavano la terrazza dal marciapiede. Séparé a grata erano stati sistemati intorno a gruppi di tavoli per dare l'illusione della privacy. La luce era molto fioca, una singola candela coperta su ogni tavolo, e dovevamo chinarci per riuscire a leggere il menu. Eravamo affamati e ordinammo un antipasto, insalata di frutti di mare, due tipi di vitello e una bottiglia di acqua San Pellegrino. La conversazione fu facile, ma restammo fedeli al brindisi. Quando arrivarono i piatti, ci concentrammo sul mangiare. Il cameriere portò il carrello dei dessert accanto al tavolo e Linda scelse un monumentale dolce di panna e nocciole, per la cui preparazione sembrava fosse stato necessario un permesso di costruzione. Io ordinai un gelato al limone. Dopo averne mangiato metà, si pulì la panna dalle labbra e disse: «Penso di riuscire ad affrontare la realtà. Ti va di infrangere il brindisi alla noia?» «Certo.» «Allora raccontami della casa della Burden. Com'è suo padre? Puoi parlarne?» «Le informazioni non sono riservate. Una delle condizioni che ho posto era che qualsiasi cosa scoprissi potevo passarla a te, ai ragazzi e alla polizia. Ma non ho scoperto niente'di sconvolgente. Ho avuto solo la conferma di quanto sospettavo.» «E cioè?» Le feci un sunto della mia visita. Disse: «Dio mio, sembra un vero stupido». «Certamente è diverso dagli altri.» «Diverso.» Sorriso. «Sì, è molto più professionale di stupido.» Risi. «Lo consideri un tuo paziente?» «No, è un po' più di un cliente che chiede una consulenza. Alla stregua di un tribunale che mi chiede una perizia sull'affidamento di un minore. Non che io sia in grado di dirgli quello che vuol sentirsi dire: che era innocente. Semmai lei si avvicina molto al profilo dell'assassino di massa. Il mio presentimento è che verrò presto licenziato. È già successo.» Mise una nocciola in bocca e masticò. Un po' di tensione, di serietà, era ritornata sul suo viso. «Cosa c'è?» dissi. «Oh, diamine! Continuo a pensare alla mia macchina. È stata la prima cosa che mi sono comprata quando ho cominciato a guadagnare. Era così
triste vederla portar via. Hanno detto che ritornerà a posto, ma ci vorrà un mese per le riparazioni. Nel frattempo ne ho una a noleggio. Se sarò fortunata il provveditorato non farà storie quando verrà il momento di rimborsarmi almeno in parte.» Guardò sul piatto ciò che restava del suo dessert. «Ne vuoi un po'? Sono piena.» Rifiutai cortesemente, chiesi il conto e pagai. Quando ci alzammo notai un movimento simultaneo dall'altra parte della grata. Come se fossimo seduti davanti a uno specchio. Il sincronismo era tale che diedi un'altra occhiata per accertarmi che non fossero le nostra immagini riflesse. Erano altre due persone: le vaghe sagome di un uomo e una donna. Non ci pensai più, mentre ci dirigevamo alla macchina, ma quando ci immettemmo sulla strada notai che un'altra macchina partì proprio dietro di noi e ci stette dietro. Mi irrigidii, poi ricordai che qualche giorno prima avevo avuto la stessa impressione. La paranoia che mi aveva fatto uscire dal Sunset Boulevard per entrare nella stazione di servizio. Toyota marrone. Sembravano esserci due persone. Una coppia. Intenta a conversare. Ora un'altra coppia, proprio dietro di noi, ma a giudicare dallo spazio tra i fari, questa macchina era più grossa. Una berlina di media cilindrata. Nessuno sfarfallio. Bene. Non era assolutamente la stessa macchina. Non c'è niente di strano in due coppie che lasciano il ristorante nello stesso momento. E dirigersi verso Melrose era il percorso più logico per tutti quelli che abitavano a ovest di Hancock Park. Rilassati, Delaware. Guardai nello specchietto retrovisore. Fari. Gli stessi? Il bagliore m'impediva di vedere chi c'era dentro. Ridicolo. Cominciavo a riempirmi la testa di complotti e controcomplotti. «Cosa c'è che non va?» disse Linda. «Che non va? Niente.» «Improvvisamente sei diventato teso. Hai le spalle rigide.» L'ultima cosa che volevo fare era alimentare la sua ansia. Feci uno sforzo per rilassarmi, cercai di apparire più tranquillo di quanto fossi in realtà. Guardai di nascosto lo specchietto retrovisore. Un diverso tipo di fari, ne ero quasi sicuro. Una carovana di fari che si allungava per centinaia di metri. Il tipico ingorgo del weekend a Melrose... «Cos'hai, Alex?»
«Niente, davvero.» Uscii da Melrose per prendere lo Spaulding e spostai il discorso su di lei, con abilità da terapista: «E tu? Stai ancora pensando alla macchina?» «Devo ammettere che sono un po' tesa», rispose, «forse avremmo dovuto continuare ad attenerci al brindisi.» «Non ti preoccupare», dissi, «posso annoiarti ancora e molto in fretta.» Schiarii la voce e assunsi un tono pedagogico piagnucoloso. «Parliamo di teoria dell'educazione. L'argomento di oggi è, ehm, l'adattamento del curriculum. Macro e micro variabili proposte da una vasta gamma di testi contemporanei che contribuiscono a una maggiore, ehm, partecipazione degli studenti mantenendo costante la dimensione delle classi, i fattori di bilancio, e, ehm, il rapporto cemento/asfalto nelle aree di gioco circostanti in una scuola tipo di periferia, come definito da...» «D'accordo, ti credo!» «...dalla legge marziale sull'educazione Ehm-Puah del 1973.» «Basta!» Rideva a crepapelle. Guardai nello specchietto. Non c'erano fari. Allungai il braccio sul sedile e le toccai la spalla. Scivolò accanto a me, appoggiò la sua mano sul mio ginocchio, poi la tolse. Io gliela rimisi. Rise e fece: «E adesso cos'altro?» «Stanca?» «Direi più presa al laccio.» «Mi vuoi aiutare ad appendere la stampa?» «Tipo 'vieni a vedere la mia collezione di farfalle'?» «Lo stesso concetto.» «Uhm.» «Uhm cosa?» «Uhm, sì.» Le strinsi la spalla e mi diressi verso casa rilassato. Se si escludono le due dozzine di volte che controllai lo specchietto retrovisore. 21 Il mattino seguente la sentii alzare alle sei. Si era vestita e beveva un caffè seduta al tavolo della cucina quando arrivai mezz'ora dopo. «Crisi del lunedì mattina», disse. «Sei giù?» «Veramente neanche un po'.» Guardò fuori dalla finestra. «Adoro questa
vista.» Riempii una tazza e mi sedetti. Guardò l'orologio. «Quando sei pronto, ti chiedo un passaggio per casa mia. Voglio arrivare presto a scuola per organizzare la tua riunione coi genitori.» «Quanti pensi ne arriveranno?» «Circa venti. Alcuni parlano spagnolo. Posso farti da interprete, ma devo prima sistemare alcune cose.» «Bene.» «Pensi che avrai bisogno di più di un incontro?» «Probabilmente no. Sarò disponibile per successivi incontri individuali.» «Ottimo.» Parlavamo tutti e due di lavoro, evitando il privato come se fosse un animale morto in mezzo alla strada. Bevvi altro caffè. «Vuoi far colazione?» chiese. «No. Tu?» Scrollò la testa. «Che ne dici di un invito a colazione per un'altra volta? So preparare delle colazioni squisite: non è alta cucina, ma tutto fatto in casa e in gran quantità.» «Non vedo l'ora di metterti alla prova.» Il suo sorriso fu improvviso, bianco e splendente. Ci stringemmo la mano. La portai a casa. Nel tragitto guardò molto fuori dal finestrino e io sentii che si stava nuovamente distaccando: una riaffermazione della sua capacità di badare a se stessa. Così la lasciai davanti a casa sua, le dissi che l'avrei rivista alle undici, feci rifornimento di benzina e usai un telefono pubblico per chiamare il servizio segreteria per i messaggi che mi ero dimenticato di richiedere il giorno prima. Solo uno, da parte di Mahlon Burden, che mi ricordava di chiamare suo figlio e ripeteva il numero dell'ufficio di Howard Burden. Subito dopo le nove chiamai Encino. Una voce di donna disse: «Pierce, Sloan e Marder». «Howard Burden, per favore.» Il suo tono diventò guardingo. «Un momento prego.» Un'altra voce di donna, più forte e nasale: «Qui è l'ufficio di Howard Burden». «Vorrei parlare col signor Burden.»
«Chi lo desidera?» «Il dottor Delaware.» «Posso chiederle di cosa si tratta, dottore?» «Una faccenda personale. Telefono su richiesta del padre del signor Burden.» Esitazione. «Un momento.» Restai in attesa per un periodo che sembrava non finire mai. Poi: «Mi dispiace. Il signor Burden è in riunione». «Sa quando sarà libero?» «No, non lo so.» «Le do il mio numero. Gli chieda per favore di chiamarmi.» «Riferirò il messaggio.» Tono glaciale. Lasciando capire che una sua chiamata di ritorno era probabile come la pace nel mondo. Credetti di capire il perché di tanta diffidenza. «Non sono della stampa», dissi, «suo padre desidera davvero che io parli con lui. Può chiamare il padre del signor Burden per chiedere conferma.» «Riferirò il messaggio, signore.» Un altro blocco stradale all'entrata di Ocean Heights. Quando vidi quel paio di macchine della polizia, mi sudarono le mani. Una presenza ridotta rispetto a quella del giorno dell'attentato: due macchine bianche e nere e un paio di poliziotti in uniforme in piedi in mezzo alla strada che chiacchieravano e sembravano rilassati. Rifiutarono di rispondere alle mie domande e me ne fecero alcune loro. Persi molto tempo a spiegargli chi ero e ad aspettare mentre chiamavano la scuola per verificare. Ma non riuscirono a parlare con Linda e alla fine, dopo avergli mostrato la tessera di psicologo, quella di membro della facoltà di medicina e fatto il nome di Milo, mi fecero passare. Prima di ritornare in macchina provai ancora a chiedere: «Allora cosa sta succedendo?» I poliziotti sembrarono divertiti e seccati allo stesso tempo. Uno di loro disse: «È l'ora dello spettacolo, signore». L'altro mi indicò col pollice la Seville e disse: «Vada. È meglio». Partii e percorsi velocemente Esperanza Drive. La scuola era circondata da veicoli e dovetti parcheggiare un isolato dopo. Altre macchine della polizia, insieme a berline anonime che potevano essere ugualmente della polizia, pulmini della stampa, e almeno tre lunghissime Mercedes bianche. E poi spettatori: alcuni abitanti del posto, in piedi davanti a casa. Alcuni sembravano infastiditi, la rassegnazione di chi è invaso dalle formiche mentre fa un picnic. Altri sembravano contenti, come in attesa di una para-
ta. Mi incamminai chiedendomi cosa li avesse fatti uscire. Cosa significasse «l'ora dello spettacolo». Lo capii quando fui più vicino al cortile della scuola. Un tambureggiare implacabile. Squilli prodotti da un sintetizzatore sopra la corsa di una fanfara. Musiche da carnevale. Un carnevale rock. Mi chiesi perché Linda non me ne avesse parlato. Il recinto intorno al cortile era addobbato con strisce di carta arancione e color argento, così fitte che non riuscivo a vedere dentro. Un agente della polizia scolastica era all'entrata principale dell'edificio, insieme a un robusto negro con treccine rasta e una barba a chiazze. Indossava pantaloni da ginnastica aderenti e una maglietta arancione con su la scritta THE CHILLER - DISCO D'ORO TOUR in lettere metalliche. Teneva un blocchetto in una mano e un mazzo di chiavi placcate in oro nell'altra. Quando mi avvicinai, il poliziotto indietreggiò. Il rasta disse: «Come si chiama?» «Dottor Delaware. Alex Delaware. Lavoro nella scuola.» Guardò sul block-notes, fece scorrere il dito lungo una pagina. «Come si scrive?» chiese con un forte accento. Glielo dissi. Girò la pagina corrugando la fronte e qualche treccina gli cadde sul viso. «Delaware? Come lo stato?» «Esattamente.» «Mi dispiace, non lo trovo qui.» Prima che potessi rispondere, la porta si spalancò. Linda si precipitò fuori. Indossava un allegro vestito giallo che sembrava non rispecchiare il suo umore. «Smettetela di importunare quest'uomo!» Il poliziotto e il rasta si girarono per guardarla. Scese gli scalini, mi afferrò per il braccio e mi tirò dentro. Il rasta disse: «Signora...» Alzò un dito minacciosa. «Uh, uh, non dica una parola! Quest'uomo lavora qui. È un famoso dottore! Ha un compito da svolgere e voi lo state intralciando!» Il rasta si tirò un ricciolo e sorrise. «Scusi, signora. Stavo solo controllando il suo nome. Non intendevo essere offensivo.» «Offensivo? Ho comunicato il suo nome ai suoi colleghi! Mi hanno promesso che non ci sarebbero stati fastidi.» Il rasta sorrise ancora e alzò le spalle. «Scusi.» «Ma cosa diavolo pensa che ci sia qui? Una discoteca?» Poi guardando
con occhio curioso il poliziotto: «E lei? Cosa diavolo ci sta a fare qui, a tenergli compagnia?» Prima che potessero rispondere eravamo dentro. Sbatté la porta dietro di noi. «Gesù! Sapevo che sarebbe successo!» Mi stringeva ancora il braccio mentre percorrevamo velocemente il corridoio. «Cosa sta succedendo?» dissi. «Dejon Jonson. Ecco cosa sta succedendo. Ha deciso di onorarci con una sua visita di persona. Per il bene dei poveri bambini vittime dell'attentato.» «The Chiller in persona?» «In tutta la sua gloria di lustrini. E il suo entourage. Ammiratori, accompagnatori, addetti stampa, un esercito di guardie del corpo, repliche del signor Reggae là fuori. E un intero branco di gente inclassificabile che sembra spedita qui direttamente da un centro di riabilitazione per drogati. Per non parlare dei giornalisti da strapazzo di tutte le TV, radio e giornali della città e una dozzina di burocrati del provveditorato scolastico che non vedono l'interno di una scuola dai tempi di Eisenhower.» Si fermò, diede una sistemata al vestito e si aggiustò i capelli. «E naturalmente il caro consigliere Latch: è lui che ha organizzato l'intera faccenda.» «Latch?» Fece cenno di sì. «Conoscenze nel mondo dello spettacolo della mogliettina, senza dubbio. Anche lei è qui, accarezza la testa dei bambini e porta un diamante con cui si potrebbe pagare un anno di refezione per tutta la scuola.» «Una rivoluzionaria con diamanti?» «Una rivoluzionaria californiana. Di quelli che mio padre chiamava comunisti in Cadillac. Dio mi protegga dalle sorprese del lunedì mattina.» «Nessuno ti ha informata?» «No.» «Mi ha proprio dato retta.» «Chi?» «Latch. Quando è venuto a suonare la sua armonica. Gli ho parlato della necessità della prevedibilità delle cose per i bambini. Mi ha detto che mi aveva capito, che gli avevo dato materiale su cui pensare.» «Oh, ti ha capito benissimo. Ha solo scelto di non seguire il tuo consiglio.»
«Quando hai scoperto cosa stava succedendo?» Ricominciammo a camminare. «Uno dei burocrati del provveditorato ha lasciato un messaggio sulla mia segreteria telefonica ieri sera alle dieci. Io ho avuto la maleducazione di venire a cena con te e non ho controllato le chiamate fino a questa mattina. Il che mi ha lasciato molto tempo per organizzare le cose, no? Sono riuscita a mettermi in contatto con Latch solo poco fa, gli ho detto che poteva essere molto controproducente. Non ha fatto una piega e ha detto che avere una star del calibro di Dejon Jonson non era una cosa che capita tutti i giorni; era un colpo di fortuna per i bambini.» «Un colpo di fortuna per lui», dissi, «per registrare un video con facce sorridenti per la prossima campagna elettorale.» Emise un suono teso e gutturale, come una mamma lince che cerca di scacciare i cacciatori dalla sua tana. «Quello che più mi dà ai nervi è quella chiamata di domenica sera. È un fatto unico: in genere non riesco a mettermi in contatto con loro in orario di lavoro. Per ordinare libri di testo, elemosinare fondi per gite scolastiche di studio: tutto richiede un'eternità di tempo. Una velocità da lumache. Ma per questo si muovono come razzi.» «'Rock and roll never dies.' Ti hanno rimandato persino il poliziotto.» Diede uno sguardo disgustato. «Dovresti vedere l'impianto che hanno allestito. Squadre di tecnici della casa discografica sono arrivati alle sette e con loro i falegnami del provveditorato. Hanno installato un grosso palco nel cortile in un'ora esatta. Il sistema di amplificazione, tutte quelle strisce colorate, i congegni. Hanno persino stampato un programma, ci credi? Caratteri arancioni su carta satinata color argento, dev'essere costato una fortuna. Tutto sincronizzato al minuto: Latch fa un discorso, poi Dejon fa il suo spettacolo, tira fiori di carta ai bambini, e schizza via su una limousine che lo aspetta. Dice esattamente così 'Schizza via. In una limousine pronta'. Tutta la dannata storia viene filmata per il telegiornale della sera e usata probabilmente per il prossimo videoclip di Dejon. I suoi tirapiedi sono entrati nelle classi e hanno distribuito i moduli di richiesta del video per i bambini.» «Il disco d'oro e anche il premio Nobel per la pace. Con tutta questa eccitazione in che stato sono i genitori del gruppo convocato?» «I genitori sono tutti qui, anche se ce n'è voluto di tempo per far capire a quegli zoticoni dello staff di Jonson che dovevano farli entrare senza sottoporli a una perquisizione personale. Ho dovuto sorvegliare la porta per
tutta la mattinata. Naturalmente, quando gli uomini di Latch hanno capito chi erano, li hanno ricevuti con tutti gli onori: gli hanno scattato foto in posa accanto a Latch, gli hanno dato i posti in prima fila per lo spettacolo.» «Come hanno reagito le madri a tutto questo?» «All'inizio confuse. Ma sono entrate in fretta nella parte: celebrità per un'ora. Se poi saranno abbastanza ricettive e in grado di parlare dei loro problemi, questo non lo so. Mi dispiace.» Sorrisi. «Nemmeno con un famoso dottore?» Arrossì. «Ehi, per me sei famoso. Il genere di fama che conta.» Raggiungemmo il suo ufficio. Mentre apriva disse: «Alex, so che è sempre la solita domanda, ma quale sarà l'effetto psicologico di una cosa simile sui bambini?» «Speriamo che si divertano, ritornino alla loro routine in un giorno o due, e vadano avanti. Il rischio principale è che vengano sovrastimolati e che provino quella che chiamiamo la depressione del giorno dopo, una volta cessata la confusione.» «Capisco cosa intendi dire. Abbiamo verificato la stessa cosa dopo le uscite scolastiche di un'intera giornata. Si pensa si siano divertiti e invece sono a pezzi.» «Esattamente», dissi, «ecco perché molte feste di compleanno finiscono in lacrime. Un'altra cosa di cui tener conto è che tutta questa eccitazione e la presenza di estranei, i politici, la stampa, possono fargli venire in mente l'ultima volta in cui nella scuola si è verificata una situazione simile.» «L'attentato? Oh, no!» «Alcuni di loro possono avere un flash back e restare in ansia per tutta la durata del concerto.» «È orribile», disse, «cosa posso fare?» «Stai attenta alle reazioni di ansia, specialmente tra i più piccoli. Quando la situazione si calma, cerca di riportarli alla routine della vita scolastica. Mantieni la disciplina, ma sii flessibile. Possono aver bisogno di parlare del concerto, di smaltire, parlando, l'eccitazione e tutte le paure che stanno vivendo. Se si sviluppano reazioni persistenti, sai dove trovarmi.» «Stai mettendo radici qui, dottore.» Sorrisi: «Secondi fini». Mi restituì il sorriso, ma abbassò lo sguardo. «Cosa c'è?» dissi. «Io dovrei essere la responsabile qui, ma mi sento... irrilevante.» «È solo questione di un giorno, Linda. Domani controllerai di nuovo la
situazione. Comunque è vero, è una cosa schifosa. Avrebbero dovuto dirtelo.» Fece un altro sorriso triste. «Grazie per il sostegno.» «Secondi fini.» Questa volta il suo sorriso fu radioso. Mi prese per mano e mi condusse dentro il suo ufficio, chiuse la porta dietro di noi, mi buttò le braccia al collo, e mi baciò con forza e a lungo. «Ecco», disse, «il mio contributo personale alla sovreccitazione.» «Ricevuto», dissi prendendo fiato, «e apprezzato.» Mi baciò ancora. Entrammo nell'ufficio interno. La musica proveniente dal cortile martellava attraverso le pareti. «Ecco l'elenco dei genitori», disse passandomi un foglietto. Lo presi. La musica si arrestò. Una voce amplificata ed echeggiante prese il suo posto. Lei disse: «Si dia inizio ai giochi». Restammo in fondo al cortile, guardando sopra centinaia di teste, per osservare Gordon Latch. Era in piedi dietro un leggio al centro del palco, e brandiva la sua armonica. Il leggio era in noce lucido con in rilievo lo stemma cittadino. Il palco era coperto di pesanti tavoloni, sopraelevato e chiuso dietro da una parete di dieci metri di seta nera: una benda sull'occhio azzurro e limpido del cielo. Molti impianti di amplificazione, ma nessuno strumento. E nemmeno nessun musicista. C'erano solo gli uomini della stampa che si accalcavano tutt'intorno al palco, facevano riprese, parlavano su registratori, prendevano appunti. E un piccolo esercito di individui nerboruti in maglietta arancione che pattugliavano con in mano walkie-talkie. Una parte dell'energica brigata era sul palco, altri giù al livello degli spettatori. Per come fissavano e scrutavano la folla, sembrava stessero facendo la guardia ai gioielli della corona. Latch rise e salutò con la mano, suonò un paio di note alte al microfono e disse qualcosa sulla celebrazione della vita. Le sue parole echeggiarono attraverso il cortile e andarono a spegnersi da qualche parte tra le immacolate strade di Ocean Heights. Una fila di dieci sedie pieghevoli era stata sistemata sulla sinistra del palco. Otto di esse erano occupate da uomini e donne di mezz'età in abiti a due pezzi. Se non fosse stato per l'impianto di amplificazione e per gli uomini vestiti di arancione nascosti dietro di loro, avrebbe potuto essere un semina-
rio di gestione per quadri intermedi. I due posti più vicini al centro del palco erano occupati da Bud Ahlward, con addosso lo stesso vestito marrone che portava il giorno in cui aveva ucciso Holly Burden, e da una donna attraente, magra, con capelli color castano chiaro, con un taglio carré, un viso molto abbronzato, un profilo talmente affilato da sembrare una sutura. La signora Latch. Un tempo Miranda Brundage. Il suo abbigliamento faceva pensare a quanto fossero lontani gli anni Sessanta. Ammesso che ci fossero mai stati. Indossava un completo di pelle nero, con spalline e un'applicazione in lamé dorato, orecchini di diamanti e il brillante di cui aveva parlato Linda: un solitario su una catenella che, anche a distanza, rifletteva abbastanza luce da illuminare una sala da ballo. Le gambe erano ben tornite, fasciate da calze di seta grigie, incrociate alle caviglie, i piedi infilati in sandali infradito dal tacco a spillo probabilmente fatti artigianalmente in Italia. Guardava alternativamente ora fra il pubblico, ora suo marito. Anche a quella distanza sembrava annoiata, in modo quasi insolente. Mi ricordai che un tempo voleva diventare attrice. Le mancava o il talento o la voglia di fingere. Latch pronunciava il suo discorso echeggiante. «...così ho detto a Dejon (jon... jon... jon) 'tu sei un uomo che tutti ammirano' (no... no... no). Il tuo messaggio è positivo, un messaggio per il nostro tempo e questi bambini della Hale hanno bisogno di te!» Pausa per gli applausi. Latch si fermò e aspettò. I bambini non lo capirono, ma i gorilla arancioni sì. Il suono di venti paia di mani che applaudivano fu debole. Latch sorrise raggiante come fosse stata un'ovazione alla Convenzione nazionale, si tolse gli occhiali rotondi e allentò il nodo della cravatta. La moglie non gli aveva trasmesso l'amore per i vestiti di classe: indossava un abito spiegazzato di velluto a coste marrone, una camicia azzurra, una cravatta blu. «Dejon ha detto sì!» Pugno alzato. «Il provveditorato ha detto sì!» Pugni in aria. «Così lo abbiamo messo insieme per voi!» Tutt'e due le mani alzate. Doppio segno di vittoria. «...eccolo qui, ragazzi e ragazze di tutte le età: The Chiller, il vero terrore della folla, Dejo-on Jonson!» Gli altoparlanti riversarono accordi elettrici come una frana di pietrisco,
rimbombante, assordante, minacciosa, che alla fine riacquistava un contenuto melodico e finiva in una prolungata nota d'organo: una fuga suonata da un E. Power Biggs sotto l'effetto dell'LSD. Una grandinata di accordi di chitarra ruppe il silenzio. Fragoroso rullio di tamburi. Piatti sibilanti. Gli uomini ben vestiti sul palco sembrarono scossi, ma restarono ai loro posti. Quelli con le magliette arancioni si avvicinarono a loro e toccarono lo schienale delle loro sedie. Come in una coreografia, i burocrati del provveditorato si alzarono e marciarono in fila fuori del palco. Miranda Latch e Ahlward indietreggiarono. Lei applaudiva con un fervore aerobico che contrastava con la noia dei suoi occhi. Latch si allontanò dal leggio e la prese per mano. Tutti e due lasciarono il palco salutando il pubblico. Ahlward li seguì, annoiato, con una mano infilata nella giacca. Tutti e tre presero posto in prima fila, in mezzo a un gruppo di donne vestite semplicemente, il mio gruppo. Le madri stavano tutte applaudendo. Non riuscivo a vedere le loro facce. La musica diventò più forte. Linda fece una smorfia. «Un secondo», dissi e mi diressi verso le prime file aggirando squadre di operatori televisivi. Alla fine arrivai abbastanza vicino da riuscire a vedere. Centinaia di facce. Alcune disinteressate, altre perplesse, altre con gli occhi lucidi per l'eccitazione. Diedi un'occhiata alla prima fila. Le madri sembravano intimorite, ma non scontente. Un attimo di celebrità. Latch mi notò. Sorrise e continuò a far schioccare le dita a tempo di musica. Bud Ahlward seguì lo sguardo del suo capo, fermò i suoi occhi su di me, poi distolse lo sguardo. Anche Miranda faceva schioccare le dita. Per tutto il divertimento che mostrava poteva essere fisioterapia. Rivolsi ancora la mia attenzione ai bambini. Il volume della musica continuava a salire. Vidi una bambina, di prima, coprirsi di scatto le orecchie con le mani. Mi avvicinai per vedere meglio. Gli occhi della bambina erano chiusi e le labbra tremavano. Un'esplosione degli altoparlanti e scoppiò in un pianto dirotto reso silenzioso dal fracasso. Non se ne accorse nessuno. Tutti gli occhi, compresi quelli degli insegnanti, erano puntati sul palco. Ritornai da Linda e riuscii gesticolando e urlando a comunicarle cosa stava accadendo. Guardò la bambina, che stava piangendo più forte. Poi mi toccò col gomito e indicò qualcosa. Un paio di altri bambini delle prime classi sembravano sul punto di piangere e anche loro si coprivano le orecchie. Ancora lacrime.
Linda diede uno sguardo furioso e partì a passo di carica sgomitando cameramen e giganti arancioni finché non raggiunse l'insegnante della bambina. Parlò coprendo la bocca con la mano e indicò con discrezione. La bocca dell'insegnante formò una O. Mortificata, rivolse la sua attenzione verso la classe. Contai sei o sette bambini che stavano piangendo in quel momento, quattro di essi li riconobbi facilmente perché appartenevano al gruppo di quelli a rischio. Anche Linda li vide. Si avvicinò a ognuno di loro, chinandosi e accarezzandogli la testa. Li prese per mano e gli chiese se volevano andarsene. Quattro scrollarono la testa, tre fecero cenno di sì. Fece uscire quelli che avevano acconsentito e li riportò dentro oltrepassando il gruppo della stampa. La seguii. Mi ci volle un po' prima di riuscire a entrare. Linda era a metà del corridoio principale, seduta per terra in cerchio con i tre bambini. Sorrideva e parlava con la mano infilata dentro un burattino che faceva parlare con una vocina acuta. I bambini stavano sorridendo. Nessuna angoscia apparente. Feci qualche passo avanti. Lei alzò lo sguardo. «Guardate bambini, questo è il dottor Delaware.» «Ciao», dissi. Timidi saluti con la mano. «C'è niente che volete chiedere al dottor Delaware?» Silenzio. «Sembra che tutto sia sotto controllo, dottor Delaware.» «Eccellente, dottoressa Overstreet», dissi e tornai fuori. Sebbene la musica fosse più forte, il palco era deserto. Non un musicista in vista, neanche un mago del sintetizzatore. Mi resi conto che si sarebbe trattato di un'esibizione in play-back. Passione prefabbricata. Non accadde nulla per parecchi secondi. Poi quella che sembrava essere un'enorme fiamma arancione abucò avanzando dal fondale nero. Grida di stupore fra il pubblico. Quando la fiamma si avvicinò, si trasformò in un gigantesco lenzuolo di raso, che avanzava lentamente sul palco. Sotto il raso si notava un movimento: il lenzuolo luccicante si gonfiava e palpitava. Come un cavallo da circo senza testa né coda. Un trucco semplice, ma che colpiva sempre l'immaginazione. Il lenzuolo venne trascinato sobbalzando al centro del palco. Crescendo d'organo, fragore di piatti. Il lenzuolo cadde a terra scoprendo altri uomini giganteschi, a torso nudo e con addosso cal-
zamaglie arancioni e stivali da marinaio color argento. Tre negri, sulla sinistra, con uno sguardo accigliato sotto ciocche di capelli stirati e tinti di giallo. Sulla destra un terzetto di tipi nordici con capelli afro color blu Savoia. Tutti e sei allargarono le gambe e assunsero posizioni da sollevatori di pesi in presa sull'attrezzo. In mezzo a loro apparve un uomo sui venticinque anni molto alto e magro, pelle color inchiostro di china, occhi da orientale e una capigliatura di riccioli arancioni che gli arrivavano alle spalle e che sembrava fossero stati immersi in olio lubrificante. Spalle larghe, fianchi da ragazzo prepubescente, arti fibrosi, collo alla Modigliani e zigomi da malato terminale, tipo quelli di una modella di Vogue. Portava occhiali rotondi blu elettrico con montatura di plastica color pelle di tigre più larga del suo viso, una tuta di seta aderente color argento ricamata con filo arancione e con festoni di finti zaffiri in motivi barocchi. Le mani erano avvolte da guanti di raso blu senza dita, come quelli dei sollevatori di pesi. Ai piedi calzava stivaletti color argento con lacci arancioni. Schioccò le dita. I mister muscoli indietreggiarono tenendo in mano il lenzuolo di raso. La musica acquistò ritmo. Jonson salterellò sollevando le ginocchia come una marionetta, fece un balzo alla Nijinsky, si lanciò in un tip tap pirotecnico e finì con una spaccata che lo trasformò in una T rovesciata che mi fece sentire una fitta all'inguine. Poi una calma improvvisa sovrastata da un intenso ronzio proveniente dagli altoparlanti. Alcuni dei bambini più grandi erano balzati in piedi e battevano le mani gridando: «Dejon! Dejon! Canta, Chiller! Chiller! Dejon! Dejon!» L'uomo dai capelli arancioni si alzò in piedi con una sforbiciata e sorrise febbrilmente. Mise i piedi in dentro e le gambe a X, e ballò lo shimmy. Si rannicchiò, fece un doppio salto mortale all'indietro seguito da una verticale e da qualche passo sulle mani, saltò in piedi, poi contrasse i bicipiti e sorrise mostrando i denti. La musica riattaccò: un ritmo reggae modificato su cui si sovrapponevano gli schiocchi rapidi di un motivo funk. La bocca gli si spalancò fino a mostrare le tonsille. Una voce tenorile bisbigliata fluì lentamente dagli altoparlanti. Quando scende la notte, E i vermi strisciano,
E qualcosa sale, Sulle mura del castello, Bocca aperta per lo stupore. Mano che la copre. Sguardo esagerato di paura. E allora che son l'ero. È allora che son vivo. Sono il tuo uomo, ho molto da darti. Perché sono il terrore. Ama il tuo terrore. Dolce terrore. Bacia il tuo terrore. Seducente sguardo lascivo. Cambiamento di tempo in un ossessivo due quarti quasi sommerso da applausi e urla. Jonson ballò una specie di danza del ventre, saltò indietro, corse in avanti, scivolò fermandosi sul bordo del palco, sbarrò gli occhi. Quando mosse le labbra nuovamente, il suo sussurro era diventato una voce baritonale sforzata: E quando i serpenti dell'ira incontrano i rospi di fuoco, e gli scorpioni ballano il valzer, intorno alla pira, è allora che respiro, che mi sento intero. Sono qui per amare la tua anima mortale. Perché sono il terrore. Ama il tuo terrore... Delizioso. Controllai se c'erano segni di ansia fra i bambini. Molti di loro si dondolavano e ballavano, cantavano in coro, urlavano il nome di Jonson. Prendendola come doveva essere presa: una gestalt di onde sonore, il testo irrilevante. Continuò per un altro minuto. Poi una pioggia di fiori arancioni e color argento comparve dal nulla, con la leggerezza di farfalle. Poi ricomparvero i mister muscoli con il lenzuolo arancione e Jonson fu portato via in tutta fretta dal palco. L'intera cosa era durata meno di due minuti. Latch tornò sul palco e pronunciò dei ringraziamenti coperti dagli ap-
plausi. I giornalisti corsero in direzione del lenzuolo. Latch restò lì, abbandonato, e vidi qualcosa, uno sguardo alterato e stizzoso, passare sul suo viso. Solo un istante. Poi era sparito e lui rideva e salutava con Ahlward e la moglie al suo fianco. L'eccitazione si era impadronita delle file occupate dai bambini che si lanciavano l'un l'altro fiori; gli insegnanti lottavano per metterli in fila. Mi girai verso la prima fila e vidi le madri in piedi rimaste ormai sole, confuse. Latch e Ahlward erano lì vicino, circondati da giovani dall'aspetto curato come quelli che avevo visto il giorno dell'attentato. Molte congratulazioni dalle sue truppe. Latch otteneva quanto voleva e la riceveva mantenendo sulla faccia un sorriso da TV. Nessuno faceva il minimo tentativo di parlare con le madri. Cominciai ad avvicinarmi. Aspettai che passassero intere classi, pestato da piedini minuscoli. Gli operatori televisivi tirando i loro cavi creavano trappole e dovevo guardare dove mettevo i piedi. Dopo qualche passo, Latch mi vide, rise e mi salutò con la mano. Anche la moglie mi salutò; Pavlov le avrebbe dato un ottimo. Ahlward restò impassibile, con una mano infilata nella giacca. Latch gli disse qualcosa. Subito dopo l'uomo dai capelli rossi mi venne incontro e disse: «Dottor Delaware, il consigliere vorrebbe parlare con lei». «Gesù», dissi. Se mi sentì non lo lasciò intendere. 22 Lo seguii, ma all'ultimo momento cambiai direzione e andai verso le madri. La faccia di Latch assunse l'espressione di un bambino a cui è stato tolto qualcosa. Mi chiesi da quanto tempo nessuno gli diceva no. Anche le donne sembravano disorientate. Senza un punto di riferimento; alcune avevano in mano fiori di carta e sembravano aver paura di gettarli. Le raggiunsi e mi presentai. Prima che potessero rispondere, una voce dietro di me disse: «Dottor Delaware, Alex». Dovevo girarmi. Non c'era altra scelta. Il consigliere aveva recuperato la posa sorridente da telecamera. Ma la moglie era stanca di tenere la sua. Aveva messo un paio di occhiali da sole, originali, montatura dorata e lenti color lavanda. I due erano in piedi uno accanto all'altro, ma sembravano molto distanti. Ahlward e il gruppo di giovani vestiti con eleganza restarono indietro di qualche metro.
Latch mi porse la mano. «Mi fa piacere rivederla, Alex.» «Consigliere.» «Per favore, Gordon.» L'inevitabile pressione. Strinse abbastanza forte da strizzarmi la mano. Mi girai ancora verso le madri, sorrisi e dissi nel mio spagnolo essenziale: «Un minuto, per favore». Risposero al sorriso, ancora confuse. Latch disse: «Alex, vorrei presentarle mia moglie, Miranda». Ridacchiò. Un sorriso assassino. «Randy, questo è il dottor Delaware, lo psicologo di cui ti ho parlato.» «È un piacere conoscerla, dottore.» Stringendole la mano sentii solo quattro punte di dita che si ritraevano in fretta. La sua formalità sembrava provocatoria. Latch le lanciò un rapido sguardo nervoso, che lei ignorò. Da vicino sembrava più piccola, più fragile sia nel fisico sia nella voce. E più vecchia. Almeno cinque anni più del marito. Tradita dalla pelle. La bella abbronzatura e il trucco ben fatto non riuscivano a coprire le sottili rughe e le macchie rosse. La bocca era larga e aveva una bella curva sensuale, ma cominciava già a raggrinzire. Il naso era sottile e corto, con grandi narici, probabile rinoplastica. Il mento era rovinato da una manciata di foruncoli. Il contrasto con la perfezione dei diamanti la faceva apparire sbiadita. Latch disse: «Randy si è sempre interessata di psicologia. Tutti e due ce ne siamo interessati». La cinse con un braccio, lei si irrigidì e sorrise allo stesso tempo. «È vero, dottore», disse, «io sono per la gente. Stiamo organizzando, Gordie e io, un comitato per la salute mentale nel distretto. Raccogliamo persone impegnate nell'assistenza alla malattia mentale. Sarei onorata se lei entrasse a farne parte.» «Ne sono lusingato, signora Latch», dissi, «ma in questo momento ho molti altri impegni.» Il suo sorriso svanì e il suo labbro inferiore si increspò: un altro bambino viziato. Una ragazzina abituata a suscitare sensi di colpa nel papà. Ma rimpiazzò subito il broncio con un sorriso smagliante e pieno di charme. «Ne sono sicura», disse con disinvoltura, «ma se dovesse cambiare idea...» «Allora, cosa ne pensa, Alex», disse Latch indicando il cortile. «Fantastico, vero? I bambini sono stati veramente coinvolti.» «Ha messo in scena quasi uno show.» «È più di uno show, Alex. Quell'uomo è un fenomeno. Una forza della natura; unico nel suo genere.»
«Lo spettacolo è stato molto intenso, Gordon», dissi, «alcuni bambini erano spaventati.» «Spaventati? Non l'ho notato.» «Un gruppetto, soprattutto tra i più piccoli: tutto il rumore, l'eccitazione. La dottoressa Overstreet li ha riportati dentro.» «Un gruppetto», disse, come se stesse calcolando l'impatto elettorale; «tutto sommato non è andata neanche troppo male. Metti insieme un certo numero di bambini da qualsiasi parte, alcuni di loro finiscono con il diventare apprensivi, no?» Prima che potessi rispondere continuò: «Immagino che questo significhi un'altra lezione sulla coordinazione, eh? Che ne dice di lasciar perdere? La dottoressa Overstreet mi ha già dato una lavata di capo prima del concerto». Mi girai per guardare le madri e dissi: «È stato un piacere parlarle, Gordon, ma ora devo veramente andare». «Ah, il suo gruppo di genitori, certo. Lo so perché li ho visti in difficoltà, sono andato da loro e ho scoperto chi erano. Ho fatto in modo che si sentissero a loro agio.» Mi girai per andarmene. Ma lui mi prese per la spalla e mi trattenne. La telecamera ci inquadrò di sfuggita. Latch sorrise e continuò a tenermi. Vidi la mia immagine riflessa sui suoi occhiali. Un'immagine doppia. Un paio di individui ostili, dai capelli ricci, ansiosi di liberarsi di lui. «Sa», disse, «non ho trovato il tempo per tornare a parlare con i bambini.» «Non è necessario», risposi, «lei ha già fatto abbastanza.» Cercò di leggere l'espressione del mio viso e disse: «Grazie. È stata quasi un'impresa organizzare il tutto in così poco tempo. Nonostante le lamentele della dottoressa Overstreet». Lo fissai. I gemelli sugli occhiali sembravano furiosi, il che si adattava bene al mio stato d'animo. «Ah, la vita tormentata di un santo dei nostri giorni», dissi, «quale rete ha chiamato per prima?» Impallidì e le lentiggini risaltarono. Gli voltai le spalle e andai a fare il mio lavoro. Condussi le madri dentro l'edificio scolastico, rendendomi conto di non sapere dove avremmo tenuto la riunione. Niente di meglio di qualche giro per la scuola per creare un clima di fiducia nei confronti del terapista. Ma appena ci avvicinammo all'ufficio di Linda, lei ne uscì e ci portò in fondo
al corridoio oltre una doppia porta che non avevo mai varcato. Dentro c'era una palestrina con pavimento in legno. Realizzai che era la stanza che avevo visto il primo giorno in TV: bambini ammassati sul pavimento, le telecamere che penetravano con crudeltà chirurgica. Era più piccola di quanto mi era sembrata. La TV aveva quel tipo di capacità: gonfiare la realtà o schiacciarla fino a renderla insignificante. Sedie pieghevoli di plastica erano state sistemate in circolo. Al centro c'era un tavolo basso coperto da un foglio di carta e apparecchiato con biscotti e bibite. «Va bene?» disse Linda. «Perfetto.» «Non è l'ambiente più accogliente, ma con gli uomini di Jonson che hanno occupato tutte le aule libere, era tutto quanto avevamo.» Facemmo sedere le donne, poi ci sedemmo a nostra volta. Le madri sembravano ancora spaventate. Passai i primi minuti distribuendo biscotti e riempiendo bicchieri. Facendo quel tipo di discorsi che speravo avrebbero fatto loro capire che avevo un interesse personale nei confronti dei loro bambini, non ero un burocrate che faceva pesare la propria autorità. Dopo aver spiegato chi ero, parlai dei loro figli: dissi che bravi bambini erano, com'erano forti e come sapevano far fronte a quanto gli era capitato. Suggerendo, senza essere condiscendente, che bambini così solidi dovevano avere genitori affettuosi che si prendevano cura di loro. La maggior parte delle madri sembravano capire: quando vedevo sguardi smarriti facevo tradurre a Linda. Il suo spagnolo era fluente e senza accento. Chiesi se avevano domande. Non ne avevano. «Naturalmente, a volte», dissi, «per quanto forte sia un bambino, il ricordo di qualcosa che lo ha spaventato può tornare alla mente e manifestarsi attraverso brutti sogni. Oppure il bambino può voler restare attaccato alle gonne della mamma, o non volere andare a scuola.» Cenni di sì e sguardi di comprensione. «Se succede una di queste cose, non significa che c'è qualcosa che non va nei vostri bambini. È normale.» Un paio di sospiri di sollievo. «Ma i brutti ricordi possono essere ...alleviati. Curati.» Usai una parola che avevano cercato di cacciare dal mio vocabolario nel corso degli studi universitari. Linda tradusse: «Mejor. Curado». Parecchie donne si piegarono in avanti. «Le madri», dissi, «sono le persone che più possono aiutare i bambini: le
migliori insegnanti per i loro figli. Meglio dei dottori. Di chiunque altro. Perché le madri sono quelle che li conoscono meglio di chiunque altro. Ecco perché il miglior aiuto per attenuare i brutti ricordi può essere dato dalle madri.» «Cosa possiamo fare?» disse una donna che sembrava una bambina. Aveva sopracciglia nere e folte e ruvidi capelli neri. Indossava un vestito rosa e un paio di sandali. Il suo inglese aveva un leggero accento. «Potete dire ai vostri figli che è giusto parlare delle proprie paure.» «Gilberto», disse, «quando ne parla si spaventa ancora di più.» «Sì, è vero. All'inizio. La paura è come un'onda.» La donna dai lunghi capelli tradusse. Sguardi perplessi qua e là. «All'inizio, quando il bambino si imbatte in qualcosa di cui ha paura, la paura cresce, come un'onda. Ma quando va in acqua e nuota, si abitua all'acqua, l'onda diventa più piccola. Se allontaniamo il bambino quando l'onda è alta, non ha la possibilità di vederla, non impara mai a nuotare e resta impaurito. Avere la possibilità di sentirsi forte, padrone di sé: questo è fronteggiare una situazione. E quando la fronteggia, si sente meglio.» Ancora traduzione. «Naturalmente», dissi, «dobbiamo proteggere i nostri bambini. Non li buttiamo subito in acqua da soli. Stiamo con loro. Li sosteniamo. Finché non sono pronti. Gli insegniamo a vincere l'onda. Con amore, parlando e giocando con loro, dandogli il permesso di nuotare. Insegnandogli a muoversi prima nelle onde basse, poi in quelle alte. Avanzando lentamente, per fare in modo che non si spaventino.» «A volte», disse la donna dai lunghi capelli, «è meglio non nuotare. È pericoloso.» Alle altre: «Muy peligroso. Puoi affogare.» «È vero. Il fatto è...» «El mundo es peligroso», disse un'altra donna. «Sì, può esserlo», dissi, «ma vogliamo che i nostri bambini abbiano sempre paura, che non nuotino mai?» Scrollate di testa. Sguardi dubbiosi. «Come?» disse una donna che sembrava abbastanza vecchia da essere una nonna. «Come possiamo fare in modo che non sia pericoloso?» Tutte volsero lo sguardo verso di me. In attesa delle parole sagge che avrei pronunciato. Di un rimedio. Ricacciando indietro un sentimento di impotenza, dissi le cose che avevo progettato di dire. Offrii piccoli rimedi, spiegai come rattoppare le si-
tuazioni. I bambini attraversano col loro passo incerto una terra desolata e crudele. 23 Arrivai a casa verso le quattro e trovai alcuni messaggi. Nessuno da Howard Burden, uno di suo padre che chiedeva se mi ero già messo in contatto con il figlio e un paio di telefonate di persone che volevano vendermi cose di cui non avevo bisogno e che lasciai perdere. Richiamai per l'ultimo: un giudice della corte d'assise con cui avevo lavorato in parecchi casi di affidamento di minori. Lo trovai nel suo studio. Mi voleva come consulente in una causa per affidamento fra un famoso imprenditore e una famosa attrice. «Tratto tutti casi di persone famose, Alex», disse, «persone davvero deliziose. Lei afferma che lui è uno psicopatico pederasta e cocainomane; lui sostiene che lei è una psicopatica ninfomane e cocainomane. Per quanto ne so, hanno ragione entrambi. Lei ha portato il bambino in Svizzera. Sono disposti a pagarti tutte le spese per andare lì a fare la tua valutazione. Puoi fare anche un po' di sci mentre sei sul posto.» «Non scio.» «Puoi comprare un orologio allora. O aprire un conto corrente. Ci guadagnerai molto con questo caso.» «Avvocati con onorario versato in anticipo?» «Da ambo le parti. Va avanti da più di un anno.» «Sembra una situazione ingarbugliata.» «Vuoi sapere la verità? Lo è.» «Grazie, vostro onore, ma io passo.» «Sapevo che saresti passato. Ma se dovessi cambiare idea fammelo sapere. Puoi cambiare i nomi, scrivere una sceneggiatura e diventare ricco.» «Lo puoi fare anche tu, Steve.» «Lo sto facendo», disse, «il copione lo stanno leggendo alla Universal: nobile magistrato sfida il sistema. È perfetto per Michael Douglas. Se le cose si mettono bene, lascio il seggio di giudice per salire sul set.» Rise. Alle 4.45 chiamai Mahlon Burden. Rispose la sua segreteria telefonica e spiegai, nel messaggio che lasciai, che stavo ancora cercando di mettermi in contatto con Howard. Poi telefonai alla Pierce, Sloan & Marder e aspettai che la centralinista mi passasse l'ufficio di Howard Burden.
Rispose una voce di uomo, lenta e dal tono basso. «Parla Burden.» «Il signor Burden?» «Sì, cosa c'è?» «Sono il dottor Delaware. Ho chiamato prima.» «Sì, so chi è.» «È un brutto momento?» «È sempre un brutto momento.» «Suo padre mi ha chiesto di parlare con lei. A proposito di Hol...» «So di cosa si tratta.» «Fissiamo allora un appuntamento...» «Quanto la paga?» «Non ne abbiamo parlato ancora.» «Uh uh. Sta facendo un giro di beneficenza? È un seguace di Schweitzer?» «So che lei ha attraversato un brutto momento e...» «Ci dia un taglio», disse, «lasci perdere il copione e parli schiettamente. Lei vuole parlare di Holly? Devo comunque restare qui fino a tarda sera, l'incontro con lei può essere la mia pausa per il caffè. Se passa in qualsiasi momento prima, diciamo, delle dieci e mezzo posso dedicarle dieci minuti.» Non era molto. Ma sentivo che dieci minuti con questo individuo sarebbero stati interessanti. «D'accordo, sarò da lei fra un'ora. Dove si trova il suo ufficio?» Sciorinò l'indirizzo di uno dei sedicimila isolati di Ventura Boulevard. Il cuore di Encino. Encino si era sviluppato dall'ultima volta in cui ci ero stato. Era sempre così con Encino. Pierce, Sloan & Marder: consulenti attuariali. «Specialisti in indennità e pensioni» occupava l'ultimo piano di uno stretto edificio rettangolare di sette piani, di pietra calcarea e vetri a specchio, schiacciato tra un centro medico con un ristorante tailandese a pian terreno e un concessionario di Rolls-Royce, Jaguar e Land Rover. Il pavimento dell'atrio era di granito color ruggine. C'erano due ascensori sulla parete sud, tutti e due aperti. Ne presi uno e sbucai in un lungo corridoio con moquette di felpa grigia e resina vinilica bianca alle pareti. Era illuminato da una fila di luci allineate sul soffitto. Foto di fiori di Mapplethorpe con cornici di Lucite erano disposte lungo le pareti e apparivano fa-
stidiosamente intime in un luogo così asettico. L'entrata principale, sull'estremità nord del corridoio, era costituita da una parete di vetro che andava dal pavimento al soffitto con scritte in caratteri dorati che elencavano i nomi dei soci della società attuariale e informavano i non iniziati che la Pierce, Sloan & Marder aveva filiali a San Francisco, Chicago, Atlanta e Baltimora. Contai ventidue soci nell'ufficio di Los Angeles. Il nome di Howard Burden era il quarto a partire dall'alto. Non male per un trentenne dai modi villani. Attento a questi giudizi, Delaware. Se non fosse per il dolore, forse sarebbe una persona deliziosa. Dall'altra parte del vetro l'area di ricevimento era fortemente illuminata. E vuota. La porta era sprangata da una pesante lastra di ottone brunito. Bussai e il vetro vibrò. Aspettai. Bussai di nuovo. Aspettai ancora un po'. Bussai più forte. Era troppo per i miei dieci minuti. Niente di meglio di un viaggio in macchina nella Valley nelle ore di punta per far uscire dai gangheri. Proprio mentre mi stavo girando per andarmene, una delle porte degli ascensori si aprì e ne uscì un uomo. Era corpulento e camminava con l'andatura dondolante di chi ha i piedi piatti. Dimostrava quarant'anni. Alto un metro e ottanta, quasi calvo, solo radi capelli bruni sulle tempie, pelle fresca e folti baffi bruni poco curati. Trenta chili di sovrappeso, tutti di grasso, la maggior parte dei quali pendeva sopra la cintola. Fibbia d'oro alla cintura che luccicava mentre si avvicinava. Camicia bianca con le maniche lunghe, pantaloni alla marinara con doppia piega, mocassini neri, cravatta blu con un motivo di quadrati color lavanda allentata al collo. Nonostante fosse tutto molto costoso, sembrava una maschera, quanto la tenuta di Dejon Jonson, come se qualcuno lo avesse vestito a festa. Mi venne incontro ansimando, muovendo le braccia alla maniera dei marciatori, con in mano un mazzo di chiavi e nell'altra un sandwich umido avvolto nel cellofan. Sotto il cellofan un sottaceto avvizzito stava attaccato al panino come se ne andasse della vita. «Lei è Delaware?» La sua voce era cupa, leggermente rauca. Sbatacchiò le chiavi. Un marchio della Mercedes-Benz era attaccato alla catenella. Il collo era segnato di rughe e coperto di sudore. C'era una macchia d'unto sulla tasca della camicia, proprio sotto il monogramma HJB. Mi aspettavo qualcuno di dieci anni più giovane. Cercavo di nascondere la sorpresa, dissi: «Salve, signor Burden...» «Lei ha detto che sarebbe arrivato dopo un'ora. Sono passati solo, solle-
vò la mano col sandwich e scoprì un Rolex Oyster d'oro, quarantotto minuti.» Mi superò, aprì la serratura d'ottone e fece scivolare la porta verso di me. La afferrai e lo seguii a destra del banco della ricezione, oltre una parete di noce. Dietro c'erano altri nove metri di moquette grigia. Si fermò davanti a una doppia porta. Su quella di sinistra c'era scritto in lettere dorate: DOTTOR HOWARD J. BURDEN SOCIETÀ DI ATTUARI. La aprì, attraversò di corsa un ufficio esterno ed entrò in una grande stanza rivestita di pannelli di noce. Ma non si vedeva molto legno: le pareti erano coperte da diplomi, certificati e fotografie. La scrivania era massiccia, molto lucida, con intarsi di legno di olmo e bordi di ebano. Il piano della scrivania, a forma di P, era coperto da mucchi di libri, riviste, posta, buste per comunicazioni interne, pile di carte che pendevano. Dietro c'era una sedia di pelle blu. E dietro la sedia una credenza. Nel centro della credenza c'era un PC IBM, e su entrambi i lati altri mucchi di carte. Scostò una pila di carte e cominciò a scartare il suo sandwich. Manzo conservato e crauti con pane di segale per metà imbevuto di sugo. Cercai un posto dove sedermi. Le due sedie di fronte alla scrivania erano piene di documenti. Burden finì di scartare il sandwich e diede un grosso morso, non preoccupandosi di inghiottire prima di dire: «Butti un po' di quella merda». Liberai una delle sedie e mi sedetti. Continuò a mangiare, usando un tovagliolino di carta per asciugare il sugo dei crauti che gli colava sul mento. Diedi un'occhiata alle foto sulla parete. Burden e una donna bionda dall'aspetto piacevole, con un debole per i gilè di lana, i pantaloni bianchi e i corpetti. Sembrava avere sui trent'anni; in alcune fotografie lui sembrava essere suo padre. Metà delle foto ritraeva anche una bambina di circa cinque anni. Capelli scuri, anche lei con gli occhiali. Qualcosa di familiare. Pose da famiglia felice. Sorrisi che sembravano sinceri. Disneyland. Sea World. Gli studi della Universal. Parco d'acqua. Minigolf. Tutti e tre con in testa cappelli da rana, coi due genitori che abbracciavano la bambina. Lei che stringeva in mano un lecca lecca gigantesco. Mentre mangiavano insieme coni di gelato. La bambina in una recita scolastica, vestita da folletto. Mentre si diploma all'asilo infantile con tocco e toga in miniatura. Capii cosa mi aveva colpito di lei. Assomigliava alla foto della patente che mi aveva mostrato Milo. Una giovane Holly con qualcosa di cui sorridere. «Ha una deliziosa famiglia», dissi. Posò il sandwich e accartocciò il tovagliolino formando un pugno picco-
lo e tozzo. «Senta», disse, «mi faccia scoprire le carte subito: faccio questo perché vi sono costretto. Mio padre è un benemerito stronzo. Non mi piace, okay? Qualsiasi fesseria le abbia detto sulle cose che io e lui abbiamo in comune è una fesseria, okay? Perciò il fatto che lei lavori per lui la fa immediatamente rientrare nella lista degli scocciatori. Deve cercare di dimostrarmi il contrario, cosa che dubito sia possibile perché è tra i primi della lista. L'unico motivo per cui ho accettato di vederla è che mio padre chiamava dieci volte al giorno il mio ufficio, importunando in continuazione la mia segretaria. E quando lei non me lo passava, perseguitava Gwen, mia moglie, a casa. Sapevo che se non avessi ceduto, sarebbe piombato qui, come ha già fatto una volta, comportandosi in modo assurdo e mettendomi in imbarazzo. Sono qui da sei anni, ci sono stati sei party promozionali e un ricevimento aperto a tutti e lui non è mai venuto. Non ci siamo mai parlati negli ultimi cinque anni. Amy non ha mai visto un regalo di compleanno del bastardo. Adesso improvvisamente ha bisogno di qualcosa ed eccolo qui.» «Quando è avvenuta? La sua visita?» «Un mese fa circa. Io ero in riunione. Ha superato facilmente la segretaria, è entrato qui, si è seduto e ha aspettato ascoltando la sua maledetta musica da camera con un registratore. Con chiunque altro la mia segretaria avrebbe chiamato il servizio di sicurezza e lui si sarebbe ritrovato fuori col culo per terra. Cosa che a me non sarebbe affatto dispiaciuta. Ma lei non lo sapeva. Sapeva solo che era il padre del suo capo. Cosa diavolo poteva fare? Così lo ha lasciato restare qui e, quando sono arrivato, lui si è comportato come se non fosse successo niente: si intromette di forza nel mio ufficio e non è niente.» «Cosa voleva?» «Avevo visto Holly recentemente? Holly mi era sembrata sconvolta? Come se a lui importasse qualcosa, non glien'è mai fregato niente di nessuno. Gli ho risposto che non ne sapevo niente. Ha cercato di insistere. Ho continuato a ripetergli che non ne sapevo niente. Raccontando la solita tiritera. Finalmente ha capito, ma ha continuato a ciondolare nell'ufficio. Cercando di conversare facendomi perder tempo. Fingendo una cordialità che non esiste fra noi. Il vecchio buon papà. Così fa adesso. Chiama dieci fottute volte al giorno qui e a casa, mi dice che lei avrebbe chiamato, che avrei dovuto incontrarla, per parlarle di Holly. Cos'altro potevo fare? Dire no e averlo un'altra volta tra i piedi? È un maledetto rompiscatole, non ascolta mai, non si smuove di un dito. La mia pressione non è buona nean-
che nelle migliori circostanze, per questo ho accettato di vederla. Così facciamo i nostri dieci minuti di conversazione, diciamo che li abbiamo fatti e non ci pensiamo più, okay?» «Il fatto è che nemmeno io so perché sono qui.» «Lei è qui perché Mahlon Burden l'ha costretta a venire.» «Immagino che tutti e due abbiamo avuto problemi a dirgli di no.» Le sue dita si strinsero attorno al sandwich trasformandolo in una cosa molle e deforme. Crauti e sugo colarono sulla scrivania. Raccolse un pezzo di cavolo sottaceto e lo mise in bocca. Masticò con lo sguardo assente, leccò il bordo dei suoi baffi e improvvisamente sembrò perso. Un bimbo triste, grasso e flaccido ancora una volta lasciato fuori dal gioco. «Mi dispiace», dissi, «so che questo è un brutto momento per lei e non voglio renderlo peggiore. Siamo stati entrambi manipolati. Non c'è bisogno di continuare.» «È sua la colpa», disse. «Per Holly?» «Per Holly, per tutto. Per questo», disse stringendo un rotolo di grasso. «Per mia madre. Avrebbe dovuto essere portata in ospedale non appena aveva cominciato a perdere e a cacare sangue: fece diventare rossa la tazza del gabinetto. Lo ricordo ancora. Non lo dimenticherò mai. Stava uscendo tutto da lei. Stava male. Qualsiasi idiota avrebbe capito che aveva bisogno di cure mediche, ma come al solito lui capiva più degli altri e le disse che aveva bisogno di mettersi a letto, di calmarsi. La fece ricoverare solo quando perse i sensi.» «Perché?» «Non gli piacciono i dottori, non ha fiducia in loro. Può sempre far meglio da solo. Meglio di chiunque altro.» Il suo viso era accaldato, grondante di sudore, con gli occhi accigliati e socchiusi come un pugile che le sta prendendo. Sconfitto dalla sua rabbia. «Per quanto mi riguarda», disse, «lui l'ha uccisa.» «Mi ha raccontato una storia diversa su sua madre. Una facile operazione sbagliata. Negligenza dei medici.» «La sola negligenza era la sua. Negligenza di marito: peccato non possa essere denunciato per questo. Quando la fecero entrare in sala operatoria, aveva perso troppo sangue e i suoi elettroliti erano in squilibrio. Ebbe un collasso circolatorio e non ne uscì. Lo so perché un paio di anni fa ho usato le conoscenze che ho per esaminare la sua cartella clinica.» Sbatté il pugno sul tavolo.
«Certo che le ha raccontato una storia diversa. Mente. Senza batter ciglio. Un momento le dice una cosa, il momento dopo nega di averlo detto. O forse per lui non è una menzogna: forse crede veramente alle stupidaggini che racconta a se stesso. Non lo so. Persino dopo tutti questi anni non lo so. E non me ne frega niente. Ciò che so è che è uno stronzo egoista, che si preoccupa solo di se stesso e che si crede onnipotente: il potere assoluto. Deve controllare tutto e tutti. Decidere tutto lui. Quando vivevo a casa sua ero un prigioniero: il modo in cui vestivo, cosa mangiavo, tutto doveva essere sottoposto alla sua maledetta ispezione. Andarmene via è stato come rinascere.» «E Holly?» «Mia sorella era una prigioniera della peggior specie.» «Cella di isolamento.» Trasalì. «È la frase che mi è venuta in mente quando ho visto la sua camera», dissi. Gli vennero le lacrime agli occhi. «Sì. Una condanna a vita. Almeno io ho saputo uscire di lì. Lei no: non ne aveva le capacità. È, era, poco meno che ritardata. Il che era perfetto per lui. Appena ha finito le superiori, lui ha licenziato la donna di servizio e ha usato Holly per fare le pulizie di casa.» «Holly ha fatto obiezioni?» «Holly non aveva mai niente da obiettare.» «Ha avuto mai un comportamento... inappropriato con lei?» Le sue sopracciglia si alzarono. «Cosa intende dire?» «Inappropriato sessualmente. Manifestamente violento?» Scrollò la testa. «Voi avete sempre questo in testa.» Poi il suo volto diventò teso per la rabbia. «Perché? Sa qualcosa?» «No», dissi in fretta, «assolutamente niente.» «Allora perché lo ha chiesto?» Feci molta attenzione nel rispondere. «Conducevano una vita isolata, che è costante in una situazione incestuosa. La usava come donna delle pulizie. Sembrava quasi un ... rapporto coniugale.» «Non vada in giro a calunniarci», disse Burden, «ne abbiamo passate abbastanza.» «Non avevo nessuna intenzione di...» «Voglio mettere in chiaro una cosa: se il mio nome o il nome di qualsiasi altro membro della mia famiglia comparirà in qualsiasi rapporto che lei scriverà per lui o per chiunque altro, io la denuncerò con tutto il peso di
questa società dietro di me. E se lei racconterà a lui qualcosa che lo spinga a molestarmi, qualsiasi cosa, verrò personalmente a stanarla dal suo nascondiglio. Le sembrerò un grassone insignificante, ma posso radunare duecento persone per una conferenza stampa, capito?» Sollevò le spalle e batté il pugno sul tavolo con enfasi. «È chiaro?» «Non scriverò niente. Sono venuto qui per parlare di sua sorella, non di lei.» Fu colpito da queste parole. Tamburellò con le nocche sul tavolo, come un gorilla, poi sprofondò nella sedia. Passarono parecchi istanti prima che parlasse. «Prima che lei arrivasse mi sono detto che l'avrei ingannata, che avrei mantenuto la mia dignità, ed eccomi qui totalmente coinvolto.» Sorrise deluso. «Dio, sto diventando come lui.» «Ne dubito», dissi, indicando con lo sguardo le foto alle pareti. «Ciò che lei ha creato per se stesso sembra di gran lunga diverso dall'ambiente in cui è cresciuto.» Si coprì gli occhi con una mano. «Sono quanto di più caro ho», disse con voce soffocata, «non posso permettere che vengano coinvolte.» «Capisco.» «Capisce? Sa cosa vuol dire per una bambina di sei anni uscire di casa e avere i giornalisti che le urlano dietro? Avere i compagni di scuola che la punzecchiano sul fatto che sua zia ha sparato a dei bambini? Ho dovuto farle trasferire tutt'e due fuori città. Stavo appunto pensando di riportarle qui. Non posso permettere che questo le cambi. Non posso permettere che lui si intrometta nelle nostre vite.» «Non so cosa le abbia detto», dissi, «ma io non sto lavorando per lui, non ho preso un soldo da lui e non intendo prenderne. Sono stato coinvolto perché la polizia mi ha chiesto di aiutare i bambini della scuola a fronteggiare le conseguenze dell'attentato.» «Sì, i bambini», disse, «come stanno andando?» «Bene, ma l'idea che una totale estranea, una ragazza, spari contro di loro li sconcerta ancora. Così quando suo padre mi ha offerto la possibilità di scoprire qualcosa su Holly, ho accettato.» «Holly», disse. Fissò la scrivania e scrollò la testa. «So che ciò che ha fatto è male. Se mia figlia fosse stata in quel cortile l'avrei voluta uccidere io stesso. Ma mi dispiace per lei. Non posso farne a meno.» «È comprensibile. Lei ha nessuna idea sul perché possa averlo fatto?» Scrollò la testa. «Mi sono lambiccato il cervello, e Gwen insieme a me.
Voglio dire, Holly era strana, lo è sempre stata. Ma mai violenta. Non che la conoscessi bene: troppi anni di differenza, non abbiamo mai avuto una sola cosa in comune. Mai avuto nessun tipo di rapporto. Non era attaccata come lo sono in genere le sorelline: lei seguiva sempre la sua strada, faceva le sue cose. E lui faceva sempre confronti tra di noi, innalzandomi a esempio ai suoi occhi, e creando barriere.» «Quali erano le cose che faceva?» «Stava seduta nella sua stanza ascoltando la radio e ballando da sola. Come una matta. Io mi sentivo in imbarazzo a causa sua. Era... ottusa. Non volevo che qualcuno sapesse che era mia sorella.» Fece un sorriso triste. «Adesso è finita, eh?» Sorrisi e feci cenno di sì. «Gwen ha quattro fratelli», disse, «ed è molto attaccata a tutti quanti. Non riusciva a capire come un fratello e una sorella potessero essere completamente estranei. Poi quando lo incontrò capì: come ci teneva divisi, lo ha sempre fatto. Per controllarci. Ma la cosa che più dispiace è che ultimamente stavamo cercando di cambiare le cose. Aveva iniziato Gwen. Aveva invitato Holly a casa, cercato di conoscerla meglio. E anche cercato di allontanarla da lui. Gradualmente. Fuori dal suo guscio. Voleva dedicare più tempo a Holly. Per certi versi, quanto è successo è stato più duro per lei che per me.» «Holly è venuta a casa vostra?» «Sì. Solo qualche volta, forse tre o quattro.» «Quando questo?» «La scorsa estate. Agosto, settembre. La invitavamo quando lui non c'era. Viaggia molto, visita i suoi fornitori. Il lavoro è la sua vita, il suo vero figlio. Ha creato quel maledetto stronzo di Graff: il suo piccolo Frankenstein personale. Sapevamo che se lo avesse scoperto lo avrebbe impedito e poi Gwen non vuole assolutamente che si avvicini ad Amy. Non volevamo nemmeno telefonare perché, per quel che sappiamo, ha i telefoni controllati: è un patito dei gadget elettronici, adora tutti quei congegni paranoici ad alta tecnologia. Sta continuando a vivere i suoi giorni da spia nell'esercito...» «È stato una spia?» «Un qualche tipo di lavoro nel servizio informazioni. A volte faceva delle allusioni, poi, se glielo chiedevo, rifiutava di rispondere. 'Non posso parlarne, Howard.' Sadico. Sempre ossessionato dal potere.» «Mi ha detto che lavorava nel campo della crittografia, e della statistica
demografica.» «Come le ho già detto, mente. Forse si è inventato tutto e puliva solo cessi. Comunque, Gwen è passata con la macchina avanti e indietro davanti a casa finché non ha incontrato Holly. Portava fuori l'immondizia. Ha cercato di attaccare discorso e ha chiesto a Holly di chiamarci non appena lui avesse lasciato la città. Sono passate alcune settimane, non pensavamo che avrebbe chiamato. Ma lei lo ha fatto. È stata in casa nostra a cena una domenica. Tacchino con ripieno di castagne. Ricordavo come le era sempre piaciuto il tacchino.» «Com'è andata?» «Non c'è stato da divertirsi molto, se è questo che vuol sapere. Poca conversazione. Per lo più Holly è restata seduta ad ascoltare noi tre mentre conversavamo, ha guardato Amy mentre giocava con le sue bambole, è rimasta un po' in disparte. Poi abbiamo messo un po' di musica e ha cominciato a ballare; non era molto aggraziata. Ma poi Amy si è unita a lei. E hanno ballato anche le poche altre volte che è venuta a casa. Amy è molto sveglia: era lei che dirigeva il gioco. Effettivamente tutte e due sembravano andare d'accordo, come bambini della stessa età. Amy è una bambina molto dolce, non l'ha mai presa in giro. Sapeva che Holly era strana, ma non ha mai detto niente in proposito, ha solo ballato con lei. Sia io che Gwen pensavamo di aver fatto qualche progresso, ma poi Holly ha interrotto le sue visite. Così, senza alcun motivo. Non riuscivamo a capire perché, abbiamo deciso di fregarcene di lui e abbiamo cercato di telefonare, ma ci rispondeva la segreteria telefonica. Così Gwen ha cominciato a girare in macchina intorno a casa sua, ha aspettato qualche tempo dopo che la sua macchina era partita e ha bussato alla porta. È venuta ad aprire Holly. Gwen ha detto che aveva un aspetto terribile: era stravolta, come se fosse morto qualcuno. Ha cercato di parlarle, ma lei non l'ha fatta entrare continuando a torcersi le mani e a dire cose senza senso.» «Che tipo di cose?» «Ripeteva in continuazione parole incomprensibili. Wannsee. Wannsee tue.» «T-U-E?» «O forse era D-U-E: cosa cambia? Non ha nessun senso comunque, non è vero? Gwen ha cercato di farla parlare per spiegarsi meglio, ma Holly si è agitata ed è corsa dentro casa. Gwen l'ha seguita. Era andata nel ripostiglio dei fucili e ne aveva tirato fuori uno. Gwen si è spaventata. È scappata via in tutta fretta e mi ha chiamato. Ne abbiamo parlato e abbiamo pensato
che Holly avesse una qualche forma di esaurimento. Il fatto che avesse afferrato il fucile ci aveva fatto veramente preoccupare: aveva sempre odiato le armi, non vi si avvicinava mai. Abbiamo fatto una chiamata anonima alla polizia raccontando che una persona con disturbi mentali aveva facile accesso ad armi da fuoco e fornendo l'indirizzo. Hanno chiesto se i disturbi di questa persona erano documentati o se aveva minacciato qualcuno con un'arma. Abbiamo detto di no. Ci hanno risposto che non potevano fare niente a meno che non ci fossimo rivolti al magistrato responsabile convincendolo della sua pericolosità per se stessa e per gli altri. E anche in quel caso tutto ciò che avremmo potuto ottenere era un ricovero per settantadue ore. E lui si sarebbe sicuramente opposto. Così abbiamo finito con il non far niente. Per Amy. Non volevamo esporla a nessuna pazzia. Ai tribunali, agli psicologi e a lui. E abbiamo smesso di cercare di avvicinarci a Holly.» «E a quando risale il fatto del fucile?» «Il mese scorso. Un paio di settimane prima...» Abbassò la testa. «Allora quanto è successo non sorprende molto, vero? Manifestava chiaramente intenzioni violente e nessuno le ha prese sul serio. Continuo a chiedermi se avrei potuto evitarlo.» «E improbabile», dissi, «ha raccontato niente di tutto questo alla polizia?» «E perché avrei dovuto? Per buttare altro fango sulla mia famiglia? Avere ancora il mio nome riportato sui giornali? In più la persona che hanno mandato qui sembrava un attore, non avrebbe potuto fregarsene meno.» «Il tenente Frisk?» «Sì, era lui. Ricordo di aver pensato che era uno stronzo. Cercava di farmi abbassare lo sguardo e si dava molta importanza. Insisteva nel chiedermi se Holly apparteneva a qualche gruppo sovversivo. Questa è una barzelletta, eh? Holly che aderisce alle brigate rosse.» Scrollò la testa. «No, non abbiamo parlato di questo, del fucile, con nessuno. Gwen non riesce ancora a parlarne, di tutta la storia. È convinta che sia colpa sua. Eccola, la persona più mite che sia mai comparsa sulla faccia della terra, che incolpa se stessa.» «Le persone buone lo fanno sempre», dissi. «Vorrei poter riportare indietro le lancette dell'orologio», continuò con voce disfatta. «Lo so che è un cliché, ma renderebbe la vita davvero più facile, non pensa?» Si coprì di nuovo il viso e fece un profondo sospiro.
«Ricorda quando Holly ha smesso di frequentare la sua casa?» dissi. «Settembre. Alla fine di settembre.» Subito dopo l'assassinio di Novato. Terribile. Sconvolta. Come se fosse morto qualcuno. «Aveva qualche amico?» chiesi. «Mai visto nessuno.» «Le ha mai fatto il nome di Novato?» Tolse la mano dal viso. «No. Chi è?» «Qualcuno che poteva essere un suo amico. Faceva le consegne per il negozio di Dinwiddie. Sappiamo che lui e Holly hanno perlomeno avuto qualche conversazione occasionale.» «È lui che lo dice?» «Non può dire niente. È morto.» «Come?» «Assassinato, lo scorso settembre. Proprio nel periodo in cui Holly ha cominciato ad allontanarsi da lei.» «Ass... oh, Gesù! Lei pensa che sia questo che l'ha sconvolta?» «È possibile.» «Sta dicendo che questo Novato significava qualcosa per lei?» «Forse. Suo padre dice di no...» «Quello che dice lui non significa un bel niente. Chi è, era, questo Novato, che tipo di persona?» «Le persone che lo conoscevano dicono che era un bravo ragazzo. Sveglio. Negro. Ted Dinwiddie pensava molto bene di lui. Era il fattorino del negozio di Dinwiddie.» Sorrise. «Negro. È comprensibile. Ai tempi della scuola superiore Ted Dinwiddie era il nostro estremista più acceso. Adesso è un commerciante, e probabilmente si sente in colpa per questo. Assumere un ragazzo negro è una cosa che avrebbe fatto. Questo lo avrebbe reso ansioso. E l'ansia avrebbe mitigato il suo senso di colpa.» Restò in silenzio per parecchi istanti, sembrò perso nei ricordi. Prima che il silenzio diventasse gelo, dissi: «Quali sono le idee politiche di suo padre?» «Non so se ne ha. È un fottuto Mahlonicrate. Il culto di se stesso: gli altri non esistono.» «Quando Holly è venuta a casa sua, ha mai parlato di politica?» «No. Come le ho detto parlava pochissimo. Perché? Cos'è tutta questa storia? Chi ha ucciso Novato?»
«Il caso è irrisolto.» «Come è successo?» Pensavo a quanto potevo raccontargli. Siccome non rispondevo subito, lui si chinò in avanti e disse: «Guardi, io mi sono aperto con lei. Forse domani mi sentirò meglio per questo, forse no. Ma il punto è che non mi sono tirato indietro e non so un cazzo di lei. Così se ha qualcosa da dirmi, qualcosa che posso raccontare a Gwen, per aiutarla a dare un senso a tutto questo, ho bisogno di saperlo. Merito di saperlo». Gli raccontai della morte di Novato in quel vicolo e della scomparsa di Sophie Gruenberg. Non dissi niente dei sospetti di Smith sul loro coinvolgimento in traffici di droga. Gli parlai delle idee politiche estremiste della signora Gruenberg e dissotterrai la mia teoria che Holly fosse mossa da qualche distorta motivazione politica. Era Massengil il suo obiettivo. Non avevo n ente con cui sostenere queste idee, ma il terapista aveva preso il sopravvento in me e volevo che Burden si sentisse meglio. Funzionò. Pensò a lungo, poi disse: «Questo lo rende più facile da accettare. Che non fosse andata per i bambini. Che in qualche modo avesse uno scopo. Amici. Gente che si interessava a lei». Si girò, guardò le fotografie di sua moglie e di sua figlia. «Volevamo esserle amici. Questo era tutto. Riuscire a conoscerla, ricollegarci a lei. Recuperare il tempo perduto, salvare qualcosa. Ma non è possibile. Queste cose non possono succedere, vero?» 24 I dieci minuti erano diventati più di un'ora. Quando mi alzai per andarmene, Burden era così sottomesso da sembrare assopito e la mano che strinsi era sudata e molle. Lo lasciai alla sua scrivania e mi diressi verso l'ascensore. Fuori l'aria era rimasta tiepida e, sebbene puzzasse di gas di scarico, fui contento di respirarla a pieni polmoni. Felice di aver lasciato la rabbia e l'odio che avevano riempito il suo ufficio come esalazioni malsane. Mi sembrò di capire, in quel momento, perché Mahlon Burden avesse insistito per farmi parlare con suo figlio. Howard gli aveva sbattuto la porta in faccia e tra i due non c'era comunicazione. Ma se Howard parlava con me, avrei potuto trasmettergli ciò che avevo scoperto. Strizzacervelli come modem.
Questo è il mio principale talento... So come mettere insieme le cose. E Howard aveva parlato. Avevo appreso molte più cose di quanto mi aspettassi. Ma non avrei riferito niente a Burden. Riesaminai il tutto mentre guidavo: lo stato mentale di Holly si era deteriorato subito dopo la morte di Novato. Aveva impugnato il fucile che avrebbe in seguito portato nella baracca della scuola... Wannsee. Wannsee tue. O era due? Due cosa? Probabilmente solo farneticazioni che non valeva la pena di interpretare. Che relazione c'era, se c'era, con la morte di Novato? Con la scomparsa della Gruenberg? Cominciai a credere che tutte le mie ipotesi sui motivi che avevano condotto Holly in quella baracca fossero sbagliate. Neanche l'ombra di quella sensazione di competenza... Mentre giravo per ritornare nel Glen, decisi di togliermi tutto quanto dalla testa. Di pensare a cose belle. A Linda. Ai suoi baci. Arrivai a casa alle sette e mezzo. Lei arrivò un'ora dopo, con addosso un vestito rosa e un paio di sandali e coi capelli dorati sciolti sulle spalle. Il primo bacio fu lungo e profondo, e sentii di abbandonarmi completamente. Ma quando finì, lei disse: «Sembri teso. Va tutto bene?» «Solo un po' stanco. E affamato. Ancora dell'idea di andare in un ristorante messicano?» «Ma certo. Offro io.» «Non è necessario.» «Non ti preoccupare.» Mi strofinò la spalla. «Verrà il tuo turno di pagare.» Proprio mentre eravamo sulla porta squillò il telefono. «Coraggio», disse. Presi la chiamata nel soggiorno. «Alex? Sono io.» La voce di Robin. «Oh. Ciao.» «Ciao. Tutto bene?» «Certo. Bene. E tu?» «Bene. Sto aspettando che si asciughi un po' di colla e ho pensato di chiamarti per fare due chiacchiere.» «Mi fa piacere. Come stai?»
«Benissimo. Ho un gran daffare.» «Come al solito.» «Proprio così.» Linda aveva estratto il suo portacipria e si guardava nello specchietto. Robin disse: «Bene». «Bene.» Linda alzò lo sguardo. Le sorrisi e lei rispose al sorriso. «Alex, è... un momento inopportuno?» «No, stavo uscendo.» «Diretto in un posto preciso?» «A cena.» «Ehi», disse, «ti va se prendo una pizza e vengo da te? In onore dei vecchi tempi?» «Sarebbe un po'... difficile.» «Oh», disse, «vai fuori fuori». «Uh uh.» «Oh. Scusa. Ti lascio andare. Ciao.» «Aspetta», dissi, «va tutto bene, veramente?» «Benissimo. Davvero. E c'è qualcuno anche da queste parti. Niente di cosmico per ora, ma la cosa promette bene.» «Ne sono felice.» «Bene», disse, «volevo solo parlare un po'. Sono contenta che tu stia bene. Divertiti.» «Riguardati.» «Anche tu.» «Ciao.» «Ciao.» Linda non disse niente mentre uscivamo per andare alla macchina. Mi diressi verso Sunset e superai la rampa di accesso alla 405 Freeway ascoltando Miles Davis. Qualche momento dopo abbassò il volume e disse: «Era lei?» Feci cenno di sì. «Non dovevi precipitare le cose per causa mia.» «Non vale la pena discutere.» «D'accordo.» «È finita», dissi, «ma stiamo cercando di capire cosa resta della nostra amicizia.» «Mi odieresti se ti chiedessi come e perché è finita?»
«Come è che lei ha voluto una separazione di prova che si è allungata fino a diventare definitiva. Mi sono opposto, ho cercato di persuaderla a tornare indietro. Nel momento in cui lei ha cambiato idea, io ho cambiato la mia. Perché è che si sentiva soffocata da me. La opprimevo. Lei è cresciuta con accanto un padre opprimente, aveva bisogno di aprire le sue ali, provare ad affrontare le cose da sola. Non sto cercando di farla sembrare una cosa trita o un cliché. C'era del vero in quanto sosteneva.» «E adesso ti vuole ancora.» «No. Come ho già detto, sono solo residui di amicizia.» Linda non rispose. Procedemmo per qualche tempo senza parlare. «La soffocavi», disse, «non riesco a vederti così.» «Non sono la stessa persona di un anno fa. L'intera faccenda mi ha fatto guardare bene dentro me stesso.» «A dire il vero, non è una cosa che piaccia neanche a me», disse, «essere soffocata.» «In qualche modo non ti vedo una persona che può essere soffocata.» «È così?» «Tu hai conquistato i tuoi galloni molto tempo fa, Linda. Nessuno riuscirà a toglierteli.» «Pensi che sono piuttosto dura, vero?» «In senso buono. Penso che sai badare a te stessa.» Appoggiò la mano dietro il mio collo. «Oh, è diventato più rigido. Scusami per averti fatto parlare di queste cose.» Si avvicinò e cominciò a massaggiarmi. Sentii il calore e la forza che provenivano da quelle mani morbide, quelle che avevo creduto passive la prima volta che mi era stata presentata. «Com'è?» «Fantastico. Salterei la cena per un'ora di questo massaggio.» «Sai cosa ti dico», disse, «prima andiamo a rimpinzarci di piatti messicani. Poi andiamo a casa tua o a casa mia, ti faccio un vero massaggio texano e poi puoi soffocarmi. Dimentica tutta la bruttezza e le complicazioni della vita e schiacciami fino a farmi entrare nel tuo cuore.» Finimmo per scegliere casa mia. Eravamo a letto quando squillò il telefono. Sdraiati e nudi, al buio, ad ascoltare la Rapsodia in blu, mano nella mano.»
«Gesù, che ore sono?» «Le undici e venti.» Sollevai la cornetta. Milo disse: «Ciao». «Cosa c'è?» «Dalla punta di irritazione che c'è nella tua voce, devo supporre che è un brutto momento per chiamarti?» «Stai diventando sempre più perspicace.» «C'è qualcuno con te?» «Uh, uh.» «Blondie spero.» «Nessuno dei tuoi...» «Bene, voglio parlare con lei. Passamela.» Disorientato passai la cornetta a Linda. «È Milo. Per te.» «Per me?» disse prendendo la cornetta. «Salve ispettore Sturgis, cosa c'è?... Oh, ne è sicuro?... È formidabile. Come ha... Oh. È stata una bella fortuna... Pensa? D'accordo. Sembra interessante... Immagino. Se lei pensa veramente così... Okay. Arrivo. Grazie.» Mi passò davanti allungandosi per riporre la cornetta. Il suo seno sfiorò le mie labbra. Istintivamente cominciai a mordicchiarlo. Si allontanò e disse. «Ti va di fare un giro?» Una strada di nome Fiesta Drive. Niente nebbia stasera. Al chiaro di luna le magnolie sembravano alberi ritagliati nella carta. La casa aveva un aspetto curato, non diverso dalle altre dell'isolato. Una Oldsmobile Cutlass era parcheggiata nel vialetto d'accesso; dietro di essa il volgare sigaro nero di una Firebird Trans Am. Sul paraurti posteriore della Firebird c'era un adesivo con la sigla di una stazione radio heavy metal e un altro con la scritta LA VITA È UNA SPIAGGIA. La porta d'ingresso odorava di vernice fresca. Il campanello suonò le prime note del Battle Hymn of the Republic. Una donna grassa di circa cinquant'anni dall'aria preoccupata aprì la porta. Indossava un paio di pantaloni verde muschio, una blusa bianca ed era a piedi nudi. Il suo viso rotondo era pallido e circondato da una corona di bigodini azzurri. Il profilo del viso aveva perso la battaglia contro la gravità. Linda disse: «Sono la dottoressa Overstreet». La donna tremò e disse: «Io sono... loro... si accomodi, prego». Entrammo in un soggiorno identico per dimensione, disposizione e finiture a quello della casa di Burden. Questo era dipinto di giallo ranuncolo
con modanature bianche che risaltavano e ammobiliato con un divano, sistemato contro la parete, ricoperto con una stoffa di cinz a motivo floreale e sedie coordinate, una poltrona reclinabile di velluto a coste marrone, tavoli di acero e lampade di ceramica bianca lucida. Stampe con paesaggi rupestri e nature morte, rappresentanti per lo più frutta e pesce, pendevano alle pareti insieme a una ruota dello zodiaco in bronzo e a una vecchia ghirlanda natalizia. Il caminetto era stato chiuso con mattoni e dipinto di bianco. Un modellino di goletta fatto con lamine di rame dal bordo sbavato e fili di ottone era appoggiato sul focolare. Un uomo dalla carnagione scura e dai lineamenti marcati sedeva sulla poltrona, ma non sembrava rilassato. Aveva radi capelli neri e grigi sulle tempie, un viso teso e scarno, piegato verso il basso in modo così netto da sembrare una bacchetta da rabdomante. Indossava una maglietta e pantaloni grigi sotto una giacca da camera a scacchi, pantofole di spugna calzate su piedi bianchi e venati di blu. Le braccia erano appoggiate sui braccioli della poltrona e le mani si stringevano e si allargavano ritmicamente. Milo era in piedi davanti a lui a sinistra del divano. Un ragazzo di sedici o diciassette anni sedeva proprio sotto di lui: era grosso e flaccido, con grosse braccia bianche, informi, che uscivano dalle maniche arrotolate di una maglietta verde pisello con tasche a toppa. Intorno ai polsi grassottelli aveva fasce di cuoio ornate di borchie. I jeans neri erano infilati in un paio di stivali Wellington con catenella sul tacco. Un massiccio anello di acciaio inossidabile a forma di teschio occupava buona parte della mano sinistra. Quella destra copriva la faccia. Riuscivo solo a intravedere parte di un viso gonfio, non ancora ben definito, sotto capelli scuri rasati. Una peluria che voleva essere un paio di basette correva lungo le guance cosparse di foruncoli, arrivando un centimetro sotto i lobi delle orecchie. Non alzò gli occhi quando entrammo, continuò a fare quello che evidentemente stava facendo da un po': piangere. Milo disse: «Buona sera, dottoressa Overstreet e dottor Delaware, questi sono i signori Buchanan». L'uomo e la donna fecero cenno di sì col viso dolente. «E questo è Matthew. È stato lui a fare quel bel lavoro alla sua macchina.» Il ragazzo pianse più forte. Suo padre disse: «Piantala. Almeno affronta la situazione e non essere un vigliacco, maledizione». Il ragazzo continuò a piangere.
Buchanan balzò in piedi e andò verso il divano, un uomo grosso e flaccido. Afferrò i polsi del ragazzo e glieli strattonò. Il ragazzo si piegò e cercò di nascondere la faccia tra le ginocchia. Il padre abbassò la mano e gli sollevò la faccia afferrandolo per il mento. «Guardali, maledizione! Guardali in faccia, o sarà anche peggio per te, te lo prometto.» La faccia del ragazzo era pallida e sporca di moccio, la bocca sbilenca e grottesca sotto la stretta del padre. Strinse forte gli occhi. Buchanan imprecò. La signora Buchanan fece un passo verso suo figlio. Lo sguardo furibondo del marito la bloccò. La mano si strinse. Il ragazzo urlò di dolore. «Calma», disse Milo. E toccò il braccio di Buchanan. L'uomo lo fissò furioso, poi lasciò la presa. «Si metta seduto», disse Milo gentilmente. Buchanan ritornò alla poltrona, senza guardare nessuno, sistemandosi i lembi della giacca. Milo disse: «Matt, questa è la dottoressa Overstreet, direttrice della scuola elementare Hale, ma tu probabilmente lo sai già, vero?» Il ragazzo guardò Linda, impaurito, poi strinse gli occhi. Linda disse: «Ciao, Matthew». Il ragazzo nascose nuovamente la faccia. Il padre si girò di scatto e disse: «Dillo!» Il ragazzo mormorò, con voce soffocata e tra i singhiozzi, uno «Scusi». «Mi scusi, signora», urlò suo padre. «È veramente pentito», disse la signora Buchanan, guardando Linda; «non ha mai fatto una cosa simile prima d'ora e non la farà mai più. Dispiace molto a tutti noi.» «Basta con le scuse, per l'amor di Dio», disse suo marito; «di cosa dobbiamo scusarci? Forse solo dei vizi che gli hai dato. Ha avuto da te tutto ciò che chiedeva piagnucolando. E non si è mai responsabilizzato.» «Pete, per favore.» «Nessun 'Pete per favore'!» disse Buchanan, «smetti solo di intrometterti e lasciami risolvere la cosa nel modo in cui avrei dovuto già molto tempo fa.» Allungò un paio di grossi pugni pelosi. Sua moglie si morse il labbro e guardò da un'altra parte. Il ragazzo aveva smesso di piangere da abbastanza tempo per poter seguire la scaramuccia tra i genitori. Buchanan gli voltò le spalle e si avvicinò a Linda. Il suo labbro tremava e notai che una palpebra era più abbassata dell'altra. «Signora,
porto il nome di uno dei presidenti degli Stati Uniti. Credo in questo paese. Profondamente. Possiamo trovare soldati nella nostra famiglia andando indietro di generazioni. Ho fatto il mio servizio in Corea, servizio attivo, ho i documenti per provarlo. Perciò noi non incoraggiamo discorsi nazisti in questa casa. Deve averlo imparato da quelle porcherie che guarda in continuazione: i videoclip rock. Su cui si può mettere una croce qui dentro, questo è certo.» Diede uno sguardo furioso al figlio girandosi leggermente. Il ragazzo si coprì di nuovo il viso. «Non ci provare quando parlo con te!» gridò il padre; «guardami in faccia, maledizione!» Si girò e si diresse verso il figlio. Milo si mise tra loro. «Sono costretto a insistere. Deve sedersi, signore. Adesso.» Buchanan si irrigidì, poi espirò. Il viso di Milo era una maschera di poliziotto. Buchanan borbottò, poi tornò alla poltrona, prese il giornale del giorno prima dal tavolo e finse di leggere la pagina sportiva. Il pesante viso della moglie era gonfio di umiliazione. Milo disse: «Dottoressa Overstreet, se vuole sporgere denuncia farò arrestare Matt e finirà in prigione». Il ragazzo ricominciò a piangere. La madre fece lo stesso. Il signor Buchanan li guardò entrambi con ripugnanza. Linda si avvicinò al divano e studiò il ragazzo. Lui cercò di evitarne lo sguardo, tirò su col naso e si pulì con la manica. Lei disse: «Perché, Matt?» Irrequietezza. Alzata di spalle. «È importante per me saperlo prima di decidere cosa fare. Perché lo hai fatto?» Il ragazzo bofonchiò qualcosa. «Cosa hai detto?» «Non lo so.» «Non sai perché hai distrutto la mia macchina?» Alzata di spalle. «Cosa hai usato?» «Una barra di ferro.» «Sapevi che era la mia macchina?» Silenzio. «Andiamo, Matt. Me lo devi.»
Cenno di sì. «Sapevi che era la mia macchina?» «Sì.» «Perché volevi farmi del male? Ti ho mai fatto niente?» Scrollata di testa. «Allora perché?» «La scuola.» «E cos'hai contro la scuola?» «Ha portato... loro, qui.» «Loro chi?» «I negri e i messicani. Tutti dicevano che lei li ha fatti venire per impossessarsi del quartiere.» «Tutti? Tutti chi?» Il ragazzo alzò le spalle. «La gente.» Buchanan lo interruppe. «Io non l'ho mai sentito in questa casa. Non che approvi quello che lei ha fatto, ma noi rispettiamo la legge, ci facciamo gli affari nostri e non creiamo fastidi agli altri. E non facciamo discorsi razzisti. Io lavoro con gente di colore e andiamo abbastanza d'accordo.» E rivolto al ragazzo: «Non facciamo discorsi razzisti qui, vero?» Il ragazzo scrollò la testa. «Sono quei maledetti video», disse il padre, «e quella macchina: non avrei mai dovuto comprargliela. È troppo piccolo anche per pulirsi il naso. Guardati!» «Papà...» «Stai zitto!» Linda disse: «Matt, fammi capire bene. Tu ce l'hai con me perché pensi che stia cercando di impossessarmi del tuo quartiere, portando qui bambini da altri quartieri. Così hai distrutto la mia macchina.» Fece cenno di sì. «Come facevi a sapere che era la mia macchina?» Il ragazzo disse con un filo di voce: «L'ho vista». «C'era qualcun altro con te?» Scrollata di testa. «Nessun altro sapeva che l'avresti fatto?» «No.» «Perché hai disegnato una svastica sulla macchina?» Alzata di spalle. «Sai cosa rappresenta la svastica?»
«La razza.» «La razza? Cosa significa?» «I tedeschi.» «Non i tedeschi», disse il padre, «i nazisti. Tuo nonno li ha combattuti.» Linda disse: «Come mai non eri ancora a letto a quell'ora?» Buchanan guardò sua moglie e disse: «Ottima domanda». Il ragazzo non rispose. Linda disse: «Ti ho fatto una domanda e mi aspetto una risposta». «Facevo un giro.» «Con una barra di ferro?» Nessuna risposta. «Perché avevi una barra di ferro con te?» «Per farlo.» «Per distruggere la mia macchina?» Cenno di sì. Buchanan disse: «Parla, maledizione». «Sì», disse il ragazzo. «Così avevi già in mente di distruggere la mia macchina.» Sguardo a suo padre: «Sì». «Da quanto tempo?» «Non so... da qualche giorno.» «Perché da qualche giorno? Cosa ti ha fatto venire questa idea?» «Il suo... l'attentato.» Il ragazzo si tirò su a sedere, e la sua faccia terrea si illuminò. «Ha fatto vedere come tutto era diventato di... andava in malora, i ne... i ragazzi di colore e i messicani. Ha fatto vedere come tutto andava in rovina ed era colpa della scuola.» E girandosi verso il padre. «Questo l'avete detto anche voi, tu e mamma.» La signora Buchanan si coprì la bocca con la mano. «Oh, Cristo», disse suo marito, sbiancando, «brutto piccolo idiota! La gente ha delle opinioni: questa è l'America, grazie a Dio! Esprimi un'opinione e dici quello che pensi. Questa è la democrazia. Altrimenti sarebbe come in Russia. Ma non vai in giro a distruggere le proprietà degli altri, grazie a Dio!» Si girò verso Linda. «Senta, signora, la sua macchina le sarà pagata fino all'ultimo penny. Quella Trans Am finirà domani in un salone di macchine usate e tutto il denaro che ricaveremo verrà usato per riparare la sua macchina, ha la mia parola.» «Bene. Conto di essere pagata entro una settimana», disse Linda. «Ma
non basta.» Il ragazzo la guardò, pietrificato. «La prego», disse la signora Buchanan, «non lo faccia andare in prigione. Lui è...» «Niente prigione», disse Linda, «è troppo comodo. Voglio qualcosa di più da lui. Un vero pentimento.» E a Matt. «Voglio che tu venga a scuola a dare una mano.» «Come?» «Fare le cose di cui c'è bisogno. Un giorno pulirai le scritte sui muri. Un altro potresti lavorare alla fotocopiatrice. O scrivere un tema.» Il ragazzo trasalì. «Non ti piace scrivere, Matt?» «Ha avuto dei problemi», disse la madre, «dislessia». «Allora gli sarà molto utile.» «Sì, è vero», disse la signora Buchanan, «sì, è certamente così. Gliene siamo grati. Grazie, signora.» «Ispettore Sturgis», disse Linda, «non desidero sporgere denuncia se Matt è disposto a cooperare e se mi sarà d'aiuto. A una condizione. Se combina guai, potrò ancora farlo?» «Certamente», disse Milo, «lascerò il caso aperto. Stia sicura che prenderà il massimo, sono tutti crimini gravi, e sarà processato come un adulto.» A Matt: «Stiamo parlando di lunghi periodi di detenzione, ragazzo». «Coopererà», disse la madre, «farò in modo che...» Linda disse: «Matt? Capisci cosa sta succedendo?» «Sì... sì, signora. Lo farò. Io... mi dispiace molto. È stato stupido.» «Allora voglio darti questa possibilità.» La signora Buchanan si profuse in mille ringraziamenti. Il signor Buchanan sembrò sprofondare nella sua poltrona, più vecchio e più piccolo, senza ormai sulle spalle lo sforzo di apparire duro. Disse: «Sei stato fortunato, giovanotto. Ma non abbiamo ancora fatto i conti, noi». 25 Fuori, sul ciglio della strada Milo disse: «Non avevo niente da fare questa sera. Son venuto a dare un'occhiata qui. Verso le nove e mezzo ho visto la sua macchina girare intorno all'isolato lentamente, e rallentare ulteriormente all'altezza della scuola. La terza volta che è passato ho deciso di
mettere la luce intermittente sul tetto della macchina e di fermarlo. Aveva la barra di ferro appoggiata proprio sul sedile. Un ragazzino stupido. Se l'è fatta quasi addosso quando mi ha visto». Linda disse: «Ha sentito la madre: tutti quei problemi scolastici». «Proprio come Holly», dissi. «Ma non si conoscevano», disse Milo, «l'ho lavorato ben bene su questo punto. Non è schedato, non appartiene a nessun gruppo o banda. Così penso che questa sia l'unica malefatta che abbia commesso, o per cui sia stato preso.» Dopo qualche altra chiacchiera, Linda disse: «Bene. E grazie ancora». Lui rispose: «Bonsoir», fece un cenno di saluto e si allontanò. «Una brava persona», disse Linda. «Su questo punto non ho niente da obiettare.» Ritornammo a casa mia e ci accorgemmo di essere troppo eccitati per dormire. Scovai un mazzo di carte in un cassetto di cucina e giocammo distrattamente a carte per un po' finché spegnemmo la luce e ci assopimmo, sdraiati l'uno accanto all'altra. Il mattino successivo la riportai a casa e salii con lei. Si cambiò d'abito, indossò un vestito color lilla, prese la sua macchina a noleggio nel garage sotterraneo e si diresse a scuola. Feci qualche commissione e poi ci andai a mia volta. Pezzi di strisce di carta pendevano ancora dal cancello. Per il resto il cortile era vuoto, quasi spettrale. La malinconia del giorno dopo. Aspettai nell'ufficio di Linda mentre lei controllava se erano insorti problemi di assestamento come strascichi del concerto. Alcuni insegnanti riferirono di un po' di indisciplina, ma niente che non riuscissero a controllare. Verso mezzogiorno mi intrattenni con alcune insegnanti e, essendomi convinto che tutto era tranquillo, me ne andai. All'una Mahlon Burden chiamò. «Qualche progresso dottor Delaware?» «Ho incontrato suo figlio ieri sera.» «Ottimo. E cosa ne ha ricavato?» «Non aveva niente di nuovo da offrire su Holly, ma mi ha detto che lei è passato da lui un mese fa. E che era preoccupato per sua figlia.» Pausa. «Sì, è vero. Sapevo che Howard l'aveva... portata di nascosto a casa sua. Lui e sua moglie pensavano che non lo sapessi, ma naturalmente lo sapevo. Siccome avevano passato più tempo insieme, ho pensato che avrebbe potuto dirmi perché Holly sembrava così triste.» «Triste?»
«Chiusa in se stessa. Taciturna. Più del solito.» «Quando è iniziato tutto questo?» «Mi faccia pensare: verso la fine di settembre o l'inizio di ottobre.» «Ha sospettato che i contatti con Howard potevano aver provocato questa chiusura?» «Non ho sospettato niente, dottore. Stavo semplicemente cercando di sviluppare qualche ipotesi. Ora, naturalmente, lei me ne ha fornita una. La morte del ragazzo negro. È avvenuta a fine settembre. Lui e Holly possono essere stati più vicini di quanto pensassi. Può dirmi qualcos'altro su di lui?» «No, le ho già detto tutto quanto so.» «Bene allora. Cos'altro abbiamo in agenda?» «Signor Burden, non ho scoperto niente che possa vendicare Holly. A dire il vero non mi sembra che mi stia muovendo in quella direzione.» «Mi dispiace che lei la pensi così», rispose, «perché non passa ancora a casa mia?» Potremmo mettere insieme le nostre teste e sviluppare qualche ipotesi.» «Forse fra un po'», dissi, «sono piuttosto impegnato in questo periodo.» «Capisco», disse, «ma lei non sta chiudendo la porta?» «No», risposi, «la mia porta non è mai chiusa.» Milo chiamò un'ora dopo e gli raccontai del mio incontro con Howard Burden. Descrissi il peggioramento delle condizioni mentali che Howard aveva notato nella sorella dopo la morte di Novato. Il fatto che avesse impugnato il fucile. Wannsee due.» «Due cosa?» «Non ne ho idea.» «Uhm», disse, «e se fossero due persone da uccidere? Massengil e qualcun altro.» «Latch?» «Può darsi», rispose, «due piccioni con una fava. O forse progettava di colpire Massengil a scuola, e spostarsi altrove per la vittima numero due. Non è inusuale per questi pazzi avere piani elaborati, idee fisse. Ma non sono io che devo dirti queste cose, vero? Comunque tutto questo consolida la figura dell'assassino solitario; afferra un fucile due settimane prima dell'attentato: mostra premeditazione. Già mentalmente debole, è stata sconvolta dalla morte di Novato, ha perso il controllo su se stessa, ha passato un mese e mezzo alimentando la sua rabbia, si è avvicinata alla rastrelliera
dei fucili, si è abituata all'idea di usarli. Poi, bum! Come sto andando, come penetrazione psicologica?» «Abbastanza bene.» «Non la penserà allo stesso modo il padre.» «Gli ho parlato e gli ho detto che avrei sospeso i nostri incontri, per ora.» «Fino a quando?» «A tempo indeterminato.» «Non hai avuto il coraggio di troncare con lui?» «Non ho niente da offrirgli», dissi, «secondo me, le sue difese stanno per crollare. Volevo prendermela con calma.» «Pensavo che non ti piacesse quella persona.» «È vero, ma questo non modifica la mia responsabilità. Inoltre quell'uomo è patetico: non gli resta più niente della sua famiglia. Suo figlio lo odia; lui ovviamente voleva farmici parlare perché non c'è comunicazione fra loro. Per questo me la sono presa con calma.» «Interessante», disse Milo. «Cosa?» «Avere un lavoro in cui occorre vigilare in continuazione su se stessi, preoccuparsi dei sentimenti della gente.» «È una parte anche del tuo lavoro.» «A volte», replicò, «ma nella maggior parte dei casi le persone di cui mi occupo sono già morte. A proposito, mi sono messo in contatto col Santa Monica College. Novato si è iscritto al semestre estivo, ma si è ritirato dopo una settimana.» «Giusto il tempo per far registrare il suo nome nell'ufficio che si occupa di trovare lavori per gli studenti.» «È quanto avevo pensato anch'io. Probabilmente è quello il motivo vero per cui si è iscritto. Senza documenti di identità, senza referenze, sarebbe stato difficile trovare un lavoro.» «A Dinwiddie sarà piaciuto il fatto che fosse uno studente. Ha nostalgia dei giorni della scuola.» «Io mi chiedo», disse Milo, «perché Novato aveva bisogno di un lavoro mal pagato se vendeva droga.» «Una copertura? Smith ha detto che stanno diventando sofisticati.» «Può darsi. Ma sia quel che sia non penso che valga la pena di continuare a discuterne. Il mio contatto all'Holocaust Center tornerà in aereo da Chicago oggi pomeriggio. Ho un appuntamento al centro alle cinque: è
l'ultima cosa che intendo fare per questo caso. Ci sei mai stato?» «No.» «Dovresti vederlo. Tutti dovrebbero.» «Sono libero alle cinque.» «Guidi tu.» Un'impalcatura e una recinzione segnalavano la presenza di un cantiere edile accanto all'edificio a due piani fatto di mattoni bianchi e di marmo nero. «Quello è il museo», disse Milo, «la Casa della tolleranza. Hanno cominciato a fare gli scavi il mese scorso.» Il traffico era congestionato per un raggio di mezzo isolato intorno al cantiere. Nuvole di polvere, colpi sordi di martello e gemiti di seghe salivano in mezzo al lamento di motori al minimo. Un operaio con un pettino arancione stava in piedi in mezzo al Pico Boulevard e guidava a gesti una gru che si immetteva a marcia indietro sulla strada. Un agente della stradale riduceva all'obbedienza, dirigendo con guanti bianchi e fischietto, una mandria di auto che si ingrossava in continuazione. Milo si piegò verso il centro della Seville e guardò nello specchietto retrovisore. Un istante dopo guardò ancora. «Cosa c'è?» dissi. «Niente.» I suoi occhi scrutarono davanti e indietro. «Andiamo, Milo.» «Non è niente», disse, «poco fa ho pensato che qualcuno ci seguisse. Ma probabilmente non è così.» «Probabilmente?» «Non agitarti.» Si rimise seduto diritto. «Quando te ne sei accorto?» «Prima della Motor, vicino agli studi della Fox. Forse è solo immaginazione: non mi sembra che ci sia nessuno adesso dietro di noi, ma c'è troppo traffico per esserne sicuri.» «Forse non era solo immaginazione. Ho avuto la stessa sensazione un paio di volte la settimana scorsa.» «Ah, è così?» «Anch'io ho pensato fosse frutto della mia immaginazione.» «Probabilmente era vero.» «Probabilmente?» «Come ti ho già detto, Alex, non t'impressionare. Anche se c'era qualcu-
no probabilmente si trattava del dipartimento.» «Come fai a dirlo?» «La macchina. Una berlina Plymouth. Completamente grigia, gomme nere, antenna radio. Se si escludono le macchine sofisticate confiscate ai narcotrafficanti, il dipartimento non ha ancora scoperto gli effetti speciali.» «E perché il dipartimento dovrebbe farci seguire?» «Non noi. Me. Forse ho pestato i piedi a qualcuno. Ho il piede grosso, io.» E agitò le sue scarpe sportive. «Frisk?» dissi. Alzò le spalle. «Sì, credo. È nello stile di Kenny, ma potrebbe essere chiunque. Non sono una persona molto gradita.» «E allora perché quelli seguivano anche me? Colpevole di esserti amico?» «Quelli? Quanti erano?» «Due, entrambe le volte. Prima in una Toyota marrone, poi in una berlina. Un uomo e una donna la seconda volta. Credo.» «Mi sembra troppo fantasioso per il dipartimento. Quando e dove è successo?» «Tutt'e due le volte era di notte. Di ritorno da un ristorante. La prima volta ero solo, a Santa Monica. La seconda è stato domenica scorsa, con Linda. A Melrose, vicino a LaBrea.» «Per quanto tempo ti hanno seguito?» «Non molto.» Gli raccontai di come ero entrato nella stazione di servizio per seminare la Toyota marrone. Sorrise. «Mossa geniale, 007. Hai notato se si sono girati per guardarti dopo che sei entrato nella stazione di servizio?» «No. Hanno tirato dritto.» «E la seconda volta?» Scrollai la testa. «Ho girato in una strada laterale e non c'erano più.» Si tirò su a sedere, allungò appena le gambe e sbadigliò. La gru se ne era finalmente andata e avanzammo. Mentre giravo l'angolo, Milo controllò le macchine che sfrecciavano accanto. «Niente», disse, «dimentica l'intera faccenda.» Lasciammo la macchina nel parcheggio riservato ai visitatori dietro il centro e girammo intorno all'edificio per raggiungere l'entrata principale. Dopo essere passati attraverso un metal detector, ci presentammo a una guardia in abiti civili in una guardiola aperta. Era giovane, dai lineamenti marcati, con capelli neri rasati, mento forte e sguardo ostile.
Milo mostrò il suo tesserino e disse: «Siamo qui per incontrare Judy Baumgartner». «Aspettate un momento, per favore», disse con un accento straniero che non riuscii a identificare. Si allontanò di qualche passo per fare una chiamata. «Israeliano», disse Milo, «da quando hanno dipinto quelle svastiche, usano ex agenti dei servizi segreti per compiti di sorveglianza. Molto rigidi. Trattare con loro può essere una vera seccatura, ma fanno bene il loro lavoro.» La guardia tornò al suo banco. «Arriverà fra qualche minuto. Potete aspettare là.» E indicò una corta rampa di scale aperta. Sopra c'era un pianerottolo con dietro un murale in bianco e nero che ritraeva visi dagli occhi spalancati. Volti spaventati. Mi ricordò le immagini viste in TV il giorno dell'attentato. Milo disse: «Possiamo dare un'occhiata all'esposizione?» Il poliziotto alzò le spalle: «Certo». Prendemmo le scale aperte per scendere nel sotterraneo. Un corridoio scuro. Ticchettio di macchine per scrivere e squillo di telefoni. Qualche persona dall'aria indaffarata percorreva velocemente il corridoio. Sulla destra c'era una porta nera con su scritto in piccole lettere metalliche ESPOSIZIONE. «Per adesso», disse Milo, «finché il museo non è finito.» Aprì la porta che immetteva in una stanza di circa trenta metri quadri, pareti rivestite da pannelli, moquette grigia, un ambiente decisamente fresco. Ingrandimenti di fotografie alle pareti. Milo cominciò a camminare. Lo seguii. La prima foto: soldati nazisti che prendevano a calci e a pugni vecchi ebrei per le strade di Monaco. La seconda, manifestanti che marciavano impassibili sollevando dei cartelli: RAUS MIT! EUCH DRECKIGE! JUDEN! Mi fermai, inspirai e continuai. Un soldato con stivali e cappello con visiera, di diciannove o vent'anni, che tagliava la barba a un nonnino terrificato con un paio di cesoie, mentre altri soldati guardavano divertiti. Le vetrine in frantumi, sventrate, dei negozi dopo la Kristallnacht a Berlino. Svastiche. Manifesti scritti in rozzi caratteri gotici. Edifici fatti a pezzi. Facciate distrutte. Mi fermai davanti a un trittico a metà della prima parete, mentre Milo
continuava a camminare. Una scena invernale. Monumentali foreste di conifere sopra basse dune di neve. In primo piano una fila di uomini e donne nudi che si accalcavano sopra una fossa comune; alcuni avevano ancora in mano una pala. Dozzine di corpi emaciati, toraci incavati, genitali avvizziti. Vittime oscenamente nude in mezzo alla gelida bellezza della campagna bavarese. Dietro i prigionieri una dozzina di SS armate di carabine. La foto successiva: i soldati portano il fucile alla spalla. Un ufficiale impugna un bastone di comando. La maggioranza degli sterratori sono di spalle, ma una donna si è girata per guardare in faccia i soldati. Ha la bocca spalancata. Urla. Una donna dagli occhi scuri e dai capelli neri. Il petto è avvizzito, il pelo pubico una ferita scura sulla pelle bianca. Poi corpi. Mucchi di corpi che riempiono la fossa, mescolati con la neve. Un soldato colpisce con la baionetta un cadavere. Feci uno sforzo per avvicinarmi. Primo piano di filo spinato, punte di ferro. Un avviso in tedesco. Un brandello di qualcosa attaccato alle punte. Cani ringhiosi. L'ingrandimento di un documento. Colonne di numeri dai margini dritti, ben stampate, ordinate come un libro mastro. Accanto a ogni colonna parole scritte a mano. Bergen-Belsen. Gotha. Buchenwald. Dachau. Dortmund. Auschwitz. Landsberg. Maidanek. Treblinka. Accanto a ogni nome un numero. Conteggio di corpi. Molte cifre. Un'orribile aritmetica... Altre immagini bianche come la neve: ossa. Mucchi di ossa. Femori, tibie, falangi bianche come tasti di pianoforte. Piccoli bacini aperti. Gabbie toraciche squarciate. Brandelli e frammenti resi irriconoscibili. Una montagna di ossa su un fondo di terra e pietrisco. Un incomprensibile Everest di ossa, punteggiato di teschi senza mascelle. Mi si rivoltò lo stomaco. Un altro documento ingrandito: parole tedesche polisillabe. Una legenda: PROCEDURA DI TRATTAMENTO. La soluzione finale. Categorie di persone destinate al mucchio di rifiuti: ebrei. Zingari. Sovversivi. Omosessuali. Cercai con lo sguardo Milo. Era dall'altra parte della stanza e mi volgeva le spalle. Con le mani in tasca, grosso e curvo: un orso predatore in un giro notturno. Continuai a camminare e a guardare. Una vetrinetta con esposti filtri per maschere antigas Zyklon B. Un'altra
contenente uniformi a righe, di tela grezza, stracciate. Bambini con berretti e nastri, fatti salire a frotte sui treni. Disorientati e col viso rigato dalle lacrime. Mani minuscole che si allungavano in cerca della mamma. Visi schiacciati contro i finestrini. Un altro gruppo di bambini, in linde uniformi scolastiche, che marciavano dietro una bandiera con la svastica e salutavano col braccio teso. Nere forche contro un cielo nuvoloso. Corpi che pendevano con i piedi che sfioravano il terreno. Una legenda spiegava che il patibolo era stato appositamente costruito con trabocchetti bassi per rallentare il più possibile la morte per strangolamento. Torrette di guardia. Ancora filo spinato: chilometri di filo spinato avvolto. Forni di mattoni. Mucchi di materia carbonizzata e incrostata. Micioni soddisfatti che leccavano uno dei mucchi. Laboratori piastrellati che assomigliavano a sale di autopsia. Lavelli pieni di provette di vetro. Esseri umanoidi sui tavoli. Un paragrafo descriveva la scienza del Terzo Reich. Esperimenti con acqua gelata. Esperimenti sul colore degli occhi. Esperimenti di inseminazione artificiale. Esperimenti di ibridazione delle specie. Iniezioni di benzina per indurire le arterie. «Chirurgia» senza anestesia per studiare i limiti di tolleranza del dolore. Studi sui gemelli. Sui nani. Uomini in camice bianco dall'aspetto autorevole che usavano i bisturi come armi. File di tombe all'esterno di un «sanatorio». Mi ritrovai a faccia a faccia con Milo. Quando lo vidi con le lacrime agli occhi, mi resi conto di averle anch'io. Mi sentivo come se mi avessero riempito la gola di sporcizia. Volevo dire qualcosa, ma al solo pensiero di parlare sentii un peso sullo stomaco. Distolsi lo sguardo da lui e mi asciugai gli occhi. La porta della sala dell'esposizione si aprì. Una donna entrò e disse: «Ciao, Milo. Mi dispiace di averti fatto aspettare». La sua voce allegra mi scosse come una doccia fredda. Doveva avere più di quarantacinque anni, alta e magra, con un collo lungo e una piccola faccia ovale. Capelli grigi tagliati corti con la frangia. Indossava un abito di seta fantasia, malva e blu, e scarpe di pelle scamosciata anch'esse color malva. Sul suo cartellino nominativo si leggeva J. BAUMGARTNER. RICERCATRICE. Milo le strinse la mano. «Grazie per aver subito accettato di incontrarmi,
Judy.» «Per te tutto, Milo. Se sembro un rottame è perché ho aspettato per quattro ore all'aeroporto O'Hare la partenza dell'aereo. Quel posto è uno zoo.» Aveva un aspetto perfettamente curato. Milo disse: «Questo è Alex Delaware. Alex, Judy Baumgartner». Sorrise: «Piacere, Alex». Milo disse: «Non è mai stato qui prima d'ora». «Allora un benvenuto speciale. Che impressione le fa?» «Sono contento di averlo visto.» La mia voce era commossa. Fece un cenno col capo. Lasciammo l'esposizione e la seguimmo lungo il corridoio fino a una piccola stanza con quattro scrivanie metalliche unite a formare un quadrato. Tre di esse erano occupate da giovani, due ragazze e un ragazzo, sui vent'anni, che leggevano con attenzione dei manoscritti e prendevano appunti. Li salutò. Loro risposero e continuarono a lavorare. Le pareti erano coperte da scaffali dello stesso metallo grigio. Una scatola di cartone era appoggiata sulla scrivania libera. Si sedette alla scrivania con la scatola. Io e Milo prendemmo due sedie. Lei indicò la scatola. «È il materiale di Ike. Ho mandato la mia segretaria allo schedario della libreria e le ho fatto prendere tutte le opere che aveva consultato. È tutto qui.» «Grazie», disse Milo. «Devo dirvi», aggiunse, «che sono ancora abbastanza turbata. Quando ho ricevuto a Chicago il messaggio con cui chiedevi di incontrarmi, ho pensato che si trattasse di qualcosa sugli attentati intimidatori o forse qualche progresso sul caso Kaltenblud. Poi quando sono tornata e Janie mi ha detto cosa volevi...» Scrollò la testa. «Era un così bravo ragazzo, Milo. Cortese, fidato, veramente fidato. Ecco allora perché non si è fatto più vedere. Ne ero veramente stupita.» «Lavorava qui?» disse Milo. «Sì. Non te lo ha detto Janie?» «No. So solo che aveva preso dei libri, fatto qualche ricerca.» «Ha fatto ricerche per me, Milo. Per più di due mesi. Non è mai mancato un giorno. Era uno dei più seri. Molto zelante. Il fatto che non fosse più venuto mi aveva infastidito: non era da lui. Ho chiesto agli altri volontari se sapevano cosa gli fosse successo, ma non ne sapevano niente. Non aveva fatto amicizie qui, era un ragazzo riservato. Ho cercato di procurarmi il
suo numero, ma non era in elenco. Alla fine, dopo che non si era fatto vedere per due settimane, ho dato la colpa all'impulsività della gioventù. Ho pensato di aver sopravvalutato la sua maturità. Non avrei mai immaginato... Com'è successo, Milo?» Milo gli raccontò della sparatoria, disse che aveva avuto luogo in una zona di spaccio, ma tralasciò gli esiti dell'esame tossicologico. Si accigliò. «A me non sembrava sicuramente un drogato. Se c'era un ragazzo lucido e sano, quello era lui. In modo quasi eccessivo: troppo serio per la sua età. Aveva una mente... limpida. La gente che lo conosceva può confermarlo, vero?» «Quando ha iniziato a fare lavoro volontario?» «Fine aprile. È entrato qui e ha detto di voler dare una mano. Un ragazzo di bell'aspetto, col fuoco negli occhi: la passione. Mi ricordava gli studenti negli anni Sessanta. Non che l'abbia accolto a braccia aperte. Volevo accertarmi che fosse deciso nei propositi, che la sua decisione non fosse da ascrivere all'impulsività. E, francamente, ne sono stata sorpresa. Non c'è molto interesse per noi nei ragazzi non ebrei, e con le tensioni fra negri ed ebrei che si sono verificate negli ultimi tempi, l'ultima cosa che mi aspettavo era che un ragazzo negro volesse fare ricerche sull'olocausto. Ma lui era veramente sincero. Oltre a essere intelligente. Una ricerca molto rapida e accurata. È difficile di questi tempi trovare gente così. I più dotati pensano subito alla carriera. A divenire ricchi in fretta.» «C'è ancora la sua domanda di iscrizione?» chiese Milo. «No, mi dispiace. Buttiamo via tonnellate di documenti. Per evitare di essere sommersi dalla carta.» «Vorrei potermelo permettere», disse Milo, «in questo momento mi capita persino di sognare in triplice copia.» Lei sorrise. «Devi ringraziare di non avere a che fare con gli uffici federali. Dopo anni di patteggiamenti il dipartimento di giustizia ha iniziato a consegnare i nomi degli ex nazisti che vivono ancora qui. Hanno tutti mentito nelle richieste di visto e stiamo procedendo in tutta fretta: incontriamo i pubblici ministeri dei tribunali federali in varie città, compiliamo montagne di moduli e cerchiamo di persuaderli a fare più in fretta nel redigere i documenti per l'espulsione. Stavo facendo proprio questo a Chicago: cercavo di far vedere i sorci verdi a un mite vecchietto eccentrico che gestisce un panificio nel South Side, la migliore pasticceria della città, assaggi gratuiti a tutti i bambini del quartiere. L'unico problema è che, quarantacinque anni fa, quel vecchietto ha ucciso nelle camere a gas milleottocento bam-
bini.» Milo diventò scuro in viso. «Lo inchioderete?» «Cercheremo di farlo. Veramente questo caso sembra facile. Naturalmente ci sarà la solita protesta dei famigliari e degli amici: abbiamo preso la persona sbagliata; quest'uomo è un santo, non farebbe del male a una mosca; lo stiamo perseguitando solo a causa del suo nobile passato di anticomunista, c'è Mosca dietro tutto questo. Come se ai russi importasse molto di noi. Senza contare poi le lamentele di tutti quelli che vogliono vivere tranquilli, che pensano che la natura umana sia fondamentalmente pura e che bisogna mettere una pietra sopra il passato. E, naturalmente, le esplicite sciocchezze antisemite degli stupidi revisionisti: quelli che affermano che l'olocausto in primo luogo non c'è mai stato, ma se c'è stato se lo meritavano. I tipici neoleghisti.» «Neo che?» «Leghisti.» Sorrise. «Mi dispiace di essere astrusa, mi riferivo alla Lega tedesco-americana. È stato un importante movimento in questo paese prima della seconda guerra mondiale. Si spacciava per un'associazione per l'amicizia tra la Germania e gli Stati Uniti, ma era una copertura del nazismo americano. I leghisti hanno avuto molto peso nel movimento isolazionista, si battevano contro il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra, usavano la copertura dell'associazione America First per sollecitare la sterilizzazione di tutti i rifugiati; cose di questo genere. Ma non erano un gruppetto minoritario. Hanno tenuto manifestazioni di migliaia di persone al Madison Square Garden, con tanto di bandiere con la svastica, e marce di camicie brune, The Horst Wessel Song. Hanno organizzato campi di addestramento paramilitari: due dozzine, con baracche per le truppe scelte. Il loro scopo era fondare una colonia di lingua tedesca, una Sudetenland nello stato di New York. Il primo passo verso un'America ariana. I loro capi erano agenti pagati dal Terzo Reich. Pubblicavano giornali e avevano un'agenzia di stampa e una casa editrice chiamata Flanders Hall. Godevano dell'appoggio di Charles Lindbergh e di Henry Ford, il Führer della Lega, un certo Fritz Kuhn, era un chimico della Ford, e anche di molti uomini politici. Facevano riferimento a padre Coughlin, Gerald L.K. Smith e molti altri pazzi. Ma dopo Pearl Harbor i loro leader furono arrestati per spionaggio e sedizione e mandati in prigione. Questo fatto frenò il movimento, ma non lo distrusse. L'estremismo è così. Una piaga ricorrente: occorre stare sempre in guardia, reciderlo. Oggi sono gli Skinheads, i revisionisti... L'olocausto non c'è mai stato. Prosperano nei momenti di crisi economica:
hanno cercato di sfruttare i problemi degli agricoltori qualche anno fa. L'ultima novità è il culto di Odino. Una vecchia religione norvegese. Rifiutano il cristianesimo perché deriva dall'ebraismo. Poi ci sono quelli che sostengono di essere il vero popolo d'Israele. Noi ebrei siamo esseri subumani, la progenie di Eva e del Serpente. Farrakhan dice lo stesso tipo di cose; separatisti bianchi hanno partecipato a uno dei suoi meeting e hanno fatto donazioni in denaro.» «Pazzi», disse Milo. «Ma pericolosi. Siamo costretti a fare lavoro straordinario per tenerli d'occhio tutti.» «Novato era coinvolto in indagini su di loro?» «No. Teniamo i volontari lontano da faccende di questo tipo: è troppo pericoloso.» Guardò verso la scatola. «Ho dato un'occhiata. Sembra si tratti soprattutto di storia dell'olocausto. L'origine e la struttura del partito nazista e dei gruppi neonazisti. Questo per lo meno è quanto ha richiesto. Ed è la prima volta, se ricordo bene, che un ragazzo negro si concentra esclusivamente sull'olocausto. C'era qualcosa in lui, Milo. Un candore, un ottimismo sincero, che era veramente toccante. In un paio d'anni, lo sapete anche voi, si sarebbe disilluso e lo avrebbe perso in parte. O forse tutto. Ma intanto era bello da vedersi. Perché qualcuno poteva volere la sua morte?» Si fermò. «È stupida una simile domanda fatta da me.» «È sempre una buona domanda», disse Milo, «è la risposta che non convince. Ha mai parlato della sua famiglia o dei suoi amici?» «No. L'unica volta in cui abbiamo vagamente parlato di cose personali è stato verso la fine della sua... deve essere stato verso l'inizio di settembre. È venuto nel mio ufficio per consegnare alcuni libri; dopo averli messi giù, si è fermato per un po'. All'inizio non ci avevo nemmeno fatto caso: ero immersa in qualche lavoro. Finalmente mi sono accorta che era ancora lì e ho alzato lo sguardo. Sembrava nervoso. Come turbato da qualcosa. Gli ho chiesto a cosa stesse pensando. Ha cominciato a parlare di alcune fotografie che aveva visto mentre stava catalogando: bambini morti fuori dal forno crematorio, esperimenti di Mengele. Ne era stato molto colpito. Qualche volta succede, all'improvviso. Anche se hai visto migliaia di altre fotografie, ce n'è una che ti sconvolge. L'ho incoraggiato a parlare, a tirar fuori tutto. E lui ha chiesto perché, se Dio esisteva, permetteva che succedessero quelle cose. Perché accadevano cose terribili agli uomini buoni? Perché gli uomini non riuscivano a essere buoni? Perché si tradivano reciprocamente
in continuazione e usavano la violenza nei confronti dei propri simili? «Quando ha finito, gli ho detto che queste erano domande che l'umanità si è posta fin dall'inizio dei tempi. Che io non avevo risposte, ma il fatto che se le ponesse mostrava che lui si elevava dalla massa, che aveva idee profonde. La saggezza della domanda. Che dovevamo sempre chiederci qual era il modo per rendere questo mondo migliore, mai accettare la violenza. Poi ha detto una cosa strana. Che gli ebrei si pongono sempre delle domande. Che gli ebrei sono profondi. E nella sua voce c'era come un desiderio intenso, una reverenza. L'ho ringraziato per il complimento, ma gli ho detto che noi ebrei non abbiamo il monopolio né della sofferenza né della comprensione. Che abbiamo inghiottito più della nostra porzione di persecuzione e questo ci porta all'introspezione, ma che quando si va al sodo, gli ebrei sono come tutti gli altri: buoni e cattivi, alcuni profondi, altri superficiali. Ha ascoltato con uno strano sorriso sulle labbra, un po' triste, un po' sognante. Come se stesse pensando a qualcos'altro. Poi si è girato verso di me e mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto di più se fosse stato ebreo. «Mi ha veramente scioccata. Gli ho detto che mi piaceva così com'era. Ma lui ha continuato quel discorso, voleva sapere cosa avrei sentito nei suoi confronti se fosse stato ebreo. Gli ho detto che potevamo sempre aver bisogno di un nuovo membro nella tribù: stava pensando di convertirsi? Mi ha fatto un altro strano sorriso e mi ha detto che avrei dovuto essere flessibile nei miei criteri. Poi è uscito. E non ne abbiamo più parlato.» «Cosa intendeva per 'criteri'?» «La sola cosa che mi viene in mente è che stesse considerando una conversione ortodossa o riformata. Io sono ortodossa, lo sapeva, e gli ortodossi hanno criteri più rigidi, perciò forse stava cercando la mia approvazione, mi chiedeva di essere flessibile nei miei criteri per la conversione. È stata una strana conversazione, Milo. Mi sono riproposta di continuarla, di cercare di conoscerlo meglio. Ma con tutto il carico di lavoro che avevo, non ho trovato il tempo di farlo. E subito dopo ha smesso di venire. Per un po' mi sono chiesta se avevo detto qualcosa di sbagliato, se in qualche modo lo avevo respinto.» Si fermò, intrecciò le mani. Aprì un cassetto della scrivania, prese un pacchetto di sigarette, ne accese una e buttò fuori una boccata di fumo. «Basta così per questa settimana. È stata piena. Parlare di queste cose mi fa sempre sentire inquieta. Quando hq ricevuto il tuo messaggio, mi sono domandata se lui mi avesse chiesto qualcosa che io non ho saputo dargli.
In qualche modo avrei potuto...» «Andiamo, Judy», disse Milo, «sono pensieri che non portano a niente.» Tese la mano con cui teneva la sigaretta. «Sì, lo so.» Milo la prese e la spense in un posacenere. «Hai parlato con mio marito?» disse. «È il mio lavoro», rispose Milo, «proteggere e servire. Devo farti qualche altra domanda. Gruppi razzisti. Niente di nuovo a livello locale?» «Niente di particolare, le solite frange. Forse una lieve ripresa degli incidenti che sembra essere collegata alla situazione in Israele: molto del materiale stampato che abbiamo esaminato ultimamente mette l'accento sulla retorica antisionista.» «Chi potrebbe penetrare in una casa e scrivere sui muri slogan antisemiti?» «Sembra un'azione da adolescenti», rispose, «perché? Se ne sono verificati molti casi? Se è così dovremmo esserne informati.» «Solo uno. Nella casa in cui abitava Ike e nell'appartamento vicino. La sua padrona di casa era ebrea e il vicino un rabbino, per cui probabilmente non ha niente a che fare con Ike.» «Milo», disse, «pensi che possa essere stato ucciso perché lavorava qui?» «Non c'è niente che lo faccia supporre, Judy.» «Kennedy», dissi a bassa voce. Era la prima volta che parlavo da quando eravamo entrati in quella stanza. Tutti e due mi guardarono. «Sì», disse Milo, «c'è qualcos'altro. Oltre alle scritte antisemite, hanno scritto «Ricorda John Kennedy!». Ha qualche senso secondo te?» «Potrebbe», rispose, «di quale John Kennedy stai parlando?» «Cosa intendi dire?» «Se hanno scarabocchiato John F. Kennedy non avrebbe molto senso. Ma c'è stato un altro John Kennedy. Un veterano confederato. È vissuto a Pulaski, nel Tennessee, e ha fondato un'associazione per altri veterani confederati chiamata Ku Klux Klan.» «Teppisti che conoscono la storia?» Milo non disse niente. Ce ne andammo, portando via la scatola con i libri che Ike Novato aveva consultato. «Cosa ne pensi?» dissi.
Milo rispose: «E chi diavolo lo sa?» «Sembra che cominci a puzzare più di politica che di droga. Sia Novato che la Gruenberg si interessano molto ai nazisti. Tutti e due vengono uccisi. Qualcuno penetra in casa loro e scrive slogan razzisti.» Lo accompagnai a casa e, mentre si dirigeva verso la porta, disse: «Hai progetti per la serata?» «Nessuno.» Indicò la scatola di libri: «Hai il tempo di leggere qualcosa?» «Certo.» «C'è molto materiale qui. Potresti cercare prima le note a margine, le sottolineature. Quel tipo di cose. Forse può emergere un orientamento nella scelta dei libri fatta da Ike, un sottomodello, qualcosa di più specifico di un semplice interesse sul nazismo. Cercherò di passare da te questa sera per vedere se hai scoperto qualcosa.» «Mi darai un voto?» «No, promosso o bocciato. Come nella vita.» 26 Mahlon Burden aveva lasciato un messaggio alle quattro. «Mi ha detto di riferirle», disse l'operatrice, «che è pronto a riprendere dal punto in cui siete rimasti. In qualsiasi momento.» «Grazie.» «Sembrava abbastanza impaziente», aggiunse, «Burden. Come mai questo nome mi è familiare?» Le dissi di non averne idea, riattaccai e finii un rapporto che avevo a lungo rimandato, poi mi sedetti davanti alla scatola di libri. Erano le sette in punto. Il primo libro che presi era una traduzione in inglese di Mein Kampf. Lo sfogliai e non trovai né annotazioni a margine né sottolineature. Il secondo libro era intitolato Questo non deve più succedere: il libro nero degli orrori del fascismo di Klark Kinnaird. Caratteri grandi, poco nitidi, data di pubblicazione 1945. Sfogliandolo, trovai una annotazione a margine a pagina 23. Il testo aggiunto recitava: «Se non si tiene conto del fatto che i tedeschi hanno reso le loro efferatezze e la loro guerra redditizie, essi sono incomprensibili». Seguiva la descrizione dei vantaggi finanziari ottenuti dai nazisti grazie alle leggi razziali, che avevano permesso loro di confiscare le proprietà
degli ebrei. A fianco qualcuno aveva aggiunto in modo chiaro a matita: «La solita vecchia storia: potere e denaro, indipendentemente dal colore». Sfogliai altre pagine, ma non trovai annotazioni. Solo una cronologia della seconda guerra mondiale scritta in modo chiaro e molte fotografie, tipo quelle che avevo visto nella sala esposizioni. Mi feci coinvolgere dagli orrori e stavo ancora leggendo quando, alle nove e un quarto, tornò Milo. «Hai scoperto qualcosa?» domandò. «Non ancora.» «Hai fame?» «Veramente no.» E mostrai il libro. «Ehi», disse, «se dovessi mangiare solo quando la vita è bella, morirei di fame.» Mi diressi verso un sushi bar a Wilshire, vicino a Yale. Era da un po' che non ci andavo e il locale era stato rinnovato: bancone di pino, paraventi di carta e musica di samisen erano stati sostituiti con pareti di velluto nero e porpora, specchi fumé, ologrammi che raffiguravano poster rock, e un impianto di amplificazione di cui DeJon Jonson sarebbe stato orgoglioso. Stessi cuochi, ma nuove divise: pigiami neri e fasce per capelli. Brandivano i loro coltelli e urlavano saluti sopra il ritmo della musica disco. Milo li guardò e disse: «Mi ricordano quei fottuti Cong». «Vuoi provare in un altro locale?» Esaminò la distesa di pesci crudi sul banco e scrollò la testa. «I commestibili sembrano comunque buoni. Sono troppo stanco per provare altrove.» Cercammo un tavolo il più tranquillo possibile, ordinammo sakè caldo e acqua ghiacciata, e diversi piatti. Finì in fretta, chiamò ancora la cameriera e ordinò altri gamberetti e coda di rospo. Appena arrivarono, disse: «Oh, merda!» «Cosa c'è?» «Il cercapersone sta suonando.» Si pulì la bocca e si alzò. «Torno fra un secondo. Non toccare i miei gamberetti.» Stette via per molto più di un secondo, e quando tornò aveva uno sguardo truce. «Cosa c'è?» «Altri due cadaveri. Doppio omicidio.» Si ficcò un pezzetto di gamberetto in bocca, buttò i soldi sul tavolo, e si incamminò a lunghi passi. Lo raggiunsi. «Cos'è tutta questa fretta? Pensavo che non fossi in servi-
zio.» «Non per questo.» Arrivammo sul marciapiede. Allungò il passo. I passanti ci guardarono. «Cosa succede Milo?» «Uno dei due cadaveri è ciò che resta di Samuel Massengil.» L'indirizzo era a Sherbourne, appena a sud dell'Olympic, a un isolato da Beverly Hills. Una strada, fiancheggiata da aceri, di villette bifamiliari a due piani e appartamenti di costruzione più recente. Un quartiere tranquillo, molto borghese. Le luci intermittenti delle macchine della polizia erano visibili già dall'isolato prima: una volgare intrusione. La tessera di Milo ci permise di arrivare senza intralci. Un agente in uniforme ci indicò una delle villette sul lato ovest della strada: bianca, in stile spagnolo, cancellata in ferro battuto, giardino sistemato con gusto. Una Fiat Spider gialla era parcheggiata sul vialetto d'accesso sotto una porta ad arco. Una targa rifrangente, di quelle personalizzate, riportava la scritta CHERI T. Un nastro giallo era già stato fatto passare intorno all'ingresso ad arco che portava al pianterreno della villetta. Vicino all'arco c'era un grosso oleandro, in piena fioritura rosa. Un giovane poliziotto negro dalla faccia magra uscì dalla casa. Quando vide Milo, si toccò il cappello e disse: «Sono Burdette, signore. L'agente con cui ha parlato». «Cos'ha scoperto, Burdette?» Burdette guardò me. I suoi occhi esprimevano domande che comunque tenne per sé. «Due cadaveri nel cortile dietro la casa, entrambi maschi di razza bianca, probabili ferite d'arma da fuoco alla testa. Sono certamente morti ma abbiamo chiamato ugualmente l'autoambulanza, con discrezione, niente sirene, come ha chiesto lei. Uno è il deputato, l'altro non lo conosco: potrebbero avere in tasca documenti di identità, ma non li abbiamo ancora toccati.» «Probabili ferite d'arma da fuoco?» «Perlomeno sembra. Non c'è molta luce là dietro e non ci siamo voluti avvicinare per lasciare tutto com'era. C'è una grossa pozzanghera di sangue vicino a entrambe le teste e non ho visto ferite di arma da taglio o provocate da mazze. Anche la testimone... la persona che ha chiamato ha sentito degli spari.» «È sicuro che si tratti di lui?» «Sì, signore. Avevo visto la sua faccia da qualche parte e la testimone ce
lo ha confermato.» «Dov'è adesso?» «Dentro. A pianterreno.» «Come si chiama?» Burdette tirò fuori un taccuino e l'illuminò con una lampadina tascabile. «Il nome riportato sulla sua patente è Cheryl Jane Nuveen. Una donna negra, capelli neri e occhi marrone, alta un metro e sessantotto, nata l'8 aprile del 1953. L'indirizzo è questo. Non ci sono mandati o pendenze nei suoi confronti. Ma l'identità potrebbe essere in parte o del tutto falsa.» «Perché?» «È una prostituta.» «Una squillo?» Burdette fece cenno di sì. «Di classe, ma prostituta, si capisce immediatamente dal portamento. È scioccata, ma resta cinica. Dopo aver risposto alle prime domande e confermato l'identità di uno dei cadaveri, si è rifiutata di continuare a parlare se non in presenza del suo avvocato.» «L'ha già chiamato?» «Non ancora. Le ho detto di aspettare. Volevo che le cose procedessero senza complicazioni, come ha detto lei. Le ho ricordato i suoi diritti, ma non l'ho torchiata.» «Bene», disse Milo, «prima che si zittisse ti ha raccontato niente su come sono andate le cose?» «Ha chiamato il 911. Ha detto che le sembrava avessero sparato nel suo cortile interno e che ci fossero due uomini a terra. Chi ha raccolto la chiamata ha pensato che poteva trattarsi di un tentativo di furto, codice due. Ci aspettavamo fossero dei ladri, ma quando siamo arrivati qui...» «Noi chi?» «Io e Ziegler.» Burdette indicò dietro di lui col pollice un agente bianco, tarchiato, di guardia sul marciapiede. «Quando è arrivata la chiamata?» «Alle 10.04. Eravamo all'angolo fra Patricia e Pico fermi a uno stop, un possibile codice due. Abbiamo lasciato perdere, siamo subito partiti e siamo arrivati qui alle 10.12. Abbiamo ispezionato con cura e abbiamo visto chi era una delle due persone uccise e come erano vestiti entrambi: era chiaro che non si trattava di un tentativo di furto. Poi, quando siamo entrati in casa, abbiamo visto l'aspetto e il comportamento della donna: abbiamo tirato le logiche conclusioni. Anche il fatto che la macchina del deputato fosse parcheggiata là dietro e quella della Nuveen sul vialetto d'accesso fa-
ceva pensare che con tutta probabilità lui stesse facendole visita: immagino che volesse tenere la macchina lontano dalla strada per evitare che qualcuno la riconoscesse. Quando le ho fatto presente la cosa, lei ha ammesso che era stato lì. Era un suo cliente. A quel punto si è rifiutata di rispondere ad altre domande e ha chiesto di cambiarsi d'abito. Non glielo abbiamo permesso. Volevamo conservare tutto com'era.» «Perché voleva cambiarsi?» «Aveva addosso solo una veste da camera e sotto probabilmente... niente.» «Perché non si è cambiata prima del vostro arrivo?» «Buona domanda, signore. Forse era scioccata, veramente sembrava abbastanza scioccata.» «Nonostante mostrasse cinismo.» «Sì, signore.» «Nessun altro vive con lei?» «No, signore. È proprietaria dell'intera casa. Al primo piano vive un artista, ma lei dice che in questo momento è in Europa.» «Una prostituta proprietaria di case», disse Milo, «una di quelle che sì fanno pagare bene. Il sangue per lei non è cosa di tutti i giorni come per una ragazza da marciapiede. Bene, andiamo a vedere se è sconvolta. Qualcos'altro?» «L'abbiamo informata dei suoi diritti, come le ho detto, abbiamo chiamato lei, poi dei rinforzi per essere sicuri che non fosse toccato niente sulla scena del delitto, come lei ci ha chiesto. Abbiamo usato una banda riservata per non fare troppo clamore e non abbiamo detto niente sull'identità delle vittime. La pattuglia 8 L è arrivata a darci man forte: sono Martinez e Pelletier. La Pelletier è ora dentro con lei. Abbiamo pensato che una donna sarebbe riuscita meglio a calmarla, niente pretese molestie sessuali, e magari sarebbe riuscita a ottenere da lei qualche informazione. Ma ci siamo messi d'accordo che nessuno l'avrebbe torchiata prima che lei fosse arrivato. La pattuglia 8 0 23 è arrivata dopo qualche minuto: è quella che sta bloccando la strada.» «Nessun indizio che faccia pensare che lei sia più di una semplice testimone?» «No, signore, niente di evidente.» «Qualche intuizione?» «Intuizione?» disse Burdette pronunciando lentamente la parola. «Beh, signore, ci ha chiamati subito: i corpi erano ancora caldi quando siamo ar-
rivati. Se è lei l'assassino, non mi sembra molto furba. Non abbiamo visto armi in casa, ma non l'abbiamo perquisita. Penso che tutto sia possibile.» «Qual è stato il suo atteggiamento?» «Da persona sconvolta, come ho già detto. Piuttosto impaurita. Non mi sembrava avesse un modo di fare scaltro o... da colpevole, se è questo che vuol sapere.» «Ha fatto un buon lavoro», disse Milo, «la scientifica e il magistrato?» «Stanno arrivando.» «Bene, andiamo a dare un'occhiata là dietro.» Burdette mi lanciò un altro sguardo. Milo disse: «Questo è il dottor Delaware. È uno psicologo consulente del dipartimento, per l'attentato alla scuola. Eravamo in riunione quando è arrivata la sua chiamata e questa qui davanti è la sua macchina. La faccia spostare in un posto meno in vista, d'accordo?» E a me: «Gli dia le chiavi, dottore. Lei viene con me». Passai le chiavi a Burdette che disse: «Subito dopo la macchina in fondo al vialetto. Abbiamo delimitato il posto con un nastro». «Mi dia la sua torcia elettrica», fece Milo. Burdette gliela diede e si allontanò facendo oscillare il mio portachiavi. Attraversammo la porta ad arco e raggiungemmo il cortile posteriore, che era piccolo, squadrato, chiuso dietro da un doppio garage con il tetto piatto e con vecchie porte di legno, di quelle coi cardini. La maggior parte dello spazio era occupata da una spianata di cemento. Sul lato nord c'era una stretta striscia di prato destinata a un pesco e a un palo metallico a forma di T per reggere la corda del bucato. Non c'erano luci esterne, ma una finestra illuminata con la tendina alzata, sul retro della casa, e un riflettore sul tetto della villetta accanto contribuivano a diffondere una debole luce giallastra sul lato sud del cortile. Un po' di quella luce arrivava sopra una Chrysler New Yorker. Accanto alla macchina giacevano due corpi, proni, con gli arti allungati e le teste girate di lato. Un nastro era stato sistemato intorno a loro. Erano caduti sul cemento uno vicino all'altro: solo mezzo metro li separava e le loro gambe si sovrapponevano creando una V umana. Avevano la posa rilassata, ma contorta, tipica dei cadaveri prima della rigidità, simile a quella delle bambole di pezza. Tutti e due indossavano dei completi: uno grigio, e uno che, alla luce della notte, sembrava marrone chiaro. La gamba sinistra del vestito marrone era salita lungo la gamba scoprendo un pezzo di polpaccio bianco senza peli che brillava come avorio lucido. Chiazze scure,
simili a quelle del test di Rorschach, si allargavano dalle due teste. Mantenendosi a distanza, Milo percorse il cortile col fascio di luce della pila e lo fermò sui volti. «È lui. Gonfio per l'emorragia: la pallottola deve essere stata devastante. Sembra sia penetrata qui dietro, in cima al collo. Dritto nel midollo allungato. È stata probabilmente un'azione rapida. Stesso colpo sull'altro, un po' più in alto, anche quello molto preciso. Qualcuno è venuto di là, dietro la macchina di fianco al garage, li ha colti di sorpresa e bang bang. Probabilmente ha tirato da molto vicino. Ehi, Alex, guarda l'altro. È proprio la persona a cui sto pensando?» Il fascio di luce si era fermato sulla faccia del cadavere con il vestito marrone chiaro. Corpulento, con la barba bianca, grasse guance schiacciate contro il cemento. Babbo Natale con occhi vitrei e ciechi sotto palpebre gonfie. «Dobbs», dissi. «Beh», soggiunse, «pensavi che avessero una qualche relazione extraprofessionale. Adesso abbiamo un'idea di cosa fosse». Ritrasse la torcia e scrollò la testa. «Parlavano di visite nei bordelli.» Restando a distanza Milo tracciò diagrammi, prese appunti, misurò, cercò impronte e gli sembrò di vederne dall'altra parte della Chrysler, vicino all'angolo nord del garage. «Qui c'è erba umida», disse, «e fango. Un recinto basso divide questo cortile dall'altro. Facile via di fuga. Dovremmo essere in grado di ricostruire come è andato il fatto.» «È anche un buon nascondiglio.» Fece cenno di sì. «Come un paravento di tela. La luce dell'altra porta non arriva fin lì. Se ne sono andati tranquilli e beati alla loro macchina. Una bazzecola.» Continuò a scrutare il cortile. Il magistrato, l'ambulanza e la scientifica arrivarono uno dopo l'altro e la zona fu invasa da una frenetica attività. Ritornai al portone d'ingresso e aspettai mentre Milo dava ordini, poneva domande, faceva cenni qua e là e prendeva appunti. Quando alla fine si allontanò dalla mischia, gli andai incontro. Mi guardò come se si fosse dimenticato della mia presenza. «Agenti in borghese stanno andando nei loro uffici, per accertarsi che non si tratti di un nuovo Watergate. Devo parlare con la signorina Nuveen. Perché non torni a casa? Mi farò dare un passaggio fino a casa tua.»
«Sta per arrivare la stampa. Non pensi che dia meno nell'occhio se sto con te?» dissi. «Se parti subito non ti noterà proprio nessuno.» «Prometto che mi comporterò bene, signor poliziotto.» Esitò. «D'accordo. Vieni con me. E mentre siamo lì tieni gli occhi aperti e renditi utile.» Il soggiorno aveva pareti laccate di colore marrone e modanature marmorizzate color crema, un soffitto a volta con travi scure, e un termostato regolato sui 27°. Lo stile dell'arredamento era safari africano innestato in quella che era un'idea personale di salotto parigino: pelli di zebra e di tigre stese su un parquet a spina di pesce molto lucido; una zampa di elefante che fungeva all'occasione da tavolo; una quantità di oggetti di vetro, di porcellane e di oggetti intarsiati; poltrone ben imbottite ricoperte di cinz con motivo floreale nero e marrone; un paio di zanne d'avorio incise dividevano il piano di un tavolino finto Luigi XIV con una pila di libri d'arte; lampade stile Liberty con paralumi imperlati; pesanti tende di broccato con orli dorati fissate a imposte di legno nere; un caminetto di marmo verde con sopra una collezione di millefiori e fermacarte a piega e ovunque odore di muschio. Era seduta in una delle poltrone e sembrava più giovane di quanto indicato nella patente: avrei detto meno di trent'anni. La pelle aveva il colore del gelato al caffè e l'ombretto, sopra occhi grandi e vivaci, era blu pavone iridescente. Aveva gambe scure, lunghe e magre, piedi stretti che terminavano con unghie rosa perla, grosse labbra coperte di un rossetto rosa delicato, mascella stretta e capelli stirati color rosso argilla che le arrivavano alle scapole. Il suo kimono era di seta tailandese blu savoia con motivi di draghi verde giada, senza bottoni e molto corto. Nonostante stringesse la fascia verde che la chiudeva, la veste si apriva scoprendo un prosperoso seno color caffè. Incrociò e disincrociò più volte le gambe, fumò una Sherman ultra king-size dello stesso colore della vestaglia e dovette fare uno sforzo per non cominciare a tremare. «Okay, Cheri», disse Milo porgendole un telefono in finta malachite; «avanti, chiama il tuo avvocato. Dagli appuntamento in centro, al Central Booking.» Si morse il labbro, diede una tirata alla sigaretta e fissò il pavimento. «In centro.» La sua voce era dolce, leggermente nasale. «È da un po' che non ci vado.»
«Lo credo bene, Cheri. È abbastanza lontano dall'Imperial Highway. O era a Sunset e Western?» Non rispose. «Devo riconoscerlo», disse, «questo è un bel posticino. Ne hai fatta di strada!» Mise giù il telefono e prese una figurina di Lladro. Una signora vittoriana con parasole. Fece roteare il parasole e chiese: «Spagna, vero?» Per la prima volta lo guardò. Impaurita. Chiedendosi per quanto tempo un oggetto così delicato sarebbe sopravvissuto tra quelle dita così grosse. Milo appoggiò la figurina. «Chi è il tuo arredatore?» «Io. L'ho fatto da sola.» La sfida e l'orgoglio la fecero sedere più diritta. «Creativa, Cheri.» Indicò i libri d'arte. «Leggo molto. Riviste di architettura.» Milo sollevò ancora la cornetta e gliela porse. Lei non fece alcuno sforzo per prenderla. «Chiamalo, Cheri. Poi ti portiamo via. Ehi, le tue mani stanno tremando, piccola. Sai cosa ti dico, dimmi il numero e lo farò io per te. Servizio personale, no?» Aspirò profondamente la sigaretta color porpora. «Perché?» «Perché cosa?» «Perché stai facendo pressioni su di me, parli di portarmi in centro?» «Non sono solo chiacchiere, Cheri. È la realtà.» «La realtà.» Diede un'altra tirata alla sigaretta color porpora, si toccò il seno, e strinse la cinta. «La realtà. Questo è quanto ho ottenuto facendo il mio dovere di cittadina. Nello stesso istante in cui ho visto, ho chiamato.» «Apprezzo tutto questo, solo che ora invece di agire da brava cittadina hai chiuso la bocca e chiedi del tuo avvocato. Mi sembra più un comportamento da criminale. Così adesso mi chiedo cos'hai da nascondere e devo portarti in centro per coprirmi il didietro.» Si abbracciò, dondolò, fumò e incrociò le gambe. «Mi hanno subito trattato come una criminale, mi hanno letto i miei diritti.» «È nel tuo interesse, Cheri.» «Sì, sono tutti qui per aiutarmi.» Agitò la sigaretta, creando sinuose strisce di fumo. Milo tagliò il fumo con un dito. «Sherman. Di solito le vediamo tra i reperti dell'accusa. Corrette con polvere.» «Non ho quel vizio», disse, «non uso droga.»
«Naturalmente», fece lui, «ma voglio chiederti una cosa. Quando perquisiremo la casa, e lo faremo, sei sicura che non troveremo niente? Una sigaretta di marijuana sotto il letto, un pezzetto d'hashish, forse qualche pillola per riscaldare un po' una festicciola. Qualcosa che è caduto accidentalmente a un ospite e che la donna delle pulizie non ha raccolto, hai una donna delle pulizie, vero?» «Viene due volte alla settimana», rispose lei. «Due volte alla settimana, eh? Le cose hanno il tempo di accumularsi.» Restò in silenzio. «In ogni caso», disse Milo, «la droga che troveremo ti farà restare dentro per un po', ma questo non è niente in confronto agli altri problemi che avrai. Non dimenticare quei due signori là fuori.» Scrollò la testa. «Noo. Non so niente di loro: di cosa è successo.» «Li conoscevi.» «Professionalmente, tutto qui.» «Professionalmente», disse Milo. Sollevò un biglietto da visita patinato color porpora da un contenitore intarsiato. «Cheryl Jane Nuveen. Consulente ricreativa. Ricreazione, eh? Suona come lo Shuffle-board giocato sul ponte della nave.» La sigaretta penzolava dalle dita, facendo cadere la cenere sulla pelle di zebra. Milo disse: «Basta con le chiacchiere. Qual è il numero del tuo avvocato? Deve iniziare con 55, giusto? Beverly Hills. O Century City. Duecento, duecentocinquanta l'ora. Penso che il conto iniziale ti costerà tre, forse quattromila dollari, minimo. E questo solo per riempire le carte. Quando poi ti incrimineremo il tassametro comincerà a correre veramente...» «Incriminarmi per che cosa? Per aver chiamato il 911?» «...e a quei tipi piace l'onorario versato in anticipo, non è vero? Hanno le rate della loro Mercedes, hanno un conto aperto al Morton. Nel frattempo, tu non hai nessuna ricreazione da consigliare e le tue rate di pagamento continuano ad arrivare. Quant'è il prestito ipotecario su questa casa, duemila dollari al mese? Nel frattempo tu sei al fresco insieme alle tue vecchie amiche; saranno molto contente di vedere che una di loro ha fatto fortuna: possiede un'intera casa. Ti saranno molto amiche per questo.» Alzò la voce. «Incriminarmi di cosa?» «Tocca a me far domande. E tu devi star zitta o rispondere.» Infilzò la sigaretta in un posacenere di cristallo. E continuò a schiacciarla finché non si spense. «Non ho niente da rispondere.»
«Due cadaveri nel cortile di casa tua e non hai niente da rispondere.» Sbarrò gli occhi. «Ti ho già detto che non ne so niente.» «Li conoscevi.» «Professionalmente.» «Chi altro sapeva oltre a te che sarebbero venuti qui questa sera per stare con te?» «Nessuno.» «Nessuno?» «È così. Sono discreta: il mio lavoro si basa su questo.» «Nessuno», disse Milo, «tranne la persona che hai chiamato per tendergli un agguato.» Spalancò la bocca. «Oh no! oh no! Non puoi...» «Un piano ingegnoso, Cheri. Gli lasci il tempo di scappare, poi chiami il 911 e fai la parte della cittadina onesta. Pensi che ci sia stata una sparatoria, ladri, e che forse ci sono due morti nel cortile dietro casa.» «È la verità. Non sapevo veramente se erano morti o no. Come facevo a saperlo? Non sono mica uscita a sentirgli il polso!» «Facendo capire che non li conoscevi.» «Cosa cambia? Ho chiamato, no?» «Chi altri sapeva che erano qui, Cheri?» «Nessuno. Te l'ho già detto...» Milo disse: «Okay, ti portiamo via. Fai la chiamata da qui. Preparati a una rimpatriata, Cheri. A respirare aliti infetti di AIDS in celle piene di puttane da cinque dollari». «D'accordo», cedette lei, «nessun fottuto avvocato. Non ho fatto niente di male, non è il caso di pagargli un'altra Mercedes. Dammi uno di quei poligrafi. Fallo funzionare: non ho niente da nascondere.» Milo disse: «I poligrafi non servono a niente con i criminali incalliti. Chiunque abituato a mentire può superare la prova». Il viso le si chiazzò di rosso per la rabbia. «Allora che diavolo vuoi?» «Solo risposte sincere. Come hai conosciuto Massengil e Dobbs in primo luogo. Da quanto tempo andava avanti la storia e cosa facevi con loro. E tutto quanto è collegato a ciò che è successo questa sera.» Rise di rabbia. «Tutto, eh? Sicuro che il tuo piccolo cuore di poliziotto possa reggerlo?» Milo mi indicò. «Se non ce la faccio, lui sa praticare la rianimazione cardiorespiratoria.» «Bene», disse incrociando ancora le gambe, «tu fai il servizio e io ri-
spondo.» Milo disse: «Voglio essere certo di aver capito bene. Stai dicendo che sei disposta a parlare dei fatti accaduti questa sera, 6 dicembre 1988? Di fare una deposizione di tua spontanea volontà in assenza del tuo avvocato?» «Sì.» Fece un ampio sorriso mostrando una fila di grossi denti, perfetti, bianchi come il latte. Vi passò la lingua in mezzo, si sedette diritta, e si toccò il petto. «Sì. Certo. Parlerò. A te. Perché tu sei uno che conta. Sei quello che ci vuole, capo. Non mi sbaglio. E Cheryl non è fatta per i gregari.» 27 «Sacramento», disse, «tutto è cominciato lì.» Mise un'altra sigaretta in bocca. Milo gliel'accese. Fumò per un po'. Milo ripeté: «Sacramento». «Sì. È lì che l'ho incontrato. Avevo una casa laggiù. Più piccola e meno lussuosa di questa, ma mia anche quella.» Milo disse: «Sei sempre stata indipendente, vero, Cheri?» Strinse le labbra. «Non sempre. Ma ho imparato. Me ne faccio vanto: imparare dagli errori.» «Quanto tempo fa?» «Tre anni.» «Dove?» «O Street, proprio vicino al Capitol.» «Dove sei nata?» «Qui. A Inglewood.» «Come mai sei finita a Sacramento?» «Prima sono stata a San Francisco, tre anni. Mi sono trasferita perché volevo una vita più tranquilla. E fare qualcosa da sola. Qualcuno mi ha detto che i politici sono sempre in cerca di persone come me: un mercato favorevole alle vendite.» «Ricreazione.» Sorrise. «Sì. Essere vicina al luogo dove svolgevano le loro attività significava che potevano fare i loro discorsi il mattino, passare per un party all'ora di pranzo, e tornare ai loro discorsi col viso raggiante.» «Loro», disse Milo, «quanti altri oltre Massengil?»
«Molti, capo. È una città piena di uomini politici. Non che io trattassi solo con intrepidi leader. C'erano banchieri, dottori, come in qualsiasi altro posto. Ma in un posto come questo vedevo molta gente che viveva intorno alla politica: assistenti, faccendieri, collaboratori e tutta quella feccia. Dopo un po' impari a parlare come loro.» «Gente divertente?» Fece una smorfia. «Per niente. Voglio dire, potevano spendere tranquillamente, grazie ai rimborsi spese. Ma come gruppo... avevano delle propensioni. Non so se capisce cosa intendo dire.» «No.» «Pervertiti», chiarì, come stesse parlando a un idiota; «volevano essere incatenati. Schiavi. Quasi tutti volevano sempre o essere legati o legare me. Alla fine, quando iniziavo con qualcuno che sapevo che era un politico, preparavo prima i cappi e le corde. Poi accendevo la TV e vedevo quelle facce che avevo visto contratte, o coperte da una maschera di cuoio, piangere e implorare di non essere sculacciati, anche se era quello che veramente volevano. Li vedevo tenere i loro discorsi in TV, parlare di ordine e di legge, del modo di vivere americano, e tutte quelle stronzate. E sapevo che la loro idea di legge e ordine era essere legati come maiali.» «Massengil era uno che legava o si faceva legare?» «Voleva che gli legassi le braccia e le gambe così strette che non gli scorreva più il sangue. Poi si stendeva e mi faceva fare tutto il lavoro. Subito dopo, ed era una cosa rapida: con la maggior parte di loro è una cosa rapida.» Schioccò le dita. «Dovevo rannicchiarmi vicino a lui come se fossi la sua mamma e lui si aggrappava alle mie tette e faceva discorsi da bambino. Ninna nanna per Mr legge e ordine.» Rise ancora, ma sembrò a disagio. «Si è mai mostrato razzista?» «Cosa intendi dire?» «Fatto commenti razzisti? Inscenato qualche fantasia razzista?» «No», rispose, «solo le corde e i discorsi infantili.» «Come l'hai incontrato?» «Tramite l'altro.» «Dobbs?» «Sì. È un dottore: uno psichiatra. Pretendeva che tutto questo fosse terapeutico. Terapia sessuale. Dovevo considerarmi un'assistente.» «Quando hai conosciuto Dobbs?» «Il mio ultimo anno a Frisco.»
«Come?» «Avevo un'amica che già faceva 'terapia': aveva seguito un corso o qualcosa del genere e preso un pezzo di carta che le permetteva di svolgere 'legalmente' l'attività. Un falso. Dobbs teneva questo corso e le aveva offerto un lavoro. Le mandava persone, pazienti, e lei doveva passargli parte del denaro. Lei ha fatto un po' di soldi, ma lui ne ha fatti di più. Poi quando si è trasferita in un'altra città perché il suo ex la minacciava, gli ha fatto il mio nome. Mi sono trasferita a Sacramento e lui ha cominciato a mandarmi gente.» «Anche se eri senza diploma?» Sorrise. «Ma io sono brava, capo. Posso essere molto paziente, molto terapeutica quando devo esserlo.» «Non lo metto in dubbio, Cheri. Quali altri uomini politici ti ha mandato Dobbs oltre al deputato Massengil?» «Solo lui», rispose, «era come se fossero legati da un'amicizia speciale.» «Cosa intendi dire con amicizia speciale?» «Non finocchi o cose del genere. A volte coppie di omosessuali non ufficiali mi usano per arrivare ai loro scopi: si fa l'amore a tre poi accidentalmente l'affare di uno di loro sfiora quello dell'altro e si crea un quadro completamente diverso. Ma quei due no. Venivano a trovarmi insieme, tutto qui. Sam aveva bisogno di Fatso per prendere l'iniziativa e Fatso si eccitava nell'organizzare le cose.» «Ti ha mai mandato nessun altro?» «Non qui.» «E a Sacramento?» «Sì, un paio. Ma dopo aver lavorato un po' con lui non ho voluto più continuare.» «Perché?» «Perché era avido.» «E lui come ha reagito?» «Ha storto la bocca, ma non ha fatto storie. E ha continuato a vedermi. Con Sam. Sam aveva un debole per me.» «È stato mai lui stesso un cliente?» «Di tanto in tanto.» «Legava o si faceva legare?» Scrollò la testa. «Voleva solo venire in fretta. Oh Gesù, oh Gesù! Poi rotolava sul suo grasso culo e si addormentava. Era soprattutto un guardone: un paio di volte l'ho scoperto a sbirciare da dietro la porta mentre ero con
Sam. Mi ha fatto venire la pelle d'oca, ma non ho detto una parola. Non mi costava niente.» «Dov'è la lista dei clienti?» «Non ce l'ho.» Si diede un colpetto in testa. «È tutto qui dentro.» «E la tua agenda?» «Non ho neanche quella. Tutte le sere faccio a pezzetti il foglio con gli impegni della giornata, lo butto nel cesso e tiro l'acqua.» «Ti smonteremo la casa pezzo per pezzo, Cheri.» «Smonta tutto quello che vuoi. Non c'è nessuna lista. E non chiedermi di dirti i nomi, o andrò dove volevi mandarmi: a respirare aliti infetti di AIDS.» «Chi sapeva che Massengil sarebbe venuto qui?» «Non lo sapeva nessuno. Nessuno sapeva niente degli altri. È la mia specialità, la discrezione. E con lui lo ero in modo particolare, perché aveva sempre paura di essere colto sul fatto: non lasciava nemmeno l'auto in strada. Quando avevo un appuntamento con lui, liberavo la mia agenda per tutto il giorno, per non farlo imbattere in nessuno.» «Cauto.» «Estremamente cauto», disse, «gli facevo pagare il tempo che perdevo.» «A proposito, di che tariffa stiamo parlando?» «Quattrocento l'ora.» Sorriso smagliante. «Più di quanto guadagni qualsiasi avvocato e non ho dovuto superare nessun esame di abilitazione.» «In contanti?» «Solo contanti.» «Ogni quanto tempo Massengil voleva incontrarti?» «Tre o quattro volte al mese.» «In che giorni della settimana venivano? Qual era la loro routine?» «Non c'era nessuna routine. Ricevevo una chiamata da Sam, o da Fatso, un giorno o due prima. Liberavo la mia agenda, loro venivano e facevamo il nostro party.» «Allora come hanno fatto a sapere che erano qui?» «Non riesco a capirlo. Forse qualcuno li ha seguiti.» «Li ha seguiti e li ha aspettati, eh?» Alzò le spalle. Milo disse: «La persona che ha sparato come faceva a sapere che sarebbero usciti e non avrebbero invece passato la notte da te?» «Non lo faccio mai», rispose, «non passo mai la notte con qualcuno.» «Chi lo sa oltre a te e ai tuoi clienti?»
Restò in silenzio. «Devi darci quella lista, Cheri», disse Milo. «Quante volte devo ripetere che non esiste!» Milo si sedette all'indietro e incrociò le gambe. Lei fumò, si toccò i capelli, dondolò il piede. Alla fine disse: «Se te la do, sono finita». «Andiamo, Cheri. Due morti nel cortile dietro casa, uno dei quali un personaggio pubblico? Sei finita in ogni caso.» Fumò ancora per un po' in silenzio. Si tolse qualcosa dalle ciglia. «Quella lista è in banca. In una cassetta di sicurezza.» «In quale banca?» «Se te la do, mi aiuterai a trasferirmi da qui? Ad andarmene di qui sana e salva, a vendere la mia casa al suo valore reale e a garantire la sicurezza di mio figlio?» «Dov'è tuo figlio?» «A Inglewood, con mia madre.» «Quanti anni ha?» «Nove. È molto sveglio, ha una voce meravigliosa, canta in chiesa.» «Come si chiama?» «André.» «André. Farò il possibile per te e André.» «Il possibile, eh? È un discorso da politici, capo: solo un altro modo per dire fottiti.» «Hai un posto dove andare?» «Un luogo conformista. Formale. La gente tradizionalista è più lasciva: ha bisogno di sfogarsi.» «Come quella di Sacramento?» «Proprio così.» «Perché ti sei trasferita da lì a Los Angeles?» «Si torna alle domande?» «Esattamente. Perché ti sei trasferita, Cheri?» «È stata una sua idea.» «Di Dobbs o di Massengil?» «Di Sam. Il deputato. Aveva proprio un debole per me: ci aveva preso gusto, nel vedermi.» «E perché ha voluto che ti trasferissi qui?» «Diceva che non gli piaceva che fossi così vicina al luogo in cui lavorava: Sacramento è una piccola città, ama i pettegolezzi. Qualcuno avrebbe potuto scoprirlo. Allora mi ha trovato questa casa.»
«Parlami di questa sera. Tutto quanto è successo nei minimi particolari.» Accese un'altra sigaretta col mozzicone di quella precedente. «Sono arrivati qui alle nove e mezzo, hanno fatto le loro cose...» «Entrambi?» «Questa volta sì. Quel maiale di Dobbs ha avuto il secondo turno con me ancora sporca: gli piaceva così, non voleva che mi lavassi. E poi gli ho dato qualcosa da mangiare. Cosce e petti di pollo, cavoli in insalata e panini. Avanzi della sera prima, ma hanno mangiato come fosse raffinata cucina francese. In piedi in cucina. Hanno bevuto due lattine di Diet Pepsi ciascuno. Poi hanno pagato e sono andati via. I soldi sono nel cassetto della biancheria, controlla pure, milleduecento: dodici biglietti da cento. Banconote nuove. Appena sono partiti, ho riposto i soldi. Sono andata in bagno e ho aperto la doccia. Per pulirmi, per togliermi di dosso il loro odore. Mentre l'acqua stava scorrendo, ho sentito gli spari: li ho sentiti a malapena a causa dell'acqua, ma li ho sentiti. Bang, bang. Conosco quel rumore. Ho guardato fuori dalla finestra come una stupida e ho visto loro a terra e lui che scappava. Come una stupida ho chiamato la polizia. Ho fatto il mio dovere e ora sono seduta qui a parlare con te, capo.» «Chi è lui?» disse Milo. «Quello che ha sparato.» «Un uomo?» «Ne ho visto solo uno.» «Che aspetto aveva?» «L'ho visto di schiena, mentre correva dietro il garage. Dovrebbero esserci le impronte perché quel punto è bagnato, c'è un tubo che perde e l'acqua ristagna. Deve aver lasciato le impronte. Va' a controllare se dico la verità.» «Dimmi qualcos'altro sullo sparatore.» «Non c'è nient'altro da dire. Abiti scuri, credo. Era buio. Non si vedeva bene.» «Età?» «Non lo so, probabilmente giovane. Si muoveva come un giovane. Non come un vecchio rimbambito. Ho visto molti vecchi rimbambiti muoversi, credimi.» «Altezza?» «Non l'ho notato, per cui doveva avere un'altezza media. Voglio dire che niente mi ha colpito riguardo all'altezza e poi era buio.» «Peso?»
«Stessa storia. Non aveva niente di speciale. Un uomo come tanti: l'ho visto di schiena. Era troppo lontano per distinguere bene i dettagli. Guarda tu stesso dalla finestra. Ed era buio. Lo lascio così perché la gente possa parcheggiare e uscire dalla macchina senza essere vista.» «Peso e altezza medi», disse Milo, leggendo i suoi appunti; «probabilmente giovane.» Poi aggiunse: «Come faccio a essere certo che tu non hai segnalato la loro presenza a quel tipo, Cheri?» Spalancò gli occhi: «Perché non l'ho fatto. Perché avrei dovuto farlo e restarci immischiata, farlo nel cortile di casa mia?» «Per soldi.» «Ho abbastanza soldi.» «Non quanti avresti potuto guadagnarne in questa storia.» Rise. «È vero. Ma non l'ho fatto. Sottoponetemi al poligrafo. Non sono così incallita.» Lasciò che la veste si aprisse di più. Milo allungò la mano per chiudergliela, appoggiò la mano sul lembo esterno e disse: «C'è nient'altro che vuoi dirmi, Cheri?» «Fammi andar via di qui. Via da Los Angeles. Con André.» «Controllerò tutto quanto mi hai detto e, se sei stata onesta, io lo sarò con te. Nel frattempo telefona al tuo avvocato e digli di venire alla divisione di West Los Angeles. Ti porteranno lì e mi aspetterai. Devo sbrigare alcune cose e poi verrò anch'io. Quando arriverò mi ripeterai la dichiarazione che hai appena fatto davanti a una telecamera.» «TV?» Fece cenno di sì. «Questa sera sarai una star.» Lei disse: «Ti dirò i nomi, quelli della lista. Ma non voglio essere ripresa». «Mi sembra ragionevole, faremo così se continuerai a dire tutto.» «Puoi scommetterci, lo farò.» «Ormai non scommetto più su niente, Cheri.» «Questa volta puoi farlo, te lo giuro.» Si mise la mano sul cuore. «Come si chiama il tuo avvocato?» «Gittelman. Harvey M. Gittelman.» «Anche se hai rilasciato una dichiarazione di tua spontanea volontà davanti a un testimone, voglio che il tuo avvocato sia presente quando la registriamo. Può parlare a vanvera quanto gli pare e sollevare tutte le obiezioni da duecentocinquanta dollari l'ora che vuole. Mi pagano lo straordi-
nario e non ho niente da fare a casa. Quando avrai finito, sarai rilasciata sotto la sua tutela e ti sarà chiesto di restare in città per tutto il tempo in cui avremo bisogno di te. Se provi soltanto a lasciare la città, ti sbatto in mezzo a quelle vecchiacce fetide in qualità di testimone indispensabile e André sentirà la mancanza della sua mamma. Non vorrai certamente restare in questa casa visto lo stato in cui sarà dopo che la scientifica te l'avrà smontata e per come ti tratteranno i vicini quando questa storia di merda sarà resa pubblica, e lo sarà presto. Perciò puoi trasferirti altrove, purché noi sappiamo dove ti trovi e purché si trovi all'interno della contea. Se vuoi continuare a lavorare nella nuova casa, continuare a pagare il prestito ipotecario, anche per questo non ho obiezioni. Hai capito?» «Capito. Farò come dici. Ma niente lavoro. Il lavoro significa gente e la gente altri problemi. Ho bisogno di una vacanza.» Fece per alzarsi. Milo disse: «Stai seduta. Non ti muovere. Faccio tornare l'agente Pelletier che ti controllerà mentre ti vesti. Vogliamo quel chimono per analizzarlo. Ti metterà anche dei sacchetti alle mani finché non arrivano gli uomini della scientifica per sottoporti al guanto di paraffina. Così sapremo se ultimamente hai sparato o hai usato fertilizzanti molto concentrati». «Ho lavorato con molta merda», disse, «ma non di quel genere. E niente armi da fuoco. Puoi stare tranquillo.» «Ti prenderanno anche le impronte digitali, così potremo confrontarle con quelle dei nostri archivi. Se hai condanne o mandati pendenti, è meglio che me lo dici subito.» «Niente. Sta' tranquillo anche su questo.» «Qual è il nome riportato sul certificato di nascita?» «Jackson. Sheryl Jane Jackson. Nata l'8 aprile del 1953, come è indicato sulla patente. Sembro più giovane, non credi?» «Sei magnifica», fece lui. Sorriso raggiante. «Vita sana.» «Cosa significa il nome sulla targa? Sulla Fiat: Cheri T.» Sorrise ancora. Batté le ciglia facendo scendere ancora un po' di mascara. Atteggiandosi a vamp per mantenere compostezza. «T come torta», rispose, «torta di ciliegie. Perché io sono così. Dolce, succosa e nutriente.» Appena fuori dalla porta d'ingresso chiesi: «Pensi che sia innocente?» «Innocente?» sorrise. «Dovresti vedere com'è arredata la camera degli
ospiti. Sembra un museo di strumenti di tortura: il marchese de Sade ci si troverebbe a proprio agio. Ma dell'omicidio probabilmente sì. Ha ragione: avrebbe teso una trappola proprio in casa sua e poi telefonato alla polizia? Questo per quanto riguarda la trappola. Quanto al fatto poi che sia lei stessa ad aver sparato, quale può essere il movente? A volte con una puttana le passioni sfuggono di mano e qualcuno può farsi male. Ma di solito la vittima è la puttana e l'azione più confusa. Questa era precisa. Pianificata. Molto fredda. Ho mandato gli agenti della scientifica vicino al garage e mi hanno detto che ci sono impronte fresche. La loro ipotesi è che si trattasse di un uomo con scarpe da ginnastica, di taglia media. Il che non significa niente se la prova della paraffina risulta positiva e se troviamo l'arma in un cassetto per la biancheria. La interrogherò per tutta la notte e parte della mattinata, per vedere se riesco a cavarle fuori qualcos'altro.» «Abiti scuri», dissi, «anche Holly era vestita così quando si è accampata nella baracca.» «Cosa vuoi dire? Siamo di nuovo al complotto? Bande di adolescenti assassini che vanno in giro vestiti da samurai?» «Tutto è possibile», aggiunsi io. Non rispose. Si fece restituire le mie chiavi da Burdette e si fece spiegare dove aveva parcheggiato la Seville. Poi disse alla Pelletier, una bionda con un mento da folletto alta un metro e mezzo, di mettere i sacchetti alle mani di Sheryl Jackson e di portarla alla stazione di polizia. Mentre lasciavamo la villetta, arrivò un altro paio di detective della West Los Angeles. Milo mi chiese di aspettare, andò loro incontro e li mise al corrente della situazione, dando istruzioni sulla perquisizione dell'appartamento della Jackson e ordinando di non parlare con la stampa finché non avesse finito di interrogarla. Alcuni spettatori erano usciti sul marciapiede; agenti in uniforme li tenevano a distanza. Molti furgoni con insegne di varie stazioni televisive erano fermi al posto di blocco. Giornalisti e squadre di operatori si muovevano tutt'intorno installando delle luci. Milo disse: «Dopo di me, il diluvio». Ci incamminammo verso la Seville. Il rombo di una macchina sportiva risuonò all'inizio dell'isolato e una Pontiac Fiero blu pavone con tre antenne che spuntavano dal tetto sfrecciò verso il posto di blocco. Poi fece rumorosamente marcia indietro a cinquanta all'ora e parcheggiò sul bordo della strada.
Ne uscì il tenente Frisk, che guardò la scena, ci notò e ci venne incontro con passo lungo e sciolto. Indossava uno smoking dal collo sciallato, uno sparato pieghettato, colletto di camicia duro a punte rivoltate, cravatta scarlatta e fazzoletto dello stesso colore. Mentre si avvicinava, vidi una donna uscire dalla Fiero: giovane, alta, linea da indossatrice, viso da cover girl, capelli scuri lunghi e ricci. Il suo abito da cocktail in taffetà nero lasciava scoperte le spalle luminose. Si guardò intorno, poi si guardò nello specchietto laterale della macchina blu e si mise il rossetto sulle labbra. Uno degli agenti la salutò con la mano. Lei non lo vide e lo ignorò, si agghindò ancora per un po' e rientrò nella macchina. «Sergente», fece Frisk. «Serata in città, Ken?» disse Milo. Frisk si accigliò. «È stata controllata l'identità della vittima, ispettore?» «Sì, è lui. L'altro è Dobbs, lo psicologo che assomiglia a Babbo Natale.» Frisk rivolse la sua attenzione verso di me. «Cosa sta facendo qui, ispettore?» «Era con me quando ho ricevuto la chiamata. Non ho avuto il tempo di scaricarlo.» Sembrava facesse uno sforzo per trattenersi dall'esplodere. «Venga con me, sergente.» I due si allontanarono di qualche metro. Il fascio di luce di un lampione mi consentiva di vederli chiaramente. Frisk puntò il dito contro Milo e disse qualcosa. Milo rispose qualcos'altro. Frisk tirò fuori un blocchetto e una penna e cominciò a scrivere. Milo si passò la mano sulla faccia e parlò di nuovo. Frisk sembrava irritato, ma continuò a scrivere. Milo parlò, si strofinò la faccia, si alzò sulle punte dei piedi. Frisk mise via il blocchetto e disse qualcosa che fece scurire Milo in volto. Continuò a parlare agitando un dito. Milo fece altrettanto. Il linguaggio dei loro corpi diventò sempre più aggressivo: le mani si strinsero a pugno, le facce si spinsero in avanti, i menti si allungarono come baionette. Mi ricordavano un incontro di boxe rappresentato in una stampa. Milo usava la sua mole per avere il sopravvento. Frisk si difendeva sollevandosi sulle punte dei piedi, agitando le braccia come se stesse colpendo con diretti corti. Cominciarono a parlare contemporaneamente cercando di superarsi con la voce. Richiamarono l'attenzione anche di altri poliziotti, che spostarono la loro attenzione dalla scena del delitto a quanto stava succedendo sotto il lampione. Potevo vedere i muscoli del collo di Frisk irrigidirsi. Le braccia di Milo erano ora abbassate, rigide sui lati e le
mani erano ancora strette a pugno. Frisk si sforzò deliberatamente di rilassarsi, sorrise e fece un cenno di congedo. Milo urlò qualcosa. Doveva aver spruzzato Frisk con la saliva, perché il giovane indietreggiò di qualche passo, strappò il suo fazzoletto dal taschino e si asciugò la faccia. Milo indietreggiò come se fosse stato schiaffeggiato. Le sue dita si allargarono, si piegarono e si strinsero. Toccava ora a Frisk dondolarsi sulle punte dei piedi. Con destrezza, ma impazientemente, come un peso welter pronto a lanciarsi nel combattimento. Per un istante fui sicuro che sarebbero venuti alle mani, poi Frisk girò i tacchi e si allontanò a passi pesanti. Milo lo guardò andar via, con le nocche appoggiate sul mento. Frisk chiamò un agente, gli parlò in fretta e indicò la villetta. Il poliziotto fece cenno di sì e attraversò la strada dirigendosi verso la casa. La giovane donna dai capelli scuri uscì di nuovo dalla macchina. Frisk si girò di scatto verso di lei e la fulminò con lo sguardo. Tornò in macchina. Volsi gli occhi verso Milo. Stava fissando la baraonda crescente intorno al blocco stradale. Uno sguardo tremendo. Restai fermo mentre i poliziotti mi osservavano incuriositi. Alla fine Milo mi vide e mi fece cenno di avvicinarmi. «Portami via da questo maledetto posto, Alex.» La Seville era parcheggiata rivolta verso sud. Mi allontanai dal luogo del delitto, presi l'Olympic, in direzione ovest. Non scambiammo una parola per tutto il percorso fino al Beverly Glen. Quando lasciai il Boulevard disse: «Quello stronzo viscido». «Cosa ha fatto? Ha deciso di seguire lui il caso?» «Oh, sì.» «E può farlo in quel modo?» «Proprio così.» «Allora significa che sospetta sia un affare politico?» «Non sospetta un bel niente. Nessuno ne sa niente: è troppo presto per sapere qualcosa, maledizione. Ma lui pensa sia un bocconcino succulento. Altre interviste in TV, la possibilità di indossare qualche altro bel vestito di lusso. Kenny ama molto le conferenze stampa.» «Kenny», dissi, «serata a cena fuori con Barbie: una coppia Kenny e Barbie in carne e ossa.» «Quella è la sua signora. L'adorabile, coccolatissima Kathy. La figlia prediletta del vicecapo della polizia di Los Angeles.» «Ah!»
«Proprio così.» Risalii velocemente il Glen, raggiunsi la stradina che portava alla casa e girai. Milo continuò a strofinarsi la faccia e guardare fuori dal finestrino, sebbene fosse buio pesto. «Ha fatto nient'altro per liberarsi di te?» «Per liberarsi di me? No. Ha solo insinuato che avevamo una storia romantica in corso: ha fatto un sorrisetto malizioso e mi ha detto che avrei dovuto pensarci due volte prima di portare i miei «amici» in luoghi in cui è stato commesso un delitto. Quando gli ho chiesto di spiegarsi meglio, ha detto che sapevo benissimo di cosa stava parlando. Ho continuato a punzecchiarlo con altre domande. Alla fine se lo è lasciato sfuggire: gente della mia specie non è adatta per affrontare casi che concernono la sicurezza dello stato. Inadatta per salvaguardare la sicurezza della collettività.» Sbuffai. «Bene. Le solite idee grette. Non è la prima volta né sarà l'ultima.» Ma non riuscivo a fare a meno di pensare che era la stessa cosa che avevamo entrambi sospettato a proposito di Dinwiddie e Ike. Grugnì. «È prudente chiederti cosa ne pensi?» «A proposito di che?» «Massengil. Chi è stato? Pensi ci sia qualche relazione con Holly? O Novato e la Gruenberg?» «Chi diavolo lo sa, Alex? Cosa stai cercando di fare? Vuoi farmi sentire del tutto impotente?» Non dissi niente e mi fermai di fronte alla casa. «E tu cosa ne pensi?» disse. «Forse qualcuno l'ha vendicata?» «Chi? Il papà?» «Non stavo pensando a lui. Perché? Hai dei sospetti su di lui?» «Io non sospetto niente, Alex. Non ho il tempo di sospettare. Non è più neanche un mio caso, perché dovrei prendermi la briga di sospettare? Ma se parli di vendetta, la vendetta è di solito una cosa interna alla famiglia. E tu mi hai detto che Burden è un pazzo.» «Non pazzo: narcisista.» «La vendetta è narcisistica, no? Giocare a essere Dio, il potere di vita e di morte. Tu stesso mi hai detto che è uno che ama dominare tutte le situazioni. Che si vanta di essere un buon tiratore.» «Quando ho parlato di vendetta, pensavo a qualcos'altro. Il gruppo sovversivo. Altri membri. Che si sono proposti di vendicarla. Di portare a
termine il compito che lei non era riuscita a realizzare.» «Compito? Alex, se tu volessi seriamente far assassinare un uomo politico, affideresti l'incarico a una come lei?» «Riconosco che stiamo parlando di dilettanti», dissi. «Ma la competenza non è sempre la regola pratica per questo tipo di gruppi, non è vero? Pensa all'esercito di liberazione simbionese.» «Erano dei drogati», disse, «sì, quelli non erano molto svegli.» «Ma sono diventati famosi, no? Ciò che vogliono i dilettanti. Una bella biografia su qualche giornale e una morte romantica.» «Se la morte è romantica, io sono un poeta.» «Holly conduceva una vita tetra, Milo. Senza presente, senza futuro. Appartenere a un gruppo estremista avrebbe potuto fornirle uno scopo. Morire circonfusa di gloria non le sarebbe affatto sembrato brutto.» «Stai dicendo che stava compiendo una missione suicida?» «No. Ma poteva non preoccuparsi dei rischi che correva.» «Un gruppo, eh?» disse, «sei ancora ai samurai assassini. E allora chi ha ucciso Novato e fatto sparire la Gruenberg?» «Forse quella era una storia di droga. O forse sono stati gli avversari politici. Gli estremisti di destra.» «Due gruppi di coglioni?» «Perché no? Adesso che lo dici mi viene in mente qualcosa che ho letto scarabocchiato in uno dei libri di Novato: 'La solita vecchia storia: potere e denaro, indipendentemente dal colore'. Forse si riferiva all'estremismo politico, e cominciava a disilludersi.» Milo disse: «Balordi del Ku Klux Klan contro delinquenti comunisti? Molto pittoresco. Ma prima di farti travolgere da queste idee, non dimenticare che quanto è successo stasera potrebbe non aver niente a che fare con la politica: solo qualche cliente geloso. Potrebbe essere solo collegato a Cheri. Gli uomini si attaccano a persone di quel genere: succede più spesso di quanto tu possa pensare». E un momento dopo: «Non lo so, Alex. Quello che è successo è così strano che non tento più nemmeno di usare la logica, perché, quando lo faccio, comincio a dubitare del suo stesso valore. Una cosa può consolarti: il tuo sospetto sul fatto che ci fosse qualcosa di strano nel rapporto tra Massengil e Dobbs si è rivelato fondato». «Il secondo turno. Consulenze di gestione. Un modo eccellente per farsi rimborsare il compenso per Cheri.» «Merda!» esclamò, «si possono imboccare molte strade. Ecco perché volevo andare in centrale e spremerla ancora un po'. Ho cercato di dirlo a
Frisk. Di dirgli cosa doveva essere fatto per condurre un'indagine accurata. Ma lui mi ha tagliato fuori. 'Grazie, ispettore, è tutto sotto controllo.' Come a dire: va' a farti fottere. Non ho bisogno delle tue idee di finocchio.» Milo scrollò la testa. «Me ne frego, non mi riguarda più. Me ne lavo le mani. In ogni caso odio le conferenze stampa.» Lo disse troppo forte e troppo in fretta. Non ero sicuro di crederci. Né che ci credesse lui stesso. Ma non era il momento di discutere. 28 Linda aveva telefonato e lasciato un messaggio alle dieci: «Ho chiamato solo per un saluto. Starò alzata fino alle undici e mezzo». Era quasi l'una e, sebbene avessi voglia di parlarle, decisi che lo avrei fatto il mattino seguente. Ero molto teso. Sovreccitato. Non mi sentivo pronto ad affrontare i libri di Ike. Feci mezz'ora di macchina da sci di fondo, una doccia, mi trascinai a letto e caddi addormentato. Mi svegliai pensando ai bambini della Hale e chiamai Linda alle sette e mezzo. Aveva già saputo dell'omicidio di Massengil dal telegiornale del mattino. Il commentatore del notiziario non aveva parlato del coinvolgimento di una donna. Le raccontai di Sheryl Jackson. «Dio mio, cosa sta succedendo, Alex?» «Vorrei proprio saperlo.» «Potrebbe esserci qualche collegamento con l'attentato?» «Per come stanno andando le cose, potremmo non scoprirlo mai.» Le raccontai come Frisk aveva tagliato fuori Milo dal caso. «Un altro politico», dissi, «questo deve essere il loro anno.» «L'anno del topo», soggiunse lei, «come devo comportarmi con i bambini, Alex? Riguardo a Massengil?» «Dobbiamo soprattutto fare attenzione a che non attribuiscano la morte di Massengil a qualcosa che hanno fatto, o pensato, loro. I bambini, e più piccoli sono e più è vero, a volte equiparano il pensiero all'azione. Dovevano essere consapevoli dell'atteggiamento di Massengil nei loro confronti: possono averlo visto in TV o sentito i genitori che ne parlavano male. Se desideravano il suo male o persino la sua morte, potrebbero mettersi in testa che sono stati quei desideri a ucciderlo.» «Come quando fanno gesti 'rituali' per uccidere la mamma?»
«Esattamente. Inoltre, nei prossimi giorni i media possono trasformare Massengil in una specie di eroe. Non sembrerà più una persona cattiva. E questo potrebbe confonderli maggiormente.» «Un eroe?» chiese, «anche con la storia della prostituta?» «Il fatto che non abbiano reso pubblico quest'aspetto della storia può significare che vogliono tenerlo nascosto. Frisk usa i segreti come merce di scambio. Se lo ha permesso, significa che questo è nel suo interesse.» Restò un attimo in silenzio, poi disse: «Perciò dovrei separare i loro pensieri su Massengil da quanto gli è successo». «E dall'attentato.» «Devo farlo in un'assemblea o devono occuparsene gli insegnanti classe per classe?» «Classe per classe per adattarlo ai diversi livelli di sviluppo. Posso venire anche adesso se vuoi.» «No», disse, «ti ringrazio. Ma vorrei provare a farlo da sola: sono io la persona che deve occuparsene per il futuro.» «Mi sembra giusto», risposi. «Ma non mi dispiacerebbe vederti dopo la scuola.» «Va bene alle sette a casa tua?» «Va bene.» Mi preparai un caffè forte e una spremuta di pompelmo; senza dubbio Mahlon Burden aveva qualche congegno che lo faceva meglio e più in fretta; poi rinvigorito, accesi la TV per il notiziario delle otto. Mi sintonizzai nel bel mezzo di una retrospettiva sulla carriera di Massengil. Predominavano termini quali «energico combattente di molte campagne politiche» e «membro da lunga data dell'assemblea legislativa». Nessun accenno a Sheryl Jackson. Il dottor Lance Dobbs veniva descritto come un «eminente psicologo, consulente di gestione e consigliere del deputato». Il cadavere meno eccellente. Lui e Massengil avevano giocato a poker, a sentire le informazioni dei media. La polizia non formulava ipotesi né sui moventi né sull'identità degli assassini, ma stava seguendo «diverse piste». Questo nelle parole dello stesso capo della polizia. A una domanda di un giornalista sull'attentato alla Hale seguì un frettoloso: «In questo momento non vediamo collegamenti, ma, come ho detto, stiamo esaminando tutti gli aspetti di questa tragedia». Frisk era in piedi dietro il capo, dando di sé l'immagine severa del fedele servitore candidato alla vicepresidenza.
Stacco sulla vedova di Massengil in lacrime, una donna grassa, con un aspetto da nonna, con occhi addolorati sotto una chioma leggera e vaporosa di capelli bianchi, seduta su un divano di velluto e confortata da due dei quattro figli del deputato. Gli altri due erano in volo dal Colorado e dalla Florida. Sulla parete dietro il divano pendevano fotografie incorniciate. La telecamera fece un primo piano: Massengil che lanciava in aria un nipotino. Il bambino sembrava terrificato e felice allo stesso tempo. Il sorriso del nonno era feroce. Spensi la TV. Posticipando la mia successiva lezione di storia, feci lavoretti domestici, sbrigai pratiche per un paio d'ore, tolsi le foglie dal laghetto davanti a casa e mi feci una doccia. Verso le undici ero seduto al tavolo della sala da pranzo alle prese coi libri di Ike. Sfogliavo pagine, cercavo altre annotazioni a margine; a che scopo? «Perlomeno accrescerai la tua presa di coscienza, amico.» Una settimana prima avrei preteso di avere una coscienza pura, che non aveva affatto bisogno di essere accresciuta. La sofferenza non mi era estranea: avevo passato metà della mia vita facendo da ricettacolo alle miserie degli altri. Ma l'orrore di quei libri era diverso, la crudeltà era così... calcolata. Istituzionalizzata ed efficiente. Assassinio al servizio dello stato. Psicopatia elevata a dovere patriottico. Bambini spinti a forza in carri merci sotto gli occhi consenzienti di soldati non molto più grandi di loro. Tatuaggi a catena. Il trattamento di esseri umani come fossero minerali. Avevo intenzione di sfogliare il libro, ma mi ritrovai a leggerlo attentamente. Il tempo volò. Arrivò mezzogiorno. Passò. Alle due e mezzo cominciai un libro sul processo a Eichmann. Uno degli ultimi capitoli presentava documenti del processo che dimostravano l'esistenza di un piano deliberato per sterminare gli ebrei. Verbali stesi da nazisti relativi alla conferenza tenuta nel quartier generale dell'Interpol tedesca, a Berlino, convocata da un certo Reinhard Heydrich, il 20 gennaio 1942, a seguito di una lettera in cui Hermann Goering incaricava lo stesso Heydrich di organizzare la «soluzione finale». Una conferenza segreta a cui avevano partecipato eruditi quali il dottor Meyer, il dottor Leibrandt, il dottor Neumann, il dottor Freisler... Il piano era stato ben congegnato, valendosi di dati già raccolti per le
precedenti operazioni di sterminio effettuate dalle squadre d'azione: dettagliate statistiche anagrafiche di undici milioni di ebrei. Il primo stadio sarebbe stata una deportazione di massa sotto forma di Arbeitseinsatz: lavori forzati. I deportati che non fossero morti di «cause naturali» sarebbero stati trattati «in modo adeguato». L'intera faccenda aveva l'arrogante distacco di una conferenza accademica, i partecipanti parlavano da eruditi, nobili discussioni sulle tecniche ottimali per uccidere... Una conferenza segreta rivelata alla posterità solo grazie a Herr Eichmann che, costretto a fare lo scrivano, aveva preso copiosi appunti. Una conferenza tenuta nel distretto di Berlino chiamato Wannsee. Wannsee. Wannsee due? Il mio respiro si fece affannoso e un dolore alla mascella mi fece render conto che stavo stringendo i denti. Guardai di nuovo il libro. Le pagine precedenti erano state sfogliate parecchie volte ed erano scolorite agli angoli. Sul margine destro c'erano delle parole scritte a matita con i caratteri a stampatello precisi e regolari che avevo imparato a riconoscere come quelli di Ike Novato: «Wannsee II? Possibile?» Qualche centimetro più in basso: «Ancora Crevolin? Forse». Poi un numero di telefono che iniziava con 931. Il distretto Fairfax. Wannsee II. Crevolin. Sembrava il nome di una lozione per la ricrescita dei capelli. O qualche prodotto petrolchimico. Una parola in codice? O forse un nome? Composi il numero di Fairfax. Una centralinista rispose con il nome di una rete televisiva. La sorpresa mi impedì di rispondere subito e prima che riuscissi a parlare la donna ripete le tre consonanti e disse: «Cosa posso fare per lei?» «Vorrei parlare con il signor Crevolin.» Il cinquanta per cento di probabilità di averci preso. «Un istante», disse. Clic. «È l'ufficio di Terry Crevolin.» «Il signor Crevolin, per favore.» «Non è in ufficio.»
«Quando pensa che ritornerà?» «Chi parla, prego?» Non sapendo cosa rispondere, dissi: «Un amico. Richiamo più tardi» e riattaccai. Chiamai l'Holocaust Center e chiesi di Judy Baumgartner. Sembrava allegra quando venne al telefono. «Sì, Alex. Cosa posso fare per lei?» «Milo mi ha chiesto di esaminare i libri di Ike. Mi sono imbattuto per caso in una nota che Ike ha scritto a margine e ho pensato che lei sarebbe stata in grado di fornirmi spiegazioni.» «Di cosa si tratta?» «Wannsee due. Lo ha scritto a margine di un capitolo sulla conferenza originale di Wannsee.» «Wannsee due», ripeté con pronuncia tedesca. «Non me ne ha mai parlato. È strano anche che ne fosse a conoscenza.» «Perché?» «Wannsee due è una cosa da iniziati. Solo una voce, in verità, che circolava qualche anno fa, negli anni Settanta. Si pensava ci fosse stato un incontro segreto tra elementi dell'estremismo di destra e di sinistra: estremisti di sinistra bianchi che avevano rotto con i militanti negri ed erano diventati fortemente razzisti. Lo scopo dichiarato era fondare una confederazione nazionalsocialista, piantare le radici di un partito neonazista in questo paese.» «Fa pensare a una rinascita della Lega.» «Direi piuttosto al patto Hitler-Stalin», disse, «gli estremi che schiacciano il centro. Abbiamo controllato e non abbiamo trovato nessun elemento che confermasse l'ipotesi. L'idea prevalente ora come ora è che fosse un falso, uno di quei miti urbani, come gli alligatori nel sistema fognario. Ma è possibile che la diffusione di questo mito sia stata un po' facilitata da qualcuno. Le voci cominciarono a circolare proprio ai tempi del Cointelpro, il programma di controspionaggio studiato dall'amministrazione Nixon per sabotare i movimenti estremisti della nuova sinistra.» «Dove si pensa che questa conferenza abbia avuto luogo?» «Ci sono versioni diverse, che vanno dalla Germania a qui, negli Stati Uniti. Ho sentito gente che affermava che si era tenuta in una base militare: si pensava che la confederazione avesse molti adepti nelle forze armate e in varie forze di polizia in tutto il paese. Qualcosa per alimentare la paranoia tra la gente, no?» Pausa. «Wannsee due. Era da tanto tempo che non
ne sentivo parlare. Mi chiedo come potesse saperlo Ike.» «La sua padrona di casa era una vecchia estremista interessata all'olocausto», risposi, «parlavano spesso di politica. Lei può avergli raccontato di Wannsee due e lui ha deciso di fare delle ricerche.» «Beh, se le cose stanno così, capisco perché ha approfondito l'argomento. I negri erano il primo obiettivo di Wannsee due. Sempre secondo quelle voci, una delle intenzioni della confederazione era fomentare l'odio tra le minoranze. Mettere i negri contro gli ebrei: far sì che i negri uccidessero gli ebrei, cosa estremamente facile visto che gli ebrei sono rammolliti passivi, pronti a marciare ancora verso i forni. Una volta che i negri avessero fatto quello che dovevano, sarebbero stati annientati. Un'altra bazzecola, perché sono così ingenui e stupidi. E naturalmente, quando gli ispanici e gli asiatici, che sono codardi, si fossero resi conto di cosa stava succedendo, avrebbero lasciato il paese di loro spontanea volontà, sarebbero ritornati da dove venivano, e i confini dell'America bianca sarebbero stati sigillati ermeticamente.» «Mi sembrano idee folli.» «Anche quelle di Hitler, all'inizio. È per questo che abbiamo indagato a fondo su Wannsee due come facciamo per qualsiasi altra cosa. Ma non abbiamo scoperto niente che ne confermasse l'esistenza.» «C'era qualcos'altro annotato a margine. Crevolin. E un numero di telefono. Ho chiamato e mi hanno passato l'ufficio di un certo Terry Crevolin, in una rete televisiva.» «Conosco Terry!» disse. «Lavora alle nuove produzioni: seleziona le sceneggiature. Ha lavorato con noi lo scorso anno su uno special sui criminali di guerra, I nascosti. Abbiamo vinto un Emmy.» «Me lo ricordo. Ike lo conosceva?» «No, che io sappia, ma comincio a vedere che ci sono molte cose che non so su Ike.» «Possono essersi incontrati al centro?» «No. Terry è stato qui solo un paio di volte. Per riunioni. Ed è accaduto lo scorso anno, alcuni mesi prima che Ike arrivasse. Anche se è possibile che si siano incontrati casualmente, se Terry è venuto qui a mia insaputa. Cos'ha scritto esattamente Ike su quel libro?» «'Wannsee due', il due in numeri romani, seguito dalla parola 'Possibile?' poi 'Ancora Crevolin? Forse.' E il numero di Crevolin. Può significare che aveva già tentato di parlare con Crevolin, riguardo a Wannsee due, senza riuscirci e stava pensando di provarci ancora. Ha idea del perché?»
«La sola cosa che mi viene in mente è che Crevolin era legato alla nuova sinistra: ha scritto persino un libro sull'argomento. Ricordo che me ne ha parlato. Sembrava imbarazzato e orgoglioso allo stesso tempo. Forse Ike lo ha visto come una fonte di informazioni, anche se non riesco a capire come abbia fatto a saperlo.» «Una fonte sulla nuova sinistra?» «Forse. Sull'olocausto certamente no. Crevolin non ne era molto informato prima che lo istruissimo noi. Lei ha veramente stuzzicato la mia curiosità. Se scopre qualcosa di utile la prego di farmelo sapere.» Chiamai ancora la rete televisiva e mi misero in comunicazione con l'ufficio di Crevolin. Era ancora fuori. Questa volta lasciai il mio nome e dissi che si trattava di Ike Novato. Poi telefonai a Milo alla stazione di polizia di West Los Angeles, per raccontargli gli ultimi sviluppi. Non c'era neanche lui. Chiamai a casa sua, sentii la voce di Rick registrata sulla segreteria telefonica e raccontai cosa avevo scoperto su Wannsee due. Dicendolo ad alta voce mi resi conto che non era poi molto: un ragazzo morto che faceva ricerche su un mito urbano. Esaminai tutti gli altri libri di Ike; non trovai altre annotazioni o riferimenti a Wannsee e li rimpacchettai. Erano quasi le sei quando chiamai per la terza volta la rete televisiva. Questa volta non rispose nessuno. «Ancora Crevolin?» Invece di significare che non era riuscito a parlare con l'uomo della rete televisiva, poteva voler dire che si erano incontrati e che Crevolin gli aveva detto ciò che voleva sapere. Ma perché Ike aveva pensato che Crevolin avrebbe potuto essergli di aiuto? Un ex militante della nuova sinistra. E uno scrittore. Forse Ike era venuto in possesso del suo libro e aveva scoperto qualcosa di interessante. Controllai l'ora. Mancava un'ora all'appuntamento con Linda. Chiamai una libreria a Westwood Village. L'impiegato controllò il catalogo generale delle pubblicazioni, mi disse che non c'era nessun libro di un autore chiamato Crevolin e che in archivio non risultava mai esserci stato. «Ha idea di dove posso trovarlo?» «Di cosa tratta?» «La nuova sinistra, gli anni Sessanta.» «La Vagabond Books ha una grossa sezione anni Sessanta.»
Conoscevo la Vagabond, Westwood Boulevard, proprio sopra l'Olympic. Sulla strada per andare da Linda. Un posto accogliente, sempre polveroso e in disordine, in cui si potevano sfogliare i libri tranquillamente, un po' tipo la libreria di un campus. Quel tipo di libreria che le università di Los Angeles raramente hanno. Avevo comprato qualche prima edizione di Chandler, MacDonald e Leonard e qualche libro d'arte, di psicologia e di poesia. Cercai il numero, chiamai, aspettai dieci squilli e stavo per riattaccare quando rispose un uomo. «Vagabond.» Gli dissi cosa stavo cercando. «Sì, lo abbiamo.» «Bene. Vengo subito a prenderlo.» «Mi dispiace, ma siamo chiusi.» «A che ora aprite domani?» «Alle undici.» «D'accordo. Ci vediamo alle undici.» «È importante per lei averlo ora?» «Sì, è importante.» «Lei è uno scrittore?» «Un ricercatore.» «Sa cosa le dico: venga sul retro della libreria, glielo darò per dieci dollari.» Lo ringraziai, mi cambiai in fretta e partii, prendendo il Westwood Boulevard in direzione sud. Raggiunsi l'entrata posteriore della libreria alle 6.25. La porta era sprangata. Dopo aver bussato un paio di volte, sentii la stanga che scorreva. Un uomo alto e magro, sui trent'anni, con un bel viso da ragazzo incorniciato da lunghi capelli ondulati pettinati con la scriminatura in mezzo, apparve con in mano un libro in brossura un po' sporco. La copertina del libro era grigia e senza scritte. L'uomo indossava scarpe da tennis, pantaloni di velluto a coste e una maglietta con la scritta Harvard. Aveva un sax tenore appeso con una stringa al collo. Mi sorrise amichevolmente e disse: «Ne ho cercato uno più pulito, ma è l'unica copia che abbiamo». «Nessun problema. La ringrazio molto.» Mi porse il libro. «Buona ricerca.» Gli porsi i dieci dollari. «Facciamo cinque», disse, cercando nelle tasche il resto. «La riconosco, adesso. Lei è un buon cliente e questa è una copia scadente. Poi non è pro-
prio uno dei nostri libri più avvincenti.» «È scritto male?» Rise e schiacciò qualche tasto sul sax. «Tanto per cominciare. È una porcheria pubblicata a spese dell'autore. Dire che è enfatico da cima a fondo è una lusinga. Inoltre l'autore non incassa più i diritti.» Aprii il libro. Il titolo era Menzogne, di T. Crevolin. Girai una pagina, guardai il nome dell'editore: Rev Press. «Come in 'revolution'. Abbastanza ingegnoso, eh?» Si portò il sax alle labbra ed emise qualche nota blues, subito smorzata. Lo ringraziai ancora. Continuò a suonare, soffiando più forte, inarcò le sopracciglia e chiuse la porta. Buttai il libro nel bagagliaio della Seville e mi diressi verso casa di Linda. Andammo in un posto nel distretto di Los Feliz che avevo scoperto nel periodo in cui lavoravo alla Western Pediatric. Un ristorantino italiano, con un bancone dei piatti da asportare davanti e i tavolini dietro. Odorava di pecorino romano e di salsa all'aglio, di pane alle olive e prosciutto, e sopra agli altri un eccellente odore di salamoia che si spandeva da vaschette di olive scoperchiate. Ordinai una bottiglia di Chianti classico che costava più dei nostri due pasti messi insieme. Ne bevemmo entrambi un bicchiere prima che servissero i piatti. Chiesi come avevano reagito i bambini alla morte di Massengil. «Abbastanza bene, veramente», rispose, «la maggior parte di loro non sembrava avere un'idea precisa su chi fosse. Sembrava un'esperienza abbastanza remota per loro. Mi sono occupata poi della questione causa ed effetto. Ti ringrazio per avermi messo sulla strada giusta.» Riempì il mio bicchiere e poi il suo. «Hai seguito il notiziario delle sei?» «No.» «Avevi ragione su Massengil: lo stanno trasformando in un santo. E Latch è diventato il suo migliore amico.» «Latch?» «Oh sì, in prima fila. Ha pronunciato un elogio funebre nella camera consiliare. Ha ripetuto più volte quanto lui e Sam fossero molto diversi, ma nonostante questo, ha detto, tra loro c'era un rispetto reciproco, riconoscevano entrambi il valore delle mutue concessioni e così via. Poi le condoglianze alla vedova, una proposta formale di fare di quel giorno una gior-
nata di lutto per la morte dell'amato leader. Sembrava un discorso da campagna elettorale.» «C'è stato nessun riferimento a Dobbs nel servizio?» «Uno psicologo stimato, consulente eccetera eccetera.» «E al suo lavoro nella scuola?» Fece cenno di sì. «Era la parte dello stimato psicologo. Sembrava che non avesse fatto altro che seguire i bambini; poi parlano di stampa informata. Hanno anche fatto alcune domande a Frisk su un possibile collegamento con l'attentato, ma lui le ha aggirate con frasi ambigue: investighiamo in tutte le direzioni, top secret eccetera eccetera. Ma nessun poliziotto è venuto a parlare con noi.» Si leccò le labbra. «Poi si vede Latch che esce davanti al Municipio, si arrotola le maniche e abbassa lui stesso la bandiera a mezz'asta con grande solennità. Vent'anni fa probabilmente le bruciava, le bandiere.» «La gente ha la memoria corta», dissi, «lo ha dimostrato facendosi eleggere. Prima ha messo un piede dentro e adesso mira alla rispettabilità. Il grande conciliatore. Aggiungi questo al concerto di Dejon e al fatto che è stato un suo uomo a salvare la situazione a scuola e probabilmente ne uscirà come un eroe.» Indipendentemente dal colore... «Cosa c'è, Alex?» «Perché?» «All'improvviso hai fatto una faccia... Come se il vino fosse cattivo.» «No, sto bene», dissi. «Non mi sembrava stessi bene.» La sua voce era dolce, ma insistente. Sentii una pressione sulle dita. Aveva afferrato la mia mano e la stava stringendo. «D'accordo. Sei pronta ad ascoltare altre stranezze?» Le parlai delle ricerche di Novato. Wannsee due. La nuova lega. «Pezzi dei due estremi che si uniscono. Che pensiero carino.» «L'esperta dell'Holocaust Center dubita che ci sia veramente stata. E lei è una che dovrebbe saperlo.» Bevemmo ancora un po' di vino. «Come sta lavorando Matt lo sfasciacarrozze?» «Finora non ha fatto storie. Gli ho fatto fare lavori da fattorino. Volevo fargli vedere chi comandava fin dall'inizio. È veramente un bambinetto mite in un corpo cresciuto troppo. Piuttosto docile, senza abilità sociali. Un vero gregario.»
«Sembra assomigliare a Holly.» «Proprio così», disse, «mi chiedo quanti ce ne sono in giro.» Lasciò la mia mano. Toccò il suo bicchiere, ma non lo portò alle labbra. Il silenzio ci avvolse. Sentii altre coppie che parlavano. Ridevano. «Sposta la sedia», disse, «siediti accanto a me. Voglio sentirti vicino.» Lo feci. Il tavolo era stretto e le nostre spalle si toccavano. Appoggiò le dita sul mio ginocchio. La presi sottobraccio e la tirai più vicino. Il suo corpo era rigido, opponeva resistenza. Sembrava attraversato da un forte tremore. «Usciamo di qui. Restiamo soli.» Buttai i soldi sul tavolo e fui in piedi in un attimo. Nessuno ci seguì fino a casa. O forse non me ne accorsi. 29 Ci addormentammo abbracciati; alle sei e mezzo del mattino seguente ci ritrovammo sui lati opposti del letto. Aprì un occhio e rotolò accanto a me, accavallò una gamba sul mio fianco, mi tirò a lei, impaziente di fare all'amore. Ma quando tutto fu finito, si alzò in fretta dal letto. «Tutto bene?» le chiesi. «Stupendo.» Si chinò, mi baciò sulle labbra, poi si alzò e andò a fare una doccia. Quando mi alzai aveva già finito e si stava asciugando. Mi allungai per abbracciarla. Me lo permise, ma solo per un attimo; poi salterellò via dicendo: «Giornata piena oggi». Partì senza far colazione. Avvertii una riserva, come una traccia della sensazione di gelo, quasi che il fatto di non pensare alle brutture del mondo ci avesse riparati per qualche ora, a spese però dell'intimità. Feci la doccia da solo, preparai un caffè e mi sedetti con il libro di Crevolin in mano. Enfatico da cima a fondo è una lusinga. Il libro era pieno di errori di battitura e grammaticali. Se c'era stata revisione, non riuscivo a vederne neanche una traccia. Crevolin aveva un debole per le frasi di duecento parole, corsivi a caso, uso creativo delle maiuscole, frequenti riferimenti alla «manipolazione ottomana», al «demonismo mercantile», alla «nuova banca di stato», e citazioni del presidente Mao. («Nelle guerre di liberazione nazionale, il patriottismo è l'applicazione dell'internazionalismo.»)
E poi illustrazioni: ritagli di foto estrapolate da manuali e riviste, alcuni dei quali malamente colorati a matita. Ritratti di Marx, Engels, Lenin, Trotsky, e, per qualche ragione che non riuscivo a capire, Budda, Shakespeare, un macacus Rhesus. Operai con il berretto di panno in fila per prendere il pane. Icone bizantine. Statue greche. Emigranti che sfuggivano la siccità con facce che sembravano uscite da una canzone di Woody Guthrie. Le piramidi egiziane. Farfalle. Due pagine di armi antiche: mazze, alabarde, lunghe spade. Un carro armato Sherman. Cercavo di trovare un qualche filo conduttore, ma le parole mi attraversavano senza lasciar traccia: fibra letteraria. I miei occhi si appannarono e la testa cominciò a farmi male. Saltai all'ultimo capitolo sperando di trovare un sunto, un qualche messaggio centrale che desse un senso all'insieme. Qualcosa che mi facesse capire perché Ike Novato era andato a scovare l'autore. Ciò che trovai furono due pagine con disegnato a matita un fungo atomico e sotto la legenda BEAR LODGE, REQUIESCAT IN PACE, GLI EROI. Nella pagina seguente la copia di un articolo del New York Times del 21 aprile 1971. La parola MENZOGNE! a grandi lettere rosse era stata scritta a mano sopra in diagonale. Le lettere in rosso erano a grana grossa. Riuscii a leggere il testo sottostante. SECONDO L'FBI L'ESPLOSIONE NELL'IDAHO È STATA PROVOCATA DA UN INCIDENTE AVVENUTO IN UNA FABBRICA DI BOMBE DELL'ESTREMA SINISTRA. BEAR LODGE, IDAHO. Le autorità federali e locali preposte alla tutela dell'ordine in questa comunità rurale di boscaioli riferiscono che l'enorme esplosione avvenuta nelle prime ore del mattino è stata provocata da una detonazione accidentale in un deposito di potente esplosivo; il deposito era stato impiantato da estremisti di sinistra, intenzionati a scatenare un'ondata di terrorismo e di protesta politica violenta nel paese. L'esplosione, descritta da alcuni testimoni come una «tempesta di fuoco», è avvenuta alle 2 del mattino e ha demolito totalmente un ex magazzino di legname e ie costruzioni disabitate che lo circondavano, a un chilometro da Bear Lodge. Alcuni edifici della città hanno riportato vetri frantumati e danni minori alle strutture in muratura e in legno. Nessun abitante di Bear Lodge è rimasto ferito, ma si pensa che nel magazzino siano rimaste uccise dieci persone. Si è scoperto, attraverso la certificazione fiscale ottenuta a Twin Falls,
che il magazzino è di proprietà della Mountain Properties, che lo scorso agosto ha affittato per sei mesi l'edificio in legno, ormai centenario, a un certo «signor Bakunin», che si pensa essere uno pseudonimo che allude all'anarchico russo vissuto nel XIX secolo Mikhail Aleksandrovich Bakunin. Lo scopo dichiarato di «Bakunin», risultante dal contratto d'affitto, era «l'immagazzinamento di materiale agricolo e di derrate alimentari». Impiegati e funzionari della Mountain Properties non hanno rilasciato dichiarazioni. Tuttavia, abitanti di Bear Lodge (326 anime) parlano di un incremento delle attività nelle vicinanze del magazzino durante le ultime settimane, con gli «estranei» che trasportavano carichi di fertilizzanti, segatura, zucchero e altro materiale, lungo il chilometro di strada che conduce al grande deposito in legno su quattro piani. «Devono aver comprato il materiale in qualche altro posto perché non sono mai venuti in città a fare acquisti», ha detto Dayton Auhagen, un trapper, con vestiti di pelle, che a volte si accampava nella foresta ormai carbonizzata che circonda il magazzino. Auhagen ha detto che gli affittuari «non erano di queste parti. Ma loro pensavano ai loro affari e noi ai nostri. Qui le cose vanno così. Siamo tutti individualisti». L'agente regionale dell'FBI per il Sud Idaho incaricato delle indagini, Morrison Stowe, ha un altro parere sulle vittime dell'esplosione. «Sono estremisti politici sospettati di atti di terrorismo o di far parte di un'associazione con fini di terrorismo. Le sostanze che stavano immagazzinando erano potenziali agenti nitranti utilizzabili per la fabbricazione di esplosivi a base di nitroglicerina.» Pur rifiutandosi di precisare il procedimento di fabbricazione delle bombe, Stowe ha detto: «Non è molto difficile. Negli ultimi due anni sono circolati diversi manuali tra i gruppi sovversivi clandestini: ricettari che permettono facilmente di costruire bombe artigianali. Ma ciò che essi non sottolineano a sufficienza è che la nitroglicerina è un composto estremamente instabile, indipendentemente dalla cura con cui viene trattato. La minima variazione di umidità o di calore può farla esplodere. È quanto pensiamo sia accaduto qui. Questi individui stavano preparando bombe. È avvenuta una detonazione accidentale e sono saltati in aria». Stowe ha aggiunto che l'esplosione è stata talmente potente da rendere virtualmente impossibile l'identificazione dei cadaveri. Resoconti dei testimoni e un'accurata indagine iniziata già da tempo hanno fatto giungere il Federal Bureau alla conclusione che dieci persone sono morte nell'esplosione, compresi due bambini di pochi anni, e che nessuno dei membri del
gruppo è scampato. L'FBI ci ha fornito l'elenco delle vittime che qui riportiamo: Thomas Harrison Mader Bruckner, 29 anni, di Darien, Connecticut. Laureato alla Columbia University, assistente di sociologia alla California University, Berkeley, membro fondatore del gruppo dei Weathermen all'interno degli Studenti per una società democratica (SDS), Bruckner era il discendente di un'antica famiglia di coloniali da cui provenivano alcuni membri del Congresso e uno dei firmatari della dichiarazione d'indipendenza. Catherine Blanchard Lockerby, 23 anni, di Filadelfia e Newport, a Rhode Island. Ex studentessa di psicologia alla Columbia University e appartenente ai Weathermen, la Lockerby viene indicata come la compagna di Bruckner, anche lei discendente di una famiglia benestante e socialmente influente. Antonio Yselas Rodriguez, 34 anni, di San Juan, Portorico e Bronx, New York. Condannato per furto e falsificazione di banconote, su Rodriguez pende un mandato di cattura per evasione dal carcere di Rikers Island, a New York, dove era detenuto in attesa di giudizio per aggressione, dopo aver partecipato a una rissa nel South Bronx nel dicembre 1970. È fortemente sospettato di aver compiuto alcuni attentati attribuiti al gruppo separatista/estremista portoricano, FALN. Teresa Alicia Santana, 26 anni, del Bronx, New York. È la convivente di Rodriguez ed è sospettata di aver diretto una cellula del FALN. Mark Andrew Grossman, 24 anni, di Brooklyn, New York. Ex studente di scienze politiche alla New York University, fondatore dei Weathermen, «attivista sindacale», a sentir lui, ricercato per essere interrogato su tentativi di sabotaggio ai danni di numerose centrali elettriche sulla Costa Orientale. Harold Cleveland detto «Big Skitch» Dupree, 39 anni, condannato per omicidio e rapina a mano armata, rilasciato sulla parola dalla prigione di stato di Rahway, New Jersey, nell'ottobre dello scorso anno. Dupree era un capo della banda costituitasi nel carcere denominata Pugno nero, sospettato di essere il fondatore delle Forze armate rivoluzionarie nere e ritenuto responsabile di una serie di rapine a mano armata avvenute nel nord dello stato di New York. Norman Samuel Green, 27 anni, di Oakland, California. Ex iscritto alla scuola di perfezionamento e assistente di scienze politiche alla University of California, Berkeley, dirigente dell'SDS e militante pacifista. Si pensa che Green abbia avuto un ruolo di primo piano nei disordini del «People's
Park» e in altre proteste studentesche nel campus di Berkeley. Si ritiene sia il «signor Bakunin» a cui è stato affittato il magazzino. Melba Tamara Johnson-Green, 28 anni, di Oakland, California. Moglie di Norman Green ed ex studentessa di legge alla University of California, Berkeley, dove era membro della Law Review prima di ritirarsi a un anno dalla laurea. Membro dell'SDS, militante pacifista e femminista, sospettata di essere la reclutatrice per i Weathermen nel campus di Berkeley. Malcolm Isaac Green, due anni, di Oakland, California, il figlio dei Green. Fidel Frantz Rodriguez-Santana, otto mesi, del Bronx, New York, il figlio di Rodriguez e della Santana. Alla domanda sul perché gruppi quali le Forze armate rivoluzionarie nere e i Weathermen, che si sapeva avevano evidenziato significative differenze ideologiche in passato, avessero cooperato nella creazione del deposito di esplosivo, l'agente Stowe ha risposto: «In base alle informazioni in nostro possesso stavano facendo il tentativo di unire le loro forze. Tutti i maggiori movimenti sovversivi hanno attraversato momenti difficili. L'incriminazione e l'imprigionamento dei loro leader e lo smascheramento dei loro reali obiettivi hanno decimato le loro file e i nuovi adepti sono rari. I pochi che restano hanno radicalizzato e reso più violente le loro posizioni. Questo sembra essere l'ultimo disperato tentativo di fondare una confederazione estremista allo scopo di sovvertire l'ordine costituito e attentare alla vita e alla proprietà della gente. Considerata la loro propensione alla violenza, non stupisce che siano finiti in questo modo. Purtroppo i due bambini sono vittime innocenti». Nella pagina accanto c'era una poesia circondata da tutti i lati da un bordo di minuscoli Gesù in croce. Menzogne nere, menzogne bianche Sangue sulla polvere copioso e caldo per uno scopo le schegge trafiggono la carne dei martiri cielo fascista rosso di ferro e di fuoco turpe rumore sei il mio paese per giusto o sbagliato che sia, dicono
e intanto spargono il sangue sacrificale dei giusti verità la vera vittima nel loro gioco l'estremo gioco vinci o perdi battaglie non la guerra anche il mio cuore sanguina copioso e caldo per joe hill sacco e vanzetti che leon ragazze fucilate santi del terzomondo menzogne bianche e nere insieme solo la battaglia per il rosso rosso sangue potere al popolo!!!! L'ultima pagina era occupata da una fotografia, un ritratto di gruppo di circa venti persone in piedi e in ginocchio su due file davanti a un edificio di mattoncini coperto di edera. Una legenda scritta a mano diceva: «Berkeley, febbraio 1969. La grande festa. Anche i rivoluzionari devono divertirsi». Braccia sulle spalle. Volti sorridenti. La gioia del cameratismo. Qualche paio di occhi da marijuana. Alcune teste erano state cerchiate a matita nera: cinque uomini, tre donne. Nomi scritti a mano sopra ognuno di loro. Thomas Bruckner e Catherine Lockerby erano insieme al centro della prima fila. Lui, grassottello e curvo, con un paio di jeans e una camicia da lavoro sbiadita, capelli cadenti che gli arrivavano alle spalle e un paio di folti baffi spioventi che nascondevano la parte bassa del viso. Lei alta, robusta, a piedi nudi, con addosso una veste sciolta di batik, i capelli biondi
pettinati indietro in modo austero. Labbra sottili che cedevano riluttanti all'allegria. Occhi penetranti, mascelle forti. In un altro tempo e in un altro luogo, invecchiando sarebbe diventata una matrona. Vicino a lei c'era «Tonio» Rodriguez, di corporatura media e ben rasato, un aspetto sorprendentemente pulito, capelli scuri più corti di quelli degli altri, con la scriminatura di lato. Camicia e jeans. Occhi nascosti dietro occhiali a specchio. Teresa Santana lo cingeva con il braccio. Era molto piccola, molto magra, indossava un pullover a collo alto e jeans stretti. I lunghi capelli neri erano divisi nel mezzo e circondavano una faccia ovale con zigomi da indossatrice, occhi a mandorla e labbra piene. Una Joan Baez in miniatura, ma indurita da una vita più difficile di quella del mondo dello spettacolo. Mark Grossman e «Big Skitch» Dupree erano sul lato sinistro della seconda fila. Erano visibili solo le facce. Grossman aveva lineamenti morbidi, infantili e il mento sfuggente. Un'enorme chioma di capelli biondi ricci e basette lunghe crespe che conferivano alla sua immagine un che di sfocato. La chioma riccia di Dupree era più modesta. Portava un paio d'occhiali dalla montatura nera e aveva una faccia squadrata color asfalto coperta da una folta barba. Serio. Circospezione da detenuto. All'estrema destra della seconda fila c'erano i volti cerchiati di Norman e Melba Green. Vicino a Melba c'era una faccia non cerchiata che riconobbi. Rotonda, lentigginosa, una zazzera ribelle di capelli scuri. Lineamenti tirati, occhiali rotondi con montatura di tartaruga: tipo quelli che il servizio sociale inglese distribuiva gratuitamente. Un paio di baffi striminziti e pizzetto fatto di soffice peluria che sembrava incollato come quello dei costumi teatrali. Ma togliendo barba e baffi, e aggiungendo qualche anno, era lo stesso uomo che suonava l'armonica nella classe in cui ero entrato. Lo stesso uomo che avevo visto presentare la rock star. Persino allora Gordon Latch aveva un sorriso da politico. Lo guardai ancora per un po', feci ipotesi, le sviluppai, andai a sbattere contro muri impenetrabili, tentai ancora e alla fine rivolsi ancora la mia attenzione ai Green. Norman Green doveva essere molto alto, per come dominava gli altri, almeno un metro e novanta. Aveva capelli scuri ispidi, divisi a metà e stretti da una fascia di cuoio. Un naso greco, sopracciglia spesse e scure, un bel viso lungo, che una barba folta senza baffi faceva assomigliare a quello di Lincoln. Aveva qualcosa di familiare... Sua moglie era di altezza media, e la parte superiore della testa arrivava
al suo bicipite. Nera, carina, ma con il viso serio, come preoccupato. Indossava una blusa senza collo, collana di perline color ebano, enormi anelli neri alle orecchie. Sorriso altero. Una chioma vaporosa e riccia sopra un viso ovale dai lineamenti regolari. La bellezza di una maschera intagliata di una principessa africana. Anche il suo viso mi era familiare. Donna negra, uomo bianco. Mi fece pensare a qualcosa. Tornai all'articolo di giornale. «Malcolm Isaac Green, due anni, di Oakland, California.» Diciassette anni fa. L'età corrispondeva. Un nome spagnolo per un ragazzo negro. Andai alla libreria, frugai finché non trovai il mio dizionario spagnoloinglese. Pagina 146: «novato m. novizio, principiante». Passai alla parte inglese-spagnolo. Pagina 94: «green agg. verde, novato, inexperto». Misi giù il libro e andai al telefono. 30 Non riuscivo a mettermi in comunicazione con Milo. E neanche con un annoiato agente di polizia alla stazione di West Side per farmi dire dove fosse. Dov'erano i poliziotti quando avevi bisogno di loro? Mi ricordai del racconto che Judy Baumgartner aveva fatto sulla sua ermetica conversazione con Ike: «Avrei dovuto essere flessibile nei miei criteri». Se avevo interpretato correttamente il mio dizionario, aveva senso. Telefonai ancora all'Holocaust Center. La sua segretaria mi informò che non era in ufficio e fece attenzione a non dire di più. Ricordandomi quanto Judy aveva detto sulla pericolosità di certe ricerche, non feci pressioni, ma alla fine riuscii a convincere la segretaria che avevo un valido motivo per cercarla. Allora mi disse che Judy era tornata a Chicago e non sarebbe rientrata prima di tre giorni. Volevo lasciare un messaggio? Pensando a che tipo di messaggio avrei potuto lasciare, declinai e la ringraziai. Appena ebbi riagganciato, mi venne in mente qualcun altro che sarebbe stato in grado di confermare la mia teoria. Cercai il numero della sinagoga Beth Shalom e lo composi. Non rispose nessuno. L'elenco telefonico riportava tre Sanders D., solo uno senza l'indirizzo indicato e con i primi numeri di Venice. Chiamai quel numero. Rispose una donna con un accento simile a quello del rabbino. Sullo sfondo si sentivano voci di bambini, insieme a quella che sembrava essere musica registrata.
«Vorrei parlare col rabbino Sanders, per favore.» «Chi lo desidera?» «Alex Delaware. L'ho incontrato alla sinagoga l'altro giorno. Insieme all'ispettore Sturgis.» «Un istante.» Sanders arrivò dicendo: «Sì, ispettore Delaware. Qualche novità su Sophie?» «Le indagini sono ancora in corso», dissi con sorprendente facilità... «Sì, certo. Cosa posso fare per lei?» «Ho una domanda di carattere teologico per lei, rabbino. Quali sono i criteri dell'ebraismo ortodosso per stabilire se qualcuno è ebreo?» «Fondamentalmente due», rispose, «essere nato da madre ebrea o passare attraverso una seria conversione. La conversione si basa su un corso di studio.» «Non è sufficiente avere un padre ebreo?» «No. Solo gli ebrei riformati hanno accettato la linea di discendenza paterna.» «Grazie, rabbino.» «È tutto?» «Sì. Mi è stato di grande aiuto.» «Davvero? La sua domanda ha niente a che fare con Sophie?» Fui evasivo, ripetei la storia delle indagini ancora in corso, lo ringraziai e riattaccai. Provai ancora con Milo sia alla stazione di polizia sia a casa. Nella prima la noia del poliziotto si era trasformata in torpore. Nella seconda mi rispose la segreteria telefonica e raccontai cosa avevo scoperto. Poi provai ancora alla rete televisiva. «Il signor Crevolin è in riunione.» «Quando sarà libero?» «Non saprei, signore.» «Ho chiamato ieri. Il dottor Alex Delaware, a proposito di Ike Novato .» «Sono sicura che ha ricevuto il suo messaggio, signore.» «Allora proviamo a richiamare la sua attenzione con un altro messaggio.» «Veramente non...» «Gli dica che Bear Lodge vanta nove vittime, non dieci.» «Barry Lodge?» «B-e-a-r 1-o-d-g-e. Bear Lodge, è un paese, vanta nove vittime, non dieci.»
«Un attimo», disse, «sto scrivendo.» «Può anche dirgli che l'apatia può vantarsi di aver fatto la decima. Qualche mese fa. Apatia e indifferenza.» «Apatia e indifferenza», ripeté, «è un'idea per un copione? Perché se lo è, so per certo che la stagione autunnale è completamente programmata e non vale la pena di proporre niente finché non iniziano la nuova programmazione.» «Non è un'idea», dissi, «è una storia vera. E non potrebbe mai essere trasmessa nella fascia oraria di maggiore ascolto.» La segretaria mi richiamò un'ora dopo per dirmi: «La vedrà alle quattro», con una voce che tradiva sorpresa. Alle quattro meno cinque attraversavo il parcheggio della rete televisiva strapieno di macchine tedesche e svedesi. Indossavo un vestito di gabardine marrone chiaro e portavo in mano una cartella per documenti. Una guardia giurata di circa settant'anni prese il mio nome e mi indicò una rampa di scale metalliche che portava al primo piano del grosso edificio stile deco. Attraversai una sala d'attesa con il soffitto a volta in cui c'erano centinaia di persone in fila per prendere il biglietto dell'ultimo talk-show della sera. Alcuni di loro girarono la testa per controllare chi fossi, decisero che non ero degno di nota e volsero la loro attenzione altrove. In cima alle scale c'era una doppia porta di cristallo. L'area di ricevimento era grande come un capannone: alta nove metri, pareti nude tranne che per una gigantografia del logo della rete sul lato sud e, proprio sotto, una porta con scritto PRIVATO. Il pavimento di travertino era coperto da un tappeto marrone sorprendentemente malconcio. Al centro esatto del tappeto c'era un tavolino di vetro rettangolare e su entrambi i lati una fila di poltroncine di pelle, nere e rigide. Dall'altra parte della stanza un giovane negro con la divisa da guardia giurata stava seduto dietro un bancone. Alla sua sinistra scorrevano su uno schermo le immagini di quello che sembrava uno spettacolo di giochi televisivi. Era stato tolto l'audio. Gli dissi il mio nome. Aprì il registro, scorse con un dito una pagina, passò alla successiva e fece la stessa cosa, si fermò, fece una chiamata con un telefono bianco, ascoltò e disse: «Bene. Okay. Sì». E a me: «La riceverà fra qualche minuto. Si accomodi». Cercai di mettermi comodo in una delle poltroncine. Il tavolino di vetro era vuoto: niente riviste, nemmeno un posacenere. «Non c'è niente da leggere. Ha forse a che vedere con qualche principio filosofico?»
La guardia mi fissò come se mi notasse solo in quel momento, ridacchiò e si girò ancora verso lo schermo. Mi buttai all'indietro e chiusi gli occhi. Alle quattro e dieci la porta con la scritta PRIVATO si aprì e ne uscì una giovane donna con capelli biondo paglia. Indossava una maglietta rossa ornata di lustrini e jeans neri e sorrideva stancamente, controvoglia. «Dottor Delaware? Terry può incontrarla adesso. Diede una spinta alla porta ed entrò, lasciando che io la tenessi aperta. Camminava come se partecipasse a una gara di atletica, mi condusse prima attraverso un ufficio e poi lungo un corridoio stretto e ben illuminato, su cui si affacciavano sei o sette porte. La terza porta era aperta. «Qui» disse; aspettò che io fossi entrato e se ne andò. Non c'era nessuno nell'ufficio. Era una stanza di dimensioni medie, con vista sul lato est: un altro parcheggio, tetti catramati, l'attorcigliamento intestinale di tubature metalliche e i contorni annebbiati dallo smog della West Los Angeles. Le pareti erano rivestite di tela grigia. La moquette, una felpa compatta, era di quel colore opaco che l'acqua assume nelle piscine con scarsa manutenzione. In mezzo galleggiava una scrivania di plastica chiara con sedie dello stesso materiale. Perpendicolare alla scrivania c'era un divano striminzito, rivestito con un tweed blu ardesia. Di fronte due sedie blu con le gambe cromate. Calda e confortevole come una sala operatoria. Tre delle pareti grigie erano spoglie. Quella dietro la scrivania era piena di personaggi colorati del cinema di animazione. Cenerentola. Pinocchio. Fantasia. Non che mi aspettassi manifesti politici, considerato quanto aveva detto Judy, ma fui veramente sorpreso nel vedere personaggi di Disney. Il mio sguardo si soffermò su Biancaneve nell'atto di prendere una mela da un'allegra vecchia strega. Entrò un uomo che tossiva coprendosi la bocca con le mani unite. Quarantenne, o giù di lì, con un viso pallido e delicato sotto capelli brizzolati tagliati a spazzola, resi lucidi dal gel. Una delle facce della foto di gruppo. Più giovane, più magro, con i capelli lunghi. A destra nella seconda fila, pensai. Eclissato dalla torreggiante altezza di Norman Green. Mi fissò. Aveva borse scure sotto gli occhi. Un bottoncino d'oro brillava sul suo orecchio sinistro. Indossava un bomber nero rigonfio sopra una maglietta grigia di seta, pantaloni grigi di un tessuto rigido e squamoso con risvolti e Reebock nere alte. Si sedette. La mela della Biancaneve di celluloide sembrava fosse ap-
poggiata alla sua testa. Guglielmo Tell vestito con gli abiti di Melrose Avenue. «Terry Crevolin», disse. Assurda voce di basso. «Alex Delaware.» «Così mi hanno riferito. Si segga.» Pausa. «Sì, ha l'aspetto di un dottore. Che tipo di dottore è?» «Psicologo.» «Psicologo. Ma lei sa cosa si trasmette nella fascia oraria di massimo ascolto?» «Certamente non Bear Lodge», risposi, «è passato troppo tempo e i tempi sono cambiati. Un pugno di pazzi estremisti saltati in aria sulle loro bombe non interessa nessuno.» Un occhio si contrasse. Guardò la mia cartella. Ci sfidammo con lo sguardo per qualche tempo. Lo faceva abbastanza bene: molta pratica, senza dubbio, con scrittori disperati che proponevano idee per copioni. Ma io avevo passato decine di migliaia di ore in terapia. Sedendomi sul divano dalla parte del dottore. Aspettando la fine di tutti i sotterfugi che l'umanità poteva inventarsi... Alla fine disse: «Mi hanno fatto capire che lei aveva qualcosa da dirmi: un'idea. Se è vero, sentiamola. Se no...» Alzata di spalle. «Certo», risposi, «ecco l'idea: un adolescente alla ricerca della propria identi...» «È già stato fatto.» «Non in questo modo. Il mio protagonista è un ragazzo sveglio, rimasto orfano quando era ancora molto piccolo. Di bell'aspetto, idealista. Per metà negro e per metà ebreo. I suoi genitori sono estremisti di sinistra morti in circostanze sospette. Diciassette anni dopo lui cerca di scoprire come e perché. E finisce per essere ucciso a causa dei suoi sforzi, incastrato in un falso scontro fra spacciatori. Molti spunti interessanti, ma probabilmente troppo pessimista, eh?» Un'espressione che poteva essere di dolore attraversò il suo viso. «Non la seguo più», disse. «Ike Novato. Novato significa principiante in spagnolo. Uno dei significati di 'green'. Il bambino che era stato un tempo di Norman e Melba Green.» Crevolin si ispezionò le unghie. «Ha cercato di mettersi in contatto con lei la scorsa estate, ma non c'è riuscito.»
«Molta gente cerca di incontrarmi», disse. «Non per parlare di Bear Lodge.» Si sbirciò una pellicina. «E sono tanti quelli che vengono poi ammazzati, signor Crevolin?» Il suo volto arrossì leggermente. «Andiamo, sembra un po' esagerato.» «È stato ucciso. Controlli lei stesso. Lo scorso settembre. Un acquisto di droga finito male a Watts. Ma la cosa strana è che, visto che secondo chi lo conosceva, non faceva uso di droga, non aveva nessun motivo per andare a Watts.» «La gente», disse, «è impossibile conoscere una persona: ciò che gli passa veramente in testa. Soprattutto un ragazzo, no? Il bello di essere giovani è avere dei segreti, no? Creare un proprio mondo da cui escludere tutti gli altri. Se lei è veramente uno strizzacervelli dovrebbe saperlo.» «I segreti di Ike Novato erano pericolosi», risposi, «potrebbero averlo ucciso. E anche sua nonna. Un'anziana donna che viveva a Venice, di nome Sophia Gruenberg.» Aprì la bocca, poi la richiuse. «È scomparsa qualche giorno dopo l'omicidio del nipote. La polizia pensa che sia stata uccisa. Non hanno piste da seguire e non riescono a collegare le due cose. Pensano che ci sia sotto qualche storia di droga. Ma scommetto che gli piacerebbe molto parlare con lei.» «Oh, merda!» fece. «Da Gruenberg a Green. Da Green a Novato. La famiglia aveva una passione per i cambiamenti di nome. Ma hanno mantenuto costante il colore. Norman quando ha cambiato il suo?» «Non lo ha mai fatto. È stato suo padre. Per la sua attività. Suo padre era un capitalista; la madre non ha mai approvato il cambiamento di nome. E quando lui è morto, lo ha cambiato ancora tornando al precedente.» «E Norm non lo ha fatto?» «No. Voleva bene a suo padre. Politicamente la pensava come la madre. Ma con lei era difficile andare d'accordo. Era una donna intrattabile. Tra Norm e la madre non c'era un forte legame affettivo.» Le sue narici si allargarono e poi si richiusero. Strinse le labbra tra i denti; si mordicchiò un mignolo. «Senta, mi dispiace sentire tutto questo. Ma in che modo può riguardarmi?» Un pessimo bluffatore. Pinocchio avrebbe riso e gli avrebbe prestato il suo naso. «Lei lo sa», dissi, «una famiglia distrutta: tre generazioni sterminate,
perché è stata fatta la domanda sbagliata alla persona sbagliata. Chiederlo a lei sarebbe stato più sicuro, ma Ike non c'è riuscito.» Agitò freneticamente una mano. «Non dia la colpa a me.» «Lei stesso se la dà. Non ha mai dimenticato Bear Lodge. Per questo ha accettato di vedermi.» Si lasciò cadere sulla sedia, passò le dita fra i capelli irti, controllò l'ora su un minuscolo orologio da polso che sarebbe passato in una fessura per monete. «Il messaggio di Ike, la scorsa estate, le riportò con irruenza alla mente vecchi ricordi. Probabilmente ha preso in considerazione l'idea di incontrarlo. Il suo idealismo può essere da molto tempo sepolto sotto un mucchio di giochi televisivi ma...» Si tirò su a sedere: «Non faccio giochi televisivi». «...lei ha ancora i suoi principi. Per lo meno così mi hanno lasciato intendere.» «Sì? Chi?» «Judy Baumgartner dell'Holocaust Center. Dice che lei li ha aiutati a far produrre quel documentario. È lei che mi ha parlato del suo libro.» Ne fu irritato. Tirò fuori qualcosa dalla tasca della sua giacca. Un lecca lecca arancione che scartò in fretta, furtivamente, come fosse un piacere proibito. Lo ficcò in bocca, si buttò all'indietro, con le mani intrecciate sulla pancia, placato. «Principi, eh?» «Perché lo ha respinto?» dissi, «troppo doloroso riaprire vecchie ferite? O solo per apatia? Con tutte le riunioni a cui partecipa ogni giorno, non ha semplicemente avuto l'energia per occuparsene?» Tirò fuori con uno strattone il lecca lecca, cominciò a dire qualcosa, si zittì e si alzò in piedi voltandomi le spalle. Era rivolto verso la parete e guardava i suoi amici di celluloide. «Fatine buone e scarpine di vetro. Magari la vita fosse così semplice!» «È uno sbirro?» mi chiese. «No.» «Mi mostri un documento d'identità.» Tirai fuori dal portafoglio la mia patente, il tesserino di psicologo, e la tessera di membro della facoltà di medicina e glieli porsi. «Ho anche le principali carte di credito, se vuol vederle.» Si girò, li esaminò e me li restituì. «Non è che voglia dir molto, vero? Potrebbe essere la persona indicata nei documenti e anche uno sbirro.»
«Potrei, ma non lo sono.» Si chinò in avanti. «Cosa vuole veramente da me?» «Quello che le ho detto. Voglio farle qualche domanda che Ike Novato non è riuscito a farle.» «Perché? Cosa c'entra lei con Novato? Era il suo psicologo?» «No. Non l'ho mai conosciuto. Ma ho indagato sulla morte di una sua amica. Una giovane ragazza di nome Holly Burden.» Aspettai che facesse un cenno di riconoscimento; non ne arrivò nessuno. «La sua famiglia mi ha chiesto di condurre un'autopsia psicologica. Per cercare di capire perché era morta. Questo mi ha portato a Ike. Era uno dei pochi amici che aveva. Un confidente. Sono risalito all'Holocaust Center tramite alcuni libri sul razzismo che aveva preso in prestito. Ha scritto il suo nome e il suo numero di telefono a margine di una pagina. Judy era sicura che Ike non lo avesse mai incontrato al centro, e pensava che avesse cercato di rintracciarla a causa del suo passato.» Aprii la cartella ed estrassi il suo libro. «L'ho comprato oggi, ho letto l'articolo su Bear Lodge e ho visto la foto scattata a Berkeley. Ho capito qual era la vera identità di Ike.» Si sedette, rimise il lecca lecca in bocca e lo tirò subito fuori, come se avesse perso di sapore. «Un capolavoro letterario, eh? Avevo appena smesso di imbottirmi di acidi, funghi allucinogeni e methredina quando l'ho scritto. Avevo ancora allucinazioni ricorrenti, vedevo Dio. Ho lavorato ininterrottamente per un weekend, senza poi fare nessuna revisione. Sono rimasto rintanato tutto il tempo. Da premio Pulitzer, vero?» «Non si sottovaluti», dissi, «è dotato di un'energia... cruda. Di passione. Quella che probabilmente oggi non le capita di provare spesso.» «Ascolti», replicò irrigidendosi, «se lei pensa di venire qui e di farmi sentire in colpa, per essere sopravvissuto, se lo scordi. Ho già superato la cosa. Con l'aiuto del mio psicologo.» «Sono contento per lei, Terry. Peccato che Ike non possa dire altrettanto.» Ci sfidammo ancora con gli occhi. Fu ancora lui ad abbassare per primo lo sguardo. «Una grotta», disse, «è lì che sono finito, è lì che ho scritto quel maledetto libro. In una grotta, capito? È così che vivevo dopo Bear Lodge. Come un uomo di Neanderthal, perché non avevo un papà ricco come molti altri nel movimento. Nessun fondo fiduciario, niente a cui ricorrere nel momento in cui il sogno finiva. Non potevo trovare un lavoro serio perché
mi ero ritirato dalla facoltà dopo il primo anno di corso per combattere la battaglia giusta. Avevo brutti voti e non sapevo fare nient'altro oltre a marciare e cantare. E dopo la fine del sogno non c'era più tanta richiesta di gente come me. A meno che non volessi diventare un Hare Krishna freelance. Ci ho persino provato, ma le loro stronzate, i loro imbrogli, il loro disgustoso incenso mi davano fastidio. Sapevo solo raccogliere frutta, scavare fossi, fare lavori umili: le cose che avevo imparato nell'infanzia. In un pezzo di boscaglia che non diventò mai niente perché mio padre non riuscì a competere con i grossi coltivatori e morì con più debiti che buon senso. Mi diressi verso la costa, lavorando fino a scorticarmi le mani e dormendo con gli immigrati clandestini. Ero a Yuba City quando cominciarono a scoprire tutti i braceros che Corona aveva fatto a pezzi. L'uomo che dormiva vicino a me scomparve. La vittima numero trentatré. Scappai per lo spavento in Oregon. La mia grotta. Raccoglievo prugne di giorno; facevo l'uomo di Neanderthal di notte. La paura mi spinse a restare lucido: niente acidi, pillole, e persino niente hashish o marijuana. Non avevo la clinica di Betty Ford, solo io e le mie lunghe notti, con gli insetti che strisciavano. Per cercare di sopravvivere cominciai a scrivere. La terapia estrema, no? Lo aveva fatto Abby. Lo aveva fatto Jerry. Perché non io? Il risultato finale fu quel pezzo di stupidità che tiene nelle sue piccole mani calde. La prima stesura fu fatta con una matita spuntata su fogli di carta da registri che avevo rubato nell'ufficio del caposquadra di turno. Di notte, usando una torcia elettrica. In seguito, quando ebbi qualche dollaro, comprai un blocnotes e qualche biro. Scrissi anche altre cose. Poesie che facevano schifo. Brevi racconti che facevano schifo. Una sceneggiatura per la TV che faceva schifo. Commedie. Molte commedie. Per allontanare con il riso il suicidio. La stessa trama ripetuta all'infinito: rivoluzionari che lavorano per l'IBM, ma non riescono assolutamente a sopportare una vita normale. Ah ah! Divertente, no? Mi autopersuasi che era un lavoro profondo. Convinsi me stesso che nessuno mi stava più cercando per uccidermi e venni in autostop a Los Angeles. Mi lavai e mi rasi nel diurno della Union Station, comprai un vestito alla Salvation Army, venni a piedi in questo centro di purezza spirituale e cercai di far leggere il mio copione. Non riuscii a metterci piede, ma in basso c'era un avviso che diceva che stavano cercando fattorini. Simulai un comportamento normale e fui assunto. I primi soldi che guadagnai li usai per far pubblicare quella porcheria. Ne feci stampare trecento copie, e non ci fu ristampa. Lo consegnai di persona alle principali librerie lasciandoglielo con diritto di resa. Non vidi mai un centesimo.
Scoprii che gli imprenditori alternativi erano i peggiori. Scoprii che non sarei diventato uno scrittore da bestseller: era ora di imboccare un'altra strada. Così mi rimboccai le maniche. Feci tutti i lavori, anche i più umili, che la rete mi offrì. E mi sono fatto strada fino a questo posto. Non la voglio annoiare coi dettagli.» «Sembra la realizzazione del sogno americano.» «Ehi, questo è un paese libero. Lo è veramente. L'ho imparato nel più duro dei modi. Mettendo alla prova il sistema: sono partito dal gradino più basso e sono arrivato in cima. Cosa che in pochi hanno fatto. Certo, ci sono tante cose marce nel sistema, ma c'è forse qualcuno che fa meglio? Gli ayatollah? I cinesi? Così sono qui per restarci, cercando di arrivare alla fine di ogni giorno, pagando il mio prestito ipotecario. So che ciò che faccio non è sfamare orfani, non è cardiochirurgia, ma quando posso cerco di raggiungere una certa qualità nel mio lavoro. Non è un lavoro migliore o peggiore di altri, no? Ed è quanto voglio adesso. Come chiunque altro. Integrarmi, concentrarmi su Terry, imparare a essere egocentrico. Guidare una macchina con sedili di pelle, sedermi nella vasca la sera, ascoltare compact disc e prenderla con filosofia. Vivere giorno per giorno.» Mi puntò il dito contro. «Ho pagato il mio debito più del dovuto e più a lungo di chiunque altro, perciò lasciamo perdere i sensi di colpa.» «Il suo senso di colpa non è affar mio. Altre persone hanno pagato. Con la vita. Norm e Melba Green, il resto della banda a Bear Lodge. Sono sicuro che ognuno di loro prenderebbe volentieri il suo posto.» Chiuse gli occhi e si strofinò le palpebre. «Oh, tutto ritorna come in una ruota, non è vero?» «Lei faceva parte del gruppo, no? Cosa l'ha fatta decidere ad allontanarsi dal magazzino il giorno dell'esplosione?» «Decidere.» Batté le ciglia. «Chi ha deciso? È stato un caso... uno scherzo del destino. Se lo leggessi in un copione, mi sembrerebbe forzato.» «Come mai è sfuggito?» «Stavo facendo il babysitter. Avevo portato il bambino dal dottore.» «Che bambino?» «Malcolm Isaac. Era malato.» «E perché non ce l'hanno portato i genitori?» «Perché stavano male anche loro. Tutti quanti stavano male. Vomitavano anche l'anima. Un qualche disturbo intestinale: diarrea, febbre. Qualcosa che avevano mangiato, carne avariata probabilmente. Io ero arrivato il giorno prima. C'erano due gruppi. Due livelli. Io facevo parte del secondo
e avevo portato comunicazioni del secondo al primo. Avremmo dovuto riunirci dopo una settimana. A quei tempi ero vegetariano. Non mangiai la carne e questo mi salvò. Neanche l'altro bambino si ammalò.» «Il figlio di Rodriguez e della Santana? Fidel?» «Fidelito», rispose, «era un bambino molto piccolo, troppo piccolo per la carne e mangiava omogeneizzati perché la madre non poteva allattarlo. Così anche lui stava bene. Ma Malcolm Isaac era molto malato. Febbre molto alta, diarrea, pianti di dolore. Melba si preoccupava per una possibile disidratazione, voleva che lo visitasse un dottore, ma lei e Norm erano troppo ammalati per portarcelo loro stessi. Così me lo chiesero e io lo feci. L'ospedale di Twin Falls. Io e lui, con un gruppo di boscaioli e di indiani in una sala d'attesa. C'era una radio accesa sincronizzata su una stazione che trasmetteva musica country-western e lui copriva la musica col suo pianto di dolore. A un tratto sentii il bip bip di un notiziario che interrompeva il programma musicale.» La fronte gli si bagnò di sudore. L'asciugò col retro della manica. «Grande esplosione in un magazzino a Bear Lodge.» Nessun altro nella sala d'attesa stava ascoltando. Non gliene importava proprio niente. Ma per me era come se tutto stesse sprofondando, come se si stesse aprendo una voragine nella terra: tutto ne veniva risucchiato. Poi intervenne un agente dell'FBI e cominciò a parlare di una fabbrica di bombe, mentendo spudoratamente per conto del governo e capii che qualcuno li aveva fregati. Capii che dovevo fuggire. «Non c'era una fabbrica di bombe?» Mi guardò disgustato. «Sicuro. Lardo, zucchero, letame e segatura: stavamo producendo un'arma nucleare artigianale, no? Se fosse così facile, metà delle fattorie in America sarebbero saltate per aria prima di essere annientate dalle guerre stellari di Ronnie.» «Metà delle fattorie in America non hanno esplosivi.» «E neanche noi ne avevamo. Gli scagnozzi dell'FBI o se lo sono inventato o ce li hanno messi. Le scorte che avevamo accumulato servivano per coltivare, non per distruggere. Sementi, fertilizzanti. Fertilizzanti organici. La segatura era per il terriccio. Il lardo serviva per cucinare e per fare tortillas: a Teresa piaceva fare le tortillas. Il piano era accumulare materiale sufficiente per fondare una fattoria collettiva di dimensioni accettabili, grande abbastanza da essere autosufficiente. Una nuova comunità valdese. Ci saremmo trasferiti nella terra demaniale che veniva lasciata andare in rovina pochi chilometri più a sud, una terra che inizialmente era stata ruba-
ta agli indiani. Il piano era di occuparla, liberarla, ottenerla in assegnazione, arare, seminare, poi invitare gli indiani a unirsi a noi per fondare un nuovo stato collettivista. Sapevamo che non sarebbe durato: sarebbero arrivati gruppi di nazisti e ci avrebbero travolti. Ma noi volevamo solo durare il tempo necessario per creare una comunità autosufficiente, per la stampa. La pubblicità ci avrebbe messo in buona luce agli occhi dell'opinione pubblica: il governo che distruggeva i raccolti. Cosa c'è di più americano del coltivare la terra? Così saremmo stati i buoni. Bianchi, neri e pellerossa che lavoravano insieme. L'establishment sarebbe stato visto in tutta la sua negatività. Troppo minaccioso, così lo hanno distrutto.» «Loro chi?» «Il governo. O chi per lui. Qualcuno deve aver avvelenato la carne, nascosto le cariche e aspettato che ci trovassimo tutti all'interno di quel magazzino, intossicati e indeboliti, e ci ha spediti nel regno dei cieli. Un qualche detonatore comandato a distanza. Campane a morto per il sogno.» «Fattorie collettive», dissi, «non è esattamente ciò che viene in mente quando si pensa ai Weathermen, al FALN, all'Esercito nero. A gente come Mark Grossman e Skitch Dupree.» «Perché siete stati condizionati a pensare in quel modo. Ognuno in quel magazzino, ognuno nella Nuova comunità valdese, aveva deciso di ripudiare la violenza. Eravamo stanchi della violenza, stanchi della piega che avevano preso le cose. Tonio e Teresa avevano da poco lasciato il FALN. Skitch aveva avuto un mucchio di guai per aver rinunciato alla violenza: i suoi ex compagni gli avevano persino sparato addosso perché aveva cambiato idea. Norm e Melba erano gli ideatori del piano. Avevano completamente lasciato alle spalle qualsiasi idea di violenza.» Scrollò la testa. «Una fabbrica di bombe. Pensa che Norman e Melba, Tonio e Teresa avrebbero portato i bambini in una fabbrica di bombe?» La gente aveva portato i propri figli a Jim Jones. Sacrificato un numero enorme di figli ai suoi Moloch. Non dissi niente. «Ero seduto in quella sala di attesa d'ospedale e sapevo che tutto era finito. Volevo scappare. Ma Malcolm scottava come una padella, doveva essere visitato da un dottore; così restai seduto e aspettai, sperando che nessuno si accorgesse che ero fuori di me. Dopo molto tempo, finalmente un'infermiera lo visitò. Mi diede delle medicine e disse che sarebbe migliorato non appena la febbre fosse scesa. Mi disse di farlo bere molto e di riportarlo per un controllo dopo un paio di giorni. Uscii, girai l'angolo con lui in braccio e continuai a camminare finché non trovai una macchina con la
chiave inserita nell'accensione. Entrai, lo misi di traverso sul sedile davanti e partii. Attraversai il Nevada senza mai fermarmi e arrivai in California. Feci una sosta per acquistare succhi di mela e pannolini e mi rimisi in marcia tenendogli la bottiglia sulla bocca mentre guidavo. Centinaia di chilometri di incubo, strade dove non passava nessuno, lui che chiamava strillando la mamma, io che non smettevo di pensare che qualcuno mi stesse seguendo per uccidermi. Arrivai a Los Angeles prima dell'alba.» «A Venice?» Fece cenno di sì. «Come ho già detto, lei e Norm non erano mai andati d'accordo, ma dove altro potevo portarlo? Lo lasciai sul gradino della porta d'ingresso e filai via.» Aprii il suo libro, cercai la fotografia di Berkeley e gliela mostrai. «Le altre persone appartenevano al secondo livello?» Un altro cenno di sì. «Erano duecento chilometri più a nord, sullo Snake River, per trattare l'acquisto di materiali da costruzione. Il piano era costruire baracche di legno. Avevano acquistato il materiale da un commerciante di legname, ma si erano trattenuti qualche giorno perché non riuscivano a trovare qualcuno che lo trasportasse: i camionisti li facevano penare perché non volevano trattare con un pugno di maledetti hippies.» «Cosa fecero dopo l'esplosione?» «Sparirono. La maggior parte in Canada.» Guardò la fotografia ancora per un po', chiuse il libro, e me lo restituì. «Niente nostalgia.» «Chi stabiliva a quale livello ognuno di voi doveva appartenere?» dissi. «Non c'era niente di formale, una specie di selezione naturale: nel primo livello c'erano i leader, i pensatori, i teorici.» «Perché avete scelto Bear Lodge?» chiesi. «Randy Latch era proprietaria del magazzino: suo padre glielo aveva lasciato.» «Era sua la Mountain Properties?» «Dietro un mucchio di prestanome: società fiduciarie o create per sfuggire al fisco. Suo padre l'aveva costituita per lei. Per questo abbiamo finto di prenderla in affitto, così sarebbe apparsa una normale operazione d'affari e nessuno ci avrebbe fatto caso. «Con queste conoscenze, Latch non aspirava al primo livello?» «Avrebbe potuto, ma non era una possibilità seria. Molte parole e poca sostanza. Non era molto rispettato. Uno dei motivi per cui lo tenevano con loro era il denaro di Randy. Dopo Bear Lodge, i due sparirono e riapparve-
ro come Jack e la signora Armstrong. Ancora molto rumore, ma poca sostanza. Il pubblico americano divora queste cose. Non sorprende che abbia finito col fare quello che sta facendo.» «Mi racconti di Wannsee due.» Si tirò su a sedere. «E questo da dove diavolo viene fuori?» «Ike Novato ha lasciato qualche nota che indica come stesse facendo delle ricerche in proposito. Lo ha scritto proprio sopra il suo nome. Si domandava se lei avrebbe potuto dirgli qualcosa.» Crevolin mi lanciò uno sguardo nauseato. «È questo ciò di cui voleva parlarmi? Maledizione, sarebbe stato facile.» «Facile còsa?» «Facile dargli una risposta. Gli avrei potuto dire la verità: Wannsee due è una sciocchezza messa in giro dal governo. False notizie diffuse dai servizi segreti a beneficio degli ingenui. Il governo voleva screditarci, così hanno orchestrato sulla stampa di regime la diffusione di notizie false su un nostro presunto collegamento con i gruppi neonazisti: la solita fesseria sugli opposti estremismi che si equivalgono, Hitler e Stalin. Mettendoci allo stesso livello del Ku Klux Klan, allo scopo di isolarci, farci apparire sotto una cattiva luce. Ma alla fine sarà sembrato più facile farci saltare in aria: faccia caso a come in seguito non si sia più parlato di Wannsee due. E ci sono parecchi stronzi razzisti dell'estrema destra in circolazione.» «Sophie Gruenberg poteva essere interessata a Wannsee due?» «Ne dubito. Quella vecchia donna era troppo intelligente per lasciarsi abbindolare da quelle sciocchezze.» «La conosceva bene?» Scosse con forza la testa. «L'ho incontrata una sola volta. Con Norm. Ma lui me ne ha parlato. Diceva che era una rivoluzionaria vecchio stampo: colta, un'intellettuale. Anche se non ci andava d'accordo, rispettava la sua intelligenza.» «L'ha incontrata una sola volta?» Restò in silenzio. Lo guardai negli occhi. «Due volte», disse, «quando, tornato a Los Angeles, facevo il mio lavoro da fattorino, sono passato da lei. Per vedere come andavano le cose.» «Per Ike?» «In generale.» Torse il labbro tra il pollice e l'indice. «Lo ha veramente lasciato fuori dalla porta d'ingresso?» «Certo che l'ho fatto. Tutto ciò che potevo fare era nascondermi e aspet-
tare che lei lo prendesse. Era già un rischio andare lì. Ero molto agitato, volevo lasciare la città prima che i poliziotti passassero. Pensavo che qualcuno poteva scoprire che non ero saltato in aria nell'esplosione e cercare di finire il lavoro.» Rise. «Nessuno si è disturbato per farlo. In tutti questi anni.» «Lei ha parlato di qualcuno che lavorava per la polizia federale. Ha dei sospetti?» «Certo», rispose, «c'erano degli strani trappers che si aggiravano nella foresta. Montanari, capelli lunghi, barbe, vestiti di pelle fatti in casa, che mangiavano quel che capitava. Vivevano di ciò che riuscivano a procurarsi nella foresta, come Redford in Jeremiah Johnson. A quel tempo ci ignoravamo reciprocamente, ma in seguito, quando ebbi tempo per pensarci cominciai ad avere dei sospetti. Usarli sarebbe stata una manovra azzeccata per l'FBI. Eravamo ingenui: ci fidavamo di tutti quelli che apparivano alternativi. Tipi con i capelli a spazzola che si aggiravano furtivi ci avrebbero subito resi paranoici, ma non facevamo attenzione a quegli idioti dai capelli lunghi. Erano già lì quando eravamo arrivati e non sembravano interessarsi a noi. Poi rispettavamo anche il loro modo di vivere. Pensavamo a loro come a degli hippies con fucili e coltelli da caccia. Fricchettoni macho. Avevamo un atteggiamento positivo verso tutto ciò che ci sembrava rientrasse in un tipo di vita che traeva il suo sostentamento dalla natura: era in fondo quella la nostra aspirazione. Così poteva essere facile per uno di loro entrare, nascondere le bombe, e uscire senza essere notato. Probabilmente erano dell'FBI o agents provocateurs, magari oggi fanno i burocrati a Toledo. Il che è una punizione sufficiente, no?» L'amarezza della voce smentiva quelle parole. «Ha parlato di questi sospetti con Sophie Gruenberg quando è passato da lei?» chiesi. «Non ce n'è stato bisogno. Subito dopo aver chiuso la porta mi ha fatto una conferenza su come l'esplosione era stata organizzata dall'FBI. Norm, Melba e gli altri erano martiri. Niente pianto: era molto dura. Solo rabbia. Quella rabbia rovente che sembrava farla vibrare.» Sorrise. «Era una donna inflessibile. Me la immaginavo mentre azionava una ghigliottina ai tempi della Bastiglia.» «Dove ha mandato Ike per farlo allevare?» «Cosa le fa pensare che lo abbia mandato da qualche parte?» «Si è trasferito a Los Angeles solo qualche mese prima della sua morte, raccontando alla gente che veniva dall'est. Il che ha senso. Una sospettosa
come Sophie poteva aver paura di tenere il figlio di due martiri così in vista.» «Non conosco i particolari», disse, «quando le chiesi sue notizie, disse che lo aveva mandato da alcuni parenti.» «Non sa per caso dove vivevano?» «Lei non l'ha detto e io non l'ho chiesto. Ho pensato che si trattasse di Filadelfia perché Norm era nato lì: la sua famiglia viveva da quelle parti.» «È passato a casa sua una sola volta?» «Sì. Lei era parte del mondo che cercavo di cancellare dalla mia vita. Come pure Malcolm Isaac. Ecco perché non l'ho incontrato: non era solo apatia. Per quale motivo avrei dovuto? Bisogna andare avanti. Non serve a nulla guardare al passato, no?» «Sì, ha ragione.» Ma la nuda verità riempì lo spazio tra di noi, invisibile ma corrosiva. Nessuno si era preoccupato di lui perché aveva continuato ad appartenere al secondo livello. Troppo irrilevante per essere ucciso. 31 Uscii dal parcheggio della rete televisiva. Questa volta qualcuno mi seguì davvero. All'inizio non ne ero sicuro e mi chiedevo se il tempo trascorso immerso nei racconti di fuggiasco di Crevolin non mi avesse reso paranoico. Il primo sospetto lo ebbi all'angolo per l'Olympic e La Cienega, appena a est di Beverly Hills, mentre guardavo, socchiudendo gli occhi, la luce accecante di un tramonto argentato che attraversava le lenti dei miei occhiali. Una macchina marrone chiaro, a due lunghezze da me, cambiò corsia proprio nel momento in cui i miei occhi guardavano per la ventesima volta nello specchietto retrovisore. Rallentai. La macchina marrone chiaro rallentò. Guardai dietro cercando di scorgere il conducente, vidi solo una sagoma indistinta, anzi due sagome. Rallentai ancora e come ricompensa per i miei sforzi ricevetti rabbiosi colpi di clacson. Accelerai. La macchina marrone chiaro restò indietro, facendo aumentare la distanza fra noi. Procedemmo così per un po', poi presi un semaforo rosso a La Peer. Quando il traffico si rimise in movimento, mi spostai lentamente sulla corsia veloce e, in quella ressa, aumentai il più possibile la velocità. La macchina marrone restò sempre più indietro fino a
confondersi nella massa anonima di veicoli. A Doheny Drive non riuscivo più a vederla. Un altro semaforo a Beverly. Di nuovo dietro di me. A due lunghezze. Solo a Roxbury riuscii a tornare nella corsia veloce. La macchina marrone chiaro mi seguì per tutto il tratto fino alla Century Fox. Il sole era quasi tramontato. Cominciarono ad accendersi i primi fari. Della macchina marrone chiaro rimasero soltanto due luci gialle, irriconoscibili dalle altre centinaia presenti. La perdita di visibilità mi fece sentire indifeso, anche se sapevo di essere meno facilmente individuabile. La rabbia soppiantò la paura. E mi fece sentire molto meglio. Poco prima di Overland, mi spostai bruscamente sulla corsia centrale, poi su quella di destra e, subito dopo un negozio Ralph, girai di scatto in una strada laterale. Accelerai per un centinaio di metri, spensi le luci, mi fermai accostato al marciapiede e aspettai col motore acceso. Per parecchi minuti non successe niente. Aspettai. Ero ormai quasi certo che fosse tutto frutto di paranoia, quando sentii il ronzio di un motore d'automobile proveniente dall'Olympic. La sentivo, ma non la vedevo. Un'immagine appena distinguibile apparve sullo specchietto retrovisore, solo qualche riflesso di cromatura sotto i lampioni: una macchina che procedeva lentamente verso di me a fari spenti. Il ronzio crebbe di intensità. Mi lasciai scivolare sul sedile. Poi la macchina passò a venti all'ora. Una berlina Plymouth. Non molto diversa da quella usata da Milo. Simile all'auto che aveva pensato ci seguisse mentre andavamo all'Holocaust Center. Venti chilometri all'ora. Velocità di crociera. Quella delle macchine della polizia quando ci sono guai in vista. Il motore della mia macchina improvvisamente mi sembrò assordante. Dovevano sentirlo. Avrei dovuto spegnerlo... Ma la macchina marrone chiaro continuò ad avanzare, girò a destra, scomparve. Partii a fari spenti e la seguii. La raggiunsi proprio mentre stava per girare ancora a destra. Cercai di leggere il numero di targa, non ci riuscii, mi avvicinai ancora. Ma non abbastanza per distinguere qualche particolare delle due persone che l'occupavano. Diedi un colpetto all'acceleratore e arrivai talmente vicino da rischiare di
tamponarli. Accesi i fari. Targa non rifrangente, un numero, due lettere, altri quattro numeri. Scattai mentalmente una fotografia e la sviluppai proprio mentre la persona che sedeva a destra si girava di scatto per guardare. La berlina marrone chiaro si fermò bruscamente. Pigiai sui freni per non tamponarla. Per un istante pensai che ci sarebbe stato uno scontro ed ero pronto a fare marcia indietro. Ma la macchina sgommò e partì a gran velocità. La lasciai andare tenendo a mente le lettere e i numeri finché non arrivai a casa. Cercai senza successo di parlare con Milo; dove diavolo si era cacciato? Chiamai a casa e trovai la segreteria telefonica. Chiamai il pronto soccorso del Cedars-Sinai e chiesi del dottor Silverman. Rick era proprio nel mezzo di un intervento chirurgico e non poteva venire al telefono. Chiamai ancora la segreteria telefonica e recitai il numero di targa della macchina marrone chiaro, spiegai perché era importante rintracciare il proprietario il più presto possibile e feci un breve resoconto di quanto avevo appreso da Terry Crevolin. Parlavo alla macchina come se fosse un essere vivente, un vecchio amico. Mahlon Burden sarebbe stato orgoglioso di me. Quando ebbi finito, telefonai a casa di Linda. «Ciao», disse, «hai già visto?» «Visto cosa?» «La verità su Massengil data in pasto al pubblico, proprio adesso, sul notiziario delle sei. Richiamami quando ne hai abbastanza.» Il telegiornale stava assassinando per la seconda volta l'ormai ex deputato e questa volta in un modo neanche lontanamente simile a quello preciso e pulito dell'imboscata nel cortile della casa di Sheryl Jane Jackson. Una foto di Massengil che avrebbe potuto essere una fotografia segnaletica. Una vecchia foto di Cheri T, con una testa di capelli ricci e ombretto bianco sugli occhi, che era veramente un reperto della polizia. Il fotografo del carcere aveva immortalato la prostituta dagli occhi infossati e con il coltello a serramanico nella borsetta che un tempo era stata. La conduttrice continuava, gongolante, con voce appassionata a parlare di sesso a pagamento... l'esatta relazione fra le due vittime e la Jackson non è ancora stata del tutto chiarita... scandalo di sesso... sesso sesso sesso... la reputazione di Massengil come politico fautore della legge e dell'ordine,
che aveva fatto della lotta alla pornografia uno dei suoi cavalli di battaglia... ventotto anni di presenza nell'assemblea legislativa patrocinando... sesso... psicologo consulente... sesso... Avrebbe potuto fare a meno di parlare. Le fotografie valevano più di un milione di parole. Massengil che tuonava a bocca spalancata, il faccione ipocrita di Dobbs. Gli occhi di Cheri, pieni di corruzione e di sfida. C'era ora un servizio filmato. Ocean Heights. La vedova Massengil che usciva dalla porta d'ingresso diretta verso una macchina in attesa, vestita di nero, con il viso e i bianchi capelli vaporosi nascosti dal velo e dalle mani. Incespicava, si piegava sostenuta dai quattro figli. Lampadine di flash che scoppiettavano, microfoni che si proiettavano in avanti. I famigliari del defunto che passavano in fretta con la dignità di criminali di guerra trascinati a spintoni davanti al tribunale. Il commentatore politico della rete televisiva entrò in scena chiedendosi chi avrebbe occupato il posto di Massengil per il resto della legislatura. Apparentemente c'era un meccanismo politico attivabile: poiché la morte di Massengil era avvenuta dopo il termine entro il quale era possibile proporre i candidati per la nuova legislatura, non ci sarebbe stato un voto suppletivo e il suo posto sarebbe rimasto vacante per gli ultimi otto mesi della legislatura. La tradizione voleva che esso fosse occupato dalla vedova, ma le rivelazioni di quel giorno facevano di lei un candidato improbabile. Facce di possibili candidati si susseguirono rapidamente sullo schermo. Un vicesindaco di cui non avevo mai sentito parlare. Un ex giornalista televisivo, con l'ossessione di separare la carta dal resto dell'immondizia, che ritornava a galla ogni qualche anno per recitare la parte di un Harold Stassen minore ed era visto come la barzelletta della città. Poi Gordon Latch. Il commentatore riferì che, secondo voci non ancora confermate, Latch stava prendendo in considerazione l'idea di concorrere per il posto vacante. Poi venne un servizio che lo mostrava seduto alla sua scrivania intento a dribblare domande e a far sapere ai telespettatori che «in periodi difficili come quello attuale dobbiamo lavorare tutti insieme per non accondiscendere al carrierismo. I miei pensieri più sentiti vanno a Hattie Massengil e ai figli. Esorto voi tutti ad astenervi da qualsiasi inutile crudeltà». Spensi il televisore e richiamai Linda. «Ne ho abbastanza.» «Non ero una sua ammiratrice», disse, «ma detesto il modo in cui la sua povera famiglia viene trascinata in mezzo al fango.» «Ieri eroe, oggi verme.»
«Perché adesso? Un giorno dopo? La polizia lo sapeva da subito.» Ci pensai. «Frisk aveva strappato a Milo il caso per la potenziale gloria che poteva derivargliene. Ma forse ha avuto il tempo di rifletterci, di esaminare i fatti e si è reso conto che avrebbe probabilmente richiesto molto tempo. Un caso importante è un'arma a doppio taglio. Se non saltano fuori indiziati, si corre il rischio di apparire incompetenti agli occhi dell'opinione pubblica. Ovviamente c'è anche la possibilità che non sia stato Frisk a far trapelare la notizia.» «Latch?» «È possibile, no? Ho visto almeno due casi in cui Latch ha mostrato di conoscere gli itinerari di Massengil, forse ha una talpa tra il personale di Massengil e ha scoperto le sue attività extra. Non che sia il solo a poter essere sospettato. Massengil aveva molti nemici a Sacramento: non mancano certo persone che lo odiano al punto da voler sputare sulla sua tomba. Forse Latch ha solo usato la notizia, afferrato la palla al balzo trasformandosi da conciliatore a contendente. Rientra nel suo stile: un vero talento nel sopravvivere prosperando sulle disgrazie altrui.» «Un animale saprofago», commentò, «un avvoltoio. O un verme.» «Mi viene in mente uno scarabeo stercoraio», dissi. Rise. «Bene, visto che abbiamo evocato immagini così appetitose, hai già cenato? Questa sera mi è venuta voglia di cucinare.» «Mi piacerebbe, ma non è la sera giusta.» «Oh.» Sembrò addolorata. «Ho voglia di vederti. Ma...» dissi. «Ma cosa, Alex?» Inspirai profondamente. «Ascolta, non voglio spaventarti, ma sono quasi sicuro che qualcuno mi ha seguito questa sera. Non credo sia la prima volta.» «Di cosa stai parlando?» «La sera in cui siamo stati a cena a Melrose, mi è sembrato che qualcuno fosse uscito insieme a noi e ci avesse seguito per un po'. Al momento ho pensato fosse solo un'impressione, ma ora non lo penso più.» «Parli seriamente?» «Purtroppo sì.» «Perché non me lo hai detto quella sera? Quando lo hai sospettato per la prima volta?» «Ho pensato davvero che fosse solo frutto della mia immaginazione e non ho ritenuto opportuno dirtelo. Poi, mentre eravamo in macchina in-
sieme, Milo mi ha detto che ci stava seguendo qualcuno. Lui pensa che sia Frisk. O qualcun altro nel dipartimento di polizia. Non è molto popolare nell'ambiente.» «Ma perché avrebbero dovuto seguire anche te?» «Perché sono suo amico. Ma non preoccuparti per questo: avrò subito una risposta. Ho il numero di targa della macchina che mi ha seguito oggi. Non appena riuscirò a parlare con Milo, potremo risalire al proprietario.» «Non devo preoccuparmi, eh? E tu hai paura di stare con me questa sera.» «È... è che non voglio farti correre nessun... pericolo.» «Se è la polizia? Perché dovrebbe costituire un pericolo per me? Ho pagato tutti i biglietti del parcheggio.» Non dissi niente. «Alex», fece lei. Inspirai ancora, soppesai bene le parole prima di pronunciarle e le raccontai tutto. Novato, Gruenberg, Crevolin, Bear Lodge. Quando ebbi finito disse: «Perché non me lo hai detto prima?» Il gelo. «Forse volevo essere... protettivo.» «E cosa ti ha fatto pensare che avevo bisogno di essere protetta?» «Non è così», risposi, «questa storia non aveva niente a che fare con te. Stavamo passando dei bei momenti insieme. Non volevo... rovinarli.» «Così mi hai tenuto all'oscuro.» «Ma non per motivi meschini...» «Okay. Ti auguro di trascorrere una buona serata.» «Linda...» «No», soggiunse, «non dire altro. Ne ho abbastanza. E non ti preoccupare per me: sono una ragazza cresciuta, non ho bisogno di protezione.» Riattaccò. Quando cercai di richiamare, la linea era occupata. Provai con il centralino della compagnia telefonica, ma mi informarono che la cornetta era fuori posto. Solo. I miei pensieri si fecero sempre più neri. Fabbriche di bombe. Livelli. Conversioni politiche. Un filo comune collegava tutto. Latch. Pensai al lungo processo di ricostruzione di un'immagine che aveva trasformato Harry Hanoi in un uomo pubblico. Quegli anni di isolamento con
Miranda in qualche punto del Northwest. Anni di isolamento dopo Bear Lodge. Tempo, soldi e sorriso facile. Cos'altro serviva a un politico degli anni Ottanta? Ma cosa ne sarebbe del sorriso se i soldi smettessero di arrivare? Ricordai l'atteggiamento di Miranda Latch al concerto e mi chiesi per quanto tempo ancora il rubinetto sarebbe rimasto aperto. Pensai a qualcuno che sarebbe stato in grado di dirmelo. Il tribunale superiore era ormai chiuso da ore, ma ero quasi sicuro di avere il numero di casa di Steve Hupp nel mio Rolodex. Andai nella libreria e lo trovai. Un prefisso di Pasadena. Rispose una voce femminile molto briosa, che parlava facendo lunghe pause e con un accento scandinavo. «È la casa del giudice Hupp.» «Vorrei parlare col giudice, per favore.» «Chi lo desidera?» «Alex Delaware.» «Un attimo.» Dopo neanche un secondo arrivò Steve. «Ehi, Alex. Come mai questa telefonata?» «Ho bisogno di un piccolo favore... un'informazione.» «Che tipo di informazione?» «Vorrei sapere se una certa parte ha presentato richiesta di separazione recentemente. Viola qualche canone di etica professionale?» «No, è un documento pubblico, a meno che non sigilliamo la documentazione su richiesta delle parti. Ma siamo restii a sigillare. Deve esserci un valido motivo per farlo. Non che andiamo in giro a dare informazioni. Perché vuoi saperlo?» «È collegato a un caso su cui sto lavorando.» «Significa che non puoi dirmelo.» «Beh...» Rise. «Alex, Alex. Non hai ancora imparato che le strade a senso unico non vanno molto lontano. D'accordo, per te lo faccio. Ricordo i casi sgradevoli che mi hai aiutato a risolvere. Qual è il nome della parte?» Glielo dissi. «Il suo avvocato ha presentato una richiesta preliminare un paio di settimane fa. Pensi che sarà un caso difficile?» «Potrebbe. Ci sono di mezzo molti soldi.» «Tutti della moglie. Non credo che lui chiederà gli alimenti. Non gioverebbe molto alla sua immagine pubblica, no? Giovane uomo in ascesa vìve
mantenuto dalla moglie.» Mi sentivo nervoso a stare in casa, così decisi di uscire finché non fossi riuscito a parlare con Milo e a scoprire chi c'era nella macchina marrone chiaro. Un altro giro in macchina fino alla costa mi sembrava una buona idea. Ero appena fuori dalla porta quando chiamò il mio servizio di segreteria telefonica. «Dottor Delaware, ehi!», disse un'operatrice di cui non conoscevo la voce, «è da mezzogiorno che non chiama per i suoi messaggi e ce n'è un mucchio.» «Niente di urgente?» «Mi faccia guardare... no, non mi sembra. Ma l'ispettore Spurgis...» «Sturgis.» «Ah. È una 't? Sono nuova qui. Lo ha preso Flo... non riesco a leggere la sua scrittura. Okay, l'ispettore Sturgis ne ha lasciato uno molto lungo. Vuole che lo metta via o che glielo legga?» «Lo legga per favore.» «D'accordo, vediamo... Ha detto che le cose sono arrivate più in alto lineetta F maiuscola E maiuscola D maiuscola. Immagino si pronunci FED, per lo meno questo è quanto ha scritto Fio. F maiuscola E maiuscola D maiuscola. O forse è una T. Le cose sono arrivate più in alto FED. O TED. Ma il suo nome non è Ted, per cui immagino sia FED. Comunque, le cose sono arrivate più in alto lineetta FED. Sarai contattato. Non ti muovere. Ha capito?» «Sì, ho capito. A che ora ha chiamato?» «Vediamo... qui c'è scritto alle cinque e mezzo.» «Grazie.» «Lei riceve proprio dei bei messaggi, dottor Delaware. Deve avere una vita interessante.» 32 Non mi mossi. Bussarono alla porta alle 11.23. Un doppio colpetto seguito da una scampanellata energica. «Chi è?» «FBI, dottor Delaware.» «Posso vedere il tesserino, per favore?» «Certamente, dottore. Glielo metto davanti allo spioncino.»
Guardai attraverso il foro, ma non riuscivo a vedere molto, anche dopo aver acceso la luce del pianerottolo. «E se lo infilasse nella fessura per la posta?» Esitazione. Consultazioni a bassa voce. «Mi dispiace dottore, ma non possiamo farlo.» Lasciando la catenella inserita, aprii la porta di qualche centimetro. «Ecco, dottore.» Una mano che reggeva una piccola custodia in pelle venne avanti. Distintivo dorato da un lato, tesserino con fotografia dall'altro. La foto era quella di un uomo di quasi trent'anni. Capelli castani tagliati corti, con la scriminatura di lato. Faccia piena, lineamenti marcati. HOYT HENRY BLANCHARD, AGENTE SPECIALE, FEDERAL BUREAU OF INVESTIGATION. U.S. DIPARTIMENTO DI GIUSTIZIA. Sganciai la catenella e aprii completamente la porta. La versione in grandezza naturale della fotografia era in piedi sul pianerottolo e indossava un vestito grigio, camicia bianca, cravatta blu con una striscia color argento. Alto più di un metro e ottanta, costituzione snella in contrasto con la faccia piena. Un paio d'occhiali con lenti squadrate e montatura metallica rendevano vago il colore dei suoi occhi. Dietro di lui c'era una donna circa della stessa età. Capelli biondo sporco pettinati alla paggio, occhiali con montatura d'oro. Ci stringemmo la mano. «Lei è l'agente speciale Crisp.» Crisp non sorrise né porse la mano. Era bassa, con la vita lunga e i polpacci robusti. La sua tenuta sembrava dire «non c'è tempo per le chiacchiere»: tailleur blu scuro con una blusa bianca a collo alto, borsa nera di finta pelle, grande abbastanza da contenere la spesa di un giorno. Blanchard disse: «Lei è prudente, dottore. È saggio da parte sua». «Con tutto quello che è successo...» dissi. «Certamente. Ci scusi per l'ora.» «Ero alzato.» Fece cenno di sì. «Così ha ricevuto il messaggio.» «Sì. Cosa posso fare per voi?» «Vorremmo farle delle domande.» «A proposito di che?» Si concesse un breve sorriso: «Tutto quanto è successo». Mi feci indietro: «Prego entrate». «Veramente», disse Blanchard, «preferiremmo che lei venisse con noi.»
«Dove?» Crisp si mostrò irritata per la domanda. Per il fatto stesso che io la facessi. I due si guardarono l'un l'altro. Un altro sorriso mite da parte di Blanchard. «Ci dispiace dottore. Veramente non siamo autorizzati a dirle dove finché lei non acconsente a venire: so che la situazione può sembrarle assurda e sgradevole, ma non possiamo farci niente.» «Disposizione sulla trasmissione di informazioni, signore», disse Crisp. La sua voce era rauca. «Quando si tratta di problemi attinenti alla sicurezza non siamo autorizzati a discuterne fuori dai luoghi stabiliti.» Poliziotti veri o poliziotti falsi? C'era una ragione per pensarlo o era solo la forza dell'abitudine? «Sarà presente anche l'ispettore Sturgis?» chiesi. Blanchard si schiarì la gola. «Come ha detto l'agente Crisp, non siamo autorizzati a fornire nessuna informazione fuori dal luogo a ciò deputato. Ma diciamo che le sue aspettative nei confronti dell'ispettore Sturgis hanno ottime probabilità di essere soddisfatte.» Poi aggiunse: «Non abbia paura. Siamo le persone giuste». «Senza offesa», replicai, «ma a volte è difficile capirlo.» L'espressione del suo viso mostrò che si era offeso. Ma esibì un altro sorriso e disse: «Posso immaginarlo». Crisp diede qualche colpetto al suo orologio e disse: «Torniamo domani mattina con una richiesta ufficiale, Hoyt». Blanchard la ignorò e disse: «Sa cosa le dico, dottore... le do un numero che può chiamare per verificare la fondatezza della nostra richiesta». «Che ne dice se parlo con l'ispettore Sturgis?» «In linea di principio va bene, ma il problema è che non è raggiungibile per telefono, solo con la radio su una banda riservata.» Appoggiò il dito sulla bocca e pensò. «Sa cosa le dico: forse posso raggiungerlo con l'unità ricetrasmittente che abbiamo in macchina.» A Crisp: «D'accordo, Audrey?» Lei gli lanciò uno sguardo annoiato. «Okay, andiamo in macchina», disse Blanchard. «No: meglio ancora. Vado alla macchina e porto su l'unità ricetrasmittente.» «Bene.» Si girò e fece un passo. La borsa di Crisp scivolò dalla sua spalla e cadde con un rumore sordo sul pianerottolo.
Mi chinai, la raccolsi e gliela diedi. Da vicino la ragazza odorava di gomma alla cannella e aveva una pelle granulosa sotto uno strato di trucco uso pancake. «Grazie», disse. Finalmente un sorriso su quelle labbra perennemente atteggiate al rimprovero. Usò una mano per prendere la borsa, tirò indietro l'altra toccandosi la fronte e sistemandosi i capelli, che non avevano bisogno di essere sistemati. Poi l'abbassò e l'affondò nel mio plesso solare, irrigidendo le dita in una posizione di karatè fino a trasformare la mano in un pugnale. Una scossa elettrica. Mi mancò il respiro, inspirai, mi afferrai la pancia piegandomi in due. Prima che potessi raddrizzarmi, qualcuno dietro di me, doveva essere il sorridente Blanchard, spinse una mano sulla parte bassa della mia schiena, scuotendomi le reni e mi passò un braccio intorno al collo. Una macchia confusa che doveva essere una manica grigia. Un cappio grigio. Sotto il tessuto muscoli solidi premevano contro la mia carotide. Mi sentivo svenire. Vidi Crisp. Mi osservava divertita. Blanchard continuava a premere. Volevo dirgli cosa pensavo di lui: come era stato sleale pretendendo di essere un vero poliziotto... Le mie gambe cedettero. Un buio pesante, nero come il petrolio, calò intorno a me... eclissi totale di... Rinvenni sul sedile posteriore di una macchina: ero sdraiato di traverso, con i polsi legati dietro la schiena. Mossi un dito, sentii qualcosa di duro, caldo: non era metallo. Non erano manette. Lo toccai ancora. Una specie di legaccio di plastica. Tipo quelli usati dalla polizia quando devono legare in fretta. Riuscii a mettermi seduto. Sentivo la testa come se me l'avessero schiacciata per farne una spremuta. La gola era infiammata come una bistecca alla tartara. Mi rombava in testa un rumore simile a quello che si sente portando una conchiglia all'orecchio e la vista era appannata. Battei gli occhi più volte per cercare di vedere più chiaro... cogliere qualche immagine dei luoghi che attraversavamo... trovare punti di riferimento. Blanchard era al volante. Crisp accanto a lui. La macchina fece una brusca sterzata. Rotolai, mi contorsi, lottai per restare seduto e persi. Sbattei la testa contro il pannello della portiera. Una fitta di dolore, poi la nausea si fece strada nelle mie viscere, come dopo il pugno che mi aveva tolto il respiro.
Gli occhi mi si strinsero ed emisi un gemito involontario. «Si sta svegliando», disse Crisp. Blanchard rise. Nessun contrasto fra loro adesso. Due poliziotti falsi. Mi sembrava che ci stessimo muovendo molto velocemente, ma poteva essere la mia testa che girava in fretta. Lottai contro la nausea e riuscii a rimettermi seduto. Cercai di parlare, ma emisi solo suoni: «Ca... chi...» Mi facevano male le tonsille. «Parla», disse Crisp. «Se sapesse cosa lo aspetta, chiuderebbe il becco», disse Blanchard. Schiacciai la faccia contro il vetro del finestrino. Freddo, attenuava il dolore. Fuori, ancora buio pesto. Battei ancora gli occhi. Li aprii e aspettai che si abituassero all'oscurità. Alla fine ci riuscii. Ma tutto era offuscato. Mettere a fuoco faceva male. Guardai ugualmente. Cercando di capire dove eravamo. Il nero diventò grigio. Grigi. Una varietà di grigi. Contorni, ombre, prospettive. È sorprendente quanti grigi ci sono quando hai il tempo di osservarli... Strade deserte. «Osserva», disse Crisp. Si girò e mi guardò. La sua faccia da scimmia mi ricordava la copertina di un libro di Stephen King. «Vuoi sapere dove siamo, bello?» disse. «La Valley. Ti va di essere un ragazzo della Valley questa sera?» Legato ma non bendato. Non si preoccupavano di quanto vedevo. La spazzatura non può nuocere. Cacciai via questi pensieri dalla mente e mi sforzai di restare lucido. Ignorando le budella deboli, il cuore martellante, il rumore da scroscio d'acqua che avevo in testa. Blanchard accelerò e la macchina scattò in avanti. I miei occhi finalmente vedevano chiaramente. Un centro commerciale non illuminato. Pigri lampioni che emettevano una luce color urina sopra negozi sbarrati con le assi, segnali stradali spaccati o mancanti, muri con rivestimenti plastici coperti dalla saggezza a spray delle gang. Un parcheggio vuoto in cui erano spuntate erbacce. La parte brutta della Valley. Blanchard prese un'altra serie di curve secche che i miei occhi non riuscivano a scorgere.
Cartelli qua e là. CIUDADO CON EL PERRO. MAGAZZINI DOGANALI... DEPOSITO... VIETATO L'INGRESSO! Poi un cartello riflettente arancione, splendente come una gemma: FINE DELLA PAVIMENTAZIONE STRADALE. Blanchard proseguì per qualche altro minuto lungo una strada polverosa su cui la macchina sobbalzava, poi si fermò davanti a un cancello di lamiera chiuso con un lucchetto. Crisp uscì dalla macchina, facendo entrare puzza di benzina. Sentii forzare, sferragliare, stridere e cigolare. Tornò dentro e disse: «A posto». L'odore di benzina fu lento a svanire, come se i suoi vestiti ne fossero impregnati. Blanchard oltrepassò il cancello. Crisp scese di nuovo, lo chiuse e ritornò. L'auto avanzò in uno spazio vuoto, superando diversi veicoli parcheggiati in diagonale. Maggiolini Volkswagen. Blanchard si spinse oltre e si fermò davanti a una banchina di cemento. Scorsi una scala metallica. Una piattaforma di carico. Dietro di essa il profilo di una struttura massiccia dalle pareti piatte: quindici metri di massa compatta non illeggiadriti da alcun dettaglio architettonico. Una luce sulla sinistra, una lampadina a basso voltaggio che scalfiva in superficie l'oscurità come il segno di una matita colorata. Illuminava la parte superiore di una porta con la grata. Sulla destra una porta più grande, larga quanto tre garage, di lamiera ondulata. La porta più piccola si aprì. Ne uscirono tre figure. Uomini della notte. Blanchard spense il motore. Crisp saltò fuori come un bambino che va a una festa di compleanno. Rumore di passi trascinati. La portiera posteriore destra si aprì. Prima che potessi vedere le loro facce, mi afferrarono le caviglie e mi tirarono facendomi scivolare fuori dalla macchina. Mentre emergevo, alcune mani mi afferrarono alla cintola e sotto le ascelle. Con le dita che affondavano. Fui trasportato con la stessa cura che si usa per un sacco di carne andata a male. Era ora di buttar via la spazzatura. 33 Gli ci volle un po' per riuscire ad aprire la porta. Udii scatti e ronzii: una serratura a combinazione azionata elettronicamente. Non parlava nessuno. Mi tenevano per le gambe e le braccia, il tronco penzolava e le articolazio-
ni erano doloranti. Fissavo le gambe dei pantaloni e le scarpe... Clic. Dentro. Al livello del pavimento. Pavimento di cemento. Freddo, aria condizionata, o forse stavo tremando per un altro motivo. Mi portarono in silenzio, quasi stessero trasportando una bara, attraverso un corridoio dalle pareti alte marrone chiaro. Il marrone del cartone. Pareti divisorie. Porte di compensato. Un magazzino in cui erano stati ricavati spazi più piccoli. Illuminato irregolarmente. Chiazze di cemento illuminate si alternavano a spazi bui in cui mi sembrava di scomparire. Poi alcuni rumori: il ticchettio di una macchina per scrivere. Bip di computer. Strofinio di suole. Ancora cartone. Scatole, pile di scatole. Scorsi una scritta. Stampigliata in nero: MATERIALE STAMPATO. TARIFFA SPECIALE. Su un gran numero di scatole. Poi altre con stampato MACCHINARIO. FRAGILE. Uno sprazzo di giallo. Mi girai per vedere cosa fosse. Un elevatore a forca. Poi un altro. Parecchi veicoli più piccoli che sembravano falciatrici da prato con seggiolino. Ma non c'era puzza di benzina qui. Solo la spumeggiante, rispettabile fragranza della carta fresca di stampa. Respiri affannosi di chi mi portava. I miei occhi passarono in rassegna le gambe dei pantaloni. Qualche paio di polpacci coperti da calze da donna. Cominciai a contare i piedi. Due, quattro, sei, otto, dieci... cercai di allungare il collo verso l'alto, mi feci male alla schiena e non riuscii a scorgere le facce. Il corridoio girò bruscamente a sinistra. Il mio viaggio come trofeo di caccia continuò per altri venti passi prima di arrivare a uno stop improvviso. Respiri ansimanti, traspirazione da spogliatoio di palestra. Le mani che mi reggevano si sollevarono e ruotarono. A un tratto fui in piedi, con le braccia ancora legate dietro la schiena. Mi ritrovai a faccia a faccia con loro. Blanchard. Che cercava di sorridere mentre ansimava. Gli altri. Una decina. Più giovani. Dall'aspetto curato. Li conoscevo senza conoscerli. Li avevo visti a scuola. Presenti a un attentato. Mentre si divertivano a un concerto. Con gli occhi raggianti, allora. Con occhi spenti adesso. Facce plasmate dal fango dell'obbedienza. Come se la luce interiore di ognuno fosse stata spenta. Annullamento della personalità. L'altra volta erano vestiti con eleganza. Questa sera la tenuta era diversa: maglioni neri a collo alto su jeans e scarpe da tennis neri. L'abbigliamento adatto per un'intera notte di attesa in una baracca. O un omicidio nel cortile
di una casa. «Salve, ragazzi. Portatemi dal vostro capo.» Il mio saluto riuscì a scuoterne un paio fuori dalle fantasticherie da zombi. Blanchard avanzò e mi diede un manrovescio in pieno viso. La mia testa vibrò per il colpo. Mi concentrai su qualcosa di diverso per distogliere i miei pensieri dal dolore e dalla paura. Guardai dietro di loro. Uno stretto passaggio creato da due pile di scatole di MATERIALE STAMPATO. Proprio davanti a me c'era una porta di legno nera, con dipinto qualcosa: un cerchio rosso con dentro una punta di lancia. Qualcuno sbucò da dietro gli scatoloni. Venne ancheggiando verso di me. Beth Bramble in un vestito nero a maniche lunghe. I capelli tirati indietro. Orecchini cromati a forma di saette pendevano dai lobi. Mi sforzai di schiarirmi la voce e dissi: «In lutto per la scomparsa dell'amato leader?» mi faceva male parlare. Venne più vicino muovendo le labbra come per ripetuti baci. Mi diede un buffetto sul mento. Mi pizzicò sulla guancia che aveva schiaffeggiato Blanchard. Mi pizzicò ancora, più forte, torcendo le dita e sorrise. Nonostante il dolore dissi: «Sei qui in missione, Beth? Niente di meglio dell'avere conoscenze nel campo avversario». Sorrise e disse: «Fatti fottere, caro», mi pizzicò ancora, fece scorrere le dita lungo la camicia, poi sulla patta. Si fermò lì e mi diede un bel colpo di clacson. Qualcuno ridacchiò. Bramble strizzò l'occhio ai più giovani, si girò e scomparve dietro gli scatoloni. Blanchard bussò alla porta nera. Una debole risposta dall'altra parte. Blanchard la aprì, mise dentro la testa, e disse: «È qui, DF. Tutto liscio come l'olio». Un'altra risposta a bassa voce. Fui spinto dentro e la porta venne sbattuta dietro di me. La stanza non era molto grande, un quadrato di cinque metri per cinque, scarsamente illuminato. Pavimento di linoleum marrone consumato al punto da far trasparire qua e là la soletta di cemento, pareti a blocchi dipinte di bianco, soffitto a isolamento acustico deformato e annerito dalla muffa in più punti. Fori di ventilazione di lamiera scaricavano aria viziata e gelida. Al centro c'era una scrivania grigioverde che doveva essere un surplus
dell'esercito. Davanti due sedie metalliche verdi. Altre sedie erano piegate in un angolo. Sulla scrivania un apparecchio telefonico multilinee e un mucchietto di carte fermato da un proiettile d'artiglieria annerito. La parete sinistra era occupata da un divano che sembrava di terza mano. Nouveau bunker. Tutto quel grigiore da comando generale contrastava abbastanza con ciò che copriva la parete dietro la scrivania. Una bandiera grande quanto quella sul municipio. Mussola nera con un bordo di raso rosso. Nel centro il disegno in rosso di una punta di lancia cerchiata. Gordon Latch era seduto sul divano, indossava un paio di pantaloni neri con doppia piega, stretti in fondo e con risvolti sottili, stivali di serpente neri con mezzi tacchi, una camicia di seta nera, molto larga, abbottonata al collo con l'apparente cattivo gusto molto amato da attori e spacciatori. La camicia aveva due tasche con patte, bottoni di madreperla, e pretenziose spalline. Lance cromate brillavano sulle punte delle mostrine. Le gambe erano accavallate, la posizione rilassata: la casuale ma calcolata indifferenza dell'ospite prediletto del talk-show di fine serata. Mi lanciò un sorriso di vittoria. Il sorriso si affievolì. Il suo trionfo era guastato da qualcosa... Guardai verso la scrivania verde e capii. Dietro, seduto su una sedia girevole, c'era Darryl «Bud» Ahlward. La sua uniforme era identica a quella di Latch, tranne che per la chiazza variegata di decorazioni militari sopra entrambe le tasche della camicia e una fondina di cuoio da spalla da cui sporgeva il calcio nero di una pistola. Lance d'oro sulle sue mostrine. Nonostante il taglio generoso, la camicia gli tirava sotto le braccia. Sedeva molto dritto e fermo, con gli occhi statici, immobili. Mi girai nuovamente verso Latch e dissi: «Splendida piccola inversione di ruoli. Ancora al secondo livello, eh Gordon?» Latch si tirò su a sedere e cominciò a parlare. Ahlward gli inchiodò le parole in gola con una rapida occhiata. Latch si girò da un'altra parte, riaccavallando le gambe e ostentando noia. «Allora è così che si vestono i soldati alla moda quest'anno. Qual è il saluto ufficiale? Sieg Heil Ciao?» dissi. Ahlward allungò la mano attraverso il petto ed estrasse la pistola dalla fondina: un affare grosso e nero con una lunga canna e una sagoma hightech. L'accarezzò, poi la puntò contro di me. «Siediti.» «O è moda maschile über Alles?» dissi.
Latch disse: «Stronzo». Finsi stupore. «Vediamo un po' chi sei, Gordie? Goebbels o Goering? Devi essere Goering perché mi sembra che sotto quella camicia larga spunti una pancetta. E l'affascinante signorina Crisp? Avrà la parte di Eva Brown nella parata di questa sera, o quello è il ruolo di Beth Bramble?» Ahlward prese la mira con la grossa pistola nera. Il suo occhio sinistro era chiuso. Lottai per tenere gli occhi aperti, guardando fisso davanti. Dietro di lui. Concentrandomi sul disegno della lancia, che brillava rosso e minaccioso. Pensando alle foto dell'esposizione. Un giorno d'inverno in Baviera. Corpi che cadono in una fossa. Ahlward disse: «È ora di parlare, stronzo». E agitò la pistola. «E perché dovrei farlo?» replicai. Ahlward sorrise. «Perché», disse, «ogni secondo è prezioso. Tutti pensano di essere immortali. È sorprendente cosa può fare una persona, come può sprofondare in basso, per guadagnare una manciata di secondi.» «È sicuro?» «Un dato scientifico. Butta un ebreo nell'acqua gelata e guardalo prolungare la sua agonia solo per guadagnare secondi. Sono sicuro che coopererai», disse Ahlward, «che alternativa hai?» «L'alternativa è mandarti a farti fottere.» Ahlward mise via la pistola e schiacciò un bottone del telefono. Un breve squillo. Prese la cornetta e disse: «Adesso». Si ributtò all'indietro e incrociò le braccia sul petto. La stessa posizione che avevo visto qualche giorno prima dentro una classe. Si sentì un solo colpo alla porta. Ahlward disse: «Avanti». Due dei ragazzi dall'aspetto ordinato entrarono tenendo stretto qualcosa di grosso, bianco e floscio. Tutti e due erano robusti e molto giovani. Uno biondo con una brutta acne. L'altro con capelli scuri e baffi sottili. Vent'anni al massimo. Avrebbero dovuto essere in giro a fare a botte o a cercare di divertirsi con poco. Erano in piedi sull'attenti, sinistri, svuotati nell'anima. Quella cosa bianca tra le loro mani era Milo, con la testa a penzoloni e i talloni che strisciavano. Un peso morto. Il cuore mi balzò in gola e rimasi senza fiato. Gli andai incontro. Ahkward afferrò la pistola. «Non ti muovere.» Guadagnare secondi.
Restai fermo e guardai il mio amico. Era scalzo ed era rimasto in maglietta e pantaloni. La maglietta era strappata e macchiata di sangue. Gli occhi chiusi e gonfi, le labbra spaccate in un paio di punti e tumefatte. Rivoli di sangue secco gli solcavano la faccia, scendevano sul mento e sulla camicia. Uno squarcio sulla maglietta gli scopriva la spalla. Scorticata e ancora sanguinante. Lividi blu e marrone si allargavano sulle braccia. Nonostante la mole, sembrava piccolo. La testa si abbassò ancora e ballonzolò. Vidi altro sangue sulla calotta che incrostava i capelli. Dove non era stata danneggiata, la sua pelle, già pallida, aveva il colore di porcellana sporca di un malato terminale. Un leggero movimento ritmico sotto la maglietta. Respirava ancora. Inspirò con un brontolio aspro. Latch ghignò. Anche i ragazzi in nero risero. «Milo», dissi più forte di quanto intendessi fare. Con un tono disperato nella voce. Il viso restò immobile, ma qualcosa passò attraverso le labbra tumefatte. Per metà sospiro, per metà conato di vomito. Non riuscivo a capire se fosse stato volontario. Ahlward mi disse: «Ecco cosa farai adesso: ti metterai subito seduto e non mi racconterai balle, o io andrò da quel fesso del tuo amico e lo torturerò davanti ai tuoi occhi. E quando non servirà più, gli farò saltare le cervella, facendo in modo che un bel po' di quella sostanza grigia finisca sulla tua camicia. Poi ne taglierò un po' con la forchetta e coltello e te la farò mangiare. Vomitala e mangerai vomito per dessert. In un modo o nell'altro dovrai buttarlo giù. Poi ti torturerò. Ti farò a pezzi, chirurgia, facendoti guardare cosa succede. Ti trasformerò in un personaggio dei cartoni animati. Sarai l'unico a non ridere». Stringere le spalle con le mani legate dietro la schiena era doloroso. Mi sedetti. «Beh, se la metti così, DF... DF. Vediamo: deve essere Der Führer, giusto? Avete una passione per le iniziali. DF, LD.: dov'è l'armonica Gordon? Suoni ancora a richiesta? Che ne dici della vecchia Horst Wessel Song, o non è nel tuo repertorio?» Parlavo velocemente. Per non tremare. Ahlward mosse la mano con impazienza. Gli scout della Gestapo cominciarono a trascinare Milo fuori dalla stanza. «No», dissi, «lo voglio qui.» Sorpreso dal tono autoritario della mia voce. Un bel suono chiaro che fuoriusciva dalla mia gola dolorante. Guadagnare secondi, credevo fosse ormai la fine.
Ma Ahlward sembrò divertito. Alzò una mano e le camicie nere si fermarono. «Vuoi.» «Tu vuoi quello che ho, DF. E io in cambio voglio secondi. Proprio come hai detto. Per tutti e due.» «Vuoi.» Si alzò in piedi e si appoggiò le mani ai fianchi. Portava una stretta cintura bulinata con una fibbia d'oro a forma di lancia. Appeso sul lato sinistro della cintura c'era un fodero di cuoio nero che pendeva come scentrato. Ne estrasse qualcosa. Un coltello da caccia con il manico nero su cui risaltava una croce d'oro. Una lama larga, affusolata, lunga trenta centimetri. Adatto a macellare grossa selvaggina. Un coltello da trapper... Lo girò, esaminò la lama, poi lo abbassò portandolo parallelo alla gamba destra. Girò intorno alla scrivania con notevole rapidità e si fermò in piedi davanti a me. «Vuoi.» Con un sorriso così naturale che sembrava stesse masticando vetro smerigliato. «Devo giocare le poche carte che ho, DF.» Le sue sopracciglia rosa si inarcarono. «Pensi di avere delle carte?» «So di averle. Se mi hai portato qui è solo perché ho qualcosa che tu vuoi: informazioni. Hai bisogno di scoprire quanto so e con chi ne ho parlato. Su Bear Lodge. Wannsee due.» «Tre» disse Latch. Uno sguardo silenzioso da Ahlward. «Vuoi verificare i danni, DF. Hai lavorato Milo, ma lui non ha detto molto. Forse non sapeva niente o forse era più duro di quanto ti aspettassi. In tutti i casi hai pensato che sarei stato un osso meno duro. E forse lo sarò, ma non se lo ucciderai.» «C'è qualcosa tra voi due, vero?» «Si chiama amicizia.» «Giusto.» Sorrise, sollevò il braccio destro, portò il coltello all'altezza del mio mento e poi me lo mise sotto. «È il vostro tipo di degenerazione che distrugge la società. Il rammollimento. Metterlo e prenderlo nel culo.» Sondava col coltello. «Completamente rammollito», sussurrò, «ogni centimetro di te.» Un minuscolo scarto del polso e la punta della lama si allontanò bagnata di rosso. Si girò ancora, lo sollevò in modo tale che riflettesse la luce e fissò il riverbero rossastro.
Per qualche secondo non sentii dolore, poi una fitta lancinante proprio sopra il pomo d'Adamo. Calore umido. Come una puntura di vespa. «Tu sei questo. Solo questo.» Estasiato dal sangue. Mi chiesi quanti animali aveva torturato da bambino. Quante persone... «Cosa posso fare, DF?» dissi, «certamente tu hai quasi tutte le carte. Ma io devo usare le poche che ho. Sopravvivenza. Come hai detto tu.» «Sì», disse, «terremo il finocchio qui. Questione di efficienza. Tanto vi voglio comunque insieme, voi due. Il gran finale.» Sorriso. Fronte aggrottata. Alle giovani SS: «Scaricatelo lì». Indicò col pollice il divano. Latch gli lanciò uno sguardo inquieto. Gli scout della Gestapo trascinarono Milo sul divano e lo lasciarono cadere vicino a Latch. Il grosso corpo coperto di lividi atterrò sulla pancia, con la testa sul bracciolo del divano, la bocca spalancata, le braccia flaccide, i piedi sudici che sfioravano i pantaloni di Latch. Latch arricciò il naso e si spostò subito all'estremità opposta del divano. Gli scout restarono sull'attenti finché Ahlward non fece loro un cenno. Se ne andarono chiudendo la porta. Fui preso per il naso e spinto su una delle sedie pieghevoli. Ahlward disse: «Umido e grigio. Sulla tua camicia. Forse sostanza umida e grigia infetta: tutti quei piccoli virus da finocchio che si contorcono, impazienti di uscire e di tuffarsi nel tuo sangue. Se non sei già infetto. Ti piace mangiare carne umana, stronzo? Farai proprio questo». «È meglio che tu dia una bella pulita al coltello dopo, DF. Mantieniti sano per la rivoluzione.» Ritornò dietro la scrivania, si sedette, prese in mano la pistola nera e grattò via qualcosa dalla canna con un'unghia. «Comincia», disse. 34 Vinsi la paura che mi incuteva. Mi concentrai sui nastri vistosi. I costumi, la bandiera. Tutte le fesserie paramilitari. DF. Far leva sul suo narcisismo. «Una delle cose che ho scoperto è la tua precedente identità. Dayton Auhagen. Darryl Ahlward. Quale delle due è vera?» «Quando fai delle domande», disse, «mi sembra di sognare.» «D'accordo, torniamo alla moda allora. I tuoi gusti in fatto di abiti qual-
che anno fa: pelle. E anche capelli lunghi e barba. Una tenuta perfetta per vagare in una regione selvaggia. Per sopravvivere in posti come le foreste del sud Idaho: intorno a Bear Lodge. Mettevi trappole, cacciavi, vivevi di quanto ti offriva la foresta. Usando tutte quelle tecniche di sopravvivenza che pensavi ti sarebbero state utili nell'ora della battaglia decisiva. Qualità eccezionali, fiducia in te stesso. Dove l'hai imparato?» Latch disse: «È nel sangue», come un bambino che recita una lezione. Ahlward gli lanciò un altro sguardo duro. Ma mancava di energia. Gli piaceva l'attenzione degli altri. Tutti quegli anni nell'ombra. Assistente amministrativo. In attesa di essere al centro del palcoscenico. «Nel sangue, eh? Questo significa che sei un soldato delle truppe d'assalto tedesche della seconda generazione? Hai radici nella terra dei padri, DF?» Mi aspettavo che mi interrompesse con un gesto, invece scrollò la testa lentamente, in modo misurato. «Sono del tutto americano. Più americano di quanto tu o quel rammollito, sgradevole pezzo di merda là sopra possiate concepire.» «Del tutto americano», ripetei io, «ah, tuo padre era membro della Lega o di uno dei gruppi scissionisti?» Gli occhi color ambra si aprirono un po'. «Conosci la Lega?» «So solo quello che ho letto.» «Sulla stampa di regime?» Feci cenno di sì. «Allora non sai niente. La Lega era l'organizzazione più efficiente che il nostro paese abbia mai conosciuto. I soli patrioti tanto preveggenti da mettere in guardia dall'essere coinvolti nella guerra degli ebrei. E invece di premiarli per la loro preveggenza, Roosevelt li ha perseguitati come criminali. Così sarebbe stato libero di mandare i nostri ragazzi a morire in Europa per gli ebrei, i vermi comunisti, i papisti idioti e i finocchi come te.» Latch disse: «L'errore più grave. Sia dal punto di vista sociologico sia da quello politico. La seconda guerra mondiale è stato il primo passo verso l'imbastardimento di massa. Ha aperto le chiuse che trattenevano tutto il liquame asiatico e semita di cui l'Europa non sapeva cosa fare». Lo ignorai e chiesi ad Ahlward: «E Crisp, Blanchard e gli altri? Anche loro leghisti della seconda generazione?» I suoi occhi si strinsero. «Qualcosa di simile.» «Niente skinheads per te, vero, DF?» Latch rise e disse: «Marciume. Grossolani clown dilettanti. Noi apprez-
ziamo molto la disciplina». «Allora ho ragione sulla storia del montanaro, DF?» Ahlward si buttò all'indietro sulla sedia girevole e mise le mani dietro la testa. «Così vivi nei boschi, in clandestinità. Proprio come alcuni ex nemici della sinistra. Il tuo movimento attraversa un brutto momento. Come pure la sinistra. Cointelpro, Nixon, J. Edgar. La vecchia tecnica del divide et impera funziona. Questo ti fa pensare. Lottando contro la sinistra, fate esattamente ciò che il sistema vuole. Qualche persona della sinistra se ne rende ugualmente conto. E giungete insieme alla conclusione che, se si pensa fuori dagli schemi, gli estremisti di destra e quelli di sinistra hanno molto in comune. Entrambi credete che la società debba essere distrutta per poi poterla ricostruire dalle fondamenta. La democrazia è debole e inefficiente, controllata dai banchieri internazionali e dai loro lacchè della stampa, dai politici parolai. C'è bisogno di un nuovo populismo, che dia il potere ai lavoratori. Il solo argomento che vi separava, la razza, non è più un ostacolo insormontabile. Perché ci sono estremisti di sinistra bianchi infuriati contro i negri arroganti che hanno cercato di espellerli dal loro stesso movimento. Estremisti di sinistra bianchi che fanno i conti con il proprio razzismo. Non so chi ci pensa per primo, DF, ma in qualche modo entrate in contatto e viene concepito un nuovo progetto. Wannsee due. Premere verso l'interno dalle ali più estreme per schiacciare mortalmente il centro. E ora ti ritrovi qui insieme a Gordie.» Una rapida occhiata a Latch e poi, di nuovo rivolto a Ahlward: «Anche se, a dire il vero, non vedo quale interesse possa aver suscitato in te. Tu sei chiaramente un uomo d'azione. Lui non è altro che un venditore di aria fritta che vive alle spalle della moglie». Latch imprecò e aspettò che Ahlward lo difendesse. Ma l'uomo dai capelli rossi non parlò e io continuai. «È il proverbiale bidone vuoto che fa un sacco di rumore. Un cagnolino da salotto: il classico esempio di politico parolaio. Sei sicuro che riuscirà a piantarla quando verrà il momento?» Latch saltò in piedi. Il brusco movimento sballottò Milo; il suo corpo rotolò sul bordo del divano, poi rotolò ancora indietro. La bocca si aprì. Mentre cercavo di distinguere altri segni di coscienza sul suo viso tumefatto, sentii un'altra puntura di vespa sulla guancia. La mia testa si piegò indietro. Un altro colpo. Latch era in piedi sopra di me, con la schiuma agli angoli della bocca: un
cagnolino da salotto diventato idrofobo. Dopo il coltello, un fastidio insignificante. Alzai lo sguardo verso di lui e dissi: «Calma, calma, Gordie». Digrignò i denti e tirò indietro il pugno. Proprio prima dell'impatto feci una finta di lato. La sua mano mi sfiorò. Ma perse l'equilibrio e incespicò. Ahlward lo guardava disgustato. Disse: «Siediti, Gordon». Latch si rimise dritto e restò davanti a me ansimante e a pugni stretti. Un forte rossore sulle guance lentigginose. Gli occhiali del servizio sanitario di sghimbescio. «Dopo, Gordon», lo gelò Ahlward. Latch guardò lui, poi me. Mi sputò in faccia e tornò a sedersi. Ma non incrociò più le gambe con l'aria indifferente di prima. Rimase seduto sul bordo del divano, con le mani sulle ginocchia, sbuffando di rabbia. Ahlward si girò verso di me e disse: «È tutto quello che avevi da dire, stronzo?» «Oh, no. Ho ancora molte cose da raccontare. Ritorniamo a Wannsee due. L'incontro che nessuno crede abbia mai avuto luogo. Ci fu. In qualche angolo remoto di campagna. Una riproduzione in scala ridotta del patto Hitler-Stalin. Avete persino concepito una nuova insegna che lo rappresenta: rosso per la sinistra, la lancia per la destra, il cerchio che significa l'unione.» Mi girai verso Latch: «Se solo lo venisse a sapere la gente di Telegraph Avenue...» «Sei un idiota», disse, «tutto cominciò a Berkeley. Nei tempi in cui ero ancora intossicato e sotto l'effetto del lavaggio di cervello. Agivo come ipnotizzato, senza rendermi conto di quanto facevo. Studiavo storia dell'Africa, degli indiani d'America e molte altre sciocchezze inutili e artificiose che i professori ebrei mi propinavano. Ma anche allora avevo iniziato a capire qualcosa. Con me non funzionava. Feci le mie ricerche. Scoprii cose che nessuno aveva il fegato di venire a dire in classe. Come il fatto che non c'era una sola lingua scritta in Africa prima dell'arrivo dei bianchi. Non c'era vera musica, ma solo stupide cantilene che avrebbe potuto inventarsi anche un ritardato. Niente cucina elaborata, niente letteratura, niente belle arti. Stiamo parlando di cultura da scimmie: malaria, promiscuità, nutrirsi di sterco, cannibali Mau-Mau. Non sono altro che un branco di babbuini mangiatori di sterco, portati in America da mercanti sionisti per raccogliere cotone sionista. Educati dai sionisti a vestirsi come uomini, ad articolare parole umane e a travestirsi da esseri umani. Avevo avuto a che fare con
loro; sapevo che era impossibile comunicare usando la logica. Improvvisamente tutto fu chiaro. Non puoi usare la logica con una scimmia.» Ahlward faceva cenni di assenso anche se colsi in lui una punta di fastidio. Privato ancora una volta delle luci della ribalta. Mi rivolsi ancora a lui. «Wannsee due andò meglio di quanto avessi immaginato. Preparasti un piano. Ma c'erano ostacoli. Persone che intralciavano la vostra strada, che vi avrebbero combattuti fino alla morte se lo avessero scoperto. Persone con carisma, iniziativa e senza scrupolo alcuno di lavorare anche loro fuori dal sistema. Norm e Melba Green, Skitch Dupree, i Rodriguez, Grossman, Lockerby e Bruckner. Occorreva eliminare quel pericolo e qui Gordie tornò utile. Il vostro infiltrato nel primo livello. A conoscenza dei loro piani segreti: la Nuova comunità valdese. Negri e bianchi che lavoravano a fianco a fianco e invitavano gli indiani a tornare nella loro terra. Tutte cose che tu disprezzavi. Gordie e Randy li attirarono su a Bear Lodge con i loro racconti di aria pulita, acqua pura e niente affitto. Un vecchio magazzino, un altro pezzo dell'eredità di Randy.» Mi guardai intorno. «Vedo che le piacciono i magazzini. Non sapevo che fossero un investimento così redditizio.» Un fremito di impazienza attraversò gli occhi di Ahlward. «I nuovi valdesi si misero ingenuamente in viaggio verso Bear Lodge. E tu li stavi aspettando. Dayton Auhagen, l'hippie macho. In comunione con la natura. Il tipo di estraneo che poteva aggirarsi lì intorno senza destare sospetti. Li osservasti. Li sorvegliasti. Studiasti le loro abitudini, la loro routine. Allo stesso modo in cui avresti cacciato una qualsiasi preda. Entrasti nel magazzino quando erano fuori e nascondesti cariche di esplosivo in mezzo a tutto quel materiale infiammabile.» Ahlward stava sorridendo. Ricordava. «Solo una parte del gruppo si era stabilita a Bear Lodge. Gli altri erano un po' più a nord, per acquistare legname. Ma l'altro gruppo apparteneva al secondo livello. Senza i loro leader era probabile che avrebbero tagliato la corda. E se mai si fossero rivelati in futuro un pericolo, li avreste eliminati: un gioco da ragazzi. Poi fissasti una data prima del previsto arrivo del secondo gruppo. Entrasti nuovamente nel magazzino e avvelenasti la carne che avrebbero mangiato a cena. Ritornasti nella foresta e aspettasti che tutti fossero dentro, debilitati, schiacciasti un bottone e bum! L'FBI si inserì perfettamente nei vostri piani, ipotizzando la presenza di una fabbrica di bombe e comunicandolo alla stampa. Senza dubbio tu li aiutasti con una soffiata anonima.»
Sorriso compiaciuto sulla faccia schiacciata. La nostalgia non mi era mai apparsa così ripugnante. «È stato un bel colpo», continuai, «nessuno avrebbe pianto per un gruppo di terroristi saltati in aria sulla loro nitroglicerina. Solo un piccolo contrattempo: uno degli appartenenti al secondo gruppo, Terry Crevolin, era arrivato in anticipo. Un vegetariano, per giunta. Non mangiò la carne, fu risparmiato dal veleno e sfuggì all'esplosione. Ma ancora una volta, nessuna seria minaccia. Aveva problemi personali, droga, una volontà debole, in grado di misurare le sue energie politiche. E il suo odio e la sua sfiducia nei confronti del sistema lo portarono a credere che l'esplosione fosse opera dell'FBI. Tuttora non crede a Wannsee due. Così fu un piano eccellente, visti i risultati. Ma la mia domanda è: perché prendersi la briga di farlo? Perché tutto quel gran daffare per il primo livello quando c'erano altri leader estremisti altrettanto carismatici?» Latch disse: «Erano feccia. Fottuti snob». La rabbia di un bambino viziato. La rabbia di chi non è stato invitato al party. In quel momento compresi che l'idea dell'esplosione era stata sua. Che per lui era stata una questione personale, non politica. Tutte quelle vite distrutte, l'orrore, solo perché erano più intelligenti di lui. Lo avevano escluso. Una sua idea. Un uomo con più idee di quanto avessi pensato. La loro relazione era complessa. Faceva sembrare sana quella tra Massengil e Dobbs... Ahlward sedeva ora più dritto. Decisi di tenere per me l'intuizione. «Dopo Bear Lodge», dissi, «occorreva andare avanti. Scegliere un personaggio di facciata, renderlo presentabile e fargli ottenere una carica pubblica: anche una carica molto umile. Tu sei un uomo paziente DF, conosci la tua storia. Tutti quegli anni che occorsero al primo Fùhrer per passare da una cella di prigione al Reichstag.» Mi chinai in avanti. «Ma il primo Fùhrer era il rappresentante di se stesso. Non aveva bisogno di un fantoccio da manovrare.» «Fatti fottere, pezzo di merda», disse Latch. Mi sembrò di veder sorridere Ahlward. «I tempi sono cambiati», disse, «questa è l'era dei media. L'immagine è tutto.» «Pensavo che i media fossero controllati dai sionisti», dissi. «È vero» fece Ahlward. «Buffo, eh?»
Sbadigliò. «È vero, lo riconosco, occorre considerare l'immagine. Ma è lui il meglio che puoi trovare dal punto di vista dell'immagine?» Furioso borbottio dal divano. Un accenno di movimento che Ahlward bloccò con uno sguardo truce. Come per dargli soddisfazione disse: «Sta comportandosi abbastanza bene». Meccanicamente. Il suo sguardo vagava per la stanza. Limitata capacità di attenzione. Mi chiesi quante volte era stato bocciato a scuola. «Gordie e Miranda si ritirano in un ranch per alcuni anni, confessano i loro peccati vietnamiti e riemergono come militanti ambientalisti. Nel frattempo il ranch viene usato per gli incontri. Altre conferenze. Per reclutare i figli e le figlie dei vecchi amici di tuo padre. Proprio come i campi estivi che organizzava la Lega. Impianti anche una piccola attività editoriale: tutte quelle scatole là fuori. Probabilmente opuscoli razzisti spediti con tariffe speciali grazie alla cortesia dello Zio Sam, giusto?» Un altro sorrisetto compiaciuto. «E tutte le altre scatole: cosa sono? Armamenti pesanti per la rivoluzione?» Latch disse: «Burro e cannoni». Ahlward tossì. Latch si zittì. L'uomo dai capelli rossi giocò ancora un po' con la sua pistola. «Scegliesti Los Angeles per il rilancio di Gordie perché Miranda aveva delle conoscenze qui: l'ambiente dello spettacolo, tutta la critica radicalchic. La retorica dell'amore per la terra faceva una certa impressione con quel tipo di gente, così Gordie diventò Mr Ambiente. Strofinava pellicani mentre sognava di ripulire il mondo. E fu eletto. Fin qui, tutto bene. Il fatto che anche Crevolin si fosse stabilito a Los Angeles era una piccola seccatura, ma tutti quegli anni di silenzio significavano che non sospettava nulla. Fu invece uno choc scoprire che qualcun altro era sopravvissuto a Bear Lodge ed era riemerso a Los Angeles. Il figlio di Norman e Melba Green. L'FBI lo aveva dichiarato morto, presunto morto, visto che non era stato trovato il cadavere. Perché pensavano che i due bambini fossero insieme al gruppo. Adesso era qui, diciassette anni dopo. Ritornato a vivere con la madre di Norman. Sua nonna. Una vecchia estremista, sospettosa e insolente che non aveva nessun problema a credere che l'olocausto fosse proprio dietro l'angolo. Nessun problema a credere che suo figlio e sua nuora fossero stati assassinati. Anche se, come Crevolin, pensava che dietro ci fosse lo zampino del governo. Infiammò suo nipote con storie di nazisti e
teorie di complotti. Lui cominciò a fare delle ricerche. Era un ragazzo sveglio e le fece con cura.» Latch sbuffò e disse: «Una scimmia intelligente». «Le ricerche sui libri non erano abbastanza per lui», continuai, «cercò di incontrare il suo salvatore, ma non riuscì ad arrivare a Crevolin e si rivolse alla seconda fonte in ordine di importanza. Qualcuno che era stato anche lui un compagno dei suoi genitori. Un altro uomo del secondo livello, ma che aveva fatto strada. Un uomo pubblico.» Mi girai verso Latch. «Veramente inopportuno, Gordie. Intendo dire il momento. Ti sei guadagnato una certa rispettabilità. Certo sei solo un cartello sandwich per i sogni di Ahlward. Ma a volte ti concedi il lusso di pensare che sia vero, che tu sei il capo ed è proprio una bella sensazione, no? Certo il municipio non è il massimo, ma è un passo da giganti per uno che ha tenuto discorsi sediziosi su una rete televisiva nazionale. Sei in ascesa. È il ritmo giusto. Le cose si stanno finalmente mettendo a posto, ed ecco che viene fuori quel bastardo, metà ebreo, metà negro, che bussa alla porta del tuo ufficio, usando come lasciapassare per arrivare a te i nomi dei suoi genitori. Nomi che pensavi di non sentire mai più. Parla a quattr'occhi con te e ti fa domande su quei terribili giorni. Wannsee due. Cerchi di sbarazzarti di lui usando un vecchio trucco che hai imparato così bene: rispondi alle sue domande senza rispondergli veramente. Ma lui è ostinato. Sa farsi valere. È pieno di quell'ardore che potrebbe incenerirti. Inizia sempre così, non è vero? Pesciolini insignificanti che punzecchiano il pesce grosso. È stata una guardia notturna a sconfiggere Nixon. E perciò è meglio sbarazzarsi in fretta di lui. In una riunione di emergenza DF ti dà istruzioni su come trattare la faccenda in un modo ben sperimentato; far abbassare la guardia alla preda accordandogli una falsa amicizia, passargli con cura qualche informazione falsa, procedere all'uccisione quando i tempi sono maturi. «Così reciti la parte del progressista sensibile, fai un racconto su Wannsee due in cui la storia rimane la stessa, ma cambiano i personaggi. Facendo di qualcun altro il capo dei cattivi. E la parte assegnata si adattava bene al personaggio. Massengil aveva idee di destra. E aveva professato per un po' di tempo idee quasi razziste. Hai probabilmente aggiunto qualche storia sulla sua appartenenza all'FBI. Con le vostre risorse, le vostre macchine tipografiche, non era un problema fornire a Ike qualche documento falso di grande effetto. E il bello era che la cosa serviva per un duplice scopo. Ocean Heights è parte del tuo distretto. Buttare Massengil
fuori da un posto che occupava ininterrottamente da tre decenni ti avrebbe permesso di presentarti come candidato alla sua successione. Ancora un piccolo passo, se confrontato alla meta ultima, ma i deputati delle assemblee nazionali si sa che possono finire a Washington. Quanti consiglieri invece sono riusciti a uscire dal municipio? Lo hai tenuto d'occhio per qualche tempo, hai piazzato Beth Bramble nel suo staff: la tua infiltrata. Così quando Ike si è fatto vedere per fare le sue domande, il piano ha preso forma da solo. Gli hai accordato fiducia, gli hai fatto giurare la massima segretezza e lo hai imbottito di bugie: hai alimentato le sue fantasie di vendetta e lo hai spinto verso un'azione violenta. Hai pensato che non sarebbe stato troppo difficile, perché era un negro e i negri sono intrinsecamente violenti, non è vero?» «Sembra che lo stronzo impari facilmente.» Ahlward non si diede neanche la pena di fingere un qualche interesse. «Il solo problema fu che Ike resistette. Nonostante i capelli crespi e tutta quella melanina nella pelle, non era un tipo violento.» «Cinquanta per cento di sangue ebreo», disse Ahlward, «biologicamente destinato a essere un vigliacco.» «O forse Gordie rovinò tutto. Fece troppa pressione e Ike si insospettì. Si domandò perché un consigliere comunale fosse così ansioso di venire coinvolto in un omicidio. In tutti i casi si rifiutò di attuare il piano e si trasformò così in un serio pericolo. Perciò lo attirasti in quel vicolo con la promessa di qualcosa, probabilmente qualche nuova informazione sui suoi genitori. Da un'altra fonte. Un negro. Quale posto migliore di Watts per farlo fuori? Deve essere stato divertente fare la chiamata, imitare la parlata dei negri! Ike cadde nell'imboscata e una delle tue SS lo uccise, gli iniettò un cocktail di droga e fece apparire il tutto come un regolamento di conti fra spacciatori. Perché in fondo i negri sono tutti tossici, vero? Chi si sarebbe insospettito per un negro fatto fuori a South Central? E, perdinci, ci riuscisti ancora. Le cose andarono come previsto. Adesso c'era solo la nonna da sistemare. Nonostante la promessa di non parlare, pensaste che si fosse confidato con lei. La rapiste per strada e gettaste il corpo in un posto in cui nessuno l'avrebbe trovato. Per la cronaca, dov'è?» Sguardi disorientati di entrambi. «Considerato il fatto che avete tutte le carte», feci io, «siete abbastanza avari di informazioni.» Ahlward replicò: «Sembra che tu stia esaurendo le scorte». «Neanche per sogno. Ho ancora molte cose da dire. Dopo aver eliminato
Sophie, siete penetrati nel suo appartamento per cercare eventuali indizi che poteva aver lasciato: taccuini, diari. Entrando anche nella casa vicina per simulare un furto con scasso. Ma perché quelle scritte sui muri. Il messaggio sui Kennedy?» Latch non seppe trattenersi dal darmi una risposta. «Dessert. Per i soldati che hanno compiuto la missione. Ricompensa per un lavoro ben fatto.» «Anche i rivoluzionari devono divertirsi», dissi. E colsi un movimento di Milo. Una strizzata d'occhio. Volontaria? Nessuno dei due ci fece caso. Milo voltava la schiena a Latch. E Ahlward era indaffarato con la sua pistola. Un'altra strizzata. O me lo stavo immaginando? Continuai a parlare. «Con la scomparsa di Ike e di Sophie Gruenberg, i vostri problemi immediati sembravano finalmente risolti. Ma c'era ancora la faccenda Massengil. Avevate già cominciato a pensare a lui come a una persona morta. Era fastidioso dover uscire da quell'ordine di idee. E se la cosa doveva essere fatta, era importante la scelta del momento. Era alla fine della sua legislatura ed era già stato scelto come candidato per la successiva. Così per voi era conveniente eliminarlo prima delle elezioni. Era troppo tardi perché il governatore designasse un altro candidato.» E, rivolgendomi a Latch: «Il seggio sarebbe rimasto vacante per qualche mese, dandoti il tempo di raccogliere il sostegno attorno a te, e proporre un'altra immagine sulla scena: il grande conciliatore, il maturo statista. Era meglio agire subito, prima che Randy stringesse i cordoni della borsa. O pensavi di chiedere gli alimenti?» Improvviso panico nei suoi occhi. Le sopracciglia di Ahlward si erano trasformate in falci di luna per la sorpresa. «Oh, mi dispiace», dissi, «credevo lo sapesse, DF.» Ahlward guardò Latch. «È pieno di mer...» «La piccola Randy vuole davvero separarsi, DF. Ha già presentato la richiesta. Controlla tu stesso: un'informazione accessibile al pubblico.» Ahlward fece girare lentamente la sedia e fissò Latch. Latch disse: «È appena successo, Bud. Stavo per discuterne con te, era in agenda». «Oh, no», interloquii, «non è proprio così, bugiardello di un Gordie. Ha presentato la domanda due settimane fa. Non è la cosa migliore che potesse succedere in un momento come questo, vero, DF? Per l'immagine pub-
blica. E anche per i soldi.» E a Latch: «Cos'è successo, Gordie? È scemato il suo entusiasmo politico? O è di te che è stanca? Forse tutto quell'armamentario sado-maso stanca dopo un po'...» Latch disse: «Chiudi quello sporco becco!» Ahlward si schiarì la gola. «Non è un problema, Bud. Possiamo occuparci di lei. Prende una quantità enorme di barbiturici, nessuno...» Fu il turno di Ahlward di dire: «Stai zitto! Lo sai, Gordon, è stato molto piacevole venirlo a sapere in questo modo». «Andiamo Bud, lo vedi questo quanto...» «E tu gli stai dando esattamente ciò che vuole.» Latch si lasciò cadere sul divano e giocherellò con uno dei polsini. Milo strizzò l'occhio. Ne fui sicuro. Ahlward disse sollevando la pistola: «Ho ascoltato abbastanza». Due strizzate d'occhio dal divano. Il grosso corpo di Milo rimase immobile. «Intendi dire che non vuoi ascoltare il resto?» dissi, «la parte di cui ti sei occupato di persona?» Abbassò la pistola. «Continua.» «Poco dopo l'eliminazione di Ike e di sua nonna, ti si presentò davanti un'altra spiacevole sorpresa. Un'altra persona che aveva ricevuto le confidenze di Ike. Un po' troppo per una promessa di segretezza: forse Gordie non è stato molto convincente. Una semiritardata mentale, sempre chiusa in casa, che accoglieva con gioia l'allegria e il brio che Ike portava con sé quando consegnava la spesa. Che apprezzava il tempo che lui dedicava a cercare di conoscerla. E quando cominciò a conoscerla meglio, Ike passò al suo argomento preferito: la politica. Non che lei avesse più di una vaga idea di ciò di cui lui parlava. Giustizia sociale, i mali del capitalismo. Ma era capace di cogliere i particolari a tinte forti. Complotti, omicidi. Wannsee due. Restava seduta ad ascoltare. Una perfetta tavola armonica. Poiché le visite di Ike riempivano il vuoto della sua vita, non voleva assolutamente che si interrompessero. «Poi un giorno si interruppero. Per sempre. Scoprì che Ike era morto. Assassinato. La gente diceva che era morto comprando droga, ma lei sapeva che non era vero, perché Ike non si drogava. Odiava la droga. Sapeva che c'era sotto qualcosa: forse uno di quei complotti di cui parlava Ike. Si chiuse ancor più in se stessa, confusa. Proprio come quando era morta la madre. Ma questa volta ne uscì con rabbia. E con la voglia di sapere per-
ché capitano cose brutte alle persone buone. Di parlare con qualcuno che potesse darle qualche spiegazione. Non suo padre: non parlano mai, la tratta come una serva. E conosce appena suo fratello. Ma ricorda il nome di una persona che Ike le aveva detto di aver incontrato. Un ex compagno dei suoi genitori diventato famoso, che era perfino apparso in TV. Qualcuno su cui Ike aveva dei sospetti che però non aveva manifestato a Holly perché non voleva metterla in pericolo. «Una persona così avrebbe accettato di parlare con lei? Aveva paura. Ma non riusciva a dimenticare Ike, la sua morte. Così si fece coraggio e chiamò l'ufficio dell'uomo famoso. Un impiegato rispose e la sentì balbettare cose che nessuno avrebbe dovuto sapere e capì che questo era un lavoro per l'alto comando.» Rivolgendomi ad Ahlward: «Tu la incontrasti, come assistente di Gordie. La interrogasti per capire esattamente cosa sapeva, scopristi che era abbastanza per fare di lei una minaccia e ti rendesti conto che era perfettamente adatta per un altro tentativo con Massengil. Un'ingenua migliore di Ike perché mancava di intelligenza critica. Pronta all'obbedienza. Cominciasti a lavorarla. Mettesti in piedi un rapporto umano, ti guadagnasti la sua fiducia. Desti vita alla faccenda paramilitare. Incontri segreti in posti isolati quando suo padre era fuori città. Passeggiate notturne. L'andavi a prendere in macchina e la portavi via. Non aveva un lavoro, un orario, qualcuno che si accorgesse della sua assenza, nessun altro con cui confidarsi. Riesumasti la vecchia fantasia del diavolo Massengil. Massengil, il malvagio assassino del suo amico. Piantasti il seme della rabbia e lo alimentasti fino a farlo sbocciare. Legando la stima verso se stessa al compimento della sua missione. E lei divorò tutto. Biancaneve che trangugiava la mela avvelenata. Era così ansiosa di agire, che ti disse che aveva armi in casa: un ripostiglio pieno di fucili. Entrasti in casa sua quando suo padre era via per dare un'occhiata. Erano per la maggior parte pezzi d'antiquariato, inutilizzabili. Tranne il Remington. Ma nelle sue mani avrebbe potuto essere anche un fucile a pietra focaia.» Ancora strizzate d'occhio da Milo. Continua, amico. «Le spiegasti ripetutamente e nei minimi particolari il suo compito. La cosa peggiore che poteva succedere era che uscisse di senno prima del grande giorno e cominciasse a vaneggiare su complotti. Chi le avrebbe creduto? Lei comunque non vide nessuno e non parlò con nessuno. E il grande giorno si avvicinava. Glielo comunicasti con una chiamata in codice. Lunedì mattina. Il momento perfetto per un colpo azzeccato. Bramble ti
aveva informato dell'intenzione di Massengil di usare la scuola per una conferenza stampa. Sapevi esattamente quando sarebbe arrivato e dove si sarebbe fermato. Ma far uscire Holly di casa era un problema. Suo padre era mattiniero, perciò sgattaiolare via il mattino era fuori questione. Dovevi farla uscire la domenica notte, mentre lui era ancora addormentato. Le chiedesti di prendere il Remington nel ripostiglio e di avvolgerlo in qualcosa, chiudere la porta della sua camera per fargli pensare che stava ancora dormendo, poi uscire nel massimo silenzio. Disinserire l'allarme, reinserirlo, e sgusciare fuori di casa col fucile nascosto. Anche se Ocean Heights è talmente deserta la notte che avrebbe potuto portarlo anche scoperto. «La facesti salire in macchina un paio di isolati più avanti, le portasti un cambio di vestiti e un contenitore di plastica per le urine. Procedeste poi verso la scuola, parcheggiaste qualche isolato prima e continuaste a piedi. Segnali con le mani. La grar de avventura: deve esserle piaciuto. «Forzasti il lucchetto della baracca e vi accampaste per la notte. Lei con il suo fucile, tu con la pistola. In attesa. Nascosti. Proprio come a Bear Lodge. Le dicesti di mettersi a dormire e che l'avresti svegliata quando era il suo turno di guardia. La lasciasti dormire fino all'alba e poi la informasti che i piani erano stati modificati. Avresti sparato tu per essere più sicuro che le cose andassero bene. Non doveva preoccuparsi, sarebbe stata lo stesso un'eroina. La tua assistente. Forse accettò. O forse fece delle storie: voleva vendicarsi di persona. Pensasti di averla convinta. Ma quando arrivò il momento di sparare, quando Massengil, Gordie e i ragazzi si riversarono nel cortile, ti colse di sorpresa. Afferrò il fucile. Il secondo livello non era abbastanza per lei.» Feci un sorriso a Latch e mi girai nuovamente verso Ahlward prima di vedere la sua reazione. «Il suo colpo andò a vuoto. Ovviamente. Il contraccolpo la gettò a terra facendole cadere il fucile di mano. Lo afferrasti, dovevi decidere in fretta, valutare le varie possibilità. La scelta ottimale sarebbe stata prendere la mira, colpire Massengil e poi far fuori lei. Ma guardando fuori dalla finestra ti accorgesti che il momento opportuno era passato: panico, tutti che urlavano e correvano a ripararsi, non sarebbe stato un tiro pulito. Non che ti sarebbe importato molto di qualche bambino morto, ma questo avrebbe complicato le cose. Così estraesti la pistola e sparasti a Holly al volto e continuasti a sparare. Otto colpi. Poi tre scariche con il Remington. Tutto questo sembrò una battaglia a quelli nel cortile. Poi uscisti nel cortile con in mano la pistola fumante, pronto a recitare la parte del salvatore. In verità
nessuno ti aveva visto entrare nella baracca, ma come giustificazione bastava il panico. Nessuno ricordava qualcos'altro oltre alla propria paura. E la stampa non era ancora arrivata, con le sue telecamere e i suoi registratori.» Strizzata di occhi dal divano. Dissi ad Ahlward: «Deve essere stato bello fare la star, per una volta. Ottenere il credito che meriti invece di restare nella sua ombra. Ma dopo tutti quei piani non eravate riusciti a liberarvi di Massengil. L'uomo dimostrava di essere un vero e proprio Rasputin. Un altro tentativo di assassinio sarebbe risultato strano e avrebbe sollevato molti interrogativi. Il tuo istinto era quello di aspettare, farlo vivere per un'altra legislatura, attendere il momento opportuno. Ma a Gordie questo non piaceva. Faceva pressioni su di te. E adesso sai perché: sapeva che avrebbe perso la dote della moglie. Per sua fortuna, l'efficiente signorina Bramble aveva raccolto un'altra informazione riservata su Massengil: sesso perverso con Cheri Nuveen a intervalli regolari, con Dobbs spettatore. Bramble sapeva anche quando sarebbe stato l'appuntamento successivo. Data questa premessa, il resto era facile. Un solo colpo, Dobbs come dessert, nessun collegamento apparente con l'attentato alla scuola. Il primo giorno, Gordie conforta la vedova e recita la parte di Mr Compassione. Il giorno seguente passate l'informazione sulla prostituta alla stampa ed eliminate la vedova come possibile candidato alla successione. E con lei tutti gli amici di Massengil: colpevoli di essere tali. I votanti si sarebbero chiesti se avevano partecipato a qualcuno dei suoi party. E avrebbero cercato di indovinare chi lo aveva fatto». Mi sporsi in avanti. «Fin qui è andata bene, DF, ma cosa pensi riuscirà a fare? Ammettiamo che sia eletto. Che riesca persino a non fare casini per una legislatura o due e che vada a Washington. Non c'è sostanza in lui. Niente su cui si possa costruire un impero. Sarebbe come costruire un palazzo su un pozzo nero.» Latch imprecò. Ahlward sorrise. «Pensi che sia il solo? Ho mie pedine dappertutto.» Usò il coltello come bacchetta per indicare. «Persone di talento. Giovani e fotogenici. Fermamente progressisti. Finché non verrà il momento.» «Wannsee tre.» «E quattro, cinque, sei.» La rabbia e l'impazienza riempirono quegli occhi color ambra; il coltello fendette l'aria. «Prenderemo tutto il tempo necessario per farlo. Come hai detto, sono un uomo paziente. Faccio piani a lungo termine. Sono disposto ad aspettare finché il momento non sia matu-
ro per far scorrere il sangue purificatore. Spazzando via tutti i sedicenti uomini e fondando una nuova era geneticamente pura e meravigliosamente crudele.» «Com'è poetico!» «A chi hai raccontato le cose che sai?» disse. «Che ne dici della polizia, tanto per cominciare? Ho spedito delle registrazioni.» Sorrise e scrollò la testa. «Fesserie. Hai creduto al nostro trucco sull'FBI. Se eri in contatto con la polizia, avrebbero chiamato gli agenti federali e loro ti avrebbero già interrogato. Ti abbiamo controllato, sappiamo chi hai incontrato. Provaci ancora, stupido.» «Stai presumendo che le autorità abbiano un grado di efficienza superiore a quello effettivo. Gli ingranaggi burocratici girano lentamente. I poliziotti lo sanno. Io aspettavo l'FBI. Per questo ho aperto la porta a Crisp e Blanchard. E non ci sono cascato nel vostro raggiro. Hanno dovuto usare la forza per portarmi qui.» Si alzò, con la pistola in una mano e il coltello nell'altra. Con lo sguardo rivolto a Milo, disse: «È spregevole. Come potete sopportare voi stessi, con quello che fate?» Fece roteare il coltello. «È così che finirete, tu e lui. Facendo le vostre sporche cose, immersi nella vostra oscena amicizia. Le cose vi sfuggono di mano. Tu lo pesti brutalmente. Lo colpisci a morte, poi cominci a sentirti talmente in colpa che scrivi un biglietto e fai saltare quelle tue cervella di finocchio.» «È un peccato sporcare il tuo magazzino», dissi, «a Randy potrebbe non piacere quando verrà il momento di riconsegnarglielo. Per non parlare dei rischi per la salute derivanti dal sangue di un finocchio.» Sorrise. «Non preoccuparti, stronzo. Abbiamo un bel posticino adatto a voi. Un motel per checche a Pacoima.» «Un altro bocconcino del suo patrimonio immobiliare?» «Andiamo», disse, «è il momento della vostra festicciola gay. Alzati.» Rimasi seduto. Improvvisamente quella faccia schiacciata si trasformò in qualcosa di livido e urlante: «Ho detto di alzare le chiappe!» Mi alzai. Molto lentamente. Latch si alzò, si spazzolò con le mani i pantaloni e mi sorrise. «Pensavo ti interessasse sapere che abbiamo in serbo qualcosa per la tua piccola direttrice. La stronza altezzosa; lo sa che vai anche con gli uomini? Che l'hai
infettata?» «Non sa niente», dissi. Capii dal modo in cui la sua faccia si piegò in una smorfia, simile al sorriso di una bambola di pezza, che avevo permesso al mio terrore di affiorare. Ridacchiò. Forzai la corda sui polsi. «Passerà un brutto momento», disse, «abbiamo mandato da lei qualcuno che ama molto fare quel tipo di cose. Che sa come tirar fuori il meglio di una donna. Cerca di immaginartelo. Il suo sguardo quando si renderà conto di cosa le sta succedendo. Le urla che lancerà.» Tre strizzate d'occhio dal divano. «Tirar fuori il meglio da una donna, eh?» dissi, «allora non è sicuramente un lavoro per te. Quando è stata l'ultima volta in cui Randy ha visto qualcosa di più duro del suo labbro superiore?» La bambola di pezza si incattivì. E mi venne incontro con le braccia alzate, stile boxeur. Ahlward disse: «Non ora». Con tono stanco. Latch sembrò non udire e continuò ad avanzare. Strizzata d'occhio. Indietreggiai e saltellai sulle gambe rese pesanti dalla paura. Fui io adesso a strizzare l'occhio. «Certo, Gordie. Niente di meglio di un combattimento leale. Ma chi ti proteggerà quando DF alla fine si renderà conto che senza i soldi di Randy non servi a molto? Solo un inutile pezzo di merda dal cazzo moscio. Sempre al secondo livello.» Latch disse: «Dammi il coltello, DF, ne ho abbastanza». Ahlward alzò la lama allontanandola da lui. «Non essere idiota. Deve essere fatto nel modo giusto.» Latch indietreggiò. «Rotola Gordon, di' 'bau bau', Gordon.» Tirai fuori la lingua e ansimai come un cane. Latch caricò agitando il braccio. Ahlward mise giù la pistola, allungò il braccio e lo fermò con una mano. Con l'altra teneva ancora il coltello. La pistola era sulla scrivania. Ma avevo le mani legate. Continuai a parlare saltellando. «Fai il morto, Gordon. Mangia la pappa, Gordon. Non bagnare il tappeto, Gordon.» «Vuoi stare zitto!» mi urlò Ahlward. Latch si liberò della mano di Ahlward e riprese a menar colpi.
Nello stesso momento una massa pallida si sollevò dal divano, un orso polare che usciva dall'ibernazione. Afferrò Latch per le spalle e lo spinse in avanti. Latch cadde pesantemente. Verso Ahlward. Su Ahlward. Il suo peso spinse l'uomo dai capelli rossi contro la scrivania, mentre sul suo volto si disegnava un'espressione di sorpresa. Latch era sopra di lui e si dibatteva selvaggiamente. Ahlward cercò di spingerlo via lottando per liberarsi. Cercò di prendere la pistola. Latch continuava a gravare su di lui. Urla. I due lottarono. Poi la faccia di Ahlward fu spruzzata di sangue. Inondata di sangue. Latch urlò. Un suono terribile; più della semplice frustrazione. Il sangue continuò a zampillare. Ahlward cercava di scansarlo, lo sputava. Qualcosa di lucente e acuminato emerse dalla molle carne lentigginosa sulla parte posteriore del collo di Latch. E si aprì un varco come un verme nel terreno. Un verme dal muso appuntito, color argento. La punta di un coltello, vermiglia e color argento. Latch aveva la gola squarciata e il sangue usciva a fiotti. Il coltello continuava a farsi strada per liberarsi. Ahlward diede una forte spinta con tutt'e due le mani. Latch si staccò. Per inerzia Ahlward finì, pieno di stupore, oltre il piano della scrivania, sulla sedia girevole. Milo avanzò malfermo verso la pistola. Allungò la mano per prenderla, toccò il calcio, ma la mancò. La pistola attraversò scivolando il piano di legno e volò via finendo da qualche parte sul pavimento. Ahlward si tuffò per prenderla. Sentii una mano sul mio polso che tirava. Mi liberava le mani. «Andiamo!» Milo si diresse zoppicando verso la porta. Lo seguii, stordito. Mi tirò. Tutti e due fuori dalla porta nera. La chiudemmo sbattendola. Nel corridoio. Quattro camicie nere, sorridenti, come se stessero assaporando la parte conclusiva di uno scherzo. Ci videro e i sorrisi si spensero lentamente sulle loro labbra. Milo lanciò un urlo e continuò ad avanzare. I sorrisi svanirono e il terro-
re si impadronì di loro. Ragazzi impreparati ad affrontare la realtà. Uno di essi, grasso e con le guance flaccide, che portava una pistola in una fondina, cercò di afferrarla. Usai la mia spalla per caricarlo. Passammo, lasciandoci dietro grida di dolore e rumore di ossa spezzate. Corremmo lungo il corridoio fra le scatole di cartone. Grida di allarme. Crepitio di colpi d'arma da fuoco. Guardai indietro continuando a correre, vidi Ahlward che anche lui correva all'impazzata e urlava ordini che nessuno ascoltava. Chiamava a raccolta le sue truppe, ma queste erano paralizzate dal terrore, impreparate ad affrontare la realtà. Una fredda folata d'aria, mentre qualcosa si conficcava in uno scatolone a pochi centimetri dalla mia testa. Un corridoio laterale qualche metro più avanti. Corremmo per raggiungerlo. Nonostante tutto il rumore riuscivo a sentire il respiro affannoso di Milo e lo vidi mettersi una mano sul petto. Ancora spari. Poi un rumore più forte. Come quello di un terremoto, che rintronava sul pavimento di cemento. Facendolo sussultare come fosse di carta. Le scatole crollarono davanti a noi come giganteschi blocchi spazzati via da una forza immane. Qualcuno gridò. Panico. Probabilmente simile a quello che c'era stato nel cortile della scuola. Un altro boato. Persino più forte, che ci sollevò in aria e ci fece cadere a terra come pupazzi. Alcune scatole vacillarono, altre furono scagliate in su come da un giocoliere invisibile e piombarono a terra con sgradevoli tonfi. Milo fece un passo falso, cadde. Lo aiutai a rialzarsi. Aveva un aspetto cadaverico, ma riprese a correre. Nessun segno di Ahlward: un guazzabuglio di scatole di cartone intorno a noi ci faceva da schermo. Ci arrampicammo sulle scatole, le aggirammo correndo. Milo si fermò con la mano al petto, le gambe inarcate e la testa piegata. Lo chiamai. Lui rispose: «...sto bene...» Inspirò. Lo fece ancora. Poi ricominciò a muoversi. Un'altra esplosione. L'edificio tremò come un pulcino bagnato. Altre scatole crollarono intorno a noi, un Vesuvio di MATERIALE STAMPATO.
Sterzammo, schivammo, riuscimmo a farci largo attraverso le macerie. Un'altra curva. Superammo il carrello elevatore... Sferragliamento. Ancora sibili. Ancora tuoni. Urla di agonia. Carta che bruciava. Un improvviso, crescente calore. Musica di demolizione. Lingue arancioni lambivano il pavimento a qualche metro da noi. Un fumo sudicio, nero come l'inchiostro, filtrava fra gli scatoloni, salendo al soffitto del magazzino e annerendolo. Il calore diventò più intenso. Un'altra raffica fredda attraversò l'aria. Rumore di cartone lacerato. Ahlward emerse dal fumo urlando, senza che noi potessimo sentirlo, ignorando il fumo che cresceva intorno a lui, impazzito d'odio. Mirò ancora. C'era un varco nella parete di cartone. Corsi verso di esso, mi accorsi che Milo non era con me. Guardai indietro, lo vidi. La mano sul petto. Una coltre di fumo si era alzata tra lui e Ahlward. La attraversarono degli spari. Milo si guardava attorno disorientato. Tornai indietro e gli afferrai la mano. Sentii la resistenza del suo peso sul mio polso, i tendini tesi... Tirai forte. Riuscì a rimettersi in movimento. Vidi la porta scorrevole metallica della piattaforma di carico qualche metro più su. Lacerata come carta stagnola e annerita sui bordi. Frammenti metallici sparsi per terra. Un tesoro luccicante sopra un cumulo di calcinacci e polvere. E qualcos'altro. Una camicia nera. Prono. Capelli a spazzola biondi. Pallido, viso largo. Occhi bianchi. Un grosso corpo allungato, flaccido. Due pezzi di corpo. Il tronco diviso dalle gambe. Tagliato in due dalla porta scorrevole. Più vicino alla porta, un altro cadavere, sepolto per metà dal metallo e dalle interiora. Una testa carbonizzata appoggiata su un hamburger. Altri quattro, appena riconoscibili, macchie di umidità nel mucchio di cenere. Mi venne il voltastomaco. Mi sentii soffocare. Esalazioni chimiche. Il magazzino era una fornace, con le fiamme che arrivavano al soffitto e il fumo che diventava più fitto, mentre avanzava verso di noi. Un tornado sudicio. Una sagoma nera emerse dalla massa di carbone. Ahlward, fuligginoso e bruciacchiato, che scrollava la testa da una parte all'altra come per liberarsi dalle sanguisughe.
Ci scorse. Urlò. Sollevò la sua grossa pistola nera. Mi diressi verso lo squarcio più grosso che si era aperto nella porta e tirai Milo dall'altra parte, scivolando sul pavimento reso sdrucciolevole dal sangue, facendo scricchiolare pezzi di metallo e ossa sotto le mie scarpe. Fuori. Aria fresca. Aria che puzzava di benzina. Attraversammo barcollando la piattaforma di carico. Esalazioni e fiamme si riversarono fuori dal magazzino, dalle finestre frantumate, dalla porta metallica devastata. Guizzavano dai fori aperti dall'esplosione sulla parete. Il respiro di Milo era affannoso. Lo trascinai lungo le scale fino al parcheggio. Un urlo disumano si levò alle nostre spalle... Ahlward era sulla piattaforma. La sua figura risaltava contro l'edificio in fiamme. Sembrava molto piccolo. Prese la mira. Una fede incrollabile. Spari. Un rumore simile a un gracchiare di rana. Non sapevo che una pistola potesse emettere un simile suono. Un altro scoppio. Dietro di noi. In trappola? Le rane gracchiarono ancora. Mi guardai dietro e vidi Ahlward fare un balzo improvviso e cadere, mentre la pistola volava in quell'inferno. Le fiamme fuoriuscirono dal magazzino e lo inghiottirono. Il dessert. Poi una voce, che proveniva dall'oscurità: «Lei e il suo amico detective siete salvi, dottor Delaware. Vi ho salvati». 35 Venne avanti, illuminato dalle fiamme, con addosso una giacca a vento scura e impugnando un fucile che sembrava troppo grosso per lui. Sull'arma era stato montato un complicato cannocchiale. I capelli radi ondeggiavano al vento. Ceneri ardenti cadevano intorno a lui. L'espressione del viso rivelava una profonda soddisfazione. «Signor Burden...» dissi. «Mahlon», mi interruppe, «penso che abbiamo raggiunto il giusto grado di familiarità, non crede, Alex?» Sorriso.
Vidi Milo irrigidirsi. Mi fermai, immobile. «Non abbia paura», disse Burden. «sono un amico. Non mi sembra stia bene, ispettore Sturgis. L'accompagno in ospedale.» Milo disse: «Se lo scordi». Scrollando la testa e allargando le braccia per mantenersi in equilibrio, aggiunse: «Linda Overstreet. Hanno mandato qualcuno a casa sua. Dobbiamo cercare un telefono, chiamarla». Fece alcuni passi barcollando. Burden disse: «Faremo qualcosa di meglio, ispettore». Schiocco di dita. Un altro viso emerse dall'oscurità. Poco più di trent'anni, bello, grossi baffi spioventi sopra una barba corta. «Dottore, lei conosce già Gregory Graff. L'ha visto in fotografia. Eccolo in carne e ossa. Gregory, aiuta l'ispettore Sturgis.» Graff avanzò. Era molto alto e robusto. Un fucile simile a quello di Burden era appeso alla sua spalla. Indossava una tuta mimetica, che sembrava fresca di lavanderia. Era concentratissimo nei movimenti, un chirurgo intento ad allacciare capillari. Circondò con un braccio le spalle di Milo e con l'altro lo sostenne per un gomito. Al suo confronto. Milo sembrava piccolo. Un metro e novantacinque almeno. Sostenni Milo per l'altro braccio. Milo cercò di liberarsi dalla nostra presa. «Sto bene, maledizione. Procuratemi un telefono.» «Da questa parte», disse Burden. Voltò le spalle a quell'inferno e cominciò a camminare velocemente. Mentre camminavo mi girai indietro. Le fiamme avevano raggiunto il tetto del magazzino e guizzavano contro il cielo tingendolo di rosso. Alcune persone, che erano riuscite ad arrivare sulla piattaforma di carico sepolta dalle fiamme, agitavano le braccia e si scrollavano di dosso le ceneri ardenti. Uno di essi cadde a terra e rotolò. Altri urli. Burden si girò disinvolto, appoggiò il fucile alla spalla, e sparò una scarica gracchiante. Milo disse: «Lasci perdere, maledizione. Si sbrighi!» «Copriamo la ritirata», disse Burden, «è sempre prudente farlo in questo tipo di missioni.» Ma abbassò il fucile e corse avanti. Milo imprecò e cercò di camminare più in fretta. Le gambe gli cedettero. Graff lo sollevò, lo caricò sulle spalle come fosse di paglia e continuò a camminare senza perdere il passo. Milo protestò e imprecò. Graff lo ignorò.
«Eccoci arrivati», disse Burden. Il cancello di lamiera era tenuto aperto da una barra di ferro. Subito fuori, parcheggiato sul bordo della strada c'era un furgone. Grigio scuro, un finestrino scuro per lato, il tetto coperto di antenne. Il riflesso delle lingue di fuoco lontane creava l'illusione di un murale basso sulla parte inferiore della fiancata. Un murale danzante... inferno su quattro ruote... Sentii l'urlo delle sirene in lontananza. Burden tirò fuori qualcosa dalla sua tasca e schiacciò un bottone. Un clic metallico. Il portellone del furgone si aprì. Milo guardò le antenne. «Ha un telefono. Mi metta giù e mi faccia usare quel maledetto aggeggio!» Burden disse: «Gregory, fa' in modo che l'ispettore stia comodo lì dietro». Graff sollevò Milo, stile sposa sulla soglia di casa, e lo fece scivolare nel vano di carico del furgone. Milo scomparve imprecando. Il portellone si chiuse sbattendo. Afferrai la spalla di Burden. «La smetta di giocare e ci faccia usare il telefono!» Burden sorrise e allontanò le mie dita. «Oh, questo non è un gioco, dottore. Penso di aver fatto un buon lavoro salvandovi la vita. Il minimo che potete fare è avere fiducia in me.» Girò intorno per arrivare davanti allo sportello del lato conducente e disse: «Salti dentro». Aprii la portiera di destra. Davanti c'erano due sedili ribaltabili Recaro da macchina da corsa; in mezzo una console con un minicomputer e un telefono. Mi sedetti e sollevai la cornetta. Staccato. Burden era dietro il volante. «Lo colleghi, maledizione!» Il volto di Burden era del tutto inespressivo. Passò il fucile a Graff e inserì la chiave nell'accensione. Guardai dietro: il retro del furgone era un guscio completamente tappezzato. Milo giaceva sul pavimento in mezzo a molte scatole metalliche e a qualche dispositivo elettronico che non riuscivo a identificare. Graff era in ginocchio accanto a lui, con la grossa testa che sfiorava il soffitto. Una rastrelliera copriva una parete interna. Pistole semiautomatiche, fucili, qualcosa tipo Uzi. Milo si sollevò con grande sforzo e si aggrappò allo schienale del sedile di Burden. «Tu, piccolo stronzo sadico!» Graff lo tirò indietro e gli afferrò il polso. Milo imprecò.
Burden disse: «Bella gratitudine!» e girò la chiave. Il motore si accese e sul cruscotto esplosero mille luci: contatori, quadranti, display grafici, diodi a emissione luminosa. Una fila di quadranti rotondi, parallela al parabrezza, sul bordo anteriore del soffitto. Altri quadranti sulla console, su entrambi i lati del computer e intorno al telefono. Abbastanza strumentazione da riempire la cabina di pilotaggio di un Boeing 747. Burden disse: «Benvenuti nel laboratorio sperimentale mobile ufficiale della New Frontiers, Ltd. Le componenti vanno e vengono. Ricevo in continuazione dei campioni gratuiti e tengo solo il meglio». Pensai a Linda. In quel momento quel narcisismo era letale. Lottando contro il desiderio impellente di strangolarlo, dissi: «Per favore. È questione di vita o di morte». Toccò uno spazio a destra del volante. Apparve uno schermo quadrato giallo della grandezza di un sottobicchiere. Lampeggiarono dei numeri neri: una combinazione di due cifre seguita da sette altri numeri che continuavano a cambiare. Sotto lo schermo, una piccola tastiera. La luce dello schermo rivelava la presenza di altri due apparecchi telefonici, montati sul cruscotto, staccabili. I tasti erano giallo banana. «Uno scanner della polizia», disse Burden, usando la tastiera con quattro dita, «programmabile per qualsiasi regione del mondo. Che di per sé non ha niente di eccezionale. Ma questo è stato modificato: può essere usato per interfacciare con la rete di comunicazione della polizia e fare chiamate.» Sorriso. Un'abbuffata di onnipotenza. «Del tutto illegale. Lo so, ispettore Sturgis.» «Per amor di Dio, chiami!» dissi e gridai l'indirizzo di Linda. «Conosco l'indirizzo», disse, «vuole che faccia io la chiamata o preferisce farla le...» «La faccia!» Fece schioccare la lingua, schiacciò un altro bottone che stabilizzò i numeri sullo schermo e sollevò uno dei ricevitori sul cruscotto. «A tutte le unità di West Los Angeles», disse con voce contraffatta, «a tutte le unità di West Los Angeles»; ci scrutò «otto A-ventinove. ADW in corso, possibile tentativo di uno-otto-sette.» Recitò rapidamente via, numero e appartamento di Linda. «Codice tre. Ripeto...» La radio rispose attraverso un altoparlante sul soffitto. La voce di un agente di pattuglia confermò di aver preso la chiamata. Dopo pochi secondi altre due unità chiamarono in codice sei: assistenza. «Ecco», disse Burden, schiacciando un bottone che oscurò il cruscotto,
«dovrebbero occuparsene loro.» «Vai lì, stronzo», disse Milo. «Come vanno le sue ferite, ispettore Sturgis?» «Ho detto di andare lì.» Il sedile di Burden girò. Lui guardò dietro. «Gregory?» Graff sollevò un braccio di Milo e lo piegò delicatamente. Milo disse: «Lasciami stare, Paul Bunyan. Vai, Burden o troverò qualcosa per sbatterti dentro». Graff disse: «Non sembra ci sia niente di rotto, signor Burden». Una voce di basso che si addiceva alla sua mole. Buona pronuncia. Inflessioni del New England. Le sirene diventarono più forti. Burden disse: «L'ultima cosa che voglio è essere accusato di omissione di soccorso. Soprattutto se in rapporto a un pubblico ufficiale». Sedeva con le mani sul volante, mentre le sirene diventavano assordanti. Alla fine agganciò la cintura di sicurezza, diede gas e partì. Appena uscimmo dalla stradina, i mezzi dei vigili del fuoco vi si lanciarono. «Dove siamo?» chiesi. «Van Nuys», disse Burden, «quel semaforo rosso è Victory Boulevard.» Milo disse: «Passa col rosso». Burden rispose: «Che brutti consigli, ispettore», ma non si fermò all'incrocio. «Senza dubbio vorrete sapere come è andata. La vostra liberazione.» Un altro semaforo rosso. Riverside. Questa volta si fermò. «Vediamo, superstrada o canyon? A quest'ora direi la superstrada.» Si diresse verso ovest. «Naturale che voglio saperlo», dissi, «come avete fatto?» «Qualche ipotesi?» «Qualcuna.» «Sentiamole.» «Per cominciare, lei ha messo sotto controllo il mio telefono. Quando è venuto a casa mia.» La mia dolcissima casa. Mi aveva chiesto di usare i servizi per poter restare qualche tempo da solo sul retro della casa. Aveva pianto e rovesciato il caffè per fare la stessa cosa nel soggiorno. E io gli avevo concesso altro tempo restando in cucina per dargli la possibilità di ricomporsi... «Molto bene», fece lui, «ma in verità sono andato ben oltre i telefoni. Ho
installato dispositivi di ascolto in diversi punti dentro e fuori la casa: sotto i mobili, sotto il letto. Accanto alla porta d'ingresso. La tecnologia di oggi permette un'incredibile facilità di installazione. Abbiamo unità non più grandi di un chicco di riso. Anche se quelle che ho usato con lei erano più grosse. La dimensione di una lenticchia. Autoadesive. Lunga distanza, altissima definizione, sintonizzabili...» «Sezione cinque», dissi, «sani e salvi.» Lo adulavo proprio mentre mi rendevo conto di cosa aveva ascoltato. Conversazioni telefoniche. Chiacchiere intime a letto. La violazione... Era il mio liberatore, ma non per questo mi piaceva di più. Essere salvato da lui era come scoprire che Dio esiste, ma ha un brutto temperamento. «A dire il vero», soggiunse, «questi componenti non compaiono ancora in catalogo. Così lei ha avuto un'anteprima non prevista. Sarò felice di lasciarglieli installati e di mostrarle come usarli a suo vantaggio.» «No, grazie.» «Senza dubbio, lei si sentirà violato. Ma era necessario monitorizzare i messaggi che riceveva e che trasmetteva. Lei era il mio canale. Con la scuola, la polizia: tutti. Nessuno mi avrebbe aiutato. Mi trattavano come un paria. Avevo bisogno di dati; era un mio diritto. Sapevo che avrei dovuto essere preciso. Ho presintonizzato le unità con gli apparecchi ricevitori che ho in casa. Apparecchi simili erano installati nel furgone. Nessun altro avrebbe potuto ricevere la trasmissione, intercettando così le sue conversazioni. E tutte le registrazioni saranno distrutte il prima possibile.» «Gliene sono grato.» Non riuscii a evitare un tono sarcastico. Ma non se ne accorse, o lo ignorò. Ci trovavamo ora al confine tra Sherman Oaks e North Hollywood e ci avvicinavamo a Coldwater. Poche macchine per strada. Gli ultimi avventori dei ristoranti di ritorno da Ventura. Altri semafori, poi la rampa di accesso alla 134 West. «Le 'lenticchie' sono fabbricate in Polonia», disse, «anche se penso che gli sviluppi e le ricerche attuali provengano dall'Unione Sovietica. La glasnost e la perestroika sono stati una manna per chi come noi è interessato al libero scambio della tecnologia avanzata. Il distributore di Hong Kong è stato più che felice di spedirmi una scatola piena di queste diavolerie, praticandomi un ottimo sconto nella speranza che sarebbero apparse sul nuovo catalogo. Ma non è andata così, vero Gregory?»
«No, signor Burden. Troppo costoso per il nostro pubblico.» «Troppo costoso: anche con lo sconto. Ma per lei solo il meglio, dottor Delaware. Perché io l'ammiro. Per la sua tenacia. Ero certo della qualità delle informazioni che sarebbe stato in grado di incanalare verso di me. E avevo ragione, no? Così posso dire che le 'lenticchie' si sono ripagate. Come pure i traccianti radioattivi che ho collocato sulla sua Seville e sulla Matador e sulla Fiat dell'ispettore Sturgis. Sfortunatamente, non sono riuscito a collocarli sulla Ford che aveva scambiato con la Matador, ma in quel momento avevo già abbastanza dati per rintracciare il luogo in cui era stato condotto dopo il rapimento.» «Che tipo!» disse Milo. La sua voce non era più fioca. Era chiara, calma, e arrabbiata. Sapevo a cosa stava pensando: Burden aveva lasciato che sopportasse l'interrogatorio. Aspettando e ascoltando. «Anche Howard era il suo canale. Lei è passato e ha aspettato nel suo ufficio per poter installare le sue 'lenticchie', non è vero?» E aveva ascoltato tutte le parole piene di rancore che suo figlio aveva vomitato contro di lui. «Certo», rispose, con eccessiva noncuranza, «il comportamento di Holly mi lasciava perplesso: era distante, preoccupata. Visto che aveva difficoltà a comunicare, non riuscivo a tirarle fuori niente. Sapevo che era andata di nascosto da Howard e che entrambi non sapevano che io fossi al corrente del loro tentativo di rimettere insieme un qualche rapporto. Pensai che Howard poteva essere in grado di fare un po' di luce sul cambiamento di sua sorella, adesso che i due avevano cominciato a parlarsi.» «Ma lei non poteva semplicemente chiederlo a Howard, visto che anche con lui non riusciva a comunicare.» «Esattamente.» Ricordavo il disgusto che aveva pervaso l'ufficio di Howard quando parlava di suo padre: come poteva una persona riuscire ad accettarlo, a difendersi da esso? Lo guardai. Tranquillo. Come se niente fosse successo: il narcisismo al servizio dell'anima. Girò a sinistra per immettersi nella superstrada. Tutt'e sei le corsie erano vuote come Indianapolis il giorno dopo le corse. «Ecco perché era così impaziente di farmi incontrare con lui. Sperava che si aprisse con me per poter registrare tutto.» Sorrise. «Più di una speranza. Una previsione basata su dati. La conver-
sazione tra voi due si è rivelata molto utile.» «Wannsee due», dissi, «Howard ha raccontato che Holly aveva farfugliato quel nome il giorno in cui la cognata era passata a casa sua. Mi ero proposto di scoprire cosa significava. Lei ha ascoltato, ha registrato e mi ha seguito a passo a passo. «No, no», fece, seccato, «non avevo bisogno di lei per questo. Ero un passo avanti a lei. Conosco abbastanza la storia per capire esattamente cosa fosse Wannsee due. Anche Gregory, che appartiene alla sua generazione, ne è a conoscenza. Perché buona parte della sua famiglia fu eliminata dai nazisti. Così quando l'ho chiamato per dirgli che ci stavamo occupando di Wannsee due, ha dato immediatamente la sua disponibilità ad aiutarmi. Non è vero, Gregory?» «Sicuro, signor B.» «Ottimo ventriloquio», disse Milo, «dove ha trovato un pupazzo così grosso?» Graff rise di gusto. «Si sbaglia», rispose Burden, «Gregory ha fatto studi approfonditi in elettronica e biofisica, un anno di facoltà di medicina in un'università dell'Ivy League, ha una laurea in legge conseguita nella stessa università e un dottorato in economia.» Orgoglio. Orgoglio paterno. Il suo vero figlio. «Sembra un vero uomo del Rinascimento», dissi. Una parte del mio cervello pensava a Linda con un'intensità tale da sembrare sotto anfetamina. L'altra chiacchierava tranquillamente per cercare di ottenere informazioni da quel terribile vecchio seduto al volante. «Immagino abbia anche un addestramento militare», aggiunsi. «Ex agente segreto, come lei. Lo ha trovato così, vero. Non un'agenzia di modelli. Quando era il momento di cercare un partner, lei sapeva esattamente dove andare.» «Non sono un partner», disse Graff, «solo un fantoccio.» Ancora risate. Anche Burden rise. Apparve l'uscita per la 405. La prese in direzione sud, e si spostò nella corsia centrale mantenendo una velocità stabile di centodieci chilometri orari. «E se aumentassimo un po' la velocità?» Non rispose, ma il contachilometri salì a centoventi. Volevo arrivasse a centosessanta ma, sapendo che quello era il massimo che potevo ottenere, dissi: «Ecco un'altra ipotesi: per vostro tramite New
Frontiers ha accesso ai computer militari. Ahlward ha un passato militare. Voi l'avete controllato». «Passato militare!» disse Graff. Un ruggito da orso che voleva essere una risata. Burden non si unì a lui. «È stata la prima persona su cui ho fatto ricerche. Prima di avvicinarmi a lei. La stampa lo dipingeva come una specie di eroe. Volevo sapere chi era la persona che aveva premuto il grilletto. L'eroe che aveva ucciso mia figlia. E quanto scoprii puzzava. Aveva mentito sul fatto di essere stato un soldato.» Il tono lasciava intendere che questo era il peggior crimine. «Tutto ciò che aveva erano alcuni mesi in marina. Dall'aprile sessantasette al novembre sessantotto. Buona parte dei quali passati in prigione prima di essere vergognosamente allontanato per indegnità morale. Un dossier riservato a cui ho avuto accesso. Due incidenti. Molestie sessuali a una sedicenne, una ragazza nera, e il tentativo di organizzare una banda che si batteva per la supremazia della razza bianca tra le nuove reclute. È stato il secondo incidente che mi ha spinto a fare ulteriori ricerche. Dopo il suo congedo, trascorse qualche periodo di detenzione per furto, furto con scasso, disturbo dell'ordine pubblico. Mi resi conto che era un delinquente e feci delle indagini sulla sua famiglia. Suo padre era stato un criminale di guerra leghista. Aveva gestito uno dei campi estivi. Schweiben. Ahlward padre fu imprigionato per sedizione nel 1944, rilasciato nel 1947, per morire solo un anno dopo di cirrosi. Delinquenti alcolizzati. Delinquenti da generazioni. Questo fece sorgere un'altra domanda: perché un consigliere comunale di professata fede progressista aveva assunto uno come lui? Così ho fatto delle indagini anche sul consigliere. Lì non ho trovato nient'altro che una nullità mascherata da uomo. Buona famiglia, tutti i privilegi, non una traccia di difficoltà nel suo passato. Neanche una traccia di personalità. Spiccata preferenza per le vie più agevoli. Ovviamente ha sfondato in quel cesso che chiamiamo politica.» Parole arrabbiate, ma dette con tono colloquiale. «Ho messo dispositivi di intercettazione negli uffici di Latch. Facile come bere un bicchier d'acqua, vero, Gregory? Ma non mi è servito molto: gli uomini di Latch hanno mostrato di avere un minimo di disciplina e tendevano a essere circospetti al telefono. Ma lei stava facendo un buon lavoro, mettendo tutto insieme: Novato, la vecchia donna, quel fallito patetico di Crevolin. Per un momento ho pensato che il danneggiamento della macchina della signorina, scusi, della dottoressa Overstreet fosse collegato a
tutto il resto. Ma l'ispettore Sturgis ha dimostrato che mi sbagliavo. Congratulazioni, ispettore Sturgis.» «Fatti fottere e guida.» «Ma tutto il resto provava ciò che io avevo sempre saputo: mia figlia era stata lei stessa una vittima. Si era fatta abbindolare. Sapevo, dalla cautela con cui gli uomini di Latch parlavano al telefono, che doveva esserci un altro luogo dove facevano il loro sporco lavoro: un quartier generale segreto dove i porci parlavano liberamente. Ma non si sono mai traditi, non attraverso il dispositivo di intercettazione. Poi ho pensato alla moglie di Latch. Ho cominciato a rintracciare le proprietà intestate a lei. Scavando attraverso lo strato di società di cui si era circondata. Penetrare in quella specie di bozzolo è estremamente facile se sai come farlo e io ho pensato a diverse possibilità, nonostante il fatto che lei abbia un ingentissimo patrimonio. Stavo restringendo la lista quando lei mi ha facilitato il lavoro. Chiamando l'ispettore Sturgis l'altra sera e lasciandogli il messaggio sul pedinamento subito. Il numero di targa. Ho capacità di ricerca migliori di quelle della polizia: milioni di targhe nella mia banca dati. Ho confrontato il suo numero con una delle mie possibilità, una società inclusa in elenco come tipografia. Io e Gregory eravamo lì già dopo il tramonto. Abbiamo visto portarvici l'ispettore Sturgis. Abbiamo ascoltato. Mostraglielo Gregory.» Graff sollevò qualcosa dal pavimento del furgone. Un cono di vetro con al centro un microfono. «Questo è uno Stevens Venticinque-X, un microfono parabolico a lunga portata», disse Burden, «utilizzabile fino a tre chilometri.» «Un altro saggio della creatività del blocco orientale?» dissi. «Neanche per sogno», rispose Burden, «questo è interamente americano.» «Prodotto negli Stati Uniti», disse Graff. «Quando lei è arrivato, ispettore Sturgis», continuò Burden, «legato come un salame, noi eravamo qui in attesa. Ha tenuto duro molto bene. La sua preparazione militare è senza dubbio impressionante. Stia tranquillo: se fosse stato veramente in pericolo l'avremmo salvata, ma sapevamo da precedenti intercettazioni che avevano stabilito di tenerla in vita e finire lei e il dottore in un modo sessualmente suggestivo. Lei tuttavia non poteva in nessun modo esserne al corrente e si è comportato molto bene.» «Fottiti», disse Milo. «Le consiglio», rispose Burden, «di serbare la sua rabbia per quelli che
veramente la meritano. Per esempio perché pensa che all'inizio l'abbiano seguita, mascherandosi da FBI?» Silenzio da dietro. «È veramente all'oscuro, ispettore? O si sta trattenendo?» Nessuna risposta. Graff disse: «L'hanno venduta i suoi colleghi. Non è buona creanza». «Frisk», dissi. Burden fece cenno di sì. «Un'altra nullità. Quando è venuto a interrogarmi, il giorno dell'attentato, ha cercato di installare un dispositivo di intercettazione nel mio salotto. Un ferrovecchio primitivo. Ovviamente l'ho lasciato lì. Ho parlato, suonato il violoncello per lui. Conducendo Frisk esattamente dove volevo: in cerchio. È un idiota e ho visto subito che non serviva lavorare con lui. Quando l'ho rivisto nel suo ufficio, gli ho ricambiato la cortesia. Perciò ho un quadro molto preciso di cosa è stato capace di fare. E se fossi in lei, ispettore, non lo tollererei.» «Ha messo microspie al Parker Center?» disse Milo. «La nostra gloriosa divisione antiterrorismo», disse Burden, «se non fosse così triste, la loro incompetenza sarebbe divertente. Vede, Latch e compagni sono stati oggetto di indagine per qualche tempo. Ma non per i reali motivi. Frisk non aveva il minimo sentore, il minimo sospetto su Wannsee due. Sospettava che Latch fosse un comunista sovversivo, un estremista di sinistra impenitente: questo perché glielo avevano suggerito i nemici politici di Latch.» «Massengil?» dissi. «Insieme ad altri. L'ex deputato era una fonte primaria di informazioni false su Latch, perché sapeva che Latch aveva delle mire sul suo seggio.» «Perché non si è mosso contro Latch?» «Lo ha preso in considerazione», rispose Burden, «l'ho registrato mentre parlava al dittafono, pensava ad alta voce, considerava le varie possibilità, valutandone i pro e i contro, rimuginando in continuazione. Ma aveva paura di affrontare Latch senza prove solide ed era tuttavia incapace di trovarne una, primo perché non sapeva come, secondo perché tutta la faccenda era una mistificazione. Quell'uomo è incredibilmente stupido. Era così ansioso di assumere lui la direzione del caso proprio perché sospettava che dietro potesse esserci Latch: poteva essere il suo colpo grosso. Ed era nel giusto.» «Ma per i motivi sbagliati.» «L'idiota», commentò Burden, «credeva veramente di avere l'opportuni-
tà di essere promosso a vicecapo della polizia. Lei, ispettore Sturgis, appariva una minaccia alla sua ambizione. Esisteva la possibilità che lei risolvesse da solo il caso. Costituiva una minaccia perché lui sa, nel profondo, che lei è quello che lui non è: un investigatore competente. E anche naturalmente a un altro livello. 'Spregevole finocchio bastardo' è il modo in cui in genere si riferisce a lei. Se vuole, posso farle ascoltare le registrazioni.» Milo restava in silenzio. Burden uscì dalla superstrada a Pico e si diresse a est, verso Westwood, guidando con calma e a elevata andatura. «Come un vero politico, Frisk l'ha usata. Ha chiamato Latch. Come presunto confidente. Lo ha informato che lei aveva sospetti su di lui. Scusandosi. Lei era d'impaccio al dipartimento. Un poliziotto finocchio e mascalzone, con problemi di alcolismo, che continuavano a tenere sul libro paga solo per evitare cause civili e fastidi politici. Era solo una questione di tempo perché lei fosse espulso dalla polizia con infamia. Frisk ha detto a Latch che lei aveva fatto domande su di lui, e che era instabile e incline alla violenza. Mettendo in guardia il buon consigliere. Così Latch ha fatto seguire lei e il dottor Delaware. Nel frattempo Frisk pedinava Latch. Lei era la sua esca, ispettore. Se lei fosse morto questa sera, lui si sarebbe probabilmente imbattuto nella soluzione del caso, ne avrebbe guadagnato forse la gloria e la promozione. Vicecapo Frisk, non sarebbe stato simpatico?» Milo pensò ad alta voce: «Non mi ha fatto seguire questa sera». «No. Questa sera no. Digli perché, Gregory.» «Lui e il suo staff avevano una riunione ristretta», disse Graff, «lago Arrowhead.» Burden disse: «Per scambiarsi opinioni. Grandi strategie. Frisk è un poliziotto moderno. Legge i testi e conosce i manuali operativi». «Sembra una cosa uscita dal libro dei trucchi di Dobbs», dissi. «Sono tutti uguali», fece Burden, «burocrati. In ogni caso, non pensa che io abbia ragione al cento per cento, ispettore? Sul fatto di sfogare la sua rabbia su chi la merita?» Attraversammo due isolati in silenzio. Ci avvicinavamo a Sepulveda. Burden disse: «Volete sapere cosa abbiamo usato per demolire l'edificio?» Sul bordo del sedile. Linda, Linda... «Certo.» «Piccole quantità di plastico applicate in modo selettivo. Non il Semtex. Qualcosa di meglio. Una novità.»
«Ne basta un pezzettino», disse Graff. «Un pezzetto molto piccolo», disse Burden, «fornito di una minuscola cellula detonante piantata proprio nel mezzo. Non ci hanno visto perché l'intera parete frontale del magazzino era priva di finestre. La loro idea di sicurezza; sono caduti nella loro stessa trappola. Gregory ha collocato le cariche, poi ci siamo rifugiati nel nostro furgone, dove ci siamo rilassati, abbiamo mangiato panini e ascoltato. Lei è stato molto bravo dottore. Ha cercato di metterli l'uno contro l'altro. Ha tenuto i nervi saldi. Poi quando è giunto il momento, abbiamo schiacciato i bottoni.» «Bum», disse Graff. «Giustizia poetica, direi», soggiunse Burden, «non pensa? Peccato non aver potuto vedere Latch. Cosa gli è successo esattamente? Abbiamo sentito un certo trambusto.» Aspettai che Milo rispondesse. Siccome non lo faceva dissi: «È caduto sul coltello di Ahlward, che gli ha trapassato il collo». «Splendido.» Un gran sorriso. «Letteralmente saltato in aria sul suo petardo. Che bel quadretto. Mi dispiace solo di non essere stato lì a vedere. Tutto sommato, un'avventura riuscita, non credi, Gregory?» «Nel modo più assoluto, signor Burden.» «Molta gente è morta», dissi, «ci saranno domande.» Burden staccò una mano dal volante e fece girare vorticosamente il braccio in segno di vittoria. «Più domande fanno, più felice sono. Commissioni municipali e statali, sottocommissioni del senato, la nostra amata stampa. Mandatemeli tutti. Mi piace Washington d'inverno. Sul Capitol Mall scende uno squallore che si sposa perfettamente con lo spirito della gente meschina che vi lavora. Mi piace in particolar modo quando ci vado con qualcosa da vendere.» «Lo smascheramento degli altri politici, in segreto nazisti di Ahlward?» «Sarebbe una vera rivelazione», disse, «dopo aver fornito i nomi, vi garantisco che sarò un eroe. Rotocalchi popolari. Questa sera spettacolo. Il fatto del giorno. Abbastanza popolare da correre per le presidenziali e vincerle, se avessi il cattivo gusto di nutrire tali ambizioni. Sceglierò tuttavia di evitare le luci della ribalta e gran parte della mia fama svanirà molto in fretta: l'epoca in cui viviamo è così. La gente non è molto attenta, chiede insistentemente novità. Nel frattempo, io e Gregory metteremo a punto una strategia per sfruttare tutta la simpatia che ci saremo guadagnati a Washington. A fini commerciali. Ho pensato di potenziare la mia divisione armi per qualche tempo.»
«Giusto», dissi, «sani e salvi. Acquista il tuo Ak-quarantasette dall'uomo che sa.» «È il mio lavoro. Anticipare. Capire le tendenze, rilevare modelli di comportamento.» Pausa. «Non che questo mi ripaghi della perdita subita.» Lo guardai. «Hanno preso ciò che mi apparteneva», disse, «un errore fatale.» 36 Ambulanze. Furgoni della scientifica. Ancora macchine della polizia disseminate come pezzi di domino; sui tetti luci intermittenti che pulsavano in contrappunto col mio cuore. Burden si fermò dietro una delle macchine bianche e nere. Un poliziotto che sembrava molto giovane venne al finestrino lato conducente e disse: «Se non abitate in zona, dovete spostarvi». Milo disse: «Va tutto bene, Sitz», tirandosi su sui gomiti e con la faccia appena visibile dietro il sedile del conducente. L'agente si irrigidì e sbirciò dentro. «Sono io, Sitz.» «Ispettore Sturgis? Sta bene, signore?» «Grossi guai su a Van Nuys. Un incendio, molti morti. Sono stato fortunato, tutto ciò che ho perso sono camicia e documenti. Queste brave persone mi hanno aiutato a venire qui. Forse è collegato a uno dei miei casi. Com'è la situazione?» «Tentato uno-otto-sette. C'è l'ispettore Hardy su. Non sappiamo bene cosa sia successo...» Quando Milo raggiunse la porta e l'aprì, Sitz indietreggiò. Ero uscito dal furgone con la velocità di un ladro e correvo quando sentii la voce di Milo dietro di me: «Va tutto bene, lascialo andare». Corsi all'impazzata. Dentro il corridoio tappezzato di carta verde. Un agente teneva aperta la porta dell'ascensore. Quando mi vide, portò la mano alla pistola. Un istante dopo, quando scorse Milo, mi guardò ancora con gli occhi sgranati. Milo disse: «Fuori dall'ascensore, Buell. Stai nel corridoio». Una salita silenziosa per tre piani. Da impazzire. Così lenta. Non finiva mai. Davo pugni alla porta dell'ascensore. Milo in piedi accanto a me. Poteva sentire l'odore della mia paura. Ma non si allontanò. Alla fine l'ascensore si fermò sobbalzando. Uscii stringendomi prima
che la porta fosse completamente aperta. Ancora carta da pareti verde. Una corsa fino in fondo. Un poliziotto alla porta. Ancora poliziotti. Occhi sospettosi. Milo fece cenno che tutto era a posto. «Sì, signore.» Oltre la porta, su cui avevano attaccato il cartello DIPARTIMENTO DI POLIZIA. Dentro il soggiorno. Luci accese. Profumo. Pareti color ostrica. Tracce fresche di aspirapolvere sulla moquette dorata: che donna precisa! Allungato per terra qualcosa che assomigliava a un corpo umano in un sacco di plastica chiuso da una lampo. Mi accasciai sulle ginocchia. Un uomo con capelli grigi e barba, che indossava un blazer verde bottiglia e pantaloni di flanella grigi, era seduto al tavolo con in mano un piccolo registratore. Ai suoi piedi, una valigetta a soffietto. Uno stetoscopio intorno al collo. Un diverso tipo di visita a domicilio. Alzò lo sguardo verso di me. Valutazione diagnostica. Ma nessuna simpatia, solo curiosità. Suoni dalla camera da letto. Mi alzai, entrai barcollando. Ancora profumo. Nauseante. Un negro snello e con una calvizie incipiente, che indossava un completo blu scuro, era in piedi accanto al letto d'ottone, con in mano un taccuino e una penna d'oro. Le coperte erano in disordine. Linda sedeva sulle lenzuola, spalle curve e ginocchia al petto, con addosso una veste da camera trapuntata rosa. Fissava il vuoto. Corsi da lei. Abbracciai un pezzo di marmo. L'uomo dal completo blu si girò. Un bellissimo vestito. Aveva sempre avuto una passione per l'abbigliamento. Il partner più azzimato della «strana» coppia, quando era insieme a Milo. Questa sera non era un'eccezione... una camicia celeste di flanella, colletto con stecche, cravatta rossa e blu con motivo paisley... Rosso ruggine. Leggermente più chiaro delle macchie che imbrattavano lo specchio sopra il cassettone. Ruggine anche sul muro. Tre buchi, da cui si irradiavano incrinature simili a zampe di ragno, molto vicini fra loro, a sinistra dello specchio. Il piano del cassettone era un insieme, caotico e desolato, di bottigliette di profumo rovesciate, grosse macchie di sangue di forma irregolare, frantumi di un vassoio a specchio. Il sangue colava sul davanti del cassettone. La
moquette era un collage di frammenti di vetro, altro sangue e un oggetto metallico. Una rivoltella dalla canna corta con un'impugnatura di noce. Al mio occhio poco pratico, sembrava identica a quella che portava Milo. Quando la portava. Delano Hardy mi guardò sorpreso e disse: «Dottore. Ha parlato di lei. Era preoccupata per lei». «Sto bene.» «Anche lei starà bene.» Il potere del pensiero guidato dai desideri. La strinsi più a me, le accarezzai la schiena. Era ancora rigida. «...e ha fatto un buon lavoro», stava dicendo Del, «ha protetto se stessa, e nient'altro. no?» Indicò la rivoltella. Molto sommessamente disse: «Una donna dura. Ha guadagnato il mio voto per l'elezione a sceriffo. Ha raccontato come sono andati i fatti con coerenza. Poi, quando abbiamo finito è diventata molto calma ed è caduta nello stato in cui è adesso: lo choc si sta assestando, a giudizio del coroner. Non uno choc fisico, ma psicologico, il tuo campo di competenza. Fisicamente sta bene, considerati i segni di vitalità e tutto il resto. Il coroner l'ha esaminata attentamente, ha detto che è una donna di buona tempra, le ha dato qualcosa per calmarla, per farla dormire. Ha detto che sembrava in buono stato fisico, ma che doveva essere tenuta in osservazione per un paio di giorni. Sta arrivando un'ambulanza dall'UCLA». Del Hardy parlava più velocemente di quanto lo avessi mai sentito fare. Nonostante tutti quegli anni, tutti i cadaveri che aveva visto, era ancora capace di prendersela a cuore. Ricordai perché mi piaceva. Oltre al fatto che mi aveva salvato una volta la vita. C'era una volta... «È già arrivata, Del?» «Cosa?» «L'ambulanza. È qui.» «Oh.» Del mi diede uno sguardo diagnostico. Avvicinai Linda a me, cercai di sommergerla, di essere tutto per lei. Alla fine aderì al mio corpo, ma rimase fredda e inerte come argilla. Milo entrò nella stanza. Del spalancò gli occhi: «Deve esserci stata una bella festa, ragazzo». Milo disse: «Tirava aria che scotta in città, Del. Avresti dovuto esserci». Ridotto male, ma stranamente autorevole. Il suo sguardo si fermò su Linda. Lui e Del si scambiarono segnali con gli occhi, tra poliziotti. Come in passato, mi sentii un intruso. Ma non mi importava.
Hardy ripeté le poche cose che aveva già detto a me e sembrò parlare ancora più in fretta. Cercando di confortare. Linda cominciò a tremare violentemente. La tenni stretta, ma non riuscii a farla smettere. La grossa faccia di Milo assunse un'espressione mesta per il dolore e l'empatia. Disse: «Andiamo a parlare fuori, Del». Del fece cenno di sì, mise via penna e taccuino e disse: «La tenga al caldo, dottore. Tiri su le coperte. Dovrebbe riposare». Uscirono. La feci distendere sul letto e l'avvolsi con la trapunta. Le accarezzai il viso, i capelli. Stava ancora tremando. Il tremore diminuì gradualmente di intensità e cessò. Cominciò a respirare ritmicamente. Le toccai la guancia. La baciai. Le baciai gli occhi. Aspettai finché non fui certo che fosse profondamente addormentata prima di tornare nel soggiorno. Del e Milo stavano accompagnando il coroner, con la giacca verde, alla porta. I pantaloni avevano una piega perfetta. Si erano tutti vestiti per la serata. Milo aveva anche un paio di cerotti. Dopo che il coroner fu uscito, Del indicò il sacco contenente il corpo. «Ha forzato la serratura per entrare», disse, «ha usato strumenti da professionista. Ma ha fatto troppo rumore e ha svegliato la vittima, la dottoressa Overstreet. Non che fosse un lavoro particolarmente malfatto, in verità abbastanza buono. Così lei sente aprire la porta, si sveglia. In genere ha un sonno profondo, ma questa sera era nervosa a causa della chiamata del dottore.» Guardò verso di me. «Qualcosa sul fatto di essere seguito, qualche strana storia di nazisti che non sono riuscito a decifrare. Ma ho capito che il fatto che lei fosse preoccupato preoccupava anche lei.» «Un eccellente motivo per essere preoccupati», disse Milo. Del guardò le ferite di Milo e disse: «La tua bella festa è collegata a questo?» Milo emise un lungo sospiro; improvvisamente sembrò debole e ridotto a mal partito. «È una lunga storia. Non ci crederesti se te la raccontassi.» «Sono di larghe vedute», disse Del. Milo sorrise. «È una storia da quattro drink, Delano. Tu paghi e io racconto.» «Dopo aver scritto il verbale?» «Fregatene dei verbali.»
Hardy alzò le spalle. «Sei tu il capo. Se qualcuno fa delle storie, do la colpa a te. Sei sicuro di non volere una coperta?» «Sto bene», disse Milo, «continua il racconto.» «Dov'ero arrivato», disse Delano, «sì, era nervosa. Così nervosa che aveva tirato fuori la sua pistola. Una Smith and Wesson special della polizia. Sembra appartenesse a un tipo chiamato Mondo, del Texas, il luogo da cui proviene. Aveva anche una scatola di cartucce. L'ha caricata, l'ha messa sul comodino e l'ha afferrata quando ha sentito che c'era qualcuno nel soggiorno. L'intruso si avvicinava in punta di piedi. C'era un po' di luce che penetrava dalla finestra sopra il letto. Vide che quella persona brandiva qualcosa: l'abbiamo trovata lì nell'angolo. Una mazza chiodata, bell'arnese. Ha urlato all'intruso di fermarsi. Lui ha continuato ad avanzare. Ha urlato ancora, ha continuato a urlare. L'intruso non le ha dato affatto ascolto. Così ha scaricato la pistola. Tre pallottole a segno e tre colpi che l'hanno mancato di poco, conficcati nella parete. È un'ottima tiratrice, data la situazione. Spero che non sprechi troppo tempo in sensi di colpa.» Si inginocchiò accanto al sacco. «E adesso la parte più interessante.» Tirò e aprì trenta centimetri di cerniera. Sembrò il rumore di qualcosa che si lacerava. Una faccia ci fissò. Una donna. Viso da scimmia cappuccina sotto capelli biondo sporco. Arruffati. Occhi chiusi, quello sinistro gonfio e livido. Pelle grigia. Quel grigio verdastro che fa parte della tavolozza della morte. Un foro, color rubino e con i bordi scuri, largo un quarto di dollaro, sulla guancia sinistra. Labbra secche, aperte. Tra di esse una scheggia di dente grande quanto un chicco di granoturco. «Una donna», disse Hardy, «non sappiamo chi sia. Non ha documenti addosso. Forse dovremmo far analizzare la mazza dalla scientifica. Sperando di ricavarne qualcosa.» «Si faceva chiamare Crisp», dissi, «Audrey Crisp. Potrebbe essere il suo vero nome come potrebbe non esserlo.» Del chiuse la lampo. «Una donna con una mazza da baseball, tutte quelle punte, come una di quelle armi medievali. Una mazza chiodata o qualcosa del genere. È una cosa fuori del comune vero? Hai mai visto una cosa simile prima, Milo?» Ritornai in camera da letto. Mi sedetti sul letto. Linda aprì gli occhi, mormorò qualcosa che avrebbe potuto essere il mio nome. Non essendoci niente che provasse il contrario, decisi che era il mio no-
me. Il potere del pensiero guidato dai desideri... Le scostai i capelli dalla fronte e la baciai. Piagnucolò e si girò su un fianco, verso di me, guardandomi. Mi sdraiai accanto a lei e chiusi gli occhi. Quando gli infermieri dell'ambulanza arrivarono, dovettero svegliarmi. Dovettero staccare il mio braccio dalla sua vita e il suo dalla mia. 37 Suo padre arrivò in aereo dal Texas il mattino seguente. Mi aspettavo Gary Cooper, mi trovai davanti un Lyndon Johnson passato attraverso un compattatore di rifiuti: basso, grasso, grandi orecchie con lobi alla banjo, naso da beone, mento rugoso. L'unico legame genetico con Linda che riuscii a individuare furono le mani piccole e delicate che teneva appoggiate alle gambe. Neanche i suoi abiti ricordavano un ranger texano: giacca sportiva blu scuro, una polo gialla, pantaloni di tela indiana a righe bianche e blu, mocassini di pelle verniciati. Mi chiamò prudentemente «signore», non riuscendo bene a capire chi fossi io, o chi fosse sua figlia. Quando entrò nella stanza d'ospedale, lei fece un sorriso stanco e io li lasciai soli. Partì con lui il giorno successivo, promettendomi di chiamarmi non appena fosse arrivata a San Antonio. Lo fece la sera stessa, ma sembrò esitante, come se qualcuno stesse ascoltando e non potesse parlare liberamente. Le dissi di prendersi tutto il tempo necessario per guarire. Che avrei controllato se alla Hale tutto andava bene. Che avrebbe potuto chiamarmi in qualsiasi momento avesse avuto bisogno di me. Cercando di essere convincente, mettendo nella mia voce un tono da terapista. «Questo significa molto per me, Alex», disse, «so che i bambini si troveranno bene. La persona che hanno chiamato per sostituirmi è veramente in gamba. Siamo stati a scuola insieme: farà un buon lavoro.» «Ne sono felice.» «Può chiamarti? Per delle consulenze?» «Naturalmente.» «Grazie. Sei straordinario.» «Mi sto gonfiando, gonfiando, gonfiando...» «Sul serio, è vero. A proposito, Carla ha un regalo per te: ti abbiamo fat-
to un regalo. La settimana scorsa. È una collana di romanzi di Mark Twain. L'opera completa. So che ti piacciono i libri. Spero ti piaccia Twain.» «Adoro Twain.» «È una collana rilegata in pelle, molto carina. L'ho cercata per te in un negozio di antiquariato. Vorrei essere lì per dartela di persona. Ma Carla te la spedirà. A meno che tu non capiti a scuola; allora puoi prenderla da solo, nel mio ufficio, sulla scrivania.» «Ci andrò. Grazie.» Pausa. «Alex. So che è sfacciato quello che sto per dirti, ma non potresti venire qui a passare qualche giorno con me? Non subito, magari fra un po'?» «Mi sembra una buona idea.» «Fantastico! Ti porterò in giro, ti farò passare dei bei momenti. Te lo prometto. Potrai mangiare ancora fiocchi d'avena. Non appena le cose si saranno sistemate.» «Non vedo l'ora. Ricordati di Alamo.» «Ricordati di me.» Più tardi quel giorno venne Robin, con sandwich e vino, un bel sorriso e un bacio leggero sulle labbra. Ci sedemmo uno di fronte all'altra al tavolo di frassino sostenuto da cavalietti che lei aveva costruito qualche anno prima. Era la prima volta, dopo tanto tempo, che sedevamo insieme in quella stanza. Se fosse stato un incontro programmato, avrei passato ore tremando soltanto all'idea. Ma finì con l'essere un incontro piacevole: niente di fisico, niente di nascosto, calcolato o rigido. Niente vecchie ferite riaperte, né lacerazioni di tessuti infetti. Non che noi rifiutassimo di vedere: semplicemente sembrava non esserci alcuna cicatrice che potessimo vedere o sentire, o forse era il vino. Restammo seduti a parlare, mangiare, bere, discutere sullo stato pietoso del mondo, sui rischi e le gioie del lavoro, a prenderci in giro. Attorno a noi tutto era calmo, dolce: come tra bambini; come se fra noi fosse nato un rapporto sano. Cominciai a credere che l'amicizia fosse possibile. Quando partì, la mia solitudine fu mitigata da una piacevole, confusa speranza. E, quando Milo passò a prendermi, ero di un buonumore sorprendente.
38 Sorveglianza. Natiche intorpidite. Ma era bello essere dall'altra parte. I primi due giorni non diedero alcun risultato. Sperimentai la noia dei poliziotti, l'incertezza. Capii come anche la migliore delle amicizie poteva farsi tesa per il troppo far niente, ma rifiutai le ripetute offerte di Milo di lasciar perdere. «Cos'è? L'anno del masochismo?» «Voglio solo arrivare fino in fondo.» «Tentiamo un altro paio di giorni.» Così restammo seduti nella macchina noleggiata finché i nostri sederi non diventarono di marmo. Mangiammo cibi precotti stantii, facemmo le parole crociate, ci impegnammo in vuote discussioni che nessuno di noi avrebbe tollerato in altre circostanze. Il secondo giorno accadde. La Volvo marrone si allontanò come al solito dal ricco quartiere di periferia. Ma questa volta lasciò il distretto dirigendosi verso la superstrada 405. Milo restò indietro finché non salì sulla rampa d'accesso in direzione nord, poi la seguì, continuando a mantenersi a una certa distanza. «Vedi», disse girando il volante con un dito, «è così che si deve fare. Con abilità. Non può scoprirci in nessun modo, a meno che non abbia poteri medianici.» Nonostante la spacconeria nella sua voce, continuò a controllare lo specchietto retrovisore. «Come vanno i tuoi poteri medianici?» «Sono molto sensibili.» Dopo un istante, «sapevo che il dipartimento ci avrebbe creduto.» E che storia aveva raccontato! Reazione ansiosa post-traumatica. Bisogno di solitudine. Fuga da Los Angeles. Era stato preciso. Aveva acquistato un biglietto d'aereo per Indianapolis, si era presentato al LAX e si era messo in fila, per poi sparire poco prima dell'imbarco. Aveva noleggiato una Cadillac e si era diretto verso la Valley, facendosi poi registrare in un motel nei pressi di Agouran sotto il nome di S.E. Gugio. La sorveglianza. Dall'altro lato della barricata.
Passava a prendermi in un posto prestabilito che cambiava ogni giorno. Sorvegliavamo. Facevamo anche attenzione a non essere sorvegliati. Seguimmo la Volvo sulla 101 in direzione di Ventura, le stemmo dietro per tutta la Valley. Imboccò la 23 Nord subito dopo Westlake Village; Milo si tirò su a sedere e sorrise. «Allora le nostre ipotesi erano fondate.» Superammo a gran velocità una zona industriale stile hightech. Edifici di pietra calcarea e vetri a specchio vagamente sinistri, con marchi indistinti, parcheggi chiusi da cancelli di sicurezza e vie con nomi quali Science Drive e Progress Circle. La Volvo continuava a procedere. Quando a Moorpark il traffico diminuì, Milo si accostò al bordo della strada e si fermò. «Cosa c'è?» dissi. «Adesso diamo troppo nell'occhio. Gli daremo un paio di chilometri di vantaggio e poi continueremo a seguirlo.» «Non hai paura di perderlo?» Scrollò la testa. «Sappiamo dove sta andando, no?» «Ma se la nostra informazione non è giusta?» «È un'informazione del colonnello», rispose. Corrugò la fronte, controllò l'ora e si rimise in marcia. L'autostrada proseguiva lungo il Grimes Canyon, trasformandosi gradualmente in un valico di montagna stretto e tortuoso. Nessun'altra macchina andava nella nostra direzione; qualche enorme autocisterna veniva dal senso opposto. Le curve cominciarono a farsi più brusche e Milo afferrò il volante con le due mani. Poi la strada diventò più dritta e ci trovammo in mezzo a una campagna coltivata: un bassopiano secco, pronto per il raccolto, diviso in appezzamenti squadrati e circondato dalle montagne. Le mucche pascolavano accanto a impalcature petrolifere che continuavano a sussultare come cavallette. Allevamenti di maiali, di pollame. Di cavalli: magnifici cavalli arabi si impennavano altezzosamente dentro i recinti che costeggiavano la strada; acri di agrumeti coltivati per la Sunkist. La Volvo marrone era scomparsa. «Bene», dissi, guardando il cielo azzurro e limpido attraverso il parabrezza. «Se devi correre, fallo con stile.» Attraversammo un ponte immerso nel verde sopra il letto asciutto del fiume Santa Clara e continuammo fino allo svincolo per la 126 a Fillmore. Superammo la zona commerciale che consisteva in edifici in mattoni di due piani, ben conservati, che ospitavano negozi e si affacciavano su vie
pulitissime e vuote, con ai lati le linee oblique di spazi per il parcheggio sprovvisti di parchimetro, una stazione di servizio con dipendenti in uniforme e cappello e un cartellone con un boccale ghiacciato di bibita alle erbe che avrebbe potuto comparire sul set di American Graffiti. Poi l'autostrada riprendeva, circondata da altri agrumeti e fattorie, bancarelle di prodotti agricoli che reclamizzavano noci, olive, pomodori, mais e genuina carne di manzo essiccata al sole. Poche miglia per raggiungere i piedi delle montagne e Piru. I sobborghi della città erano costituiti da cortili recintati abbandonati e magazzini di agrumi, carcasse d'auto e una quantità di polvere. Continuando per un centinaio di metri si incontrava un gruppo fitto di casette piccole e povere. Edifici a una o due stanze, con muri irregolari, in polverosi appezzamenti recintati. Alberi non potati fiancheggiavano la strada: palme da datteri, susini, faggi, carrubi dai grossi rami tozzi da cui si sprigionava un profumo intenso, che si insinuava nel sistema d'aria condizionata della macchina ed era lento a scomparire. Polli nei cortili delle case. Bambini molto piccoli vestiti di stracci che fabbricavano giocattoli con gli oggetti più disparati. Che sguazzavano in piscine gonfiabili. Le poche facce di adulti che vedemmo erano segnate dal sole e solenni; quasi tutte persone anziane, ispanici per lo più. La via principale era costituita da un paio di isolati. Una banca a un piano così piccola da sembrare un modello da fiera di contea. Mattoni gialli, tetto di tegole, una scritta dorata sulle finestre davanti a tende veneziane abbassate. CHIUSO. Poi un negozio di generi vari, un paio di saloon, uno dei quali con un manifesto MENUDO OGGI attaccato sull'ingresso, e una specie di capannone che pubblicizzava riparazioni d'auto, fornitura di chiodi e ferri da cavallo, ferramenta. Milo continuò per un altro isolato finché raggiungemmo altri cortili vuoti. Si fermò per consultare la sua Thomas Guide, puntò un dito su una delle pagine con piantina e disse: «Bene. Non è un problema trovare qualcosa qui. Non è certo una megalopoli». «Non è un problema se sai cosa cercare», feci io. Girò intorno al negozio di ferramenta e ritornò sulla via principale, l'attraversò e procedette lentamente per altri due isolati prima di girare in una strada circondata da un frutteto. La strada assunse una certa pendenza e finì in un cortile circondato da bungalow. Costruzioni dal tetto piatto e pitturate di giallo. Una mezza dozzina, a meno di trenta centimetri di distanza una dall'altra. Al centro, una fontana di gesso da cui probabilmente non
sgorgava più acqua da molto tempo. La Volvo era parcheggiata sul bordo della strada, con i finestrini aperti, vuota e con uno schermo di cartone parasole sul parabrezza. Scendemmo. L'aria era rovente e odorava di marmellata di arance. Milo puntò ancora il dito. Questa volta per indicare la direzione. Superammo i bungalow percorrendo un sentiero polveroso che correva lungo il lato destro del cortile. Dietro le casette, in quello che avrebbe dovuto essere il cortile posteriore, c'era un altro edificio, recintato da paletti alti circa un metro che avevano bisogno di essere aggiustati e verniciati. Un cottage bianco, con finestre dal telaio e dalle imposte verdi, un tetto catramato. Sotto un porticato malandato c'era un'altalena fatta con un'asse, inclinata di lato e appesa a un pezzo di corda. Sulla sinistra un salice piangente sorgeva dalla polvere, sognando un suo sogno impossibile. Enorme e ricco di fogliame, imprigionava la minuscola casa in un'ampia, scura ellisse d'ombra. Le tende erano tirate. Milo indicò a sinistra del grande albero e lo seguii. Due gradini di cemento portavano al porticato. Bussò. Una voce disse: «Chi è?» Milo disse: «Naranjas». «Mi dispiace, non ne abbiamo bisogno.» Milo parlò più forte e con tono lamentoso. «Naranjas! Muy barato! Muy bonito!» La porta si aprì. Milo ficcò dentro il piede e sorrise. Ted Dinwiddie ci fissò, sbigottito, con la faccia rosea chiazzata da macchie di pallore. «Io...» disse e rimase gelato. Era vestito come quando l'avevo visto in negozio, escluso il grembiule: camicia di flanella blu arrotolata ai gomiti, una cravatta allentata sul collo, pantaloni cachi, scarpe di cuoio con la para. La stessa divisa borghese che indossava tutti i giorni... Continuò a fissarci, finalmente riuscì a muovere le labbra. «Cosa c'è?» Milo disse: «Anche se mia madre ha tentato per anni di convincermi del contrario, gli asparagi non mi sono mai piaciuti. Per cui penso che siamo qui per un'altra offerta speciale». Dinwiddie disse: «Non so di cosa...» «Ascolta», disse Milo con voce gentile e minacciosa allo stesso tempo, «non sono mai stato un figurino: ho bisogno di mettercela tutta per evitare di spaventare i bambini quando cammino per strada. Questo», indicando l'occhio, «non mi sarà certamente di aiuto.»
Dinwiddie disse: «Mi disp...» «Smettila di scusarti», disse Milo, «se fossi stato un po' più disponibile la prima volta, forse avresti evitato notevoli sofferenze alla mia persona.» «È comprensibile», dissi, «entrambi abbiamo quasi perso la vita cercando di scoprirlo.» Dinwiddie disse: «Lo so. Leggo i giornali, grazie a Dio». Si morse il labbro. «Mi dispiace. Non intendevo...» «Allora perché non ci fai entrare al fresco?» Milo disse. «Io... Ma, veramente, a cosa potrebbe servire?» Una voce risuonò dietro Dinwiddie, le parole erano incomprensibili, ma il tono era interrogativo. Il droghiere si girò per guardare e Milo ne approfittò per afferrarlo per le spalle, spostarlo come fosse un giocattolo ed entrare in casa. Prima che Dinwiddie si rendesse conto di cosa stava succedendo, anch'io ero dentro. Una cucina piccola, calda come un bagno turco, con stipetti bianchi, e ripiani coperti di mattonelle gialle disposte in diagonale con un bordo smussato rosso scuro. Aperta su una stanza rivestita di pannelli di legno. Pareti smaltate di giallo, lavandino di porcellana bianca, cucina a gas con quattro fornelli. Un caraffa in pyrex riempita d'acqua per metà su uno dei fornelli. Cinque grosse borse di carta con stampato il nome del negozio di Dinwiddie erano appoggiate sul bancone. Un sesto sacchetto era stato svuotato: scatole di cereali, sacchetti di farina integrale e di zucchero, salsicce, carne e pesce affumicati, spaghetti, tè, un barattolo gigante di caffè colombiano di qualità superiore. Il barattolo era nelle mani di un ragazzo che indossava una maglietta molto larga e jeans tagliati. Conoscevo la sua età, ma sembrava più giovane. Avrebbe potuto essere uno studente all'ultimo anno delle superiori. Un giocatore della squadra di basket. Pelle color caffè. Molto alto e magro, capelli marrone chiaro portati alla afro, un po' più lunghi di quelli visti nella foto. Labbra piene, naso greco. Il naso di suo padre. Occhi a mandorla terrorizzati. Sollevò il barattolo come fosse un'arma. Milo disse: «Va tutto bene, ragazzo. Non siamo qui per farti del male». Il ragazzo si girò di scatto verso Dinwiddie. Il droghiere disse: «Sono i due di cui ti ho parlato, Ike. Il poliziotto e lo psicologo. Secondo i giornali sono dalla parte giusta». «I giornali», disse il ragazzo, con un tono che voleva essere di sfida. Ma
la sua voce uscì stridula e mal modulata. Da adolescente insicuro. Grosse mani strette intorno al barattolo. Le gambe erano magre e lisce: stecche color cannella appoggiate su piedi nudi. «Non voglio parlare con lei», disse. «Forse sarà così», disse Milo avvicinandosi a lui e sollevandosi sulle punte dei piedi per guardarlo negli occhi dalla stessa altezza. «Ma tu ce lo devi, ragazzo. E lo devi anche a qualcun altro, ma è troppo tardi per farlo. Questo almeno è un debito che puoi pagare.» Il ragazzo ritrasse la testa e batté le palpebre. La mano che teneva il barattolo vacillò. Milo allungò la mano e glielo prese. «Tostatura francese», disse esaminando l'etichetta, «solo quanto c'è di meglio per un fuggiasco super moderno, eh? E guarda tutte queste altre buone cose.» Avvicinandosi al bancone: «Granola. Pasta, cosa sono questi, taglierini? Sembra che tu sia intenzionato a rintanarti qui per molto tempo, ragazzo. Con tutte le comodità. Più di quante ce ne sono dove è finita Holly». Il ragazzo strinse forte gli occhi, li aprì, batté ancora le palpebre. Più volte. Con maggior forza. Una lacrima gli scese lungo la guancia, mentre il pomo d'Adamo si alzava e si abbassava. «Ike», disse Dinwiddie, allarmato, «hai già sofferto abbastanza. Non lasciarti intrappolare dai sensi di colpa.» Uno sguardo freddo a Milo. «Non ha già sofferto abbastanza?» Milo disse: «Racconta le cose come stanno, Ted. Non era forse questo un tuo principio di vita?» Il viso di Dinwiddie si coprì nuovamente di rossore e i massicci avambracci si gonfiarono sotto la tensione dei muscoli. Stava sudando abbondantemente. Mi resi conto di essere bagnato fradicio. Tutti e quattro lo eravamo. Dinwiddie si tirò i baffi e abbassò la testa come un toro che sta per caricare. Sentii che eravamo vicini allo scontro. Dissi al ragazzo: «Non ti siamo nemici. Una volta tanto i giornali l'hanno raccontata giusta. Sappiamo cosa hai passato, ragazzo. Fuggire. Fare attenzione a non essere seguito. Senza mai sapere di chi potersi fidare: dev'essere stato un inferno. Così nessuno, dico nessuno, al tuo posto poteva cavarsela meglio. Hai fatto esattamente quello che dovevi fare. Ma quanto sai può essere utile, per sbarazzarci del male che resta. Bonificare l'intera palude. Terry Crevolin ha accettato di parlare e non è certamente un idealista. E tu?» Il ragazzo non disse niente. «Non vogliamo forzarti, nessuno può farlo. Ma per quanto tempo puoi
continuare a vivere così?» «Bugie», disse una voce malferma proveniente dall'apertura sull'altra stanza. Un'anziana donna molto piccola, con addosso una vestaglia e sopra, nonostante il caldo, una giacca di lana beige. Da sotto la vestaglia spuntavano due gambe coperte da calze con ai piedi un paio di sandali bassi. La faccia era rugosa e macchiata dal sole con sopra una chioma di capelli bianchi crespi. Grandi occhi scuri, acuti e fermi. La sua apparizione non mi sorprese. Ricordavo la reazione di Latch e Ahlward quando avevo detto che l'avevano rapita per ucciderla e si erano sbarazzati del suo corpo. Ma qualcos'altro mi sorprese. Mani salde in una donna così minuscola e vecchia. Che afferravano un grosso fucile. Disse: «Cosacchi. Bugiardi bastardi». Occhi acuti. Troppo acuti. Qualcosa di diverso dalla lucidità mentale. Qualcosa che la superava. Una fiamma che aveva arso troppo e troppo a lungo. Ike disse: «Nonna, cosa stai facendo! Mettilo giù!» «Cosacchi! Ogni Natale un pogrom, stupri, uccisioni, bambini dati in pasto ai nazisti.» Puntò il fucile contro di me, lo lasciò puntato qualche tempo poi lo spostò su Milo, su Dinwiddie. Verso Ike, poi nuovamente su Dinwiddie. «Andiamo, Sophie», disse il droghiere. «Indietro o sparo, cosacchi bastardi», disse la vecchia, con gli occhi che passavano da un nemico immaginario all'altro. Le mani tremavano. Il fucile vibrava. Ike disse: «Nonna, basta! Mettilo giù!» Con voce forte, un po' piagnucolosa. Un adolescente che protesta contro una punizione ingiusta. Lei lo guardò abbastanza a lungo da far sbollire lo stato confusionale. «Va tutto bene», disse Dinwiddie, abbassando una mano con un gesto che invitava alla calma e facendo contemporaneamente un passo avanti. Gli occhi di lei si girarono repentinamente verso di lui. «Indietro o sparo! Dannato cosacco!» Dinwiddie disse: «Va tutto bene» e si avvicinò alla vecchia donna. Premette il grilletto. Clic. Fissò il fucile ancor più confusa. Dinwiddie afferrò con una mano il cal-
cio di noce e con l'altra la canna, cercando di strapparglielo. Lei lo tenne stretto, imprecando, prima in inglese, poi più forte e più velocemente in un'altra lingua. In russo, pensai. «Piano, Sophie», disse Dinwiddie mentre staccava le sue dita dal fucile. Una volta senza fucile cominciò a urlare e a colpirlo. Ike corse da lei, cercò di fermarla, ma lei cominciò a picchiare anche lui, continuando a imprecare. Il ragazzo lottò, incassando colpi, sforzandosi di essere dolce, con le lacrime che gli solcavano il viso. «Scarico», disse Dinwiddie, porgendo il fucile a Milo. Come se fosse qualcosa di impuro. Poi rivolto a Ike: «Ho tolto i proiettili l'ultima volta che sono venuto qui». Ike restò a bocca aperta. «Dove? Dove li hai messi?» «Non sono qui, Ike. Li ho presi io.» Ike disse: «Perché, Ted?» Parlando ad alta voce per farsi sentire sopra le invettive della vecchia donna, con quel suo lungo corpo che si curvava sopra l'altro minuscolo, avvolto dal maglione. Cercava di trattenerla con le sue braccia lunghe come tentacoli, mentre si concentrava su quanto diceva Dinwiddie. Dinwiddie allargò le braccia e disse: «Dovevo farlo, Ike. Per com'è, com'è diventata. Hai visto anche tu». «Non sapeva nemmeno usarlo, Ted! Lo hai visto anche tu.» «Non potevo correre il rischio, Ike. Era peggiorata moltissimo negli ultimi tempi, così... lo sai che è vero. Ne abbiamo parlato: eri preoccupato. Non volevo che succedesse qualcosa. Dovevo farlo, è evidente.» Il volto del ragazzo mostrava i segni di una profonda incertezza. Si manteneva calmo per confortare la vecchia donna e lottava contro il dolore e la rabbia per essere stato tradito. «E la protezione, Ted? Il nostro accordo? Cosa ne è stato? Dimmelo, Ted!» «Ho ritenuto opportuno farlo», disse Dinwiddie, «cosa potevo fare? Non potevo correre il rischio che lei...» Ike pestò i piedi e cominciò a urlare: «Abbiamo bisogno di protezione! La protezione di un fucile! So cosa può fare un fucile: l'ho visto cosa può fare! Per questo ti ho chiesto un fucile. Come hai potuto farlo, Ted?» Le parole uscivano impetuose, seguite da brevi respiri affannosi. L'ansimare di un fuggiasco. Gli occhi di un fuggiasco. L'intensità dei suoi sentimenti aveva tacitato la vecchia donna. Ora aveva smesso di lottare, guardava in alto verso di lui, con l'innocenza e la perplessità di un bambino che vede il mondo per la prima volta.
Dinwiddie scrollò la testa, si girò dall'altra parte e appoggiò i gomiti sul banco. Sfiorò con una mano un pacco di pasta. Lo afferrò e lo fissò con sguardo assente. Il silenzio aveva riempito la cucina, la rendeva soffocante, succhiava l'ossigeno dall'aria. «Un così bravo ragazzo», disse la vecchia donna, allungando il braccio e toccando una guancia di Ike. «Se arrivano i cosacchi, proteggerai la tua piccina.» «Sì, nonna.» «Sì, piccina.» «Sì, piccina. Come ti senti?» La vecchia donna alzò le spalle. «Un po' stanca, forse.» «Che ne dici di un pisolino, piccina?» Un'altra alzata di spalle. Prese la mano del ragazzo fra le sue e la baciò. Lui l'accompagnò nell'altra stanza. Milo cominciò a seguirli. Ike si girò di scatto. «Non si preoccupi, signor ispettore. Non scappo. Non ne ho la possibilità. Voglio solo occuparmi di lei. Poi torno e faremo quello che vuole.» Lo aspettammo in soggiorno. Pannelli di legno di pino alle pareti, un caminetto funzionante con una mensola in pietra, cianfrusaglie che un tempo dovevano aver avuto un significato per qualcuno, un tappeto fatto all'uncinetto, sedie imbottite, tavoli ricavati da sezioni di tronco d'albero, un paio di targhe premio per gare di pesca. Accanto a esse la fotografia di un ragazzo dai capelli biondo platino, raggiante, che reggeva in mano un'enorme trota. Mi fece tornare in mente la foto dei due bambini che avevo visto nell'ufficio di Dinwiddie. Ma questa era in bianco e nero e i vestiti del bambino erano di moda trent'anni prima. Sotto c'era la foto di un uomo robusto che calzava stivaloni impermeabili e cingeva con un braccio il ragazzo di prima. All'altro braccio era appesa una fila di pesci. Dinwiddie si accorse che le stavo osservando. «Venivamo qui spesso. Papà possedeva molta della terra qui intorno. L'aveva comprata subito dopo la guerra, pensando di poter vendere quello che produceva, evitare gli intermediari e diventare ricco davvero. Un paio di annate fredde annullarono i guadagni sugli agrumi, ma il prestito ipotecario restò lo stesso. Le grandi società potevano aspettare tranquillamente tempi migliori, ma l'in-
cidente scoraggiò mio padre, che vendette molti dei suoi acri alla cooperativa Sunkist. Continuammo a venire qui un paio di settimane all'anno per pescare. Solo noi due. Il lago Piru era pieno di pesce persico e di trote arcobaleno. Gli ultimi due anni è piovuto poco e si è seccato tutto, forse l'avete visto venendo qui.» Milo fece cenno di sì. «Prendete caffè o qualcos'altro?» Scrollammo la testa. «Negli anni Sessanta», continuò, «mio padre ebbe altri problemi finanziari e vendette gran parte della terra qui in città, come quella dove sorgono i bungalow qui davanti e l'appezzamento dove si trova adesso la scuola. È sparito tutto, in fretta e per pochi soldi. Ha tenuto solo questa casa: forse era più sentimentale di quanto ammettesse. Quando morì, la ereditai e cominciai a portarci i miei ragazzi. Finché non è arrivata la siccità. Ho pensato che fosse un buon posto: qui vengono solo camionisti e ci abitano solo messicani o vecchi e loro due non sarebbero stati notati.» «Mi sembra logico.» «L'ho fatto perché dovevo. Non avevo scelta. Non dopo che Ike mi aveva fatto prendere coscienza.» Si fermò, aspettò possibili obiezioni e siccome non ce ne furono, continuò: «Mi aveva parlato dell'olocausto, di come fossero stati pochi quelli che avevano nascosto gli ebrei. Come solo i danesi avessero resistito come nazione. Come l'intera tragedia avrebbe potuto esser evitata se più persone si fossero opposte, avessero fatto la cosa giusta. Quando senti queste cose cominci a farti delle domande. Cos'altro avrei potuto fare in quella situazione? Mi ero sempre considerato diverso dagli altri, uno dei pochi con un animo nobile. Ma non ne sono mai stato del tutto sicuro. Come fai a esserlo quando tutto è teorico? Nella mia vita tutto è stato teorico. Così quando Ike mi ha chiamato, nel cuore della notte, spaventato, raccontandomi cosa avevano cercato di fargli, sapevo cosa dovevo fare. E so di aver fatto la cosa giusta. Mi dispiace se questo le ha provocato...» Milo disse: «Sei anche andato a prendere la vecchia donna?» Dinwiddie fece cenno di sì. «Lo abbiamo fatto insieme. Non sarebbe venuta solo con me. Ike correva dei rischi a tornare in città, sapendo che quelli lo credevano morto. Ma lui le voleva bene, era preoccupato per quello che poteva succederle: soprattutto per come era diventata.» «Di cosa si tratta, demenza presenile?» Dinwiddie disse: «Chi può dirlo? Non vuole farsi vedere da un dottore».
E rivolto a me: «Alla sua età, può essere qualunque cosa, vero? Arteriosclerosi, o qualsiasi altra cosa». «Da quanto tempo è così?» dissi. «Ike dice da qualche mese. Dice che era una donna così intelligente, prima del cambiamento e che, siccome sembra parli ancora in modo sensato, la maggior parte della gente non se ne è accorta. Lei poi ha sempre parlato di complotti, cosacchi e tutto il resto. Così, se lo fa un po' di più, chi lo nota? Certo adesso è evidente, ma è così solo da qualche settimana. Forse è l'ansia. Il doversi nascondere. Non lo so.» Abbassò la testa e appoggiò la fronte sulle mani. «Così tutti e due siete tornati in città per prenderla», disse Milo. «Sì», rispose Dinwiddie fissando il tappeto a uncinetto, «non era in casa e Ike ha pensato che fosse alla sinagoga o a fare una passeggiata. Siamo andati alla sinagoga, abbiamo visto che dentro c'era una specie di festa e abbiamo aspettato che uscisse. Poi l'abbiamo fatta salire in macchina e l'abbiamo portata qui. Non voleva venire e ha sbraitato parecchio, ma Ike è riuscito a calmarla. Sembra essere l'unica persona capace di farlo.» Abbassò ancora lo sguardo, intrecciò le mani e le fece oscillare fra le ginocchia. «C'è un rapporto speciale fra loro due. Più di un vincolo di famiglia. È un legame tra superstiti. Lui non ha nemmeno vent'anni e ne ha passate già molte per la sua età. Per chiunque. Perciò tenetelo bene a mente. D'accordo?» Ike rientrò nella stanza e disse: «Tenere a mente cosa?» Dinwiddie si tirò su a sedere. «Gli stavo solo dicendo di considerare le cose sotto una giusta prospettiva. Come sta?» «Dorme. Che tipo di prospettiva?» «Beh, considerare tutto quanto è successo.» «In altre parole, trattarmi con riguardo per pietà?» «No», disse Dinwiddie. Il ragazzo distolse lo sguardo da lui. «Ike, per il fucile...» «Lascia stare, Ted. Hai finito con il salvare la tua stessa vita. Come avresti potuto far meglio?» Sorriso generoso, sorprendente per la sua repentinità. Ma generosità venata di amarezza. Dinwiddie capì, sapeva cosa significava: un cambiamento irreversibile nel legame che c'era fra loro e sul suo viso si fissò un'espressione di infelicità. Milo disse: «Te la senti di raccontarci cosa è successo, ragazzo?» Ike disse: «Cosa sapete già?»
«Tutto fino a Bear Lodge.» «Bear Lodge», disse, «il nirvana rurale, la realizzazione del sogno, eh? Tutto ciò che so in proposito è quanto mi ha raccontato la nonna.» «Dove sei vissuto in seguito?» «Dove sono vissuto?» Il ragazzo sorrise ancora e contò con le dita. «Boston, Illinois, Louisville, Kentucky. Un autentico girovago.» Un altro sorriso. Così forzato che faceva male guardarlo. «Non Filadelfia?» dissi. «Filadelfia? No. Non ci sono mai stato.» «Terry Crevolin ha detto che la famiglia di tuo padre era di Filadelfia.» «Famiglia.» Il sorriso diventò prima una smorfia e poi una risata rabbiosa. «La famiglia di mio padre è stata cancellata cinquant'anni fa. Tranne che per un lontano cugino. A Filadelfia. Un pezzo grosso, con cui non ho mai parlato: non riuscivo a pensare che mi avrebbe accolto a braccia aperte.» Un'altra risata: «No, la nonna non mi avrebbe condannato ad andare a Filadelfia». «Quegli altri posti, ci vivevano parenti di tua madre?» Puntò un dito verso di me. «Sei intelligente, hai indovinato.» Dinwiddie disse: «Perché non ti siedi, Ike?» Il ragazzo si girò verso di lui. «Sì, e magari mi rilasso anche?» Ma si sedette in una poltrona, allungando le sue gambe a trampoli sul tappeto a uncinetto. Un lungo silenzio. Milo lo ruppe chiedendo: «C'è qualche ragione per cui hai scelto un nome spagnolo?» «Spagnolo? Ah, sì. Ho usato Monvert: qualcuno della famiglia di mia madre era creolo, così mi è sembrato appropriato passare al francese.» Un altro sorriso triste. «Poi quando mi sono trasferito qui avevo bisogno di un nuovo cognome. Per non farmi rintracciare. Pensai al russo, per la nonna. Ma chi ci avrebbe creduto guardandomi? Non volevo attrarre l'attenzione. Poi un giorno ho fatto un giretto a Ocean Heights: ne aveva parlato il telegiornale, le stronzate razziste di Massengil. Volevo dare un'occhiata al posto, vedere com'era il regno del Ku Klux Klan negli anni Ottanta e ci feci un giro. Viali ben disegnati fiancheggiati da magnolie. Notai che le strade avevano tutte nomi spagnoli. Ipocrisia incisa sulla pietra. Così pensai, perché no? Facciamogliela più bella, vada per l'Español. Che sarebbe Verde. Ma suonava male, perché non poteva essere il cognome di qualcuno. Allora controllai in un dizionario inglese-spagnolo. Green: novizio in slang. E io lo ero. Un novizio per Los Angeles: muori, giovane uomo. Novato. Suo-
nava bene. Il resto dovreste conoscerlo.» Milo, che aveva cominciato a stare sulle spine già a metà discorso, disse: «Com'è andata, nel vicolo?» «Ragazzi», disse Ike, «una perspicacia soprendente.» «Vada a farsi fottere, la perspicacia», rispose Milo, «tira fuori la verità.» Fu il ragazzo a essere sorpreso ora. Poi un sorriso sincero. «Quando mi hanno detto di incontrarli nel vicolo», disse, «ho pensato subito che c'era qualcosa di strano. Latch era troppo compiacente. Voglio dire, quell'uomo era stato eletto a una carica pubblica e mi parlava di omicidi, di attentati. Con indifferenza. Come fosse una sciocchezza. Come se lui fosse ancora un rivoluzionario. Non che mi fossi mai fidato di lui. La nonna diffidava di lui: diceva che il fatto che si occupasse di politica la diceva già lunga. Così, quando mi ha parlato dell'incontro, di nuove informazioni, ho accettato immediatamente fingendo di esserne entusiasta. Ma ho avuto subito dei sospetti.» «Perché era laggiù? A Watts.» Ike fece cenno di sì. «Esattamente. Anch'io me lo sono chiesto. La storia di Latch era questa: la persona che dovevo incontrare era qualcuno che viveva lì. Uno che aveva conosciuto i miei genitori, un ex appartenente all'Esercito di liberazione dei neri. Era ancora ricercato dalle autorità, aveva bisogno di nascondersi a Watts e non poteva permettersi di uscire di lì.» «Latch ti ha fornito un nome?» «Abdul Malik. Ma ha detto che era semplicemente uno pseudonimo. Gli piacevano i nomi in codice. Come i bambini che giocano a I Spy. Non ci ho mai creduto.» «La vera ragione della scelta di Watts», disse Dinwiddie, «era che laggiù un cadavere di un negro non avrebbe fatto batter ciglio alla polizia. Ed è esattamente quanto è successo, non è vero?» Milo lo ignorò e disse a Ike: «Così nonostante puzzasse di trappola, ci sei andato». «Dovevo sapere cosa stava succedendo. Ho pensato che, se volevano giocarmi qualche tiro, avrebbero potuto farlo un'altra volta e in un altro posto. Avrei potuto farmi un'idea, vedere cosa sarebbe successo. Così sono arrivato presto, ho lasciato la moto nel vicolo vicino e mi sono nascosto vicino a un garage, dietro un bidone per l'immondizia. La lampadina non funzionava e quella parte del vicolo era completamente al buio. E maleodorante. Un posto da incubo», fece una smorfia al ricordo, «un viavai di tossici, tutti quei discorsi sussurrati, le contraddizioni, gente che si bucava,
sniffava, pisciava, vomitava. Ho cominciato ad aver paura, chiedendomi in che situazione mi ero cacciato. Ma più tardi, poco prima dell'ora dell'incontro con Malik, l'attività ha cominciato a rallentare.» «Verso che ora?» disse Milo. «Verso le tre del mattino. Ho letto da qualche parte che è l'ora degli omicidi, l'ora in cui le forze vitali sono deboli. Nascosto in quel posto potevo veramente sentirlo. Tutto moriva. I drogati e gli spacciatori cominciavano ad andarsene. Restava qualche sbandato. Uno di loro, degli sbandati, era alto quanto me. Forse un po' più basso ma della stessa corporatura. E molto magro come me. L'ho notato per questo, come se mi identificassi con lui e mi sono chiesto cosa lo avesse ridotto così, vivo per grazia di Dio e tutto il resto. Voglio dire, quel ragazzo era veramente patetico: completamente distrutto. Andava avanti e indietro borbottando, imbottito di chissà quanti veleni. «Lo guardo, guardo quel che succede, il puzzo sembra essere più intenso e il buio comincia a farsi pesante: sembra volermi schiacciare. Adesso so che era la mia ansia. Poi l'uomo mandato per fare il lavoro arriva. Anche lui è in anticipo. Lo riconosco perché è vestito di nero e porta una lunga giacca nera nonostante sia estate: è stata una delle cose che mi ha messo in guardia, sebbene di per sé non significhi niente. I drogati hanno spesso freddo. Ma quando è arrivato sotto la luce di un garage, mi sono accorto che era un bianco. Una vera faccia da bianco, con un naso da maiale rivolto all'insù, ma coperta da una sostanza scura. Cerone. Per farlo sembrare un negro, come un macchiettista in un numero di varietà. Al buio funzionava abbastanza. I pochi drogati rimasti non ci hanno fatto caso: volevano solo la loro droga. Ma io lo stavo aspettando, così ho capito subito. «Poi il drogato alto e magro lo individua, e dice: 'Ehi tu, fratello', e si incammina lentamente verso di lui. Mormorando parole confuse, mal articolate, completamente fuori di testa. Forse stava cercando di comprare o vendere, o chiedere qualche soldo al bianco. Il tipo con la giacca nera dice il mio nome: 'Sei tu, Malcolm?' proprio così. E il drogato mormora qualcosa in risposta, non dice di non esserlo e continua a camminare verso di lui. Forse voleva aggredirlo, o qualcosa del genere. Era abbastanza alto e magari il bianco si sarà impaurito. Così ha tirato fuori qualcosa di sotto la giacca. Un fucile a canne mozze. E ha sparato contro il ragazzo alto, da molto vicino, a mezzo metro a dir molto. L'ho visto volare indietro, come travolto da un uragano. È volato indietro ed è caduto a terra. Gli altri tossici hanno cominciato a correre; era strano, nessuno urlava, nessuno parlava.
Correvano in silenzio, come topi. Era come se ci fossero abituati: non era un fatto eccezionale. Poi il bianco con la giacca scappa e sento mettere in moto una macchina in fondo al vicolo e partire. Ho aspettato qualche momento, pazzo di paura, ma sapendo che dovevo andare dal drogato, vedere se potevo fare ancora qualcosa per lui. Anche se sapevo che non c'era niente da fare: il modo in cui era stato fatto volare indietro, il colpo esploso. Ma alla fine lo faccio. Quando vedo come lo ha ridotto la fucilata, mi sento male. Per lui, ma forse anche perché so che era diretta a me. Sono stordito, mi viene da vomitare, ma so che devo scappare prima che arrivi la polizia, così mi trattengo. Il male allo stomaco mi sta uccidendo: sono completamente sottosopra. Ho bisogno di andare in bagno. Poi mi viene in mente qualcosa: un modo per trarre qualche vantaggio dalla situazione. Dare un significato alla morte di quel drogato. Gli frugo le tasche. È disgustoso. Sono completamente bagnate. Di sangue. E vuote, tranne che per qualche pillola. Nessun documento. Infilo in una tasca la mia carta d'identità e scappo. Sperando che, per come è ridotto, per come l'ha conciato il colpo di fucile, e perché ha pressappoco la mia altezza, nessuno se ne accorgerà. In seguito, mentre sto scappando, divento paranoico per quello che ho fatto, comincio a tremare. Mi dico che è stata la cosa più stupida che avessi potuto fare. E se lo scoprono? Sul cadavere c'è la mia carta d'identità: sono fregato. Potrei essere arrestato per omicidio. Così chiamo Ted da un telefono pubblico. Lui salta fuori dal letto e mi porta qui. Aspetto, fuori di me dalla paura. In questo luogo sperduto. Che vengano a cercarmi i poliziotti. O i nazisti di Latch. Il giorno dopo i poliziotti passano dalla nonna e le chiedono se sono coinvolto in storie di droga. Credono che sia io quel cadavere. Così sono ufficialmente morto.» Sorriso: «Non avrei mai pensato che ci si sentisse così bene». Il sorriso svanì. «Ma non riesco a smettere di pensare al drogato. Al fatto che sia morto in vece mia, come il capretto di Azazel nella Bibbia, come fosse il mio Gesù. Se credessi in Gesù. Penso al fatto che è stato il bambino di qualcuno un tempo. Forse qualcuno gli voleva bene e non saprà mai cosa gli è successo. Poi cerco di razionalizzare la cosa e mi dico che raccontare la storia non lo farebbe tornare in vita. Per com'era, ormai spacciato, probabilmente tutti quelli che un tempo gli avevano voluto bene lo avevano abbandonato.» Ci guardò per avere una conferma. Gli sorrisi comprensivo e feci cenno di sì. Anche Milo fece cenno di sì. Il ragazzo strinse le mani a pugno e le riaprì. Batté le palpebre. Si asciugò gli occhi. Quando parlò ancora, la sua voce era bassa e tesa.
«So a cosa state pensando», disse, «Holly: un altro sacrificio. Ma non pensavo minimamente che avrebbe fatto quello che ha fatto, non eravamo amici intimi o cose simili. Provavo compassione per lei, così sola, così chiusa in se stessa, con quel padre che la trattava come una schiava. Se lo avessi saputo, l'avrei chiamata, le avrei detto di non fare stupidaggini.» Milo disse: «Di cosa parlavate insieme, ragazzo?» usando un tono di voce che gli avevo sentito usare con le vittime. «Un po' di tutto», rispose lui, infelice, «lei non parlava molto: non era molto sveglia, poco meno che ritardata, veramente. Così io tenevo in piedi tutta la conversazione, dovevo farlo.» Tese le mani, supplicando. Indirizzandosi a Milo. Desideroso del perdono del poliziotto. Milo disse: «Certamente. Se non le avessi parlato, sarebbe stato trattarla nello stesso modo in cui la trattavano tutti gli altri. L'avresti esclusa». E gli chiese: «Cosa le hai raccontato e quanto sei entrato nei dettagli su Wannsee due?» «Più di quanto me ne rendessi conto, penso. Quando passavo da lei, era così contenta di vedermi: tirava fuori qualcosa da mangiare, cominciava a considerarlo un evento importante. Ero l'unico che le rivolgeva qualche attenzione. E così immagino di essermi lasciato prendere la mano. Di aver parlato troppo.» «Le hai fatto il nome di Latch?» Abbassò lo sguardo. Mormorò qualcosa che doveva essere un: «Sì». «E di Massengil?» «Tutto quanto.» Sempre mormorando e con gli occhi bassi. Alzò lo sguardo improvvisamente, con gli occhi ancora umidi. «Non pensavo stesse realmente ascoltando! Per metà del tempo aveva uno sguardo assente, mi sembrava di parlare col muro! Di parlare con me stesso! Quasi un monologo interiore: tiravo fuori tutto. Non ricordo nemmeno cosa le ho detto, quanto le ho detto. Se avessi saputo...» Si interruppe. Scrollò la testa. Pianse. Dinwiddie gli si avvicinò e gli diede un colpetto sulla spalla. Milo aspettò a lungo prima di dire: «Non è stata colpa tua». La magra faccia marrone si sollevò di scatto, come un pupazzo a molla in una scatola. «No. Non è assolutamente vero. E di chi è la colpa?» «Se vuoi torturarti con i sensi di colpa, ragazzo, aspetta di essere un po' più grande. Di avere qualche buona ragione per farlo.» Ike lo fissò. Si asciugò gli occhi. «Lei è strano. Per essere un poliziotto. Cosa vuole da me?»
«Sta a te decidere», disse Milo, «Latch, Ahlward e un gruppo di loro amici sono morti. Si fanno indagini sulla signora Latch. Ma molti di loro, troppi, sono sopravvissuti. Abbiamo molto poco per poterli incastrare: niente che li danneggi seriamente in termini di anni di galera. E forse non è nemmeno molto importante. Sono un branco di pecore: senza più leader si dimenticheranno della politica, fonderanno un'agenzia immobiliare, coltiveranno marijuana o scriveranno sceneggiature per film, o qualunque altra cosa. Ma forse no.» «E allora?» «E allora tu sei stato il testimone oculare di un omicidio. Forse hai visto abbastanza dello stronzo con la giacca da essere capace di abbinarlo a un volto. Riconoscere quel naso da maiale. Se non vuoi avere questa seccatura, lo capisco; non puoi acquistare birra legalmente e ti è già caduta addosso tanta merda da bastare per dieci vite. Non hai ancora fiducia in nessuno, non sai chi ha ragione e chi ha torto. Ma se lo identifichi c'è la possibilità che riusciamo a sbatter dentro qualche nazista e incriminarne altri per sedizione. Impaurirli veramente. E costringerli a parlare.» «È tutto qui?» disse il ragazzo, «riconoscere una faccia?» «Naturalmente no», rispose Milo, «se riconosci qualcuno, ci saranno deposizioni, citazioni in giudizio e tutte le scocciature senza fine che seguiranno. Se arriveremo a quel punto, il dipartimento di polizia ti offrirà la sua protezione; ma la verità è che può non servire molto. Così ti proteggerò io stesso. Mi accerterò che sia fatto bene. Farò in modo che anche tua nonna sia protetta. E riceva anche buone cure mediche. Conosco molto bene gente che lavora nel settore.» «Perché?» «Perché cosa?» «Perché avere tutte queste seccature?» Milo alzò le spalle. «In parte è una faccenda personale. Sono ancora molto incazzato con loro, per quello che mi hanno fatto.» Si passò la mano sulla faccia. Si tolse il cappello da baseball e si grattò la testa. Il sudore e la tensione nervosa avevano trasformato i suoi capelli in una cosa nera, untuosa e fradicia. «E forse anche perché sono curioso.» Sbadigliò, si stirò e si rimise in testa il cappello. «Comunque non voglio forzarti, ragazzo. Dimmi di lasciar perdere e torno subito a Los Angeles. E tu vai nel tuo prossimo nascondiglio, e sayonara.» Il ragazzo ci pensò su per un po'. Si morse le unghie, mordicchiò le nocche.
«Riconoscere una faccia? È stato molto tempo fa, era scuro. E se non riesco?» «Allora è un ciao e buona fortuna.» «Devo vederli... vederlo... di persona? O posso guardare qualche fotografia?» «Per incominciare le foto. Se riconosci qualcuno, allora faremo un confronto con gli indiziati. Senza nessun pericolo. Dietro uno specchio che ti permette di vedere senza essere visto.» Il ragazzo si alzò, camminò, si diede un pugno sul palmo della mano. Non potei fare a meno di pensare quanto mi ricordasse Milo. Combattuto. Sempre combattuto. «D'accordo», disse alla fine, «guarderò le sue foto. Quando?» «Subito», rispose Milo, «se sei pronto le ho in macchina.» 39 Finì nel modo in cui era incominciato. «Accendi la TV, Alex.» Ero stato seduto davanti alla finestra della sala da pranzo a guardare il tramonto sul Glen. A leggere Twain. Un po' di poesia: Whitman, Robert Penn Warren, Dylan Thomas. Cose che avevo trascurato troppo a lungo. Cose con un corpo. Musica e lussuria e disperazione e religione. «È importante, Milo?» «Presto o lo perderai.» Mi alzai e accesi il televisore. Il notiziario delle sei. Il tenente Frisk su un palco, sotto di lui una platea di attenti spettatori. Vestito fulvo chiaro. Camicia color crema, cravatta verde. Sorrideva e parlava di indagini a lungo termine, unità operative interdipartimentali, incriminazioni plurime come risultato di un accurato coordinamento tra organismi statali e federali. Usò la parola eroe dando la sensazione di sforzarsi molto nel pronunciarla. Tese una mano. Milo salì sul palco. Frisk gli strinse la mano e gli consegnò un foglio di carta. Milo lo prese, lo guardò, fece un sorriso davanti alla telecamera del genere «Ciao, mamma!» Mise in tasca l'encomio.
Frisk si allontanò da lui. Indietreggiò aspettando che lasciasse il palco. Milo restò lì, continuando a sorridere. Frisk sembrò perplesso. Milo fece ancora smorfie per la telecamera, poi si girò verso Frisk. Tirò indietro il braccio e colpì Frisk duramente sulla faccia. FINE