IRA LEVIN SCHEGGIA (Sliver, 1991) A Dorothy Olding RINGRAZIAMENTI Questo libro, come si legge in copertina, è un romanzo...
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IRA LEVIN SCHEGGIA (Sliver, 1991) A Dorothy Olding RINGRAZIAMENTI Questo libro, come si legge in copertina, è un romanzo, il che significa che gli eventi narrati sono fittizi. L'autore ringrazia le seguenti persone per consigli e informazioni su vari soggetti: Paul Busman, Gloria Dougal, Peter L. Felcher, Herbert E. Kaplan, Adam Levin, Jed Levin e Genevieve Young. PARTE PRIMA 1 Gli Hoffman che come al solito litigavano, il dottor Palme che parlava al telefono con un ex paziente aspirante suicida, la nuova cameriera dei Cole che provava uno dei loro vibratori, Lesley e Phil che si davano appuntamento in lavanderia: quel lunedì mattina era cominciato proprio bene. E continuò ancora meglio. La signora MacEvoy entrò nell'atrio con una donna che assomigliava a Thea Marshall: lo stesso viso ovale, gli stessi capelli scuri. Non c'era dubbio che fosse lì per visitare il 20 B, tinteggiato di fresco la settimana prima. Le vide salire con l'ascensore numero due. La donna che assomigliava a Thea Marshall aveva una splendida figura, alta, con un bel seno, e indossava un elegante tailleur scuro. Lanciò un'occhiata nella sua direzione, poi rimase ferma con la mano sulla borsa a tracolla a guardare la MacEvoy che le stava magnificando le meraviglie dell'impianto dell'aria condizionata centralizzato e della cucina Poggenpohl. Trentacinque o trentasei anni. Una forte somiglianza. Trasferì sugli schermi principali il soggiorno e la camera da letto del 20 B e la vide entrare nell'anticamera e attraversare il soggiorno spoglio, con i tacchi che risuonavano sul parquet. Era bella anche vista da dietro, mentre si avvicinava alla finestra per affacciarsi a guardare l'edificio più basso sul lato opposto di Madison Avenue. — È una vista davvero splendida — e-
sclamò, e anche la sua voce, melodiosa e gutturale, echeggiava quella di Thea Marshall. Non portava la fede nuziale, ma probabilmente era sposata o viveva con qualcuno. A lui sarebbe andata bene in ogni caso, naturalmente, purché lei decidesse di prendere l'appartamento. Incrociò le dita. La donna voltò le spalle alla finestra, si guardò attorno, sorrise. Sollevò il viso e, avvicinandosi, lo guardò dritto in faccia - Thea Marshall lo guardò dritto in faccia - lasciandolo senza fiato. — Che bel lampadario — osservò lei. La plafoniera di vetro piatta era di disegno Art Déco. Dal centro cromato la sua immagine rimpicciolita color lampone la guardava sospesa a testa in giù. — Vero? — disse la signora MacEvoy, avvicinandosi. — Sono così in tutto il palazzo. Non hanno proprio badato a spese. In origine era stato progettato come un condominio. L'affitto è un affare, tutto considerato. L'affitto era alto ma non inavvicinabile. La donna tornò verso l'ingresso, si girò, osservò la stanza: imbiancata di fresco, sei metri per sette, un passavivande che dava sulla cucina, pavimento a parquet, finestra grande e larga... Se il resto dell'appartamento era all'altezza, avrebbe dovuto prendere una decisione su due piedi, anche se era il primo che vedeva. Ma aveva davvero voglia di lasciare Bank Street? Di affrontare tutti i fastidi del trasloco? La cucina era accogliente: pensili e accessori solidi e in perfetto stato, laminato nocciola e acciaio inossidabile, un banco di lavoro spazioso. Il bagno, una porta più avanti, era vistoso ma divertente. Pareti di vetro nero, sanitari neri, rubinetteria cromata, e poi una grande vasca e una cabina per la doccia. Luci al neon sull'armadietto sopra il lavandino e, più piccola, un'altra plafoniera Art Déco dal centro cromato sul soffitto di vetro nero. La camera da letto, in fondo al corridoio, era grande quasi quanto il soggiorno, anche quella imbiancata di fresco, con la parete di sinistra tutta occupata da un armadio a muro con le porte a soffietto. Sul fondo un'altra finestra larga, un'altra vista spettacolare, una fetta di parco e uno scorcio del laghetto, il tetto di un palazzo in stile gotico sulla Quinta. Spazio più che sufficiente per la scrivania contro la parete destra, vicino alla finestra, e per il letto, di fronte. Sospirò rivolta alla sua immagine capovolta nella plafoniera, e poi alla signora MacEvoy nell'angolo vicino alla porta. — Questo è il primo appartamento che vedo — le disse.
La signora MacEvoy sorrise. — È un gioiello — ribatté. — Io non me lo lascerei sfuggire. Tornarono nell'ingresso. Lei diede un'altra occhiata in giro, pensando al suo bell'appartamento in Bank Street con i soffitti alti e il caminetto che tirava. E al locale giù all'angolo dove si fa hard rock, agli scarafaggi, ai due anni con Jeff e ai sei anni con Alex. — Lo prendo — disse. La signora MacEvoy sorrise. — Torniamo nel mio ufficio — disse. — Potrà compilare il modulo di domanda e io lo inoltrerò subito. Era nervoso per l'attesa della telefonata di Edgar, che arrivò solo nel tardo pomeriggio di mercoledì. Spense tutt'e due gli schermi principali. — Salve, Edgar — disse. — Come stai? — Si tira avanti. E tu? — Benissimo. — La relazione finanziaria di settembre è in viaggio; tenuto conto dell'andamento del mercato, penso che ne sarai soddisfatto. A proposito del palazzo: ho fatto parlare di nuovo da Mills a Dmitri riguardo all'atrio. — Digli di provare col russo — ribatté lui. — Quel pezzo di marmo è ancora lì. O meglio, quei due pezzi. — Sono sicuro che il pezzo nuovo va bene; controllerò e ti farò sapere. E la signora MacEvoy ha una probabile inquilina per il 20 B. Ti ho detto che era rimasto sfitto? — chiese Edgar. — Sì, me lo avevi detto. — Kay Norris. Trentanove anni, divorziata. È senior editor alla Diadem, la casa editrice, quindi dovrebbe essere un tipo tranquillo. Garanzie di credito e referenze di prim'ordine. La signora MacEvoy dice che è attraente. Ha un gatto. — Kay è il nome o soltanto l'iniziale? — domandò. — Il nome. — Kay Norris. — Sì. Scrivendolo in stampatello sul portablocco a molla, disse: — Si direbbe l'ideale. Raccomanda a Mills di fare in modo che tutti abbiano particolari attenzioni per lei. — Lo farò. Per il momento non c'è altro... — disse Edgar. — Allora non ti trattengo. — E attaccò. Sottolineò il nome: Kay Norris.
Più vecchia di quanto aveva pensato, trentanove anni. Thea Marshall ne aveva quaranta quando era morta; lui inspirò, fece un lungo sospiro. Accese gli schermi principali e mise il soggiorno della donna sull'uno e la camera da letto sul due, come aveva fatto lunedì mattina. La stanza da letto sfolgorava, inondata dal sole che entrava dalla finestra senza tende. Lui attenuò la luminosità. Aumentò un po' quella del soggiorno. Tenendo le mani appoggiate sulla console, guardò le due stanze vuote sugli schermi. I monitor, allineati in file sovrapposte, diffondevano le immagini con uno sfarfallio azzurrino. Il giovedì sera, Kay telefonò ad Alex per dirgli di venire a prendersi i libri. Sospirò quando lo sentì gemere. — So di ripetermi, Kay, ma non potevi scegliere momento peggiore. Dovrai tenerteli ancora per qualche mese. — Mi spiace, non posso — ribatté lei. — Cambio casa fra una settimana. O passi a ritirarli o li metto fuori. Ho perso ogni interesse per l'architettura medievale, Dio sa perché. Lui non aveva saputo della rottura con Jeff e ora ne sembrava sinceramente dispiaciuto. — Fai bene a cambiare casa, è un'ottima idea. Ricominciare da capo. Che cosa hai trovato? Lei glielo disse. — Ed è al penultimo piano — aggiunse. — Dal soggiorno si vede una parte dell'East River, e dalla camera da letto il parco. Luce in abbondanza. È un quartiere delizioso, con tanti palazzi antichi ben tenuti, non troppo alti. Poi c'è il museo Cooper-Hewitt a un solo isolato di distanza. — Madison Avenue 1300... — il tono era quello pensoso che Alex usava prima di darti una doccia fredda. — Una costruzione a scheggia? Alta e stretta? Lei tirò un bel respiro profondo e rispose: — Sì... — Kay, è il palazzo in cui l'inverno scorso un uomo è stato decapitato dagli ingranaggi dell'ascensore. Il tuttofare, ricordi? Ci sono già stati tre o quattro morti, e lo hanno costruito appena qualche anno fa. È un peccato che il numero civico sia proprio il 1300, perché rafforza le superstizioni. Dopo l'ultimo morto in TV dicevano, più o meno, che "il 1300 è il numero infausto di Madison Avenue", o roba del genere. Naturalmente tu... — Alex — tagliò corto lei — lo sapevo già. E se credi che io sia superstiziosa, per quale motivo ti aspettavi che te ne parlassi? — Stavo proprio per dire che tu non sei affatto superstiziosa, ma pensa-
vo che dovessi saperlo in ogni caso, se non lo sapevi già. — I libri, Alex — gli rammentò lei. Rimasero d'accordo che lui sarebbe venuto a imballarli la domenica pomeriggio e li avrebbe fatti portare via entro la fine della settimana. Si salutarono e attaccarono. Il vecchio e affidabile Alex. Negativo, negativo, negativo. La storia del tuttofare era orribile, ma l'appartamento era fantastico lo stesso. Lei non si sarebbe certo lasciata suggestionare da Alex e da qualche trasmissione scandalistica alla TV. Tre o quattro morti nel giro di qualche anno non erano insoliti; due appartamenti per piano significavano quaranta in tutto, per lo più occupati probabilmente da coppie... sessanta o settanta persone. Senza contare l'avvicendamento. E il personale di servizio. Felice si strofinò contro la sua caviglia. Lei la prese in braccio, la cullò contro la spalla, affondò il naso nel pelo striato mentre la gatta faceva le fusa. Disse: — Oh, Felice, vedrai che sorpresa ti aspetta! Tutto un mondo nuovo. Niente più scarafaggi per giocare, poverina. Almeno lo spero. Non si può mai sapere. 2 Un uomo in pullover celeste si affrettò a precederla, spinse col braccio il pesante portone di vetro e, appoggiandosi al battente, lo tenne aperto per lei. Kay gliene fu grata perché teneva fra le braccia, una sopra l'altra, due scatole di cartone piene di oggetti fragili e preziosi, e il portiere stava aiutando una persona carica di valigie a salire sul taxi da cui era appena scesa lei. Sorrise e ringraziò l'uomo mentre gli passava davanti. Era giovane e attraente, con gli occhi azzurri. Un operaio era inginocchiato a scalpellare il pavimento di marmo vicino all'ingresso dello stanzino per la posta. Sopra le porte degli ascensori, splendevano in caratteri digitali rossi le indicazioni B e 15. Il giovanotto aveva attraversato l'atrio dopo di lei ed era fermo a pochi passi sulla destra. Kay gli lanciò un'occhiata di sottecchi mentre lui spostava lo sguardo da un ascensore all'altro, tenendo in mano il sacchetto di una drogheria con stampato "I-cuore-New York". Reebok, jeans, maglione celeste. Era agile e scattante, alto come lei, con i capelli di un castano rossiccio. Sui venticinque, ventisei anni. Si voltò per dirle: — Potrei portarle una di quelle... — Sono leggere — rispose lei. — Ma grazie lo stesso.
Lui le sorrise, un sorriso alla dinamite, ampio, accompagnato da due fossette ai lati che sembravano parentesi. Gli occhi azzurri scintillavano. Lei ricambiò il sorriso e guardò gli indicatori: B e 15. — C'è qualcuno che li blocca — disse il giovanotto e si voltò per andare verso la zona laterale dell'atrio, dove i monitor della sicurezza con gli schermi orientati verso l'alto erano schierati su un blocco di marmo beige schermato da piante verdi. Entrò il portiere, Terry, massiccio nell'uniforme grigia, col viso colorito. L'ultima volta che era venuta, lei gli aveva allungato dieci dollari stringendogli la mano. La guardò con aria mesta e disse: — Mi spiace di non averle potuto aprire il portone. — Non fa niente — rispose lei. — Quel tizio del quindicesimo blocca di nuovo l'ascensore — disse il giovanotto. Terry scrollò la testa avviandosi verso i monitor. — Quegli Hoffman... — Si chinò a scrutare, premette un pulsante con energia. Lo premette più a lungo e si voltò, dicendo: — Nell'altra cabina Dmitri sta montando proprio ora gli ammortizzatori. — Ci vorrà un po' prima che arrivino quelli dei traslocchi — disse Kay. — Dovevano fermarsi a mangiare. Terry indicò il portone. — La chiamerò al citofono appena li vedo. — Si chiamano Mother Truckers! — gli gridò lei, al di sopra delle scatole di cartone. Una macchina della polizia con la sirena imboccò il viale facendo lampeggiare la luce rossa e bianca mentre Terry apriva il portone a un patito del jogging in tuta felpata grigia col cappuccio. — Sta arrivando — annunciò il giovanotto, tornando indietro. — Lei si trasferisce qui? — Sì — rispose Kay. — Al 20 B. — Io abito al 13 A — disse lui. — Pete Henderson. — Salve — disse lei, sorridendo al di sopra delle scatole. — Kay Norris. — L'uomo in tuta la stava guardando, correndo da fermo a qualche metro di distanza; quando lo guardò anche lei, distolse lo sguardo per fissare l'operaio che scalpellava. Zigomi marcati e baffi color sabbia, sulla quarantina. — Da dove viene? — chiese Pete Henderson. — Bank Street — rispose lei. — Nel Village. La porta dell'ascensore si aprì e uno schnauzer uscì a precipizio slittando sul marmo, tenuto al guinzaglio da una donna in completo pantalone di tela jeans, occhiali da sole a specchio e fascia per capelli bianca. L'uomo
dietro di lei portava occhiali a specchio e berretto da baseball, un giubbotto imbottito e pantaloni kaki. Raggiunse la donna e si presero per mano seguendo lo schnauzer verso il portone. Kay entrò con le scatole nell'ascensore rivestito di cuoio e si voltò. Pete Henderson sfiorò i pulsanti 20 e 13, lanciandole un'occhiata. Lei sorrise. Lui salutò con un cenno della testa l'uomo in tuta, che lo ricambiò mentre sfiorava il 9 e si girò verso la porta che si stava chiudendo. Macchie scure chiazzavano la tuta grigia lungo la spina dorsale. Kay osservò i numeri che cambiavano al di sopra della porta e la telecamera piazzata nell'angolo. Si accigliò. Utili, certo, le telecamere della sorveglianza, anzi rassicuranti... ma nello stesso tempo inquietanti, con il loro compito di osservatori invisibili. La porta si aprì. Il pianerottolo del nono piano era identico a quello del ventesimo e degli altri che aveva visto: tavolo Parsons in legno scuro sormontato da una specchiera appesa alla parete a scacchi bianchi e neri, moquette marrone. L'uomo in tuta col cappuccio si diresse a destra, verso l'appartamento A, mentre la porta dell'ascensore si richiudeva scorrendo. — Conosco la zona piuttosto bene — disse Pete Henderson — quindi se le occorre qualche informazione sui negozi o altro... — Com'è il supermercato di fronte? — domandò lei. — Ottimo — rispose. — La mia spesa viene da lì. C'è uno Sloan's sulla Lexington che è più economico. — La porta cominciò a scorrere. — Buono a sapersi — disse Kay, mentre lui usciva sul pianerottolo del tredicesimo piano: scacchi bianchi e neri, moquette marrone. Voltandosi, lui posò la mano sul bordo della porta imbottita e le rivolse il suo sorriso esplosivo. — Benvenuta nel palazzo — disse. — Spero che si troverà bene qui. Sorridendo, Kay rispose: — Grazie. Lui le sorrise, trattenendo la porta. — Cominciano a diventare pesanti... — fece notare Kay. — Oh Dio, mi dispiace! — Spostò la mano di scatto; la porta scivolò di lato. — Arrivederci! — esclamò. — Arrivederci — rispose Kay mentre la porta si chiudeva. Sorrise. Carino, Pete Henderson. Ventisette anni al massimo. Dopo che gli uomini dei traslochi se ne furono andati e lei ebbe gettato la spazzatura nello scivolo della pattumiera sul pianerottolo, si lavò le ma-
ni, si versò una diet-soda e diede un'occhiata critica all'appartamento. Nella luce morbida del tardo pomeriggio, la mescolanza di mobili moderni e vittoriani sembrava molto meno squallida di quanto si fosse aspettata. Una volta sostituiti i pezzi più malandati, magari con qualche pezzo Déco intonato alle plafoniere, spariti gli scatoloni, sistemati i libri negli scaffali, appesi i quadri e le tende, con la luce e il panorama e i servizi moderni e la quiete benedetta, l'appartamento sarebbe stato molto più attraente e accogliente di quello vecchio. E privo di ricordi! L'unica cosa di cui avrebbe sentito la mancanza era il caminetto. Anche Felice ne avrebbe sofferto; era sempre accorsa di gran carriera sentendo sferragliare la catenella del parafuoco... Telefonò a Roxie e si offrì di passare a prendere Felice quella sera stessa, ma Roxie stava lavorando e preferiva lasciare le cose come stavano; gliel'avrebbe riportata lei il pomeriggio del giorno dopo così l'avrebbe anche aiutata a sistemare l'appartamento. Forse potevano cenare insieme, visto che Fletcher era via. Felice stava benissimo. Kay richiamò Sara in ufficio per ascoltare i messaggi, non molti e nessuno che non potesse attendere fino a lunedì. Con le previsioni del tempo che annunciavano un weekend da estate di San Martino, era stata una giornata tranquilla pur essendo un venerdì. Disse a Sara che poteva andarsene a casa. Decise poi di andare a comprare qualcosa di commestibile prima di cominciare a svuotare le scatole di cartone; tolse dall'imballaggio la segreteria telefonica e la collegò al telefono della scrivania, la controllò e la lasciò inserita. Scovò il maglione color granturco e se lo infilò sopra la camicetta; si spazzolò i capelli, si diede una rinfrescata a rossetto e fard davanti allo specchio del bagno, infilò chiavi e portafogli nelle tasche dei jeans. Al diciassettesimo piano entrò nell'ascensore un uomo alto e stempiato in un completo scuro. Si scambiarono un cenno e lui tese la mano verso il pulsante luminoso "L", lo premette, poi indietreggiò. All'ottavo piano entrò una donna con gli occhi truccati vestita di verde scuro, massiccia, con la frangetta nera e i capelli dritti, sulla quarantina. Si scambiarono un cenno, e la donna si girò verso la porta. La borsetta e le scarpe con i tacchi alti erano di pitone; anche il vestito sembrava costoso. L'aria si saturò di profumo, Arpège in quantità industriale. Nell'atrio, Kay vide Dmitri fermo sulla destra, con i pugni sui fianchi, che scrollava la testa arruffata guardando in basso. Gli si avvicinò, seguendo la scia di Arpège della donna in verde, che andava a ritirare la po-
sta. Dmitri alzò la testa; lei lo ringraziò per aver contribuito a fare in modo che il trasloco filasse liscio. Il giorno prima gli aveva stretto la mano a un tasso doppio di quello riservato ai portieri. — Fa piacere — disse lui sorridendo, con le guance rosee come mele. — Spero che tutto va come lei vuole, signorina Norris. — Sì — rispose lei. Abbassò gli occhi sulla lastra di marmo nuova. — Questa sembra buona — osservò. Lui scosse la testa. — No — disse. — L'amministratore dirà troppo leggera. Vede? Tutto intorno non così leggera, qui troppo leggera. Dirà che non buona. — Sospirò. — Ci si avvicina davvero molto — disse lei. — Dice? — Gli occhi scuri di Dmitri la fissarono. — Ha il mio voto — rispose Kay. — Grazie di nuovo. — Fa piacere, signorina Norris — disse lui. — Fa piacere. Per ogni problema, lei chiama. Kay si diresse al portone e l'aprì. L'uomo alto che era sceso in ascensore con lei attendeva al riparo della pensilina di tela mentre il portiere, uno che lei non aveva mai visto, soffiava nel fischietto e agitava la mano in direzione del traffico che risaliva la strada. Kay tenne il portone aperto dietro di sé a un uomo dai capelli grigi con una felpa con l'immagine di Beethoven; lui afferrò l'orlo del battente, guardandola con occhi segnati da ombre scure. Sorridendo, lei si voltò e si avviò verso l'angolo fra la Novantaduesima e Madison. Alt si tramutò in Avanti mentre lei raggiungeva la gente in attesa. Attraversò la Madison e risalì senza fretta il marciapiede opposto, soffermandosi a osservare un ristorante, il Sarabeth's Kitchen, un albergo, il Wales, un altro ristorante, l'Island, che aveva la porta aperta all'aria mite. Entrò nel Patrick Murphy's Market. Percorrendo stretti passaggi stipati di merce fin quasi al soffitto, riuscì a scovare cibo e sabbietta per gatti, yogurt e succhi di frutta, detersivi. I prezzi erano più alti che al Village, ma questo se lo era aspettato. I quarant'anni, aveva deciso, sarebbero stati un decennio di autoindulgenza. Tornò indietro verso il banco dei gelati e prese una confezione di cremini al cioccolato. Quando si mise in coda alla cassa dove c'era meno fila, l'uomo con la felpa con su Beethoven le si affiancò tenendo in mano un cestino. Era sulla sessantina, e aveva una criniera incolta di capelli grigi. Anche Beethoven
era grigio, capelli e viso, rughe bianche sbiadite sulla felpa violacea. Nel cestino c'erano una confezione di sapone Ivory e alcune scatolette di sardine. — Salve — le disse... un tipo lento negli acquisti. Anche se forse prima era andato da qualche altra parte. — Salve — rispose lei. — Perché non passa avanti? — Grazie — disse l'uomo, e le girò intorno mentre lei tirava indietro il carrello. Passato avanti, si voltò a guardarla: un po' più basso di lei, con un lieve scintillio negli occhi cerchiati di scuro. — Lei ha traslocato oggi, vero? — le chiese. Aveva la voce un po' roca. Kay annuì. — Mi chiamo Sam Yale — disse lui. — Benvenuta al 1300. Un anno davvero schifoso. Lei sorrise. — Kay Norris — disse, tentando di ricordare dove aveva già sentito nominare Sam Yale. Oppure lo aveva visto? — L'altro giorno ha portato un quadro — osservò lui, muovendosi all'indietro lungo il corridoio della cassa. — È per caso un Hopper? — Magari — rispose lei, seguendolo con il carrello. — È di un artista di nome Zwick, che ammira Hopper. — Sembra buono — commentò lui. — Dalla finestra del terzo piano, almeno. Io sto al 3 B. — Lei è un pittore? — chiese Kay. — Magari — ribatté lui, voltandosi. Avanzò e posò il cestino sul banco di fronte alla cassiera. Lei girò il carrello contro l'estremità del banco e lo svuotò mentre Sam Yale - dove aveva già sentito quel nome? - pagava il sapone e le sardine. Lui aspettò all'uscita con il sacchetto "I-cuore-New York", osservandola, mentre la cassiera batteva il prezzo degli articoli, le dava il resto, infilava il tutto nei sacchetti, due. Quando uscirono, i lampioni erano accesi sotto un cielo viola. Il traffico era intenso e i clacson rumorosi, il marciapiede era affollato. Lui disse: — Immagino che una donna che ingaggia i Mother Truckers voglia portare i suoi sacchetti da sola, o sbaglio? Lei sorrise e rispose: — Per ora sì. — A me sta bene. Avviandosi verso l'angolo, Kay guardò la scura lastra svettante del 1300, dietro di lui. Il cielo violetto si specchiava nelle due file di finestre che si arrampicavano sulla facciata stretta. Individuò la sua finestra in alto, al penultimo piano sulla destra. Lui osservò: — Un bel pugno nell'occhio, eh?
— I dirimpettai avranno fatto salti di gioia — ribatté lei. — Si sono battuti per anni per impedirne la costruzione. Lei guardò il suo profilo, segnato da antichi scontri. Erano fermi all'angolo, in attesa. Gli disse: — Ho letto il suo nome da qualche parte, oppure l'ho sentito. — Figlio di puttana — disse lui, guardando il semaforo dalla parte opposta. — Tanto tempo fa, forse. Facevo il regista. Alla TV, nella cosiddetta "età dell'oro". Quando si trasmetteva in bianco e nero e in diretta da New York. — Le lanciò un'occhiata. — Lei la guardava dal girello. — Non me l'hanno lasciata guardare — disse lei — finché non ho compiuto sedici anni. I miei genitori sono tutti e due insegnanti. — Non si è persa gran che — ribatté lui. — Kukla, Fran e Ollie; il resto è sopravvalutato. Il che non significa che non fosse meglio delle merdate di oggi. Il semaforo scattò. Attraversarono il viale. — Ora ricordo — gli disse lei, sorridendo. — Lei ha diretto un dramma interpretato da Thea Marshall. Lui si fermò, guardandola con gli occhi cerchiati. Kay si fermò e disse: — L'anno scorso ne ho visto una registrazione televisiva al Museum of Broadcasting. Qualche volta mi hanno detto che le assomiglio. — La gente li superava frettolosa. — Cerchiamo di non farci ammazzare — aggiunse. Proseguirono verso il marciapiede opposto. — È una somiglianza notevole — confermò lui. — Perfino nel timbro di voce. — A me non sembra — ribatté Kay. — Be', forse un po'... — Si fermò sul marciapiede, fronteggiandolo. — È per questo che mi ha seguito. Lui annuì. — Volevo guardarla meglio — ammise, con i capelli grigi smossi dalla brezza. — Non si preoccupi, non voglio infastidirla. Thea non era l'amore della mia vita o cose simili. Solo un'attrice con la quale ho lavorato qualche volta. Si diressero verso la pensilina. — Di che cosa è morta? — Collo spezzato — rispose lui. — È caduta da una rampa di scale. Lei sospirò e scosse la testa. Il portiere, un tipo alto e magro, di mezza età, con gli occhiali, si affrettò verso di loro. — Salve, Walt — disse Sam Yale. Walt tolse i sacchetti dalle mani di Kay mentre lei si presentava.
— Devo prendere qualcosa da Feldman's — disse Sam Yale. — Quale lavoro ha visto? — Era ambientato in una casa sulla spiaggia — rispose lei. — C'era anche Paul Newman ventiduenne. — La conchiglia nascosta. — Sì. Lui annuì. — The Steel Hour, Tad Mosel. In quello non era male. — Era bravissima — dichiarò lei. — Lo erano tutti. Era un dramma commovente, ben recitato. — Grazie — disse lui. Le sorrise. — Arrivederci — aggiunse, e si voltò allontanandosi. — Arrivederci — rispose lei, e lo vide avviarsi di buon passo verso il negozio di casalinghi poco più avanti lungo l'isolato... scarpe da ginnastica nere, jeans, felpa viola stinta. Si voltò. Walt era fermo nell'atrio con l'uniforme grigia, le spalle addossate al portone aperto, e la guardava, tenendo i due sacchetti della spesa stretti in una mano. — Mi scusi — disse. Gli passò davanti entrando nell'atrio e lo attraversò dirigendosi verso l'ascensore di sinistra, aprendo il portafogli mentre camminava. Lui le portò i sacchetti e li depose sul pavimento vicino alla porta. — Grazie — disse lei, sorridendo, tendendo la mano. L'uomo si raddrizzò, la guardò attraverso le lenti cerchiate d'acciaio, il viso rugoso. Le strinse la mano. — Grazie, signorina Norris — disse con voce baritonale. — È un piacere averla con noi. — Ritirò la mano e indietreggiò. — Grazie, Walt, è un piacere essere qui — rispose lei. Sfiorò il pulsante del 20. La porta si chiuse. Kay guardava il numero in alto che cambiava. Sam Yale... Interessante. E divertente. Sessantacinque anni, minimo. Chiamò i genitori, poi Bob e Cass, per informarli che aveva finito il trasloco e che la casa era magnifica. Mangiò uno yogurt alla fragola guardando i grattacieli scintillanti più vicini al fiume, il traffico di lillipuziani in basso. Aveva aperto la finestra di qualche centimetro ai due lati; i rumori del traffico sembravano un piacevole brusio, in confronto allo stridio e al rombo che entravano dalle finestre al secondo piano del suo vecchio appar-
tamento. Si lavò le mani, inserì nel registratore portatile la prima cassetta di John Gielgud che leggeva Dombey & figlio e - a disagio, senza sapere perché si mise al lavoro sugli scatoloni di cartone in camera da letto. Anche con Kay Norris dagli occhi color rame - un colore molto più bello del verde che si era aspettato - anche con Kay Norris dalla pelle color crema e dai capelli color zibellino, anche con Kay Norris dalla camicetta ben riempita e dai jeans attillati, veder appendere abiti e sistemare biancheria nei cassetti dopo un po' diventava noioso. John Gielgud che leggeva Dombey & figlio non migliorava affatto la situazione. La lasciò sul due, trasferì il sonoro sull'uno, e passò in rassegna i monitor, facendo ruotare la poltroncina, bevendo il gin and tonic che si era concesso per festeggiare. La metà degli inquilini era fuori, o per la serata o per l'intero dannato weekend dell'estate di San Martino. Metà di quelli che erano in casa stavano in cucina o guardavano la TV o leggevano. Osservò i Gruen che discutevano sui segnali a bridge, Daisy contraria a usarli, Glenn deciso a insistere. Frank e la fidanzata dovevano venire a giocare. Guardò Ruby scattare delle polaroid a Ginger. Mark che arrivava con i fiori: una buona mossa, ma con una sera di ritardo. Guardò l'uomo della settimana mandato dalla Yoshiwara che apparecchiava per due il basso tavolino scuro. Kay stava disponendo le scarpe sul pavimento dell'armadio a muro. Entrambi accovacciati nonostante le diverse culture. Bella riflessione. Ascoltò Stefan e un pompiere di Cincinnati che aveva risposto all'inserzione nei messaggi personali. Liz che riferiva alla madre gli scandali della settimana alla Price Waterhouse. Bel colpo! Il dottor Palme che entrava nell'atrio e salutava con un cenno John, dirigendosi verso gli ascensori. Il venerdì sera? Durante il weekend dell'estate di San Martino? Qualcuno doveva essere nei guai. Nina? Hugh? Michelle? Oppure il buon dottore aveva in mente qualche scappatella? Kay stava ancora sistemando le scarpe. Lui mise lo studio del dottor Palme sull'uno, aumentò il volume, si alzò. Si stirò - un bel gemito profondo, tamburellando sulle reni - portò in cucina il bicchiere vuoto, proseguì verso il bagno.
Rimase in piedi pensando a lei, ricordando i suoi colori... Richiuse la lampo e fece scorrere l'acqua nel water nero. Andò in cucina e si preparò un altro gin and tonic, stavolta più leggero, sentendo il cigolio della poltrona di cuoio del dottor Palme, il ronzio e lo scatto del nuovo nastro che veniva inserito nel registratore. Mescolando il drink con il manico di una forchetta, guardò attraverso il passavivande. Lei era in piedi vicino al comodino, con un telefono bianco accostato alla guancia. Lanciò la forchetta sui piatti nel lavello e si affrettò a rientrare, passando l'audio e il collegamento telefonico sul due mentre si sedeva sulla poltrona ancora calda. — Per la miseria! — tuonò un uomo e lui abbassò il volume. — Soltanto qualche minuto da qualche parte per parlarci faccia a faccia! E tanto difficile? Quando Kay riattaccò, l'orologio segnava le 9:53 di sera. Rotolò sulla schiena, fece un respiro profondo ed espirò lentamente, sbatté le palpebre più volte di seguito. Si stese con un braccio di traverso sulla fronte, guardando la sua immagine in miniatura sospesa al centro della plafoniera ai piedi del letto. Buona fortuna, piccola. Era finita. Finalmente. Per sempre. Kay rimase distesa ancora un po', quindi allungò una mano verso il comodino e prese i fazzoletti profumati. Si alzò per andare in bagno, soffiandosi il naso. Gettò i fazzolettini nel water nero e tirò lo sciacquone; si avvicinò al lavabo nero, s'inumidì gli occhi e il viso con l'acqua fredda. Prese la saponetta e s'insaponò. Asciugandosi, si guardò allo specchio. Buona fortuna anche a te. E per un giorno era più che sufficiente. Chiamò Roxie e trovò la segreteria inserita. — Non importa — disse. — Te lo dirò domani. Ora voglio staccare. Sostituì Dickens e Gielgud con la chitarra di Segovia. Preparò il letto con il nuovo set di lenzuola a fiori gialli che sapeva di pulito. Andò in cucina, assaggiò un cremino al cioccolato. Buono. Prese sotto al lavandino detersivo e spugna, andò in bagno. Pulì ben bene la grande vasca nera, chinandosi e allungandosi, strofinandola da un bordo all'altro con passate di spugna schiumosa. Afferrò il rubinetto cromato in stile Déco e inserì le dita nell'imboccatura; col getto della doccia sciacquò la schiuma dalle pareti nere ricurve, la sospinse nel
foro di scarico dal bordo cromato. Si fece scorrere sul polso l'acqua bollente e cominciò a riempire la vasca. Spremette nell'acqua uno schizzo color giada di Vitabath, guardò la schiuma montare e gonfiarsi. Abbassò la luce della plafoniera - belle, quelle plafoniere - l'attenuò riducendola a un fioco chiarore sul vetro e sulla porcellana nera. Si spogliò in camera da letto, con le luci spente e le veneziane alzate. La scogliera di luce in lontananza era il Central Park West. Le luci occhieggiavano nel buio del parco, tranne che nella zona del laghetto. Aprì il vetro di sinistra della finestra; diede uno strattone con tutt'e due le mani al bordo del pannello dall'intelaiatura color bronzo, lo fece scorrere di una trentina di centimetri nella scanalatura all'altezza delle sue ginocchia, che opponeva resistenza. Una brezza calda le sfiorò la pelle nuda; una volta tanto le previsioni del tempo erano state esatte. Di tronte a lei e molto più in basso, quattordici piani aveva calcolato, il tetto a guglie gotiche del Jewish Museum era illuminato dalle finestre del palazzo di fianco. Sorridendo, abbassò gli occhi su quella casa di bambole. L'altezza non la infastidiva. Il suo ufficio alla Diadem era al quarantottesimo piano, con una parete di vetro a tutta altezza. Ancora una volta, e più forte che mai, lui provò l'impulso di prendersi a calci per non aver cambiato l'arredamento dei bagni in bianco. O in grigio, che sarebbe stato anche meglio. Aveva pensato di farlo, quando aveva acquistato l'edificio, ma i sanitari neri erano stati già ordinati e il colonnello gli aveva giurato che la Takai Z/3, appena uscita sul mercato, era in grado di riprendere i caratteri di un giornale alla luce di un fiammifero. E sarebbe stato difficile spiegare a Edgar e soci, che già lo consideravano matto da legare, per quale motivo era disposto a rinunciare a un deposito di ventimila dollari pur di cambiare il colore dei bagni. Così si era accontentato del nero, l'idea che aveva Barry Beck di un design di classe. Fra tutto quel nero e la luce al minimo e quella dannata schiuma, era come guardare Dinasty. O quasi... Aumentò la luminosità al massimo, quindi niente contrasto: tutto annegato nel grigio, peggio di una vecchia registrazione televisiva. Lei era bellissima, però, distesa con la testa appoggiata all'angolo della vasca vicino alla parete, gli occhi color rame chiusi, i piedi che sbucavano ogni tanto dalla schiuma nell'angolo opposto. A volte soltanto le dita. Dal lento on-
deggiare della schiuma si capiva che si stava accarezzando là sotto. Niente di particolare, solo per rilassarsi, per allentare la tensione dopo la lunga giornata del trasloco e la merda che Jeff le aveva scaricato addosso. Aveva guardato verso di lui, verso il proprio riflesso nella plafoniera, naturalmente, due volte. La prima volta aveva sorriso e fatto un salutino con la mano. Lo aveva fatto saltare su dalla sedia. Aveva risposto al saluto dicendo: — Salve, Kay — brindando col gin and tonic numero tre. La seconda volta aveva girato lentamente la testa da una parte all'altra, fissandolo. La teneva su tutt'e due gli schermi principali e nello stesso tempo registrava il dottor Palme e Hugh, una scena troppo penosa e sconvolgente per essere vista in contemporanea. Rocky avrebbe passato la notte a Chicago per le nozze del nipote, quindi era libero di concentrarsi tutto su di lei. No, non del tutto. Più tardi doveva dare un'occhiata nell'appartamento di Rocky. Niente più drink dopo quello. Sul serio. Era un'occasione d'oro; forse sarebbe riuscito a trovare degli appunti sui suoi impegni, e a stabilire se stava diventando paranoico oppure no. La mano di Kay uscì dalla schiuma per sfiorare la gola e massaggiarla; si accarezzò il lato del collo. L'acqua che sciabordava sembrava vitrea, brillante. Dietro la vasca, l'aeratore ronzava, una chitarra emetteva suoni argentini. Segovia? Lei si accigliò. Molto probabilmente, pensava ancora a quel bastardo di Jeff. Come aveva potuto vivere con lui due anni? Era incomprensibile, nonostante Babette e Lauren e le altre donne che aveva visto adattarsi esattamente allo stesso genere di stronzo. Cristo, Kay... Si appoggiò allo schienale, fece ruotare la poltrona, frugò sotto la console con un piede. Agganciò il poggiapiedi di pelle e lo attirò più vicino. Incrociò i piedi sullo sgabello, agitò le dita nude; bevve un sorso dal bicchiere, osservandola; si posò il bicchiere in grembo, con la base umida che schiacciava i peli. Si era spogliato contemporaneamente a lei. Succhiò una scheggia di ghiaccio, guardando lei. E l'altra lei, vicina. Bellissima... ...I virtuosismi della chitarra, l'aroma di pino, le bolle della schiuma che scoppiettavano... l'acqua calda e carezzevole sulla pelle, e lei così vellutata nell'acqua... Ma qualcosa la infastidiva.
Un segnale sconosciuto. Strane vibrazioni che le erano arrivate quel giorno, prima di Jeff, vibrazioni che al momento non aveva colto... Da parte di Sam Yale? Quando si era fermato in mezzo alla strada e l'aveva guardata con quegli occhi da insonne? Aveva mentito riguardo ai suoi rapporti strettamente professionali con Thea Marshall? In un thriller lui sarebbe stato... Quello che era decisamente strano in Yale era il fatto che vivesse lì, al 1300 di Madison Avenue. I vecchi registi in felpa e jeans abitavano in appartamenti a fitto bloccato nel West Side, oppure giù al Village o a Soho, in mezzo ad attori e artisti e scrittori. Che cosa ci faceva in un nuovo grattacielo da yuppies nell'East Side? Quando aveva lasciato la regia? Perché? E che specie di lavoro faceva Pete Henderson, che andava a fare la spesa il venerdì mattina? Lavorava di notte, lavorava in casa, era in vacanza, aveva vinto alla lotteria. Di qualunque cosa si trattasse, era un bel ragazzo: il sorriso alla dinamite, gli occhi azzurri luminosi, i capelli castano rossicci. Niente di strano nelle sue vibrazioni; era giovane e affascinato da lei, come i suoi assistenti in redazione. Se avesse avuto 15 anni di più... O anche dieci... E l'uomo in tuta da ginnastica col cappuccio, che correva da fermo, guardandola... era lui che la turbava? Le era sembrato attraente, per quel poco che aveva visto, con gli zigomi marcati e i baffi color sabbia. Marlboro Country. Sposato o gay, non c'era scampo. Walt, quando gli aveva dato la mancia? Dmitri? Il facchino biondo? Su quei segnali non c'era pericolo di equivocare... Si abbassò sotto la schiuma. Forse quello che realmente la infastidiva era il fatto di essere sola... Senza Felice, senza nessuno, la prima sera in un appartamento nuovo. Estranei al piano di sopra e di sotto, un estraneo alla porta accanto. V. TRAVISANO, diceva la targhetta del 20 A. Victor? Victoria? Si mise seduta e appoggiò la schiena alla vasca, con le braccia sul bordo laterale e su quello interno. Guardò la plafoniera luminosa, la chiazza chiara e ricurva nella sua pupilla scura, la minuscola figura seduta al centro. Soffiò via la schiuma dai seni, sinistro, destro, e il freddo fece indurire i capezzoli. Sbirciò la figurina minuscola coi capelli scuri... Sollevò una gamba dall'acqua, osservando la gamba rimpicciolita, con la schiuma che scivolava giù dal tallone... Arcuò il piede... guardando... Puntò il piede contro il rubinetto Déco... Scivolò giù nell'acqua, rompendo isole di schiuma...
Forse ciò che le serviva davvero... forse?... era allentare la tensione... Lui calcolò i tempi in modo che venissero insieme. Fu grandioso. Per quello che valeva... Allungato con un piede sul poggiapiedi e l'altro sul pavimento, riprese fiato, la mano piena di fazzoletti di carta e di se stesso. Rimase immobile per qualche istante, limitandosi a respirare, guardandola fare lo stesso nell'acqua costellata di schiuma. Tutt'e due le immagini di lei, rivolte verso la parete, mostravano il profilo di Thea Marshall, a occhi chiusi. Doppiamente bella... Non doveva incrociare mai più la sua strada. Lo sapeva. Non stava progettando di... Se fosse successo, bene, ma doveva essere EVITATO. Lo sapeva. "Ricordati di Naomi." Se ne ricordava. E si sentiva ancora male al pensiero. Si alzò, stringendo con la mano se stesso e i fazzolettini. Anche Kay si muoveva di nuovo, in tutt'e due le immagini, mettendosi a sedere, insaponandosi le ascelle. Andò in bagno. Lasciò cadere i fazzoletti di carta nella tazza nera, tirò lo sciacquone. Scosse la testa, sospirando. Sarebbe stata dura limitarsi a guardarla. Ora che l'aveva vista in diretta e a colori... 3 Con le pareti in legno naturale scuro e le tende a balze trattenute che s'increspano fino al soffitto alto tre piani, la Grill Room del Four Seasons è il ristorante dove redattori ed editori, quelli che non si sono ancora trasferiti in centro, pranzano con l'uno o con l'altro degli scrittori più prestigiosi... propri o altrui. A mezzogiorno, su quel vasto palcoscenico (decorato sul fondo da una pioggia di fili di ottone), uomini in scuro e donne multicolori prendono posto a gruppi di due o di quattro a tavoli più o meno buoni, a livelli più o meno buoni, come gli uccelli di Hitchcock appollaiati sul castello di tubi del parco giochi. Becchettano spettegolando su chi sta con chi e che aspetto ha, chi si trasferisce dove, chi compra che cosa. Camerieri ossequiosi servono il cibo, disposto con arte, in porzioni troppo abbondanti
per gli uccelli. Prendendo posto su un divanetto al livello buono, ma a un tavolo non troppo buono, Kay vide, al livello peggiore di tutti, uno zigomo marcato e dei baffi color sabbia. L'uomo seduto di profilo sembrava H. Sheer - il nome corrispondente al 9 A sulla cassetta della posta - ma lei lo aveva visto di sfuggita una volta sola, quasi una settimana prima, a una decina di metri di distanza. Lui era in compagnia di un editor di cui le sfuggivano il nome e la casa editrice attuale. Il suo barbuto ospite, Jack Mulligan, aveva scritto sotto pseudonimo sedici thriller-rosa; lei aveva curato gli ultimi quattro, tutti best-seller. Mulligan aveva uno stile ridondante, giungle di prosa intricata e lussureggiante; lei apriva sentieri nel folto di metafore, potava viticci di proposizioni avverbiali, sfrondava grovigli di fogliame iridescente trasformandoli in masse di foglie verdi. Lui l'aveva seguita dalla Random alla Putnam e poi alla Diadem. Il lavoro editoriale somiglia un po' al gioco della dama. Di recente Mulligan era diventato un beniamino dei media; la gente si fermava al loro tavolo per fargli le congratulazioni e stringergli la mano. — Continua così, Jack — gli dicevano, e: «Era ora che qualcuno pareggiasse i conti!» — No, no, davvero — diceva lui, raggiante. Un mese prima, o giù di lì, Mulligan aveva rivendicato, per poi ritrattare, la responsabilità di un virus dei computer, risultato non identificabile, che aveva messo a terra una nota rivista, spogliando la sua banca dati di tutti i nomi e le parole che contenevano le lettere F e Y. La recensione della rivista al suo L'amante di Vanessa, benché fosse un elogio spropositato e infarcito di citazioni, aveva sconsideratamente svelato una delle sorprese del libro. Furibondo, Mulligan aveva mandato un fax di quattro pagine al direttore; era stata pubblicata la solita breve protesta di un lettore. Quando la rivista aveva ululato per la ferita infertale, gli amici di Mulligan avevano dato credito alle sue telefonate del tipo giura-che-non-lodirai-a-nessuno. Lui aveva tre figli nell'informatica, hacker della prima ora ormai cresciuti che lavoravano nel campo dell'intelligenza artificiale e alla progettazione di sistemi di sicurezza; e per giunta, circa nello stesso periodo in cui la rivista aveva perso le parole con F e Y, l'autore dell'incauta recensione era scomparso dalla memoria di oltre metà dei computer delle aziende che fino a quel momento lo avevano conosciuto e considerato affidabile. Di fronte ai rappresentanti dell'ufficio del procuratore distrettuale e dell'FBI, tuttavia, Mulligan (rappresentato da Paul, Weiss, Rifkind e soci)
aveva detto che, no, no, aveva parlato per scherzo, aveva detto che avrebbe desiderato farlo, ma che deplorava il vandalismo, eccetera eccetera. In seguito il suo sguardo ammiccante era apparso in Live at Five, A Current Affair e nel programma dedicato da Nightline ai problemi della sicurezza dei computer. L'esito della vicenda, mentre la rivista e il recensore si sforzavano di rimettere ordine nella loro vita, era stato esattamente quello che ci si poteva aspettare: un boom nelle vendite di L'amante di Vanessa e una richiesta da parte dell'agente di un anticipo astronomico per una scarna scaletta di Il patrigno di Marguerite. Era nella vaga speranza di ridimensionare quella richiesta che Kay, con l'appoggio incondizionato del suo capo, stava intrattenendo a pranzo Mulligan al Four Seasons. — Conosce l'uomo con i capelli bianchi al mezzanino? — domandò quando furono lasciati finalmente in pace. — Lavorava alla Essandess; non riesco a ricordare come si chiama o dove lavora adesso. Jack si grattò l'orecchio, si voltò, scrutò pareti e soffitto, tornò a voltarsi verso di lei. — È lo stesso tavolo al quale a Bill Eisenbud è venuto l'infarto — le disse. — Non era un tipo simpatico? Che peccato. Avevamo una casa vicino alla loro a Vineyard, nell'estate del '73. No, del '74. Una casa deliziosa con un grande portico sotto una pergola. Tutto ricoperto di tralci di glicine. Lei insistette: — Lo conosce? — Ecco, era il '73 — continuò lui. — Nel '74 eravamo in Sudamerica. — Scosse la testa. — No — disse. — Chissà se Sheer ha intenzione di scrivere un altro libro. Diceva che non lo avrebbe fatto. In fatto di soldi è strano. Dopo abbiamo preso un taxi e quando sono sceso gli ho dato un biglietto da cinque dollari. Il tassametro segnava poco meno di sette, ma lui ha insistito per calcolare la mia parte fino al centesimo. Il cameriere arrivò, si piegò per prendere la loro ordinazione di bevande, se ne andò. — Sheer? — chiese lei. — È il nome dell'uomo che sta con quel tizio? Lui la guardò. Disse: — Pensavo che lei guardasse Nightline... — Ma certo! — rispose Kay. — Con che cosa? Con quel vecchio portatile? Intende dire che è ancora l'unico televisore che possiede? — C'era anche lui? — L'uomo dell'apocalisse — rispose Jack. — Quello che ha scritto il libro sui computer che ci lasciano in balia di ogni sorta di sventura. Tipo es-
sere puniti per avere sciupato una storia. Lei disse: — Hubert Sheer... Non ricordavo, sono passate settimane. Ce l'aveva con lei... Jack ridacchiò. — E come — disse. — Ma in taxi è stato decisamente simpatico. Mi ha fatto le sue scuse sincere per quella battuta sarcastica sulla "mentalità giovanilistica". Lo avevano reclutato per lo show all'ultimo momento, qualcuno si era ritirato. A lui non piace apparire in TV, anche se Koppel ha avuto il suo bel daffare per interromperlo, una volta che Sheer aveva attaccato a parlare. Ha scritto il libro anni fa. — Abita nel mio nuovo palazzo — spiegò lei. — Ah sì? Già, si stava trasferendo sulla Madison... Studiarono il menù. Lei alzò gli occhi e si accorse che Hubert Sheer la stava fissando. Stava seduto e sorrideva, con le guance e la fronte arrossate, i capelli radi color sabbia come i baffi. Kay gli rivolse un sorriso misurato e un cenno di saluto. Lui ricambiò il cenno, arrossendo ancor di più. Il cameriere servì a Kay la sua Perrier al lime, il Glenlivet a Jack. Ordinarono: paillard e salmone alla griglia. Jack sollevò il bicchiere. — Al Patrigno di Marguerite. Lei lo sfiorò col suo. — Alla solvibilità della Diadem. — Guastafeste. Parlarono di un nuovo best seller - buono ma non tanto buono - dell'ultimo scandalo di Washington, della stagione poco promettente di Broadway. L'uomo con i capelli bianchi si avvicinò sorridendo; qualche metro dietro di lui, Hubert Sheer avanzava zoppicando e appoggiandosi a un bastone. — Kay! — esclamò l'uomo. — Martin Sugarman. Come stai? — Martin! — rispose lei. — Che piacere vederti! Lui si chinò a baciarle la guancia. — Hai un aspetto splendido! — Anche tu! — ribatté Kay. — Jack Mulligan, Martin Sugarman. — Un vero piacere! — disse Sugarman, stringendo con forza la mano di Jack fra le sue. — Era ora che qualcuno pareggiasse i conti. — No, no, davvero — ribatté Jack, raggiante. Hubert Sheer si avvicinò zoppicando, rosso in viso, vestito in un tweed nocciola, camicia marrone, cravatta color ruggine. I suoi occhi grigi sotto le sopracciglia color sabbia scintillavano di eccitazione repressa. Le sorrise, appoggiandosi al bastone. — Kay, questo è Hubert Sheer, che ha appena firmato il contratto per
pubblicare un libro con noi. Kay Norris. — Congratulazioni — disse lei, sorridendo e porgendo la mano. Lui la prese goffamente con la sinistra, calda e umidiccia. — Grazie — rispose. — Noi siamo vicini di casa. — Lo so — disse Kay. Gli occhi grigi di Sheer si dilatarono; le lasciò andare la mano, prese quella di Jack. — Salve — disse. — Salve — rispose Jack. — Che cosa le è successo? — Mi sono fratturato la caviglia — spiegò Sheer. — L'altro ieri. — Sorrise a Kay. — La bicicletta mi si è disintegrata mentre andavo a fare delle fotocopie della scaletta. Lei pensa che Dio stia cercando di dirmi qualcosa? — Forse è un augurio di buona fortuna — rispose lei. Lui sorrise. Sugarman scoppiò a ridere. — Credevo che avesse chiuso con i libri — disse Jack. — Lo credevo anch'io — gli rispose Sheer — ma Marty mi ha telefonato dopo Nightline con un'idea che mi ha davvero entusiasmato. — I suoi occhi grigi tornarono a posarsi su Kay, penetranti. — La televisione — spiegò. — Un panorama completo degli effetti che ha avuto sulla società e di quelli che avrà negli anni a venire. Sotto ogni aspetto, dalle soap-opera alle telecamere della sorveglianza, alle ripercussioni che le videocamere portatili avranno sulla società. Sto perfino progettando di... — Rocky... — intervenne Sugarman. Sheer guardò lui, poi Kay. Arrossì ancor di più, sorrise. — Non si preoccupi — disse lei, sorridendo. — Io mi occupo di narrativa. — Comunque tenetelo per voi — disse Sugarman a lei e a Jack. — Per favore. È ancora un abbozzo. — Sembra affascinante — disse Jack. — E perfettamente in linea con l'altro suo libro. — Sì — convenne Sheer. — Ne sono davvero entusiasta. Ho cominciato a seguire un corso intensivo di giapponese. La prossima settimana andrò laggiù per visitare fabbriche e intervistare industriali e progettisti. — Era destino — disse Sugarman. — L'idea mi è venuta la mattina, e quella sera, eccolo là a Nightline, lo scrittore ideale per realizzarla. Oh, guarda, c'è Howard. — Toccò la spalla di Sheer. — Tu va' avanti, Rocky, ti raggiungerò all'uscita. Sheer guardò Kay. — Lei sa andare in bicicletta? — le chiese. — Sì — rispose. — Ma non ce l'ho...
— Io nemmeno — ribatté lui sorridendo. — L'ha schiacciata un autobus. Le affittano nel parco, vicino alla rimessa delle barche. Posso chiamarla quando torno? — Ma certo — rispose lei allegra. — Spero che sia un viaggio produttivo. — Grazie — disse lui, rosso in viso. Salutò Jack e si allontanò zoppicando. Sugarman si avvicinò, chinandosi in avanti. — Straordinariamente intuitivo — disse. — Ho un sacco di idee sorprendenti. Hai letto Il verme nella mela? — No — rispose lei. — Ma non mi dispiacerebbe. — Te ne farò avere una copia questo pomeriggio — disse lui. — Fra parentesi, mi ha chiesto lui di essere presentato, se può interessarti. Ha quarantatré anni, è divorziato, ed è un tipo molto simpatico. Be', sarei venuto in ogni caso per salutare. È stato magnifico vederti, e conoscere lei, Jack. Congratulazioni. Per tutto! — Si voltò e si allontanò verso i tavoli migliori. Lei lo seguì con un sorriso, salutò con la mano Howard che la salutava. Jack tagliò la carne. — "Rocky"? — disse in tono interrogativo. — Sempre meglio di Hubert — ribatté lei. Si voltò a guardare dietro di sé, attraverso un vetro venato d'oro, le spalle scure di Sheer oltre la balaustra dell'ampia scala, mentre scendeva lentamente, tenendosi vicino al corrimano di sinistra. Scomparve alla vista, un po' alla volta. Kay portò le misure delle finestre al reparto tendaggi di Bloomingdale's e ordinò seta bianca per il soggiorno e chinz a righe bianche e verdi per la camera da letto. Mentre era diretta verso il reparto arredamento moderno, notò un tiragraffi di gran classe: ciambelle di sughero bruno su un gigantesco cavalietto cromato. Soltanto da Bloomie's... Si allenò al Vertical Club, sudando nella lotta con la macchina per i bicipiti, quella per le gambe, la panca per lo stomaco; dedicò qualche tempo anche alla cyclette. Uscendo dall'ascensore fu accolta dal miagolio di Felice e da un branco di valigie di pelle rosa che bloccavano la sua porta e tenevano socchiusa quella del 20 A, dove dalla parte opposta all'ingresso, in una copia speculare della sua cucina, una giovane donna in soprabito bianco diceva al telefono: — No! Intendevo dire esattamente quello che ho detto! — Vedendo Kay, alzò una mano con un anello per dito. Mimo un gemito, alzò gli occhi
al cielo, verso Kay, scrollò le spalle in un gesto destinato a impietosire. Era splendida come una modella, snella, poco oltre la ventina, con un casco di capelli biondi e lisci. Il soprabito bianco con la cintura era apparso su Elle. — Vaffanculo a tutti e due! — esplose, sbattendo il ricevitore del telefono a muro. — Le tolgo subito di mezzo — disse, avvicinandosi alla porta. La spalancò, sistemò una valigia in modo che la tenesse aperta. — Mi spiace, il suo povero gatto sta diventando pazzo. Immagino che non abbia mai sentito odore d'India, prima d'ora. — Radunò le valigie rosa. — Quando ha traslocato qui? — domandò. — Una settimana fa — rispose Kay, ritirandosi verso la porta delle scale. — Lo lasci uscire — disse V. Travisano, scoccandole un sorriso. — Gli faccia le feste. Anch'io amo i gatti. — È una lei. — Kay posò sul pavimento la borsa portadocumenti e il sacchetto di Bloomingdale's, spostò una valigia e aprì la porta. Felice uscì a razzo e tracciò come un fulmine un percorso a trifoglio, annusando i punti in cui la pelle incontrava la moquette, annusando, annusando, annusando, annusando. — Oh, è una bellezza. Adoro i gatti calicò. Come si chiama? — Felice. — Che bel nome, Felice... Io mi chiamo Vida Travisano. — È bello anche il suo. Lei scoppiò a ridere. — Grazie — disse. — Me lo sono inventato io. — Io sono Kay Norris. — Bello. — Lo hanno inventato i miei genitori. — Kay prese in braccio Felice che si dibatteva, stregata dall'India. Vida Travisano portò in casa l'ultima valigia. — Lei rappresenta un bel miglioramento rispetto ai poveri Kestenbaum — dichiarò. Sorrise sulla soglia, con il soprabito bianco di Elle, una mano sfavillante appoggiata allo stipite, gli stivali bianchi incrociati all'altezza delle caviglie. — Ha saputo dei Kestenbaum? — Felice, basta! No — rispose lei. — No. Non ho... — Erano una coppia interessante — disse Vi da Travisano. — Lui era americano e lei coreana. Bellissima; avrebbe potuto fare la modella. Non hanno mai detto che lavoro facevano. Ricevevano un sacco di gente. Poi lui ha contratto la SM... sclerosi multipla?... e ha cominciato letteralmente a liquefarsi. E lei lo spingeva dentro e fuori sulla sedia a rotelle... Voglio
dire, ti si spezza il cuore, ma è così deprimente... Capisce? Sono andati via per trasferirsi in California, dove stanno facendo ricerche avanzate sulla malattia. Sembrava che non se lo potessero permettere, e lei piangeva sempre; costa una fortuna, e la loro assicurazione non copriva le spese. Grazie a Dio sono riusciti a farcela. Se una volta o l'altra le viene voglia di spettegolare, suoni il campanello. Resterò nei paraggi fino al 5 novembre, poi via. — Il telefono squillò. — Oh, merda. Poi si parte per il Portogallo assolato. Ci vediamo. — Indietreggiando nell'ingresso, salutò con la mano Felice. — Ciao, Felice! — Chiuse la porta mentre il telefono continuava a squillare. Felice atterrò sulla moquette annusando le impronte delle valigie, inebriata. Arrivò Dmitri, che montò i sostegni degli scaffali per i libri nel soggiorno, e con il trapano fece dei buchi sulle X che lei aveva segnato a matita in basso sulla parete della cucina. Kay fissò il tiragraffi al muro e mostrò a Felice che cos'era, strofinandole le zampe anteriori contro le ciambelle di sughero. Buona fortuna. Appese il falcone di Roxie nell'ingresso; tanto quello quanto lo Zwick facevano una figura migliore se erano distanziati. Allineò i libri sugli scaffali del soggiorno mentre Claire Bloom leggeva Gita al faro. Era andata alla libreria Corner Bookstore, sulla Novantatreesima Strada e si era presentata... non faceva mai male ottenere dello spazio in vetrina. Chiamò i genitori e li ringraziò per la coppa, che aveva una linea Art Déco e avrebbe fatto una bella figura sul nuovo tavolino da caffè, appena fosse arrivato. Attaccò la solita discussione con il padre quando lui le raccomandò di dire a Bob di chiamare. Lesse l'edizione economica di Il verme nella mela di Hubert Sheer, i primi quattro capitoli. Telefonò a Roxie. — E finora è fantastico. È un ottimo scrittore. — E la storia tra voi come va? — Non c'è nessuna storia — rispose lei, distesa sul letto a giocherellare con l'orecchio bianco di Felice. — Abbiamo una specie di appuntamento per andare in bicicletta quando sarà tornato da un viaggio. Non so nemmeno quanto tempo starà via. In Giappone. Partirà entro questa settimana. — Sembra piuttosto vago. — Lo è — confermò lei. — Te l'ho detto, non c'è nessuna storia. Ma lui è terribilmente attraente e il libro è magnifico. Come va fra te e Fletcher? Si appoggiò al corpo i vestiti invernali guardandosi allo specchio della
camera da letto. Non ne fu entusiasta. Sistemò i libri sull'ultimo ripiano in alto dello scaffale, stando in piedi sulla scaletta e allungando il braccio. Felice, in cucina, stava ferma a fissare la base dell'armadietto sotto il lavello. Chi avrebbe mai pensato, con tutti i ristoranti in città, migliaia, che lei e come-si-chiamava, l'editor di Rocky, sarebbero finiti a pranzo nello stesso locale? Incredibile. A meno che, dall'ultima volta che c'era stato, il Four Seasons non si fosse trasformato in una sorta di ritrovo per editor e scrittori... Eppure era ancora un ristorante di classe; gli Stein ci avrebbero portato i genitori di Leslie per le nozze d'argento, Vida e Lauren lo suggerivano ai loro accompagnatori. No, era solo una delle coincidenze sconcertanti della vita... Era un peccato che Rocky le piacesse. Avrebbero formato una bella coppia, Kay e Rocky, se si considerava quante cose avevano in comune... Lui non poteva lasciarsi influenzare, comunque. No, visto che Rocky aveva un appuntamento alle otto del mattino, ora di Osaka, martedì l'altro, nello showroom della Takai Company, e probabilmente loro avevano fabbricato una plafoniera o due in più da mettere in mostra o almeno avevano nell'album qualche foto patinata venti per ventiquattro. Non lo avrebbe fatto qualunque industriale? Figurarsi un giapponese sveglio e ansioso di combinare altri affari! "Sta' calmo. Rifletti. Non è il momento di farsi prendere dal panico. È domenica sera, no, lunedì mattina; il volo di Rocky parte dal JFK venerdì mattina alle undici. "Rifletti. "Forse l'incidente con la bicicletta non è stato proprio un disastro... Considera il lato positivo." Aveva lasciato Rocky con il piede ingessato, costretto a zoppicare appoggiandosi a un bastone... Kay di solito lavorava in casa un giorno alla settimana - il martedì o il mercoledì, a seconda degli appuntamenti o delle riunioni in programma - e sbrigava tanto lavoro quanto in due giorni in ufficio, interrotta soltanto da qualche telefonata di Sara. Lavorava anche per la maggior parte delle serate, e tre o quattro ore durante il weekend; tutte le mattine leggeva manoscritti a letto dalle sei alle otto. Il suo giorno a casa quella settimana cadde il martedì 24 ottobre, una
giornata che alla fine fu proclamata da tutti i meteorologi di tutti i canali la giornata più splendida di quella splendida stagione. Le loro dichiarazioni furono confermate da metri e metri di riprese di cieli turchesi, alberi dalla chioma infuocata e facce rivolte verso l'alto... riprese effettuate per la maggior parte in Central Park. Starsene seduta in quella mattinata splendida con una fettina di parco fiammeggiante di colori autunnali e il laghetto turchese dietro la spalla sinistra e lavorare alla revisione di un libro, sia pure un bel libro, che le dava soddisfazione, era pur sempre... lavoro. Specie per una ragazza di campagna... Si girò, sollevando gli occhiali; guardò uno stormo di oche selvatiche che si abbassavano sul laghetto turchese; si protese per osservare le oche unirsi ad altre oche che si levavano in volo dal basso increspando l'acqua. Abbassò gli occhiali, si voltò per leggere. Tracciò dei segni. Respirò profondamente, mentre i fogli erano smossi dall'aria che entrava dalla finestra appena socchiusa... Tenne duro fino alla fine del capitolo. Raccolse le Adidas, i jeans, il maglione bordò a collo alto, e quello di lana irlandese. Felice, distesa per lungo al centro del letto, la osservava. Quando fu a metà strada dalla pista di terra battuta che costeggiava il bacino artificiale recintato dalla rete metallica, camminando a lunghe falcate, inebriata dal cielo turchese, dagli alberi rosseggiami, dall'aria frizzante, dalla gente multicolore, dagli scoiattoli sfacciati (avrebbe dovuto portare le noccioline), dagli uccelli che si libravano in volo e da se stessa, che si sentiva in gran forma, meglio di quanto si fosse mai sentita da due anni a quella parte — forse da sette od otto - superò una curva a sinistra e vide sul sentiero davanti a sé Sam Yale che le veniva incontro tra la folla che non seguiva le frecce del percorso, con l'aria altrettanto estasiata della sua per la mattinata splendida, camminando con le braccia che dondolavano e i capelli grigi al vento, contemplando raggiante l'acqua turchese alla sua destra. Kay rallentò mentre lui si avvicinava, strizzando gli occhi per guardare in alto. — Sam! — esclamò lei. Yale si fermò e la guardò con gli occhi cerchiati da procione; un uomo che correva deviò per superarlo. Lei si spostò sul margine della pista, sollevando gli occhiali da sole. — Kay — si presentò. — Norris. Lui sorrise. — Salve! — esclamò. Rimase fermo a sorridere mentre tre uomini lo superavano marciando a gambe nude, i gomiti che pompavano.
Kay si tolse gli occhiali mentre lui attraversava il sentiero per andarle vicino, in jeans e scarpe da ginnastica nere, una giacca a vento grigia con la lampo tirata su fino al colletto di una camicia di flanella rossa. — Che giornata! — esclamò, sfregandosi le mani. — Sensazionale, non è vero? — disse lei. — E come. — Non voglio fermarla. Continui pure, e segua le frecce, non le farà male. — Frecce? — ripeté lui, seguendola sulla pista. — Alla base della rete metallica — spiegò lei, rimettendosi gli occhiali da sole. — Ogni tanto. — Ehi, rallenti — disse Sam, rimasto indietro sulla sinistra — sono qui per godermela. Kay rallentò l'andatura, gli sorrise quando lui la raggiunse e le si affiancò. Il viso segnato dalle rughe non era male per i suoi sessantotto anni. Nella foto formato tessera di L'età dell'oro della televisione era un malinconico ragazzo prodigio con i capelli scuri e ondulati, gli occhi cerchiati. Lui le sorrise. — L'industria editoriale ha dichiarato vacanza? — chiese con la sua voce roca. — A volte lavoro a casa — rispose lei. — Bel lavoro. — Ho scelto il giorno sbagliato — disse Kay. — Quello giusto, voglio dire. Come fa a sapere che lavoro nell'editoria? Lui rimase indietro per lasciar passare una carrozzina con un bambino imbavagliato dal succhiotto, spinta da un'adolescente in giacca di montone e walkman. Si riportò al fianco di Kay. — Sono passato vicino al camion il giorno che lei ha traslocato — spiegò. — Una quantità di scatole di cartone con il logo della Diadem. — Oh — fece lei. — Fantastica quella scrivania con il coperchio a rullo. Di quanto è vecchia? — Ottanta, ottantacinque anni. — Che lavoro fa? — chiese lui. — L'editor — rispose Kay. — Ecco, laggiù c'è una freccia. — Cristo — esclamò lui — devono averla verniciata quando era presidente McKinley! È praticamente invisibile. Non ci si può aspettare che qualcuno le segua.
— Che cosa intende dire? — ribatté lei mentre un branco di corridori li superava. — Sono là. Come sarebbe a dire che non ci si può aspettare che qualcuno le segua? — Lo dicono tutti — ribatté lui, e rimase indietro per lasciar passare due suore. Un cavallo passò al piccolo galoppo sul sentiero per i cavalli alla sua destra, imboccando una galleria di fogliame rosso; era una giumenta saura montata da un uomo in giacca a quadri, stivali neri e calzoni da equitazione. Sam si spostò alla sinistra di Kay. — Che giornata — disse. . — È vacanza per i registi? — Tutti i giorni, per quelli in pensione. Ma guardi che panorama! Lei guardò le file scintillanti di grattacieli bianchi e acciaio a sud del parco, l'edificio smussato della Citicorp, l'ago dell'Empire State che trafiggeva il cielo turchese. — Fantastico — disse. — Non siamo più nel Kansas, Dorothy. Lei gli scoccò un'occhiata in tralice mentre proseguivano. — Che cosa le ha fatto pensare al Kansas? Lui le sorrise. — Niente — rispose. — Ce l'ha sulle labbra. Io non ho accento — ribatté lei, stizzita. — Ho lavorato sodo per sbarazzarmene. Mi scusi — disse lui. — Sono un sensitivo. Aggirarono una troupe televisiva che puntava sugli alberi fiammeggianti una minicamera con un logo a forma di pavone. — Lei dimentica — aggiunse Sam Yale quando furono di nuovo sulla pista che curvava a sinistra — che ho fatto il regista. Ho l'orecchio esercitato. — Vi batté sopra con un polpastrello. — Per la persona media, no, lei non ha accento. Tranne che in parole come "salve" e "come va". — Non ne ho — ribatté Kay. — Leggerissimo — insistette lui, sorridendo. — Davvero, molto leggero. Soltanto un professionista molto dotato riesce a coglierlo. — Rimase indietro per lasciar passare una carriola piena di cenere scura spinta da un uomo in uniforme marrone. Le si affiancò di nuovo. Lei disse: — L'ho cercata in un libro che abbiamo pubblicato qualche anno fa. L'età dell'oro della televisione. — Accidenti, che titolone — commentò lui. — Chi lo ha escogitato? Non lei, spero. — Si dà il caso che sia un ottimo titolo — replicò Kay. — Indica l'argomento del libro in modo chiaro e comprensibile. — Accetto il rabbuffo —- disse lui.
— Comunque non era mio — ammise Kay. Si diressero verso l'uscita all'estremità sud del laghetto. Alcuni patiti del jogging li superarono. — Ed è rimasta impressionata? — domandò lui. — Molto — rispose lei. — E anche perplessa. — Sul perché è finito tutto? Semplice. Sono un alcolizzato in via di guarigione. — Mi spiace — disse lei, guardandolo. — Mi fa piacere che si stia disintossicando, però. Non è di quello che intendevo parlare, comunque... mi scusi, non avrei dovuto sollevare l'argomento. Sono sicura che non le va di parlarne. Lui disse: — Le iniziali T.M.? Lei sospirò, annuì. — Tom Mix. È sempre stato il mio preferito. Lei sorrise. — Ha controllato gli elenchi degli interpreti — osservò lui. — Sì — rispose Kay. — Quella donna ha recitato in quasi venti spettacoli diretti da lei. — È stata apprezzata soprattutto in Steel e Kraft. — Lei ha vinto due premi dell'associazione dei registi e un Emmy — disse Kay — e la sua carriera si è interrotta bruscamente lo stesso anno della morte di lei. — Di che genere di narrativa si occupa? — domandò Sam. — Baci con castelli sullo sfondo? — A volte — rispose Kay. — L'una cosa non ha niente a che vedere con l'altra — disse Yale. — A quell'epoca non ci vedevamo da due o tre anni. Le nostre strade si erano separate, in tutti i sensi. Io ero lontano, sulla costa, a girare film commerciali, lei era qui a interpretare soap-opera. Attraversarono la terrazza di fronte all'edificio in pietra accanto al cancello, passando davanti alla gente alle fontanelle, ai corridori che facevano stretching puntando le gambe contro lo schienale delle panchine, a un capannello di adolescenti in tuta da corsa rossa, a un uomo in rosso che applaudiva. — Se vuol sapere la verità — disse Sam — non era una grande attrice. — Me ne sono accorta — rispose lei. — E neanche una gran brava persona — aggiunse lui. — Era vanitosa e avida. Terribilmente egocentrica. Sprezzante. Sconsiderata. Meschina. Io ero pazzo di lei. — Perché? — chiese lei.
— Ho detto "pazzo" — precisò Sam. — Chi può spiegarlo? — Guardò la pista davanti a sé, sospirò. — Chi può dire perché? — riprese. — Fu una mattina magica. All'altro capo di uno studio televisivo affollato... I ragazzi in tuta rossa li superarono, uno o due alla volta, seguendo la curva del laghetto artificiale verso est. — Si è ritirato del tutto? — domandò Kay. Lui rispose: — Do qualche lezione. Recitazione, regia... — Da quanto tempo abita nel palazzo? — Da quando lo hanno costruito — rispose. — Tre anni. Li superarono alcuni patiti del jogging. Un adolescente in tuta rossa. — Vivo a carico dell'assistenza pubblica — disse Yale. Nel caso si stia chiedendo che cosa ci faccio in questa nicchia dorata. No, non faccia l'idiota — ribatté lei — oggigiorno chiunque vive dove gli pare. È uno dei lati migliori della vita in città. — La Fondazione per l'arricchimento culturale di Carnegie Hill — disse lui. — Devo spiegarle qual è il loro scopo nella vita. Uno dei modi in cui pensano di raggiungerlo è disseminare nel quartiere artistoidi alcolizzati. Io ho l'appartamento gratis più uno stipendio mensile. E per me è la sistemazione ideale. — Le sorrise. — Lo Smithers è dietro l'angolo, sulla Novantatreesima. Il Centro di disintossicazione Smithers. Ci sono stato per un po', mentre il palazzo era in costruzione. — Si lasciò superare da lei mentre passavano un paio di atleti, un uomo e un ragazzo, con delle felpe su cui era scritto a grosse lettere CIECO e GUIDA. Raggiunsero la spianata all'altezza della Novantesima Strada, scesero l'ampia gradinata di ghiaia. Una troupe televisiva era ferma sulla pista per i cavalli e puntava una telecamera portatile sui passanti che alzavano lo sguardo verso gli alberi fiammeggianti di colori autunnali. — Oh, magnifico — disse lei — finiremo sul notiziario delle sei. Domani sarò lo zimbello dell'ufficio. — Sono tanto male in arnese? — Lei sa che cosa intendo. — Non si lasci prendere dal panico — ribatté Sam. — C'è sempre una soluzione. Mentre passavano davanti alla telecamera con un logo a forma di occhio, lui tenne sollevato il dito medio. Attraversarono il viale del parco e la Quinta Avenue. Percorsero la Novantesima Strada superando il giardino recintato dietro il museo Cooper-
Hewitt. Lui osservò: — Quella è la casa in cui si ritirò Andrew Carnegie. — Non lo sapevo — rispose lei, guardando il palazzo di pietra e mattoni in stile palladiano. — Ecco perché si chiama Carnegie Hill — spiegò Sam. — Questo era terreno agricolo, quando lui lo acquistò. La sua acciaieria alla fine divenne la U.S. Steel; ho diretto tante Steel Hours che mi sembra di essere su un territorio familiare. Questa è la casa in cui è vissuto Robert Chambers. — Il nome non mi è nuovo... — Il ragazzo di buona famiglia che ha strangolato la ragazza nel parco. — Oh. — Siamo una compagnia molto eterogenea, quassù. Svoltarono all'angolo, risalendo la Madison. — La televisione doveva essere molto diversa, nei primi tempi — osservò lei. — E come — convenne Sam. — Tutto andava in onda dal vivo, senza registrazione, senza ripetizioni. Ogni spettacolo era una prima... battute saltate, "gobbi" con il testo che sparivano... ma vivo, elettrizzante, con gli attori che andavano allo sbaraglio. La scenografia era in varie sfumature di grigio, il colore non contava. Lei propose: — Perché non scrive le sue memorie? Oppure le detta a un registratore. Potrebbe essere interessante. — Le mie "memorie"? — ripeté lui, sorridendo. — Sì — confermò lei. — Ci pensi. Conosce Hubert Sheer? Abita nel nostro palazzo, al 9 A. Sam scosse la testa. — È uno scrittore — spiegò lei — e in gamba, per giunta. Sta preparando un libro sulla televisione del quale probabilmente gli farebbe piacere parlare con lei. Dovrò presentarglielo. Ma pensi a fare qualcosa per conto suo. Sul serio, si venderebbe. Se vuole affrontare argomenti personali seri, benissimo. Oppure, se preferisce, potrebbe mantenerlo su un tono leggero e divertente, cosa che sono certa le riuscirebbe. Qualunque cosa la faccia sentire a suo agio. Lui sorrise. — Ci penserò — disse. Accennò al Jackson Hole, mentre ci passavano davanti. — Vuole un caffè? — Possiamo rimandare a un'altra volta? — chiese lei. — Devo passare in banca e rimettermi al lavoro. Attraversarono la Novantunesima Strada. Lei si tolse gli occhiali da sole. — È stato un piacere incontrarla — disse, tendendogli la mano.
— Anche per me — rispose lui, stringendola e sorridendole. — Ci pensi — disse Kay. — Non parlo soltanto per cortesia. — Okay, ci penserò — disse Sam. Volse le spalle e si allontanò. Tornò indietro. — Ehi — disse — a proposito dell'accento, scherzavo. L'altro giorno ho visto l'indirizzo del mittente su uno dei suoi pacchetti in portineria. Famiglia Norris, Wichita. Sorridendo, lei disse: — Grazie per avermelo detto. — Non vorrei che pensasse di avere sprecato il suo tempo per niente — le disse. — Niente accento, neanche un'ombra. — Le sorrise, si volse e se ne andò. Lei si mise gli occhiali, aspettando che scattasse il verde. E cominciò a saltellare sulle punte dei piedi, sorridendo al cielo turchese. Alla conferenza vendite del mercoledì mattina presentò tre libri; i venditori ne accettarono due e bocciarono il terzo con minore energia di quanto lei e il resto della redazione si fossero aspettati. Passò l'intervallo del pranzo da Bergdorf's e si comprò un abito di seta color prugna e un pigiama da casa beige. Quella sera ebbe lunghe conversazioni con Bob e Meg Hunter, che chiamavano dal JFK fra un aereo e l'altro per Londra; per oltre un'ora fecero rivivere Syracuse. Si depilò le gambe col rasoio mentre Claire Bloom leggeva l'ultima parte di Gita al faro e Felice, sul tappetino del bagno, si leccava scrupolosamente. Lavorò per quasi tutto il giovedì con una donna di Newark la cui opera prima, uno spiritoso romanzo di fantascienza, aveva duecento pagine di troppo. Andò al party offerto dalla Warner per la biografia di Caterina di Russia, al piano superiore della Tea Room: c'erano proprio tutti, impegnati ad abbuffarsi di champagne, blyni e caviale. Aprendo lo sportello del taxi, si trovò di fronte una luce abbagliante e una donna dall'aria premurosa con un microfono. — Lei abita qui? — Un uomo: — Conosceva Hubert Sheer? — La donna: — Lo sa che questo edificio viene chiamato il "grattacielo dell'orrore"? — Walt fendette la calca e la scortò verso il portone. — Mi ha preso a calci! Avete visto che mi prendeva a calci? Ehi, tu! Portiere! Sei nei guai, stronzo! Lui guardò fuori dal portone a vetri mentre lo chiudeva. — La feccia della terra — disse con la sua ricca voce baritonale. — È stato come all'ora del pasto allo zoo. È fortunata a essere arrivata tardi. Lei disse: — Hubert Sheer?
Walt si girò verso di lei, la guardò attraverso le lenti e annuì. Distolse lo sguardo e indietreggiò, aprendo il portone. Qualcuno uscì. Lui richiuse il portone. — Che cosa è successo? — domandò Kay. Walt prese fiato e si tolse gli occhiali. La guardò con gli occhi castani acquosi, la faccia pallida segnata dalla tensione. — È caduto nella doccia — spiegò. — Aveva un piede ingessato, e un sacchetto di plastica legato intorno al gesso per tenerlo asciutto... è scivolato e ha battuto la testa. — È morto? — chiese Kay. Lui annuì, aprì il portone. Entrò un uomo che stava dicendo: — Cristo... — Walt chiuse il battente e la osservò. Domandò: — Lo conosceva, signorina Norris? Kay assentì. — Vuole sedersi? Lei non sapeva decidersi. Lui la guidò verso una panca vicino al blocco dei monitor, le prese la borsa mentre lei si sedeva. Si mise gli occhiali, tenne la borsa con tutt'e due le mani. Si chinò verso di lei. — Qualcuno dell'ufficio del suo agente è venuto a controllare — disse. — Non rispondeva alle telefonate e aveva saltato un appuntamento. — Quando è successo? — chiese lei, alzando la testa. Lui inspirò a fondo e distolse lo sguardo. Scosse la testa, sospirando. — Non sono ancora sicuri. — La guardò. Batté le palpebre dietro le lenti con la montatura d'acciaio. — Era steso sul pavimento, sotto la doccia — spiegò. — Bollente. Quindi forse non riusciranno a stabilirlo con esattezza. L'ultima volta che qualcuno lo ha sentito è stato lunedì sera sul tardi. — Oh, Signore — gemette lei. 4 Telefonò Edgar, naturalmente. — Santo cielo, che jella nera! — Davvero, non riesco a crederci — rispose lui, cambiando canale sul televisore ai piedi del letto. — Gli avevo parlato qualche volta in ascensore. Sembrava un tipo simpatico. — Posò sul comodino il telecomando, prese la grossa tazza con sopra "I-cuore-New York"; tenendo bloccato il microfono con la spalla, si sistemò meglio i cuscini dietro la schiena. — E naturalmente doveva capitare in una giornata senza notizie. — Si sgonfierà — disse lui, cambiando posizione. — Proprio cóm'è suc-
cesso con Rafael. — Bevve un sorso di caffè. — Ti prego di notare che questa è la quinta volta, non la quarta, e che si tratta di uno scrittore abbastanza noto, non di un tuttofare. L'edificio diventerà inevitabilmente... meno appetibile. Detesto dire te lo avevo detto, ma ricordi che ti avevo sconsigliato di dare gli appartamenti in affitto? Se lo avessi trasformato in un condominio potresti infischiartene. Fino a un certo punto. — Lo so — rispose lui, guardando senza l'audio uno spot su un detersivo. — Mi spiace di non averti dato ascolto. — Bevve un altro sorso di caffè. — Immagino che avrai visto i giornali. — No — rispose. — Sono ancora a letto; ieri sera ho fatto tardi. — Posò la tazza, prese in mano il telecomando. — La prima pagina del Post titola IL GRATTACIELO DELL'ORRORE a caratteri cubitali, vicino a una foto dell'edificio scattata dal basso. Il News ha optato per ORRORE NEL GRATTACIELO con la stessa impaginazione. Il Times, reggiti forte, lo mette in terza pagina: "Uno scrittore è il quinto a morire nel palazzo dell'Upper East Side". Dicono che Connahay lavorava per Merrill Lynch; immagino che domani lo correggeranno. — Si sgonfierà — disse lui, facendo sfilare a colpi di telecomando poppanti, fiocchi di sapone, gorilla nella foresta. — Stavolta ci vorrà qualche giorno in più, tutto qui. — I telefoni continuano a squillare. "Chi è il proprietario della società? Come si sente?" — Di merda, che cosa credono? — Io suggerisco energicamente, e qui sono tutti d'accordo, di convocare subito un esperto di pubbliche relazioni. — A far cosa? — chiese lui, continuando a far scattare il telecomando. — A tenere una conferenza stampa? Non farà altro che rinfocolare l'interesse per la storia. — No, no, no. A smorzarlo. Uno specialista che... incoraggi i media a rivolgere al più presto la loro attenzione altrove. Lui si mise a sedere. — Conosci qualcuno che potrebbe farlo? — domandò. — Mi sono state indicate due persone. Sono care e non necessariamente deducibili dalle tasse, anche se penso che potremmo presentare al fisco un argomento persuasivo. — Al diavolo il fisco — ribatté lui — prendi accordi subito. È un'idea
fantastica, Edgar. Cristo, in che mondo viviamo. — Sono contento che tu sia d'accordo. — Ci puoi scommettere — disse lui. — Datti da fare. — Attaccò, restò seduto un momento, sorrise. Spense la TV. Scostò la coperta, si alzò. Andò alla finestra e aprì completamente il pannello di destra. Inspirò attraverso le narici tutta l'aria che i suoi polmoni riuscivano a contenere, sollevandosi in punta di piedi... Espirò, picchiando il torace nudo con i pugni. Telefonò Alex, naturalmente. — Mi è dispiaciuto tanto. Lo conoscevi? — No — rispose lei. — Ce n'è per tutti i gusti: un suicidio, un'overdose di coca... — Alex, sto lavorando. — Oh. Scusami. Volevo solo salutarti e sentire come stai. — A meraviglia — ribatté lei. — Trecce di aglio alle finestre, crocefissi a portata di mano. — Che cosa vuoi dire? — Non badarci — rispose lei. Telefonò Roxie. — Che peccato. — La consolò. — È probabile che gli piacessero tutte le cose sbagliate. Il campanello suonò; era Vida Travisano, profumata e truccata alla perfezione, che teneva sollevata con le unghie laccate di rosa la parte superiore di una guaina di raso ricamato color avorio. Se la stava abbottonando sulla schiena quando le unghie avevano cominciato a spezzarsi. Kay la fece entrare nella cucina illuminata al neon e chinandosi, aguzzando gli occhi, riuscì a infilare i bottoncini di perle negli occhielli di seta. Vida rimase in piedi, intenta a sistemarsi le unghie. Felice, dopo aver annusato i piedi scalzi di Vida ed essere stata accarezzata con il dorso della mano, si accovacciò davanti a un banchetto a base di pesce. — Che bel ricamo... India? — Cina. Merda. Ha per caso del mastice per le unghie? — No, mi dispiace. — Infilò un bottone nell'occhiello. — Dove va? — domandò. — Una cena al Plaza — rispose Vida. — Un sacco di discorsi... Interverrà il governatore. Non è terribile, la storia di Sheer? Io gli avevo parlato! Qualche mese fa, in ascensore. Aveva una grossa pianta comprata alla fiera della Terza Avenue... — Tirò un gran sospiro. — Pensare che è rimasto lì disteso tutto quel tempo a bollire. È così che ha detto quel tizio di
Canale 5, bollito. — La testa dalla chioma bionda si voltò. — Spero che non fosse un suo amico o qualcosa del genere... Kay sorrise, infilando un bottone. — No — rispose. — Poveretto... Felice uscì nell'ingresso, si accovacciò, cominciò a leccarsi. — Conoscevo anche Naomi Singer — disse Vida, mordicchiandosi un'unghia. Kay infilò un bottone nell'occhiello, aguzzando gli occhi. — Seguivamo un corso alla Y — riprese Vida. — Antistupro. Siamo tornate a piedi insieme un paio di volte. Lei ci è mai stata? Sulla Lex? — Per qualche concerto — rispose Kay. — Tengono corsi di ogni genere. Sono ebrei, ma accettano tutti. Kay osservò: — Doveva essere una donna infelice... — Non si comportava come se lo fosse — replicò Vida — ma immagino che vada sempre così. A vederla sembrava effervescente. Aveva il suo stesso tipo fisico, capelli scuri, viso ovale. Non altrettanto graziosa. Più bassa. Di Boooston. Lei di dov'è? — Wichita. — Io sono cittadina del mondo — ribatté Vida. — Mio padre è un maggiore dell'aeronautica. Infilando un bottone, Kay disse: — Il Times non diceva che cosa c'era scritto nel biglietto... — Il Post ne riportava una parte — spiegò Vida. — Era depressa, per tutto. L'ambiente, il razzismo, le armi nucleari, sa. E poi c'era un tizio a Boston con cui aveva rotto, c'entrava anche lui. — Sospirò. — Certo che Dmitri se l'è fatta sotto dalla paura. — Che cosa vuol dire? — Per poco non lo ha colpito — spiegò Vida. — Lui stava lucidando le... sa, le bacchette che tengono su la tenda della pensilina all'ingresso. Allora Dmitri era il portiere e Rafael il tuttofare. Lei è piombata a terra proprio vicino a lui. Lo ha tutto imbrattato di sangue. I proprietari lo hanno mandato una settimana a Disneyland, insieme con la moglie e il bambino. — Niente male — commentò Kay, allacciando un bottone. — Oh, qui non sono spilorci — disse Vida. — E lo credo bene, con tante persone che tirano le cuoia. Chi vorrà rinnovare il contratto? — Scosse la testa, sospirò. — "Il grattacielo dell'orrore". Accidenti! Mi sembra di recitare in un film di Jamie Lee Curtis. Kay infilò l'ultimo bottone nell'occhiello, sorridendo. — Okay, Jamie
Lee — disse, facendo un passo indietro — vada a salutare il governatore. Ha un aspetto strepitoso. Sul banco dello stanzino della posta c'era un pacchetto avvolto in carta a disegni cachemire con il nome e l'indirizzo scritti in bella calligrafia, spedito da un negozio chiamato Victoriana, sull'Ottantanovesima Strada Est. Grande all'incirca come una scatola da scarpe, piuttosto pesante, con l'etichetta liberty stampata in caratteri eleganti. Kay si chiese chi e che cosa, mentre saliva in ascensore con l'uomo col pizzo del dodicesimo piano e una coppia giapponese di mezza età che uscì al sedicesimo. "Chi" erano Norman e June, e la calligrafia grossa e rotonda di Norman sulla pesante carta color crema con il logo della Diamond diceva: "Cieli sereni, stelle luminose, buona fortuna. Ti vogliamo bene. Norman e June." Il "che cosa", avvolto in un rotolo di plastica a bolle e carta velina azzurro cupo, era un magnifico cannocchiale di ottone, con due sezioni che si allungavano fino a quarantacinque o cinquanta centimetri, che portava incisa vicino all'oculare la Campana della Libertà con il nome Sinclair e l'anno 1893. Sentendosi un po' come il capitano Achab, osservò un rimorchiatore che spingeva una chiatta a monte del fiume, mentre uno yacht tutto bianco scendeva a valle. Auto in movimento sul ponte di Triboro. Si sentì strofinare il ginocchio: era Felice sul davanzale, che faceva le fusa. Andò con Roxie e Fletcher al mercato delle pulci sulla Ventiseiesima Strada, dove comprò una coppia di candelabri di peltro; a una ripresa di Annie Hall e al Manhattan, un ristorante cinese. Lesse un buon manoscritto. Si fece tagliare i capelli e fare lo shampoo. Portò Florence Leary Winthrop a pranzo al Seasons. C'era un altro uomo seduto al posto che era stato occupato da Sheer. Partecipò a una riunione di produzione. Quella settimana la sua giornata a casa, mercoledì, fu uno schifo, con un'acquerugiola che cadeva mesta sul parco marrone e sul laghetto color grigio canna di fucile, sul tetto di ardesia a pinnacoli del Jewish Museum, sui giardinetti marroni fra i tetti neri delle case di arenaria scura a metà isolato. Una giornata ideale per starsene in casa, però, anche se significava arrancare faticosamente lungo le pagine del dattiloscritto di Florence, costellate di frecce e di aggrovigliate correzioni a mano. Una giornata ideale anche per fare il bucato, si rese conto, mentre Susannah ripuliva dalle macchie di sangue la giacca da equitazione di Derek;
non ci sarebbe stata la fila. L'orologio segnava le 3:25 del pomeriggio. Lasciò Susannah intenta a sfregare le macchie e ad angustiarsi, tirò fuori dall'armadio della biancheria la cesta del bucato piena - Felice uscì nell'ingresso a vedere che cosa succedeva - prese asciugamani e tovaglioli dal bagno e dalla cucina, il Tide da sotto il lavello, le monete dal boccale di Topolino. Quando entrò nella lavanderia piastrellata di bianco con la cesta che traboccava sormontata dalla scatola del detersivo. Pete come-si-chiamava con i capelli castano rossicci voltò le spalle a uno degli essiccatoi di fronte alla porta e rimase a guardarla, mentre qualcosa di giallo scivolava dalla sua mano nella cesta della biancheria. — Salve — disse lei, dirigendosi verso la parete laterale e scaricando la cesta sull'ultima macchina in fondo. All'altro capo della fila, le spie rosse lampeggiavano su una lavatrice che ronzava, con un cesto vuoto sopra. — Salve — rispose lui, con la voce che suonava acuta nello stanzone. — Come sta? — Bene — disse Kay, rimpiangendo di non essersi messa un po' su, anche se lui aveva ventisette anni al massimo. — E lei? — Bene — rispose Pete Henderson. — Si è già ambientata? — Più o meno. — Gli sorrise mentre lui le scoccava quel suo sorriso alla dinamite, vestito con una T-shirt verde e i jeans, poi si voltò per aprire lo sportello superiore di due lavatrici. Estraendo le vaschette, osservò: — Questa attrezzatura non le sembra super? Qui è tutto di prim'ordine. — In origine doveva essere un condominio — spiegò lui, girandosi verso l'essiccatoio. — Buon per me che non lo sia diventato — disse Kay. — Anche per me. Lei mise da parte la scatola e cominciò a svuotare la cesta, mettendo i capi colorati in una lavatrice, quelli bianchi nell'altra. — Mi domando come mai hanno cambiato idea — disse. — Immagino che sia cambiata la domanda. — Comunque — disse Kay — una volta fatto l'investimento... Chi è il proprietario, lo conosce? — Tutto quello che so è che l'agenzia dove mando gli assegni si chiama MacEvoy-Cortez. — Emise un sospiro che echeggiò fra le piastrelle. — Certo che lei ha avuto un benvenuto coi fiocchi... Lei ribatté: — Può dirlo forte. — Non sono incredibili, quei giornalisti? Immagino che all'inizio siano
tipi a posto, ma, accidenti, certo che si trasformano in... piranha. Come nei film di James Bond. Divorano tutto. — Stava per scrivere un libro sulla televisione — osservò lei, mettendo un paio di jeans insieme ai capi colorati — sui vari modi in cui ha condizionato la nostra vita. Mi domando se avrebbe incluso anche questo, la trasformazione dei giornalisti in piranha. — Lo conosceva? — chiese lui, girandosi. Lei cercò di liberare un fazzoletto rimasto impigliato nel bottone di una camicetta. — Di sfuggita — rispose. — Ci avevano presentati. — Si direbbe un buon soggetto — osservò lui. — Da bambino la guardavo in continuazione; ora mi limito a noleggiare qualche film ogni tanto. Avrebbe incluso il modo in cui i videoregistratori hanno cambiato tutto? — Penso di sì — rispose lei. — Non è entrato in dettagli. Abbiamo parlato solo un minuto o due. — Deve aver peggiorato le cose per lei, però — disse lui — averlo conosciuto. — Oh, certo — rispose Kay. — Decisamente. — Mise la camicetta in una lavatrice, il fazzoletto nell'altra. — Io gli avrò parlato una o due volte, del tempo. Sa, in ascensore. E ho letto il suo libro sui computer. — Anch'io — disse lei, voltandosi. — Che cosa gliene sembra? Lui rimase in silenzio, corrugando la fronte. — Era un buon libro — rispose. — Mi è sembrato ben scritto ma... mi ha infastidito. — La guardò. — Io mi occupo di computer — spiegò. — Non c'è motivo di diventare paranoici nei loro confronti; sono macchine, tutto qui, macchine che elaborano dati in fretta. — Lui non era paranoico — obiettò Kay. — Esistono dei rischi reali nell'uso dei computer. Lui ribatté: — Sheer li esagerava, moltiplicandoli almeno per dieci. Kay si voltò. Una dopo l'altra, trasferì le lenzuola a fiori gialli dalla cesta alla lavatrice del bianco. — Che lavoro fa, lei? — domandò. — Sono un programmatore free-lance — rispose il giovanotto. — Faccio consulenze per diverse società, per lo più finanziarie, e ho ideato dei giochi che sono stati prodotti. — Lo sportello dell'essiccatoio si chiuse. — E lei? — Io faccio l'editor — rispose. — Alla Diadem Press. — Le andrebbe una merendina? Oppure una barretta di cioccolato? — Si stava dirigendo verso i distributori automatici dalla parte opposta del loca-
le, guardandola di sopra la spalla. — No, grazie. — Gli sorrise, si girò. Divise gli ultimi asciugamani e strofinacci. Le monete caddero in una fessura. — Hanno anche l'erba gatta, lo sapeva? — No — rispose Kay — non lo sapevo. — Aprì il beccuccio del Tide. — Anche bocconcini per cani. Come mai niente semi per i pappagalli? — Il distributore emise un ronzio; si sentì cadere qualcosa. Mentre versava una scia di detersivo intorno ai capi colorati, Kay s'interruppe a metà, raddrizzò la scatola e si voltò. Lo vide attraversare la stanza dirigendosi verso di lei mentre apriva un sacchetto. Lui la guardò, sorrise. — L'ho vista comprare la sabbietta per gatti da Murphy's — spiegò. — Sabato mattina. — Oh — fece lei. — Ero in compagnia — aggiunse lui — per questo non l'ho salutata. Kay sorrise, si voltò. Riprese a versare il detersivo. Lui si appoggiò alla lavatrice che ronzava con le spie accese, a due macchine di distanza da lei. — Maschio o femmina? — domandò. — Femmina — rispose lei. — Una persiana calicò. Lui aprì a metà il sacchetto di patatine. — Di dov'è, lei? — chiese Kay, spargendo il detersivo sui capi bianchi. — Pittsburgh — rispose. — Sono qui da cinque anni, ormai. A New York, voglio dire. In questo palazzo da tre. — Si protese per offrirle le patatine dal sacchetto aperto, con gli occhi di un azzurro intenso fissi su di lei. — No, grazie — rispose Kay, sorridendo e chiudendo il beccuccio della scatola. Si voltò, la mise nella cesta. — Io sono di Wichita — disse. — Sono qui da... oddio, diciotto anni. — Lo avevo capito che veniva da un posto nel Midwest — osservò lui. — Dal modo in cui parla. È simpatico. Lei lo guardò pescare una patatina dal sacchetto. — Grazie — disse. Mise le vaschette nelle lavatrici. Chiuse gli sportelli. — Tiri fuori la maschera a gas — mormorò lui, guardando dietro di lei. Girandosi, Kay sentì odore di Arpège. La donna massiccia con la frangetta nera dell'appartamento 8 si fermò sulla soglia, sotto la telecamera, in occhiali scuri, collana d'ambra, vestito nero con le maniche lunghe. Dietro di lei, un uomo spingeva una bicicletta dentro uno degli ascensori.
La salutarono con un cenno dicendo: — Salve. Lei annuì, sorrise; si diresse verso i distributori automatici, con gli alti tacchi neri che ticchettavano sul vinile. L'Arpège sfidò l'odore di Tide e di ammoniaca. Pete annusò l'aria, le sorrise. Kay sorrise, mentre inseriva monetine da un quarto di dollaro nella fessura degli spiccioli. Lui si raddrizzò staccandosi dalla lavatrice - le spie si erano spente - e si avvicinò agli essiccatoi. Le monete caddero nelle fessure all'altro capo del locale; le macchine emisero un ronzio, si sentì cadere qualcosa. Kay fece scendere le monete, studiando i pulsanti luminosi della selezione. Una donna entrò annusando l'aria e corrugando la fronte, e si diresse verso la lavatrice alla quale era appoggiato Pete; una donna grassoccia con i capelli neri in camicetta rossa, gonna viola, pantofole marroni. Tolse la cesta dalla lavatrice, aprì lo sportello superiore. — L'ha programmata alla perfezione. Si è appena spenta. La donna si girò verso di lei. — Eh? — Si è appena spenta — ripeté Kay, scandendo le sillabe. — Adesso.— Fece un gesto di taglio con la mano. — Spenta. — Indicò la lavatrice. — Ah, si — disse la donna, sorridendo. Estrasse la biancheria bagnata per trasferirla nella cesta. — Si, veintecinco minutos — aggiunse. — Exactamente. Veintecinco minutos. — Venticinque — tradusse lei. — Si. — Grazie. Kay premette i pulsanti; le lavatrici si animarono di colpo. Prese la scatola dalla cesta. — Aspetti — disse Pete, affiancandola con il suo cesto di panni puliti, lanciando un'occhiata all'atrio. Lei finse di guardarsi attorno finché Arpège, trionfando su Tide e ammoniaca, entrò in ascensore e la porta si chiuse dietro di lei. — Deve avere un oleodotto che la collega direttamente alla fabbrica — commentò Pete mentre entravano nel corridoio dall'intonaco marrone. — È Arpège — disse lei. — Ma quel che è troppo è troppo. — Sfiorò il pulsante in mezzo alle due porte. Gli indicatori in alto mostrarono il 2 che diventava una L, il 4 che diventava un 5. La porta delle scale alla destra degli ascensori si aprì e uscì nel corridoio Terry, con un impermeabile di ciré nero bagnato. Sorridendo verso di loro,
entrò nella lavanderia. Un uomo uscì dal ripostiglio delle biciclette coperto da un poncho giallo umido e con un casco di poliuretano in mano. Chiuse la porta di rete metallica, li salutò con un cenno del capo. Ricambiarono. L'uomo si passò una mano sui riccioli biondi e umidi, la scrollò sul pavimento. — Viene ancora giù? — chiese Pete. — Peggio di prima — rispose l'uomo, piuttosto corpulento, sui trentacinque anni. La porta dell'ascensore di sinistra si aprì. — Vuole approfittare? — chiese Pete, entrando dopo di lei con la cesta del bucato. — Tredicesimo. — Lei sfiorò il 20 e il 13, l'uomo con il poncho toccò il 16. La porta si aprì sull'atrio ed entrò una donna anziana con la faccia rotonda che indossava berretto e impermeabile della marina; salutò con un cenno, si voltò, sfiorò il numero 10. Salirono in silenzio. — È stato un piacere rivederla — disse Pete, sorridendo a Kay, quando la porta si aprì al tredicesimo piano. — Anche per me — gli rispose lei, ricambiando il sorriso. L'uomo in poncho uscì al sedicesimo. Lei rimase ferma, stringendo la scatola di Tide. Lanciò un'occhiata in alto, verso la telecamera nell'angolo. Tirò fuori le chiavi mentre il 19 diventava 20. Quel venerdì sera invitò alcuni amici a cena, gente della Diadem, più Roxie e Fletcher. Le fecero i complimenti per l'appartamento, per Felice e per il falcone di Roxie; guardarono a turno dal cannocchiale, bevvero vodka, soda e vino bianco; parlarono delle voci di assorbimento, della crisi in Medio Oriente, del catalogo di primavera. — Che bel lampadario — osservò June mentre mangiavano. — È tuo? — Tutti alzarono gli occhi verso la plafoniera, i dieci o dodici invitati e anche lei, seduti qua e là nel salotto con i piatti di pollo e d'insalata e i bicchieri di vino. — L'ho trovato già qui — spiegò Kay, seduta su un cuscino vicino al tavolino da caffè. — Qui è tutto di prim'ordine. Era stato progettato come un condominio, ma c'è un proprietario misterioso che ha preferito optare per inquilini in affitto. Si nasconde dietro uno studio legale del centro. Pare che sia un rompiscatole, ma nel mio registro personale è in te-
sta alla lista delle preferenze, insieme a Babbo Natale. — Questo pollo è fantastico — osservò Norman. — È di Petak's — rispose lei. Gary disse: — Qualcuno deve pur sapere chi è. Lei bevve un sorso di vino. — Non l'agenzia che amministra il palazzo — rispose. — Loro trattano con gli avvocati. — Be', non mi sorprende — disse Tamiko. — Guardiamo in faccia la realtà, questo posto non si è fatto una gran bella pubblicità. — Questa situazione risale a quando il proprietario attuale lo ha acquistato — ribatté Kay. — Da Barry Beck — disse June. — Non avrei mai pensato di poter venire qui. E tu, Norman? Ci siamo battuti per impedirne la costruzione. — Siamo membri attivi della Civitas — spiegò Norman. — È una organizzazione che tenta di salvaguardare la zona e di impedire che venga soffocata dal cemento. In questo isolato c'erano due belle case di arenaria scura. Abbiamo perso la battaglia ma abbiamo vinto la guerra... contro le "schegge", almeno. Sono state dichiarate illegali un mese dopo che erano state gettate le fondamenta di questa. — Certo che la costruzione è di prim'ordine — osservò Stuart. — Non si sente il minimo rumore dall'appartamento vicino, e c'era gente che stava entrando anche lì. Il palazzo dove abito in affitto è stato costruito da poco, e sento i miei vicini perfino quando premono i tasti del telefono. — Se questo era stato costruito con i criteri di un condominio — chiese Tamiko — come mai il proprietario lo ha trasformato in appartamenti da affittare? — È quello che mi sono chiesta anch'io — disse lei, facendo il giro per riempire di vino i bicchieri. — La cosa mi incuriosiva. Ne ho parlato con Jo Harding dell'amministrazione, che fa anche investimenti immobiliari, e lei mi ha detto che da anni il mercato degli affitti qui in centro va più a rilento del mercato delle vendite. Così ho chiamato la donna che mi ha mostrato l'appartamento e l'ho ammorbidita un po'. È stata lei a dirmi che il proprietario è un rompiscatole, e che è un uomo, visto che gli avvocati gli danno del figlio di puttana... Felice! Scendi da lì! Subito! Li tormenta per la manutenzione, respinge aspiranti inquilini senza una ragione logica... Fletcher? Ancora un po'?... Si comporta come se vivesse qui, ma perché mai dovrebbe abitare in un appartamento di tre locali? Il tutto deve valere come minimo cinquanta milioni di dollari. Wendy? — Potrebbe avere un pied-à-terre qui — obiettò Stuart — e abitare in al-
tri sei posti. — Immagino di sì — ammise Kay, versando il vino nel bicchiere di Wendy — ma comunque dev'essere un rompiscatole a tempo pieno. — Probabilmente Barry Beck sa chi è — disse June. — Oppure l'appaltatore, un uomo che si chiama Michelangelo — aggiunse Norman. — Beck glielo ha venduto che non era ancora finito. — Non sono poi tanto interessata ad andare fino in fondo — disse Kay, riempiendo il bicchiere di Gary. — Darò per scontato che sia un maniaco e gli lascerò la sua privacy; gli sono grata. Volete tutti un altro po' di pollo? Lui era rimasto con gli occhi sbarrati. Scosse la testa, a bocca aperta. Tentò di ridere. Bisognava mantenere il senso dell'umorismo, no? Che proprio lei fosse la prima da chissà quanto tempo a guardare in bocca a caval donato e a fare domande; che i suoi capi la indirizzassero all'istante verso Michelangelo... Doveva esserci qualcosa di divertente in tutto ciò. "Rompiscatole" e "figlio di puttana". Ah-ah-ah-ah. La guardò portare in salotto la mousse di fragola, posarla sul tavolino da caffè. Si domandò se un giorno o l'altro lo avrebbero preso. Certo che era possibile. Come mai non aveva mai considerato quella possibilità? Un sosia di Colombo alla porta: «Detesto infastidirla, ma non potrebbe dedicarmi un paio di minuti del suo tempo? Ho qui alcune domande a proposito delle morti avvenute in questo edificio...» "Rilassati. Sta' calmo. Non ha intenzione di andare a fondo. Non lo ha forse detto?" E Michelangelo era a Bimini, a pescare pesci volanti e a scoparsi la mogliettina giovane, e avrebbe fatto il finto tonto di fronte a qualsiasi domanda relativa all'edificio, anche se fosse stato il Papa in persona a fargliela. Quindi non diventiamo paranoici. Si alzò per andare a prendere un altro po' di ginger ale. Trovò del pollo lo mein. Si sedette a cenare, guardandoli bere caffè decaffeinato e mangiare la mousse di fragola, fra un coro di oh e ah. Un punto per lei. Guardò il piccolo party di Vida, e quello degli Stangerson. Chris che dava la notizia a Sally. Stefan che implorava Hank.
Kay che accompagnava alla porta il buon vecchio Norman e June. "Sta' calmo. Non ti agitare." Non aveva detto che gli avrebbe lasciato la sua privacy? — Sono tanto spiacente non venire prima del party — disse Dmitri. — Non fa niente — rispose lei, facendolo entrare in camera da letto. — Fila via, Felice. Da brava, fila. — Ieri diluvio nel locale caldaia — spiegò Dmitri, agitando all'altezza della spalla una bomboletta spray con la capsula verde. — Oh, santo cielo — disse lei, seguendolo. — Sistemato, ormai. Presto asciutto. Mmm! Che bella giornata! — Posò la bomboletta sul davanzale interno vicino all'estremità della scrivania e tirò con tutt'e due le mani il pannello interno di destra della finestra, aprendolo di dieci o dodici centimetri. Si spostò dall'altra parte e aprì il pannello esterno di sinistra allo stesso modo. — Nessun problema — disse. Con le braccia incrociate sul petto, sfregandole per scaldarsi nell'aria gelida, Kay osservava Dmitri, in camicia grigia e pantaloni marroni lucidi, mentre agitava la bomboletta spray e toglieva il cappuccio. Sistemare finestre che non scorrevano bene gli ricordava forse Naomi Singer che faceva quel tuffo da cigno e per poco non lo colpiva? Che stupida... Se proprio doveva buttarsi, perché non lo aveva fatto dalla camera da letto? Lui sembrava imperturbabile, mentre si chinava, dirigeva lentamente un getto di spray lungo la scanalatura interna, verso di lei. Kay si scostò arretrando e avvicinandosi alla parete dell'armadio a muro. Domandò: — Che cos'è? — Silicone — rispose lui, ripassandolo in senso inverso. Felice saltò sul davanzale e si sporse in fuori, inarcando il dorso, con la coda bianca che sventolava la punta nera, mentre Dmitri posava la bomboletta e afferrava saldamente il pannello. Facendo un passo avanti, lei accarezzò il dorso di Felice. — No... — le disse. La prese a due mani, la sollevò e la girò verso di sé, la tenne sospesa a mezz'aria, con le zampe anteriori allargate, il muso bianco e arancio vicino al suo viso. — No — le disse, fissando gli occhi verdi dalla pupilla verticale. — NO. Qui non ci si sporge dalle finestre. Tutte le sette vite, pffft. È un no-no chiaro e tondo. Capito? — Felice la guardò; lei guardò Dmitri. Sembrava imperturbabile come prima, mentre faceva scorrere il pannello verso di lei. Kay fece un passo indietro, mettendosi Felice sulla spalla; la baciò e la coccolò. Disse: — Ho sentito dire che il proprietario del palazzo
è un rompiscatole. — Felice faceva le fusa. Dmitri spruzzò l'altra metà della guida. — Meals conosco — rispose. — Il proprietario no. — Meals? — Il signor Meals, amministratore. Lei conosce signor Meals... — I suoi occhi scuri saettarono verso di lei. — Mi ha mandato una lettera — disse lei. — Gli piace il marmo nell'atrio? — Da! Sorpresa. Marmo buono. — Posò la bomboletta, tirò il pannello verso di sé, lo fece scivolare avanti e indietro. — Visto? Nessun problema. — Fece scorrere il pannello nel binario senza intoppi, da un lato all'altro e viceversa. — Magnifico — esclamò lei. Felice faceva le fusa a tutto andare. Accarezzandola, Kay osservò Dmitri mentre spruzzava lo spray sull'altra metà della scanalatura esterna. — Dmitri... — aggiunse — mi chiedevo se... il signor Meals... Mills le ha mai detto di dedicare delle attenzioni particolari a un inquilino, di ascoltare quello che dice, di fare quello che chiede? Lui annuì. — Da — rispose. — Lei... — Una donna? — esclamò Kay. — Lei... tu — confermò Dmitri. — Io? Lui annuì e posò la bomboletta. — Quando lei firma contratto. — Tirò verso di sé il pannello esterno. Lei ripeté: — Quando ho firmato il contratto'? Lui tirò il pannello esterno nella direzione opposta. La guardò. — Lei non conosce signor Meals? — domandò, con gli occhi scuri che brillavano sulle guance rosse come mele. — No — rispose lei. Lui scrollò le spalle. — Lui dice: «Bada che lei felice. Trattala con particolare attenzione.» — Riprese in mano la lattina, la agitò. Lei sollevò Felice dalla sua spalla, la posò sul tappeto, lo guardò. — È sicuro che abbia parlato di me? — gli chiese. — Signorina Norris — confermò lui, spruzzando lo spray sulla metà più vicina del binario esterno. — Entra al 20 B. Bada che lei felice. Trattala con particolare attenzione. — E non dice sempre qualcosa del genere quando... Scuotendo la testa, lui rispose: — Mai. Mai. Soltanto lei. Kay disse: — Non riesco a capire che cosa potrebbe...
Lui fece scorrere tutt'e due i pannelli insieme, da una parte all'altra e viceversa. Sistemò anche la finestra del soggiorno. Indietreggiò con le mani alzate di fronte alle banconote della mancia, tenendo stretta la bomboletta spray. — No, no. Per favore. Tattopiacere. No. Lei non insistette. Si dedicò di nuovo alle pulizie. Wendy telefonò per ringraziarla. Parlarono di come June avesse un aspetto molto migliore. Di quello che stava succedendo fra Tamiko e Gary. Chiamò Tamiko. Parlarono di Stuart e Wendy. June. Dopo le chiacchiere, Kay disse: — Dopo tutto, voglio scoprire chi è il proprietario di questo palazzo. Potresti procurarmi il numero di telefono del costruttore, o dell'appaltatore, o di tutti e due? — Sì, sono sicura che alla Civitas li avranno. — Lunedì voglio telefonare all'amministratore — disse Kay. — Ma sta nello stesso ufficio della donna con cui ho già parlato; probabilmente non ne sa più di lei. E non ce li vedo proprio, gli avvocati che diventano più malleabili. Ti farò sapere lunedì. Non darti da fare finché non ti richiamo. — Che cosa ti ha fatto cambiare idea? Lei glielo spiegò. — Delizioso! Sembra uscito pari pari da Il padrone di casa di Lydia. — Il padrone di casa di Olivia — corresse lei. — Il medico di Lydia. — Comunque sia. Domani pomeriggio vuoi venire a giocare a scarabeo? Sembra che debba piovere. Ci sarà anche Paul. Lasciarono l'invito in sospeso. "Tante grazie, Dmitri. "No, ringrazia innanzi tutto te stesso, per aver detto a Edgar di dedicarle delle attenzioni speciali. Come se altrimenti qualcuno potesse insultarla o spingerla giù per una rampa di scale." Non c'erano dubbi su quello che doveva fare adesso, che lo volesse o meno. E prima di lunedì mattina. Dato che Edgar faceva ostruzionismo e Barry Beck non sapeva davvero niente, lei si sarebbe attaccata subito al telefono con Dominic Michelangelo. Forse lui avrebbe fatto il finto tonto, ma poteva darsi che lei gli ispirasse qualcuno dei suoi atteggiamenti da macho. «È mai comparsa alla TV? Dalla voce sembra piuttosto graziosa.» Soprattutto se lei lo sorprendeva con un bicchiere in mano, il che era altamente probabile, di quei tempi. «È certa di non essere mai comparsa alla TV?»
E lei si sarebbe domandata come mai Michelangelo si era ritirato a vivere a Bimini, appena superata la quarantina... Prima del giorno seguente doveva farlo. Perché il giorno dopo lei poteva star fuori tutto il pomeriggio a giocare a scarabeo e magari restare fuori anche a cena. Una parte di lui voleva farlo, lo sapeva. Sapeva anche quale parte. Non si spia per tre anni uno strizzacervelli del calibro del dottor Palme senza avere qualche intuizione sulla propria psicologia. Ma in realtà lei non gli aveva lasciato scelta. Nel momento in cui si fosse accorta delle telecamere lo avrebbe spifferato a destra e a manca; non c'era modo di deviare una freccia che puntava dritta al bersaglio come Kay. Per lui sarebbe stata finita. Accusato anche dell'infarto di Brendan... non che un'accusa in più o in meno facesse differenza. Era prudenza, non paranoia. Mantenne la calma. Mentre lei finiva le pulizie e usciva a fare spese, studiò diversi approcci. Il celebre padre di Daisy, arrivato da Washington, stava offrendo a Glenn e a Daisy uno scoop confidenziale sulla crisi in Medio Oriente. Lui non riuscì a concentrarsi, non si prese neppure la briga di registrarlo. Decise il modo migliore di affrontare la questione, progettò i dettagli. Tentò di mantenere la calma. Uscì anche lui a fare un po' di spese, risalendo in fretta la Madison, sperando di non incontrarla per caso. Non la incontrò. Si preparò per aspettare il suo rientro. Lei era alla scrivania, stava lavorando sullo stesso manoscritto al quale aveva lavorato tutta la settimana. La guardò. Attese. Le telefonò alle cinque e otto minuti - all'orologio di entrambi - mentre lei completava la pagina finale di un capitolo e Felice sonnecchiava al centro del letto. Le vedeva sullo schermo uno, niente sul due. Quando le disse chi era, lei era rivolta verso il telefono all'estremità della scrivania vicina alla finestra; non poté vedere il suo viso, non le lasciò il tempo di parlare. — Mi spiace disturbarla — disse — ma c'è una cosa di cui vorrei parlarle. È un po' troppo delicata per accennarne al telefono. Riguarda questo palazzo. Potrei vederla per un paio di minuti, per favore? — Adesso? — domandò lei, facendo ruotare la poltroncina, infilando gli occhiali fra i capelli, guardando in direzione di Felice che, in piedi sul letto, inarcava il dorso.
— Se lei può... — le disse. Lei rispose: — Sì, posso... — Posso salire? — domandò. Kay avvicinò la sedia al letto mentre Felice si dirigeva verso di lei, una zampa alla volta. — Fra dieci minuti — rispose. Felice le volò in grembo. — Ouf— esclamò, girando la poltroncina in senso opposto. — Mi è appena piombato addosso un gatto. Sorridendo, lui disse: — È una giungla, laggiù. Lassù, voglio dire. Grazie. — A fra poco — rispose lei. Attaccarono. Lui inspirò a fondo. Espirò di colpo, guardandola mentre ruotava sulla poltroncina, posava gli occhiali sulla scrivania, accarezzava la schiena di Felice. — Hmmm... — mormorò. — Interessante... — Lo hai detto — mormorò lui. Kay spense la lampada, abbassò il coperchio lucido della scrivania. Si alzò in piedi, scaricando Felice sul tappeto. Si diresse verso l'armadio, slacciandosi la camicetta. Si cambiava per lui. Carino... Abbassò lo sguardo sui jeans macchiati. Era meglio che si cambiasse anche lui. 5 Kay indossò i jeans neri con un golf beige a collo alto, scarpe basse nere. Si spazzolò i capelli e mise rossetto e fard, per ogni evenienza, chiedendosi che cosa ci fosse nel palazzo di tanto delicato da non poterne parlare al telefono. Qualcosa che aveva a che fare con i morti? Sperava di no, non voleva che le ricordasse... Canticchiando a bocca chiusa Strike Up the Band, spense la luce del bagno, attraversò l'ingresso accendendo la luce ed entrò in soggiorno; accese le lampade ai due capi del tavolo. L'odore dello spray di Dmitri aleggiava nell'aria. Andò alla finestra e aprì il pannello di destra; lo trattenne mentre scorreva troppo in là - ottimo lavoro; Dmitri - lo tirò indietro lasciandolo aperto di pochi centimetri. Il cielo era scuro; il traffico, meno intenso che durante la settimana, scorreva fra una pausa e l'altra nel riverbero rosato dei semafori. Con l'orecchio teso alla porta dell'ascensore, tornò in camera da letto per aprire il pannello di sinistra della finestra. Un soffio d'aria fresca che sapeva di terra la investì mentre tornava indietro attraverso l'ingresso. Felice la
occhieggiò dalla cucina, ritta sulle zampe posteriori per grattare il tiragraffi. — Brava, che brava gatta — le disse Kay, avvicinandosi. Prese dall'armadietto la scatola dei croccantini, ne tirò fuori uno, glielo lanciò. Rimise a posto la scatola e prese un bocconcino per sé dal frigo, un pomodorino. Mentre masticava si sciacquò le dita poi se le asciugò sul canovaccio dei piatti. Andò in soggiorno. Sparpagliò vplutamente i libri sul tavolino da caffè. Tirò su le veneziane e fermò il cordone. Rimase ferma a guardare un lungo autocarro, un camion di traslochi, che faceva manovra nella Novantaduesima strada, con il numero di targa in nero sul tetto color bronzo. Si spostava avanti e indietro, bloccando il traffico sul viale. I clacson suonarono, belarono. Felice miagolò. Si mise a miagolare davanti alla porta d'ingresso. Miagolava rivolta alla fessura sotto la porta. Il campanello suonò mentre lei andava alla porta. Si chinò verso lo spioncino; tolse il paletto e aprì. — Salve — disse sorridendo e porgendo la mano. — Salve — rispose Pete, stringendogliela, sorridendo, entrando in casa, con un maglione giallo canarino sopra una camicia bianca, pantaloni di tela kaki con la piega perfetta e scarpe da ginnastica bianche nuove di zecca. Felice lo annusò; lui si accovacciò vicino alla gatta, passandole una mano sulla testa e sulle orecchie. — E questa è la famosa gatta che salta — disse, accarezzandola sul collo. — È un tesoro... — La micia alzò la testa bianca e arancio, gli occhi serrati, mentre lui la solleticava con un dito sotto il mento. Nei suoi capelli castano-rossicci ancora umidi si vedevano le righe del pettine. — Quanti anni ha? — Va per i quattro — rispose Kay, sorridendo, chiudendo la porta. — Come si chiama? — Felice. Alzò gli occhi azzurri per guardarla. — Come Felix il gatto? — domandò. — Sì — confermò lei, guardandolo dall'alto. — Nelle ultime ventiquattr'ore lei è la seconda persona che ci arriva, il che è straordinario. Di solito non ci pensa quasi nessuno. — Davvero? — Lui sorrise a Felice, spingendole la testa di lato contro la mano che l'accarezzava. — Ho avuto gente a cena ieri sera e qualcuno l'ha notato — disse. — Una persona che la conosce da più di un anno.
— È un nome magnifico per una gatta — osservò lui. — In italiano significa anche "contento" — disse lei — ma non era a quello che pensavo. — Oh, certo, felice — disse lui, alzandosi. — Ehi, splendido. Accidenti, che quadro. È formidabile. — Lo ha dipinto la mia migliore amica — disse lei. — Davvero? Non è una dilettante, ne sono certo. — No, ha esposto qui e a Toronto. Roxanne Arvold. Lui socchiuse gli occhi. — È fantastico il modo in cui è riuscita a rendere la... grazia — osservò — e la delicatezza di quelle piume senza farti scordare che è un rapace. — Era quello il risultato che cercava di ottenere... — disse Kay, fissandolo. Lui si girò verso il soggiorno. — Oh, che bello — esclamò. — Lo ha arredato in modo molto gradevole. Bei colori... — Ci sono dei mobili che non sono ancora arrivati — disse Kay, seguendo lui e Felice. Lui si fermò davanti allo Zwick. — Mi piace anche questo — disse. — Ha qualcosa di Hopper. Un'altra amica? — No — rispose lei. — La galleria d'arte di Washington Square. Lui fece il giro della stanza. — Molto gradevole. — Guardò il divano. — Come definirebbe quel colore? Lei fissò il divano piegando la testa di lato. — Albicocca — rispose. — Albicocca... — Lo studiò. — Splendido colore. Kay sorrise a lui, e al divano. — Era anche uno splendido divano — replicò — prima che Felice lo attaccasse. Dovrò farlo riparare e cambiare la fodera quando avrà imparato a usare il tiragraffi. Ho la sensazione che appena entro nell'ascensore lei piombi subito qui ad affilarsi le unghie sui braccioli. — Credo che abbia ragione — disse Pete Henderson, sorridendo, piegandosi di lato e grattando la testa di Felice che gli si strofinava contro i pantaloni. — I gatti sono incorreggibili... — Si guardò attorno. — Accidenti — disse, raddrizzandosi. — Che differenza fra il 13 e il 20. — Si diresse alla finestra, guardando fuori dal pannello di destra. — Qui è fantastico. Io vedo solo il tetto del Wales e il retro di quel palazzo. — Faccia attenzione — disse lei, avvicinandosi alla finestra. — Scorrono facilmente. Dmitri ha lubrificato le guide stamattina. — Quello è Queens o Brooklyn? — chiese lui.
— Queens — rispose Kay, guardando fuori dal pannello di sinistra. Lui fischiò. — Che panorama — commentò. Piegò la coda di Felice che camminava sul davanzale. Rimasero a guardare i grattacieli scintillanti, le luci azzurre e oro del ponte riflesse sull'acqua, i riquadri di luce in lontananza. In alto le stelle brillavano nel cielo, alcune in movimento, rosse e bianche. — Da quella parte c'è l'aeroporto Kennedy — osservò lui. Kay domandò: — Di che cosa voleva parlarmi? Si girò verso di lei, inspirò, con gli occhi azzurri turbati. — Mi sento in colpa — rispose. — L'altro giorno, nella lavanderia, mi ha chiesto se sapevo chi era il proprietario, e ho risposto di no. Penso che forse se lo starà ancora chiedendo, per via di quel discorso sulla stranezza di affittare gli appartamenti dopo che ci avevano investito tanto denaro. — Sorrise. — Ho l'impressione che lei sia il tipo di persona che... che non si stacca da un puzzle finché non lo ha risolto. — Scrollò le spalle. — E non mi piace l'idea che magari sia distratta dal suo lavoro senza una ragione valida. Kay disse: — Lei sa chi è il proprietario? Lui annuì. — Chi? — domandò lei. Lui si toccò il petto rivestito di lana giallo canarino, vi batté sopra col dito. — Io — rispose. — Sono io il proprietario. Lei lo guardò. — Sono cresciuto nelle vicinanze, per così dire — spiegò lui. — I miei avevano un appartamento laggiù in Park Avenue, oltre alla casa di Pittsburgh. E alla casa di Palm Beach... — Sospirò, sorrise. — A ventun anni ho ereditato un patrimonio — aggiunse. — Vivere qui mi è sempre piaciuto più di ogni altra cosa, così mi sono trasferito al Wales mentre mi guardavo attorno. E stato cinque anni fa. Ascolti, Kay... va bene se la chiamo Kay? Annuendo, lei rispose: — Certo... — Le dispiacerebbe se chiudessi questa finestra? — domandò lui. — Fa un po' freddo. — Oh, certo, faccia pure — rispose lei. — E si sieda, la prego. Lui chiuse la finestra. Kay sedette a un'estremità del divano, con una gamba ripiegata sotto di sé. Lui sedette su una poltrona laterale, accavallò le gambe, si sistemò i pantaloni ben stirati.
Felice si raggomitolò su un cuscino vicino al calorifero sotto la finestra e li guardò. — Dunque, come ho detto — riprese lui, sporgendosi verso di lei con un gomito sul bracciolo della poltrona, tenendo le braccia incrociate — me ne stavo là al Wales. Al sesto piano, a guardarli demolire le case di arenaria scura che c'erano qui, due, e scavare, e versare il cemento... E mi colpì l'idea che sarebbe stato l'ideale possedere un palazzo di appartamenti e viverci, visto che mi era piaciuto tanto il periodo che avevo passato al numero 1185. Era là che abitavamo... ha presente quel grosso palazzo che ha il cortile con il passo carrabile? Lei annuì. — E le proprietà immobiliari sono un buon investimento, no? È così che ha cominciato Donald Trump. — Sorrise. — Così l'ho fatto acquistare dai miei avvocati — riprese. — L'ho trasformato in un palazzo di appartamenti da affittare perché se fosse stato un condominio e qualcuno si fosse rivelato un seccatore, se avesse dato feste chiassose tutte le sere o roba del genere, non avrei potuto liberarmene. In questo modo ho un certo margine di azione. E non faccio sapere a nessuno che sono il proprietario, nemmeno a quelli della McEvoy-Cortez, che lei ci creda o no, perché non voglio essere seccato con i dettagli e avere gente che viene da me a lamentarsi, e il personale che mi lecca il culo tutto il tempo, mi scusi l'espressione. Kay domandò: — Vive qui tutto l'anno? Lui annuì. — Sono un esperto di computer — rispose. — Non m'interessano yacht e tenute in campagna. Oh, immagino che un giorno mi troverò un posto più grande in cui vivere, con una sala da biliardo e magari una piscina, ma per ora un piccolo appartamento mi sta benissimo. Posso cavarmela da solo senza avere nessuno che traffichi con le mie carte e la mia roba. — Come mai non ha preso per sé tutto l'ultimo piano? — chiese lei, con un sorriso. — È quello che avrei fatto io. Lui sorrise. — Gliel'ho detto — rispose — sono un esperto di computer. Passo la giornata davanti al video, e anche gran parte della notte; il panorama andrebbe del tutto sprecato. Così me ne sto al tredicesimo piano. È il piano più difficile da affittare. La sorprenderebbe scoprire quante persone sono superstiziose. — Soprattutto ora — aggiunse lei. Lui annuì. — Soprattutto ora. — Sospirò. Kay disse: — È un brutto momento per lei. L'edificio ha perso di valore?
Lui si strinse nelle spalle. — Un po', forse. Lo riacquisterà. Lei gli sorrise. — Aveva ragione — gli disse — me lo stavo ancora domandando. L'ho perfino chiesto alla signora McEvoy, il giorno dopo che abbiamo parlato. — Davvero? — fece lui. — Ora mi sento un po'... impicciona per questo. — No, non sia sciocca — ribatté lui. — È bello avere quel genere di tenacia. Gliel'ho detto, l'ho intuito in lei. Si sorrisero. — Vuole qualcosa da bere? — chiese Kay. — Sicuro, perché no? — rispose. — Grazie. Un gin and tonic? — Una vodka? — ribatté lei, alzandosi. — Ottimo — rispose lui. Guardò dall'altra parte della stanza. — Certo che ha molti libri. Quanti sono quelli che ha curato lei? Kay si fermò dietro il divano. — Pete — disse voltandosi — Dmitri mi ha detto che gli è stato raccomandato di prestarmi attenzioni speciali. Quando ho firmato il contratto. Perché? — Rimase ferma a guardarlo. Lui inspirò. Sciolse le gambe accavallate e si protese in avanti, con le braccia sulle ginocchia. — Grazie tante, Dmitri — disse. Volse la testa, la guardò. Annuì, fece un respiro profondo. — Quando lei è venuta a vedere l'appartamento — disse — mi trovavo per caso nello stanzino della posta. L'ho vista per un attimo. — Per un attimo? — ripeté lei sorridendo. Lui le domandò: — Ha mai sentito parlare di un'attrice televisiva che si chiamava Thea Marshall? Kay lo guardò. Lui si raddrizzò sulla sedia, la fissò, con gli occhi azzurri spalancati. — Oh, mio Dio — esclamò — me ne sono appena reso conto. Ma certo che ha sentito parlare di lei, la gente deve averle detto un'infinità di volte che le somiglia. Fino a questo momento non ci avevo pensato. Cristo... — Scosse la testa, sorrise, si alzò. — È così, non è vero? — Le si avvicinò. — Glielo hanno detto, vero? Ormai non tanto spesso, immagino. Lei ammise: — Qualche volta... — Anche la voce le somiglia. — Si protese verso di lei oltre il divano afferrando la spalliera, e le lanciò il suo sorriso alla dinamite. — Così mi è bastato un attimo per sentirmi attratto — riprese — come sicuramente avrà notato. Il dottor Palme dice che è universale, senza eccezioni. Il complesso di Edipo, voglio dire. Lei è mia madre. Thea Marshall. — Annuì, sorri-
dendo. — Mia madre. — Continuò ad assentire con la testa. — Thea Marshall. — Sorrise. — Gliel'ho sentito dire una volta in ascensore — spiegò. — Il dottor Palme, dell'appartamento 2 A. È uno psichiatra, di quelli in gamba. Lavora al Mount Sinai. Lei lo guardò. Alzò due dita e disse: — Due vodka con acqua tonica... Andò in cucina. Respirò a fondo. Prese i bicchieri dall'armadietto. Lui si avvicinò all'apertura del passavivande e si affacciò all'interno, appoggiando sul banco le braccia coperte dal pullover giallo canarino. La guardò mentre metteva nei bicchieri delle mezzelune di ghiaccio. — Era un'attrice fantastica — disse. — Naturale in modo incredibile. Ha partecipato a tutti i grandi spettacoli dell'età dell'oro: The U.S. Steel Hour, Kraft Theatre, Philco Playhouse, Studio One... Al Museum of Broadcasting hanno i filmati di tre delle sue interpretazioni. Registrazioni televisive. Paul Newman ha delle particine in due commedie. Ehilà, Felice. Felice miagolò, dirigendosi verso la ciotola dell'acqua. Kay versò la vodka sul ghiaccio. — Mentre crescevo, lei stava quasi tutto il tempo a Verso il domani — continuò lui. — La produzione si era trasferita sulla costa occidentale e mio padre non voleva lasciarla andare laggiù, così lei doveva interpretare soap-opera, La luce guida e poi Verso il domani. Che razza di lavoro. Provare la mattina, registrare, preparare lo spettacolo dell'indomani, tornare a casa a studiare le battute; provare, registrare, preparare, studiare; un ciclo infinito. In pratica, la vedevo soltanto alla TV! Era un'attrice fantastica, però. Così naturale. Un anno a La luce guida e sei a Verso il domani... Kay versò l'acqua tonica. — Che cosa faceva suo padre? — domandò. — Era il presidente delle acciaierie U.S. Steel — rispose. Kay gli lanciò un'occhiata. Lui sorrise. — Lo so che cosa sta pensando — disse. — Che forse si è servito della sua influenza per farle ottenere le parti nello spettacolo. Non è andata così, né per The Steel Hour né per Kraft Theatre, anche se possedeva una grossa fetta della Kraft. Ma non lo fece. Quando si trattava della carriera della moglie, si atteneva scrupolosamente a una politica di assoluto disinteresse, lo volevano tutti e due. Lei non ha mai avuto bisogno di aiuto per ottenere buone parti, era davvero un'attrice fantastica. Kay tagliò le fettine di lime. Gli chiese: — Ha fratelli e sorelle?
— No — rispose lui. — È lei? — Un fratello minore. — Felice si affilò le unghie sul tira-graffi, alzando la testa verso di lei. — Brava micia — disse Kay, girandosi verso l'armadietto. — Non le dia subito un premio — suggerì lui. — La faccia grattare sul serio. Adesso la sta prendendo in giro. Tenendo apertolo sportello dell'armadietto, Kay guardò lui, poi Felice ritta sulle zampe posteriori, con quelle anteriori sul tiragraffi, che la guardava. Accennando una graffiatina per far vedere com'era brava. — Ha ragione — ammise, chiudendo lo sportello. — Spiacente, Felice — disse lui. Felice guardò lui, poi lei, poi lui. Ridacchiarono. La gatta si staccò dal tiragraffi ricadendo sulle quattro zampe e si avviò trotterellando verso l'ingresso, agitando la coda dalla punta nera. — Credo di essermi fatta una nemica — osservò lui. — Le passerà — disse Kay sorridendo. — Ha ragione lei, mi sono lasciata proprio infinocchiare. È così incredibilmente furba... — Gli porse un bicchiere attraverso il passavivande. — Grazie. — Tenne il bicchiere sollevato verso di lei. — Cin cin — disse. — Cin cin — rispose lei, sfiorandolo col suo. Si sorrisero, bevvero un sorso. Lei si voltò e andò verso la porta, dicendo a voce più alta: — Non può essere una coincidenza che Sam Yale abiti in questo palazzo... — Il bicchiere s'infranse sul parquet, il liquido si versò. Lei s'interruppe di colpo. — Accidenti, sono così maldestro... — Non si preoccupi — disse lei, sempre a voce alta, posando il bicchiere e prendendo i tovagliolini di carta. — Ecco un'altra cosa che è la seconda persona a fare nel giro di ventiquat-tr'ore. Il bordo del tappeto era bagnato, e anche i risvolti dei pantaloni di lui. Accovacciandosi, asciugarono il parquet con i tovaglioli di carta e raccolsero i frammenti di vetro dalla piccola pozzanghera. Felice venne a vedere. — Mi dispiace per il bicchiere — disse lui. — Lo tratterrò dall'affitto — ribatté Kay. Si sorrisero, mentre asciugavano il parquet. — No — disse lui — non è una coincidenza che Sam Yale viva qui. Siete amici?
— Semplici conoscenti — rispose lei. — Era in fila dietro di me alla cassa di Murphy's, il giorno che ho traslocato qui. — Immaginavo che l'avrebbe incontrato, prima o poi. — Non sarebbe potuto succedere prima di così — commentò Kay. Lo guardò. — È stato per caso che lei si è trovato a portata di mano per darmi il benvenuto? Lui sorrise. — No comment — rispose. Tolse una scheggia di vetro dal pavimento, la posò sul tovagliolo di carta. — Sulla presenza di Sam Yale qui entrano in gioco alcuni fattori — disse — su cui non mi sembra corretto entrare nei dettagli. — Mi ha detto che è un alcolizzato in via di disintossicazione — disse lei — e mi ha parlato della fondazione. Lui la guardò. — Quella che lo mantiene — spiegò Kay. — Carnegie Hill qualcosa. Lei dovrebbe conoscerla. Lui s'informò: — Le ha detto tutto questo, così su due piedi, da Murphy's? — Un giorno nel parco. — Oh. Asciugarono il legno. — Be', in tal caso — disse lui — immagino che non ci sia niente di male a raccontarle tutta la storia. Portarono in cucina i tovaglioli umidi e il vetro avvolto nella carta. Lui portò i rifiuti fuori e li buttò nella pattumiera mentre lei preparava un altro drink. Si spostarono in soggiorno. Si sedettero alle due estremità del divano, l'uno di fronte all'altro, tutt'e due con una gamba piegata sul cuscino. Sollevarono i bicchieri per brindare, sorridendo. Lui bevve, guardò nel bicchiere. — Penso che fossero amanti — disse. — Non ho niente contro di lui. Se l'ha resa felice, bene. Mio padre se l'era voluta. Era un vero bastardo e aveva un sacco di relazioni. Kay lo guardò mentre inspirava a fondo e beveva un sorso del suo drink. — Dopo la morte di Thea Marshall — riprese lui — Sam è sparito dalla circolazione per quasi dieci anni. Almeno, non si vedeva più il suo nome sui titoli di coda. La prima volta che l'ho sentito di nuovo nominare è stato qualche mese dopo che avevo acquistato l'edificio; doveva tenere una conferenza alla New School. Il mestiere di regista nella televisione dell'età dell'oro. Sono andato a sentirlo, naturalmente. È stato piuttosto imbaraz-
zante. Era mezzo ubriaco, divagava in continuazione, dimenticava la domanda a cui stava rispondendo... Lei sospirò e scosse la testa. — Ho fatto qualche indagine — continuò lui. — Viveva in una piccola topaia in Bleecker Street, dando lezioni di recitazione. Era stato licenziato da una scuola della zona. Ho pensato che forse non avrebbe accettato niente se avesse saputo che erano soldi di mio padre; così ho incaricato i miei legali di costituire una fondazione. Non è difficile farlo. Poi ho fatto assumere una persona che si mettesse in contatto con lui per farlo entrare allo Smithers Treatment Center, proprio dietro l'angolo. Finito il palazzo, la fondazione ha preso in affitto un appartamento per lui. Kay disse: — È stato un gesto incredibilmente generoso e delicato da parte sua, e lo è tuttora. Lui scrollò le spalle. — Ha diretto alcune delle interpretazioni migliori di Thea Marshall — disse. — Sapevo che lei avrebbe desiderato che lo aiutassi anche se non fossero stati amanti. E, come ho detto, non ho niente contro di lui se lo sono stati. — È evidente — osservò lei. Si sorrisero, bevvero ancora. — Bene — disse lui — siamo partiti per la tangente un paio di volte, ma era questo che volevo dirle, che sono io il proprietario, quindi può smettere di domandarselo. Le ho detto un'altra bugia, laggiù. Sapevo che aveva un gatto dalla domanda di affitto. Non ero da Murphy's in compagnia di qualcuno, sabato mattina. Ho pensato che fosse là che faceva la spesa e che avesse acquistato la sabbietta. Lei gli sorrise. — È bravo a indovinare — disse. — Le perdono tutt'e due le bugie. Volentieri. Bevvero. Felice saltò sul divano in mezzo a loro. Camminò sul soffice velluto color albicocca e annusò le dita di lui che la solleticavano. L'accarezzò sulla testa. — Mi stanno perdonando tutti — disse. Kay lo guardò. Gli chiese: — Non ha paura che lo racconti agli altri inquilini? — No — rispose lui. Scosse la testa. — Non lo farà. Lei... proteggerà la mia privacy. — Come lo sa? — chiese Kay. Lui scrollò le spalle. — Lo so e basta. — I suoi occhi azzurro vivido la guardarono. — Lei è una persona discreta — disse. — O sbaglio? Kay scosse la testa, guardandolo. — No — rispose — non si sbaglia.
Bevvero. Felice si raggomitolò contro il ginocchio di lui, che le prese l'orecchio color arancio e le accarezzò la testa. Disse: — Che carina... Lei gli domandò: — Ha appetito? Ho il frigo pieno di pollo al dragoncello e insalata, e una superba mousse alla fragola... — Magnifico — rispose lui, sorridendo. — E io ho una bottiglia di champagne Dom Perignon d'annata, del tipo che beveva James Bond. Devo scendere a prenderla? Lei gli sorrise. — Perché no? — rispose. — Alex ha sedici anni più di me. Insegna storia dell'architettura all'università di New York. Quando abbiamo cominciato a uscire insieme, insegnava alla facoltà di Syracuse. Io ero al secondo anno. — Più calda? — Okay. Lui staccò il braccio che la circondava, cercò a tastoni, trovò la manopola della doccia; aprì ancor di più l'acqua calda. — Quando l'ho sposato avevo ventinove anni — continuò lei. — Mmm, così è magnifica. E Jeff ha dodici anni più di me; non sei il solo ad avere problemi edipici. Lei gli baciò la gola mentre lui le leccava l'acqua dalle sopracciglia. Lui disse: — Tu almeno stai superando i tuoi... — Si baciarono ridendo. Si baciarono. — Oh, Dio... — Si girarono, baciandosi. — Entreremo nel Guinness dei primati... Voltati... Aspetta un secondo... — Kay allungò un braccio, cercò a tastoni, trovò la manopola della doccia; aprì ancor di più l'acqua calda. PARTE SECONDA 6 Entrò in ufficio volando, poi rallentò e si mise a camminare. Sorrise e augurò il buongiorno a tutti, a Gary, a Carlos, a Jean, a Sara, tentando di non far capire che aveva passato il sabato notte e tutta la domenica a fare l'amore in modo travolgente con un ventiseienne che guarda caso era la persona più percettiva, sensibile, intuitiva che avesse mai conosciuto. Dirlo a Roxie era una cosa, ma non era disposta a dirlo al mondo intero. Fece una capatina da June verso le dieci e mezzo, le chiese com'era an-
data la partita a scarabeo e le disse di non disturbarsi a cercare quei numeri telefonici; aveva parlato con l'amministratore, c'era stato un malinteso. Lui aveva detto al sovrintendente, che non capiva molto bene l'inglese, di mostrarsi più premuroso verso tutti gli inquilini; quindi lei era tornata al precedente "lasciamo in pace il proprietario". La vita non aveva ricalcato Il padrone di casa di Olivia, dopo tutto. Ma grazie lo stesso. Non le piaceva mentire a June, anche se era una bugia innocente, ma aveva paura che una volta cominciato a spiegare come aveva saputo chi era il proprietario, si sarebbe lasciata sfuggire tutto. La sera prima si era confidata al telefono con Roxie. «Ha degli occhi azzurri così intensi, e giuro su Dio che mi legge dentro! E non solo con me, Roxie; ha dato una sola occhiata al falcone, che gli piace tantissimo, e ha capito subito che cosa volevi ottenere e lo ha espresso quasi con le tue stesse parole! Ha perfino psicanalizzato Felice. Non puoi immaginare quanto è intuitivo! E divertente, e dolce, e pazzo di me...» Aveva spiegato a Roxie chi era la madre, e il padre, come fosse indifferente alla sua ricchezza: si faceva il bucato da solo, i suoi mobili erano semplici pezzi moderni di Conran's coperti da uno strato di cianfrusaglie... Sapeva che non sarebbe durata a lungo, con tredici anni di differenza fra loro, e nemmeno lo voleva, per il bene di Pete; lui doveva avere dei figli. Ma almeno per un po', per tutti e due, era senz'altro la cosa migliore che sarebbe potuta succedere. Roxie, entusiasta per lei, ne aveva convenuto. Ne avrebbe convenuto anche il dottor Palme? Lei sperava di sì, e sperava che Pete si sentisse ben presto abbastanza sicuro nel loro rapporto da dirle che era in terapia. Come avrebbe potuto non restare segnato, povero piccolo, vedendo a malapena la madre se non alla televisione? Anche se naturalmente c'era una probabilità esigua, molto esigua, che avesse davvero sentito per caso il medico parlare in ascensore del complesso di Edipo... fra l'atrio e il secondo piano. Diciamo una su un milione? In ufficio, guardando fuori i palazzi di uffici dalle pareti di vetro, provò il forte impulso di chiamarlo... soltanto un salutino rapido per accertarsi che esisteva davvero, lassù a Carnegie Hill. No. Non voleva diventare una seccatura; lui doveva essere impegnato al computer in quel caotico soggiorno di Conran's, intento a lavorare al programma che stava preparando per la Price Waterhouse. Si mise al lavoro anche lei; chiamò Sara all'interfono e le chiese di portare il blocco per gli appunti.
Lui stava guardando Sam. Che pestava con due dita sulla portatile malconcia che aveva riportato con sé da Tucson. Quella di Abe, probabilmente. L'aveva piazzata sul tavolo del soggiorno insieme a una pila di fogli e a un dizionario; se ne stava seduto con gli occhiali sul naso, la felpa di Beethoven addosso, battendo sui tasti, fermandosi a grattarsi l'orecchio, battendo, controllando il dizionario. Nessuno spinello in vista. Aveva smesso di nuovo? E cosa stava scrivendo? Quel vecchio rudere... In fila alla cassa dietro di lei il giorno che aveva traslocato. Sperando che la storia si ripetesse... E al parco! Quando? Come mai? Che altro le aveva detto, che cosa gli aveva detto lei? Evidentemente c'era stato qualcosa di più che una conversazione casuale. La mattina dopo l'incidente di Rocky? Quando lui aveva dormito fin quasi a mezzogiorno e lei era lì, alla scrivania, a raccontare a Sara com'era splendido il parco? Esasperante, non sapere... Sorrise di se stesso, viziato dal troppo sapere. Aveva forse importanza quello che si erano detti, quando e dove si erano incontrati? Niente affatto. Neanche per sogno. "Peccato, Sam, non puoi averle tutte tu. Accontentati di essere vivo. Non sai quanto sei stato fortunato che Abe non sia dovuto venire al tuo funerale..." Guardò Beth che frugava nei cassetti del comò di Alison. Acqua, acqua. Il dottor Palme e Michelle: il solito. Lisa che faceva aerobica. Di nuovo loro due sul letto, lei sopra, tutt'e due sul punto di venire. Fantastico! Kay era grande. Noemi, in confronto, era frigida. Fece scorrere il nastro in avanti per un tratto di dialogo, rallentando su di loro a letto, fuori della stanza, di nuovo a letto. Lo guardò mentre ricominciavano daccapo: baci, carezze... Pensò di chiamarla, ma non voleva disturbarla. Ma anche lei avrebbe provato le stesse emozioni. Anche di più. E lei non era certo in sala prove o in onda... Spense l'audio. Chiamò il servizio informazioni per sapere il numero della Diamond. Rispose Sara, e lui le disse: — Salve, mi chiamo Peter Henderson. Posso parlare con la signorina Norris, se è libera? È una questione personale. — Un momento solo, prego.
Guardò loro due distesi sul letto l'uno di fianco all'altro in un sessantanove. — Ciao... — Ciao... — disse lui sorridendo, continuando a guardare. — Mi spiace disturbarti, ma dovevo essere sicuro che sei vera... Fu soltanto qualche giorno dopo - quando uscendo dall'appartamento la mattina trovò Vida in chimono a fiori che trascinava sul pianerottolo le valigie rosa, diretta in Portogallo per un mese e piuttosto incupita da quella prospettiva - che si rese conto (scendendo insieme alla coppia bionda del quattordicesimo piano, all'uomo col pizzo del dodicesimo, alla coppia mista del settimo) che Pete conosceva occupazione, reddito, età e stato civile di tutti gli inquilini del palazzo, e anche altre informazioni tratte dalle loro dichiarazioni dei redditi e referenze. A proposito di divertimento... Gliene accennò quella sera mentre mangiavano hamburger con patatine al Jackson Hole, verso le dieci. Lui restò seduto a masticare, guardandola. Mandò giù il boccone. Bevve un sorso di birra mentre lei addentava l'hamburger. Si pulì le labbra col tovagliolo. — Io non parlerei di divertimento — disse — ma c'è senz'altro una certa soddisfazione nel conoscere i fatti essenziali di tutti. Siamo tutti curiosi sul conto dei nostri vicini; è un istinto difensivo che proviene dalla parte più primitiva del cervello. Come l'abitudine di Felice di annusare. — Prese una patatina fritta dal piatto fra loro due. Lei ribatté: — È molto più facile soddisfare questo istinto nei sobborghi di Wichita, posso garantirtelo. Sono cresciuta conoscendo tutti gli abitanti di Eleanor Lane e tutta la loro storia familiare. — Prese una patatina. Lui masticò, inghiottì. — Se hai delle domande — disse — sarò lieto di rispondere. — Pensavo che non me lo avresti mai detto — ribatté lei. — Che lavoro fa la mia vicina di casa, Vida Travisano? Lui sorrise. — Ufficialmente fa la modella — rispose. — Il mio avvocato pensa che sia una squillo d'alto bordo. Tu cosa ne pensi? — L'uno o l'altro o tutt'e due — rispose lei. — Speravo che mi avresti aiutato a risolvere il dubbio. Come mai l'hai accettata? Non sto facendo obiezioni, è un vero zuccherino, ma se il tuo avvocato la pensava così... Lui bevve un sorso di birra. — Mi piace l'idea di avere nel palazzo una
grande varietà di persone — rispose. — La mescolanza più varia che si possa ottenere in questo quartiere, con questi affitti. Non ci tengo affatto a essere completamente circondato da cloni di yuppie, anche in ascensore. — Sembra ragionevole — osservò Kay. — Ah, ma tu non sei un avvocato — ribatté lui. — O un amministratore di proprietà immobiliari. Sono certo che mi considerano un pazzo e un autentico rompiscatole. Lei gli sorrise. Scrollò le spalle. — Se lo pensano — rispose — è un problema loro. Mangiarono ancora qualche boccone di hamburger. Si fecero piedino. Lei domandò: — Che tipi sono i Johnson? — I Johnson? — ripeté lui. — Oh, il 13 B. Non ci sono mai, per cui me n'ero quasi dimenticato. Quasi mai, soltanto qualche settimana all'anno. Sono inglesi, sulla cinquantina. Lui è avvocato, pardon, patrocinatore, e lei... non ricordo che cosa fa. Niente. Acquisti. Arriva con un mucchio di pacchetti. Arpège passò fuori del locale con un pastore tedesco; si fermò ad aspettare mentre il cane annusava la base del lampione. Si scambiarono un sorriso. — E lei che cosa fa? — domandò Kay. — Ha un'agenzia di viaggi — rispose Pete. — Sulla Lexington. È nubile. — Prese una patatina. Lei socchiuse gli occhi, guardando fuori. — Sembra un travestito — osservò. Lui sorrise, intingendo la punta della patatina nel ketchup. — Hai ragione, è proprio così — le disse. Mangiò la patatina dalla punta rossa, cercando con gli occhi la cameriera. Kay andò a un pranzo del Women's Media Group all'Harvard Club. Tutti le dissero che aveva un aspetto smagliante. Idem al Vertical Club. Portò Felice dal dottor Monsey in Bank Street per le iniezioni; si fermò al supermercato e in libreria. Tutti le dissero che aveva un aspetto smagliante. Andarono in bici nel parco. Cucinarono spaghetti con i frutti di mare. Andarono con Roxie e Fletcher in un ristorante cajun di Soho. Pete parlò con competenza con Roxie del processo di creazione artistica, con Fletcher delle direttive federali sul finanziamento delle ricerche mediche. Raccontò una storiella che li lasciò freddini. Scambiò con Kay bocconcini prelibati e sguardi languidi. — Non te lo avevo detto? — fece lei nella toilette.
— Sta' a sentire — disse Roxie, alzandosi in punta di piedi vicino al lavandino per truccarsi gli occhi allo specchio. — Se è pure ricco e il sesso è così favoloso, accalappialo, scema. — Roxie... — Steffi ha quindici anni più di Mike e sono felici come pasque. Buttati! Una notte in cui Pete si fermò da lei, poco prima di addormentarsi Kay gli accennò che un agente l'aveva invitata a pranzo per il giorno dopo al Four Seasons. — Thea Marshall mi ci ha portato per il mio decimo compleanno — disse lui, steso dietro di lei come due cucchiai in un cassetto, stringendole i seni fra le mani, con la guancia fra i suoi capelli. — Dio, com'era imponente quel posto per un bambino... Stavamo vicino alla piscina. I camerieri e i maître tutti a nostra disposizione, tutti che ci guardavano... Come se fossimo Gesù e Maria... È un locale frequentato da editoriali, adesso? Lei rispose: — Soltanto a pranzo. La Grill Room. — Mi era sembrato di sentirlo dire non so dove... Felice si girò contro i loro piedi avvolti nelle coperte. Lei gli accarezzò il dorso delle mani. — La chiami sempre "Thea Marshall" — disse, e le mani di lui fremettero — mai "mia madre"... Lui scrollò le spalle, addossato a lei. — È così che penso a lei — rispose. — Che ho sempre pensato a lei. Era così che voleva essere considerata... un'attrice, non la madre di qualcuno. Ha avuto me soltanto perché mio padre l'aveva costretta. E l'ironia della sorte è che era quel tipo di giovane madre fantastica che fa sempre la cosa giusta. In Verso il domani. Ed era del tutto convincente. Giorno dopo giorno, una interpretazione davvero eccellente. Uscendo da scuola prendevo il taxi per arrivare a casa in tempo per vederla... non era ancora l'era dei videoregistratori. Kay strinse più forte a sé le sue mani, le baciò. Disse: — Lo sai, vero, tesoro, che non c'è niente che tu non possa dirmi... Lui s'irrigidì contro la sua schiena. — Che cosa vuoi dire? — domandò. Kay si girò fra le sue braccia, lo strinse forte. Lui la fissò nella penombra. Lei gli baciò la punta del naso, disse: — Non c'è qualcosa che non mi hai detto, piccolo? Lui la fissò. — Non c'è niente da vergognarsi se ne hai bisogno — disse lei. — Sono assolutamente favorevole, devi saperlo. Con lo sguardo fisso, lui disse: — Di che cosa stai parlando? Lei ribatté: — Del dottor Palme...
Lui deglutì, la guardò. — Il dottor Palme? — ripeté. Kay annuì. — Tu... pensi... che io vada da lui? — Non è così? Lui la guardò, scosse la testa. — No — rispose. — Non sono suo paziente. Non lo sono mai stato. Né suo né di altri. Perché ti è venuta questa idea? Quando ti ho detto di averlo sentito... Lei annuì. — Mi è sembrato così... improbabile — ammise. — Che parlasse del complesso di Edipo in ascensore, e che proprio tu fra tutti lo avessi sentito per caso. Lui sorrise e sospirò. — Eppure è successo — ribatté. Il suo sorriso si allargò. — Una delle coincidenze incredibili della vita. Lei lo abbracciò forte, appoggiò il viso sulla sua spalla, ridacchiando. — Oh Dio, tesoro, mi dispiace — gli disse. — Credimi, non era nient'altro! Solo questo. Oh, Signore. Mi serva da lezione. Ero tanto sicura... Si baciarono, abbracciandosi. Felice saltò giù dal letto. Lui rise, stringendola forte. Inspirò a fondo, espirò contro la sua spalla in un soffio. — Cristo — esclamò — non riuscivo proprio a immaginare di che diavolo stessi parlando! Fecero il giro di Manhattan sulla nave della Circle Line. Lei gli tagliò i capelli. Lui le regalò una scatolina di Tiffany, con la carta del colore dei suoi occhi: un cuore d'oro aperto appeso a una catena, del tipo pesante. Lei gli regalò un chilo di gelatine di frutta da gourmet, nei colori più ghiotti. Telefonò Sam. — Come sta? — Benissimo — rispose. — E lei? — Okay. Sono stato in Arizona per un po'. È morto mio fratello. — Oh, mi dispiace... — Sì, be', che vuol farci... È stato orribile quello che è successo al suo amico Sheer. Comincio a pensare che questo posto sia davvero maledetto. — Ma no — ribatté lei. — Stia a sentire, ho riflettuto un po', laggiù, su quello che mi ha detto. Sulle memorie. Ho deciso di fare un tentativo. Spiritoso e serio nello stesso tempo, perché essere timidi? — Ehi, questa è una notizia grandiosa, Sam — esclamò lei. — Sono davvero contenta. Sono sicura che può farcela.
— Grazie, lo spero. Ho scritto... immagino che lei lo chiamerebbe il primp capitolo. Le piacerebbe dargli un'occhiata? Lei fece un respirone. — Non sono io la persona adatta — rispose. — Mi occupo solo di narrativa; ma sì, me lo mandi, basta che lo infili nella mia cassetta della posta, e lo darò a uno dei nostri editor che curano quel settore. Avrà un parere obiettivo. — D'accordo... Grazie. Andrà bene così, gliene sono grato. Il dattiloscritto fa pietà. — Purché sia leggibile. Ne parlò a Pete quando arrivò... tardi, aveva scoperto un errore nel programma a cui stava lavorando. — Sarà interessante — disse lui, sedendosi sulla sponda del letto dopo che lei si era infilata di nuovo sotto le coperte. — Forse saprò finalmente la verità sul conto suo e di Thea Marshall. Kay lo osservò mentre si slacciava una scarpa da ginnastica, contendendo i lacci a Felice. Disse: — Ho avuto l'impressione che ci sia stata davvero una relazione, e che fosse del tipo amore-odio. Ha la tendenza a fare osservazioni sgradevoli su di lei. Lui scrollò le spalle, le lanciò un'occhiata. — È per questo che lo passi a qualcun altro? — No — rispose Kay. — Lo sai che mi occupo solo di narrativa. Lui si sfilò la scarpa. — Scommetto che ti piacerebbe — osservò. — Ed è stata un'idea tua. Lei ripose nella cartelletta il manoscritto che stava leggendo. — Oh cielo — disse, scuotendo la testa. — Sì, mi piacerebbe seguirlo fino in fondo, se quello che ha scritto è appena discreto. Ma non mi sentirei a mio agio a lavorare con lui adesso, sapendo di te e della fondazione mentre lui ne è all'oscuro. Sono troppo in vantaggio su di lui. Un rapporto dev'essere aperto e leale, soprattutto con uno scrittore che probabilmente dovrà essere assistito da vicino capitolo per capitolo. Non può funzionare, se devo stare attenta a quello che dico. — Chiuse la cartelletta. — E poi, sì — aggiunse — sorgerebbe un problema se lui si addentrasse in argomenti che secondo me potrebbero ferirti... — Mise la cartelletta sopra le altre sotto il comodino. Quando si raddrizzò, lui la stava fissando, seduto. Lei gli sorrise, tese la mano per accarezzarlo sulla guancia. — Non è tanto importante, piccolo — disse. — Sul serio. E poi, non lo conoscerei neppure se tu non lo avessi portato qui, giusto? Lui annuì. Kay sorrise. — Quindi smettila di tergiversare e spogliati — gli disse.
Lui le sorrise. Si chinò sull'altra scarpa da ginnastica. Sam lasciò una busta nello stanzino della posta: fogli piegati a metà, una dozzina. Battitura scadente ma materiale di prim'ordine: New York nei primi anni Trenta, Sam a otto anni e Abe dodicenne - Yellen, non Yale che venivano prelevati dal Bronx dallo zio Maurice, attore, e spinti sul palcoscenico nella messinscena di Aspettando Lefty del Group Theatre. Un'eco di E.L. Doctorow... Lo passò a Stuart. L'unica cosa che non si aspettava era innamorarsi di lei. Sorprendente, quella mancanza di preveggenza, tenuto conto di quanto Kay fosse favolosa: calda, intelligente, onesta, spiritosa, sexy... e somigliante a Thea Marshall. Tutto questo lo sapeva fin dal giorno che lei aveva traslocato lì - neanche l'ombra di quanto sapeva adesso, certo - eppure l'idea di potersi innamorare di lei non gli aveva neppure sfiorato la mente. Eccola lì quell'idea, invece. A rovinare tutto. Guardò Kay, con gli occhiali, seduta sul divano e con i piedi appoggiati al tavolino da caffè, intenta a leggere un altro manoscritto di cui l'agente era entusiasta. Conflitti sessuali dei nostri giorni. Avrebbe voluto poterle parlare di Phil e Lesley e Mark, Vida, dei Fisher, degli Hoffman, di tutto quello che succedeva in quel palazzo, non soltanto dei conflitti sessuali... Aveva ragione lei: era un guaio soppesare ogni parola, avere dei segreti che non si potevano condividere. Un guaio? Diciamo pure uno schifo, Kay. E se se n'era accorta Naomi, che non era sveglia neanche la metà di lei, non lo avrebbe capito anche lei, prima o poi, per quanto prudente fosse stato? Non era destinato a fare un giorno o l'altro una mossa sbagliata che non sarebbe riuscito a spiegare? E allora, in nome del cielo? Lei si voltò, lo guardò al di sopra degli occhiali. — Che cosa c'è? — gli domandò. — Niente — rispose. Sorrise. — Ti stavo solo guardando. Per riposarmi gli occhi. Sorridendo, Kay replicò: — Se non ti piace, non leggerlo. Non ci resterò male. — No, mi piace — ribatté lui, sollevando il libro aperto. — Questa parte sulla barca è magnifica. Si sorrisero. Lei accennò alla porta, ridacchiando. — Scendi a casa tua
— gli disse. — Va' a lavorare al tuo programma. Anche a me non dispiace stare un po' sola. Lui inserì il risvolto della copertina fra le pagine del libro. — Me lo porto giù — le disse. Si chinò su di lei mentre si toglieva gli occhiali. La baciò. — Ti amo — le disse. Lei lo baciò, gli accarezzò la guancia. Si baciarono, e lui si alzò e girò intorno al divano passando nell'ingresso. — Buona notte, Felice — disse a voce alta — dovunque tu sia! Guardandolo, disse: — Ehi, aspetta un momento... — Mise da parte il manoscritto e si alzò. Lui aspettò vicino alla porta. Kay gli si avvicinò. Si fermò davanti a lui. Lo guardò negli occhi. — Uno dei nostri editor, Wendy Wechsler — disse — mi pare di avertene parlato... Lui annuì. — Dà una festa per il Ringraziamento per quelli che sono lontani da casa — disse. — Ti piacerebbe venirci con me? So che mancano pochi giorni, ma... Ero indecisa. Sai... Lui distolse lo sguardo, tirò un respiro profondo. Si mise il libro sotto il braccio e la prese per le spalle. — Ne sarei felice, Kay — le disse — e mi fa piacere che tu me lo abbia chiesto. Sinceramente. Ma ho questi cugini a Pittsburgh a cui ho promesso di andare. Non faccio che rimandare da un anno all'altro e non posso proprio tirarmi indietro dopo che finalmente ho detto di sì. — Capisco. — Mi dispiace. — Va tutto bene — disse lei. — Non avrei dovuto aspettare tanto. Si baciarono. Si strinsero. Lui la guardò. — Ummm...? — No, va' pure — disse Kay. — Un po' di spazio farà bene a tutti e due. Vai. Parleremo domani. Si baciarono. Lui aprì la porta, uscì. Kay lo guardò aprire la porta delle scale e uscire sul pianerottolo, salutare con la mano attraverso il pannello di vetro con la cornice metallica, mentre la porta si richiudeva. Chiuse la porta dell'appartamento, mise il chiavistello. Sospirò, si accovacciò per prendere in braccio Felice. La guardò negli occhi. — Cugini? — disse.
— È qualcosa che ho detto? — No. — Oppure che ho fatto? — No — rispose lui. — Si tratta di me, non di te. Sinceramente. — Le sue palpebre si chiusero. Lei lo baciò sulla bocca, gli ravviò i capelli all'indietro con le mani. — Qualcosa nel tuo lavoro? — domandò. — No — rispose. — Sì. No. — Non sono del tutto ignorante in fatto di computer, lo sai... — Tesoro, ti prego, shh, non parliamo, d'accordo? Shh. Zitti, stiamo in silenzio. Lei gli baciò le labbra, le palpebre. Chiuse gli occhi. Lui si mosse dentro di lei, irrigidendosi. Kay fece firmare il contratto a uno scrittore, si comprò un tailleur. Lui non chiamò. Lei decise che stavolta avrebbe aspettato. Si allenò al club. Segnò qualche buon punto a una riunione editoriale. Andò a un ricevimento. Tornò a casa e controllò la segreteria telefonica. Lui non aveva chiamato. Infornò due torte di zucca, sotto gli occhi di Felice. Telefonò a casa la mattina del giorno del Ringraziamento. C'erano Bob e Cass, lo zio Ted, tutti allegri tranne il piccolo che piangeva nel box. Era andata bene: niente discussioni, niente domande sugli uomini. Aspettavano con ansia la sua visita per Natale; anche lei. Il tacchino era stopposo ma i contorni erano ottimi, la tavolata più lunga dell'anno precedente... facce familiari e facce nuove. Lei lo immaginò davanti a un tavolo freddo in una grande casa di Pittsburgh oppure, si augurò, solo davanti al computer con una cena precotta, e che il diavolo se lo portasse. Il distinto ortopedico di Wendy le fece la corte, ma lei aveva chiuso con i vecchi, di qualunque genere. Le torte furono un grande successo. Tornò a casa e controllò la segreteria; lui non aveva chiamato. Il venerdì - sorpresa! - fu una giornata orribile. Un cielo grigio, fiocchi isolati di neve. Lei pagò delle bollette, fece un po' di pulizie, cambiò le lenzuola. Guardò nel cannocchiale; osservò i gabbiani sul laghetto, le persone che correvano sul sentiero fiancheggiato dalla rete metallica: due donne di mezz'età che discutevano senza voltarsi, una mostrando alla vicina il palmo delle mani, l'altra scuotendo un dito, tutt'e due in tuta da ginna-
stica azzurra. Peccato che non sapesse leggere sulle labbra. Felice si strofinò contro il suo ginocchio. Tentò di lavorare un po' a un romanzo scadente che stava sfrondando per fare un favore a Norman. Non combinò niente. Che cosa faceva lui? Si raggomitolò sul divano a guardare soap-opera: Una vita da vivere e General Hospital. Si augurò che le attrici, alcune delle quali discrete, dedicassero abbastanza tempo ai figli. La chiamò Roxie; lei tenne la bocca chiusa e ascoltò, una volta tanto. Disse che andava tutto bene, come sempre. Era occupata. Guardò E ora, viaggiatore?, con Felice che le dormiva in grembo. Mangiò uno yogurt, fece il bagno. Il sabato si rimise in sesto; spostò il televisore nell'angolo, finì le pulizie, fece la spesa, si mise alla scrivania. Tre settimane da quando la storia era cominciata. Lucidò con il pollice il cuore d'oro aperto e si mise al lavoro. Prese velocità, procedette a ritmo spedito. Una bozza pulita, grazie a Dio. Il telefono squillò mentre finiva di correggere le ultime righe di un capitolo; l'orologio segnava le 4:54 del pomeriggio. Guardò il telefono nero. Squillava. Sollevò il ricevitore. — Pronto? — disse. — Ciao. Lei si tolse gli occhiali. — Ciao — rispose. — Com'è stato il giorno del Ringraziamento? — Calorico — rispose. — Ma divertente. E il tuo? — Non l'ho festeggiato affatto. Ti ho mentito. Avevo paura che ci stessimo spingendo troppo in là. Ora mi dispiace. Lei si girò sulla sedia. — Anche a me — disse. — Ti amo, Kay. — Oh, Petey — lei chiuse gli occhi, respirò a fondo — io amo te, piccolo, tanto... — Oh, tesoro... Dio, quanto mi sei mancata. C'è una cosa di cui dobbiamo parlare, è troppo delicata per parlarne al telefono. Ti suona familiare? Sorridendo, lei rispose: — Due vodka con acqua tonica, se vieni su. — No. Qui da me, stavolta. Ti secca? — Terribilmente — rispose lei. — Subito? — Appena sei pronta. — Fra un quarto d'ora. — Non riconoscerai la casa. Ho fatto le pulizie in tuo onore. 7
Di qualunque cosa si trattasse, potevano affrontarla, ora che lui era disposto a parlarne. Di quella maledetta differenza di età, probabilmente. Si mise sotto la doccia e si fece bellissima, trentacinquenne al massimo. Indossò pantaloni bianchi con le ballerine e il pullover color pesca, il cuore appeso alla catenina. Florence Leary Winthrop telefonò sconvolta dal panico, per sottoporle delle idee; ci vollero cinque minuti per ottenere un rinvio fino al lunedì mattina. Poi inserì la segreteria telefonica e prese le chiavi. Mise sul pavimento del cibo fresco e dell'acqua, disse a Felice che si sarebbero riviste più tardi. Gli ascensori erano al quindicesimo e al sesto, tutt'e due in discesa; lei scelse le scale. Scese a precipizio le brevi rampe a zigzag illuminate dal neon sui pianerottoli numerati, con i passi che echeggiavano giù per la tromba delle scale di cemento grigio. Si augurò che fosse davvero la differenza di età, non la sclerosi multipla o il cancro o chissà cosa, in quel palazzo nato sotto una cattiva stella... Uscì sul pianerottolo del tredicesimo piano. Lui era indaffarato in cucina, in camicia a quadri e jeans, con la porta dell'appartamento spalancata e i Beatles che cantavano Hey Jude. Si voltò, lanciandole quel sorriso alla dinamite. — Due vodka con acqua tonica — disse, asciugandosi le mani su un canovaccio appeso. — Ma mi scusi, signorina, dovrà farmi vedere un documento di identità... Si baciarono per tutta la fine di Hey Jude, il commento del disk-jockey e una parte di Eleanor Rigby. Kay andò in soggiorno, ravviandosi i capelli con le dita. Le veneziane erano abbassate, lampade a coppa montate su aste cromate splendevano rivolte al soffitto; la plafoniera risplendeva di rimando. La stanza con la moquette marrone sembrava un po' asettica, senza il solito strato di vestiti e cianfrusaglie. Ma gradevole, con il divano di cuoio quasi al centro, di fronte alla TV e allo stereo sulla sinistra; la scrivania con il computer contro la parete di destra, tavolo e sedie vicino al passavivande, tutto in noce, bianco e acciaio cromato, tranne alcuni cuscini gialli e arancio, le spie rosse e ammiccanti dello stereo, il televisore nero. — Ha un aspetto magnifico — esclamò. — Hai ragione. Non l'avrei riconosciuta. — Ho portato via una tonnellata di roba — disse lui, avvicinandosi al divano con due bicchieri in cui tintinnava il ghiaccio. — Ho ritrovato perfino i bicchieri.
Lei studiò la bassa libreria vicino alla scrivania: libri e testi tecnici, alcuni con la copertina della Carnegie-Mellon. C'era anche Il verme nella mela. I Beatles s'interruppero quando lui spense lo stereo. Lei sorrise, gli si avvicinò. Si sedettero sul soffice divano di pelle, ginocchio contro ginocchio, mano nella mano. I bicchieri si sfiorarono. Bevvero, sorridendosi con gli occhi. Posarono i bicchieri su piattini di lucite. Lui le prese le mani, la guardò negli occhi. — Per prima cosa — disse — ti amo. — Si protese, baciò le labbra che venivano incontro alle sue. — Ecco perché voglio dirti questo. Ricordalo, ti prego. Andrai in collera, e molto, te lo assicuro. Quindi ricordati che te ne parlo perché ti amo. Tu mi hai detto una volta che potevo dirti tutto; ho intenzione di prenderti in parola. — Se hai moglie e figli — ribatté lei — ti riduco in polpette. Dico sul serio. — No, no — disse lui, scuotendo la testa. — No... — Inspirò, abbassò gli occhi. Kay lo guardava. — La seconda cosa — riprese lui — è che ti ho raccontato un mucchio di bugie. — Alzò la testa per guardarla. — Nient'altro che bugie, in effetti. Kay mormorò: — Per esempio... Lui inspirò. — Non sono un programmatore di computer — rispose. — In senso professionale, voglio dire. So scrivere programmi, ho ideato quei giochi al tempo in cui andavo alle scuole superiori, ma tutte quelle storie sul lavoro da free-lance, sulla Price Waterhouse e sull'ABC, sono frottole. — Non sei il proprietario del palazzo — disse Kay. — Sì che lo sono — ribatté lui. — Quella era una delle cose vere, tutto quello che riguarda la mia famiglia, e il denaro... Kay, ascolta... — Gli occhi azzurri scintillarono, le mani strinsero le sue. — Supponiamo che ti dica che spaccio droga... non è vero, ma supponiamo che sia quello che ti dico. Tu che cosa risponderesti? Sul serio. Se te lo dicessi? Kay lo guardò. — Che cosa diresti? — insistette lui. — Si tratta solo di un "supponiamo". Davvero. Lei rispose: — Ti direi "Smetti subito. È sbagliato, è criminale, è pazzesco. Ringrazia la tua buona stella che non ti abbiano arrestato." — E supponiamo che io lo faccia, che smetta. Allora?
— Che vuol dire, allora? Lui rispose: — Che cosa faresti se io smettessi? Lei inspirò a fondo. — Cercherei di aiutarti a trovare un'occupazione onesta — rispose. — Cercherei di capire, e di aiutare te a capire, perché hai fatto una cosa tanto stupida e rischiosa. E di aiutarti... a non ricascarci. — Chiameresti la polizia per denunciarmi? — domandò lui. — Certo che no — rispose Kay. — Non essere sciocco. Ti amo anch'io, ricordi? Lui annuì. Si protese per baciarla sulla bocca. Lei si tirò indietro, liberò le mani. — Pete, tesoro, ti prego — disse — vieni al punto; non so che cosa diavolo aspettarmi. — Ci siamo — disse lui. Prese in mano un telecomando, accese delle spie rosse sul televisore e sul videoregistratore collegato. — Dimostrazione pratica? — fece Kay. — Hai afferrato al volo — rispose lui. Lo schermo del televisore s'illuminò: una pallina da golf che rotolava sul terreno verde. S'infilò in buca, e si levò un applauso. Lo schermo divenne scuro, sul videoregistratore si accese un'altra lucina rossa. Lei prese il bicchiere. Disse: — Vorrei poter... — Apparve un soggiorno in bianco e nero, visto dall'alto, un uomo che si spostava qua e là raccogliendo fogli che frusciavano, piatti che tintinnavano. Kay posò il bicchiere. Guardò. Lui. In quella stanza. Che toglieva bicchieri vuoti dai piattini di lucite. Che sollevava il viso per sorriderle. — Ciao, Kay — diceva. Le mandava un bacio. Lei si girò verso Pete che la stava fissando con i suoi occhi azzurri. — Ciao, Kay — disse. Le mandò un bacio. Lei si girò, alzò gli occhi verso la plafoniera Art Déco con il centro cromato. Li spostò su di lui. — Non ci arrivo — disse. — C'è una telecamera lassù nell'intercapedine fra un piano e l'altro — spiegò lui, puntando il telecomando; il televisore si spense. — E un fascio di fibre ottiche che scende attraverso lo stelo del lampadario. Lei lo fissò socchiudendo gli occhi. — Perché? — domandò. — Sei della CIA? O dell'FBI? — No — rispose lui — ma è lo stesso materiale che usano loro. Takai,
giapponese, il migliore del mondo. Un ex colonnello della CIA mi ha aiutato a installare l'impianto, mi ha procurato tutto... Lei lo guardò. Ripeté: — L'impianto? Lui annuì. — È di questo che si tratta, Kay — rispose. — Un vero e proprio impianto. Tutti i lampadari sono collegati a telecamere. Compresi i tuoi. Lei lo guardò. — Ti ho osservata fin dal giorno che hai traslocato qui — le spiegò. — E ho ascoltato. Anche le conversazioni telefoniche, da tutt'e due le parti. Ecco perché ero così intuitivo e percettivo. Kay lo fissò. — Te lo avevo detto che ti saresti arrabbiata — disse lui. — Ho violato la tua privacy, è come se ti avessi violentata. Ma se non lo avessi fatto, saremmo qui adesso? Avremmo vissuto i momenti meravigliosi che abbiamo vissuto? E comunque non ti conosco davvero, non conosco di te più sfumature di chiunque altro? Anche se una parte dei dati l'ho ottenuta con l'inganno? Lei lo fissò. — Avevo deciso di lasciare che la nostra relazione si esaurisse — aggiunse lui — ma non posso. È troppo importante per me, ti amo troppo. E doverti mentire in continuazione, non poter dividere con te i miei segreti rovina tutto... — Scrollò le spalle, sorrise. — Così... Ora sono nelle tue mani, perché potresti dirlo in giro e cacciarmi in un mare di guai. Lei lo fissò. Distolse lo sguardo per rivolgerlo verso il bicchiere. Lo prese, con mano tremante. Bevve un sorso, facendo tintinnare il ghiaccio. Lui la guardò, allungando la mano di lato per posare il telecomando. Kay deglutì, posò il bicchiere e lo guardò. Gli chiese: — Sorvegli tutti? Lui annuì. — Sono attivate dalla luce? — domandò. — Come in Verso il domani? Con le guance rosee, lui annuì e sorrise. — Dio, come sei sveglia — disse. — Io ci ho messo anni per arrivarci. Certo, è così che è cominciato, ma adesso è tutta un'altra faccenda, che va molto più in là. Lei scosse la testa. — Non capisco... — Guardò il televisore spento. — Come? Come fai a... — Allargò le braccia. Pete si alzò in piedi. — Vieni, te lo farò vedere — disse. — È qui alla porta accanto. — Si chinò a prendere il bicchiere, bevve.
— Alla porta accanto? — ripeté Kay. Lui posò il bicchiere, si asciugò le labbra con il dorso della mano. — Anche il 13 B è mio — le spiegò. — I Johnson sono un'altra bugia. — Si allontanò, rimase in attesa. Kay lo guardò. Si alzò, appoggiando una mano sullo schienale del divano. Lo seguì fuori dell'appartamento. Oltre il pianerottolo. Lui aprì la porta chiusa a chiave del 13 B, la tenne aperta per lei. — Se pensi che di là fosse in disordine — disse — avresti dovuto vedere com'era qui dentro. La cucina era una cucina, appena rischiarata dalla luce del pianerottolo e da un riverbero verde proveniente dal passavivande. L'ingresso era verde pallido. Nel soggiorno, una lampada con il paralume verde era appesa davanti a un colossale mostro marino che occupava una parete intera, tutto squame lucenti grigio-verdi, steso su un ripiano di legno incurvato. Schermi televisivi, un'intera parete curvilinea coperta di schermi disposti su più file, con due giganteschi al centro. Più di cento schermi, scuri, ciascuno con un bagliore verde che sfarfallava di lato a mano a mano che lei si avvicinava e la luce diventava più intensa. Lui stava regolando l'intensità della luce alle sue spalle. File di pulsanti e interruttori sulla console ad arco. Una poltrona da scrivania nera di fronte al pannello di comando. Lei si fermò a qualche passo di distanza. Rimase ferma, lasciando scorrere lo sguardo sulle cinque o sei file di schermi, sulle cifre chiare in alto 4 A, 5 A, 6 A - e al centro: 6 B,7 B, 8 B... Lui si diresse alla sinistra della console e si voltò, fermandosi con una mano sul bordo arrotondato, guardandola. — Tre per ogni appartamento — spiegò — tranne questo. Più le telecamere della sicurezza: l'atrio, gli ascensori, eccetera. In tutto 130. Posso collegarle a uno qualsiasi dei due schermi principali. La distorsione viene corretta elettronicamente; quella che resta non si nota nemmeno. L'occhio si adatta quasi subito. Lei volse la testa, lo guardò. — Tre? — domandò. Lui annuì. — Tutti i lampadari, ho detto. Kay lo fissò sbalordita. — Lo so, è un po' di cattivo gusto — ammise lui. — Avevo dieci o un-
dici anni quando ho concepito il progetto, soltanto un'idea sulla quale mi piaceva fantasticare. Poi, al Wales, quando vidi che era possibile realizzarla sul serio, non mi è mai passato per la mente di non includere i bagni. — Sorrise. — In origine erano il punto cruciale. E poi, molte conversazioni si svolgono proprio lì. Lei lo guardò, inspirando a fondo. — Tu devi renderti conto — disse — che questa è la più... la più mostruosa, orrenda violazione della privacy che si sia mai potuta commettere! Non solo contro di me — si strinse le mani al corpo, protendendosi verso di lui. — Anche se, Cristo, dire che ami qualcuno e poi stare tutto il tempo a... mio Dio, non posso nemmeno... — Io ti amo davvero — ribatté lui, avvicinandosi. — Contro tutti! — esclamò lei. — Come puoi fare questo alla gente? È spaventoso! — Guardò gli schermi. — Mio Dio... .— Loro non sanno — disse lui. — Questo non conta! — gridò Kay. — Sì che conta — replicò lui, standole vicino. — Ti ha ferito il fatto che ti guardassi? — Mi ferisce adesso! — Perché adesso sai! Senti — la prese per le spalle — non discutiamo, mi aspettavo che avresti reagito così. Ho intenzione di smettere. — La tenne ferma, guardandola. — Se devo scegliere fra questo e te — le disse — scelgo te. Voglio smettere. È finita. Basta. Si guardarono. — Sarà meglio che tu lo faccia — disse lei. — Tutto questo deve violare almeno una dozzina di leggi. E se gli altri inquilini lo scoprissero finiresti sul lastrico, per quanto denaro tu abbia. — È questo che intendevo, parlando di un mare di guai — disse lui. Si lasciò sfuggire un sospiro. — Mi spiace di averti ferito — disse. — Non ti ho mai visto fare niente che non fosse bello, né sentito dire niente di sciocco. — Hai visto cadere Hubert Sheer? — chiese lei. — No — rispose. — E non l'ho visto neanche dopo. Non si può vedere dentro le docce, l'angolazione è sbagliata. C'è il riverbero sulla porta, e tutto quel nero peggiora le cose. Guarda. — La lasciò andare, si voltò e si protese oltre lo schienale della poltrona. — No — disse lei. Con la mano tesa verso la console, lui si girò a guardarla, sfiorando con la testa il paralume verde. — La mia — disse — non quella.
Kay ribatté: — Ti credo sulla parola. Lui si raddrizzò e si voltò, fronteggiandola. — Non lo guardavo quasi mai — disse, mentre i bagliori verdi sugli schermi entravano in agitazione. — Leggeva sempre. Credevo che fosse partito per il viaggio di cui parlava e avesse lasciato le luci accese per sbaglio. Capita. — Inspirò a fondo. — L'unica morte che ho visto — aggiunse — è stata quella di Billy Webber quando è stato stroncato da un'overdose. C'erano due ragazze con lui, ecco perché stavo guardando, che hanno chiamato l'ambulanza appena lui ha cominciato ad avere le convulsioni. Non ero in casa quando sono morti Brendan Connahay e Naomi Singer, e non c'è nessuna telecamera nel punto in cui Rafael, il tuttofare che ha preceduto Dmitri, ha avuto l'incidente. Lei domandò: — Hai spiato anche Sam? — Sì — rispose. — Lui non lo sa. Vedi, si dà il caso che abbia fatto molta beneficenza, e non soltanto a lui. Aiuto la gente a cavarsela, in senso finanziario e anche in altri modi, a volte tramite la fondazione, a volte semplicemente con assegni spediti per posta. Famiglie intere. La nipote di Maggie Hoffman aveva bisogno di un trapianto di fegato, a Shreveport. La madre è una donna meravigliosa, con un gran coraggio, sola e al verde; le ho mandato il denaro. Due settimane fa. Lei scosse la testa. — È sbagliato — disse. Lo guardò. — Sbagliato. — Per questo voglio smettere — ribatté lui. Le cinse la vita con le mani, le sorrise. — La mamma dice di no e io faccio il bravo bambino, okay? — La baciò sulla guancia. — Non posso buttare tutto nella spazzatura — disse — perché sarebbe un po' difficile spiegare da dove proviene tutta questa roba, ma quello che farò sarà chiamare un fabbro per fargli cambiare la serratura, e tu terrai le chiavi. C'è anche un ingresso segreto, attraverso gli armadi a muro; te ne parlo per dimostrarti che sono in buona fede, tu non te ne saresti mai accorta. A quello puoi mettere una serratura a combinazione. E così sarà finita. Preparerò qualche programma, o magari mi laureo. Lei lo guardò. — È peggio che spacciare droga? — chiese lui. — Parli sul serio? — domandò Kay. — A proposito delle serrature? Sì — confermò lui. — Te l'ho detto, scelgo te. Si guardarono. Si abbracciarono, si baciarono. Con la guancia contro la sua, tenendolo stretto, lei sospirò e scosse la testa, guardò gli schermi alle spalle di Pete. — Anche il dottor Palme? —
domandò. — Sì — rispose lui.— Capisci quello che volevo dire a proposito di dover mentire tutto il tempo? — Dio... — mormorò lei, guardando gli schermi dal baluginio verde. — Spiare i pazienti in terapia significa toccare il fondo... — Loro non lo sanno — ribadì lui. Lei si tirò indietro, lo scrutò con attenzione. — Ed è questa la tua occupazione, da tre anni? — È lo spettacolo più affascinante che esista, Kay — rispose lui. — Drammatico, ricco di suspense, triste, comico, sorprendente, educativo... Lei gli sfiorò la guancia, scrollando la testa. — Teleromanzi in diretta — commentò. — No, vita — ribatté lui. — La realtà, il teleromanzo che guarda Dio. O una sua scheggia, almeno. Niente attrici, niente attori, niente registi. Niente sceneggiatori e revisori. Niente spot pubblicitari. Ed è tutto vero fino all'ultimo respiro, non una versione soggettiva della verità... come tutti i libri che hai letto tu. — Figlio di puttana... — Lei si liberò dal suo braccio, fulminandolo con lo sguardo. — Stai cercando di tirarmi dentro... — Guarda solo per un'ora — replicò lui, cercando di toccarla. Kay respinse la sua mano, si diresse verso l'ingresso. — Domani il fabbro — disse. — Domani? — ripeté lui, seguendola. — Domani — ribadì, aprendo la porta. — Lavorano anche la domenica. — Uscì sul pianerottolo. — Cristo — mormorò. Si avvicinò allo specchio, si aggiustò i capelli. Lui uscì, chiuse la porta, la controllò. — Sei davvero un bel tipo — esclamò Kay. — Mister Sincerità, Mister Ora-sono-nelle-tue-mani, e intanto fa propaganda al suo sistema per guardoni. Se penso alle conversazioni che hai ascoltato, per non parlare del bagno... — Ho chiesto scusa — ribatté lui. — Che cosa vuoi che faccia, che strisci per terra? Ho una cosa magnifica che voglio mostrarti. — Me l'hai già mostrata — disse lei, tormentando il collo del maglione. — Dio santo, quanto hai speso per questa follia? — Incluse le bustarelle — rispose lui — e senza contare la messa in opera, un po' più di sei milioni. Lei lo guardò nello specchio. — È un vero e proprio peccato — osservò.
— Il valore dell'edificio è salito di dieci milioni — replicò lui. — Ci ho guadagnato. — Questo peggiora le cose — disse lei. — Ma mi conferma nell'idea di chiudere bottega. — Si voltò, si avvicinò agli ascensori, premette il pulsante e lo guardò. — Non voglio che mi guardi, stasera — gli disse. — Non lo farò — rispose lui, alzando una mano. — Né che guardi nessun altro — aggiunse Kay. — Oh, andiamo — fece lui. — L'ultima sera? E un sabato sera, per giunta? Si guardarono. — Ripensandoci — disse Kay — forse sarà meglio che io guardi te. Va' a spegnere le luci. Dormirai a casa mia. Lui si diresse verso il 13 A, sorridendo. — Non fare una faccia così compiaciuta — disse lei. — Sono davvero arrabbiata con te. — Dal punto di vista legale è ancora una zona grigia — disse Pete, disteso a cucchiaio dietro di lei, con le mani strette sui suoi seni e la guancia appoggiata ai suoi capelli. — Soprattutto quando la telecamera si trova al di fuori dei locali ceduti in locazione, come in questo caso. Sono molto informato sulle questioni relative alla privacy; la coppia del 10 B fa parte dell'ACLU. — Santo cielo — esclamò lei — e tu spii l'ACLU? — È per quello che li ho accettati — rispose lui. — Immaginavo che mi avrebbero tenuto aggiornato. In realtà si sono rivelati piuttosto sconcertanti, per essere avvocati. — Buona notte, Pete — disse lei. — Buona notte, Kay — le rispose. Si strinsero ancor più, rimasero in silenzio. Felice cambiò posizione, girandosi contro i loro piedi avvolti nelle coperte. — Fra parentesi — riprese lui — questo era il terzo edificio di appartamenti sul quale il colonnello lavorava. E ha lavorato anche in un albergo. Rimasero distesi in silenzio. — Qui a New York? — chiese lei. — Non ha voluto parlarne. — Dio, sono contenta che sia così corretto. — Salvo che il sistema dell'albergo è computerizzato; mostra soltanto le stanze dove c'è movimento. Riesce perfino a distinguere fra una persona
sola e due. Qui si tratta di noccioline. — Noccioline immorali. Rimasero distesi in silenzio. — Andiamo... — insistette lui. — Mezz'ora sola, e poi chiamiamo il fabbro. Niente bagni. Niente Sam, se per te è un problema. — Buona notte, Peter — disse lei. Rimasero distesi in silenzio. — Non si tratta solo di guardare — riprese lui. — Si tratta di mettere l'una accanto all'altra situazioni diverse, oppure sovrapporre l'audio di un appartamento al video di un altro. Si ottiene ogni sorta di... contrasti e armonie. A volte è come suonare un organo. Un organo fatto di persone. — Vuoi stare zitto e metterti a dormire? — Buona notte — disse lui. La baciò sul collo. Rimasero distesi in silenzio. Il soffitto fu scosso da un colpo. — Accidenti — esclamò lei — ma che cosa combinano, lassù? — Niente che ti riguardi — ribatté lui. — Oh, al diavolo... La baciò sul collo. 8 — Mezz'ora — disse Kay. Lui aprì con la chiave la porta del 13 B e, allungando la mano all'interno, accese la luce dell'ingresso. — Spero che ci sia qualcosa di buono — disse, tenendole aperta la porta. — Può darsi che ci tocchi soltanto qualche tifoso dei Jets. — Mi era sembrato di capire che fosse una fonte perenne di attrazione — replicò lei, entrando. — Le domeniche di bel tempo non sono la fascia di programmazione migliore. Ed è il weekend del Ringraziamento, non dimenticarlo. Molti sono andati a trovare le famiglie. Lei si fermò al limite del soggiorno buio, tendendo la mano verso il punto in cui si trovava anche il suo interruttore. Premette, e la lampada con il paralume verde si accese, illuminando la console, gli schermi grigi. — Vado a prenderti una sedia... Lei rimase in piedi a osservare la curva a tutta parete di schermi dai bagliori verdi, sei file dalla console fin quasi al soffitto, con una fila sola al di sopra e al di sotto degli schermi giganti al centro; sei file di schermi ai lati,
con le cifre chiare che splendevano in alto e nella fascia centrale, da due a undici sulla sinistra, da dodici a ventuno sulla destra, gli interni A in alto, quelli B in basso. Si avvicinò, infilando le mani nelle tasche dei jeans. Si fermò dietro lo schienale della poltrona a guardare le schiere di levette e di pulsanti appaiati sulla console, disposti secondo uno schema e muniti di targhette che li abbinavano agli schermi. Una fila centrale di manopole e interruttori più grandi; ancora più in là, incassati nel laminato nocciola, due videoregistratori. Un orologio incorporato nel ripiano della console - cifre azzurre, 12:55 un telefono, un blocco per appunti. Una coppa piena di gelatine di frutta. Colori ghiotti. La porta si chiuse. Lei guardò il riflesso pallido di Pete negli schermi uno e due, quelli centrali, mentre si avvicinava tenendo davanti a sé una sedia bianca a schienale alto, e la metteva alla sua sinistra. — Hai registrato me? — gli chiese, voltandosi. Lui posò sul pavimento una delle sedie del tavolo da pranzo, rivestita di pelle bianca; la tenne inclinata all'indietro, guardandola. — Sì — rispose. — La sera che hai traslocato, mentre eri nella vasca da bagno, ma era così buio che non si vede quasi niente. E poi noi due, quel primo sabato sera. Lei distolse lo sguardo. — Non posso crederci — disse. — L'ho avviato quando sono sceso a prendere lo champagne — disse lui, sorridendole. — Per ogni evenienza. Chi vorrebbe perdersi un grande avvenimento? Non costringermi a cancellarlo; è più che sicuro, e pensa che divertimento sarà, quando saremo vecchi. Probabilmente saremo l'unica coppia al mondo con una videocassetta della loro prima volta insieme. Kay lo guardò, inspirò a fondo. — Non ne dubito — disse. Si voltò e si sedette. Lui orientò la sedia verso gli schermi, si chinò su di lei e la baciò sulla nuca. Andò ad attenuare la luce della lampada con il paralume verde; la controllò, l'abbassò ancora. — Ho qui della soda e dei liquori — le disse. — Vuoi bere qualcosa? Lei scosse la testa, abbassando lo sguardo sulle mani, stropicciandosele nervosamente. Lui venne a sedersi sulla poltrona, la fece scorrere sul pavimento verso la console. Accese una spia rossa, che produsse un ronzio proveniente dal
retro dell'appartamento. Kay si raddrizzò sulla sedia a schienale rigido, accavallò le gambe e incrociò le braccia. Nella luce pallida, guardò la mano di lui che scorreva nell'ombra, facendo scattare la fila di levette più vicina a lei. — Ci vorrà un secondo — le disse. — Escluderò i bagni e l'appartamento di Sam. — Che cos'è questo ronzio? — chiese lei. — L'alimentatore. — La sua mano si mosse a ritroso, facendo scattare una fila più lontana di levette. — Il voltaggio dev'essere abbassato e convertito da corrente alternata a continua. Qui dentro ci sarebbe troppo calore e troppo rumore con un trasformatore separato per ogni schermo. Ne ho uno grande sul retro che si allaccia direttamente alla rete di distribuzione. — Fece scattare gli interruttori di destra. — Chiuderò la porta, se ti dà fastidio. — Va bene così — rispose lei. Guardò la sua nuca. — Sarebbe davvero magnifico.— osservò — se dedicassi tanti sforzi e tanta ingegnosità a qualcosa di importante. — Dammi tempo — ribatté lui. — Ho altri progetti in mente. Okay... — Si girò in avanti, azionò alcuni interruttori. — Benvenuta nella vera età dell'oro della televisione... Gli schermi sbocciarono azzurrini su entrambi i lati, mostrando file di stanze. La terza fila dall'alto rimase buia, e così pure la fila in basso, tranne gli schermi posti sotto quelli grandi: l'ingresso dell'edificio, l'atrio, lo stanzino della posta, i due ascensori. — Controlliamo Felice — disse Pete, sfiorando alcuni pulsanti. Gli schermi centrali si aprirono su una visuale a 360 gradi del soggiorno e della camera da letto di Kay. — Oh mio Dio — mormorò lei. Lui toccò delle manopole sulla console. Lei guardò i mobili, i tappeti, la copia del Times sparpagliata in camera da letto, i libri, le piante, i soprammobili. — Ti abituerai alla prospettiva — pronosticò lui. — Eccola qui. Ciao, Felice. Felice stava passando accanto al letto sullo schermo di destra, e il giornale le scricchiolava sotto le zampe. Si diresse verso la finestra, spostandosi nella parte alta dello schermo, saltò sul davanzale. Si stese al sole, sollevò una zampa posteriore, se la leccò. Kay sorrise nella luce azzurrina, sciogliendo le gambe accavallate. — Oh, merda, me n'ero dimenticato — disse lui — avremmo dovuto a-
spettare fino alle tre. Ruby avrà una seduta, e sarà interessante. Ruby Clupeida, quella del profumo. — Toccò un pulsante davanti a lei, uno davanti a sé. — È una seguace dello spiritismo. — Sullo schermo di sinistra, Arpège, in caffettano scuro, accostò una sedia a un tavolo rotondo. — C'è un medium che la sta raggirando da mesi — spiegò. — L'ho visto controllare gli appunti in bagno. E lei si è finalmente insospettita e farà venire un esperto. Lui fingerà di essere il socio in affari del padre, che è morto e comunica con lei. — Che bei mobili — osservò lei. — Stile Giacomo I. — Eredità — spiegò lui. — La madre le ha fatto causa per riaverli. Sostiene che Ruby li ha presi senza autorizzazione. — Immagino che non sia un travestito. — No. — Lui sorrise, scorrendo i monitor con lo sguardo. — È stato buffo, quando mi hai detto che lo sembrava, perché mi avevi appena chiesto di Vida, che lo è, più o meno. — Che cosa? — esclamò Kay. — È un transessuale nella fase pre-operatoria — spiegò lui. — Ha fatto il trattamento ormonale, ma quando è venuto il momento dell'operazione vera e propria si è tirata indietro. È quasi un anno che litiga con il suo amante per questo. E non crederai mai... oh, bene, ci sono Jay e Lisa. — Toccò dei pulsanti. — I Fisher, 4 A. — In un soggiorno stile high-tech sullo schermo di destra, una donna bruna e attraente che Kay aveva visto in ascensore stava in piedi a guardare fuori della finestra, in pigiama. Un uomo in pigiama stava accovacciato davanti al televisore, regolandolo. — È bellissimo, fuori — disse Lisa Fisher. — Vai a fare una passeggiata — disse Jay Fisher. — Chiama Ben, per me va bene. — Oh, ti prego — disse Lisa Fisher — non ricominciare. Sullo schermo di sinistra, l'uomo col pizzo, interno 12, era seduto a una scrivania in un soggiorno arredato a metà. — David Hoenenkamp — disse Pete mentre i Fisher litigavano. — Un ex sacerdote, che ora lavora in pubblicità. Ha una sua agenzia, piccola ma di successo. Si è separato dalla donna per la quale aveva lasciato la chiesa. Ascoltarono David Hoenenkamp spiegare a un cliente per quale motivo rinunciava al contratto. I Fisher che litigavano. — Una nitidezza incredibile, non è vero? — commentò lui, offrendole le gelatine di frutta.
Lei annuì, prendendone un paio. — Takai — spiegò Peter. — Giapponese, il meglio che ci sia al mondo. — Posò di nuovo la coppa suH'l:07 azzurro, prese qualche gelatina anche lui. Guardarono gli Sweringen sull'uno, i Fisher sul due. Lui passava col sonoro dagli uni agli altri. — Ti assicuro che non è questione di soldi — stava dicendo Stefan, spostandosi in cucina — è il tempo. Ti rendi conto di quante settimane ci vogliono? — Ehi, che ore sono? — chiese Kay. Lui scostò la coppa... dalle 2:30. — Accidenti — disse. — Santo cielo — esclamò lei. Lui spense l'audio. Fece ruotare la poltrona verso di lei. Si guardarono. — E questo era niente, Kay — disse lui. — Non c'è quasi nessuno. Niente dottor Palme. Neppure sesso, per l'amor del cielo. Kay ribatté: — Non mi aspettavo certo che fosse noioso. — Dovresti vederlo fra qualche ora, quando tutti saranno tornati a casa. Lei si voltò, si protese verso di lui, gli prese le mani fra le sue. — Petey, è sbagliato — disse. — Per quanto possa essere interessante e... avvincente. E sai che significa guai seri, se qualcuno lo scopre. Potrebbe rovinare la tua vita. La nostra vita... Si guardarono. Lei disse: — È una cosa che devi lasciarti alle spalle. Non soltanto per noi. Per il tuo stesso bene. Lui sospirò, annuì. — Immagino di sì... — disse. Kay gli lasciò libere le mani. Lui girò su se stesso, aprì un cassetto, tirò fuori le Pagine Gialle. Aprì il librone tenendolo sulle ginocchia, girando di nuovo su se stesso. Sospirò, la guardò. Kay guardò lui. Sfogliò in fretta le pagine alla luce bianco-azzurra, trovò i fabbri. — Ehi, guarda quanti — disse, voltando le pagine. — Come farai? — domandò Kay. — Terry lascerà salire qui un fabbro, mentre i Johnson non ci sono? Lui la guardò. — E se chiami qualcuno al 13 A — continuò lei — cambierà la serratura qui? — Non ci avevo pensato — rispose Pete.
Lei disse: — Maledetto bugiardo... Lui alzò la mano destra. — Kay, ti giuro di no. Ero tanto ansioso di convincerti a guardare per un po'... — Si protese verso di lei. — Senti — le disse — non fa davvero nessuna differenza. Tutto quello che dobbiamo fare è bloccare questa porta in modo che non si possa aprire dall'esterno, inchiodare un'asse di legno al pavimento o qualcosa del genere, e tu puoi sempre mettere una serratura alla porta di servizio. Il risultato è lo stesso. — Le sorrise. — Potremo fare dei giochi in cui tenterò di indurti a rivelare la combinazione. Se ci riesco, tu la cambi. Lei restò seduta un attimo a fissarlo. Scosse la testa. — No — disse. — Ho cambiato idea. Non voglio fare la mammina che si prende cura di te tutto il tempo. Non è questo il tipo di rapporto che voglio. Tu sei adulto, Pete, dovrai prenderti la responsabilità delle tue azioni. Sai come la penso a questo proposito. Se vuoi davvero una relazione duratura, dovrai smettere da solo. Lui sospirò, la guardò. — Il metodo dell'onore? — chiese. — Sì — rispose Kay. Lui annuì, chiuse l'elenco telefonico, fece ruotare la poltrona, lo rimise sulla console. — Hai ragione, naturalmente. — Si girò di nuovo verso di lei, sorridendole. — Tu vuoi cambiarmi sul serio... — Le prese le mani, si chinò a baciarle. Restò seduto a guardarla, con gli occhi di un azzurro più intenso nella luce bianco-azzurra. — Lo farò — disse. — Mi dedicherò a uno di quegli altri progetti. Per la verità ne ho già avviato uno, per così dire. Ci sono un paio di faccende in corso, qui, a cui sono molto interessato, quindi non posso giurare che smetterò di punto in bianco, ma ho intenzione di diminuire e di smettere presto. Te lo prometto. — Lo spero, Pete — disse lei. — Lo spero proprio. Si avvicinarono, si baciarono. — E non guarderò più te, mai più — disse lui, liberando una mano, voltandosi. Azionò gli interruttori. Si oscurarono i monitor del 20 B, i penultimi nelle file di destra in basso. Le sorrise. — Te e Sam — disse. — Simmetrici. Lei si guardò attorno individuando gli altri schermi spenti, i penultimi nelle file di sinistra in basso. Voltandosi di nuovo, notò un nuovo movimento all'8 B. — È il medium — disse Pete. Premette i pulsanti. Tenendosi per mano, guardarono gli schermi principali. Ruby e un'altra donna scortavano nel soggiorno un uomo robusto vestito di scuro. Jay s'infilava un soprabito,
gridando contro Lisa che parlava al telefono, tappandosi con un dito l'orecchio libero. — Accendi l'audio — disse Kay. — Un minuto solo. Il lunedì mattina per prima cosa lei chiamò la sezione legale. C'era Wayne. Gli domandò come stavano Sandy e i ragazzi. Stavano benissimo. — Ho bisogno di qualche informazione sulle leggi che riguardano la violazione della privacy — disse. — In particolare, una situazione in cui qualcuno piazza una telecamera in un appartamento e lo affitta, con un regolare contratto, qui a New York. — Mentre l'affittuario è all'oscuro della telecamera. — Sì — rispose lei. — Anche il telefono è sotto controllo. Ho un manoscritto basato su questa situazione, e secondo l'autore è una zona grigia dal punto di vista legale. Ha ragione lui e, se è così, fino a che punto esattamente è grigia? — Non saprei dirtelo così su due piedi, non è il mio campo, ma sarò lieto di controllare per te. Posso dirti però che l'intercettazione telefonica, se non autorizzata, è un reato federale. — Lo pensavo anch'io — disse Kay. — Probabilmente anche statale. Ti richiamerò per la telecamera. Non dovrebbe volerci molto. — È fuori dell'appartamento — precisò lei. — Lui dice che questo è importante. C'è un fascio di fibre ottiche che passa attraverso il lampadario sul soffitto. — Tutto questo a scopo d'affari? — No — rispose lei — si tratta solo di voyeurismo. — Ah. E l'eroina si trasferisce nella casa. — Come hai fatto a indovinare? — ribatté lei. Pregò Sara di passarle Florence Leary Winthrop e di bloccare tutte le altre chiamate tranne Wayne. Mezz'ora dopo pregò Florence di attendere in linea. — Wayne? — Sì. Il tuo scrittore ha ragione. Non esiste ancora nessuna legge del codice penale federale o statale che proibisca la sorveglianza elettronica visiva di per sé. Il padrone di casa potrebbe essere soggetto a una causa civile se il locatario lo scoprisse, ma l'unico reato penale di cui dovrebbe rispondere, a parte l'intercettazione telefonica non autorizzata... che comporta una pena di cinque anni, fra parentesi... sarebbe un'infrazione alla legge statale contro il voyeurismo, un'accusa molto blanda. E anche questa sa-
rebbe opinabile. — Mi sorprende — disse lei. — Anche me. Forse c'è qualche progetto di legge all'esame in parlamento. La migliore fonte di informazioni su questo punto dev'essere probabilmente l'ACLU. Lei lo ringraziò e si scusò con Florence. — Te lo avevo detto — osservò Pete quella sera, sorridendo. — Sono molto informati e non la smettono mai di blaterare. Due avvocati. — La pena per l'intercettazione telefonica non autorizzata — disse lei — è di cinque anni. — Lo so — rispose lui. Erano al Table d'Hôte, un piccolo ristorante sulla Novantaduesima Strada. Tutti e otto i tavoli d'antiquariato erano occupati da coppie o gruppi di quattro persone, tranne uno; il livello di rumore della conversazione e della posateria era elevato. Loro due erano seduti a un tavolino rotondo in un angolo, ginocchia contro ginocchia, e bevevano vino bianco, imburrando fette di pane marmorizzato. — Ormai non posso smontare l'impianto di intercettazione — disse lui. — Non senza sfondare il soffitto del seminterrato. Ma nessuno lo scoprirà mai. E mi sto davvero disintossicando. Oggi non ho guardato affatto... non che il lunedì sia granché. Di giorno, voglio dire. I lunedì sera invece sì. Stanno tutti in casa. — Che cosa hai fatto? — chiese Kay. — Un po' di lavoro al computer sul mio progetto — rispose. — E te lo dico fin d'ora, è una questione di cui preferirei non parlare finché certi dettagli non saranno definiti. So che mi capirai. — Naturalmente — disse lei. — Non volevo essere indiscreta. Ero solo curiosa di sapere come hai passato la giornata. Dev'essere stata dura non guardare. Ieri continuavo a pensarci, è incredibile come sia ipnotico. — Perché è reale — disse lui. — È la stessa differenza tra vedere delle macchine che si ammucchiano l'una sull'altra in un film e un incidente vero sulla strada. — E non si sa mai quello che succede dopo — rincarò lei. — Appunto, è questo il bello — disse lui. — L'assoluta imprevedibilità, e la varietà. Lei sospirò, sorseggiò il vino. — Vorrei proprio che non fosse così sbagliato. — Lo considerano sbagliato — ribatté lui — ma non fa del male a nes-
suno, e scommetto che non esiste nessuno che non vorrebbe guardarlo per un po'. Lei lo fissò. — Mai più — disse. — Lo so — disse lui. — Te l'ho detto, oggi non ho guardato per tutto il giorno, e uno dei pazienti più interessanti del dottor Palme viene di lunedì. Il cameriere dispose davanti a loro dei piatti vittoriani guarniti con gusto. Pesce spada alla griglia, salmone bollito. Deliziosi. Si scambiarono dei bocconcini. Mmm. Lui le parlò di alcuni pazienti del dottor Palme. Entrò nel locale la coppia di stangoni dell'appartamento 17; uno dei camerieri li accolse, li pilotò verso un tavolo libero a due tavoli di distanza da loro. — I Cole del 17 A — mormorò lui. — I maniaci sessuali più spinti del palazzo. — Non siamo noi? — disse Kay. — Noi? Neanche per sogno. Noi siamo al quinto o sesto posto. — Ma in ascesa. Sulla via del ritorno si fermarono alla drogheria coreana all'angolo, circondata da cassette di fiori, a comprare succo d'arancia e mele per lei, latte, uva e caffè per lui. Pete lasciò cadere il resto nel bicchiere di carta di un mendicante vestito di stracci. Attraversarono la Novantaduesima Strada, aspettarono il verde al semaforo. Alzarono gli occhi verso lo svettante edificio illuminato da una luce rosea, con le file gemelle di finestre scintillanti che splendevano fino alla sommità buia. — È una strana sensazione — disse Kay stringendosi al suo braccio e alzando lo sguardo — conoscere le persone dietro quelle finestre... — Immagino che sia la stessa che provavi al tuo paese — disse lui, sorridendole. — Oh, certo, esattamente la stessa... Si sorrisero. Sporsero le labbra, si baciarono. Attraversarono il viale. Walt, nella divisa invernale marrone, tenne il portone aperto con la mano mentre loro si avvicinavano. — Salve, Walt — dissero. — Signorina Norris, signor Henderson... Attraversando l'atrio, lui le disse all'orecchio: — Ha una relazione con Denise Smith del 5 B. — Davvero? — Si dà un gran daffare. — Premette il pulsante di salita; guardarono
Walt all'esterno, mentre apriva lo sportello di un taxi. — È la voce che le attira — spiegò lui. — Cantava all'Opera, nel coro. Lui e Ruby hanno avuto una storia l'anno scorso, ma Walt ha rotto. Lei gli faceva portare a spasso Ginger in continuazione. Una coppia latte/cioccolato entrò con le buste degli acquisti natalizi di Lord & Taylor. Tutti si scambiarono cenni di saluto, sorrisero. Pete disse: — È la stagione. — Sì, proprio così — convenne l'uomo, sorridendo. Arrivò l'ascensore numero uno. Salirono in silenzio. Dopo che la porta si fu richiusa al settimo piano, lui disse: — Bill e Carol Wagnall. Molto interessanti. — Ne sono sicura — disse lei. Uscirono al tredicesimo piano per depositare la spesa di lui. — Soltanto un po'? — propose. — Pete — disse lei — lo sai che cosa succederà... Si guardarono. Kay disse: — Non nego che mi piacerebbe... — Loro non sanno — ribadì lui. Lei scosse la testa. — Cristo — esclamò. — Vieni, su — disse lui. — Fisseremo un'ora ragionevole e la rispetteremo rigorosamente. Ho detto che non avrei smesso di punto in bianco, no? Un'ora sola. Ma sul serio. Punteremo la sveglia. Lei sospirò. — D'accordo — disse. — Ma sul serio. Un'ora sola. Misero la sveglia. Si allenarono insieme al Vertical Club, combattendo fianco a fianco con la macchina dei bicipiti. Fecero alcune vasche nella piscina. Andarono con Roxie e Fletcher a vedere un successo dell'off-Broadway. Non lo apprezzarono granché, anche se a Roxie e Fletcher piaceva. Roxie li invitò a salire per bere il bicchiere della staffa; declinarono l'invito. Anche un bambino di cinque anni ci sarebbe riuscito. Toccavi il pulsante in alto del 10 A, poi il pulsante uno nella fila centrale, ed ecco fatto, sullo schermo numero uno appariva il soggiorno del 10 A. Anne Stangerson che si tappava le orecchie rifiutandosi di ascoltare una vecchia che leggeva un foglio di carta, la madre che leggeva il suo testamento in vita. Guardarono per qualche minuto, poi passarono al sonoro dello schermo due: la coppiar'bionda del 14 B, Glenn e Daisy Gruen, nudi a letto con un
libro e una calcolatrice, per stabilire il momento migliore perché Daisy restasse incinta. Lei prese per sé i monitor di sinistra e lo schermo uno, lui i monitor di destra e il due. Trovarono contrasti e armonie; suonarono duetti sull'organo fatto di persone. Kay era alla finestra dell'ufficio, appoggiata al davanzale con le braccia incrociate, e guardava la lucente colonna di auto spazzate dalla pioggia. Sospirò, alzò gli occhi. Una donna affacciata alla finestra di fronte la guardò. — Kay — disse Sara — c'è qualcosa che non va? Lei si voltò, sorridendo. — Il solito — rispose. —Gente senza casa, delitti per la droga, il debito pubblico... Durante una giornata di lavoro in casa Kay scese per dare un'occhiata al dottor Palme. Dietro la console c'erano due poltrone nere. Guardarono il dottor Palme con Nina. E Dick. E Joanna. La Diadem aveva prenotato un tavolo a una cena danzante in abito da sera a favore dei Literacy Volunteers of America, nell'auditorio Celeste Bartos della biblioteca sulla Quarantaduesima Strada. A bordo del taxi che li portava lungo la Quinta Avenue, indossando una pelliccia ecologica e velluto color vinaccia ricamato di perline, Kay disse: — Sul serio, devi prepararti a occhiate, forse anche battute sporche. È già successo. Gli uomini più anziani diventano maligni, specie quando la donna non è un mostro. È un istinto animale, i cervi adulti che fanno a cornate. — Vuoi smetterla di preoccuparti? — ribatté lui. — Coppie in cui la donna è più vecchia dell'uomo ce ne sono dappertutto. Guarda Babette e Allan. — Solo cinque anni, diamine — esclamò Kay. — Rilassati — suggerì lui. — Saranno tutti gentili. Ci scommetto un massaggio. Lei si girò verso il finestrino. — D'accordo... Il traffico procedeva lentamente, passando davanti all'albero del Rockefeller Center. Uno spettacolo mozzafiato, quando lo superarono a passo di lumaca, con lo sfavillio di luci in fondo al piazzale, la fila di angeli vestiti di mussola che sollevavano le trombe dorate... Nell'atrio all'ingresso della sala, lei lo prese per mano: — Ecco che si
comincia — e lo guidò verso una coppia con i capelli grigi in fondo a una delle file per il guardaroba. — Salve — disse. — Questo è Peter Henderson. Pete, June del Vecchio, Norman del Vecchio. — Salve! — esclamò June, stringendo la mano di Pete, sorridendogli. — Salve — disse Norman, stringendo la mano di Pete, sorridendogli. — È un piacere conoscervi — disse lui. — Kay mi ha detto che siete attivi nella Civitas. Lo era anche mio padre; mi domando se lo avete conosciuto. John Henderson? Norman disse: — Della U.S. Steel? — Sì — rispose lui. — Lo abbiamo conosciuto, sì — disse Norman, sorridendo. — Che razza di seduttore era! — esclamò June. — Lei ha i suoi occhi, e il suo sorriso. — E che venditore! — aggiunse Norman. — Ci fece ottenere dei fondi da costruttori contro i quali ci eravamo battuti! — È meglio che tu stia in guardia, Kay — disse June — se Peter ha la stessa stoffa! Lei sorrise. — Grazie dell'avvertimento — rispose. — Di cosa si occupa, Peter? — chiese Norman. — In passato mi occupavo di programmazione al computer — rispose lui. — Al momento sono in una fase di transizione. — Ha mai pensato di lavorare nell'editoria? Ci farebbe proprio comodo un po' di sangue nuovo. Ecco che arriva quello vecchio. Jim, vieni a conoscere Peter Henderson. Prima di cena furono serviti dei cocktail nella Astor Hall. Furono tutti gentili. Stuart aveva esaminato il materiale di Sam e la ringraziò. — È il genere che preferisco — le disse. — Lui dovrebbe venire la settimana prossima. Se ci metteremo d'accordo, gli offrirò un piccolo anticipo. — Oh, bene, mi fa piacere— esclamò lei. — È fantastico — disse Pete. — Lo conosci anche tu, Pete? — chiese Stuart. — Quanto basta per salutarlo in ascensore — rispose. — Abitiamo tutti nello stesso palazzo. Wendy, sorridendo, disse: — Sarebbe lei, per caso, il misterioso proprietario? — No — rispose lui, sorridendo a Kay. — Non siamo ancora riusciti a scoprire chi sia. I candidati favoriti sono una coppia di avvocati.
La cupola di vetro dell'auditorio - con sostegni d'acciaio e bordata di lampadine, una nave spaziale uscita da un libro di H.G. Wells - era illuminata dall'alto da una luce rosa che sfumava nel violetto. Sotto, i tavoli erano porpora e viola, apparecchiati con porcellane bianche e oro, decorazioni floreali rosa e viola, alte candele rosa. Un gruppo di quattro elementi suonava musiche di Sondheim e Porter. La conversazione al tavolo della Diadem verteva sul traffico e sulle infrastnitture cittadine fatiscenti, sulle strategie d'investimento dei giapponesi, sulla dieta salutista, sui testamenti in vita. Dopo la faraona, Norman disse: — Kay? — Lei sorrise a Pete, seguendo Norman sulla pista da ballo. Salutarono qualcuno; tenendosi a distanza, ballarono al ritmo di Let's Do It. — È insolitamente percettivo. E anche ben informato. — Non è vero? — disse lei. — Spero che sia più stabile emotivamente di suo padre. Si è sposato quattro volte, mi pare. Sempre con attrici. Mi domando... Ballarono, stretti fra altre coppie. — Che cosa? — domandò lei. — Una di loro è morta per una caduta — rispose Norman. — Dalle scale della loro casa di città. Chissà se era la madre di Peter. — Era proprio lei — rispose Kay. — Thea Marshall. — Una scala di marmo, stando alle voci. — Le voci? — Pete, che ballava a qualche coppia di distanza, le strizzò l'occhio al di sopra dei riccioli grigi di June. Lei gli sorrise. — Salve — disse Norman rivolto a qualcuno. — Oh, un sacco di pettegolezzi che si sono fatti all'epoca... quando è stato, dodici o tredici anni fa? Era in corso una festa, quando è successo. Lei portava delle valigie, ecco qual è stata la fregatura. Si stava precipitando a prendere l'aereo... voleva tornare a casa per Natale, un impulso dell'ultima ora. È quello che ha raccontato Henderson in seguito. Lei veniva da un paese del Colorado. Be', secondo le voci, una delle valigie si è aperta quando è arrivata in fondo alle scale, e qualcuno ha visto costumi da bagno e vestiti estivi. — Pensa che potremmo fare uno scambio? — propose Pete, mentre June sorrideva al suo braccio, di fianco a loro. — Oh, certo — rispose Norman, lasciandola andare e prendendo June. — Uno scambio piuttosto vantaggioso, tutto considerato. — Pete fece scivolare il braccio intorno alla vita di Kay, sorridendole. June disse: — Non siamo galanti, stasera — mentre Norman la pilotava ballando tra la folla.
— Che cosa diceva a proposito di costumi da bagno e vestiti estivi? — chiese Pete, attirandola vicino, prendendole la mano, facendola volteggiare a tempo con la musica. Lei lo guardò, era attraente in smoking, con gli occhi azzurri che le sorridevano. Lui aggiunse: — È quello che mi è sembrato di sentire. — Non so — rispose Kay — non stavo a sentire... Lui la tenne stretta, premette la guancia contro la sua, la fece voltare. — Chi deve un massaggio a chi? — domandò. Ballarono nella folla di coppie, al ritmo di Easy To Lave, sotto la cupola di vetro dai sostegni d'acciaio con la luce viola che sfumava nel porpora. 9 Kay si era immaginata l'avvenimento in una specie di limbo collegato al lavoro; com'era orribile che fosse successo in casa, in un momento in cui era più che probabile che lui fosse lì ad assistere... prima di Natale, con un ricevimento in corso. Ci pensò di nuovo mentre guardava sullo schermo uno Lisa che preparava una valigia e sul due Maggie, la povera Maggie, che ne disfaceva un'altra. Lui era di là al 13 A per pagare il fattorino del Jolly Chan's, che stava salendo nell'ascensore numero uno insieme a Phil e ai McAuliff. I costumi da bagno e i vestiti estivi, se erano proprio la verità e non un'allucinazione di qualcuno, facevano pensare alla California. Il che faceva pensare a Sam. Il che faceva pensare a una spinta giù per le scale da parte di John Henderson. Aveva curato più di cinquanta romanzi neri, rammentò a se stessa. Nella vita reale le cadute fatali erano il più delle volte incidenti. Anche lungo scalinate di marmo. Loro avevano una casa a Palm Beach; forse era là che Thea Marshall era diretta, e John aveva detto che stava andando a casa solo perché sembrava la scusa migliore per una partenza a Natale. Anche se Thea senza dubbio doveva avere costumi da bagno e vestiti estivi nella casa di Palm Beach... La porta si aprì; lei si girò sulla poltrona. Vide Pete entrare con un sacchetto di carta marrone. Sorrideva: il sorriso di John Henderson. Il figlio di John. — Che cosa vuoi per primo? — le domandò, chiudendo la porta. — Quello che ti pare, caro — rispose sorridendo.
Lui sorrise nella pallida luce azzurrina, guardando alle sue spalle. — Carino — osservò. — La storia delle due valigie. Non te lo avevo detto che sarebbe tornata? — Andò in cucina. La luce filtrò dal passavivande. Lei si girò sulla poltrona. Guardò Lisa che tentava di chiudere la valigia, Maggie che riponeva la sua nell'armadio a muro. Fece ruotare la poltrona, andò in cucina. Lui voltò le spalle ai contenitori di cartone che stava svuotando sul banco. — Faccio io, tesoro — le disse. — Ho voglia di muovermi un po' — disse lei. Prese i piatti dalla rastrelliera, li dispose sul banco vicino a lui. — Mmm, che buon odorino — osservò. — Perché non mettono dei segni di riconoscimento su questi affari... — Sollevò la copertura metallica di un contenitore. Kay prese forchette e cucchiai dal cassetto, gli passò i cucchiai. — Le valigie mi hanno ricordato — disse — che Norman mi ha parlato della caduta di tua madre. Lui si voltò a guardarla. — Lui c'era? — domandò. — No — rispose Kay — ne ha sentito parlare. Sapevo che era morta così, me lo aveva detto Sam, ma non sapevo che fosse successo in casa. — Gli sfiorò il braccio, guardandolo. — Tu c'eri? — domandò. Lui annuì. — Mi aveva appena salutato — rispose. — Circa due minuti prima. Lei fece una smorfia, gli strinse il braccio. — Non ho visto niente — disse lui. — Ero nella mia stanza. — Sorrise. — A guardare Charlie's Angels. — Il sorriso svanì. — Tutt'a un tratto al piano di sotto si fece silenzio. C'erano molte persone, trenta o quaranta, e si fece un silenzio assoluto... — Trasse un respiro profondo e guardò il contenitore, sollevò il bordo con i pollici. — Penso che questi siano i gamberetti al curry — disse. Kay rimase vicino a lui, stringendogli il braccio, guardandogli le mani. — Dove stava andando? — domandò. — Dai miei nonni — rispose. — Nella Nuova Scozia. Ci sei mai stata? — No — rispose Kay. — Io nemmeno — disse lui. — Lei la dipingeva in toni piuttosto cupi. Qualche volta venivano loro a trovarci, noi non ci siamo mai andati. Lei lo baciò sull'orecchio, gli lasciò andare il braccio e prese un po' di tovaglioli di carta dalla scatola, mentre lui trasferiva nei piatti cucchiaiate di riso e gamberetti. — Che cosa preferisci da bere? — gli domandò. Lui socchiuse gli occhi, si morse le labbra. — Birra — rispose.
— Buona idea — disse Kay, posando sul vassoio forchette e tovaglioli. Andò al frigorifero, lo aprì. — Di che cosa è morto tuo padre? — domandò. — Di cancro al midollo osseo — rispose. — Quando te ne ha parlato Norman? L'altra sera? Lei tirò fuori due lattine di birra, richiuse lo sportello con il gomito. — No — rispose. — Ieri, in ufficio. È rimasto molto impressionato da te, lo sai? — Suvvia — ribatté lui — è rimasto impressionato dal mio denaro. — Da tutt'e due — concluse lei. Prese i bicchieri e portò tutto sul vassoio. Lui portò i due piatti pieni. Era sabato sera. Rimasero a guardare fino alle due e quattro minuti. — Che notte — commentò lei, sedendosi sulle sue ginocchia e abbracciandolo. Lui fece girare la poltrona mentre si baciavano, le fece descrivere un giro completo, per due volte. — Un sabato medio — ribatte. Lei si alzò e si stiracchiò, sbadigliando. Lui le accarezzò la schiena, si voltò, aprì una birra. — Voglio registrare gli Stein — disse — nel caso che Springsteen si faccia vedere davvero. — Non ci andrà — ribatté lei, abbottonandosi la camicetta. — Mark è un cacciaballe, non lo capisci? — Una volta Vladimir Horowitz c'è andato — replicò lui, togliendo la plastica a una videocassetta. — Ce l'ho su nastro. Ha parlato solo Lesley, però. — Registri molto? — chiese lei, raccogliendo piatti e tovagliolini dalla console. — No — rispose lui, accartocciando la plastica, estraendo la cassetta dal contenitore. — L'ho fatto nel primo anno o poco più, ma c'era sempre tanto materiale nuovo che non riuscivo mai a guardare. — Inserì la cassetta nel videoregistratore di destra, lo richiuse. — Ora ci penso soltanto quando c'è un grande avvenimento. — Premette dei pulsanti. — Come noi due — osservò lei, spazzolando nei piatti le briciole di torta di riso e cioccolato dalla console. — Giusto — disse lui, sorridendo. — E forse Springsteen. Spense tutto tranne il videoregistratore e la ripresa del soggiorno degli Stein. Riordinarono la cucina. Quando uscirono, lui portò fuori la spazzatura. Kay aveva dato appena un'occhiata a due dei manoscritti da discutere il
mercoledì pomeriggio, ma alla riunione se la cavò con disinvoltura. Anzi era stata più incisiva nei commenti, si disse scendendo in ascensore al quarantottesimo piano, proprio perché vedeva il bosco e non gli alberi. Sam era seduto a leggere nella zona della reception, con un cappotto posato sul divano al suo fianco. La guardò al di sopra degli occhiali da presbite; sorrise e si alzò, in velluto marrone, camicia a quadri, cravatta nera, i capelli grigi tagliati di fresco. — Salve! — esclamò, togliendosi gli occhiali e posando una copia del Publishers Weekly. — Salve, Sam! — rispose lei, avvicinandosi. — Stuart mi aveva detto che sarebbe venuto. — Mi faccia le congratulazioni — disse lui con la sua voce roca, stringendole la mano e sorridendo. — Sono un autore della Diadem. — Oh, è magnifico! — disse Kay. — Congratulazioni davvero! — Lo abbracciò. — Mi congratulo anche con noi — aggiunse. Lui le sorrise. Delle cicatrici chiare gli solcavano come una rete la guancia arrossata e il naso storto. — Stanno stendendo il contratto — spiegò. — Un anticipo subito e un altro quando saremo a metà strada. — Sapevo che gli sarebbe piaciuto — disse Kay. — Volevo ringraziarla. Lo invitò nel suo ufficio, fece portare due caffè da Sara. Si sedettero vicino alla finestra, su due poltrone disposte ad angolo. Sam fece scorrere lo sguardo lungo le pareti di vetro del palazzo di fronte. — Il paradiso dei voyeur — commentò. Kay sorrise, mescolando il caffè. Lui bevve un sorso del suo. — Stuart non potrebbe essere più perfetto — disse. — È cresciuto nell'industria del cinema. — È per questo che l'ho passato a lui — replicò Kay. — In parte per questo... e in parte anche perché è un buon editor con un certo peso qui dentro. — Le sono davvero grato — disse Sam. — Questa faccenda mi fa vedere le cose in un altro modo. Col senno di poi credo che sia stato uno sbaglio accettare il sussidio. Dalla fondazione, sa. — Bevve un sorso dalla tazza bianca con la corona azzurra a tre punte smaltata sopra. — Si può diventare terribilmente pigri e indulgenti con se stessi — aggiunse — quando i soldi per la spesa arrivano in ogni caso. Ora, a parte il fatto che ho cominciato a scrivere, e mi rendo conto che sto facendo dei progressi, insegno anche meglio di prima. — Le sorrise. — Comincio a fantasticare sulle mie future presenze nei talk-show e alla possibilità di rimettermi a fa-
re il regista. Lei sorrise. — È magnifico — disse. — Spero che si avverino. Bevvero il caffè. — Punteremo alla prossima primavera — disse Sam. — Ormai ho una cinquantina di pagine. Lei disse: — Le andrebbe di darmi qualcosa in cambio? — Dica pure — rispose lui, guardandola. — Una risposta a una domanda personale — disse Kay. Lui sorrise. — Perché no? Nel libro sono spaventosamente sincero. Faccia pure. — Quando Thea Marshall morì — disse Kay — stava venendo da lei? Lui si ritrasse, fissandola con gli occhi cerchiati di scuro socchiusi. — Che cosa le ha fatto venire questa idea, in nome di Dio? — O veniva a lavorare laggiù? — No — rispose lui. — Assolutamente no. Glielo avevo chiesto appena poche settimane prima e la conversazione era finita con lei che mi attaccava il telefono in faccia. — Sospirò, fissando la tazza. — Ci siamo presi e lasciati per più di vent'anni — aggiunse. — Per la maggior parte dei quali lei era sposata, con un marito spaventosamente ricco che non voleva lasciare. Su questo punto era onesta, almeno. Era cresciuta povera e andava in paranoia all'idea di morire così. Intuiva che con me c'erano buone probabilità di fare quella fine, bevevo già troppo. Mentre il marito era il presidente della U.S. Steel ed era quasi astemio. La sua non era stata neanche una brutta carriera. — Si raddrizzò sulla poltrona, scosse la testa. — No, non era tipo da correre rischi — concluse. — Stava tornando a casa, questo è quanto hanno scritto i giornali. Era della Nuova Scozia, i suoi erano pescatori. — Bevve un altro sorso di caffè. Guardandolo, lei disse: — All'epoca correva voce che avesse preparato i bagagli per un clima caldo. Sam la guardò. — Una delle valigie si è aperta quando lei è caduta. Lui domandò: — Dove l'ha sentito dire? — Da una persona della sua cerchia, o comunque vicina. Lui abbassò la tazza, tenendola con tutt'e due le mani. La posò. Restò immobile con lo sguardo fisso in avanti. — Figlio di puttana... — mormorò. Si grattò l'orecchio, la guardò. — I conti tornerebbero, sa? — riprese. — Lui aveva deciso di togliermi di mezzo. Ero convinto che avesse trovato qualcuna delle mie lettere, o forse
che lei gli avesse parlato di noi, alla fine. — Toglierla di mezzo? — ripeté lei. Sam annuì. — Una mia conoscenza che aveva contatti con la malavita mi aveva messo in guardia. Io non gli avevo creduto. Poi ho ricevuto questo avvertimento. — Indicò il naso e la guancia. — Così ho deciso che era il momento di viaggiare un po'. Ecco perché la mia carriera è finita. Il motivo principale, almeno. — Guardò nel vuoto davanti a sé. — Figlio di puttana — ripeté. — La sua mi era sembrata una reazione esagerata, ma se lei voleva lasciarlo, se stava venendo a raggiungermi... Kay lo osservò. Lui la guardò, sorrise. — Quelle voci sono vere — disse. — Se sentisse qualcosa in contrario, non me lo dica, per favore. Lei sorrise. — Sarò muta come un pesce — disse. — Bagagli per un clima caldo... — Costumi da bagno e vestiti estivi. — Ora le devo due favori — disse Sam. Lei gli domandò in quali paesi aveva viaggiato; mentre finivano il caffè, Sam le parlò di una comune del Nuovo Messico in cui aveva vissuto per quattro anni; stava pensando di dedicarle un capitolo. Non aveva ancora trovato un titolo per il libro. — Ascolti — le disse quando si alzarono — ho intenzione di organizzare un party fra una settimana, il 22. Le piacerebbe venire? Dovrebbe esserci Stuart. — Tornerò a casa dai miei il 23 — rispose lei — di buon'ora, ma sono certa di potermi fermare almeno un'oretta. — Bene — disse lui mentre si avviavano alla porta. — Alle otto di sera. Porti il suo amico, se vuole. — Le sorrise. — Qualche tempo fa vi ho visti che vi sbaciucchiavate all'angolo della strada. Mi dia una finestra al terzo piano, e divento un autentico impiccione. Lei ribatté: — Chi non lo diventa? — Gli dica da parte mia che ammiro i suoi gusti. Che peccato quella storia di Naomi, come si chiamava? Singer? Lei si fermò vicino alla soglia, guardandolo. — La ragazza che si è lanciata dalla finestra — spiegò lui. — O meglio, la donna. Lei lo guardò. — Oops — esclamò lui. — Ho fatto una gaffe? Li ho visti insieme una volta sola. Mangiare, non sbaciucchiarsi. Al Jackson Hole.
Sam prese il cappotto dall'attaccapanni, salutò Sara. Si rivolse a Kay. — Ci vediamo il 22 — disse stringendole la mano. — Molto informale. Attori disoccupati. — Sono sicura che sarà divertente — disse lei, sorridendo. Guardò la telecamera. Voltò la testa e rimase ferma a guardare i capelli ramati di Diane con le radici castano scuro, il numero che cambiava al di sopra della porta. Arrivò al 20. Il telefono squillò mentre lei metteva a posto il soprabito. Prese in braccio Felice e se la strinse sulla spalla, la baciò e l'accarezzò; accese la luce in cucina, sollevò il ricevitore prima che il terzo squillo azionasse la segreteria. — Pronto — disse. — Ciao, tesoro, c'è qualcosa che non va? — Dimmelo tu — ribatté lei. — Di Naomi Singer, per esempio. — Felice faceva le fusa; lei la coccolò, le baciò il fianco ricoperto di pelliccia. — Non capisco cosa vuoi dire... — Naomi Singer — ripeté lei. — Non puoi averla dimenticata. Era sulla trentina, credo. Lavorava per Canale 13.— Coccolò Felice. — Kay, che cos'è questa storia? — Oggi Sam è stato da me — spiegò lei. — Mi ha pregato di dirti che ammira i tuoi gusti in fatto di donne. — Si accovacciò, abbassò la spalla; Felice balzò a terra dietro di lei. — Ti ha visto con lei — aggiunse, alzandosi. — Al Jackson Hole. — Trasferì il microfono all'orecchio sinistro. — Ah. Sì, può darsi, ci sono stato con lei una volta... Siamo andati a uno di quei concerti jazz della domenica pomeriggio alla Chiesa del Riposo Eterno, e al ritorno ci siamo fermati lì. Pensi che sia stata una relazione importante che volevo tenerti nascosta? Non è così, tesoro. Sono uscito con lei due volte in tutto, quella e un'altra prima. Il colpo di fulmine non è scoccato. — Allora perché non me lo hai mai detto? — replicò lei. — Non c'era niente da dire, tesoro. Tu mi hai forse parlato di tutti gli uomini con cui hai mangiato un hamburger? Fisicamente era il mio tipo, uno a dieci in confronto a te, e lavorava alla televisione, così ho attaccato discorso con lei nello stanzino della posta e l'ho portata da Hanratty's a bere un paio di cocktail. Ma l'alchimia non ha funzionato. Lei era molto depressa e poco comunicativa. — Vida ha detto che era effervescente. — Osservò Felice ritta sulle zampe posteriori che grattava il tiragraffi di sughero.
— Può darsi che fosse effervescente con Vida, ma con me era depressa e poco comunicativa. Poi qualche settimana dopo mi ha chiamato una domenica per invitarmi al concerto, e io mi sono detto, perché no? Era una bella giornata e tanto valeva uscire. Era ancora depressa e poco in vena di comunicare. Fine della storia. Qualche settimana dopo... Lei ribatté: — Avresti dovuto dirmelo. Non riesco a capire perché non l'hai neppure nominata. — Non è che ti abbia mentito. Tu non me lo hai chiesto. Ascolta, Kay, non è uno dei miei argomenti preferiti. Mi è rimasta la convinzione che avrei potuto ascoltarla con maggiore attenzione, magari riuscire in qualche modo a comunicare. Kay sospirò e disse: — Non puoi rimproverarti una cosa del genere. — Lo so, ma è la sensazione che ho provato. Quindi credo che non mi piaccia sollevare l'argomento. Se Sam ha voglia di parlare su chi ha fatto che cosa con chi, posso parlarti di certe lezioni di recitazione dove il... — Non farlo, Pete — lo interruppe lei. — Non voglio proprio sapere. — Si allungò per afferrare la ciotola dell'acqua mentre Felice si avvicinava per bere; la portò al lavello e la vuotò. — Sono semplicemente seccato con lui perché tenta di seminare zizzania fra noi. Lei aprì il miscelatore con il dorso della mano. — Non si trattava affatto di questo — replicò, sciacquando la ciotola sotto il getto d'acqua. — Sembra proprio quello contro cui mi hai messo in guardia tu, un vecchio che diventa geloso e ostile. — Voleva invitarci a una festa — spiegò lei, riempiendo la ciotola. — Ci ha visti sbaciucchiarci all'angolo della strada. Stuart gli farà firmare un contratto. — Gli hai detto chi sono? — No, naturalmente — rispose lei — ma penso che dovresti farlo tu. Prima o poi lo scoprirà. — Posò la ciotola sul pavimento. — Appena comincerà ad affrontare il discorso di tua madre, inevitabilmente Stuart o Norman o qualcun altro gli dirà che tu sei suo figlio. Non credo che scoprirà della fondazione. — Accarezzò la testa di Felice che beveva avidamente... be', non gli farebbe male scoprire anche quello. — Vieni giù, ne parleremo. Vida è tornata, e anche Bill e Carol, e Liz sta preparando l'ambiente per il suo gruppo rap. — Oh, accidenti — esclamò lei. Si alzò, chiuse il rubinetto. — Stasera non posso — rispose — devo proprio rimettermi in pari con la lettura.
— Non sei arrabbiata con me, vero? — No, no — disse lei, sfilandosi le scarpe. — Davvero, piccolo. Sono terribilmente indietro. Oggi ho dovuto arrampicarmi sugli specchi per cavarmela a una riunione, e non mi è piaciuto neanche un po'. Vieni su più tardi, vuoi? — Certo. Ti amo. — Io ti amo — rispose lei. — Ce l'hai qualcosa da mangiare? — A sazietà. Ci vediamo più tardi. Si scambiarono un bacio e riappesero. Lei rimase immobile a fissare le parole sul foglio. Si chiedeva se Pete le aveva mentito di nuovo. Certamente aveva dimostrato di essere un asso a raccontare frottole, scorrevole, convincente... E se invece il colpo di fulmine fosse scoccato, o anche solo il fuoco di un cerino, e avesse avuto una relazione con Naomi Singer... l'avrebbe portata nel 13 B? Anche Naomi Singer sarebbe rimasta stregata dallo spettacolo? Sì, stregata era la parola giusta, stregata... da quella prospettiva da Padreterno sulla vita, su una scheggia di vita... Lui la stava guardando mentre era lì seduta? Per vedere se stava leggendo o riflettendo? Aveva fatto scattare interruttori, premuto pulsanti, l'aveva messa sull'uno o sul due? Voltò la pagina... Stava diventando paranoica. Solo che, grazie alla stregoneria televisiva della Takai o Sakai o Banzai, lui poteva davvero guardarla, poteva in pratica leggere sopra la sua spalla. Non c'era da stupirsi che Hubert Sheer volesse andare in Giappone per fare le sue ricerche... Lei mise a fuoco le parole. Terribilmente indietro... Un altro maniaco omicida. Andiamo, ragazzi, dateci un taglio. Lesse una dozzina di pagine del manoscritto. Riempì con la matita blu il modulo della Diadem sulla cartella dell'agenzia: Non fa per noi. Lo accantonò. Sentì l'impulso di alzare gli occhi verso la plafoniera. Invece si grattò la nuca mentre prendeva il manoscritto successivo. Conflitti familiari. Non spinosi come quelli degli Hoffman e dei McAuliff, ma credibili, ben scritti, molto interessanti. Il telefono squillò. Lei guardò l'apparecchio. Rispose al secondo squillo. — Pronto? — disse.
— Vuoi dire che non è la segreteria? Dio, non posso crederci. — Ciao, Roxie — disse lei. — Mi spiace, sono stata presa fino al collo. — Posso immaginarmelo. Come sta il giovane Occhi Blu? — A meraviglia — rispose lei. Stava ascoltando? — Indovina chi esporrà alla galleria di Greene Street il prossimo aprile? — Oh, Dio, Roxie — esclamò lei — è fantastico! Congratulazioni. Raccontami tutto. Roxie glielo raccontò, e le raccontò dell'incidente della madre di Fletcher, e dei loro progetti per Natale, e di un film che avevano visto. — Stai bene? — Benissimo — rispose lei. — Soltanto indietro di un anno luce con la lettura. — Perché non me l'hai detto subito? Ciao, ciao. Domenica andremo a pattinare sul ghiaccio, vuoi venire? — Parlerò con Pete e ti richiamerò. Ciao. Salutami Fletcher. — Attaccò. Si sedette a leggere. Si grattò la nuca. Fece la doccia. Vide un movimento dietro il vetro appannato. La porta si aprì ed entrò lui, nudo, sorridente. — Sorpresa — esclamò, abbracciandola sotto il getto della doccia, facendo una smorfia per il calore, ballando insieme a lei — Ahiii.... Kay era rimasta senza fiato. — Avrei fatto volentieri a meno di Psycho — disse. — Mi spiace — rispose lui, stringendola ancor più forte, baciandola sulla guancia e sull'orecchio. — Ti ho sbirciato un paio di volte. Quando ti ho vista entrare qui ho pensato: "Cristo, posso andare su ed entrare nella doccia con lei." Non ho saputo resistere. Lei disse: — Lo sapevo che mi stavi guardando... — Sapevo che lo sapevi — replicò lui. Sorrise. — È stato così eccitante... — Kay distolse lo sguardo; lui la prese per il mento e le inclinò il viso verso di sé. La guardò. — Non mentivo, tesoro — le disse. — Sul serio. L'ho portata fuori due volte e basta. Se fosse stata una cosa importante te lo avrei detto. Non ce l'ho con te perché mi hai fatto delle domande; guarda quante bugie ti ho raccontato prima. Ma questa è la verità, lo giuro. — La baciò stringendola forte. Gli infilò la lingua in bocca sotto la doccia. Lei non sapeva della chiave universale, anche se avrebbe dovuto imma-
ginare che ne aveva una. Anche nel caso che la gente avesse cambiato serratura, nell'ufficio di Dmitri dovevano esserci dei duplicati a cui lui poteva avere accesso. L'indomani per prima cosa chiamò il reparto pubblicità. C'era Tamiko. — Ciao, cara, ho bisogno di un favore — disse. — Potresti procurarmi dei ritagli di giornali su quelle morti avvenute nel palazzo dove abito? Tanto vale che sia bene informata sull'argomento. L'ultima si è verificata verso la fine di ottobre, Hubert Sheer, con due "e". — Una delle banche dati a cui siamo abbonati dovrebbe coprire l'argomento. Hai controllato? — Non ci ho pensato — rispose lei. — Non ci penso mai. — È il 1300 di Madison Avenue, vero? — Sì. — Controllerò io. Se non c'è niente, chiamerò qualcuno al Times. In ogni caso non c'è problema. — Grazie, Dio ti benedica — disse Kay. — Cos'è questa storia che ho sentito di te e di un Principe Azzurro? — Siamo amici — rispose lei. Quando la persona con cui aveva appuntamento alle dieci e mezzo lasciò l'ufficio, Sara portò una busta arrivata dalla sezione pubblicità. Uno stampato di computer, ripiegato a fisarmonica, alto più di un centimetro. Lei sorvolò sui resoconti dell'opposizione della comunità ai progetti presentati da Barry Beck per un palazzo-scheggia di ventuno piani al numero 1300 di Madison Avenue; dell'intervento agguerrito della Civitas e dei Carnegie Hill Neighbors, delle riunioni alla Brick Church, della battaglia di tre anni persa in aula... niente che avesse importanza. Lesse della morte, ritenuta legata alla droga, di William G. Webber, analista di sistemi di sicurezza, anni 27, residente al 1300 di Madison Avenue. Sì, riferivano i servizi successivi, la morte di William G. Webber era dovuta alla droga, un'overdose di cocaina. Era uno spacciatore oltre che un consumatore; evidentemente aveva fatto confusione fra la merce tagliata e l'altra. I suoi amici fortunatamente ne avevano presa di meno. Si affrettò a partecipare alla conferenza vendite delle undici... tutti d'amore e d'accordo, niente meno che quattro libri in lista per la domenica successiva, due di narrativa, due no. June la invitò a cena, "insieme con Peter, o chiunque altro, naturalmente" per sabato 6 gennaio. Lei la ringra-
ziò, disse che molto probabilmente sarebbe venuta con Pete. Pranzò con un agente letterario inglese al Perigord East. Disse a Sara di non passarle nessuna chiamata. Lesse del tuffo suicida di Naomi Singer dal suo appartamento al quindicesimo piano del 1300 di Madison Avenue. L'articolo accennava anche all'attacco cardiaco che un anno prima era stato fatale a un altro inquilino del palazzo, Brendan Connahay, anni 54, e alla morte per overdose di cocaina di un terzo inquilino, William G. Webber, anni 27. Naomi Singer ne aveva 31 quando era morta, ed era assistente di produzione alla WNET-TV. Un giovedì mattina si era data malata, e poco prima di mezzogiorno si era lanciata dalla finestra del soggiorno. Nata a Boston e laureata a Wellesley, si era trasferita a New York tre mesi prima. Aveva lasciato una lettera di suo pugno lunga una pagina "in cui esprimeva sconforto riguardo al mondo e alle sue vicende personali e si scusava con la famiglia e con gli amici". Non aveva precedenti di malattie mentali o uso di droghe. Gli amici e colleghi di Naomi Singer, anni 31, che si era lanciata da una finestra del 1300 di Madison Avenue, erano rimasti sconvolti. Veniva riportato il commento di una certa Barbara Ann Avakian: "Anche se Naomi era profondamente interessata ai problemi dell'ambiente e dei diritti umani, era in sostanza una persona molto positiva. Nel breve periodo in cui ha abitato qui al 1300 si era fatta molti amici, ed era entusiasta del progetto a cui stava lavorando, un documentario sui senzatetto. È difficile capire come abbia potuto fare una cosa simile." Kay lesse della morte di Rafael Ortiz, anni 30, il tuttofare del 1300 di Madison Avenue, a cui gli ingranaggi dell'ascensore avevano parzialmente tranciato la testa e un braccio. Stava svolgendo i soliti lavori di manutenzione, un martedì mattina di buon'ora. Incidenti simili, anche se non privi di precedenti, erano rari e quasi invariabilmente legati all'uso di droga o di alcool, secondo un portavoce della ditta produttrice dell'ascensore. La morte del signor Ortiz era la quarta che avveniva nell'edificio, in poco più di due anni. Lasciava una moglie incinta e due figli. L'autopsia di Rafael Ortiz, anni 30, parzialmente decapitato dagli ingranaggi dell'ascensore al 1300 di Madison Avenue, non rivelava segni di assunzione recente di droga o di alcool. Edgar P. Voorhees, un avvocato che rappresentava la società proprietaria dell'edificio al numero 1300 di Madison Avenue, si era rifiutato di fare commenti sul rapido accomodamento raggiunto fuori dell'aula accogliendo
la richiesta di dieci milioni di dollari di risarcimento presentata dalla vedova del defunto Rafael Ortiz, anni 30, contro i proprietari del famigerato palazzo-scheggia dell'Upper East Side... Lesse della morte di Hubert Sheer, anni 43, trovato nella doccia al 1300 di Madison Avenue. Lesse altre notizie su Il verme nella mela, gli articoli di riviste, l'insegnamento alla Columbia, il Vietnam, l'università di Chicago, i genitori ancora in vita e i fratelli. Rilesse il commento di Martin Sugarman: "Stava lavorando a quello che sarebbe stato senz'altro un opus magnum , una visione d'insieme e un'analisi del passato, presente e futuro della televisione. La sua morte è una perdita non solo per tutti quelli che lo conoscevano, ma per tutta la società, che senza dubbio avrebbe beneficiato delle sue intuizioni". L'autopsia di Hubert Sheer, anni 43, indicava che era annegato sul pavimento della doccia mentre era in stato di incoscienza per effetto di un colpo alla testa riportato in una caduta. Aveva fissato con lo scotch un sacchetto di plastica intorno all'ingessatura che portava al piede destro, risultato di un incidente in bicicletta avvenuto la settimana prima. La morte si era verificata durante la notte fra il 23 e il 24 ottobre ed era la quinta in tre anni al 1300 di Madison Avenue, il cosiddetto "grattacielo dell'orrore". Kay chiuse lo stampato e vi appoggiò le mani, distese l'una di fianco all'altra. Tamburellò a ritmo lento. Aveva curato più di cinquanta romanzi neri, rammentò a se stessa. Nella vita reale le cadute fatali erano il più delle volte incidenti, specie sotto la doccia. La lettera autografa di Naomi Singer, lunga una pagina, non poteva essere un falso. Oppure sì? Restò seduta a guardarsi le mani che tamburellavano sul pacco a fisarmonica dello stampato di computer. Chiamò Sara all'interfono e le chiese di passarle Martin Sugarman. Restò seduta a tormentare coi pollici i bordi della fisarmonica. Troppi romanzi neri... — Salve, Kay! — Ciao, Martin! — rispose lei. — Come stai? — Benissimo, grazie. Congratulazioni, voi altri dovete essere al settimo cielo, laggiù! — Grazie — rispose Kay. — Non ho notato nessuno che si lamenta.
Martin, ho appena letto i resoconti della morte di Hubert Sheer... — Ah sì? — Sai per caso — gli domandò — se progettava di far visita a un industriale giapponese di nome Takai o Sakai? Un produttore di telecamere per la sorveglianza. Dovrebbero essere le migliori. — Ho la sua lista di appuntamenti. Ho tutte le carte relative al libro, ci metterò al lavoro un altro scrittore. Perché me lo chiedi? Lei inspirò a fondo. — Sto svolgendo delle ricerche sulle cinque morti avvenute nel palazzo — rispose. — Potrebbe uscirne un libro. Potresti controllarmi quella lista, per favore? Te ne sarei grata. — Certo, naturalmente. Resta in linea. Lei si appoggiò allo schienale, si voltò, vide che di fronte si accendevano le luci negli uffici con le pareti di vetro. Troppi thriller... — La mia segretaria sta andando a prenderla. Kay, pensando ai libri che pubblicate voi, non mi sorprenderei se tu sospettassi qualcosa di poco chiaro. Posso dirti fin d'ora che abbaieresti all'albero sbagliato, almeno per quanto riguarda la morte di Rocky. — Perché mai? — chiese lei. — È andata così: scivolando ha battuto la tempia contro la manopola della doccia, tanto forte da perdere i sensi; e poi, quando è caduto sul pavimento, è rimasto quasi rannicchiato, in ginocchio con la faccia a terra, ha inspirato acqua nei polmoni ed è annegato. Non ci sono dubbi su quello che è successo; il livido sulla testa corrispondeva perfettamente alla forma della manopola. È un pezzo di rubinetteria molto singolare... dovresti saperlo, anche tu ne hai uno uguale... e non c'è verso che qualcuno possa avergli spinto in basso la testa contro la manopola con tanta forza da stordirlo; era un uomo forte e sano, nonostante la caviglia fratturata. E non c'era nessun altro, quella sera non aveva ricevuto visite e non c'è stata nessuna effrazione. — Si sentirono frusciare dei fogli. — Ora ho la lista. Mi ridici quel nome? Lei disse: — Takai o Sakai. O qualcosa del genere. — Takai o Sakai... Sì, la società Takai... T, A, K, A, I... di Osaka. Aveva un appuntamento per martedì 31 ottobre, alle otto di mattina. Alle otto... non mi stupisce che i giapponesi riescano a produrre così tanto. C'è un piccolo appunto: "Tel hi-res", telecamere ad alta risoluzione, cioè. "Dep dog"... Lei tradusse: — Depositi doganali.
— Sì, sembrerebbe. Perché mi chiedi di questa società in particolare? Lei rimase in silenzio. — Kay? — È troppo complicato da spiegare — rispose lei. — Grazie, Martin. — Hai sentito quello che ho detto? È stato un tragico incidente, non può essere stato nient'altro. Lei disse: — Ho sentito. — Vuoi fare le congratulazioni a Norman e June da parte mia? — Sì, lo farò — rispose lei. — Grazie ancora, Martin. Arrivederci. Attaccò. Lasciandolo a porsi delle domande sulla sua salute mentale, senza dubbio. Se le poneva anche lei. Pensare che qualcuno potesse smontare la manopola cromata Art Déco da una qualsiasi doccia al 1300 di Madison Avenue, potesse svitarla con un cacciavite, probabilmente, e... fissarla con un filo metallico, o un nastro adesivo o altro, a un'asse di legno o a una mazza da baseball o cose simili... Pete? Petey? Il suo tesoro? Il suo amore? No, mai, non avrebbe potuto. Sapeva mentire, sì, c'era poco da stupirsene, con una madre attrice e un padre dirigente d'azienda. Ma mentire era molto, molto diverso da uccidere. Uccidere era... Uccidere era qualcosa di speciale... 10 Guardarono i Wagnall, i Baker. Gli Ostrow, il rappresentante della società Yoshiwara di quella settimana e i suoi ospiti. Kay lo guardava guardare. Lui le lanciò un'occhiata. Lei sorrise. Disse: — Lo sai a che cosa non mi dispiacerebbe dare un'occhiata? — A che cosa? — domandò lui. — A noi due — rispose Kay. Lui sorrise. — Credevo che non me lo avresti chiesto mai — disse. Si sporse verso di lei e si baciarono. — Non andartene — le disse. Fece ruotare la poltrona, si alzò, andò nell'atrio.
Kay girò la poltrona e la fece scorrere di lato, fino a urtare l'altra; lo vide attraversare l'ingresso ed entrare nella stanza sul retro, trasformata in ripostiglio. La luce si accese mentre lui avanzava fra scatole di cartone e cianfrusaglie. Svoltò a sinistra, sparì alla sua vista. Lei girò la poltrona, allungando la mano; toccò il pulsante centrale del 13 A e quello del due. Lo guardò sullo schermo due mentre si spostava nell'oscurità fino alla parte inferiore destra dello schermo. Accese la luce nella sua disordinata camera da letto di Conran's e chiuse la porta. Si girò verso la parete e si accovacciò fra la porta e il primo pannello della porta a soffietto dell'armadio a muro, fece il gesto di sollevare qualcosa. La testa e le spalle le impedivano di vedere quello che faceva. Si alzò e si voltò, con un oggetto scuro a forma di cassetta in mano. Lei toccò un altro pulsante e il pulsante del due, con la mano che le tremava. Se la strinse con la sinistra, tirò un respiro profondo. Guardò i Gruen giocare a bridge con due uomini. Controllò i monitor. Vide Denise litigare con Kim nel soggiorno del 5 B, li passò sullo schermo uno: — ... lavoro, non ho intenzione di metterlo a repentaglio per cinquecento miserabili dollari! — esclamò Denise, lanciando il tovagliolo sul tavolo, alzandosi e andando alla finestra. — Mi credi idiota? — Ora viene il bello — disse Pete, entrando. Lei alzò una mano. — Vuoi usare la testa almeno per una volta, Denise? — disse Kim, versandosi la panna nel caffè. Lui si sedette, fece ruotare la poltrona, togliendo la cassetta dall'involucro nero. — Potresti finire con il guadagnarne quattro o cinquemila, anche di più. Esentasse. Posso fumare una sigaretta, per favore? Guardarono Denise e Kim. I Baker, i Cole. Lei lo vide premere un pulsante sul videoregistratore di destra, inserire la cassetta nell'apertura e chiuderla, premere un altro pulsante, far scattare un interruttore della fila centrale. Guardarono se stessi sullo schermo due. — Cristo, sono grassa — esclamò Kay. — Non lo sei affatto — ribatté lui — sei splendida... — Oh, Dio, piccolo, che bella sensazione — stava mormorando lei, stendendosi all'indietro sul letto, mentre la mano di Pete le accarezzava il
seno destro e la sua testa era china sull'altro. Lui la prese per il braccio; lei si alzò, sempre guardando, si avvicinò, gli si sedette sulle ginocchia. Guardarono Kay e Pete. Lei decise di lavorare a casa il giorno dopo, che era un venerdì. Non aveva progettato di farlo, ma era troppo stanca per alzarsi presto. — Oggi pomeriggio devo uscire — disse Pete, appoggiandosi con un gomito sul banco, mentre sorvegliava una fetta nel tostapane, e Felice alle sue spalle annusava gli armadietti. — Va bene — rispose lei, versando il caffè. — Devo proprio sbrigare un po' di lavoro. Dove vai? — Oh... in centro — rispose lui, sorridendo. — Acquisti natalizi. Niente che riguardi una persona di tua conoscenza. L'aiutò a mettere in ordine. Si baciarono sulla porta. — Chiamami prima di uscire — gli raccomandò. Lui le sorrise. — Ti amo — disse. — Io ti amo, Petey — rispose lei, guardandolo negli occhi. Si baciarono. Kay chiamò Sara e la pregò di annullare gli appuntamenti facendo le sue scuse e di fissare nuove date. — Si sente bene? — Benissimo — rispose lei. — Sono semplicemente più in arretrato di quanto pensassi. Per non parlare del rischio di diventare paranoica. Non aveva ancora fatto gli acquisti di Natale. Si mise a leggere alla scrivania. Felice dormiva sul letto. Lui chiamò all'una e 37. — Come va? — Okay — rispose. — Ho fatto davvero dei progressi. — Brutte notizie. Allan è stato licenziato. — Accidenti — disse. — Quei bastardi... — Tutto il reparto, in pratica. — Come l'ha presa? — domandò. — Lui bene; è Babette che ha una crisi isterica. Esco adesso, dovrei essere di ritorno verso le cinque. Kay disse: — Stavo giusto pensando di fare una capatina giù a guardare mentre mangio uno yogurt... — Ne hai voglia? Ti lascerò la chiave dietro lo specchio. — Davvero? — disse lei. — Penso che lo farò.
— Sai come avviarlo, non è vero? — Sì — rispose. — Ci vediamo dopo. — Un bacio. Lei gli mandò un bacio. — Ti amo — disse. — Anch'io. — Bacio, bacio. Lei attaccò. Rimase ferma a guardare la pagina che aveva davanti. Tentò di nuovo di pensare a quello che poteva regalargli. Magari qualcosa per quelle pareti nude. Lesse per qualche minuto, poi spense la lampada, accese la segreteria telefonica. Si alzò, andò in bagno, si lavò. Prese le chiavi di casa. Disse a Felice che sarebbe tornata fra poco. Scese le scale fino al tredicesimo piano. Non aveva un aspetto troppo orribile, tutto considerato. Scostò uno degli angoli inferiori della specchiera dalla parete a scacchi bianchi e neri. La chiave le sfuggì dalle dita, cadde sul tavolo, scavando con la punta una minuscola falce di luna nella lacca marrone. Lei inumidì il polpastrello con la lingua, strofinò la lacca. L'intaccatura rimase. Aprì la porta del 13 B, entrò. Accese la luce dell'ingresso mentre chiudeva la porta; si mise la chiave in tasca. Guardò la cucina, gli schermi grìgi che scintillavano nel soggiorno, la porta socchiusa del bagno buio, il ripostiglio in penombra. Inspirò a fondo ed entrò nel ripostiglio. Le lamelle delle veneziane, orlate di sole, illuminavano il banco da lavoro e gli attrezzi di Pete e i monitor smontati, la cassetta di metallo del trasformatore nell'angolo, il vogatore, alcune scatole di cartone, i mobili scartati. Si diresse verso l'armadio centrale, aprì le porte a soffietto. Allungò la mano all'interno e aprì la porta di compensato. Si chinò e passò, scostando vestiti e porte a soffietto, nella camera da letto in noce e azzurro di Conran's, inondata dal sole. Le veneziane erano quasi del tutto sollevate, la finestra aperta di un dito da tutt'e due le parti. Osservò la stanza disseminata di vestiti. — Pete? — chiamò. Andò alla porta. Guardò fuori oltre il corridoio fino al soggiorno: un lato del divano di pelle, il cielo azzurro sopra un edificio di Park Avenue. Chiuse la porta. Si diresse verso la parete e si accovacciò. Tastò con le dita il parquet davanti a sé. I pezzi di legno erano levigati e combaciavano alla perfezione. Spinse, premette; nessuno scivolava o ce-
deva. Tentò con lo zoccolo della parete - alto otto o dieci centimetri e lungo una settantina - lo afferrò e tirò. Resistette, anche se una fessura sottile come un capello lo divideva dalla parete bianca. Lei premette una delle estremità, premette l'altra. Ricordò il movimento che aveva fatto Pete. Tirò verso l'alto. L'asse si sollevò e venne via: alle estremità c'erano due scanalature che scorrevano su linguette metalliche dall'intelaiatura della porta allo sportello dell'armadio a muro. Lei posò il battiscopa sul pavimento vicino a sé e tirò una maniglia di metallo grigio nell'apertura, estraendo un cassetto di metallo grigio, largo e poco profondo. Dentro c'erano banconote da cento e da cinquecento dollari, cinque mazzette strette nelle fascette di carta, tre da cento, due da cinquecento. Una scatola di pelle marrone grande quanto una scatola di sigari, buste di manila. Videocassette. Tre contenitori neri disposti di fianco uno sopra l'altro. Lei ne prese una; c'era un K scritto col pennarello sull'etichetta del dorso. La cassetta successiva, contrassegnata K2, era quella che avevano guardato la sera prima, e lei la prese. La cassetta successiva era etichettata R. Nello strato inferiore c'erano quattro cassette; N, N2, N3 e B. L'ultima la lasciò perplessa finché non ricordò che William G. Webber, anni 29, era Billy Webber. Rimase lì accovacciata, guardando le cassette che aveva tra le mani. Temendo di non essere affatto paranoica. Avrebbe dovuto calcolare più di venti minuti di margine, un venerdì a poco più di una settimana da Natale; stavano percorrendo lentamente la Settantaduesima Strada e l'orologio segnava già l'una e 55. Eh, ma quello era un taxi della Checker, una reliquia del passato, con spazio a volontà e uno strapuntino abbassato per appoggiarci i piedi. Musica orecchiabile alla radio. Quindi poteva anche fare tardi; lo avrebbero aspettato. Era diretto alla galleria Hammer per scegliere fra due Hopper, poi da Tiffany. Sorrise, con i piedi sollevati, le braccia conserte. Delizioso pensare a lei laggiù a casa che guardava da sola. Il suo amore che si godeva l'altro suo amore...
Chi avrebbe mai pensato di trovare una donna con cui poterlo dividere, a cui poterlo addirittura affidare per un po'? Una donna così perfetta, così amorevole. Aveva fatto bene a correre il rischio di mostrarglielo. Sospirò. C'era qualcuno più fortunato di lui? E pensare che proprio la sera prima, grazie a quel bastardo di Sam, si era ritrovato tremante sull'orlo del precipizio. Che momento era stato quello, quando lei gli aveva chiesto a bruciapelo di Naomi. Accidenti! Grazie a Dio era riuscito a convincerla che non le nascondeva niente. La sera prima era stata decisiva, il modo in cui si era mostrata così aperta e interessata a tutto, come aveva voluto guardare loro due, così partecipe quando lo avevano fatto... Due prime volte per lei; guardare loro due, e guardare ora da sola... Tolse i piedi dallo strapuntino. Si raddrizzò sul sedile, sentendosi diventare di ghiaccio dentro. Si voltò a guardare fuori. Un doberman lo squadrò dal finestrino aperto della limousine a fianco, con le zampe appoggiate sulla nera carrozzeria lucente. Lui si girò dall'altra parte. Guardò il museo Frick che passava oltre. Poteva aver guardato lui mentre prendeva la cassetta? Certo che poteva, idiota. Era per quello che aveva chiesto di vedere la registrazione? Aveva in qualche modo intuito la verità su Naomi, tutta? Aveva anche intuito, dato che era tanto maledettamente sveglia, che lui l'aveva registrata, e teneva nascosto il nastro nello stesso posto? Lei stava guardando da sola, a casa di venerdì, un'altra prima volta... e sul bloc-notes c'era scritto tutto: l'indirizzo, il giorno, l'ora. Non aveva scritto esattamente Pace Gallery perché lei lo avrebbe visto e forse avrebbe indovinato che cosa voleva comprarle. Merda. Al settimo cielo due secondi prima e poi giù, di nuovo un tuffo nella paranoia. Si girò, si protese in avanti. Scrutò oltre la barriera di plastica incrostata di sudiciume e oltre il parabrezza, verso il fiume a quattro corsie di taxi e autobus che scorreva lungo la Quinta Avenue. — Cristo — disse — che dannato fottuto disastro. — È un giorno da allarme ambientale — osservò il tassista. Lui inspirò a fondo. Espirò rumorosamente, scuotendo la testa. — Cristo, questa città — mormorò. Si rimise comodo.
Sollevò i piedi sullo strapuntino. Studiò le Reebok da una parte e dall'altra. Giocherellò con la frangia di lana della sciarpa, ascoltò la musica. Di ghiaccio, dentro. Il modo in cui gli aveva guardato le mani quando aveva inserito la cassetta e acceso l'apparecchio... Stava inserendo una cassetta proprio in quel momento? La N3? I clacson strombazzavano. Il traffico era bloccato. — Vuole tagliare su Park Avenue? — propose il tassista. Lei tenne premuto l'avanti veloce, il bagno era vuoto dietro le striature bianche, con il bastone appoggiato vicino alla porta della doccia. Nella parte alta dello schermo qualcuno comparve e subito scomparve. Lei fermò il nastro, tornò indietro. Spinse il pulsante play. Il bagno era vuoto, con il bastone appoggiato vicino alla porta della doccia, il rumore della doccia che scrosciava. Un paio di gambe in jeans e scarpe da ginnastica passarono di fianco alla porta dell'ingresso, da destra a sinistra. Tornarono indietro, si accovacciarono. Lei fermò l'immagine su Pete. Accucciato sulla soglia, in maglietta a righe da giocatore di rugby, una mano tesa in avanti come nel gesto di lanciare una monetina. Lo guardò... e lo rimise in movimento. Lui lanciò qualcosa, rimase immobile. Si spostò di lato e scomparve. Kay guardò nel bagno vuoto. Non riusciva a distinguere l'oggetto minuscolo che lui aveva lanciato sul pavimento nero a pochi passi dalla porta, vicino al tappetino da bagno. Qualunque cosa fosse, lui era lì nell'appartamento di Hubert "Rocky" Sheer. Pronto a ucciderlo. Pete. Il suo tesoro, il suo amore. Chiuse gli occhi. Li riaprì. Guardò la porta del bagno aprirsi, la mano di Sheer prendere l'asciugamano dal gancio. Fece avanzare il nastro, finché lui uscì zoppicando avvolto nell'asciugamano, alzando il piede avvolto nella plastica luccicante per superare il dislivello, prendendo il bastone, trasferendolo nella mano destra. Fece un passo avanti e si fermò sul tappetino, con la testa china. Si piegò sul bastone e sulla gamba sinistra, con il piede luccicante sollevato all'indietro, la
mano sinistra allungata verso il basso. Voltò la testa nell'attimo in cui Pete, a due mani, vibrava un colpo in basso con una mazza scintillante. Lei spense l'audio, chiuse gli occhi, si allontanò e girò la poltrona. Restò seduta con il pugno sulla bocca, mordendosi la nocca del pollice. Aveva ucciso anche gli altri due, doveva essere così; aveva temuto che Sheer, abituato a collegare i fatti... collegasse i fatti. Kay riaprì gli occhi sulla luminosità bianco-azzurra dei monitor di sinistra. Chris e Sally, Pam, Jay, Lauren. Un uomo che non aveva mai visto disteso sul lettino del dottor Palme. Inspirò a fondo. Guardò lo schermo due. Lui era chino sulla testa e sulle spalle di Sheer, a cavalcioni del suo corpo disteso a faccia in giù sul pavimento. Intorno alla testa di Sheer splendeva un alone lampeggiante: una vaschetta di carta argentata messa sotto. Lo stava affogando... Lei fece ruotare la poltrona, tese la mano, fermò il nastro, fece scattare il fermo della videocassetta. Estrasse la cassetta e la posò vicino al contenitore. Guardò le altre cinque o sei cassette sulla console. Le cifre azzurre indicavano le 2:06 del pomeriggio. C'era tempo in abbondanza per controllare la N3 e la B; lui doveva essere appena arrivato alla Cinquantasettesima Strada, dovunque fosse diretto. Ma no, poteva rientrare in anticipo e sorprenderla sul fatto, come in tanti thriller... l'appuntamento andato a monte per qualche motivo, un'altra delle infrastnitture cittadine che crollava. Meglio lasciare che fosse la polizia a guardare la N3 e la B; quello era il momento di andarsene, portando con sé i nastri, via di lì e via dal palazzo. Lasciando un biglietto qualsiasi come tutti i giorni, in modo che lui non fosse preso dal panico e fuggisse, o facesse qualcosa di peggio. Era pazzo. Doveva esserlo. Uno psicopatico, nonostante il fascino, l'umorismo, l'amore che le aveva dato... e l'amava davvero, di quello era sicura. Gli omicidi dovevano essere scaturiti tutti dalla necessità di tenere segrete le telecamere. Di proteggere il suo giocattolo da sei milioni di dollari, il suo tesoro, che lei era stata tanto pronta a dividere con lui. Chinò la testa, massaggiandola con le dita. Si raddrizzò, si ravviò i capelli con le mani, fece un respiro profondo. Guardò le cassette. Facendo scorrere la poltrona verso destra, urtò quella di Pete; aprì un
armadietto in basso, prese alcune cassette ancora racchiuse nell'involucro, sette, dalle file più interne. Scambiò le cassette nelle due serie di involucri, tentando di pensare a cosa scrivere nel biglietto, a dov'era la stazione di polizia, e non al suo arresto e all'assalto dei media che sarebbe seguito, ai titoli sui giornali, ai microfoni, all'attenzione del pubblico. Ricontrollò le etichette sulle cassette K e K2; quelle non sarebbero andate alla polizia, le avrebbe nascoste in casa sua e più tardi le avrebbe distrutte. Prese la penna, contrassegnò i nuovi contenitori. Portò la pila di cassette-sbagliate-negli-involucri-giusti oltre l'ingresso fino al ripostiglio; attraverso gli armadi a muro, nella camera da letto di Pete. Si accucciò, rimise il cassetto grigio e poco profondo nello stesso ordine in cui lo aveva trovato, con le cassette N e B sul fondo, K e R in alto, e a fianco la scatola di pelle marrone, le buste, le mazzette di banconote da cento e da cinquecento. Sbirciò nella scatola: alcune serie di monete d'oro. La richiuse, infilò il cassetto nel vano vuoto. Rimise al suo posto il battiscopa, lo fece scivolare in modo che aderisse perfettamente al pavimento. Si alzò e aprì la porta, l'addossò alla parete, chiedendosi fino a che punto il denaro di lui, quel denaro mai nominato, avesse offuscato il suo giudizio, rendendola cieca a cose che altrimenti avrebbe potuto notare. Tornò indietro passando dagli armadi a muro, richiudendo le porte a soffietto sulla camera da letto, chiudendo con un colpo secco la porta di compensato, accostando le porte a soffietto nel ripostiglio. Attraversò l'ingresso tornando nel soggiorno, alla console. Formò una pila con le cassette-giuste-negli-involucri-sbagliati. Attirò verso di sé il bloc-notes, voltò il foglio giallo che stava in cima, prese la penna. Rimase appoggiata alla console, fissando accigliata il blocco. Una riunione, convocata d'urgenza, alla quale era stata richiesta la sua presenza? Sospetto... Alzò la testa, socchiuse gli occhi cercando qualcosa di meglio... lui nell'ascensore numero due, in cappotto e sciarpa a righe, insieme a una donna. Lo fissò con gli occhi sbarrati. Passò l'immagine sullo schermo due ma quello rimase spento; poi Kay trovò l'interruttore. Lui. Che si massaggiava la nuca con aria sofferente, il cappotto slacciato. La cameriera degli Stangerson si fece avanti, pronta a uscire. Al decimo. Kay lasciò cadere la penna, aprì l'ultimo cassetto di destra, afferrò la pila
di cassette e le mise dentro insieme alle altre. Chiuse il cassetto, sistemò le poltrone, il bloc-notes, trasferì il dottor Palme sullo schermo uno, accese l'audio, si diresse verso l'ingresso; tornò indietro allungando la mano, chiuse il videoregistratore e lo spense, si affrettò verso l'ingresso; aprì la porta proprio mentre lui usciva dall'ascensore. — Che cosa è successo? — gli domandò. Lui fece una smorfia, massaggiandosi la nuca. — Il mio taxi è rimasto coinvolto in un incidente — rispose con voce scossa. — Oh, santo cielo — esclamò lei. — Stai bene? — Fece un passo avanti. — Non lo so. — Lui si avvicinò mentre la porta dell'ascensore si chiudeva. — Credo di sì. Ho preso una bella botta e per un po' ci ho visto doppio, ma ora la vista si sta schiarendo. — Batté le palpebre alcune volte. — Ti sei fatto male al collo? — chiese Kay. — Sì, un po' — rispose lui. Lei lo fece voltare. Lui si tolse la sciarpa mentre lei gli palpava delicatamente la nuca. — Ti tremano le mani. — Ho visto nell'ascensore che qualcosa non andava — rispose Kay. — Il solo fatto che tornassi così presto. Che cosa è successo? — Un tizio è uscito dal parcheggio senza guardare; gli siamo finiti addosso. Sulla Quinta, vicino alla Settantanovesima Strada. Un automobilista del New Jersey, naturalmente. Era un taxi della Checker, quindi sono stato sballottato ben bene. — Fu scosso da un tremito, espirò con fatica. — Accidenti! — esclamò lei, premendo le dita sulla nuca, massaggiandola. — L'auto era una Mercedes nuova di zecca. — Qualcuno è rimasto ferito? — chiese lei. — Il passeggero della macchina, una donna. Si è schiacciata una gamba. — Dovresti andare dal medico a farti controllare — suggerì lei. Lui si voltò. — Se domani sentirò qualche dolore, lo farò — rispose. Kay domandò: — Hai qualcuno qui? Lui annuì. Si guardarono, lei sfiorò il risvolto del cappotto slacciato. — Povero Pete — disse. Gli sorrise, lo prese fra le braccia. Lui la strinse forte. — Avrei dovuto fermarmi in qualche posto e restare seduto per un po' — disse. — È stato sciocco tornare a casa. — No, hai fatto bene — ribatté lei.
Si scambiarono un sorriso. Si baciarono. Passarono nell'appartamento 13 B. Lui chiuse la porta. — Hai già mangiato lo yogurt? — chiese, togliendosi il cappotto. Fece una smorfia. — Oh — mormorò lei, e lo aiutò restando alle sue spalle. — No, ero appena scesa — rispose. — Dopo di te ha telefonato Norman. Devo andare in ufficio per un po'. — Davvero? — fece lui, voltandosi e prendendole di mano il cappotto. — Stavo per lasciarti un biglietto — disse Kay. — Ha un appuntamento con Anne Tyler nel suo ufficio alle quattro e vuole che sia presente anch'io. La Tyler non va più d'accordo con il suo editore. — Sarebbe un bel colpo averla in catalogo — osservò Pete, massaggiandosi la spalla coperta dal maglione. — Non è vero? — disse Kay. — Norman pensa che ci siano buone probabilità. Lui e June la conoscono da anni. — Andò in cucina. — Prendine uno anche per me, tesoro. Lei guardò nel frigorifero. — Limone o mirtillo? — domandò. — Mirtillo. Un nuovo paziente dal dottor Palme. — Lo so. — Tirò fuori due yogurt, chiuse lo sportello con il gomito, prese cucchiaini e tovaglioli di carta. Quando entrò, lui era seduto sulla poltrona, con il telefono all'orecchio. Le sorrise quando gli posò davanti uno yogurt, il cucchiaino e il tovagliolo. — Parla Peter Henderson — disse. — Avevo un appuntamento per le due... Esatto. Lei si sedette, posando cucchiaino e tovagliolo, guardando i due schermi principali. — Poco fa ho avuto un incidente — disse lui, tenendo bloccato il ricevitore con la spalla —mentre venivo da voi, e sono rimasto un po' scosso. Potremmo fare lunedì alla stessa ora? Aprirono i vasetti di yogurt, guardando gli schermi principali. Il dottor Palme diceva: — Se è tanto insignificante, come mai lei si trova qui? — È un'idea di Linda — rispondeva l'uomo sul divano. — Meglio ancora — disse Pete. — Mi spiace per oggi. Arrivederci. — Attaccò. Prese un appunto sul bloc-notes. — Una galleria che vende dipinti su velluto — spiegò. Lei lanciò un fischio. Mangiarono lo yogurt, guardando il dottor Palme, Lauren, Jay, gli Hof-
fman. — Devo muovermi — disse lei, alzandosi in piedi. Raccolse i vasetti con i cucchiaini e i tovaglioli dentro, i coperchi. — Sei sicuro di sentirti bene? — Benissimo — rispose lui, togliendosi la mano dalla nuca, continuando a guardare. — Gli occhi vanno bene? Lui annuì. — Sarò di ritorno per le sei — disse Kay — a meno che non andiamo a bere qualcosa. — Si piegò per baciarlo sui capelli. Lui sollevò il viso verso di lei e si baciarono sulla bocca. Kay andò in cucina, ficcò vasetti e tovaglioli di carta nella spazzatura, sciacquò i cucchiaini e li mise sullo scolapiatti. Andò nell'ingresso, aprì la porta. — Oh, la chiave — esclamò. — Tienila, tesoro — le disse lui, ruotando sulla poltrona. — È una copia. Con la mano in tasca, lei lo guardò, seduto al buio davanti agli schermi azzurrini, con la lampada verde mare sospesa alle spalle. — Merci — gli disse. — Siamo pari, visto che tu ne hai una di casa mia. — È quello che stavo pensando — rispose lui. Le mandò un bacio. — Spero che vada tutto bene. — Grazie — disse Kay. Ricambiando il bacio, si voltò per aprire la porta, lo guardò. — Dovresti fare un bagno caldo — suggerì.— Un bagno lungo, altrimenti più tardi ti sentirai tutto indolenzito. — Hai ragione — disse lui. — Lo farò, voglio soltanto vedere la reazione di Jay. Si sorrisero. Lei uscì. Chiuse la porta. Si diresse verso gli ascensori, toccò il pulsante della salita. Fece un respiro profondo. Lui stava mentendo di nuovo? Era tornato perché aveva paura di saperla lì da sola? Ma allora non le avrebbe lasciato la chiave, oppure non gliel'avrebbe data adesso. Era abbastanza facile per un bugiardo matricolato inventare delle scuse... Era sembrato davvero scosso. E tornare a casa dalla mamma rientrava perfettamente nel quadro psicologico. Grazie a Dio lei non aveva guardato più a lungo, aveva richiuso il cassetto dietro il battiscopa. Le videocassette, quelle giuste, sarebbero state abbastanza al sicuro dove si trovavano; era
difficile che lui ne inserisse una. Probabilmente stava andando davvero a una galleria d'arte; la Cinquantasettesima Strada ne era piena. Per comprarle un Hopper o un Magritte, senza dubbio. Sospirò, scosse la testa. Rivolse un sorriso alla telecamera nell'ascensore. La cosa giusta da fare era restare calma e comportarsi come avrebbe fatto se fosse stata diretta a un appuntamento con Norman e Anne Tyler, ammesso che fosse possibile. Niente che potesse innervosirlo, se stava guardando. Chiamare la polizia era escluso; lui poteva arrivare lassù prima che rispondessero. Uno scontro diretto era l'ultima cosa che desiderava. Felice si strofinò contro la sua caviglia appena lei tolse il chiavistello. — Ciao, tesoro — disse prendendola in braccio; la baciò sul naso e se la mise sulla spalla, accarezzandola mentre andava in camera da letto. La spia rossa della segreteria telefonica brillava, ben visibile sugli schermi principali. Se lui stava guardando. Fece cadere Felice sul letto e andò alla scrivania. Un solo messaggio, diceva l'indicatore. Lei toccò il pulsante del riavvolgimento, pregando che non fosse Sara che diceva qualcosa di sbagliato. Una impiegata di Bloomingdale's la informò che la consegna del tavolino da caffè era rinviata di altre due settimane; si scusavano per il ritardo. Lei accese la radio, andò alla finestra. Osservò il cielo grigio sul parco marrone, grattando la testa a Felice. Un giornalista parlò di una sparatoria nella metropolitana. Lei si slacciò la camicetta, dirigendosi verso l'armadio, e aprì le porte a soffietto. Scelse l'abito di lana azzurra, ottimo per Anne Tyler, ideale per la polizia. Lo adagiò sul letto, scostando Felice, prese dal cassettone il collant, un paio di slip, un reggiseno. La doccia? Lui se ne sarebbe accorto se non la faceva? Lo avrebbe trovato strano? Si sarebbe chiesto perché mai saltava quella dannata doccia? Ammesso che stesse guardando... Se lo sarebbe chiesto al punto da andare a controllare le cassette? Le cassette, non i contenitori? Improbabile. Ma se lo faceva... Si spogliò. Il giornale radio parlò della neve in arrivo dalla Pennsylvania occidentale, da dieci a venti centimetri. Lei spense la radio. Andò in bagno, aprì la doccia, si mise la cuffia per la doccia. Felice zampettava nella sua cassettina. Sporgendosi dalla porta della doccia, afferrò la manopola cromata Art
Déco, la girò. Era stata senz'altro la sua gemella del 13 A o del 13 B a sprigionare quel luccichio sul bastone o sulla mazza, o quello che era. La polizia probabilmente avrebbe trovato ancora dei segni, dei graffi. Provò la temperatura dell'acqua, aumentò quella calda. Entrò nella cabina di vetro nero, chiuse la porta. Fece alla svelta. Mentre si insaponava, si stupì che il Pete che aveva amato - che ancora amava, odiava, commiserava - potesse essere lo stesso Pete che aveva inferto quel colpo brutale, che aveva affogato Sheer là sul pavimento... Doveva aver impiegato delle ore a sistemare le cose nel modo giusto e a rimettere in ordine, il tutto registrato sulla videocassetta. Un grande avvenimento - la notte prima di quella giornata splendida quando lei aveva fatto il giro del laghetto e aveva incontrato per caso Sam - e come sarebbe rimasto Sam, sentendo tutta la storia! C'era forse un cambiamento nella luce, fuori della porta appannata dal vapore? La ripulì con la mano, sbirciò fuori... il bagno vuoto. Tutta immaginazione. Si sciacquò. Con calma. Andava a un appuntamento con Norman e Anne Tyler. E anche June, naturalmente. Aprì la porta, prese l'asciugamano dal gancio. Si asciugò, si tolse la cuffia per la doccia e l'appese alla manopola; uscì. Niente sul pavimento vicino al tappetino da bagno. Finì di asciugarsi al lavandino, guardando la propria immagine nello specchio, non la plafoniera in alto. Entrò in camera da letto, si sedette sul letto per infilare il collant; si alzò per tirarlo su e tenderlo bene. Mise il reggiseno, sistemò i seni; si avvicinò alla finestra mentre allacciava il gancetto alle spalle. Rimase ferma a guardare il cielo grigio, regolando il reggiseno. Neve in arrivo, eccome. Il laghetto era increspato dal vento, sul sentiero erano in pochi a fare jogging. Si spostò di lato alla finestra, chiuse le tende. I pannelli di chinz verde e bianco si unirono, sfiorando il bordo della mensola interna. Lei passò in bagno, si truccò il minimo indispensabile. Avrebbe dovuto dire che andava ad aiutare Roxie a spostare i mobili... Pensò al caos che l'attendeva, al processo, ai piranha dei mass media che smaniavano nella frenesia di nutrirsi, spolpando non solo Pete ma anche lei, la donna più vecchia sedotta dall'uomo molto più giovane. Oh buon Dio, la simpatia ipocrita che si sarebbe attirata da uomini e donne, i sog-
ghigni dietro le spalle. Desiderava ardentemente parlare con Roxie ("Ho un problema, Roxie, Pete è un assassino"). Delle sirene in lontananza si avvicinarono, risalendo Madison Avenue. Ulularono più forte, fra l'abbaiare dei clacson, arrivando fin sotto il palazzo; tossirono e si spensero con un singhiozzo, mentre i motori continuavano a rombare. Lei andò nel soggiorno, spazzolandosi i capelli. Si avvicinò alla finestra, si fermò vicino al davanzale, con una mano sul montante color bronzo al centro, e appoggiò la fronte al vetro. Luci rosse che giravano vorticosamente in basso, camion dei pompieri davanti al Wales, figure minuscole che si precipitavano all'ingresso. Lei osservò la facciata illuminata di rosso dell'albergo, il tetto... niente fumo né fiamme. Un falso allarme, si augurò. Bene, lo avrebbe distratto. Si spostò di lato alla finestra, chiuse le tende. I pannelli di seta bianca si unirono, sfiorando il bordo della mensola interna. Tornò indietro attraversando il soggiorno, fece una deviazione in cucina per chiudere bene il rubinetto, andò in bagno. Si rese conto, mentre finiva di pettinarsi, che su quel caso sarebbero stati scritti dei libri, e la Diadem non aveva un autentico autore di thriller, per giunta. Sebbene... che le piacesse o meno, in qualità di protagonista si sarebbe trovata nella posizione ideale per contrattare. Se uno dei grossi nomi era disposto a trasferirsi... Ecco cosa vuol dire considerare il lato positivo. Andò in bagno, raccolse lo slip. Squillò il telefono. Lei sollevò il ricevitore dell'apparecchio sul comodino. — Pronto? — disse, decisa a interrompere Sara. — Ciao. Lei rispose: — Ciao. Che trambusto qui di fronte. — È stato un falso allarme. — Che cosa c'è di nuovo? — domandò. — Kay... non posso permetterti di uscire, o di chiamare qualcuno. Lei rimase immobile, stringendo il microfono. Disse: — Di che cosa stai parlando? — Oh, tesoro, per favore... Lo sai. Le cassette. Ascolta. Ascoltò. Sentì un suono di fusa.
Fissò le tende, la porta. Non vedeva Felice da... da prima della doccia... Respirò a fondo. Si voltò, si sedette sulla sponda del letto. — Pete, non farle del male — disse. — Sta qui distesa sulle mie ginocchia e le sto solleticando le orecchie con un coltello X-acto. Lo sai che cos'è, non è vero? Sembra una penna, ma con un'estremità appuntita tagliente come un rasoio; lo usavo per le etichette. L'orecchio arancione, zac... L'orecchio bianco, zac... — Pete, ti prego... — implorò Kay. — Non voglio usarlo su di lei, ma se non fai esattamente quello che ti dico, lo farò. Mi serve un po' di tempo. Per escogitare una soluzione. — Benissimo — disse lei. — Puoi avere tutto il tempo che vuoi. — Si girò, guardò in alto verso la plafoniera ai piedi del letto. — Soltanto, non farle del male — ripeté. — So che non lo farai, tu le vuoi bene. — Guardò la pupilla cromata della plafoniera, la sua minuscola immagine capovolta seduta sul letto capovolto, rivolta verso di lei, con la pagliuzza bianca del ricevitore stretto in mano. — Se mi costringi lo farò, Kay, te lo assicuro. — Puoi avere tutto il tempo che vuoi — disse a se stessa nella plafoniera. — Volevi andare alla polizia. Se fossi tornato cinque minuti più tardi, quelle di poco fa sarebbero state le loro sirene. — No, non so che cosa avrei fatto — rispose lei. — Volevo andare da qualche parte a riflettere per conto mio, senza essere spiata. — Non raccontarmi balle, Kay. Volevi portare le cassette alla polizia, ecco perché le hai scambiate. — Volevo nasconderle quassù — ribatté lei. — Non sapevo che cosa fare. Volevo parlare con te, sentire... perché hai fatto quello che hai fatto, per tentare di capire, ma avevo paura. Pensavo che avere i nastri mi avrebbe dato una certa sicurezza. È per questo che li ho presi. — Tu farai quello che ti dirò, altrimenti Felice sarà fatta a pezzi. So quale nastro hai guardato e fino a che punto, non lo hai riavvolto, quindi sai che lo farò davvero se ci sarò costretto, non è vero? — Sì — rispose lei rivolta alla luce. — Lo so. — Ho bisogno di tempo per riflettere. Puoi vestirti e puoi lavorare, se vuoi... sul letto, lì posso vederti meglio. Se squilla il telefono, non toccarlo, lascia che risponda la segreteria. E alza il ricevitore soltanto se sono io. Capito?
— Sì — rispose lei. — La segreteria è inserita in modo che puoi sentire chi chiama? — Sì — rispose lei. — Più tardi parleremo, lo voglio anch'io. Mettiti i jeans, o quello che ti pare. — Hai avuto davvero un incidente? — No. Tutt'a un tratto ho capito che cosa avevi in mente. Sai dove stavo andando? A comprarti un Hopper. Ora guarda a che punto siamo. — Non dare la colpa a me — ribatté lei rivolta alla plafoniera. — Perché no, hai violato la mia privacy, non è vero? È un'ironia della sorte, non ti pare? Penso che con questo siamo pari, più o meno. Avanti, vestiti. E ricorda di non toccare il telefono a meno che non sia io. E non alzarti senza chiedere il permesso. Non fare niente... contro di me. Ti guarderò in ogni momento. Pari, più o meno. A parte qualche omicidio da parte sua, e la minaccia a Felice con un coltello... a meno che non fosse un'altra menzogna. Probabilmente no, dato che aveva fatto quello che aveva fatto a Sheer. Rabbrividì. Si augurò che sembrasse una reazione al libro che teneva aperto davanti. Calma... Finché lui era disposto a parlare, finché cercava una soluzione, tutto poteva concludersi pacificamente senza che nessuno si facesse del male, né Felice, né lei, e nemmeno lui. Non poteva sperare di ucciderla e di farlo passare per un incidente o un suicidio, a così breve distanza dalla morte di Sheer. E una volta sospettato l'omicidio, lui, il suo amante, sarebbe stato il principale sospetto. Si sarebbe scoperto che era il proprietario dell'edificio, e sarebbero venuti alla luce gli schermi al 13 B, le telecamere; si sarebbero riaperte le indagini su tutte quelle morti. Certamente lui se ne sarebbe reso conto, oppure sarebbe stato possibile farglielo capire. La sua possibilità migliore, la sua unica possibilità, era costituirsi, assumere uno di quegli avvocati superstar, invocare l'infermità mentale... Ma se, essendo pazzo, lui non lo avesse capito? Se lei fosse uscita di corsa, lui poteva intercettarla sulle scale o sull'ascensore. Se avesse chiamato la polizia o buttato una sedia fuori dalla finestra, lui sarebbe stato il primo ad arrivare lì, con la sua chiave universale... Felice laggiù che gli faceva le fusa in grembo. Maledetto... Doveva pur esistere un modo per farlo cadere in trappola se non voleva
intendere ragione... Pensa ai thriller... Lui la guardava mentre fingeva di leggere. Stava pensando, ci potevi scommettere il culo, a come convincerlo ad andare con lei al distretto di polizia per costituirsi. Invocando l'infermità mentale. Perché diavolo era andata a ficcare il naso dove non doveva? Avevano tutto, o avrebbero potuto averlo, e poi zac, più niente. Non c'erano dubbi su quello che doveva fare adesso, che lo volesse o no. Non gli aveva proprio lasciato scelta. Ma in che modo? Non c'era neanche una probabilità su un milione di farla franca con un altro incidente simulato o un suicidio, a così poca distanza da Rocky. E appena gli sbirri avessero cominciato a pensare all'omicidio, lui sarebbe stato il sospetto numero uno, l'amico o il marito lo era sempre (e a ragione, eh, papà?). Sarebbe venuto fuori tutto, tutto... A meno che... I poliziotti non pensassero che l'aveva uccisa qualcun altro... Non fossero sicuri che era stato qualcun altro... Guardò verso sinistra. Toccò il pulsante 3 B in alto, il pulsante uno. Felice si divincolò sulle sue ginocchia e lui alzò la mano. La gatta saltò sul pavimento, si allontanò annusando. Lui posò il coltello sulla console. Prese delle gelatine di frutta. Si appoggiò allo schienale, masticando, osservando gli schermi principali. Sam sull'uno, lei sul due... Impiegò un minuto o poco più a elaborare il piano. L'insieme, non i dettagli. Due domande essenziali: poteva interrompere la sorveglianza per un quarto d'ora, venti minuti quella sera, mentre Sam era fuori per vedere la commedia di Candace? E sarebbe riuscito a tenere Kay tranquilla e sotto controllo fino all'indomani sera, dato che non avrebbe fatto in tempo a organizzare tutto prima di allora? La salvezza, se riusciva a farcela. Anche pulita... in tutt'e due i sensi, pulita-tranquilla e pulita-pulita. Due piccioni con una fava. Li osservò.
Sam sullo schermo uno, mentre pestava sui tasti della vecchia portatile. Kay sul due, che voltava le pagine... PARTE TERZA 11 Lei chiuse il libro. Si tolse gli occhiali, alzò la testa verso la luce. Disse: — Vorrei andare in cucina a preparare una tazza di caffè. Restò seduta a guardare il lampadario. Il libro, la copertina e la quarta. Il telefono squillò. Si girò verso il comodino: all'orologio, le 4.22 del pomeriggio. Il telefono squillò. Lei posò gli occhiali sul comodino, il libro sulla pila che c'era sotto, si mise a sedere. Il telefono squillò; scattò la segreteria sulla scrivania. Lei si passò le mani fra i capelli. — Pronto — disse la sua voce. — In questo momento non posso venire al telefono, ma se vorrete lasciare un messaggio dopo il segnale, vi richiamerò appena possibile. Grazie. La macchina emise un bip. — Sono io — disse la voce di Pete. Lei sollevò il ricevitore. — Aspettiamo che s'interrompa. Lei sospirò. Restò seduta a guardare le tende, la scrivania, il lampadario. La sua immagine minuscola che stringeva il telefono... Bip. — Sì, puoi farti il caffè. Non attaccare, lascia il telefono sul letto. In cucina non posso vederti, ma tengo d'occhio l'ingresso. Se prenderai in mano il citofono vedrò Terry andare a rispondere; nell'attimo in cui dirà: «Sì, signorina Norris», Felice verrà tagliuzzata, e se continuerai... — Lasciamo perdere — disse lei — prenderò dell'acqua in bagno. Immagino che questo sia permesso. — Se vuoi il caffè, puoi fartelo, solo non toccare il citofono, tutto qui. — Non ne avevo intenzione — disse lei. — Fa' pure. Kay posò il ricevitore, si alzò dal letto. Andò in cucina, accese la luce. Mentre le luci al neon acquistavano luminosità, guardò le ciotole del cibo e dell'acqua sul pavimento nell'angolo,
il tiragraffi alla parete. Il telefono a muro, il citofono. Riempì il bollitore, lo mise su un fornello, accese la fiamma sotto. Versò del caffè istantaneo nella tazza con una grande K marrone. Rimase in piedi a guardare il bollitore che borbottava. Lanciò un'occhiata alla rastrelliera dei coltelli. Portò la tazza in camera da letto. Sollevò il ricevitore, si sedette sulla sponda del letto, portò il microfono all'orecchio. — Anch'io ho preparato del caffè. — Che bello — commentò lei. — Potremo farci due chiacchiere mentre lo beviamo. — Tesoro, mi dispiace, ho bisogno di un po' di tempo. Non so che cosa fare... Lei si spostò, appoggiò sul letto una gamba piegata; guardò la plafoniera. Scosse la testa. Sospirò. — Oh, Dio, Pete... — disse. — È stato perché avevi paura che lui venisse a sapere delle telecamere? Sheer, voglio dire? Restò seduta a guardare la luce. — È stato per quello, Petey? — insistette. Un sospiro. — Sì... voleva andare allo showroom della Takai. Lì avrebbe visto una plafoniera, oppure una foto, e avrebbe avvertito la polizia... Kay disse: — E allora avrebbero riaperto le indagini sulle altre morti... Restò seduta a guardare la plafoniera, tenendo in mano la tazza, il ricevitore. — Non credo che dovrei continuare a parlarne. Può darsi che tu finisca per ripeterlo in tribunale — disse lui. Kay bevve, guardando il lampadario. — Petey — disse — lo sai che non puoi continuare... a fare quello che hai fatto. Prima o poi ti prenderanno, e più tardi è, peggio è. — Tu vuoi che mi costituisca... — Sì, penso che sarebbe sensato — rispose lei. — Deporrebbe a tuo favore, e molto, ne sono sicura... e tu puoi permetterti gli avvocati più in gamba. Faranno a gara per difenderti, sono tutti così assetati di pubblicità. — Oh, sì, ci sarebbe molta pubblicità, è vero. Puoi immaginarti come sarebbe? Lei sospirò, alzò una spalla. — Penso ugualmente che sarebbe la soluzione migliore per te, piccolo — disse. — L'unica soluzione. — Stava guardando la plafoniera. — Potrei buttarmi dalla finestra.
Lei si protese in avanti. — Oh, non dire così, piccolo, no — esclamò, scrollando la testa. — Se tutto quello che hai fatto è stato a causa delle telecamere... e in fondo è stato così, no? — Guardò la plafoniera. — Non è vero? — Sì... Lei riprese: — Piccolo, sono sicura, tenuto conto di chi era tua madre e tutto il resto, che un buon avvocato potrebbe... presentare una richiesta convincente... di infermità mentale... — Vuoi dire che potrei finire per tutta la vita in una clinica? Diventare il compagno di stanza di Hinckley? — Non per tutta la vita — ribatté lei. — Forse solo qualche anno, se ti costituisci. Sei giovane, avresti ancora un futuro. E saresti vivo. Non parlare di buttarti dalla finestra, quello sarebbe davvero stupido. — Oh... merda... Devo riflettere. È una decisione difficile... — Certo che lo è — convenne lei. — Prenditela comoda. Non avevo in progetto di uscire, stasera. — Sorrise. — Perché non porti qui Felice, adesso? Probabilmente sarà furiosa. — Restò seduta sorridendo al lampadario. — No, la terrò qui. Quindi non prendere decisioni per me, voglio prendere le mie decisioni da solo. — D'accordo — disse lei. — Questo posso capirlo. — Qui c'è della roba che può mangiare. Sta facendo un balletto, annusando in giro per tutta la casa. Le ho messo dei giornali nella doccia. — Potrebbe cacciarsi nei guai nel ripostiglio. — Ho chiuso la porta. Starà benissimo... finché tu non mi provocherai, Kay. Dico sul serio. — Va bene — disse lei rivolta al lampadario. Annuì. — Non c'è bisogno che resti sul letto. Basta che tu stia alla larga dai telefoni e dalle finestre e dalla porta. Richiamerò più tardi. Aspetta di sapere che sono io. — Uno scatto. Il segnale di libero. Lei si girò per attaccare. Restò seduta a guardare la tazza. Aveva cominciato a nevicare. La gente entrava nell'atrio scrollando la neve dal cappotto. Lui guardò Sam che indossava il piumino. Kay seduta contro il bracciolo del divano, con le braccia intorno alle ginocchia fasciate dai jeans, i piedi nudi appoggiati sui cuscini. Mordicchiava una stanghetta degli occhiali, con il manoscritto che stava leggendo ficcato di lato fra i cuscini.
Lui scartò un biscotto della fortuna, tirò fuori la strisciolina di carta, la tenne sospesa contro la luce bianco-azzurra. L'ispirazione è fatta per il novanta per cento di traspirazione. Azzeccato ancora una volta. L'accartocciò, gettandola nel piatto vuoto. Addentò il biscotto, guardando Sam uscire dalla porta delle scale e avviarsi sulla passatoia scura attraverso l'atrio, dicendo qualcosa a Walt vicino al portone. Kay allungò la mano, posò gli occhiali sul tavolino da caffè. Guardò in alto verso di lui, stringendosi le ginocchia. Sospirò. — Chiamami, per favore — disse. — Credo che tu conosca il numero. La guardò mentre lo guardava. Sollevò il ricevitore, toccò il pulsante della chiamata automatica e il numero uno. Sentì i bip, ottenne il segnale di occupato. Il telefono di Kay squillava. Lei tese la mano, si fermò, guardò verso di lui. Lui trattenne il fiato. Attaccò e azionò il collegamento con il telefono di lei. Kay si appoggiò allo schienale mentre il telefono squillava. Giocherellò con un bottone della camicetta. Buona angolazione per vedere il solco fra i seni... — Pronto. In questo momento non posso venire al telefono, ma se vorrete lasciare un messaggio... Buona anche la luce. Bip. — Ciao, sono Roxie. Ci sei? — Lei si raddrizzò, stringendo con la mano la spalliera del divano, tendendo il collo verso l'ingresso. — Il pattinaggio è sfumato, Fletcher deve andare ad Atlanta. A meno che voi altri non vogliate andarci lo stesso... ammesso che lo vogliate. Fammi sapere. Ciao. — Un bacio. La segreteria scattò. Kay alzò gli occhi verso di lui. — Pete? — disse. Lui sollevò il telefono, sfiorò il pulsante per la ripetizione della chiamata. Lei abbassò la testa, rimase immobile. Il telefono squillò. Lei si adagiò di nuovo contro il bracciolo del divano. Allungò le gambe, le incrociò all'altezza delle caviglie. Giocherellò con il bottone della camicetta mentre il telefono squillava e si sentiva il messaggio registrato. I jeans le modellavano i fianchi e le cosce, la V fra... Bip. — Sono io — disse lui.
Kay allungò la mano, prese il ricevitore, si appoggiò di nuovo al bracciolo. Aspettarono. Lei giocherellava con il bottone della camicetta, sdraiata sul divano, con la schiena arcuata, le gambe incrociate all'altezza delle caviglie, il telefono in mano. Bip. — Ciao — disse lei, guardandolo. — Ciao — rispose lui, osservandola. Kay sospirò. — Ho riflettuto su come sarà. La pubblicità. I piranha. Per mesi, durante un lungo processo, e dopo... I sogghigni che si farebbero alle mie spalle tutti i colleghi in ufficio, tutti quelli che conosco... Gli anni di vita che tu perderesti, molto probabilmente... — Lei sospirò. — Più ci penso, peggio mi sembra. — Lo guardò. Lui la osservava. — Piccolo — disse lei — ho un'idea che forse ci farebbe uscire da questa situazione. — Di che si tratta? — chiese lui. — Tienti forte — disse. — Ti sorprenderà, ma penso che dovremmo rifletterci piuttosto seriamente. — Mi sto tenendo forte — rispose lui. — E se ci sposassimo? — propose lei. Lui guardò Kay che lo guardava. — Hai ragione — disse — è una sorpresa. — Fra le altre cose, questo per me significherebbe — disse lei — che non mi sentirei più in dovere di parlare. Finché marito e moglie non possono testimoniare l'uno contro l'altro, non ci si può aspettare che si denuncino l'un l'altro alla polizia, no? Non è che tu sia uno di quei maniaci omicidi che lo fanno per il gusto di farlo o per un impulso irresistibile, e magari potrebbero rifarlo. Tu eri minacciato, ti stavi difendendo, avevi dei motivi reali. Almeno, così penso che sia andata sempre. Correggimi se sbaglio. Osservandola, lui disse: — Continua. — Naturalmente — disse Kay — bisognerebbe fissare condizioni preliminari molto precise, la prima delle quali sarebbe la chiusura totale dell'impianto, subito, senza tentennamenti... neppure da parte mia. Dobbiamo presumere che qualcuno riuscirà sempre a scoprirlo e a diventare una minaccia, in un modo o nell'altro. Lui la osservò. — La condizione numero due? — domandò.
— Non so — rispose lei. — Non ci ho ancora pensato. Ma Cristo, Pete, pensi che ci potrà mai capitare un'altra occasione come questa? Il modo in cui stavamo bene insieme, il sesso fantastico... tu sei sempre tu, in ogni modo; non posso mettere a tacere i miei sentimenti così. E mi sono fatta anche un esame di coscienza. Non pensare che sia del tutto indifferente al denaro, perché non lo sono, credimi. La condizione numero due sarà probabilmente che compriamo un bell'appartamento sul parco con tre domestici. — Sorrise. — Che ne pensi? Lui rispose: — Sembra magnifico... ma come faccio a sapere che dici sul serio? Potresti ingannarmi. Forse appena riavrai Felice correrai alla polizia. — Non lo farò — rispose lei. — Immagino che tu debba considerare questa possibilità; è vero che la mia prima reazione è stata... cercare di escogitare un piano qualsiasi. Ma, Pete, più penso ai giornali, e al processo... mio Dio, sarebbe il più sensazionale da anni... e alla parte della tua vita che perderesti... A che scopo? Quel che è fatto è fatto, non si può rimediare. Se non mi sentissi in dovere di parlare... — Lei sospirò, giocherellando con il bottone della camicetta. — No, non ti sto ingannando, piccolo — riprese. — Non tutte le donne sono attrici. Vuoi rifletterci seriamente, per favore? Il lato negativo probabilmente sarà che dovrai accontentarti di gatti invece che bambini... — Quello è un di più — disse lui. Kay sospirò. Sciolse le caviglie, sollevò un ginocchio, lo guardò, tenendo il ricevitore all'orecchio. — Che cosa volevi comprare? — domandò. — Un disegno? — Un dipinto — rispose, guardandola. — Ne tengono due a mia disposizione per la scelta. Lei sospirò, scosse la testa. — Io volevo regalare a te un quadro — disse, giocherellando con il bottone della camicetta. — O qualche splendida fotografia... Lui la osservò. — Hai abbastanza da mangiare? — domandò. — Mm-mmm — mugolò lei. — Sono a dieta. — Felice ha mangiato gamberetti in salsa di astice. — Magnifico, la vizierai... — Sta dormendo sotto la console — disse. — Sul poggiapiedi. Lei sorrise, si massaggiò un lato del collo, fece una smorfia. — Ahi... — si lamentò. — Tutto questo mi fa sentire così terribilmente tesa. Lui suggerì: — Perché non fai un bagno? Kay lo guardò, sorrise. — Buona idea — rispose.
— Parleremo dopo — le disse. — Okay — rispose lei. La guardò mentre lo guardava. Attaccarono. Lui si preparò contemporaneamente a lei. Rilesse il biglietto, corresse amante in stallone, lo piegò. Si alzò e lo infilò nella tasca posteriore destra dei pantaloni. Lei stava facendo scorrere l'acqua, versando la schiuma da bagno. Lui aprì l'ultimo cassetto a sinistra, trovò la scatola dei guanti di plastica; ne staccò due dal rotolo, se li mise nella tasca di sinistra. Controllò le chiavi e gli spiccioli nella tasca destra. Lei inserì una cassetta nel registratore in camera da letto. La chitarra di Segovia suonò un accordo. La guardò mentre si spogliava. Nemmeno uno sguardo per lui. Nemmeno uno. Come se nessuno potesse guardarla, lì nella sua confortevole camera da letto. Come ai vecchi tempi. Se soltanto avesse saputo... Decisamente eccitante... Anche per lei? Forse, ma solo forse, non stava tentando di fregarlo, Kay dalle tette favolose? I media sarebbero stati davvero volgari con lei per via della differenza di età... E chi non avrebbe preferito essere ricco? Non essere cretino. Tolse l'involucro a una cassetta, la inserì nel videoregistratore, e cominciò a registrare nel momento in cui lei si affacciò alla porta del bagno, tenendo chiusa la corta vestaglia di raso. Rimase ferma a guardarlo, con una mano sull'interruttore. La luce si attenuò. E si rialzò leggermente mentre lei stava ferma a guardarlo. Sorridendo? Si avvicinò alla vasca piena di schiuma; chiuse il rubinetto. Si diresse al lavabo, cominciò ad appuntarsi i capelli all'indietro, mentre la vestaglia si apriva di fronte allo specchio. Lui controllò i monitor del 3 B e del 3 A. Susan era in soggiorno, mangiava da un vassoio posato sulle ginocchia, guardando la televisione. Passò in rassegna le file di schermi azzurrini. Niente di notevole. La guardò mentre si lasciava scivolare la vestaglia dalle spalle, sollevava
una gamba, infilava un piede nella schiuma. Guardò... Controllò l'orologio da polso e quello da tavolo. Le 7:50. Si voltò e passò nell'ingresso. Sbirciò fuori, aprì la porta, uscì; richiuse la porta dietro di sé. Aprì la porta delle scale, uscì sul pianerottolo con il numero 13 in nero e la luce bianca al neon. Rimase fermo con una mano sulla ringhiera, guardando in alto nella tromba delle scale. Kay stava cercando di fregarlo. Non c'erano dubbi. Si affrettò a scendere le rampe zigzaganti, giù nel grigio pozzo di cemento. Aprì tutt'e tre le porte a soffietto; si spostò dalla parte opposta della stanza e si soffermò a osservare gli armadi a muro semivuoti, le scarpe e le valigie sul fondo, i ripiani in alto stipati di scatole e borse da viaggio, le pile di libri in edizione economica. «Ne ho una anch'io, nell'armadio» aveva detto Sam, mentre giocava a carte qualche settimana dopo che si era trasferito lì. «Una volta un marito geloso aveva deciso di farmi fuori. Sul serio, non scherzo. Un vedovo geloso; lei era morta. Un'attrice che mi sbattevo da secoli e secoli. Ma sono ancora favorevole a metterle al bando.» Chissà perché, lui se ne ricordava. La trovò al secondo tentativo, in una ventiquattrore chiusa da una lampo, avvolta in un asciugamano bianco di motel che puzzava di olio: un'automatica nichelata, con la scritta Beretta U.S.A. sul carrello otturatore, il calcio zigrinato vuoto. Due caricatori nella borsa, uno pieno, l'altro con due proiettili mancanti. Sollevò la pistola con la mano coperta dal guanto di plastica. Un altro lascito del papà, in un certo senso. Se la infilò nella cintura dei jeans, abbassò il pullover per coprirla, ci batté la mano sopra. Mise il caricatore pieno nella tasca laterale sinistra. Chiuse la lampo della borsa lasciando dentro l'asciugamano e l'altro caricatore, la ripose sul ripiano dell'armadio a muro; l'avrebbe riaperta quando sarebbe sceso in seguito a sistemare il biglietto vicino alla macchina da scrivere. Chiuse le porte a soffietto, lasciando socchiusa quella più vicina all'ingresso così come l'aveva trovata. Sedendosi al tavolo nel soggiorno, controllò l'orologio - le 7:57 - e stu-
diò il dattiloscritto di Sam, le ultime pagine chiuse nella cartelletta gonfia. Il modo di battere a macchina, non le parole. Fra le righe spiccava il nome Thea. Più tardi avrebbe portato via quelle pagine; nessuno ne avrebbe notato la mancanza. Alcune lettere erano più scure delle altre, battute con forza maggiore: le "m", le "n" e anche le "u". Alcune erano state cancellate con una X. Tirò fuori la brutta copia del biglietto. Infilò un foglio della carta di Sam nel rullo della vecchia Remington. Con le dita guantate batté rapidamente sui tasti neri e rotondi, cercando di imitare Sam. Il quarto tentativo gli parve buono: A tutti gli interessati: Kay Norris mi ha fatto certe promesse che ha deciso di non mantenere. Voglio offrirle ancora una possibilità di rinunciare al suo giovane stallone. Se state leggendo questo biglietto, significa che ha rifiutato. Le avevo fatto una promessa, e io mantengo sempre le promesse. S.Y. Andò verso la libreria, si accovacciò, tirò fuori uno dei grossi volumi posati di piatto sull'ultimo ripiano in basso, I classici del cinema muto, infilò il foglio fra le pagine e rimise il libro al suo posto nella pila. Si sfregò le mani, controllò l'orologio. Le 8:06. Sedici minuti da quando era uscito di casa. Nessun problema. Lei ci avrebbe messo almeno mezz'ora: Segovia, la schiuma... Piegò la brutta copia del biglietto e i primi tre tentativi e se li mise in tasca. Ricoprì la macchina da scrivere, rimise il dizionario sulla cartella, la lampada e la sedia nella posizione in cui le aveva trovate, spense la lampada. Rimase fermo sulla porta con una mano sull'interruttore e una sulla pistola che portava infilata nella cintura, coperta dal maglione, lanciando un'ultima occhiata alla stanza dove l'arredamento da rigattiere non era molto migliore dal vivo che sullo schermo. Spense la luce, si diresse alla porta d'ingresso, guardò fuori dallo spioncino. Un uomo aspettava davanti alla porta del 3 A. Attese mentre la porta si apriva e Susan contava le banconote, diceva qualcosa, richiudeva la porta.
Attese che l'uomo prendesse l'ascensore. Si precipitò giù per le scale togliendosi i guanti. Le 8:11. Arrivato al seminterrato, premette il pulsante dell'ascensore ed entrò nella lavanderia. Denise e Allan voltarono le spalle a una delle lavatrici. Lui li salutò con un cenno, si diresse verso i distributori automatici. Denise e Allan? Buon Dio, aveva perso i contatti. Si scostarono mentre lui inseriva le monete nella fessura. Prese un sacchetto di patatine e uno di erba gatta; si affrettò a uscire dirigendosi verso l'ascensore numero due che si stava aprendo. Salì al tredicesimo. Aprì la porta. Kay era nella vasca, con la testa appoggiata all'angolo della parete. Distesa sotto isolette di schiuma, a occhi chiusi. Lui si lasciò cadere sulla poltrona, guardando. Estrasse la pistola, la posò sulla console. Guardò. Felice saltò sulla console, annusò la pistola. La scavalcò, per andare ad annusare il coltello. Lo sfiorò con la zampa; rotolò via e lui lo prese in mano. — Grazie — disse. Tagliò con il coltello l'involucro di plastica, tirò fuori il sacchettino, lo tenne sollevato verso Felice. Lei si protese per annusarlo. Lui lo lanciò lontano alle sue spalle e la gatta saltò giù dalla console. Aumentò appena la luminosità. Guardò, riponendo il coltello in un cassetto. Si rilassò sulla poltrona, guardando; pescò con un piede sotto la console, agganciò il poggiapiedi per tirarlo fuori. Disse: — Sono io. Lei sollevò il ricevitore e se lo appoggiò contro la spalla, seduta sul letto a gambe incrociate in un pigiama bianco. Pescò nella coppetta, estrasse una cucchiaiata di gelato scuro. Lo tenne sollevato verso di lui, sorridendo. Bip. — No, grazie — disse. — Sto bevendo una vodka con acqua tonica. — Scosse il bicchiere in modo da far tintinnare il ghiaccio; ne bevve un sorso. Lei mangiò il gelato, guardandolo. Domandò: — Stiamo festeggiando? — Non lo so — rispose lui, guardandola. — Mi serve ancora tempo per riflettere. Te lo dirò domattina. Lei immerse il cucchiaino nella coppetta. — Mi sembra stupido sprecare
una bella nottata... — Lo guardò, mangiando il gelato. Lui sorrise e disse: — Io non la considero sprecata. Parleremo domattina. Lei lo guardò. — Ti amo, piccolo — disse. — Non fare sciocchezze. — Neanche tu — le rispose. La mattina dopo le disse che aveva ancora bisogno di tempo. — Non vedo perché. — Perché penso ancora che forse stai cercando di fregarmi, ecco perché. — Non è così — disse Kay, supina, guardando il lampadario, giocherellando con il filo del telefono. — Allora abbi fiducia in me. Solo fino a stasera. Stasera porterò su Felice, te lo prometto. Devo parlare al mio avvocato di certe questioni e ho qualche difficoltà a rintracciarlo. È a Vail, nel Colorado. Lei disse: — Voglio andare a fare un po' di spese. — Potrai farlo domani. In ogni caso sta nevicando, e forte. Non esce nessuno. — Voglio chiamare Roxie, Wendy... — Bada soltanto a quello che dici. — Non voglio che mi ascolti! — Allora aspetta fino a domani! Lei attaccò, si mise a sedere. Fece una smorfia rivolta al lampadario, gli mostrò la lingua. Si alzò dal letto e andò alla finestra, tirò a due mani il cordone delle tende. Rimase a braccia conserte, guardando i fiocchi bianchi che turbinavano, il parco bianco, un tetto a guglie trapunto di bianco, i giardini bianchi. Il davanzale spoglio, soltanto il cannocchiale sopra. — Salve, signor Yale — disse. — Mi chiamo Pete Henderson. Sono un amico di Kay Norris, dobbiamo venire al suo party venerdì prossimo... — Oh, certo — rispose Sam sullo schermo uno, in piedi vicino al tavolo del soggiorno, col telefono accostato all'orecchio. — Ci siamo parlati in ascensore. — Esatto, io sto al 13 A — spiegò lui. — Le dirò per quale motivo la chiamo. Ho scoperto solo ieri sera che oggi è il compleanno di Kay. — Ah sì? — La sua amica Roxie e io stiamo organizzando una piccola festa a sor-
presa per lei. — La guardò passare l'aspirapolvere in camera da letto sullo schermo due. — Alle nove di sera — aggiunse. — In casa sua. Di Kay, voglio dire. Soltanto una dozzina di persone. So che le farebbe piacere se ci fosse anche lei... — Ne sarei felice — disse Sam. — Grazie. — È al 20 B — disse lui. — Le dispiacerebbe cercare di arrivare alle nove in punto, se possibile? Le misure logistiche sono piuttosto complicate. — Alle nove spaccate — rispose Sam. — Grazie — disse lui. — Ci vediamo allora. — Grazie a lei — replicò Sam. — Sarà piacevole parlare di qualcos'altro che non sia il tempo. — Ha ragione — convenne lui sorridendo. — Al 20 B, alle nove in punto. Attaccarono. Lui tirò un sospiro di sollievo. Accarezzò Felice che gli dormiva in grembo. Osservò Sam sollevare il ricevitore. Si sentì il segnale della segreteria. — Ciao, Jerry, sono Sam — disse. — Non ce la farò a venire. Spero che questo non mandi a monte la serata; forse potrà prendere il mio posto Milt. Stammi bene. — Attaccò. Si avvicinò alla finestra. Rimase a guardare uno spazzaneve che risaliva il viale sferragliando e ammassando un muro di neve contro le auto parcheggiate lungo il marciapiede di fronte. Una bella sorpresa per gli automobilisti quando sarebbero tornati. Tentò di pensare a un regalo da farle, qualcosa che, senza essere troppo costoso o personale, rivelasse tanto spirito e acume da eclissare qualunque dote il giovane Pete Henderson possedesse in quel campo. Chissà perché quel nome faceva squillare un campanello dentro di lui? Ma certo... Henderson era il cognome del marito di Thea. E suo figlio non si chiamava Peter? Sì... Abbastanza comune, Peter Henderson... Questo sembrava più o meno dell'età giusta. Aveva anche i colori giusti: i capelli castano rossicci e gli occhi azzurri di John Henderson... Che coincidenza sarebbe stata, il figlio di Thea... Che si accompagnava, naturalmente, con donne che le somigliavano, Kay moltissimo, Naomi
Singer appena un po'... Era possibile? E Kay lo sapeva? Era stato Pete Henderson a raccontarle della valigia e dei vestiti estivi? Glielo avrebbe chiesto, una volta finita la festa a sorpresa. 12 Lei si piazzò vicino al tavolino da caffè, alzò la testa verso il lampadario. — Quel che è troppo è troppo — disse alla sua immagine capovolta, in scarpe da ginnastica, jeans e maglione a collo alto bordò. — Sono le otto e mezzo, accidenti. Non resisto più a stare rinchiusa. Usciamo a mangiare un hamburger o qualcos'altro. Non disturbarti a chiamare, prendi solo... — Si voltò sentendo scattare la serratura e aprirsi la porta d'ingresso. Lui entrò tenendo fra le braccia Felice, che si guardava attorno miagolando. — Ciao — disse. Scaricò Felice sul pavimento dell'ingresso. Lei chiuse gli occhi, prese fiato. Riaprì gli occhi mentre Felice andava in cucina. — Ehi, stupida, aspetta — disse, rincorrendola. Felice si fermò e si voltò a guardarla. Lei si accovacciò, la prese in braccio, si rialzò tenendola stretta contro la spalla; affondò il viso nella pelliccia variegata, la baciò. Felice cominciò a divincolarsi. Lei la portò in cucina, si abbassò, la lasciò saltare sul pavimento. — Quando le hai dato da mangiare l'ultima volta? — chiese, accendendo la luce. — C'era della roba in giro. — Che cosa, un involtino primavera? — Aprì uno dei pensili, tirò fuori una scatoletta. Felice la guardò miagolando. — Calma — le disse, prendendo l'apriscatole dal cassetto. Lanciò un'occhiata a Pete che entrava in cucina. — Ciao — gli disse. — Ciao. — Lui sorrise e si guardò attorno, con le mani nelle tasche dei jeans, una giacca di tweed sui toni del verde abbottonata alla cintura sopra una camicia celeste. — Somiglia alla mia cucina — osservò. Piatti sporchi erano accumulati nel lavello, utensili e scatolette sui ripiani, uno strofinaccio per i piatti era abbandonato sulla rastrelliera dei coltelli. — Che tu ci creda o no — rispose lei, azionando l'apriscatole — nelle ultime trenta ore o giù di lì non sono stata al meglio della mia forma. Che bel tweed.
— Vecchio — ribatté lui. — Hai parlato al tuo avvocato? — Si accovacciò, versando a cucchiaiate il cibo nella ciotola mentre Felice stava a guardare. Alzò gli occhi verso di lui, che scosse la testa. Lei continuò a versare il cibo nella ciotola. — Che cosa hai deciso? — Parliamone di là — rispose lui. Kay mise la scatoletta nella spazzatura, il cucchiaio nel lavello. — Che ne dici di un hamburger al Jackson Hole? — propose. — A stare rinchiusa mi viene la claustrofobia. Lui disse: — Prima parliamo, okay? Kay sciacquò la ciotola dell'acqua, la riempì e la mise sul pavimento. Si avvicinò a lui, sorrise, lo baciò sulle labbra. — Vuoi un drink? — domandò. Lui scosse la testa, la baciò sulla bocca. Si spostarono nel soggiorno, intrecciando le dita mentre camminavano. Arrivati al divano si separarono, ci girarono intorno. Lei si sedette, lui andò alla finestra. Scostò con un dito i pannelli di seta bianca, guardò fuori. — È come ricominciare daccapo. — Mi piacerebbe lo stesso uscire — disse Kay. Restò seduta a guardarlo, seduta contro il bracciolo destro del divano, una gamba piegata sul cuscino, una mano sul ginocchio ricoperto di tela jeans. Lui si diresse verso l'altro capo del divano; si fermò vicino al tavolino da caffè, rimase in piedi a guardarla. Sospirò. — Tesoro — le disse — darei qualunque cosa pur di poterti credere. Dico sul serio. Ma non ti ci vedo a dimenticare degli omicidi, specialmente quando una delle vittime era una persona che conoscevi, anche se solo di sfuggita. Lei rispose, guardandolo: — Stai sottovalutando quello che significhi per me, e quanto mi spaventa l'idea della pubblicità. Non sto dicendo che sarò felice alla follia, che a volte non sarò turbata. — Scrollò le spalle. — È la soluzione migliore — riprese. — Dal mio punto di vista egoistico, e anche dal tuo, direi. A meno che tu non voglia a nessun costo sposare una donna della mia età. — Oh, andiamo — disse lui. Arretrò fino alla poltrona di fianco e si sedette sull'orlo, scuotendo la testa. — No — disse — tu avevi paura che mi buttassi dalla finestra e volevi riavere Felice. — La gatta attraversò il tappeto davanti a lui, agitando la coda dalla punta nera. — Brava ragazza, proprio al momento giusto — le disse. — L'ho ammaestrata.
Rimasero a guardare Felice mentre si adagiava sul cuscino sotto la finestra, si leccava una zampa e se la passava sul muso. — Mi ha fatto davvero piacere tenerla con me — disse lui. Si guardarono. Kay domandò: — Hai intenzione di costituirti? Lui si slacciò la giacca, intrecciò le mani fra le ginocchia, restò seduto a guardarla. — No — rispose. — Non ho voglia di passare il resto della mia vita in un manicomio. Se avrò fortuna. — Non sarebbe per tutta la vita — ribatté lei. — A guardare la TV nella sala di ricreazione — riprese lui con un sorriso. — A litigare con gli altri matti su quale canale scegliere. No... — Sospirò, scosse la testa e l'abbassò, si strofinò i capelli castano rossicci. Lei restò seduta con la mano sul ginocchio, guardandolo. — Lo sai, Pete — gli disse — che se... se dovesse succedermi qualcosa, anche se in apparenza fosse un incidente o un suicidio, o un furto con scasso o quello che vuoi... ora, a così poca distanza dalla morte di Sheer... — Lo so, sarei sospettato... Kay si protese verso di lui. — Piccolo, stammi a sentire — disse. — Con un buon avvocato potresti essere fuori in molto meno tempo di quanto credi, e tu puoi permetterti il meglio, no? C'è la beneficenza che hai fatto, il denaro che hai mandato alla gente, anche quello verrà preso in considerazione. E poi, il fatto stesso che ti sei costituito, quello dovrebbe essere un grosso punto a tuo favore, so che lo sarebbe. Onestamente, piccolo. Lui alzò la testa, la guardò. Kay disse: — Non sarà così terribile... — Gli sorrise. — Riceverai lettere d'amore da donne di tutte le età. Lui disse: — Sta per arrivare Sam. Kay lo guardò. Lui infilò la mano sotto la giacca. — Questa è sua — disse. — Mio padre voleva farlo fuori, dopo la morte di mia madre. È stato allora che l'ha comprata. È una Beretta calibro nove. Lei guardò la pistola nichelata nella sua mano. — Sembrerà un omicidio-suicidio — spiegò lui. — Sam ti faceva telefonate insistenti. Niente di speciale, penso che tu non ne abbia neppure parlato con altri, tranne me. — Posò la mano sulla coscia, con la canna della pistola rivolta verso il pavimento. — Ha frainteso alcune cose che tu hai detto nel parco qualche tempo fa. Voleva che smettessi di vedermi... sai come possono diventare gelosi i vecchi. Troveranno un biglietto di
questo tenore vicino alla sua macchina da scrivere. L'ho battuto a macchina ieri sera, mentre eri nella vasca. — Sorrise. — Non tutto il tempo, per i primi venticinque minuti circa. Lei chiese: — Per quale motivo verrà? — Per una festa a sorpresa — rispose lui. — È il tuo compleanno. — Lanciò un'occhiata all'orologio, impugnò la pistola con tutt'e due le mani tenendola fra le ginocchia, accarezzando la canna con le dita. — Il buffo — aggiunse — è che era proprio lui quello che volevo eliminare fin dall'inizio. È per questo che l'ho fatto venire qui, volevo tenerlo d'occhio e poi farlo fuori appena trovato un sistema sicuro. Thea, mia madre, stava andando da lui, per stare con lui, quando... Avevano litigato furiosamente su questa faccenda prima del party, lei e mio padre. Lei non è caduta dalle scale, l'ha spinta lui, l'ho visto. — Fece un respiro profondo. — È stata colpa di Sam quanto sua — disse. — Ma poi... ho dovuto sistemare Billy Webber. E Brendan Connahay è morto subito dopo. Così lui, Sam, ha ottenuto un rinvio della condanna a morte. E anche dello sfratto. — Sorrise. — Si è rivelato piuttosto interessante, con le lezioni di recitazione, quelle vere e le altre. Non ho intenzione di dirti quale fosse la proporzione. — Sollevò la pistola, fece arretrare il carrello e lo lasciò andare, la puntò contro di lei tenendo il dito sul grilletto. — Hai un coltello sotto il cuscino? — le domandò. Lei rimase immobile a guardarlo. — Che sangue freddo — osservò lui. — Non ti ho visto infilarcelo. Ora tiralo fuori lentamente, solo con due dita, in modo che tu non possa lanciarlo contro di me, e posalo sul tavolino da caffè. Subito. Lei infilò la mano dietro il cuscino e tirò fuori, sollevando il manico nero fra pollice e indice, un coltello con l'impugnatura larga e una lama di quindici centimetri. Lo trasferì fra il pollice e l'indice dell'altra mano, si sporse per posarlo sul tavolino da caffè. Si raddrizzò, incrociò le braccia. Restò seduta a guardare lui che le puntava contro la pistola. Lui l'abbassò. — Mi spiace, tesoro, devo scegliere fra te e me — disse. Controllò l'orologio. — A che ora comincia la festa? — chiese lei. — Alle nove — rispose. — E se non viene? — Verrà — replicò lui. — Ha disdetto l'impegno con il quartetto di archi in cui suona e ti ha comprato un regalo. Quando l'ho lasciato si stava sti-
rando i pantaloni. — Perché hai dovuto sistemare Billy Webber? — domandò. — Aveva scoperto che i telefoni erano controllati — rispose lui. — Mi ricattava. — In che modo lo ha scoperto? — chiese Kay. Sciolse le braccia che teneva incrociate. Lui sorrise. — Era paranoico riguardo alla sicurezza — rispose. — Ti ho detto che spacciava droga; una sera si è portato a casa un apparecchio ad alta tecnologia per individuare microfoni nascosti, e ha ottenuto un segnale positivo. Per poco non ho avuto un colpo. Erano passate solo poche settimane da quando gli inquilini avevano cominciato a occupare gli appartamenti ed ero ancora piuttosto nervoso ed eccitato per ogni minimo incidente. — Che cosa hai fatto? — chiese Kay. — Sono corso subito giù — rispose lui. — Abitava al 6 A. Gli ho detto che ero il proprietario e che sapevo che usava un apparecchio per individuare microfoni nascosti. Gli ho detto che tenevo i telefoni sotto controllo per eccitarmi, e siamo arrivati a un accordo. — Le mani stringevano la pistola fra le ginocchia, con la canna puntata sul pavimento. — Gli ho dato, mi pare, duemila dollari, la prima volta — aggiunse. — Io avrei tenuto la bocca chiusa sulla droga e lui sulle mie intercettazioni. Poi ha voluto altri soldi, e altri ancora... molti di più, esattamente come si pensa che facciano i ricattatori. Così un giorno ho scambiato di posto una parte della roba. È stato facilissimo... — Sospirò, lanciò un'occhiata all'orologio. Le sorrise. — Con Rafael, il tuttofare, si era creata una situazione curiosa — disse. — Sarebbe potuta diventare una serie televisiva. La strana coppia. Lui si era incuriosito a proposito del 13 B e un giorno che ero fuori ha forzato la serratura. Non sapeva che c'ero di mezzo io, solo che non mi voleva attorno a coglierlo sul fatto. Quando sono rientrato, l'ho trovato alla console. — Un altro ricatto? — chiese lei. — In parte — rispose. — Duecento la settimana. Il problema è che si era appassionato allo spettacolo, come te. Stava lì dentro quattro o cinque ore al giorno e almeno due notti la settimana, per lo più facendo tutto da solo, trascurando i suoi doveri, e io non potevo farci niente. Poi voleva portarci la moglie. Dopo sarebbe stata la volta dei bambini... — Sospirò, scrollò le spalle. — Ha ricevuto un generoso risarcimento, la signora Ortiz — aggiunse. — Lo so — disse Kay, guardandolo, seduta con le mani sulle gambe.
Lui disse: — Che cosa hai fatto, ti sei informata? Kay annuì. Annuì pure lui. — Ma certo — disse. — Anche Naomi ci aveva preso gusto? — domandò Kay. Lui scosse la testa e la guardò. — Lei non voleva lasciarmi guardare — spiegò. — Era la tipica radicale aggressiva, praticamente in lacrime al pensiero della violazione dei diritti civili. Non gliel'ho detto io, ci è arrivata da sola. Canale 13 aveva trasmesso uno special sulla sorveglianza elettronica, e io avevo commesso degli stupidi errori — lanciò un'occhiata all'orologio — piccole cose come sapere dove teneva i sottopiatti. Sì, avevamo una relazione, ma stavamo insieme solo una volta la settimana o giù di lì. Lei era molto rigida su questo punto. — Sorrise. — Per via della differenza di età... sette anni. Allora io avevo ventiquattro anni, lei ne aveva trentuno. Kay domandò: — Era decisa a parlarne? Lui annuì. — L'hai costretta a scrivere la lettera... — No, l'ho scritta io — rispose lui sorridendo. — L'ho ricavata incollando insieme delle righe ritagliate da uno dei suoi taccuini e poi ne ho fatto delle fotocopie belle nitide. Dopodiché mi sono esercitato una cinquantina di volte a ricopiarla, finché non sono riuscito a riscriverla in modo scorrevole, capisci. Avevo tempo a volontà; avevo versato centomila dollari a Greenpeace e lei mi aveva concesso un mese di tempo per disattivare i monitor. — Controllò l'orologio. Lei disse: — Immagino che al principio tu abbia fatto... — Ora dobbiamo andare dentro — disse lui alzandosi, puntandole contro la pistola. — Se gridi sarà fiato sprecato, Vida è fuori e anche Phil. — Batté i piedi sul tappeto, due volte. — E gli Ostrow stanno dando davvero una festa. Ecco perché ho fatto così tardi. Kay restò seduta a guardarlo. — Ti prego, piccolo... — disse. Lui si chinò verso di lei. — Non ci sono altre vie d'uscita — le disse. — Credimi, sono rimasto sveglio tutta la notte a cercare di escogitarne una. Tu sei come Rocky. Come Sheer. Anche se giurassi che sei disposta a lasciarti corrompere non ti crederei. Vieni. Subito. — Fece un gesto verso l'alto con la pistola. Lei inspirò, girò su se stessa e si alzò, afferrando il coltello e lanciandoglielo alla testa; mentre lui schivava il colpo, gli si avventò contro scavalcando con un balzo l'angolo del tavolo. Urtarono il bracciolo della poltrona, che cadde di lato, rovesciandoli sul tappeto; Felice miagolò e corse via.
Rotolarono, lei sopra di lui, afferrandogli il polso della mano che impugnava la pistola. Con l'altra mano lui l'afferrò alla gola, la spinse indietro; Kay gli si aggrappò al braccio mentre lui le rotolava addosso. Lui la lasciò andare e si rialzò, stringendo la pistola; rimase in piedi, ansimante, mentre lei si metteva in ginocchio appoggiandosi al tavolino da caffè, massaggiandosi la gola. — Posso farlo anche qui — disse lui. — È un piano flessibile. — Lei gli scagliò all'inguine il libro di Magritte, e quando si piegò in due gli afferrò il polso con tutt'e due le mani, glielo torse sopra la propria spalla, voltandosi e facendo leva col fianco al di sotto. Lui lanciò un urlo, colpendola con un pugno all'altra spalla; lei gli sfilò la pistola dalle dita, sgusciò via voltandosi e indietreggiò verso la finestra, impugnando la pistola a due mani, puntandola contro di lui che restava accovacciato tenendosi la spalla, massaggiandosi il braccio, guardandola con gli occhi azzurri. Felice miagolò, ferma nell'apertura del passavivande. Ansimarono, guardandosi. — Ho già usato una pistola come questa in un poligono di tiro a Syracuse — lo avvertì Kay.— Avvicinati a quella parete laggiù. Guardandola, lui fece un passo di lato. — Kay... — disse. — Muoviti — ordinò lei, stringendo la pistola fra le mani, con l'indice sul grilletto. — Non dire niente. Non voglio più sentire nemmeno una parola da te. Lui rimase immobile. — Che ne dici di addio? — ribatté. Si voltò e fuggì. Kay lo seguì attraverso il mirino, senza premere il grilletto, lo guardò correre, non verso l'uscita ma attraverso l'ingresso fino in camera da letto, sbattendo la porta. Lei abbassò la pistola e fissò la porta chiusa. La raggiunse di corsa. Si fermò, sentendo il freddo accarezzarle le caviglie. Un fiocco di neve passò sotto la porta, si trasformò in una gocciolina umida sul legno del parquet. Lei chiuse gli occhi, prese fiato. Spinse la porta facendo forza per resistere al vento e l'aprì del tutto. Le tende si gonfiarono e svolazzarono nella camera da letto illuminata, con il pannello di sinistra aperto sul vento, sui fiocchi di neve e sul buio. Kay rimase immobile, con gli occhi sbarrati. Deglutì. Si appoggiò allo stipite della porta, chiuse gli occhi, tenendo la pistola
lungo il fianco. Inspirò. Espirò con un sospiro. Entrò, posando la pistola sul letto. Rimase ferma stringendosi le braccia al corpo, con gli occhi pieni di lacrime. Se li asciugò agli angoli con le nocche, si avvicinò alla finestra. Scostò le tende gonfie e afferrò con tutt'e due le mani l'intelaiatura gelida color bronzo, a braccia tese. Sporse la testa fra il vento e i fiocchi di neve per guardare la distesa bianca in basso. Il vento calò, le porte a soffietto si aprirono. Lei si girò di scatto, lui le piombò addosso urtandola all'altezza della vita e la spinse fuori della finestra. 13 Un lembo di tessuto le sfiorò la mano, lei lo afferrò e la stoffa resse al suo peso; si aggrappò con l'altra mano, girando su se stessa, e rimase sospesa a fasci di chinz e di mussola, scalciando a mezz'aria. La spalla urtò contro il muro di mattoni, il piede chiuso nella scarpa da ginnastica scivolò sul vetro. Guardando in alto vide lui che la fissava dalla finestra. Le tende sussultarono, e lei guardò la riioga all'interno della finestra. Uno dei ganci all'estremità saltò con uno schiocco dall'occhiello di mussola, cedette anche il gancio vicino, poi l'altro ancora, tutta la fila di ganci cedette mentre lei, issandosi in alto con un colpo di reni, afferrava l'intelaiatura della finestra con una mano e poi con l'altra e piegava le ginocchia contro i mattoni, tenendosi aggrappata a forza di dita e di braccia e di spinta delle cosce. Il vento le sferzava la schiena, le tende rientrarono svolazzando nella finestra, la porta all'interno sbatté. — Merda — esclamò lui, scuotendo la testa, guardandola dall'alto con una smorfia. — Merda... Lei si aggrappò alla guida metallica esterna, lo fissò dal basso. — Non posso! — gridò lui. — Devo pensare a me! — Si allontanò dalla finestra. Fissando i mattoni scuriti dall'umidità, sospesa nel vuoto con le ginocchia appoggiate a una fessura nell'intonaco, lei caricò un po' più del suo peso sulla mano e sul braccio destro, spostando faticosamente le dita della sinistra verso il vetro della finestra a pochi centimetri di distanza. Se solo fosse riuscita a ottenere una presa decente nel punto dove si trovava la guida, e a tirare più su le ginocchia puntandole contro i mattoni... E a non pensare al fatto che era sospesa nel vuoto a venti piani da terra in balia del
vento e della neve... Un rivoletto gelido le scivolò lungo la spina dorsale; rabbrividì. Sfruttando la spinta delle cosce e delle ginocchia, fece scivolare faticosamente le dita verso sinistra nella scanalatura metallica gelida e bagnata. Prendilo come un altro esercizio rassodante. Al Vertical Club... — Funzionerà lo stesso — disse lui. Kay lo guardò dal basso. Era seduto di traverso sul davanzale, con gli occhi socchiusi per evitare i fiocchi di neve, le mani lucenti nei guanti di plastica, mentre cancellava le impronte dalla pistola. — È con lui che hai lottato — spiegò — poi ti ha inseguito qui, ti ha spinto fuori e si è sparato. Arriverà fra quattro minuti e prego Dio che non sia in ritardo. — S'infilò la pistola sotto la giacca, strizzò gli occhi per il vento, accigliandosi. — Forse dovrei spingere lui... Lei riuscì ad agganciare le dita dietro il pannello di vetro, tirò con tutt'e due le braccia; riuscì a issare il ginocchio destro, che cominciava a intorpidirsi sotto i jeans fradici, fino alla fessura più in alto nel muro di mattoni; portò in su anche il ginocchio sinistro. Spinse con tutt'e due le ginocchia, insinuò le dita della mano destra nella guida interna del vetro. Lui si alzò e prese il cannocchiale, afferrò l'estremità stretta con la mano ricoperta dal guanto di plastica. Si accovacciò e inserì l'estremità larga sotto le due dita che lei teneva infilate nella scanalatura. Le sollevò. — Non ti dimenticherò mai — gridò al vento. — Ho i nastri. L'ultima notte, e la notte che hai traslocato qui, anche se quello è di qualità scadente, e quel sabato... Stasera fanno sei settimane. — Sorrise, accovacciandosi e sollevandole i polpastrelli col cannocchiale. — Certo che abbiamo raggiunto l'apice, non è vero? Dio, come vorrei che non dovesse finire così. Ti guarderò finché vivrò. Pussa via, Felice. Felice si avvicinò camminando sul davanzale. — Via — disse lui. La gatta proseguì, fino alle dita agganciate all'angolo del pannello esterno. Le annusò. Si ritrasse, con la pelliccia arruffata. Si protese ad annusare le dita tese allo stremo. Lui si alzò in piedi. — Fila — le disse. — Mammina è occupata a cadere. Felice fece un altro passo avanti, si affacciò all'esterno del vetro. Si ritirò, respinta dal vento e dalla neve. Guardò in basso verso il viso che la fissava. Indietreggiò, annusò le dita...
Si girò soffiando. Arretrò lungo il davanzale. — Ehi... — disse lui. — Sono io, paparino. La gatta fece un brontolio sordo, a occhi socchiusi; soffiò, scoprì i denti, agitò la coda tenendola dritta. — Va' al diavolo, Felice — disse lui. La pungolò con il cannocchiale. — Altrimenti... — Con un sibilo, la gatta gli si avventò sul viso, gli affondò le unghie nelle palpebre. Il cannocchiale volò via mentre lui cercava di afferrarla, con le mani lucenti che scivolavano sul pelo. Lanciò un urlo, soffocato dalla pelliccia del gatto, mentre cadeva all'indietro. Non un'anima viva, sul pianerottolo del ventesimo piano. Sam controllò l'orologio mentre la porta dell'ascensore si chiudeva alle sue spalle: le nove in punto, le lancette formavano un perfetto angolo di novanta gradi. Si domandò quali fossero esattamente le complicate misure logistiche di Pete Henderson. Si guardò allo specchio: occhi arrossati, aspetto schifoso. Sistemò il collo della giacca in modo da nascondere il punto sfilacciato, almeno per il momento. Si accostò alla porta del 20 B. Ascoltò. Nessun rumore. Premette il pulsante; il campanello suonò. Esaminò il pacchetto con i nastrini di Dollhouse Antics. Sperò di non essere stato troppo spiritoso. Troppo tardi, ormai... Un grido dall'interno? Tentò la maniglia; si abbassò. Aprì la porta di qualche centimetro. Le luci erano accese. — Salve — esclamò rivolto al soggiorno. — C'è qualcuno in casa? Un lamento strozzato proveniente dalla camera da letto. Aprì di più la porta. La cucina era in disordine; avrebbe giurato che Kay era un tipo ordinato. Un uccello che si librava in volo, un dipinto mozzafiato di un falcone o un falco o qualcos'altro, appeso fra la cucina e il bagno. La porta della camera da letto era chiusa. — Salve? — chiamò, entrando. Posò il pacchetto su un attaccapanni vittoriano, raddrizzando la mensola di marmo traballante. Fece un salto di lato quando dalla parte inferiore cadde un coltello. Lo guardò, sul pavimento: un coltello da cucina appuntito, lungo otto o dieci centimetri, con l'impugnatura nera. Lo raccolse da terra, lo guardò e lo posò sulla mensola vicino al pacchetto. Si diresse verso la porta chiusa. Sotto la fessura spirava un vento gelido.
Lui bussò. — Kay? — chiamò. — Sono Sam Yale. Sta bene? Un gemito. Spinse la porta facendo forza contro la pressione del vento. Ne uscì di corsa un gatto - arancio, rosso, bianco - che corse verso il soggiorno, agitando la coda soffice dalla punta nera. Sam aprì la porta ancora un po'. Rimase pietrificato, con il cuore in gola. Un uomo col viso insanguinato era seduto sul pavimento contro la sponda del letto, dalla parte dei piedi, gemendo e tendendo verso di lui le mani coperte di sangue. Peter Henderson. Con due cavità rosso-nerastre al posto degli occhi, come un attore truccato per l'entrata finale di Edipo. Una scia di tende strappate e attorcigliate portava fino alla finestra aperta dove... Cristo! — Qualcuno che stava risalendo sollevò la testa bruna, lo guardò... Lui si precipitò oltre Henderson, posò un ginocchio a terra vicino a lei, con il cuore che gli martellava. L'afferrò da dietro per la cintura, le passò un braccio sotto il corpo - era gelata, tremante di freddo, con un maglione scuro a collo alto tutto bagnato - l'aiutò a issarsi sul davanzale. Lei sollevò le gambe per scavalcarlo, rotolando su un fianco, facendo una smorfia; le ginocchia sfilacciate dei jeans erano rosse di sangue. — Mio Dio! — disse Sam. Un gemito da parte di Henderson. L'aiutò a sedersi e a portare le gambe all'interno; fece scorrere il pannello della finestra dietro di lei, la chiuse del tutto. Si slacciò la giacca. — Chiamo subito un'ambulanza! — gridò. — Ci sento ancora — disse Henderson. Lei restò seduta sul davanzale ansimando, tremando di freddo, guardando verso Henderson, con le braccia strette al corpo e le mani ficcate sotto le ascelle. Aveva i capelli aggrovigliati, umidi, le labbra bluastre. Si rivolse a Sam mentre le posava la giacca sulle spalle. — Felice? — domandò. — La mia gatta? — È corsa nel soggiorno — rispose. Lei sciolse le braccia, si appoggiò al davanzale. — Doccia — mormorò. Lui l'aiutò a mettersi in piedi. — Che cosa è successo, in nome di Dio? — domandò. Camminò al suo fianco calpestando le tende, sorreggendola; la guardò ansimare, rabbrividire. Henderson gemeva. Lei si teneva vicina agli armadi a muro, guardando davanti a sé, mentre Sam la sorreggeva per la vita e per la spalla della giacca. Lei rispose: — Stava... per ucciderci... tutti e due. Ha la sua pistola. Lui lanciò un'occhiata a Henderson. — Perché? — domandò. — È stato lui a uccidere gli altri. Il palazzo è infestato di microfoni spia.
E di telecamere. — Cosa? Sulla porta, Kay si tolse la giacca. — È lui il proprietario — disse. — Dopo. Il telefono è là. — Gli porse la giacca, lo guardò. — È il figlio di Thea Marshall — spiegò. — Me lo ero immaginato! Telecamere? Vada, vada, mi scusi. Lei entrò in bagno, accendendo la luce, e chiuse la porta. Si sfilò le scarpe da ginnastica. Entrò nella doccia. Afferrò la manopola cromata Art Déco e aprì l'acqua calda. Si spogliò sotto il getto d'acqua, si esaminò le ginocchia escoriate, le mani e le dita, si massaggiò le braccia. Aumentò il calore dell'acqua. Rimase in piedi con le braccia strette intorno al corpo, piangendo. Quando scesero dall'autopattuglia di fronte al "grattacielo dell'orrore", poco dopo l'una secondo l'orologio di Sam, luci alogene splendevano montate su cavalietti ai lati della pensilina, c'erano furgoni parcheggiati in doppia fila, e un altro furgone arrivava slittando dall'angolo della Novantaduesima Strada. Telecamere nere puntarono su di loro, portate a spalla dagli operatori; Sam li tenne a bada con una mano alzata, mentre Walt brandiva una pala da neve. Riuscirono a raggiungere l'atrio, dove venti o più inquilini vociavano tutti insieme intorno ad apparecchi radio e bozze di accordi per intentare cause collettive. — Il palazzo è davvero infestato di telecamere? — chiese Vida. — Sì — rispose lei. Dmitri disse: — Ha ucciso Rafael, tutti? — Brendan Connahay no — rispose lei. — Hanno portato via i nastri — disse Stefan. — Riguardavano noi? — Lei annuì. — È rimasto accecato? — domandò qualcuno. — Sì — rispose Sam. — Gente — disse, fermandosi con le mani sollevate e le spalle rivolte agli ascensori — abbiamo parlato con i giornalisti alla stazione di polizia; domani potrete leggere tutto sui giornali. Non voglio sembrare un cattivo vicino, ma abbiamo avuto una notte movimentata, soprattutto la signorina Norris. Nessuno vi spia più. Peter Henderson si trova al Metropolitan Hospital sotto la sorveglianza della polizia. Se avete delle domande, l'uomo a cui dovete rivolgerle è l'agente investigativo
Wright del Diciannovesimo distretto. È molto simpatico e cortese. Grazie. Salirono con l'ascensore di destra. Kay preparò del caffè autentico. Lo bevvero sul divano, con Felice che dormiva raggomitolata sulle sue ginocchia. Sam disse: — Diventerà la gatta più famosa del paese. Avrà un appuntamento con Morris dalle Sette Vite. Kay bevve un sorso dalla tazza. — Buon pro gli faccia a tutt'e due — commentò. Lui sorrise, guardandola; bevve un sorso di caffè, guardò il lampadario sul soffitto, scosse la testa. — Incredibile — disse. — Follia da TV... Era inevitabile, credo, che qualcuno lo scoprisse prima o poi. — E non è l'unico caso — disse lei. — C'è anche un albergo che è stato messo sotto controllo, e un altro paio di palazzi. Almeno è quello che mi ha detto lui. — Lo guardò. — Senta, c'è una cosa che voglio che sappia. — Lo fissò. — Non ho mai guardato lei — disse. — È stata una condizione preliminare, né lei né i bagni. — Mi fa piacere che sia stata schizzinosa — replicò Sam. — Non ha idea di quanto sia ipnotico — spiegò lei. — È impossibile smettere di guardare. Succede sempre qualcosa, e perfino gli avvenimenti più banali diventano interessanti, perché sono veri e non si sa mai cosa capiterà dopo. Bevvero un altro sorso di caffè. — Io scendo — disse lei. — Ci sono delle videocassette che non credo abbiano trovato di cui voglio liberarmi, nastri su di me; e potrebbero esserci anche quelle che stanno cercando, anche se potrebbe averle cancellate. Ma ho la sensazione che non lo abbia fatto, soprattutto se stanotte stava registrando. — Non la seguo più — disse Sam. — Non importa — ribatté Kay. — L'importante è che scenderò al 13 B, vuole venire anche lei? Si guardarono. — Solo per cercare — specificò lei. — Non per guardare. — Non è stato sigillato? — chiese lui. — Probabilmente sì, con del nastro adesivo — rispose Kay. — Io ho la chiave. Non si preoccupi, dirò al detective Wright esattamente che cosa ho fatto e perché l'ho fatto, anche se non trovassi le altre cassette. Sono sicura che capirà. Altrimenti mi prenderò io la responsabilità.
Lui si grattò l'orecchio. — Be'... — disse — immagino che dovrei, nella remota eventualità che debba dirigere la miniserie... Lei si protese per posare la tazza sul tavolino da caffè. — Che cosa significa "nella remota eventualità"? — replicò. — Sarà una delle condizioni del contratto. — Prendendo Felice tra le braccia, si alzò e si girò; alzò un piede e si irrigidì. — Oh, Dio, le mie ginocchia — disse. — Aaah — disse lui, trasalendo, guardandola mentre si alzava. Kay sistemò Felice nell'incavo del cuscino. Si accovacciò per baciarla sulla testa. — Brava — disse. — Che brava gatta. — La baciò sul naso. — D'ora in poi, filetto. Felice si accovacciò sul velluto color albicocca, facendo le fusa a occhi chiusi. I baffi fremevano. Si diressero verso l'ingresso. Lei disse: — Scommetto che nel palazzo tutti stanno ancora parlando di tutto. Sam spinse la porta d'ingresso e la tenne aperta per lei. — Non mi dispiacerebbe dare una sbirciatina — disse, seguendola. FINE