ROGER ZELAZNY SCEGLI UN NUOVO VOLTO (Today We Chose Faces, 1973) PARTE PRIMA Alla deriva... Tranquillamente, ma implacab...
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ROGER ZELAZNY SCEGLI UN NUOVO VOLTO (Today We Chose Faces, 1973) PARTE PRIMA Alla deriva... Tranquillamente, ma implacabilmente. Con calma, ma senza pietà. Alla deriva. Un lampo di luce, seguito da un sospiro senza fine... Cadere, precipitare... Una lenta doccia di frammenti di un puzzle, e alcuni si aggregano intorno a me... ... E cominciai a sapere. Del resto era come se lo avessi saputo da sempre. Ora il quadro era completo, e potevo osservarlo nel suo insieme, come da fuori del tempo. Vi era una successione, ovviamente, come nelle vertebre o in un gioco di domino, e non era affatto difficile seguirla punto per punto. Per esempio qui. ... Uscivo dal club in una fredda sera di un sabato di novembre. Poco dopo le dieci e mezzo, credo. Con me c'era Eddie, e ce ne stavamo dietro le porte di vetro del locale, abbottonandoci i soprabiti e guardando Manhattan Street bagnata, con raffiche di vento che sollevavano cartacce, in attesa che Denny arrivasse con l'auto. Non parlavamo. Sapeva che ero ancora di cattivo umore. Tirai fuori una sigaretta. Si affrettò ad accendermela. Alla fine, la Sédan nera e lustra arrivò. Mi ero appena infilato un guanto e tenevo l'altro in mano. Eddie si fece avanti e mi tenne aperta la porta. Uscii e l'aria gelida mi ferì gli occhi riempiendomeli di lacrime. Mi fermai per tirar fuori un fazzoletto e asciugarmeli, sentendo soltanto il vento, il ronfare del motore e qualche lontana nota di corno. Non appena abbassai il fazzoletto, mi accorsi che nell'auto c'era un'altra figura, sul sedile posteriore, e, nello stesso istante, mi resi conto che il finestrino era abbassato e che Eddie si era scostato di sei o sette passi. Udii degli spari, sentii l'impatto di un paio di pallottole. Ci volle un bel po' prima che mi accorgessi che mi avevano beccato quattro volte. La mia unica consolazione, prima che le luci si spegnessero, fu di vedere, intanto che cadevo, che il sorriso spariva dalla faccia di Eddie mentre la
sua mano scattava senza tuttavia riuscire a raggiungere la sua arma; poi egli cominciò ad accasciarsi. E fu l'ultima volta che lo vidi, mentre cadeva, un attimo prima che finisse sul marciapiede. Qui. Altro esempio. Ascoltando le chiacchiere di Paul, osservavo quella che sarebbe potuta essere la piacevole vista di un limpido lago di montagna alimentato da un torrentello, con un salice gigante che stormiva sulla sua riva, come congelato dall'acqua che sfiorava con le punte verdi e lucenti dei suoi rami. Era tutto falso. Cioè, era vero, ma il quadro era trasmesso da un luogo distante centinaia di chilometri. Era più piacevole, comunque, che guardare fuori della finestra del suo appartamento del piano superiore, dove tutto ciò che riuscivo a vedere era una parte (per altro di una zona pulita e bella) del complesso urbano che si estendeva da New York a Washington. La stanza era a prova di rumori, con aria condizionata e arredata, credo, con gusto, secondo la sensibilità del tempo. Non potevo giudicare, dal momento che non mi ero ancora familiarizzato con quell'epoca. In ogni caso, il brandy era eccellente. «... Devi esserti trovato in uno stato confusionale spaventoso», stava dicendo Paul. «Mi meraviglio di come ti sia adattato rapidamente.» Mi voltai e lo guardai di nuovo; era un uomo snello, ancora giovane, con i capelli bruni, un sorriso affascinante e occhi che non lasciavano trapelare niente di ciò che gli passava per la mente. Per me era ancora una fonte di stupore. Mio nipote, con sei o sette «bis» davanti. Continuavo a cercare le rassomiglianze, trovandole dove meno me le aspettavo. La fronte sporgente, il labbro superiore corto, quello inferiore grosso. Il naso era tutto suo, però aveva il nostro modo di alzare di scatto l'angolo sinistro della bocca nei momenti di collera o di divertimento. Ricacciai indietro il sorriso. «Non c'è ragione di sorprendersi», risposi. «I miei preparativi avrebbero dovuto dimostrarti che avevo fatto un pensierino sul futuro.» «D'accordo», convenne. «Ma, per dire la verità, la mia unica idea era che tu stessi cercando una scappatoia dalla morte.» «Naturalmente. Mi rendevo conto della possibilità di farcela, tuttavia l'ibernazione negli anni Settanta era ancora una cosa abbastanza romanzesca.» «Millenovecentosettanta.», mi corresse sorridendo. «Sì, suona come se avessi parlato di un paio di anni fa, vero? Provaci qualche volta e capirai come ci si sente. Comunque, pensai, chi se ne fre-
ga? Se mi avessero sparato, le parti danneggiate si sarebbero potute rimpiazzare, un giorno o l'altro. Perché non disporre le cose in modo da farmi ibernare e poi sperare per il meglio? Avevo letto alcuni articoli sull'argomento, e mi sembrava che la cosa potesse funzionare. Quindi agii. Cominciò a diventare una specie di ossessione. Voglio dire, cominciai a pensarci un po', proprio come un uomo profondamente religioso pensa al paradiso, cioè 'quando morirò, andrò nel futuro'. Poi cominciai a domandarmi sempre più insistentemente come sarebbe stato. Pensai e lessi parecchio, cercando di immaginare le più svariate possibilità. Non era un brutto passatempo», dissi, versandomi ancora da bere. «Mi divertivo parecchio e da come sono andate le cose sono rimasto pienamente soddisfatto.» «Sì», ammise. «Dunque, non ti ha sorpreso poi tanto sapere che si è scoperto il modo di viaggiare a velocità ultraluce, e che abbiamo esplorato dei mondi esterni al sistema solare?» «Naturalmente è stata una sorpresa. Però ci contavo.» «E i recenti successi del teletrasporto, su scala interstellare?» «Questo mi ha sorpreso già di più. E anche piacevolmente. Realizzare i collegamenti in questo modo sarà un grosso colpo.» «Allora lascia che ti chieda che cosa ti ha meravigliato davvero.» «Bene», risposi mettendomi a sedere e bevendo un altro sorso, «a parte il fatto che, malgrado tutti i nostri tentativi, noi eravamo ben lontani dal modo di eliminare ogni possibilità di guerra...» A questo punto alzai una mano perché lui cominciava a interrompermi con chiacchiere su controlli e sanzioni. Tacque. Ero contento di vedere che rispettava gli avi. «A parte ciò», ripresi, «suppongo che l'unica cosa che mi abbia veramente sorpreso sia che siamo diventati più o meno legittimi». Fece una smorfia. «Che cosa intendi dire con 'più o meno'?» Mi strinsi nelle spalle. «Ebbene?» dissi. «Siamo legittimi come chiunque altro», fu la sua risposta, «altrimenti non saremmo mai riusciti a comparire nella Borsa Valori Mondiali». Non dissi niente, ma sorrisi di nuovo. «Naturalmente, è un'organizzazione che funziona molto bene.» «Sarei deluso se così non fosse.» «Certo, certo», disse. «Ma eccoci qui. COSA Inc. Tutto legale, corretto e rispettabile. È così da generazioni. Effettivamente la tendenza in questa direzione si era delineata fin dai nostri giorni, con quello che i giornalisti amavano definire il 'riciclaggio' dei fondi e il loro reinvestimento in imprese meno sospette. Perché combattere il sistema quando si è abbastanza for-
ti da essere buona parte di esso senza combatterlo? Che cosa sono pochi dollari in un modo o nell'altro quando si può avere tutto ciò che si vuole, compresa la sicurezza? Senza rischi. Solo seguendo le regole.» «Tutte?» «Be', ce ne sono talmente tante che se non altro è diventato tutto più facile, se hai un cervello su cui contare.» Vuotò il suo bicchiere, poi tornò a riempirli entrambi. «Non c'è assolutamente da vergognarsi», concluse quindi. «L'immagine che si aveva ai tuoi tempi è ormai storia antica.» Si sporse in avanti con aria da cospiratore. «Comunque, deve veramente essere stata una gran cosa vivere a quell'epoca», osservò, e poi mi guardò aspettando che io parlassi. Non sapevo se essere seccato o lusingato. Dal modo in cui ero stato trattato fin dal mio risveglio un paio di settimane prima, mi sembrava di essere un pezzo da museo, come il brontosauro o la padella per gli ammalati. D'altra parte, Paul sembrava considerarmi con un certo orgoglio, un po' come un cimelio di famiglia affidato alla sua sorveglianza. Mi rendevo perciò conto che la sua posizione nella struttura del potere dell'organizzazione era salda e autorevole. Aveva insistito per ospitarmi in casa sua, anche se potevo sistemarmi altrove. Sembrava che gli piacesse molto farmi parlare della mia vita e dei miei tempi. Mi resi conto che la sua conoscenza dei miei tempi si basava più che altro su novelle, film e luoghi comuni. Tuttavia, mangiavo il suo cibo, dormivo sotto il suo tetto, eravamo parenti e le formalità erano cessate da molto tempo. Così, ricambiavo rievocando per lui alcuni ricordi. Forse lo aveva deluso il fatto che avessi passato un paio di anni in collegio prima di rilevare gli affari di mio padre, quando egli era morto improvvisamente e prematuramente, ma quello che "sembrò compensare tutto ciò fu il fatto che avessi passato gran parte della mia infanzia in Sicilia prima che lui avesse mandato a chiamare la famiglia. Poi credo di averlo deluso di nuovo quando gli dissi che, per quanto ne sapevo io, non c'era mai stato un complotto criminale di proporzioni mondiali. Vedevo l'onorata società come un fenomeno locale, di una certa efficienza, a struttura familiare, che ai suoi tempi aveva sfornato galantuomini notevoli come Don Vito Cascio Ferro e Don Calò Vizzini. Cercavo di spiegargli che era necessario distinguere tra la società degli amici con i suoi interessi ristretti, e gli emigrati in America, che potevano essere o non essere amici, che si mettevano in attività illecite e preferivano fare affari tra di loro piuttosto che con estranei, e che conservavano una robusta tradizione familiare. Paul
subiva molto la mistica della cospirazione, ed era anche un divoratore di rotocalchi, e quindi era convinto che io stessi ancora conservando qualche tradizione segreta o roba del genere. Perciò gli raccontavo alcune cose che sapevo gli avrebbe fatto piacere ascoltare. Gli raccontai come affrontai la morte di mio padre, come pure parecchie altre difficoltà che mi aiutassero a giustificare il mio nome, Angelo di Negri. In seguito, non si sa bene quando, la famiglia aveva cambiato il cognome originario in Nero. Non che ciò mi importasse. Io ero chi ero. E Paul Nero sorrideva e annuiva e sorvolava sui particolari. Aveva un'enorme ricettività per la violenza di seconda mano. Tutto ciò potrebbe farlo sembrare un cinico, ma in realtà non lo è affatto. Perciò con il passare del tempo mi piaceva sempre di più. Forse perché mi ricordava qualcosa di me stesso, in altro tempo e luogo... una versione più tranquilla, più indolente, più educata. Forse era come sarei potuto essere, o come avrei voluto permettermi il lusso di essere. Ma mi avvicinavo ai quaranta. Il mio carattere si era indurito già da molto tempo. Sebbene le circostanze che avevano influito sulla mia formazione fossero da lungo tempo passate, i piaceri che mi procurava una società che non mi stimolava erano disturbati da sensazioni vaghe, che suscitavano in me un certo disagio, seguito da un crescente malcontento. La vita non è basata sulla crisi, come i romanzieri vorrebbero farci credere. È vero che talvolta ci riprendiamo dagli shock con un senso di stupore verso la realtà e l'esistenza, ma questa condizione si supera abbastanza rapidamente, e lascia inalterati una volta di più sia la realtà sia noi stessi. Ebbi la consapevolezza di questo fatto mentre me ne stavo seduto a fare del sentimentalismo sulle avversità passate per il mio discendente, ed essa dilagò in un malcontento ancor maggiore durante le settimane successive. Io non ero cambiato molto, anche se ogni altra cosa lo era. Non era esattamente una sensazione di essere superfluo, sebbene qualcosa del genere ci fosse, né poteva trattarsi di nostalgia, perché i miei ricordi erano sufficientemente recenti e vivi da escludere qualsiasi rimpianto su ciò che, per Paul, era il lontano passato. Forse era una crescente sensibilizzazione al fatto che la gente sembrava un po' più cortese, più pacifica, cosa che faceva nascere un senso di inferiorità, come se a me fosse proprio mancata qualche tappa nel processo di civilizzazione. Di solito non mi dedicavo a un'introspezione del genere, ma quando certe sensazioni diventano forti e persistenti bisogna necessariamente analizzarle. Forse Paul era comunque riuscito a capirlo, a capire me meglio di quan-
to pensassi. Mi diede infatti due suggerimenti, uno dei quali seguii immediatamente, mentre meditavo sull'altro. Là. Per esempio. Tornai in Sicilia. Una cosa quasi prevedibile, direi, per un uomo nelle mie condizioni e nel mio stato mentale. A parte le ovvie associazioni di idee che comportava il ritorno alla mia infanzia, avevo imparato che era uno dei pochi luoghi al mondo che non aveva ancora risentito del sovrasviluppo. Per me era dunque, in modo molto reale, un mezzo per viaggiare a ritroso nel tempo. Non mi fermai a lungo a Palermo, ma mi diressi quasi subito nell'entroterra. Presi in affitto una tenuta isolata che aveva un qualcosa di familiare, e ogni giorno passavo parecchie ore a cavalcare uno dei due cavalli che c'erano nella proprietà. Di mattina, mi piaceva cavalcare fino alla spiaggia rocciosa, e guardare le onde che venivano verso di me spumeggiando e rombando, mentre attraversavo il greto bagnato e sdrucciolevole, mentre ascoltavo il richiamo degli uccelli che volavano ad arco e si abbassavano in picchiata, e respiravo il vento acre del mare, guardando il gioco di luci ed ombre nel panorama deserto e grigiastro. Nel pomeriggio o la sera, a seconda del mio umore, spesso cavalcavo sulle colline, dove pascoli magri e alberi contorti si avvinghiavano disperatamente alla terra brulla, e il vento umido del Mediterraneo soffiava intorno a me infuocato o gelido, a capriccio. Se non avessi fissato troppo a lungo le stelle, se non avessi sollevato gli occhi quando un veicolo sfrecciava veloce, se mi fossi astenuto dal servirmi dei mezzi di comunicazione per ogni cosa tranne che per la musica e se avessi cavalcato fino alla più vicina cittadina soltanto una volta alla settimana per i rifornimenti deteriorabili, sarebbe stato quasi come se il tempo si fosse fermato. Non solo il secolo in corso, ma l'intera mia vita adulta sembravano allontanarsi e dileguarsi nel paesaggio senza tempo della mia giovinezza. Così, ciò che accadde allora non fu del tutto inspiegabile. Il suo nome era Giulia, e la incontrai per la prima volta in un sentiero roccioso, lussureggiante di vegetazione in confronto alle colline desolate sulle quali avevo cavalcato l'intero pomeriggio. Era seduta per terra sotto un albero che assomigliava a una fontana congelata di gelatina cui si fossero attaccati dei confetti bianchi, i capelli scuri tirati indietro e stretti da un fermaglio di corallo, un album per schizzi in grembo, gli occhi che dardeggiavano e la mano che si muoveva rapidamente, precisa e decisa, come se stesse facendo lo schizzo di un piccolo gregge di pecore. Per un po' ri-
masi seduto sul cavallo a osservarla, ma poi una nuvola si mosse e il sole proiettò la mia lunga ombra davanti a lei. Allora si voltò, e si riparò gli occhi. Smontai da cavallo, avvolsi le redini attorno al ramo più a portata di mano di un arbusto vicino e mi diressi verso di lei. «Salve», dissi avvicinandomi. Occorsero almeno dieci o quindici secondi per raggiungerla, e lei impiegò tutto quel tempo prima di decidersi ad annuire col capo e a sorridere leggermente. «Salve», rispose. «Il mio nome è Angelo. Stavo cavalcando da queste parti e l'ho vista, ho visto questo posto... ho pensato che mi sarebbe piaciuto fermarmi a fumare una sigaretta, a osservarla mentre disegna. Permette?» Annuì, fece nuovamente un mezzo sorriso e accettò una sigaretta. «Io sono Giulia», si presentò. «Lavoro qui.» «Artista in residenza?» «Biologa. Questo è solo un hobby», disse, tamburellando sull'album e coprendo il suo lavoro con la mano. «Oh, e a che cosa lavora?» Volse il capo verso il gruppo di pecore. «Quella», disse. «Quale?» «Tutte.» «Spiacente, ma non riesco a seguirla...» «Sono cloni», spiegò, «tutte cresciute dal tessuto di un solo donatore». «Una bella trovata», dissi. «Mi parli dei cloni», e mi sedetti, guardando l'erba che veniva mangiata. Sembrò gradire il pretesto che le permetteva di chiudere l'album senza lasciarmi vedere il suo lavoro. Si buttò nella storia del suo gregge, e mi bastarono alcune domande qua e là per apprendere qualcosa di più sul suo conto. Era di Catania, ma aveva studiato in Francia, e attualmente era impiegata presso un istituto scientifico svizzero che faceva ricerche sulla riproduzione animale e stava impiegando tecniche di clonizzazione per alcuni esperimenti in atto nelle campagne, assicurandosi contemporaneamente dei campioni in condizioni ambientali diverse. Aveva ventisei anni e aveva appena rotto un matrimonio in modo alquanto amaro, e si era fatta trasferire in quel campo con un gregge da esperimento. Era tornata in Sicilia da poco più di due mesi. Mi parlò a lungo dei cloni, entusiasmandosi real-
mente all'argomento di fronte alla mia chiara ignoranza, descrivendo con sovrabbondanza di particolari il processo mediante il quale le sue pecore erano state generate da esemplari cellulari di un ibrido in Svizzera allo scopo di ripeterlo in tutti i dettagli. Mi parlò anche dell'effetto particolare, non ancora ben compreso, di risonanza, che comprendeva il fatto che tutte le pecore mostravano contemporaneamente i sintomi della stessa malattia se una sola di loro ne veniva colpita, anche l'originale in Svizzera e le altre sparse nelle altre parti del mondo. No, per quanto ne poteva sapere lei, la clonizzazione non era ancora stata sperimentata a livello umano (esistevano innumerevoli ostacoli di ordine legale, scientifico e religioso), sebbene corressero voci riguardo a esperimenti effettuati in un avamposto da qualche parte del mondo. Dava l'impressione di conoscere il suo lavoro piuttosto bene, ma dopo un po' mi colpì il fatto che le sue parole venissero pronunciate più per il piacere di aver qualcuno con cui discorrere che per effettivo desiderio di spiegare. Avevamo anche questo, in comune. Quel giorno tuttavia io non le raccontai la mia storia. Ascoltavo, sedevamo per un po' in silenzio, guardando le pecore, guardando le ombre che si allungavano, parlavamo di nuovo di argomenti banali, in modo sconnesso. Chiacchierando, gradualmente si manifestò un reciproco interesse nei nostri discorsi, per cui questa non era che una minima parte di una conversazione che sarebbe continuata, per cui io sarei tornato, il giorno dopo o il giorno dopo ancora, per cui ci saremmo rivisti ancora e ancora. E questo interesse era fondato. Dopo poco tempo, cominciò ad appassionarsi alle cavalcate. Presto cominciammo a cavalcare insieme ogni giorno, la mattina o la sera, talvolta sia di mattina sia di sera. Le dissi da dove venivo, e come, tralasciando solo ciò che avevo fatto là e l'esatta natura del mio viaggio. Non mi accorsi che mi stavo innamorando di lei se non molto tempo dopo che eravamo diventati amanti. Non scoprii il fatto fino al giorno in cui stabilii di prendere una decisione sul secondo suggerimento di Paul, e allora mi resi conto di quanto importante lei fosse diventata nei miei pensieri. Mi alzai, attraversai la stanza e andai alla finestra, scostai la tenda e guardai fuori nella notte. La brace nel camino ardeva ancora con Un bel colore rosso arancio. Il freddo dell'esterno era passato attraverso le pareti e ora premeva contro il nostro angolo della stanza come un ghiacciaio spirituale. «Dovrò partire presto», annunziai.
«Dove andrai?» «Non posso dirlo.» Silenzio. Poi: «Tornerai?» Non trovai alcuna risposta, sebbene lo desiderassi. «Vorresti che tornassi?» Ancora silenzio. Poi: «Sì». «Proverò», dissi. Perché stavo per impegnarmi nell'affare Styler? Lo avevo desiderato fin dal momento in cui Paul mi aveva descritto la situazione. Una sinecura ad alto livello con la compagnia e un grosso pacchetto di azioni ben quotate non erano che i guadagni trascurabili che avrei ricavato dall'affare. Non mi illudevo che il mio scongelamento, le cure prestatemi, la guarigione conseguente fossero dovuti al semplice desiderio di conoscermi da parte dei miei discendenti. Da parecchi decenni esistevano le tecniche necessarie. Comunque, non è una cosa spiacevole sentirsi utili, a prescindere dal motivo. Il mio compiacimento per le loro attenzioni non era in alcun modo guastato dal fatto di sapere che possedevo qualcosa che loro volevano. Se mai, ne era accresciuto. Quale altra presa potevo avere? Ero più che una semplice curiosità. Avevo un valore che andava oltre le emozioni del momento, e questa consapevolezza mi poteva dare un certo vantaggio, poteva farmi guadagnare una certa stima. Stavo pensando a queste cose, o roba del genere, quando ero arrivato in cima al paese più vicino, in un luogo dove gli ulivi crescevano stentati e desolati, e guardavo in giù verso la luce e il movimento. Subito, Giulia mi era venuta accanto. «Che cosa c'è?» aveva domandato. In quel momento mi stavo chiedendo come sarebbe stato se mi fossi risvegliato senza nessun ricordo della mia precedente esistenza. Mi avrebbe reso più facile o più difficile trovare uno scopo nella vita, esserne soddisfatto? Sarei potuto essere come gli abitanti di quel paese là sotto, con i loro interessi e piaceri per le azioni semplici ripetute diecimila volte? Un pomeriggio caldo e luminoso, in una piccola insenatura nascosta, mentre guardavo le tracce d'acqua che disegnavano linee tremule sui suoi seni nudi dopo che aveva smesso di bagnarsi e il sorriso era svanito e lei aveva detto: «Che cosa c'è?», stavo pensando ai diciassette uomini che avevo ucciso quando avevano cominciato a chiamarmi «Angie l'Angelo», quando avevo raggiunto una posizione di primo piano per rendere sicura la mia precedente esistenza. Paul non era a conoscenza di tutti quei delitti, naturalmente. Mi aveva sorpreso il fatto che ne conoscesse tanti, otto per
essere esatti, i nomi detti con una certa sicurezza che non mi sembrava simulata. Da parte mia, trovavo in effetti inconcepibile che le sottigliezze legali e le formalità burocratiche fossero diventate un po' più di una semplice apparenza, che in effetti ci fossero ormai pochi killer professionisti fidati. Quindi sembrava che veramente io avessi portato con me attraverso gli anni qualcosa di valore. Personalmente, io avevo comunque per lo più cercato di evitare simili attività, una volta assicurata la mia posizione all'interno dell'organizzazione. Ora, l'avermi offerto un «contratto», in un'epoca tranquilla di disponibilità culturale quasi totale, con ingranaggi ben oliati, prolungamento della vita e viaggi interstellari... Sembrava abbastanza strano, non importa con quanta delicatezza Paul l'avesse detto. Dopo aver mangiato arance all'ombra di uno stabilimento per la lavorazione dell'acqua, con i muri una volta senza dubbio levigati e lucidi, ora consunti sia dal tempo sia dai lillà e dal glicine che parevano la decorazione di un convento, le avevo accarezzato i capelli e lei aveva colto dell'elleboro verde pallido, antico rimedio contro la pazzia, aggrovigliando i suoi fiori con i miei, e i miei pensieri avevano vagato al di là di quelle mura, consunte dai grappoli di fiori, e oltre i lavori completamente automatici di quegli impianti, il cui rumore arrivava fino a noi, sommesso e monotono, mentre vi passavano non so quante migliaia di litri di acqua di mare, depurata e incanalata nei condotti sotterranei; e io consideravo la duplice natura di Herbert Styler, rappresentante delle Industrie Doxford sul pianeta Alvo, incredibilmente lontano da noi, ma questa volta lei non se ne era accorta e non aveva chiesto: «Che cosa c'è?». Io intanto mi domandavo se l'uomo che si era sottoposto a un esperimento di innesto neurale ancora illegale sulla Terra, che gli aveva permesso un accesso perfettamente cosciente al funzionamento del complesso di un grande computer, se quest'uomo che, per la sua compagnia, era il prescelto per i fini di espansione di COSA negli altri mondi, poteva considerarsi una macchina con una personalità umana o piuttosto un uomo con una mente da computer, e se ciò che mi era stato chiesto di fare era propriamente un omicidio o qualcosa di completamente nuovo (vale a dire meccanicidio o ciberneticidio), mentre il rumore sordo del mare e la più vicina vibrazione della lavorazione dell'acqua arrivavano dentro di noi, insieme con la fragranza dei fiori e la salsedine portata dalla brezza. Paul mi aveva assicurato che mi sarebbe stato dato il miglior addestramento ed equipaggiamento possibile per la realizzazione del piano. Poi mi aveva raccomandato di farmi un viaggetto. «Va' via per un po'», aveva det-
to, e poi: «Pensaci». Guardavo fuori nella notte, sentivo il freddo, mi chiedevo se avrei potuto ucciderlo, andarmene, tornare e ricominciare di qui, fresco e pulito, la mia precedente vita come morta e chiusa per sempre. «Proverò», ripetei, e lasciai cadere la tenda. E poi qui. ...La vedo seduta sotto quello strano albero, i capelli morbidi fissati con un fermaglio di corallo pallido, la testa e la mano che si muovono come se trasferisse le sue pecore sulla carta, precisa, decisa; poi un raggio di luce, la proiezione della mia ombra che attira la sua attenzione, la sua testa che si gira, il movimento delle mani che si alza per riparare gli occhi dalla luce, io che smonto da cavallo, che avvolgo le redini attorno a un ramo, che mi avvicino a lei, in cerca di una parola, di un volto, di un suo cenno, del suo sorriso lento... Qui. ...Vedo le fiamme avvolgere tutto sotto di me, la fiammata finale che copre metà dell'edificio, il suo bersaglio; il mio veicolo che ondeggia, precipita, poi si incendia, io che vengo espulso, la cabina intatta intorno a me che si muove con una vita propria scarta bruscamente, sfrecciando su e giù, su e giù, poi devia da una parte e mi lascia cadere delicatamente, il mio scafandro-protesi produce un lieve suono metallico quando i miei piedi toccano il suolo e i respingenti si staccano; e poi i miei raggi laser si proiettano in avanti, falciando le figure che avanzano verso di me, le mie mani scagliano granate, io emetto onde di ultrasuoni che distruggono il protoplasma, come note di qualche campana vibrante e invisibile... Non so quanti androidi e robot ho annientato, quanti edifici ho raso al suolo, quanti ostacoli ho distrutto, quanti proiettili ho lanciato nei due mesi seguenti, là su quel piccolo mondo arido dove ero stato portato per impratichirmi di tutti i più recenti metodi di violenza. I miei istruttori erano tecnici, non killer, che in seguito si sarebbero sottoposti al lavaggio del cervello, per proteggere sia l'organizzazione sia se stessi. La scoperta di ciò che era possibile mi affascinava, riportandomi alla niente alcuni dei miei precedenti pensieri. Imparai che le tecniche erano alquanto sofisticate e potevano essere impiegate selettivamente. Venivano usate da anni come strumento psicoterapeutico. Da parte loro, gli istruttori erano una strana mescolanza di pose e capricci. Dapprima mi esortavano quasi in continuazione a perfezionare le mie tecniche con le loro armi, evitando scrupolosamente ogni riferimento al fatto che presto le avrei usate per uccidere
qualcuno. In seguito, comunque, con la consapevolezza che qualunque cosa dicessero o sentissero o pensassero sarebbe successivamente stata cancellata dalla loro coscienza, cominciarono a scherzare frequentemente sulla morte e sull'uccidere, e i loro sentimenti nei miei confronti sembrarono subire un radicale mutamento. Da uno stato iniziale di manifesto disprezzo, nel giro di qualche settimana mi trattavano con una sorta di rispetto, come se io fossi una specie di sacerdote e loro gli assistenti partecipanti a un sacrificio. Questo mi dava fastidio, e facevo perciò di tutto per evitarli il più possibile. Per me, il lavoro era semplicemente qualcosa che dovevo fare, per trovarmi il posto in una società migliore di quella che avevo lasciato. Fu allora che cominciai a chiedermi se la gente stava cambiando abbastanza rapidamente da assicurare la continuità della razza, se questi uomini potevano regredire così prontamente, desiderare la violenza così ardentemente. Per quanto riguardava me stesso, avevo poche illusioni, e desideravo cercare di vivere con me stesso per il resto della vita; ma li avevo considerati i miei superiori morali, ed era nella loro società che stavo tentando di inserirmi. Comunque, fu solo verso la fine del mio tirocinio che imparai qualcosa della dinamica con cui alteravano i caratteri. Hanmer, uno dei miei istruttori meno sgradevoli, una notte venne nel mio alloggio portando una bottiglia che lo rendeva in qualche modo il benvenuto. Aveva già fatto un lavoro considerevole, e la sua faccia, che normalmente aveva l'espressione sicura che hanno solo i pupazzi dei ventriloqui, denunziava una certa inquietudine e debolezza, la sua voce era passata dalla solita sicumera a una specie di imbarazzo. Poco dopo venni a sapere che cosa lo preoccupava. Le sanzioni e i controlli non funzionavano troppo bene. Secondo il punto di vista di Hanmer, sembrava che un ristretto conflitto armato (la situazione cui avevo accennato parlando con Paul qualche tempo prima) non potesse essere evitato e fosse quindi imminente. La politica di tale tipo mi annoiava, perché non era ancora affare mio, ma la possibilità che ciò avvenisse, con il pericolo sempre incombente che diventasse qualcosa di grosso e terrificante, era ironica quanto allarmante. Fare tutta questa strada, e nel modo in cui l'avevo fatta io, solo per arrivare in tempo per essere coinvolto in una conflagrazione mondiale... No! Era assurdo. Assolutamente. Cominciava a sembrare che la loro vicinanza a uno strumento di violenza, qual ero io, in un periodo come questo, fosse servita a far scattare in questi uomini qualcosa di trattenuto e di represso. Mentre aveva scatenato qualcosa di violento e di irrazionale tra gli altri, nel caso di Hanmer, che, dopo un po', sedeva ripetendo monotonamente: «Non può succedere», aveva
spezzato qualcosa. «Forse no», dissi per incoraggiarlo, dal momento che stavo bevendo il suo whisky. Allora mi guardò. Sembrò che la speranza lo illuminasse per un momento, poi svanì dai suoi occhi. «Che ti frega?» disse. «Mi frega. È anche il mio mondo. Ormai.» Distolse lo sguardo. «Non ti capisco», disse alla fine. «E neanche gli altri, del resto...» Ero convinto di ciò che dicevo, sebbene ciò fosse di scarso aiuto a chiunque. Tutte le mie emozioni del momento non erano basate su niente. Aspettavo. Non lo conoscevo abbastanza bene per sapere perché la sua reazione sarebbe dovuta essere diversa da quella degli altri, e non lo scoprii mai. Tuttavia, disse un'altra cosa che mi rimase impressa. «...Ma penso che dovrebbero essere tutti imprigionati finché non imparano come si devono comportare.» Banale, ridicolo e del tutto impossibile, naturalmente. Per il momento. Mescendo quello che restava del liquore in due buone dosi, affrettai il suo viaggio verso l'oblio, rimpiangendo in parte che non ce ne fosse più nemmeno un goccio per poterlo seguire. Qui, qui, e poi; là... (Stelle) (Entrata)
(Nuvole
nuvole
nu vo. I e)
-
(Fuori del tunnel sotto il cielo e giù) (Luci stroboscopiche e tuono)
(Canzone dell'aria) (Dita invisibili di materia)
(Esplosione #1) (Lasciate ogni (#2) (#3) speranza voi ch' entrate?) ... c'erano bagliori di lampi che squarciavano il cielo lontano. Nonostante la protezione e la mia distanza dalle detonazioni, venivo sbatacchiato come il piumetto di un volano. Ero piegato in avanti nel mio scafandro da battaglia, lasciando che il computer se la vedesse con questi disturbi, ma pronto a intervenire manualmente in caso di necessità. Alvo lampeggiava sotto di me in un susseguirsi di luci verdi, marrone, grigie e blu troppo veloce perché io potessi distinguerne le caratteristiche, dato che non avevo il tempo di starmene tranquillamente seduto a guardare. Ma non ero particolarmente teso mentre divoravo i chilometri, annullando la distanza, passando attraverso i tuoni. Per fare il lavoro con la rapidità necessaria, non c'era posto per le finezze. Il dispositivo per la sicurezza interna di Doxford era troppo potente per qualsiasi cosa tranne che per un'annosa campagna di infiltrazione. Perciò si era stabilito un assalto di sorpresa, un attacco da kamikaze, per avere le migliori possibilità di successo. La difesa di Styler era eccellente, ma non ci eravamo aspettati di meno. Deve avermi scovato quasi immediatamente dopo la mia comparsa nelle vicinanze di Alvo. Non mi stupii per più di un attimo della perfezione tecnica che era stata necessaria per scoprirmi, e già stavo muovendomi a bassa quota, alla massima velocità verso la fortezza dove aveva stabilito il quartier generale del suo complesso di uffici, ma mi chiedevo quali dovevano essere stati i pensieri e le sensazioni di Styler quando mi aveva notato la prima volta. Da quanto tempo si aspettava questo attacco? Quanto poteva saperne al riguardo? Poi, per un certo periodo di tempo, evitai o resistetti a qualunque cosa mi scagliasse contro, poiché avevo le mie armi pronte a entrare in azione in un istante. Speravo almeno di iniziare il mio attacco dall'aria. Un crepitio di elettricità statica, un sibilo, un rumore di respiro pesante. La mia radio si era messa a funzionare. Non me l'aspettavo. Sembrava come il futile tentativo di qualcuno di minacciarmi o di corrompermi quando ero ormai arrivato a quel punto.
Comunque, non udii: «Veicolo non identificato eccetera, stai passando sopra un territorio senza autorizzazione. Ti si ordina di...» Udii invece: «Angie l'Angelo, benvenuto su Alvo. Trovi interessante la tua breve visita?» Quindi sapeva chi ero. Ed era Styler in persona a parlare. Avevo udito la sua voce e visto il suo ritratto molte volte nel corso del mio addestramento. Avevo dovuto costringere i miei istruttori a eliminare un accompagnamento programmato di diffamazione che faceva parte della sessione di familiarizzazione, perché trovavo che mi disturbava. Per loro fu difficile credere che io non sentissi la necessità di odiare l'ometto dagli occhi pallidi, con le guance paffute e il turbante avvolto attorno alla testa, che copriva i terminali dei suoi trapianti permanenti. «Naturalmente si tratta di propaganda», dicevano, «ma ti sarà di aiuto quando giungerà il momento». Scuotevo lentamente la testa. «Non mi occorrono dei sentimenti per uccidere», ribattevo loro. «Potrebbero anche intralciarmi.» Dovettero accettare questa mia teoria, ma era chiaro che non capivano. Quindi sapeva chi ero. Era sorprendente, ma non mi lasciai sopraffare. Enormi quantità di informazioni venivano immesse regolarmente nel suo computer, e presumibilmente possedeva una mente profonda, eccezionale, completa di immaginazione. Quindi mentre pensavo che stesse facendo delle congetture, erano senza dubbio delle congetture ben fondate, e naturalmente precise. Non vedevo alcuna ragione per parlare con lui, comunque; o, allo stesso modo, per non parlargli. Per me non faceva proprio alcuna differenza. Le parole non avrebbero potuto cambiare niente. Ancora: «Sarà una visita breve», insistette. «Non potrai restare qui, lo sai.» Una specie di fulmine attraversò una nuvola scura davanti-di fiancodietro a me. La navicella ebbe una scossa, alcuni circuiti crepitarono, un'onda di elettricità statica portò via alcune parole di Styler. «... non sono i primi», stava dicendo. «Ovviamente, nessuno degli altri...» Altri? Poteva averlo detto nella speranza di turbarmi. Ma era qualcosa che non avevo considerato. Paul non aveva mai detto che ero il primo a fare questo tentativo. Infatti, ripensandoci, era probabile che non lo fossi. Mentre ciò non mi disturbava, mi domandavo quanti altri potessero esserci stati. Non importa. Erano dei contemporanei. Probabilmente avevano avuto bisogno del lavaggio del cervello, era occorso un lavoro per fomentare in
essi l'odio necessario. Affari loro. Funerali loro. Non mi riguardava. «Puoi ancora rinunziare al tuo impegno, Angelo», disse. «Fa' atterrare il tuo veicolo e rimanici. Manderò qualcuno a prelevarti. Vivrai. Che cosa ne dici?» Ridacchiai. Dovette sentirmi, perché continuò: «Almeno so dove sei. Il tuo attacco è una manovra inutile sotto molti punti di vista. Oltre al fatto che non hai alcuna possibilità di successo e senza dubbio moriresti qui e presto, non esistono più le ragioni per cui tu debba rischiare». Poi fece una pausa, come se aspettasse che io dicessi qualcosa. Quella era una manovra inutile. «Non ti interessa, eh?» disse poi. «Da questo momento in avanti il mio attacco difensivo potrà perforare il tuo schermo protettivo. COSA non aveva assolutamente la possibilità di sapere ciò che io ho aggiunto al sistema dopo il loro precedente tentativo. Chiunque dei prossimi potrà saperlo.» Seguì una serie di esplosioni stridenti. Comunque ne uscii senza danni. «Ancora lì», osservò, «Bene. Ciò ti lascia una possibilità di cambiare idea. Sai, vorrei che tu vivessi, e ancor più mi interesserebbe parlare con un uomo come te, di un altro tempo, un uomo con la tua esperienza. Come ti stavo dicendo, esistono altre ragioni, oltre a ostacoli fatali, perché tu rinunci all'impresa. Non so che cosa tu possa o non possa aver sentito, perché so che sei stato fuori del mondo per un certo tempo, ma è vero che c'è stata una guerra, e suppongo che, tecnicamente, ci sia tuttora. Da tutti i rapporti che ho ricevuto, la Terra deve trovarsi in condizioni piuttosto pietose, attualmente. Entrambi i nostri padroni sono stati colpiti molto duramente. In effetti credo che, al momento, manchiamo di contatti terrestri. Stando così le cose, mi sembrerebbe meglio tentare di salvare ciò che rimane di tutte e due le organizzazioni, piuttosto che continuare la nostra lotta. Che cosa ne pensi?» Naturalmente non dissi nulla. Non avevo modo di verificare le sue affermazioni, ed egli non aveva alcun modo per provarmele, a meno che io non avessi deciso di atterrare e di dare un'occhiata a ciò che avrebbe potuto offrirmi come prova, il che naturalmente era fuori questione. Quindi mancavano le basi per continuare il discorso. Lo udii sospirare, attraverso un piccolo flusso di corrente statica. «Sei convinto che ci debbano essere delle altre morti», riprese poi. «Pensi che ogni cosa che ti ho detto sia puramente fine a se stessa...» Allora quasi lo interruppi, perché non mi piace la gente che mi dice
quello che sto pensando, abbia o non abbia ragione. Tuttavia, alla radio non c'era niente di meglio... «Perché non dici qualcosa?» insistette. «Mi piacerebbe udire la tua voce. Dimmi perché ti occupi di questa faccenda. Se è solo questione di denaro, ti pagherò di più per farti rinunciare (qualunque sia la somma che ti pagano loro) e per proteggerti in seguito.» Fece una pausa, aspettò, poi continuò. «Naturalmente, da parte tua, probabilmente c'è qualcos'altro. Lealtà alla famiglia. Solidarietà. Il legame di sangue tribale. Roba del genere. Se si tratta di questo, ti dirò qualcosa. Probabilmente sei l'unico che ancora ci creda. Gli altri no. Conosco questi uomini, li conosco bene da anni, mentre tu li hai conosciuti da poco. È vero. I loro valori non sono più i tuoi. Stanno speculando sulla tua realtà. Ti stanno usando. Lo fai al di fuori della lealtà alla famiglia? Si tratta di questo?» La sua voce era suonata un po' tesa verso la fine. Quando riprese era più calma. «È un po' deludente parlare con te a questo modo», disse, «sapendo che sei là fuori, che ti avvicini sempre più, e che mi stai ascoltando. Comunque, ora capisco qual è il tuo punto di vista. Sei ben deciso. Niente di quanto possa dire può farti cambiare idea. Posso solo cercare di ucciderti prima che tu uccida me. Tu ti stai muovendo e io sono bloccato in questa posizione. Per me è troppo tardi per tentare di fuggire. Naturalmente non ci riuscirai. Ma, come ho detto, conosco le tue intenzioni. Tu non hai niente da dirmi, e in realtà io non ho niente da dire a te. Ciò mi irrita. Non sei come gli altri. Tutti loro parlavano, sai. Mi minacciavano, mi maledicevano, morivano urlando. Sei un selvaggio ignorante, incapace di capire che cosa sono io, ma questo non vale a scoraggiarti, non ti turba affatto. Non è vero? Stavo tentando qualcosa che giovasse all'intera razza umana, ma non te ne frega niente. Non è vero? Tu ti limiti a tacere e continui ad avvicinarti. Hai mai letto Pascal? No. Naturalmente no... 'L'uomo non è che un giunco, la cosa più debole che ci sia in natura', diceva, 'ma è un giunco pensante. Non occorre che l'intero universo si armi per annientarlo. È sufficiente un vapore, una goccia di acqua per ucciderlo. Ma se l'universo dovesse annientarlo, l'uomo sarebbe ancora più nobile di quello che l'ha ucciso, perché sa di morire e conosce i vantaggi che l'universo ha sopra di lui; l'universo non ne sa niente'. Capisci ciò che sto dicendo? No, naturalmente no. Non pensi mai a queste cose. Sei un vapore, una goccia d'acqua... Viene il momento, c'è una specie di compimento della vita, in cui si accetta la morte, credo, senza troppo risentimento. Non ho ancora raggiunto questa fase, ma ci sto lavorando. Lascia che ti dica...»
In quel momento, le difese mi si levarono davanti improvvisamente illuminando il cielo, soffocarono tutti i più piccoli rumori e mi colpirono con onde d'urto che arrivavano come frangenti impazziti. Ma poi cominciai a intravedere il mio bersaglio, il Doxford Building, a ridosso delle colline all'estremità di una vallata lontana. Qualche momento dopo, iniziai l'attacco. Fontane di luce spuntavano dal fondovalle e dal fianco della collina. L'angolo destro della costruzione crollò, sul tetto c'era fuoco... Io stesso fui colpito, nei momenti di quel piccolo trionfo, e immediatamente cominciai a cadere verso il basso. Dal momento che non ero stato espulso, mi resi conto che la sezione di controllo doveva essere rimasta quasi intatta. Una rapida indagine (fisica, e attraverso l'impianto d'allarme) mi confermò che era così. C'era comunque stato un indubbio danno, e intravidi l'intelaiatura esterna del veicolo che precipitava a terra contorta. Un altro colpo e, mentre il mio scafandro mi avrebbe probabilmente protetto, sarei stato scagliato fuori. Se l'avessi però potuto fare con la cabina intatta... «Sei ancora vivo?» udii la voce di Styler. «Vedo un pezzo...» Ci fu un'esplosione che distolse la mia attenzione dalle sue parole, ero sballottato, sobbalzavo, ruzzolavo da una parte e dall'altra. Usai i controlli manuali, perché volevo rallentare al massimo la caduta. «Angelo? Ci sei ancora?» Tentai di convertire tutti i sistemi necessari mentre cadevo, frenai all'ultimo istante possibile, urtai a una brutta angolatura, rotolai, mi stabilizzai, riuscii a fermare il veicolo intatto. Lo misi in marcia e poi mi spinsi avanti immediatamente. Ero all'estremità opposta, rispetto al complesso Doxford, della vallata ancora fumante e annebbiata dalla polvere. Era interamente rocciosa, e piena di crateri e di buche, non tutte recenti. Questo sembrava dare una certa credibilità all'asserzione che il mio non era il primo attacco sul posto. Rendeva anche difficoltoso per i difensori minare la zona, fatto che mi risultò utile mentre procedevo, cercando eventuali ordigni esplosivi. Non potevo fare a meno di chiedermi se avesse detto la verità sulla guerra, comunque. I miei pochi e tenui legami col passato e gli unici importanti, quelli col presente, erano tutti coinvolti. Tuttavia non riuscivo a vedere la ragione per cui qualcuno avrebbe dovuto bombardare la Sicilia. Ma c'era ancora? Erano passati parecchi mesi, e in questi tempi la gente era molto volubile. E come stava Paul? E gli altri che avevo incontrato? Sapevo che
possedevano rifugi elaborati. Tuttavia... «Sei proprio vivo! Ti vedo sugli schermi. Bene. Questo ti rende anche più facile darti per vinto. Non preoccuparti di passare sulle mine una volta che sei già atterrato. Ascolta. Tutto ciò che devi fare è fermarti e attendere, ora. Manderò qualcuno a prelevarti. Ti darò le prove di quanto ti ho detto. Che cosa ne dici?» Spinsi in avanti i cannoni e li feci ruotare, li sollevai, li abbassai per provarne l'alzo. «Immagino che questa sia la tua risposta!» disse. «Guarda che non ci guadagnerai assolutamente nulla a morire qui, ed è esattamente ciò che accadrà. I nostri padroni in questo momento sono entrambi fuori causa. Anche ora il tuo campo di tiro è sotto controllo, e in breve sarai ridotto in briciole. Non ha senso. La vita è una cosa preziosa, e gran parte di essa è svanita da poco. La razza umana è appena stata più che decimata, e quel che ne rimane può anche essere ridotto a un decimo dagli effetti che si protraggono. Poi ci sono le difficoltà presenti che riguardano le autorità rimaste: radunare i superstiti e provvedere a loro, approntare la quantità necessaria di poste per il teletrasporto, trasportarli al di fuori del mondo, cercare di dare loro una nuova sistemazione. La Terra è a malapena abitabile, e le condizioni continueranno a peggiorare. La maggior parte degli altri mondi non sono pronti per un insediamento umano prolungato, e non siamo in grado di cambiarli ulteriormente per il momento. Si devono costruire dei rifugi, stabilire comunicazioni tra i mondi e mantenerle. Non occorrono altre morti, e io ti sto offrendo una possibilità di vivere. La vuoi accettare? Mi credi?» Raggiunsi una pista abbastanza piana di roccia e aumentai la velocità. Attraverso il fumo, la polvere, i vapori, riuscivo a vedere che le fiamme guizzavano dietro il buco che avevo provocato nella sua fortezza. Non aveva importanza quanto cercasse di sembrare sicuro della sua capacità di distruggermi, ma non poteva negare che un mio colpo era andato a segno. Da qualche parte alla sua estremità della valle, iniziarono gli spari, dapprima brevi, poi lunghi, che prendevano le mie misure. Variai la mia velocità, e fui soddisfatto quando raggiunsi un pendio irregolare e cominciai a salirlo, perché l'angolo sembrò mettermi al riparo dagli spari. Preparai i missili, sebbene sperassi di potermi avvicinare di più prima di lanciarli. Controllai l'ora, sospirai. Era vicino il momento dell'arrivo e della detonazione dei due missili di grande potenza che si erano staccati dal veicolo nello stesso momento in cui mi ero staccato io andando avanti. Lui li aveva
dunque ricevuti. Le loro possibilità però non erano state ottime. Poi ebbe inizio il fuoco di sbarramento, che mi fece vacillare, sobbalzare, rimbalzare. Il rumore divenne assordante, i bagliori quasi accecanti, il fumo denso. Il terreno vibrò, e frammenti di roccia esplosero contro il veicolo, cadendo sopra di esso simili a chicchi di grandine. «Pronto? Pronto?» sentii debolmente in mezzo al fracasso. Poi quello che seguì fu soffocato da tre esplosioni molto vicine. Deviai bruscamente, voltai ad angolo acuto, mi raddrizzai, utilizzando il riparo offerto da parecchi alti strati di sassi. Gli spari diventarono più irregolari, arrivando sempre più lontani da me. La mia radio era inutilizzabile quando mi ero riparato dietro la barriera rocciosa. Continuai ad avanzare, scoprii una pista complicata e tortuosa che partiva alla mia sinistra, e la presi perché sembrava abbastanza riparata. Ciò sembrò confondere la sua ricerca, perché i suoi colpi continuavano a cadere sempre più lontani. Procedendo sulla mia strada tortuosa, quasi dominai dall'alto un altro complesso di costruzioni, in fondo a una valletta, ancor più lontana alla mia sinistra. Erano molto nuove e sembravano completamente deserte. Non erano state menzionate nelle mie istruzioni, e non erano state indicate su nessuna delle mappe o delle foto che mi ero studiato. Le tenni sotto tiro finché non fui passato, ma non avevo nessuna ragione per sparare. Salendo più in alto, la radiò ritrovò la sua voce, debolmente dapprincipio, più forte man mano che salivo. «... Quindi vedi», stava dicendo, «sono libero per la prima volta in vita mia, libero di usare come dovrebbero essere usate alcune di queste cose che ho perfezionato (non commercialmente, per il beneficio della razza intera) per aiutarci a superare questi tempi difficili. C'è un gran bisogno delle mie capacità, dei miei poteri, ora. Anche la clonizzazione...» Ero stato individuato. Vi fu una serie di forti esplosioni dietro di me. Poco dopo, avevo doppiato le rocce di protezione ed ero ancora una volta allo scoperto. Vi erano pochissimi ripari per centinaia di metri, e la strada era interamente in salita. Mi spinsi in avanti con tutta la velocità consentitami, sapendo che le mie speranze si basavano appunto solo sulla velocità, e sperando di guadagnare un po' di tempo per poter sparare i miei missili. Dalla posizione in cui mi trovavo, era praticamente impossibile raggiungerlo. Le esplosioni seguenti arrivarono davanti a me, e deviai per evitare la zona maledetta. Poco dopo ce ne fu un'altra dietro, molto vicina questa volta. Riuscii tuttavia a ripararmi, passai alcuni momenti di batticuore cercan-
do di avvicinarmi a destra mentre le rocce si sbriciolavano e si frantumavano davanti a me, poi mi arrischiai a correre in diagonale verso un riparo più vicino. Non meritavo di farcela, e quasi non ce la feci. Fui colpito pochi secondi dopo essere uscito, e girai completamente su me stesso. Fui sollevato per aria, ricaddi, rimbalzai ed ebbi un'improvvisa e inaspettata visione del paesaggio distrutto attraverso un buco di circa mezzo metro nello schermo protettivo un poco sopra la mia spalla sinistra. Ma riuscii ancora a muovermi malgrado un rumore metallico e una forte sbandata a sinistra, e mi diressi verso il successivo rifugio, mentre una serie di esplosioni mi seguiva come se fossero code di aquiloni. Ero circa a metà strada sulla collina, il che era pressappoco quel che mi aspettavo. Forse anche meglio, tutto considerato. Mi portai ancora più a destra. Uscii all'estremità più lontana, dove venni protetto da una massa di ciottoli circa cinque metri più avanti. Mi avviai continuando a tenermi sulla destra, finché non arrivai a un punto dove potevo muovermi senza espormi, circa duecento metri più in là del mio precedente riparo, che stava allora andando in pezzi. Non avevo alcuna idea di come fosse dall'altra parte, quindi decisi di procedere a piedi per indagare. Lasciai ogni cosa in funzione, compresa la radio, con il suo debole e molesto: «Ci sei, Angelo? Ci sei ancora?» e scesi sul terreno roccioso, sentendone le continue vibrazioni attraverso lo scafandro, sentii odore di prodotti chimici che bruciavano e sapore di polvere salata. Girai accuratamente in cerchio, tenendomi vicino ai massi, lasciandomi cadere sull'addome e strisciando per la distanza necessaria mentre giravo intorno ai massi. Mentre facevo questo, colsi la voce di Styler nella mia radio tascabile. «Mi dispiace di essermi dovuto comportare così, Angie», disse. «Se sei ancora vivo e puoi ascoltarmi, spero che tu mi creda. Per tutto ciò che vale al mondo, ogni cosa che ho detto era vera. Non ti stavo mentendo...» Sì! Se mi fossi portato sulla destra e in alto abbastanza rapidamente, avrei avuto un bel campo libero per sparare! Se avessi lanciato tutti i missili, c'era una discesa ripida che sarei riuscito a raggiungere. Mi diressi verso quello che sembrava il letto prosciugato di un corso d'acqua... «... Ora continuerò a sparare finché non rimarrà più nulla. Non mi hai lasciato altra alternativa...» Tornai al veicolo e ricontrollai tutti i comandi. Le rocce dietro di me sarebbero diventate presto una cava di ghiaia. O di sabbia.
Era tutto pronto. Ora in qualsiasi istante anche lui avrebbe potuto lanciare qualcosa di veramente pesante. Dovevo far presto. Mi spinsi in avanti e in su a velocità considerevole. In certi momenti, sbandavo fino quasi a rovesciarmi sulla sinistra. Comunque, ebbi una momentanea visione dei quartieri generali di Doxford, senza più fiamme ora, ma sovrastati da un gran pennacchio di fumo grigio; quindi mi fermai, mi chiusi dentro e lanciai i miei missili, uno dopo l'altro, mentre ogni scossa minacciava di farmi ruzzolare giù dalla scarpata. Non aspettai di vedere il risultato, ma mi lanciai in avanti nel momento stesso in cui l'ultimo missile veniva sparato. Raggiunsi il fondo della discesa, girai a sinistra e continuai nella mia corsa. Dopo pochissimo tempo, l'altura dalla quale avevo sparato prese fuoco e si ridusse a un cratere incandescente. Pochi attimi dopo, mi colpì una doccia di ghiaia. Continuai indisturbato per quello che sembrò un tempo lunghissimo. Gli spari continuavano, ma ora cadevano a casaccio e sembravano un po' diradati. Non riuscii ad abbandonare la gola nel punto riparato della roccia come avrei voluto. Tentai, ma il motore non riusciva a tirarmi su per la scarpata. Il suo rumore metallico era diventato ancora più inquietante; e percepii l'odore degli isolanti che bruciavano. Quando finalmente raggiunsi l'unico pendio possibile, mi ci spinsi su e scoprii di essere a circa quattrocento metri dalla cittadella di Styler. Il lato vicino dell'edificio era franato completamente, e vedevo le fiamme che danzavano dietro le macerie. C'era più fumo di prima. I cannoni, dovunque fossero, di qualunque tipo fossero, per breve tempo spararono all'impazzata, poi tacquero. Ciò durò per forse dieci secondi. Poi uno di essi ricominciò a sparare, lentamente, a intervalli regolari, a qualche bersaglio immaginario lontano, sulla destra e dietro. Una lunga fila di robot tarchiati e dall'andatura pesante fu allineata davanti all'edificio, e rimasero assolutamente immobili, probabilmente a sorveglianza del posto. «Va bene, sei stato fortunato», disse Styler, e la sua voce suonò strana dopo il lungo silenzio. «Non posso negare il danno che hai provocato, ma non ti puoi avvicinare di più. Credimi, è un'impresa pazzesca. Il tuo veicolo sta quasi per sfasciarsi, e i robot ti schiacceranno. La tua morte non sarà utile a nessuno, dannazione!» I robot cominciarono a correre verso di me, sollevando quelle che chiaramente dovevano essere armi. Aprii il fuoco su di loro.
Il rumore del suo respiro riempì la cabina mentre avanzavo, sparando, allo stesso modo dei robot. Ne distrussi circa la metà prima che il veicolo si sfasciasse e cominciasse a cadere in pezzi intorno a me. Uno dei cannoni funzionava ancora, comunque, così cominciai a sparare, mentre mettevo a punto i dispositivi del mio scafandro. Fui colpito nella persona solo alcune volte, ma l'armatura resisteva abbastanza bene contro le sferzate di laser e proiettili. «C'è veramente qualcuno?» disse Styler alla fine. «Oppure ho parlato con una macchina? Mi è sembrato di sentirti ridere, prima. Ma per l'inferno! Sarebbe potuta essere una registrazione! Ci sei veramente, Angelo? O si tratta di qualcosa che non ne sa nulla del processo di schiacciare un giunco? Di' qualche cosa! Qualsiasi cosa. Dammi qualche prova che vi è un'intelligenza là fuori!» I robot si erano divisi in due gruppi e avanzavano verso di me con una specie di schieramento a tenaglia. Mi accanii contro quelli di destra finché il mio cannone non venne distrutto. Ne danneggiai quattro, prima che ciò accadesse, e la granata che scagliai mentre balzavo fuori del mio rottame in fiamme ne eliminò altri tre. Mi spostai velocemente dietro la carcassa, lanciai una granata contro quelli di sinistra, impugnai il mio fucile a raggi laser, mi voltai ancora verso destra, e ricominciai a sparare contro l'automa più vicino. Ci voleva troppo tempo per fermarlo col fuoco, quindi gettai via il fucile, scagliai un'altra granata, uscii correndo. Forse se la mia corsa fosse stata abbastanza veloce, avrei potuto raggiungere un riparo più in alto. Non ne ero sicuro. Non potevo evitare tre dei dodici robot circa che restavano, quindi dovetti fermarmi e combattere con il più vicino. Mi aveva urtato con un'appendice simile a un cavo, mentre tentavo di avvicinarmi. Sperando che la forza moltiplicata dalla protesi fosse sufficiente, lo afferrai in basso e lottai per sollevarlo al di sopra della testa. Me la cavai con questo proprio mentre il secondo tentava di venirmi addosso, perciò lanciai il primo sull'altro con tutta la forza, fermandoli entrambi, feci cadere sul fianco il terzo e ripresi a correre. Percorsi trenta o quaranta metri prima che il loro fuoco mi facesse cadere e i loro raggi rendessero il mio scafandro spiacevolmente caldo. «Almeno sembri un essere umano», arrivarono le parole di Styler nella mia radio tascabile. «Sarebbe terribile se non ci fosse niente dentro, comunque, come una di quelle creature cattive e irreali delle leggende scan-
dinave: una presenza vuota. Dio! forse lo sei! Una specie di incubo che non è svanito quando mi sono svegliato...» Avevo pronta una granata, e la scagliai indietro verso i miei inseguitori facendola seguire dalla seconda. Quindi mi rialzai e mi misi a correre verso il mucchio di macerie che c'era davanti all'edificio. Ero a una trentina di metri e sentii i loro raggi convergere su di me e fui gettato a terra e rialzato e sballottato, e intanto sentivo le scottature nei punti dove lo scafandro era a contatto col mio corpo, sentivo l'odore del mio sudore e della carne che bruciava. Mi tuffai dietro un mucchio di pietre e cominciai a strappare i ganci dello scafandro. Mi sembrò che ci volessero secoli per uscirne, e mi morsicai il labbro trattenendo un urlo. Il casco, cadendo a terra, mi trasmise la voce di Styler: «Non pensi che valga la pena di salvare la razza umana? O per lo meno che valga lo sforzo, il tentativo di salvarla? Non ritieni che meriti l'opportunità di esercitare il suo potenziale...» La voce venne poi soffocata sotto una valanga di macerie quando mi arrampicai verso una posizione da cui sparare, senza preoccuparmi di controllare le mie bruciature, cercando solo di fronteggiare col laser i robot più vicini che stavano avanzando. Ne funzionavano ancora tre, e tenni il raggio sul primo per un tempo intollerabilmente lungo prima di riuscire a bucargli la torretta, mentre si fermava crepitando e fumando. Mi occupai immediatamente del secondo, e allora mi venne in mente che non erano stati necessariamente progettati per combattere. Non erano sufficientemente specializzati. Era come se egli avesse schierato e armato un'orda di macchine per molti usi e le avesse mandate contro di me. Avrebbero dovuto essere progettati per muoversi più velocemente e per operare con efficienza più implacabile. Le loro armi, in realtà, non erano state incorporate in loro, ma attaccate a loro. «Naturalmente vale la pena di salvare la razza», dissi con sapore di sale in bocca. «Ma ogni volta che le circostanze cospirano contro di essa, la sua stessa irrazionalità la spinge avanti. Questa follia è la sua condanna. Se dipendesse da me, la bandirei.» Quindi risi, quando il secondo robot cadde. «Diavolo! Comincerei con me stesso!» Potevo sentire il crepitio delle fiamme alle mie spalle, come pure il sibilo di un congegno antincendio. Ora avevo il raggio puntato sull'ultimo robot, e cominciavo a temere di essermene occupato troppo tardi. Il suo raggio stava sciogliendo e polverizzando gran parte della mia protezione, e io
continuavo a piegare velocemente la testa e a girarla lateralmente, battendo le palpebre per evitare la polvere, soffiandola fuori del naso, mentre sentivo l'odore dei capelli che bruciavano e del mio orecchio carbonizzato. E avanti, avanti, avanti. La mia mano sinistra sembrava in fiamme, ma sapevo che non mi sarei mosso finché uno di noi non fosse stato annientato dal fuoco. Continuai a sparare anche dopo che il robot aveva cessato, credo, perché avevo gli occhi chiusi e la testa girata da un lato, e non vedevo che cosa succedeva. Quando mi accorsi che ero vivo da troppo tempo se fosse andata male, smisi di sparare e sollevai la testa. Poi la lasciai ricadere e riposare, sapendo che ora tutto era a posto, dolorante, incapace di muovermi. Dopo forse mezzo minuto, seppi che dovevo salire e andare avanti, altrimenti sarei rimasto lì, perdendo il beneficio di tutta quella adrenalina, diventando sempre più debole e assonnato per il dolore e la stanchezza. Mi rialzai in piedi, barcollai all'indietro. Per poco non caddi quando mi chinai per ricuperare la mia ultima granata dal fianco dello scafandro. Poi mi voltai e mi trovai di fronte all'edificio. Le grandi porte di metallo erano chiuse. Quando mi ci avvicinai e le spinsi, scoprii che erano state rinforzate. Sebbene avessi prodotto molti buchi nell'edificio, il fuoco sembrava ardere dietro ognuno di essi. Indietreggiai, quasi aspettandomi un'esplosione, alzai il fucile e carbonizzai il meccanismo di chiusura. Non accadde nulla. Non vi erano cariche nascoste. Avanzai, aprii una delle porte, entrai. Era una semplice anticamera, del tipo che si trova ovunque nei palazzi adibiti a uffici. Deserta, comunque. E calda e piena di fumo. Procedetti con passo deciso, pronto a far fuoco al primo movimento di qualsiasi genere, preoccupato per eventuali fucili nascosti, bombe, bocche di gas, sperando che ora fossero danneggiati o fuori uso, se ce n'erano, e intanto andavo secondo i piani verso il luogo che avevo in mente. La mia sensazione era che lui dovesse essere a pianterreno nella stanza del cervello. Era il luogo sia più sicuro sia più delicato in tutto l'insediamento. Quando mi diressi verso la parte posteriore dell'edificio in cerca di una scala, mi giunse la voce di Styler dagli altoparlanti. «Non mi ero sbagliato sul tuo conto», disse. «Ho avuto paura di te fin dall'inizio. È un vero peccato che possiamo incontrarci solo in queste circostanze. Possiedi una qualità che ammiro moltissimo: la determinazione.
Non ho mai visto prima una fermezza simile, una simile decisione di intenti. Una volta che ti sei messo in mente di averla vinta su di me, hai anteposto il tuo proposito a qualsiasi altra cosa, e niente fuorché la morte ti fermerà ora...» Attraversai di corsa un corridoio in fiamme, scavalcai con un salto un pezzo di muro caduto. Degli spruzzi mi bagnarono mentre passavo. «... Abbiamo fatto un errore di calcolo, tu e io, sai? Hai mai considerato che cosa sarebbe successo se Otello fosse stato messo di fronte al problema di Amleto? Avrebbe risolto la questione appena finito di parlare col fantasma. Ci sarebbe stato solo il primo atto e non ci sarebbe stata nessuna grande tragedia. Viceversa, il Danese avrebbe potuto risolvere il dilemma del povero Moro in un baleno. È triste che sia sempre così. Se io fossi stato al tuo posto, a quest'ora dominerei COSA. Erano in condizioni terribili. Seriamente. Questo attacco a Doxford è uno dei loro spasimi di agonia. Nella direzione si odiavano l'un l'altro più di quanto odiassero i loro rivali. Avresti potuto sfruttare la tua immagine di nonno spietato ed entrarvi, e poi metterli in riga. Tu... Oh, diavolo! Non ha importanza adesso, ho risposte per i problemi di tutti, tranne che per il mio. Se tu sedessi dove siedo io, se sapessi quello che so io, saresti stato in grado di fermare la guerra. Io, invece, no, quindi perché parlarne? Ero ancora occupato a vagliare le varie alternative quando le bombe stavano esplodendo. Tu avresti fatto qualcosa...» La porta che dava l'accesso alle scale era bloccata. La bruciai e a pedate la buttai giù e passai. Il fumo usciva denso, ma trattenni il respiro e mi precipitai avanti. «... E sto ancora pensando, considerando i modi possibili per affrontare questa situazione...» Andai a tastoni fino al primo pianerottolo, continuai su e giù, con gli occhi che mi bruciavano e mi lacrimavano. La porta ai piedi della scala era chiusa a chiave. Carbonizzai la serratura, mentre la testa mi girava e il sangue mi pulsava nelle tempie. Mi trovai di fronte a un altro corridoio in fiamme. Lo attraversai di corsa, feci saltare un'altra porta ed entrai in un vestibolo caldo ma non ancora invaso dalle fiamme. Mi misi a correre, aprendomi la strada attraverso innumerevoli porte, aspettandomi in ogni momento un'esplosione, un accerchiamento di spari, il sibilo del gas. L'aria diventò più fresca, più pulita mentre procedevo e finalmente mi avvicinai a qualcosa che si poteva considerare normale e con-
fortevole. Le luci brillavano con fermezza e, sebbene a intervalli regolari ci fossero cabine di comunicazione, gli unici rumori che si sentivano erano quelli di un respiro pesante e di una specie di sussurro, probabilmente erano imprecazioni, che non riuscii proprio a decifrare. Mi chiedevo e avevo continuato a chiedermi se lui era solo. Non avevo ancora incontrato un solo essere umano, vivo o morto, su Alvo, e, mentre sarebbe sembrato logico che qualsiasi altro si fosse diretto verso la sua zona protetta all'inizio dell'attacco, il tipo di discorso a monologo di Styler tendeva a indicare che era solo e probabilmente lo era da qualche tempo. Perciò, dov'erano gli altri? Quel luogo era grande, presumibilmente con parecchio personale. Ma presto la questione si sarebbe risolta. Vidi la pesante porta che immetteva nel suo rifugio. Mi avvicinai con cautela, ma, come mi ero aspettato, la trovai chiusa ermeticamente. Alzai il fucile e cominciai a bruciarla. La carica però si esaurì prima che avessi terminato. La serratura resisteva ancora troppo bene. Naturalmente avevo la granata. Ma se l'avessi usata per abbattere la porta, mi sarei privato dell'unica arma in grado di uccidere a distanza. La sola cosa che mi restava a portata di mano era uno stiletto che avevo trovato in Sicilia. I miei istruttori avevano riso quando avevo insistito per portarlo con me. Non credevano nei portafortuna. Lo estrassi dallo stivale gettando da parte il fucile. Afferrai la granata. «Immagino che ti aspetti di essere prelevato dai tuoi alleati, a missione ultimata», disse Styler, la cui voce arrivava da un altoparlante situato sopra la porta. «Quando non verranno a prenderti, può darsi che comincerai a chiederti se sei stato abbandonato o se forse io ti ho detto la verità riguardo alla guerra sulla Terra. Ti ho detto la verità. Allora cercherai qualche mezzo per partire da Alvo da solo e scoprirai che, a quanto pare, non ce ne sono. Comincerai a sospettare di essere l'unico essere umano sul pianeta. E sarà vero. Allora rimpiangerai di non avermi creduto, perché ti accorgerai che con me avrai eliminato le soluzioni ai tuoi problemi.» Indietreggiai nell'anticamera, lanciai la granata e mi precipitai in un passaggio riparato. «Ho mandato via tutti gli altri. Vedi, l'avevo previsto da mesi. Ora, con la guerra, c'è il dubbio che nessuno ritorni. I profughi vengono mandati su quei pianeti dove le sistemazioni sono già...» L'esplosione, in quella zona limitata, sembrò enorme. Ero uscito dalla mia nicchia e correvo ancor prima che il rimbombo si fosse spento, prima
che fossero cessate le vibrazioni, prima che tutte le macerie fossero finite in terra. Se veramente aveva allontanato tutti gli altri dal pianeta, significava che non c'era nessuno che sarebbe venuto a prelevarmi se mi fossi fermato in qualsiasi momento nella mia spedizione, come lui mi aveva richiesto. Quindi, aveva semplicemente voluto un bersaglio fisso. Maledizione a lui! Qualsiasi possibile inizio di simpatia sparì rapidamente. Mi lanciai attraverso la soglia distrutta, con lo stiletto abbassato e pronto. Una volta entrato, non mi fermai, ma osservai ciò che mi circondava mentre avanzavo con impeto. Nessuno splendore rinascimentale, come mi ero immaginato. La parete di fronte aveva l'aspetto di una enorme mensola, mentre quella opposta era coperta da un gran numero di schermi che inquadravano varie vedute della valle e l'interno incendiato dell'edificio. La parte anteriore della stanza, separata da quella posteriore da uno schermo decorativo, era tappezzata e ammobiliata per una residenza a tempo pieno. Styler, come era nei ritratti, era seduto a una piccola scrivania di metallo, vicino alla parete di sinistra. Una macchina complicata, probabilmente un prolungamento della cosa enorme della parte posteriore della stanza, sporgeva dalla parete circondandolo sulla destra. La testa era rasata e un gran numero di conduttori isolati andavano da questa alla macchina. Mi stava guardando e teneva un fucile nella mano destra. Da quel momento non so quante volte fui colpito. Penso che il primo colpo mi abbia mancato. Del secondo non sono sicuro. Era un'arma di piccolo calibro e sparò tre volte prima che riuscissi a fargliela cadere di mano; affondai la mia lama nel suo petto e lo guardai cadere riverso sulla sedia da cui si era alzato. «Tu...» cominciò, poi aprì e chiuse la bocca parecchie volte, con un'espressione di stupore che solo per un attimo prese il posto della smorfia che aveva mantenuto. La sua mano destra si protese, premette un piccolo pulsante sul pannello al suo fianco. Poi crollò in avanti sulla scrivania contorcendosi. Sull'angolo della scrivania, proprio dove mi ero appoggiato respirando affannosamente, c'era un telefono. Cominciò a squillare. Lo fissai affascinato, incapace di muovermi. Era ridicolo, assurdo che stesse squillando. Lottai per trattenere un impulso irrefrenabile di ridere, sapendo che non mi avrebbe per nulla giovato, e che ci avrei messo molto a smettere.
Dovevo sapere. Se non l'avessi scoperto adesso, me lo sarei sempre domandato. Allungai la mano e sollevai il ricevitore. «... troverai un po' di conforto», continuava la sua voce, arrivando ora attraverso il ricevitore, «nella costruzione all'altra estremità di questa valle». Riuscii a controllare un improvviso desiderio di urlare, e strinsi nella mano il ricevitore. Con l'altra mano mi allungai e afferrai la sua spalla. Lo spinsi indietro contro lo schienale della sedia. Era morto, oppure così vicino alla morte da fare poca differenza. «I neuroni stanno funzionando ancora», disse la sua voce attraverso il telefono, «e col mio relais posso attivare qualunque cosa ancora funzioni qui, anche se le mie corde vocali sono ormai fuori controllo. Qui ogni cosa passa attraverso il formulatore, e la sua voce è la mia. Dovrai studiare ciò che troverai nell'altro edificio. Non sarà facile. Può anche darsi che tu fallisca. L'alternativa è quella di passare il resto dei tuoi giorni in questo posto, da solo. Ma ci sono dispositivi di insegnamento, registrazioni, le mie note, i libri. Ora hai tutto il tempo che vuoi e puoi fare un tentativo oppure no, a tua scelta. Fin qui ho anticipato correttamente ogni cosa. Mi sembra che più oltre io non potessi andare...» Ci fu uno scatto, seguito da un suono automatico. Crollai. Qui, qui, là e ancora. Gli anni, i cloni, le barriere... Imparai. Studiai tutto su quello che sarebbe diventato Ala Zero. L'alternativa era una forma di pazzia peggiore di quella che già conoscevo. Dovevo uscire di lì, cercare di trovare Giulia, fare qualcosa. Un mosaico e la stella della sera... Ne uscii. Non riuscii mai a trovare la sua tomba, se ne aveva una, ma riuscii a stabilire che lei non era tra quelli che se l'erano costruita nella Casa, le cui Ali esistevano sugli altri mondi che non erano ancora del tutto pronti per l'uomo. Ne uscii. Volevo dimenticare moltissime cose e, avendo una gran quantità di tempo, potevo anche essere preciso al riguardo. Possedevo le tecniche per determinare con esattezza ogni cosa che non mi piacesse di me stesso e per cancellarla dalla mia mente. Decisi di farlo. Desideravo che si potesse fare per l'intera razza umana (per ciò che ne rimaneva) e decisi anche che ci doveva essere un modo per farlo. Solo, avrebbe richiesto più tempo, un processo di evoluzione morale, con me là a dirigere la cosa e a evolvermi con gli altri, stando solo un passo indietro, come immaginavo
io, per occuparmi del lavoro sporco per cui ero adattissimo. Questo mi piaceva. Distrussi una parte di me stesso e misi a posto la prima leva. Gli altri avrebbero potuto essere sistemati in caso di emergenza, ma volevo che Angelo di Negri restasse morto. Lo odiavo. Poi attivai i cloni, e potemmo fidarci di noi completamente. Ne uscimmo. PARTE SECONDA 1 Quando sentii la pallottola entrarmi nel cuore, la mia prima reazione fu di immenso stupore. Come...? Poi ero morto. Non ricordo di aver gridato, sebbene Missy Vole dicesse che lo feci, e di aver selvaggiamente annaspato con la mano destra. Poi mi irrigidii, mi rilassai, rimasi immobile. Lei era nella condizione migliore per saperlo, povera ragazza, perché accadde nel suo letto. Un pensiero folle mi attraversò la mente un attimo prima di morire: Tira la leva sette... Perché, non ne avevo idea. Ricordo il suo viso, gli occhi verdi quasi del tutto nascosti dietro le lunghe ciglia, le labbra rosa leggermente dischiuse in un sorriso. Poi sentii il dolore e lo stupore, non udendo, ma sembrandomi di udire il colpo che mi aveva ucciso. Un medico mi doveva in seguito spiegare che non avevo subito alcun danno cardiaco, nonostante i sintomi, che non c'era alcuna ragione apparente per i dolori che provavo al petto e per gli oscuramenti di vista. In quel momento mi ero già accorto di come stavano le cose, e volevo soltanto fuggire dal dispensario e andare diretto all'Ala 18 della Biblioteca, stanza 17641, per occuparmi delle conseguenze della mia morte. Invece mi trattennero per parecchie ore, insistendo perché mi riposassi. Stupidi! Se andava tutto bene, perché avrei dovuto riposare? Del resto, non riuscivo a riposare. Come avrei potuto? Ero appena stato assassinato. Ero abbastanza spaventato e molto confuso. Come avrebbe qualcuno potuto fare una cosa del genere? E, ripensandoci, perché avrebbe dovuto? Mentre giacevo là, circondato da un biancore antisettico, sudando e rabbrividendo alternativamente, seppi che dovevo andare, che volevo andare a vedere che cosa mi era stato fatto, per chiudere rapidamente la faccenda.
Ma provavo anche una tremenda repulsione e paura fisica della vista, dell'evidenza del fatto. Ciò mi tenne occupato per molto tempo, e non feci alcuno sforzo per andarmene. Ero abbastanza ragionevole da rendermi conto che sarei stato inutile finché questi sentimenti iniziali non si fossero attenuati. Quindi me li tenni dentro, e mi sforzai di pensarci. Assassinio. Era praticamente sconosciuto in questi tempi. Non riuscivo a ricordare quando era stato commesso un assassinio l'ultima volta, da qualsiasi parte, e mi trovavo in una posizione migliore della maggior parte degli altri per conoscere faccende del genere. Un condizionamento recente e un'abbondanza di surrogato per la violenza e l'aggressività ebbero gran peso nella cosa, come pure la considerevole abilità medica quando arrivò al punto di rimettere in sesto la vittima di un'esplosione patologica. Ma un'uccisione fredda e premeditata come la mia era stata... No, era stato un tempo spaventosamente lungo. Qualche fantasma più cinico di un me stesso precedente mi bisbigliava all'orecchio che poteva darsi che quelli realmente freddi e premeditati fossero così bent fatti da non sembrare nemmeno assassinii. Lo ricacciai rapidamente nell'oblio che gli era stato assegnato molto tempo prima. O almeno così pensavo. Col tipo di educazione fornita a tutti nella Casa, era quasi impossibile. Era poi una disgrazia particolare che dovessi essere io. Dovevo fare ora ciò che avevo appena respinto come inconcepibile per gli altri. Cioè, trovare un modo per nascondere il fatto che era accaduto. Ma dopo tutto, io ero un caso speciale. Non contavo realmente... La risatina mi diede sui nervi, poiché proveniva dalla mia stessa gola. «Ben detto, vecchia talpa!» conclusi dentro di me. «Suppongo che ciò comporti una certa ironia.» Non hai per niente senso dell'umorismo, Lange! «Apprezzo l'assurdità della mia posizione. Ma non considero l'assassinio un evento umoristico.» Non quando noi siamo le vittime, eh? «Adoperi il pronome sbagliato.» No, ma arrangiati. Hai le mani sporche di sangue come chiunque. «Non sono un killer! Non ho mai assassinato nessuno!» Soffocai il principio di un'altra risatina. Che ne dici del suicidio? Che ne dici di me? «Un uomo ha il diritto di fare ciò che vuole di se stesso! Tu? Tu non sei niente! Tu non esisti nemmeno!»
Allora perché sei così turbato? Psicotico, forse? No, Lange. Io sono reale. Tu mi hai ucciso. Tu mi hai assassinato. Ma io sono reale. E verrà il tempo in cui risorgerò. Per mezzo delle tue stesse mani. «Mai!» Succederà perché avrai bisogno di me. Presto! Soffocando dalla rabbia, ricacciai il mio predecessore nel suo degno dimenticatoio. Per parecchi momenti maledissi il fatto di essere quello che ero, accorgendomi contemporaneamente che questa era anche un'esplosione patologica provocata dal trauma della morte. In poco tempo passò. Sapevo che, finché la gente restava gente, era necessario che io resistessi, sotto qualunque forma fosse richiesta dal momento. Avremmo dovuto aspettare per muovermi. Sapevo anche quello. Aspettare e nasconderci. Più tempo impiegavo ad agire, più le cose sarebbero potute diventare difficili nel corso normale della sorveglianza umana. Tutti noi lo sapevamo, ma apprezzavamo la portata delle mie sensazioni e capivamo che ci sarebbe stato un ritardo prima che io potessi di nuovo adempiere alle mie funzioni coerentemente. Digrignai i denti e strinsi le mani. Questa autoindulgenza poteva costar cara. Avrebbe dovuto essere semplicemente rimandata. Costrinsi me stesso ad alzarmi e ad attraversare la stanza, a osservare i miei cinquant'anni con i capelli grigi e gli occhi scuri riflessi nello specchio appeso sopra il lavabo. Feci scorrere le mani tra i capelli. Sorrisi col mio sorriso sbilenco, ma non appariva troppo convincente. Sei un bell'imbroglio, dissi a me stesso, e annuimmo di consenso. Feci scorrere l'acqua fredda, bagnandomi abbondantemente la faccia rugosa, mi lavai le mani, mi sentii lievemente meglio. Poi, cercando con tutta la forza di non pensare ad altro se non al mio compito immediato, presi gli abiti dall'armadio a muro e mi vestii. Una volta che avevo cominciato a muovermi, era cresciuta in me una necessità impellente di continuare. Dovevo uscire. Suonai per chiamare e cominciai a camminare avanti e indietro. Mi fermai parecchie volte davanti alla finestra e guardai il piccolo parco cintato, quasi del tutto vuoto tranne che per alcuni pazienti e visitatori. In alto, le luci erano già entrate nel ciclo d'oscuramento. Riuscii a vedere tre ascensori a colonna colorati a strisce e i grandi balconi di una zona a porticati lontana sulla mia sinistra, il luccichio delle recinzioni nell'ombra dietro. Il traffico sulle rotostrade e sugli incroci era scarso, e non si vedeva alcun particolare velivolo.
Un'infermiera premurosa andò a chiamare il giovane dottore che aveva detto prima che io andavo bene. Dal momento che ora eravamo apparentemente d'accordo su questo punto, mi disse che potevo tornare a casa. Lo ringraziai e me ne andai, scoprendo che effettivamente mi sentivo meglio mentre scendevo il pendio e mi dirigevo verso la rotostrada più vicina. In principio, non mi importava realmente dove andavo. Volevo semplicemente andarmene dal dispensario, con tutti i suoi odori e residui di quella condizione spiacevole attraverso cui ero appena passato. Camminavo accanto a enormi depositi di rifornimenti medici, e ad ambulanze volanti che mi passavano occasionalmente sopra la testa. Pareti, elementi divisori, scaffali, sostegni, piattaforme, rampe: tutto intorno a me era bianco e puzzava di acido fenico. Mi diressi verso la rotostrada più veloce. Inservienti, infermieri, dottori, pazienti e parenti dei defunti o dei malati mi passavano accanto sempre più veloci e liberi. Odiavo quel posto con i suoi depositi di medicinali, suddivisioni cliniche e residenze sorvegliate per quelli in via di guarigione e per quelli diretti nell'altro senso. La rotostrada correva attraverso l'angolo di un parco dove quegli sfortunati aspettavano, su panchine e su carrozzelle a propulsione elettrica, il giorno in cui la porta nera si sarebbe schiusa per loro. In alto, gru automatiche simili a uccelli trasportavano gruppi di persone e macchinari, per soddisfare l'equazione continuamente mutevole gente/cose/energia/spazio, muovendosi col minimo rumore per i grandi passaggi tracciati nel cielo. Cambiai rotostrada pressappoco una dozzina di volte, non riuscendo a respirare facilmente finché non mi trovai nella Cucina affollata e illuminata a giorno, con i suoi odori e movimento e suoni e colori che mi ricordavano che io facevo parte di questo mondo e non ero quell'altro. Mangiai in un piccolo self-service ben illuminato. Avevo molta fame, ma dopo circa il primo minuto il cibo diventò senza sapore, e lo masticavo e lo inghiottivo meccanicamente. Continuavo a osservare l'altra gente che mangiava. Inatteso, mi venne in mente questo pensiero: Poteva essere uno di loro? Che aspetto ha un assassino? Chiunque. Poteva essere chiunque... chiunque avesse un motivo o una capacità di violenza, cose che non compaiono sul volto di una persona. La mia incapacità di pensare a qualcuno che possedesse queste qualità non alterava il fatto che esse fossero state messe in pratica alcune ore prima. Mi passò l'appetito. Chiunque. Non era certo il momento per fare il paranoico, ma sentii l'improvviso
bisogno di muovermi, di andarmene. Tutto intorno a me aveva assunto un aspetto sinistro. I gesti e le occhiate occasionali degli altri avventori diventavano minacciosi. Sentii tendersi i miei muscoli quando mi passò accanto un ciccione con un vassoio. Sapevo che, se avesse urtato la mia sedia o se mi avesse sfiorato, sarei saltato in piedi urlando. Appena il corridoio fu libero mi alzai. Tutto ciò che potevo fare era trattenermi dal correre quando tornai alla rotostrada. Poi passeggiai semplicemente per un certo tempo, senza pensare a niente, non volendo stare in mezzo alla folla, ma non volendo nemmeno rimanere solo. Imprecai sommessamente. Naturalmente c'era un luogo dove ci sarebbe stata gente, dove avrei potuto non aver paura. Mi sentivo abbastanza certo di questo. C'era un facile mezzo per scoprirlo, ma il mio umore sarebbe potuto essere evidente, e io volevo tenerlo per me stesso finché non fosse passato. La cosa più semplice da fare era di andarci: sulla scena del delitto. Decisi che prima volevo bere qualcosa. Ma non me la sentivo di ordinare una bibita in questa Ala. Perché? Ancora l'irrazionale. Ero stato sconfitto proprio nel mio appartamento. Seguii i veicoli che passavano in alto, dirigendomi verso la più vicina stazione della sotterranea. Finalmente, vidi in distanza l'alto muro con i numeri e le lettere luminose che cambiavano. Sbarcai alla stazione e studiai le partenze. Un piccolo numero di persone si infilava nei cancelli d'entrata e altre gironzolavano o sedevano sulle panchine, tenendo d'occhio il tabellone. Studiando la cosa, appresi che il Cancello 11 mi avrebbe portato alla Sala da Cocktail dell'Ala 19 in sei minuti. Entrai nell'11, era libero, e presentai la tessera per il controllo. Allora ci fu un ronzio seguito da uno scatto, dopo di che la porta posteriore a ingranaggio si aprì. L'attraversai e salii verso la zona di attesa vicino al Cancello. C'erano tre uomini e una ragazza. La ragazza aveva un'uniforme da infermiera. Uno degli uomini (un vecchio su una poltrona elettrica) poteva essere il suo assistito, sebbene lei fosse abbastanza lontana. Mi rivolse un'occhiata breve e penetrante e un debole sorriso, come se gli interessasse iniziare una conversazione. Guardai altrove, sentendomi ancora asociale, e mi spostai più avanti alla sua sinistra. Degli altri due uomini, uno era in piedi vicino al Cancello, con la faccia in parte nascosta dal giornale che stava leggendo, e l'altro passeggiava avanti e indietro, con una borsa da avvocato in mano, e gli occhi fissi sull'orologio.
Quando si accese la luce rossa, accompagnata da un ronzio, aspettai che gli altri passassero prima di muovermi verso il Cancello. Sottoposi la mia tessera a un altro controllo e varcai l'ingresso. Quando entrai nella metropolitana, sentii intorno a me un leggero crepitio e l'odore dell'ozono mi entrò nelle narici. Una galleria di metallo lunga un centinaio di metri si stendeva dinanzi a me, debolmente illuminata dall'alto da sporche piastre luminose. Un insieme disordinato di cartelloni pubblicitari e di scritte copriva i muri, il pavimento era cosparso di immondizie. A metà galleria, un uomo basso e scuro di carnagione leggeva un manifesto, con le mani intrecciate dietro la schiena, e uno stuzzicadenti che viaggiava da un lato all'altro della bocca. Quando mi avvicinai, si voltò e mi fece un largo sorriso. Mi allontanai verso sinistra, ma lui si diresse verso di me, ancora sorridendo. Quando mi arrivò vicino, mi fermai e incrociai le braccia sul petto, con le punte delle dita della mano destra che aprivano la cucitura nascosta della giacca sotto l'ascella sinistra e arrivavano a toccare il calcio sottile della pistola tranquillante che portavo con me. Il suo sorriso assunse un aspetto da cospiratore, ed egli annuì col capo, dicendo: «Fotografie». Prima che potessi rispondere, si era aperto la giacca e ci stava frugando dentro. Mi rilassai, perché vedevo che non stava cercando un'arma, ma aveva invece un fascio di fotografie che gli uscivano da una tasca interna. Le tirò fuori e si avvicinò di un passo, mischiandole lentamente. In qualsiasi altro luogo, in un altro momento, avrei potuto arrestarlo o dirgli di sbatterle via, a seconda del mio umore. Ma lì, nella strada extraterritoriale che attraversava il subspazio, la questione della giurisdizione era sempre complicata. Sarebbe stata ancora più complicata se lui avesse gironzolato per parecchi passaggi, come sospettavo. Inoltre, non ero in servizio ed ero completamente privo di istinti professionali, in quel momento. Mi spostai a destra, per girargli intorno. Mi afferrò per un braccio e mi mise davanti le sue fotografie. «Che cosa ne dice?» domandò. Diedi un'occhiata. Il mio umore doveva essere anche più patologico di quanto credessi, perché continuai a guardare mentre sfogliava lentamente le sue foto lucide. Per ragioni che non cercai di analizzare, mi trovai affascinato da quell'esibizione, sebbene le avessi già viste tutte in qualche versione innumerevoli volte in passato.
C'erano tre inquadrature di ampie distese della Terra, una per ogni altro pianeta, forse una dozzina di pianeti in altri sistemi solari e una ventina di gruppi di stelle. Ne fui stranamente commosso, e leggermente irritato con me stesso per quelle sensazioni. «Belle, eh?» disse. Annuii. «Cinquanta», disse. «Le lascio l'intero blocco per cinquanta dollari.» «Sei matto?» dissi. «È troppo.» «Sono ottime fotografie.» «Sì», dissi, «ma per me non valgono tanto. Inoltre, non ho cinquanta dollari». «Gliene lascio sei per venticinque.» «No.» Avrei potuto dire semplicemente che non portavo mai con me contanti e finirla lì. In teoria, non c'era alcun bisogno di contanti, perché la mia tessera di identità bastava per addebitare qualsiasi cosa sul mio conto personale, il cui ammontare era verificabile all'istante. Ma tutti, naturalmente, portano con sé dei contanti, per compere che non si vogliono far registrare. Avrei anche potuto dirgli di andare al diavolo e continuare a camminare. Va bene, menavo il can per l'aia per qualche motivo. Il motivo poteva essere che le foto mi attraevano. Per occuparmi del trauma post mortem il più rapidamente possibile, decisi di assecondare la mia nevrosi e di comprarne un paio. Scelsi un'istantanea viva e nitida della Terra e una della distesa nera e luminosa della Via Lattea. Gli diedi due dollari per ciascuna, le riposi vicino alla pistola e lo lasciai col suo stuzzicadenti e il suo sorriso. Alcuni momenti dopo mi fermai nella Sala Cocktail nell'Ala 19. Discesi la rampa e uscii dalla stazione. Salii sulla rotostrada. Qui era sempre buio, e proprio per questa ragione lo trovai comodo. Il soffitto era invisibile nell'oscurità, e le piccole zone di luce erano come fuochi d'accampamento in una vasta pianura. Rimasi sulla striscia lenta trovandomici bene. I quattro che mi avevano preceduto attraverso il Cancello non si vedevano da nessuna parte. Mi spostai parecchie volte, dirigendomi verso una delle zone più buie, verso sinistra. Passai tra le nicchie e i portali decorati in ogni sorta di stili, alcuni di essi occupati, molti no. Qua e là, capitavo in una festa e ogni tanto potevo udire la melodia della musica e il suono delle risate. Di tanto in tanto, vedevo una coppia, con le punte delle dita che si toccavano, le teste vicine sopra a un tavolino su cui tremolava una
debole luce. Una volta sorpresi una figura solitaria che si appoggiava pesantemente sul tavolo e che beveva nel buio. Dovetti procedere per parecchi chilometri prima che mi avvolgesse una sensazione soddisfacente di solitudine, e mi fermai per cercarmi il posto. Mi incamminai in mezzo a tavoli oscurati, svoltai un angolo, attraversai un ponticello e passai attraverso un gruppo di palme finte, muovendomi rapidamente per evitare le decorazioni polinesiane. Ancora parecchi giri, e arrivai in un posticino sorprendente. Sistemandomi su una sedia col sedile intrecciato di fianco a un tavolino, mi sporsi in avanti per accendere l'imitazione della lampada a olio. Alla sua delicata luce gialla scorsi alcune poltrone con pizzi coprischienale, un piano verticale, un paio di ritratti privi di espressione, uno scaffale di libri rilegati costosamente. Ero finito in un salotto vittoriano, e ciò produsse su di me l'effetto tranquillante di cui avevo bisogno, decisamente solido e sicuro. Cercai l'unità per le ordinazioni, la individuai sotto il tavolo. Inserendovi la tessera, ordinai un gin tonic. Ripensandoci, chiesi anche un sigaro. Un attimo dopo arrivarono, sollevai lo sportello e li misi sul tavolo. Bevvi il primo sorso fresco e accesi il sigaro. Trovai buoni entrambi. Per un breve momento smisi di pensare e rimasi semplicemente seduto, circondato da sensazioni piacevoli. Alla fine qualcosa mi si mosse dal fondo della mente, comunque, e la mano scivolò nella giacca e ne estrasse le due foto. Le misi una di fianco all'altra sul tavolo e le osservai. Di nuovo, l'incanto e qualcosa che assomigliava stranamente alla nostalgia per queste cose non viste... Riflettendo sulla Terra e su quel grande fiume di stelle, cercai di analizzare queste sensazioni. Non riuscendovi, mi colse un senso di inquietudine crescente che divenne una quasi-certezza della loro origine. Vecchio Lange, mio vecchio fratello maggiore... Aveva qualcosa a che fare con lui, la parte sacrificata... Ma c'era solo un modo per arrivare alla certezza: una procedura d'emergenza che non riuscivo a ricordare di avere mai usato. Anche se mi era accaduta una cosa terribile e spaventosa, non ritenevo che un'analisi delle mie reazioni post-traumatiche di fronte a delle fotografie potesse giustificare il suo impiego. I morti erano morti, e dovevano restare tali per ottime ragioni. Mentre la situazione presente era abbastanza seria, non riuscivo a concepire una qualsiasi circostanza che avrebbe giustificato il tirare la leva sette... Dio mio! Come qualcuno che non riuscivo a ricordare, mi assalì un ri-
cordo improvviso. I miei pensieri folli e moribondi, soffocati fino a quel momento dalla pena, dalla paura... Tira la leva sette... Perché, non ne avevo ancora idea. Non ci fu nessuna risata sarcastica, nessuna delirante reazione schizofrenica. E allora avrei gradito perfino quella, perché mi sentivo completamente solo con una paura così scoperta che potevo quasi vederne le ossa. Avevo paura di ciò che implicava, di ciò che significava. Ancor più che la morte, temevo la leva sette. Perché dovevo essere il più vecchio, essere il punto di connessione? Perché la responsabilità doveva essere mia? Trangugiai la mia bibita, non permettendo a me stesso di dire: «Non è giusto». C'era un modo veloce e facile di alleviare la mia solitudine, ma non sarebbe stato giusto per gli altri. No. Dovevo sudare e recitare da solo questa parte. Era l'unico modo. Maledissi la debolezza e la paura, ma sapevo che non esisteva rimedio per me da questa parte della porta nera. Porco Giuda! Ordinai un'altra bibita, e questa volta la sorseggiai lentamente, e tirai delle boccate dal sigaro. Guardai le fotografie, cercando di penetrare il loro mistero semplicemente mediante il potere della vista. Niente. Attraenti e verboten, nessuno vivo ricordava ciò che era rimasto della Terra, e chi diavolo aveva mai visto una stella? Nonostante la mia età, mi sentivo ancora in parte colpevole e cosciente di essere seduto lì a guardare una fotografia del luogo da cui venivamo con la sua galassia scura. Comunque, le mie intenzioni non erano lascive. Mi sembrò di sentire un rumore, ma con tutti quei tramezzi e quella mobilia era impossibile determinarne la provenienza. Non che importasse realmente, suppongo. Poteva esserci qualcuno seduto a pochi passi da me, e nessuno dei due consapevole dell'esistenza dell'altro. Sebbene preferissi la realtà, l'illusione della solitudine sarebbe stata sufficiente, credevo. Non ero ancora pronto ad alzarmi e a muovermi. Ascoltai il tic-tac dell'orologio nella sua scatola di vetro. Mi piaceva questo piccolo posto. Avrei dovuto segnarne le coordinate per potervi tornare. Io... Percepii il rumore, inequivocabile questa volta, più forte. Qualcuno aveva urtato contro un mobile. Ma ora vi era anche un rumore di fondo, un accompagnamento attenuato e ronzante, meccanico. Era meglio. Significava che probabilmente si trattava di un robot pulitore, nel qual caso avrebbe evitato un'area in funzione. Bevvi un altro sorso, sorridendo debolmente mentre allontanavo la mano
dalle fotografie. Le avevo coperte automaticamente quando avevo pensato che qualcuno potesse arrivare in questa direzione. Dopo parecchi minuti, lo udii di nuovo, molto chiaro, molto vicino. Poi lui arrivò in vista, girando l'angolo all'estremità della stanza: era l'uomo anziano nella carrozzella a propulsione elettrica che mi aveva preceduto attraverso il Cancello 11. Chinò il capo e sorrise. «Salve», disse, venendo avanti. «Il mio nome è Black. L'ho vista alla stazione della metropolitana... Dispensario, Ala 3.» Annuii. «Anch'io l'ho vista.» Ridacchiò mentre si avvicinava al tavolo. «Quando l'ho vista scendere qui ho immaginato che si sarebbe fermato a bere qualcosa.» Guardò il mio bicchiere. «Non l'ho vista sulla striscia.» «Ero abbastanza lontano dietro di lei. Comunque, mi trovo in una situazione leggermente imbarazzante, e ho pensato che lei potrebbe aiutarmi.» «Di che cosa si tratta?» «Vorrei comperare una bibita.» Gesticolai verso il tavolo. «Faccia pure. L'unità è sotto.» Scosse la testa. «Non capisce. Non posso. Direttamente, cioè.» «Che cosa intende dire?» «Ordini del dottore. Il mio conto è bloccato. Se introduco la tessera in quella macchina e chiedo da bere, la Centrale darà ordine di non vendermi niente quando passerà per il controllo automatico del credito.» «Capisco.» «Ma non sono uno squattrinato. Voglio dire, ho del denaro contante. Solo, quella roba non funziona a contanti. Ora, ciò che avevo pensato è questo: se riuscissi a trovare qualcuno che mi pagasse da bere con la sua tessera, lo potrei rimborsare in contanti (diavolo! pagherei da bere anche a lui!) e non ci sarebbe alcuna effettiva registrazione della mia azione.» «Non so», dissi. «Se il suo dottore non vuole che lei beva, non vorrei essere responsabile di qualcosa che potrebbe non farle bene.» Annuì. «Oh, il dottore ha ragione», disse. «Non sono certo il ritratto della salute. Mi guardi e potrà constatarlo. Non è divertente trovarsi nelle mie condizioni. Mi tengono vivo, ma difficilmente lo chiamerei vivere. Un piccolo malessere fisico domani non è un prezzo troppo alto per un buon bourbon con ghiaccio. Non mi ucciderà.» Scrollò le spalle. «E anche se lo facesse, non importerebbe a nessuno. Che cosa ne dice?» Annuii. «Non è illegale», convenni, «e lei è il solo vero giudice di ciò
che è importante per lei». Inserii la tessera nella scanalatura. «Faccia uno doppio», disse. Così feci e, quando glielo passai, ne bevve una sorsata lunga e lenta e sospirò. Poi posò il bicchiere, cercò tastando nella giacca e ne estrasse un pacchetto di sigarette. «Pensano che io non abbia nemmeno queste», disse, accendendone una. Restammo seduti in silenzio forse per un minuto, cercando di analizzare i nostri sentimenti personali, suppongo. Stranamente, non mi risentii affatto per quell'intrusione nella solitudine che mi ero cercato a costo di tanta strada. Mi sentivo spiacente per l'anziano signore, senza dubbio solo al mondo, in attesa della morte, che cercava pretesti per uscire dalla sua inattività forzata, e per mendicare una bevuta occasionale, uno dei pochi piaceri rimastigli. Ma ciò andava oltre la simpatia. Sul suo volto profondamente segnato vi erano animazione, sfida, forza. I suoi occhi scuri erano luminosi, le sue mani macchiate erano ferme. In lui c'era qualcosa di rassicurante, quasi di familiare. Ero sicuro di non aver mai incontrato prima quell'uomo, ma il nostro incontro qui, in questo modo, mi dava una strana e irrazionale sensazione che fosse stato in qualche modo predisposto. «Che cosa ha lì?» domandò, e vidi la direzione del suo sguardo. «Fotografie oscene?» Il mio viso si infiammò. «Be'... pressappoco», dissi, ed egli sogghignò. Sì sporse verso di esse, e incontrò i miei occhi. «Posso?» chiese. Annuii. Le raccolse, si appoggiò indietro. Le sue sopracciglia irsute si aggrottarono e drizzò la testa da un lato. Le fissò per un bel po', con le labbra contratte. Poi sorrise e le rimise sul tavolo. «Molto belle», disse. «Fotografie molto belle.» Poi la sua voce cambiò. «Vedi la Terra e poi muori.» «Non capisco...» «È un vecchio detto. 'Vedi Venezia e poi muori'. 'Vedi Napoli e poi muori'. 'Possa tu morire in Irlanda'. Una volta molti luoghi erano talmente celebri per la loro bellezza che si considerava una visita a essi come l'avvenimento più grande nella vita di qualcuno. Alla mia età, si può essere un po' più cosmopoliti. Grazie per avermi lasciato vedere le fotografie.» La sua voce si fece dura. «Mi hanno riportato alla mente molti ricordi. Alcuni erano anche felici.» Bevve un grande sorso della sua bevanda e io lo guardai affascinato. Sembrò diventare più grande, sedere più eretto.
Non era possibile, comunque. Semplicemente non era possibile. Ma dovevo chiederglielo. «Quanti anni ha lei, signor Black?» Parte della sua bocca ridacchiò mentre mordeva la sigaretta. «Ci sono troppi modi per rispondere alla sua domanda», rispose. «Ma capisco che cosa mi sta realmente chiedendo. Sì, ho visto la Terra... dal vero, e non in fotografia. Ricordo come erano le cose, prima che venisse costruita la Casa.» «No», obiettai. «È fisicamente impossibile.» Scrollò le spalle, poi sospirò. «Forse hai ragione, Lange», disse. Alzò il bicchiere e lo vuotò. «Non ha importanza.» Finii anch'io di bere, posando il bicchiere accanto alle foto. «Come fa a conoscere il mio nome?» gli chiesi. Mettendo una mano in tasca, disse: «Ti devo qualcosa». Ma non era denaro che ne tirò fuori. «Vedi la Terra», disse, e aggiunse: «A rivederci». Sentii la pallottola entrarmi nel cuore. 2 Come...? La musica turbinava intorno a me, rimbombante, vibrante, e le luci cambiavano colore più in fretta. Poi toccò a me attaccare col clarinetto. Me la cavai. Non brillantemente, ma abbastanza. Dopo non molto ci fu l'applauso. Fiacco, riuscii a farmi sentire in mezzo agli archi. Poi il palco dell'orchestra si oscurò e seguii gli altri giù. Quando ci dirigemmo verso l'uscita, la mano di Martin mi si posò su una spalla. Era il capo orchestra, tarchiato e tendente al grasso, quasi calvo, con pesanti borse sotto gli occhi pallidi e lacrimosi. Un ottimo suonatore di trombone e anche un tipo simpatico. «Che cosa ti è successo prima, Engel?» mi chiese. «Dolori di stomaco», dissi. «Deve essere stato qualcosa che ho mangiato. Per un paio di minuti sono stati abbastanza forti.» «Come ti senti adesso?» «Molto meglio, grazie.» «Spero che non ti stia venendo un'ulcera. Non sarebbe una cosa piacevole. C'è qualcosa che ti preoccupa?» «Sì, ma passerà presto.»
«Bene. Non prendertela.» Annuii. «A domani.» «D'accordo.» Mi allontanai rapidamente. Diavolo! Dovevo trovare in fretta un posto dove rilassarmi. Ora, ogni secondo contava. Diavolo! Come avevo potuto essere così soddisfatto di me stesso, così cieco? Così stupido? Diavolo! Sbattei lo strumento nella custodia, mi cambiai di abito in un tempo da primato e ignorai o evitai tutti e tutto ciò che potesse farmi ritardare mentre mi dirigevo verso la rotostrada. Passai nella corsia più veloce e iniziai un viaggio di evasione. Cambiavo striscia quasi a ogni incrocio. Mi spinsi giù di tre livelli e camminai finché non fui completamente sicuro di non essere seguito. Poi ritornai su e mi diressi verso il Soggiorno. Ormai la mia fretta era diventata immensa, e sapevo di essere quasi sull'orlo dell'isterismo. Un piccolo senso di calda collera era l'unica cosa in grado di controllare il mio panico. Qualcosa che non riuscivo a capire si era impadronito di me e mi aveva sopraffatto, due volte. Allora, quasi senza accorgermene, arrivò la collera, e la sentivo crescere. Era strana ed era forte. Non riuscivo a ricordare se mi ero sentito così prima. Probabilmente sì, dal momento che la riconobbi e l'accettai così prontamente. Comunque, sembrò sostenermi un poco. Forse era questo, che al suo inizio mi era servito a evitare il collasso questa volta. Sentii il lento inizio di un desiderio di scovare e punire i miei assassini, per motivi personali piuttosto che nell'interesse della giustizia. Sebbene riconoscessi la natura aberrante di quell'impulso non cercai di trattenerlo con l'autodisciplina, perché dovevo avere qualcosa che mi sostenesse. ... E nell'insieme non era una sensazione spiacevole. Ora un debolissimo sorriso mi sollevò gli angoli della bocca. No, non era una brutta cosa essere in collera. Era un sentimento naturale, umano. Tutti lo sapevano. Sembrava quasi una vergogna sprecarlo con surrogati di aggressività... Scesi nel Soggiorno e attraversai una sezione dopo l'altra. La gente era seduta, stava in piedi, era chinata, parlava, leggeva, sonnecchiava, ascoltava la musica, guardava pellicole, e c'era sempre un angolino tranquillo per chi voleva restare solo. Camminai in fretta sul soffice tappeto, girando un angolo dopo l'altro, passando attraverso una gran varietà di periodi e di stili, sperando di non incontrare nessuno che mi conoscesse. Che fortuna!
Una nicchia piccola e deserta, debolmente illuminata... una grossa poltrona verde che sembrava potesse inclinarsi... Abbastanza sicuro. Sì. Abbassai ancora di più la luce e mi appoggiai allo schienale. Vi erano due entrate in quel posto e potevo tenerle d'occhio entrambe, sebbene fossi certo di non essere stato seguito. La prima cosa che feci fu cercare di rilassarmi e decidere chi ero. È soddisfacente che la connessione avvenga così facilmente. Ci si chiede sempre, credo, come ci si sentirà. Poi succede e ancora non lo si sa. Si sa solo che ha funzionato. Sapevo di non essere lo stesso Mark Engel che ero stato prima che l'anziano signore uccidesse Lange. Ero Lange, ma Lange era anche me. Intendo dire, eravamo noi. Ci eravamo fusi, più o meno, con il cambiamento di connessione, quando il suo corpo era stato ucciso. Non fu necessario un accorgimento particolare, perché avevamo sperimentato lo stesso fenomeno su base temporanea innumerevoli volte nel passato. Ora che era per sempre, c'erano un'infinità di cose che dovevo fare per far quadrare la fusione, per così dire. Ma bisognava aspettare. Avremmo agito nel modo giusto, dopo il primo delitto. Lange se l'era presa comoda, tuttavia, e ciò si era dimostrato fatale. Non approvavo il suo aver posposto un'azione importante, senza curarsi delle sue condizioni mentali. Potevo sentire anche allora questa tendenza che lottava con la mia risoluzione. Quella parte si sarebbe sacrificata (presto) quando io avessi inserito la leva otto. Benché la situazione-identità di solito avesse la precedenza, questa volta avrebbe dovuto prendere il secondo posto. Circa tre centimetri dietro gli occhi, ecco dove mi sembrava di vivere. La mia mente, la mia coscienza... mi tesi e mi rilassai, mi tesi e mi rilassai, là a casa mia. Una pulsazione cardiaca mentale, un battito della mente... Poi fu tutto diastole, e i pensieri il sangue della mente che scorreva incontrollato... Poi fummo là insieme: Davis, Gene, Serafis, Jenkins, Karab, Winkel e gli altri. Improvvisamente, io fui tutti noi e tutti noi fummo me. C'era un po' di esitazione quando ognuno entrava al suo posto, riconoscendo la nuova posizione nella connessione. Una sensazione bella, confortevole, familiare. Vedevo attraverso molti occhi, udivo molti suoni, sentivo il peso di tutta la nostra carne. Era come se fossimo un corpo unico, con le varie membra in tutte le Ali. Tutte tranne due, cioè. E in un senso molto particolare noi non eravamo che un corpo unico.
In un momento senza tempo, eravamo tutti consapevoli del contenuto cosciente dei nostri crani individuali. Fu una breve eternità di percezione, uno stato plasmatico di essere dove il nostro temporaneo abbandono di individualità ci faceva crescere, immediatamente, mediante la somma delle nuove esperienze individuali che si erano formate fin dalla nostra recente fusione, forse un mese prima. C'era paura, e la mia sorpresa per il fatto che ci fosse così poca collera rispetto a quella che io avevo portato fino alla fusione. Alla mia collera faceva da contrappeso un atteggiamento di leggero rimprovero, moderato dalla consapevolezza che avevo appena effettuato la connessione e non avevo avuto il tempo di provvedere agli accomodamenti necessari. Altrimenti, la collera avrebbe potuto essere eliminata, soffocata. Così come stavano le cose, vedevo che anch'essi temevano qualunque reazione potesse intaccarmi prima che la mia nuova personalità si fosse consolidata. Bene. Provavo le stesse sensazioni riguardo a ciò. La prima morte era stata quella di Hinkley, nella Biblioteca, Ala 18. Sapevamo che era avvenuta nel cubicolo 17641, la sua abitazione privata, quando tutti istantaneamente ci eravamo accorti delle sue impressioni finali. Era ancora con noi, ma incapace di fornire indizi riguardo ai motivi o all'identità del suo assassino. Tutti avevamo reagito differentemente di fronte alla morte, a seconda del temperamento personale, ma nessuno di noi sapeva niente del motivo di quel delitto e nessuno aveva ancora fatto nulla in proposito. Quanto al corpo di Lange-e-mio, esso giaceva ancora nel salotto vittoriano della Sala da Cocktail dell'Ala 19, a meno che l'anziano signore non ne avesse fatto qualcosa. ... E nessuno conosceva il signor Black. Nessuno sapeva da dove venisse. Assegnai a me stesso il compito di cercarlo, perché molto presto avrei potuto disporre del materiale necessario. Davis era nella Biblioteca, Ala 18, che teneva d'occhio il cubicolo 17641. Aveva già notato che l'alloggio era chiaramente vuoto e il telefono rispondeva automaticamente. Fu deciso che non dovesse ancora entrare, ma continuare la sorveglianza finché non fosse arrivato Serafis. Serafis era medico ed era in grado di correggere le carte necessarie per dimostrare la morte per cause naturali. Poi il corpo sarebbe stato portato alla casa funeraria di Winkel e rapidamente ci si sarebbe occupati di esso. Lange costituiva un problema, invece. Non era solo per il fatto che un altro certificato di morte per cause naturali redatto da Serafis subito dopo quello di Hinkley sarebbe apparso strano, provenendo da un'Ala diversa,
ma anche perché Lange aveva appena fatto un checkup completo ed era stato trovato in buone condizioni. Si decise che Winkel si sarebbe occupato del corpo e avrebbe cancellato le prove mentre lo aveva a disposizione. Era in una posizione tale da far sembrare legale il prelevamento se nessun altro compariva sulla scena. Il corpo sarebbe poi stato trasportato all'Ala Zero, e fatto sparire dall'esistenza. Là sarebbe stato congelato, finché non avessimo deciso un uso adatto. Nel frattempo, avremmo fatto dare a Lange le dimissioni dal suo impiego e avremmo usato la sua tessera per il trasporto, per i pasti e per le piccole spese occasionali, così che, ufficialmente, avrebbe continuato a esistere. Tutte le prove disponibili sarebbero naturalmente state raccolte per le nostre indagini private sui delitti. La paura che sentivamo era molto forte. Doveva essere più che una coincidenza il fatto che due di noi fossero morti come era successo, e non riuscivamo ad arrivare a nessuna supposizione che non fosse assolutamente agghiacciante riguardo ai motivi. L'esercizio era del tutto inutile, così fummo d'accordo nel rompere subito il legame e procedere immediatamente a quel che occorreva fare. Io dovevo recarmi all'Ala Zero, per procedere agli accorgimenti necessari per un accomodamento permanente tra Lange e me stesso. Scacciai le ombre dei loro pensieri e mi alzai velocemente. Ravvivai la luce, feci alcuni passi di prova, rivalutando me stesso ora che ero una volta di più proprio io. Be', quasi io. Secondo me, qualcuno era deciso a distruggere l'intera famiglia. Il motivo era senza importanza. Era sufficiente il fatto che gli unici due delitti degli ultimi tempi fossero di membri della famiglia. Non c'erano in giro molti di noi. Per me, significava che quello che avevamo pensato il segreto meglio mantenuto nella Casa era stato in qualche modo scoperto, almeno in parte. Il signor Black stava senza dubbio aspettando, progettando di colpire ancora. Avrei cominciato a cercarlo dall'Ala Zero appena mi fossi occupato degli altri miei affari là. E quando l'avessi trovato? Misi da parte la domanda, non volendo ancora prendere in considerazione la risposta che la collera mi suggeriva. Dopo, dopo... E ancora la paura... Non soltanto l'angoscia al pensiero che la morte potesse aspettarmi dovunque, ora, ma la paura di Lange-me stesso del parziale suicidio che ora eravamo costretti a commettere. Non si crede di considerarlo a quel modo, più di quanto si consideri come una piccola morte l'estrazione di un dente dolorante. Ma ecco, ora dovevamo farlo.
Quando lasciai la nicchia, pensando secondo questi schemi, mi passò per la mente che se fossimo riusciti a farlo noi stessi... Non ripercorsi la strada attraverso il Soggiorno, ma presi una via sinuosa nell'altra direzione, arrivando alla fine a una striscia lenta e stretta sulla quale viaggiai per un po'. Alla mia sinistra vi era un divisorio grosso e alto, coperto da un disegno astratto, a toni scuri e apparentemente senza fine. Alla mia destra vi erano sezioni del Soggiorno, grandi, debolmente illuminate nell'interno della quale c'era gente in riposo, distribuita a casaccio. Quando cambiai striscia, muovendomi ad angolo retto rispetto a quella su cui avevo viaggiato, guardai indietro. C'era una figura, parecchie centinaia di metri più indietro, che non era lì quando ero salito sul nastro. Aspettai forse due minuti e guardai di nuovo. Anche lui aveva cambiato, era ancora là. Infatti, ora era più vicino, e stava camminando sulla striscia. Aspettai parecchi momenti e cominciai anch'io a camminare. Molto probabilmente era del tutto innocuo, ma in quel momento non consideravo ingiustificata nessuna precauzione. Cambiai di nuovo all'incrocio seguente, ma evitai di guardare alle mie spalle. Vedevo che ci dirigevamo verso una zona piuttosto affollata. Quando passammo attraverso quella parte del Soggiorno, scesi vicino a un gruppo di divani, feci alcuni passi e diedi un'occhiata indietro di nuovo. Sì, ora era su questa striscia, e mi stava guardando. Mi voltai, incrociai le braccia sul petto e mi misi a osservarlo. C'erano dozzine di persone intorno a me, che parlavano tra di loro, leggevano, sgranocchiavano biscotti, giocavano a carte. La loro presenza mi rendeva abbastanza tranquillo. Anche lui doveva averlo pensato, se intendeva farmi del male, perché immediatamente distolse lo sguardo e proseguì. Provai una piccola soddisfazione nel guardarlo mentre passava, un omaggio al mio stare all'erta e alla mia ingegnosità. Questa sensazione svanì appena cominciai a disincrociare le braccia, quando mi accorsi che inconsciamente avevo disgiunto la cucitura della giacca sotto l'ascella sinistra e stavo toccando con le dita la pistola tranquillante non metallica che tutti ci portavamo appresso. Quindi arrivò la paura, a piena forza, mentre mi resi conto che, in realtà, non mi aveva mai abbandonato. Avvilito emotivamente, e alimentando la mia collera nella speranza di infondermi un po' di coraggio, andai avanti e risalii sul nastro. Potevo ancora vedere quell'uomo, più avanti. Lo avevo osservato abbastanza bene, per quello che c'era da vedere. Aveva capelli castani che gli arrivavano alle spalle e la barba leggermente più scura. Aveva occhiali a
specchio blu, una giacca sportiva e pantaloni bianchi fino al ginocchio. Un bagliore blu, quando guardò indietro... Cominciai a camminare verso di lui, col cuore che mi batteva forte. Era improvvisamente diventato importante per me, perfino più importante della paura, osservare le sue reazioni. Si girò da un'altra parte, rimase immobile per forse mezzo minuto, poi tornò a guardare indietro. Io avevo continuato a camminare, accorciando sempre più la distanza fra noi. Quando guardò indietro la seconda volta, alzai la mano destra e la feci scivolare all'interno della giacca recitando la parte di un uomo che cerca un'arma mortale. Allora si mosse velocemente, scendendo dalla striscia e sfrecciando dietro un divisorio che arrivava fino a lì. Solo allora mi accorsi che zoppicava. Non me n'ero accorto quando aveva camminato dritto verso di me, ma ora vedevo che trascinava la gamba sinistra. Scesi immediatamente dalla striscia. Non avrei voluto passare dietro di lui nell'eventualità fosse anch'egli armato. Mi affrettai sulla destra, dirigendomi verso un altro divisorio. Per quanto mi riguardava in quel momento, il fatto che fosse fuggito era sufficiente a stabilire che nutriva cattive intenzioni nei miei riguardi. Scivolando lungo il divisorio, mi riportai indietro e in dentro, passando attraverso una nicchia vuota e muovendomi dietro un altro divisorio che formava la parete di un corridoio che partiva dalla mia sinistra (la sua direzione) e terminava in una stanza a tre pareti contenente quattro divani, varie sedie e tavoli e un caminetto scoppiettante. La attraversai velocemente e arrischiai una rapida occhiata oltre l'angolo vicino. Non c'era nessuno in vista. Riuscivo a vedere in parecchi locali deserti prima che la mia vista fosse interrotta da più divisori una cinquantina di metri più avanti. C'erano comunque cinque o sei nicchie e sale in cui non riuscivo a vedere nulla. Avanzai cautamente, estraendo la rivoltella e impugnandola, ora. Nello spazio di quattro o cinque minuti, avevo fatto passare tutto, senza scoprire nessuno. Ancora un paio di minuti ed ero nella zona dove l'uomo era fuggito, e lo cercavo prudentemente. Non sembrava essere in giro. Aveva avuto il tempo per filarsela in una direzione qualsiasi. Mi sentivo abbastanza a disagio là, riflettendoci. Avrebbe potuto girare in cerchio e scivolare dietro di me, per tendermi un'imboscata. Mi venne in mente che poteva esserci implicata più di una sola persona, che forse si pensava che io seguissi questo tizio mentre un al-
tro... Conclusi che la cosa più sicura da fare era allontanarmi di là il più in fretta possibile, disorientare qualsiasi inseguimento e andarmene nell'Ala Zero. Mi diressi indietro verso il nastro, aspettai finché non ebbe caricato un gruppo di passeggeri di fianco a me e salii, portandomi immediatamente in una posizione nel centro del gruppo. Ricevetti delle occhiate cattive e degli sguardi dubbiosi dai passeggeri che spingevo da parte e ai quali davo gomitate, ma fu tutto ciò che ottenni mentre attraversavamo la zona. Ero un bersaglio quasi impossibile, nel punto in cui mi trovavo. «... Lei è molto maleducato», stava dicendo una donna robusta, con i capelli rossi e con gli occhi truccati di blu. Annuii in cenno d'assenso e continuai a osservare l'arredamento e la gente tra cui passavamo. L'uomo non si vedeva da nessuna parte. Circa mezzo chilometro più oltre, giungemmo a un incrocio e io scesi, dirigendomi a sinistra. La gente che avevo usato come riparo continuava il viaggio, indirizzandomi alcuni commenti. Erano tutti insieme, apparentemente, una comitiva che veniva o andava da qualche parte. Il traffico era più intenso sulla nuova striscia, e presto giunsi a una rotostrada a due sensi, a più corsie. Una gran folla, aria viziata e un maggior rimbombo mi circondavano. Salii sull'ultima corsia e viaggiai per parecchi minuti. Poi cominciai di nuovo a cambiare, seguendo i segnali per l'ascensore a colonna più vicino. Era una ferrovia sotterranea, trasparente, che echeggiava, e che entrava sempre nella Casa. Un ragazzino salì di corsa, ridendo e guardandosi indietro al di sopra della spalla. Mi sporsi in fuori e gli afferrai un braccio. Cercò di liberarsi, poi si voltò e mi guardò. Un momento dopo, una donna piuttosto brutta (presumibilmente sua madre) salì ansando, rossa in volto. Lo schiaffeggiò e gli afferrò l'altro braccio. «Te l'ho detto!» lo rimproverò. «Te l'ho detto di non farlo mai!» Poi guardò me. «Grazie per averlo fermato», disse. «Non so perché gli piaccia salire quando gli altri scendono e scendere quando gli altri salgono.» Sorrisi. «Non lo so nemmeno io», osservai, mollando la presa abbastanza a malincuore. Scesero al piano seguente, la Cucina. Mentre lei diceva: «Aspetta che ti porti a casa!» il ragazzo si girò verso di me e tirò fuori la lingua. Cercavo di pensare che cosa volesse dire essere un bambino, avere i ge-
nitori. Continuai il viaggio fino al piano seguente, la Sala Divertimenti, scesi lì e trovai una striscia veloce che attraversava la zona giochi. Tutti gli sport a squadre cui riuscivo a pensare sembravano essere in corso da tutte le parti nella sezione campi sportivi. Per un po', la striscia era sopraelevata, e la mia vista spaziava per chilometri in tutte le direzioni. I palloni venivano colpiti, presi a calci, lanciati, afferrati, palleggiati, fatti correre, su terreni e campi da gioco, sopra le reti, contro le pareti, in gabbie. File di spettatori applaudivano e battevano i piedi; tabelloni grandi e alti segnavano i punti; altoparlanti trasmettevano risultati e scariche. Il soffitto era azzurro chiaro, un colore piacevole e abbastanza adatto. In quel momento, non riuscii a vedere nessuna gru in attività in quella pacifica zona a riquadri. Le piscine luccicavano, proiettando fantasmi danzanti sui piloni e sui sostegni. Passavano correnti d'aria che recavano odori di sudore e di linimenti, cercando apparecchi di ventilazione in cui potessero andare a purificarsi. La striscia era piuttosto affollata, quindi mi era impossibile dire se ero seguito. Cominciai a passare a nastri sempre più piccoli, dirigendomi nella direzione generale di una zona oscura. Il traffico diminuì quando giunsi presso lunghe file di tavoli riservati a passatempi più sedentari. Piccoli gruppi e giocatori solitari sedevano a giocare a carte e a giochi da tavolo. Alcuni competevano tra di loro, alcuni con macchine, con la loro fortuna, abilità, conoscenza messa alla prova fino a qualunque grado desiderassero. I dadi cadevano, le ruote giravano, le carte venivano mescolate e distribuite, i gettoni spostati; le pedine avanzavano, indietreggiavano, saltavano, mangiavano, venivano mangiate; si dicevano numeri ad alta voce, si facevano offerte, si barava; la gente bluffava, attaccava, cercava vincite, punti, scacchi matti, giocava a Go, il denaro spesso cambiava di mano sotto il tavolo. Io non sono un grande giocatore d'azzardo. L'azzurro in alto cominciava a scurirsi, le voci diminuivano, quando udii un suono acuto e squillante: un telefono in una cabina alla vicina estremità di un corridoio deserto. Una strana sensazione, quella: sentirlo e vederlo là senza nessuno intorno che rispondesse. C'era un ascensore in fondo alla zona buia, che scintillava di goccioline che segnavano la sua spirale di cristallo. Mi trasferii ancora, su una striscia vuota, a una corsia. Circa ogni cento metri c'era una debole luce, e le macchine di manutenzione battevano e ronzavano nell'oscurità intorno a me. Continuai a guardare indietro al di sopra della spalla per vedere se qualcun altro fosse salito sulla striscia. Nessuno.
Dopo uno o due minuti, quando arrivai a un altro incrocio, decisi di cambiare ancora. Il punto di trasbordo era completamente deserto. Granelli di polvere, disturbati dalle macchine per, le pulizie, turbinavano nella luce giallastra della lampada sul pilone d'angolo. Passando di lì, udii ancora una volta lo squillo. Un altro telefono, in una rientranza alla base del pilone, aveva cominciato a suonare stridulo. Ne potei sentire gli squilli insistenti per un bel tratto di strada lungo la linea. Era in un certo senso triste lo sforzo di raggiungere qualcuno che proprio non c'era, o il tentativo nel luogo sbagliato, qualunque fosse. Attraversai un campo di polo deserto, con i cavalli meccanici che sembravano una fila di statue tristi. Le superfici scure delle pozze d'acqua si increspavano costantemente, come i ricordi. Aperti sotto, con sacchi grigi che sporgevano e oscillavano, degli aspiratori a rulli si muovevano tra armadietti e tavoli da gioco, distruggendo i rifiuti. Un'ambulanza salì da qualche lontano prato o campo da gioco e passò velocemente nell'aria del crepuscolo, con la croce rossa accesa. Passai vicino a una coppia abbracciata in una nicchia. Non li avrei nemmeno notati se i due non si fossero mossi improvvisamente quando si accorsero di me. Girarono la faccia. Così feci io. Poi passai un divisorio su cui non si era ancora completamente cancellato un STELLE dipinto. Controllando dietro di me, vidi che ero ancora sulla striscia. Cambiai ancora, attraversai una serie di condutture esposte, scesi e camminai per due isolati per abbreviare la strada verso un nastro che portava diritto all'ascensore a colonna. La zona era molto silenziosa e praticamente deserta. Alcuni individui avanzarono verso la colonna da varie direzioni, sebbene in quel momento non ne uscisse nessuno. Tre uomini oziavano intorno a una bancarella di dolciumi e di periodici lì vicino, e là ebbi la sensazione di poter rimpiazzare le foto di Lange (o di fare una scommessa, o di fare certi acquisti non autorizzati). Una corrente di aria calda mi colpì quando entrai nella ferrovia sotterranea abbagliante di luci, e discesi. Ora probabilmente era tutto a posto, senza dubbio mi ero messo abbastanza al sicuro andandomene dal Soggiorno. Ciò nondimeno, considerandone la destinazione, ero deciso a trasformare la mia fuga in un lavoro accurato. Per quanto ne potevo sapere, non ci si era mai posti il problema di un inseguimento quando qualcuno di noi, prima, si era ritirato nell'Ala Zero. Uscii al piano seguente in una sezione dell'Ufficio che stava proprio allora interrompendo l'attività quotidiana. La vista di tutta quella gente pron-
ta a chiudere la giornata lavorativa mi ricordò quanto mi ero stancato. Per un attimo, pensai di scendere a un altro piano per evitare la marea di folla. Ma mescolarmi a una moltitudine di persone mi avrebbe aiutato a nascondere ancor di più le mie tracce, quindi decisi di andare avanti. Salii sulla rotostrada principale e alcuni minuti dopo suonò una sirena e ondate di gente vennero verso di me da ogni direzione. Raggiunsi la corsia di mezzo, che presto si riempì fino al limite della sua capienza, e fui spintonato, schiacciato, immobilizzato e sballottato irrimediabilmente di qua e di là. Comunque, mi persi nell'anonimità, e continuai a ripetermi che ne valeva la pena. Voltando la testa, vidi le file di scrivanie apparentemente senza fine che questa gente abbandonava, riponendo le pratiche, i tamponi di carta assorbente, le carte; e tutto sfumava nella luce che già si affievoliva. Presto sarebbero iniziate le pulizie tra le scrivanie. Meditai sul lavoro eseguito là ogni volta, poi bloccai in fretta la mente. Meglio non pensarci. Decisi di seguire la linea di minor resistenza, e la pressione della folla mi portò da striscia a striscia per forse dieci minuti prima di smaltirsi, di diminuire, prima di lasciare che fossi ancora io a scegliere. Poi seguii il mio primo istinto e mi diressi verso l'entroterra. Dopo poco viaggiavo su strisce secondarie e passavo vicino a una zona completamente buia dell'Ufficio. Provai a dirigermi verso un altro ascensore in discesa, sul lato opposto della zona oscurata. Percorrendo la strada a zigzag in quella direzione, mi parve di essere inseguito. Non ne ero sicuro, ma mi sembrava che una delle tante figure alle mie spalle avesse cambiato striscia con me parecchie volte. Ma il mio nervosismo si era calmato sensibilmente, come se ne avessi solo una provvista limitata e ne avessi già consumato la maggior parte. Cambiai di nuovo e attesi. Alla fine, una figura apparve. Per quanto potevo vedere e secondo la mia valutazione della velocità della striscia e della distanza fra noi, poteva benissimo essere lo stesso di prima. Chiarito ciò, stabilii un piano di azione: avrei fatto un ultimo tentativo per seminarlo. Se fosse fallito, gli avrei teso un agguato. Mi diressi verso l'oscurità e lui mi seguì. Poi cambiai finché non giunsi a una striscia breve e cominciai a correre. Raggiunsi l'incrocio seguente e cambiai prima che lui comparisse. Corsi ancora. Questo nastro era più lungo, e, quando arrivai a un altro incrocio, mi sentivo tutti i miei quarantasei anni. Ma quando mi voltai non era dietro di me. Rimasi immobile per un attimo, respirando affannosamente. Non potevo
sentire nessun rumore insolito. Era abbastanza tranquillo e sufficientemente buio per le mie intenzioni. Scesi dal lato sinistro della striscia. Davanti a me vi erano file e file di scrivanie, che svanivano dietro il confine scuro della mia visuale come se si estendessero all'infinito. Mi mossi verso di esse. L'ascensore a colonna era ancora alquanto lontano. Non ci andai direttamente, ma seguii una tangente, passando lungo un corridoio apparentemente senza fine nella zona di lavoro. Corsi da una scrivania dietro a un'altra buia e identica, finché non mi trovai immerso nell'oscurità. Rallentando il passo quando non ce la feci più a correre, mi feci una strana e spaventosa illusione. La monotonia inesorabilmente ricorrente da ogni parte (la piccola sedia girevole, la scrivania grigia, il tampone verde, il telefono, il cestino delle pratiche in entrata e quello delle pratiche in uscita), tutto contribuiva a creare una sensazione di immobilità. Allora provai una sensazione di inevitabilità, accompagnata da quello strano presagio di eternità che a volte sopravviene con uno stimolo monotono dei sensi, e per quell'istante senza tempo sembrò che io avessi sempre corso e avrei sempre corso in quel posto al centro di un universo di scrivanie. Mi fermai e mi appoggiai a una di esse, per provare la sua concretezza e anche per riposarmi un attimo. Guardando indietro verso la pista illuminata della striscia, non vidi nessuno. Se qualcuno mi stava seguendo, sembrava che lo avessi seminato. Non intravedevo alcun movimento tra le centinaia di scrivanie scure tra cui ero passato. Poi, a un pelo dalla mia mano, suonò il telefono. Urlai e cominciai a correre. Tutto quello che era rimasto trattenuto, represso, messo da parte, ignorato, dimenticato, riaffiorò in quell'istante di terrore. Fuggii, ridotto a un vuoto insieme di percezioni e di reazioni; e spingendo anche queste da parte, soffocandole, rifiutandole, lo squillo mi seguiva. ... Mi inseguiva, sembrava marciare al mio fianco (moriva dietro di me e riprendeva da capo su ciascuna scrivania accanto alla quale passavo), le mie gorgoni vestite di nero, incoronate da serpenti elettrici. E anche questo momento sembrava senza tempo ed eterno. Correvo (selvaggiamente, pazzamente) urtando contro cose, inciampando, bestemmiando, non più un uomo, ma un movimento terrorizzato in una foresta di minaccia. Parte di me sembrava potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo, ma ciò non mi giovava minimamente. Tutto questo era troppo per me: le morti, la minaccia, l'inseguimento,
questo assalto dall'ignoto. Avevo paura a guardare indietro. Avrei potuto vedere qualcosa. O, peggio ancora, non vedere nulla. Questo era il mio punto di rottura, ogni squillo era una nuova pugnalata inferta nella stessa ferita. Il respiro mi divenne affannoso e caldo nel petto, aumentando il dolore di volta in volta. Mi sentivo umidi gli occhi e il volto; e penso che lo fossero anche i pantaloni. Attraverso il caleidoscopio bagnato della mia allucinazione, più avanti mi sembrò di vedere una luce, una piccola aureola gialla, e forse quello era un uomo che si chinava al suo interno. Singhiozzando, mi sforzai di raggiungerla, di qualunque cosa potesse trattarsi, probabilmente perché era calda e luminosa, così diversa da tutto il resto. Poi venne l'esplosione che portò via tutto il rumore dalle mie orecchie, il lampo di luce che mi strappò la vista dagli occhi e il colpo bruciante, che mi squarciò il corpo e che mi ridusse a pezzi, poco prima che sullo schermo della mia mente apparissero le parole disperate: Tira la leva sette! Poi ogni cosa finì. 3 Faticosamente, osso per osso, mi rimisi in sesto. Non sapevo con sicurezza né dove mi trovassi, né cosa fosse accaduto, né quanto tempo fosse trascorso. Volevo tornare all'oblio piuttosto che affrontare qualunque disgrazia potesse capitare. Ma la consapevolezza era ostinata. Aumentava invece di sparire. Cominciavo appena a realizzare che ero ancora io e che apparentemente non avevo alcun dolore, quando gli occhi mi si aprirono senza che io lo volessi e cominciarono a mettere a fuoco. «Stai bene?» chiese la voce della figura indistinta a meno di trenta centimetri dalla mia faccia, la cosa più stupida e piacevole insieme che avessi sentito da molto tempo. «Non so», risposi. «Sono appena arrivato. Dammi un minuto di tempo.» Una marea di pensieri mi passò per la mente. Ricordavo tutto ciò che era accaduto, e ne capii la fine. Davis e Serafis erano morti. Serafis era andato all'Ala 18, secondo i piani, e là si era incontrato con Davis. Insieme, nella Biblioteca, erano entrati nel cubicolo 17641, residenza di Hinkley. Avevano fatto scattare qualcosa che aveva provocato un'esplosione, uccidendoli.
Avevo vissuto la loro morte. Mi sorprendeva il fatto di ragionare ancora. Non avrei creduto di poterlo ancora fare dopo essere passato attraverso la morte quattro volte in un solo giorno, oltre a tutto prevenuto. O ero diventato emotivamente insensibile, oppure possedevo una capacità di recupero maggiore di quanto avessi creduto. Comunque ero contento di essere molto meno turbato questa volta di quanto lo ero stato nelle due occasioni precedenti. Disturbato, naturalmente, preoccupato, logicamente. E molto seccato. Giacevo a terra, con la testa e le spalle sostenute da un braccio. Stavo osservando un viso chino sul mio, il viso di una ragazza che in effetti pareva più spaventata di quanto lo fossi io stesso. Non l'avrei definita bella, quantunque avesse la possibilità di esserlo (capelli scuri, occhi chiari, zigomi alti), ma era una visione doppiamente gradita quando considerai la possibile alternativa. I suoi occhiali erano ovali, spessi e senza colore, e non era truccata. Se fosse l'ansietà o fossero gli occhiali a ingrandirle tanto gli occhi, non avrei saputo dirlo. «Come si sente?» mi domandò. Chinai il capo parecchie volte e cercai di mettermi seduto. Mi massaggiai gli occhi, feci scorrere le mani tra i capelli e tirai un paio di respiri profondi. «Adesso va bene, grazie», dissi. «Va tutto bene.» Era in ginocchio di fianco a me nel corridoio. Indossava pantaloni neri e una camicetta grigia. Non allentò la presa sulle mie spalle. «Che cosa è successo?» si informò. «Stavo proprio per chiedertelo», risposi. «Che cosa hai visto?» «Lei arrivava di corsa per il corridoio. Ha gridato ed è caduto.» «Non hai visto nessun altro? Dietro di me? Vicino a me? In distanza?» «No.» Scosse lentamente la testa. «C'era qualcuno con lei?» «No», dissi, «credo di no. Pensavo di aver udito qualcuno. Dovevi essere tu». «Perché correva?» «I telefoni», spiegai. «Mi sono spaventato quando hanno cominciato a suonare tutti insieme. Sai come può essere successo?» «No. Hanno smesso circa nello stesso istante in cui l'ho vista cadere. Qualche contatto elettrico, credo.» Mi alzai in piedi e mi appoggiai a una scrivania. «Mi procureresti un bicchiere d'acqua?» Non mi occorreva, ma mi avrebbe dato l'opportunità di inventare qualcosa, quindi: «Sì», dissi, «ci vorrebbe proprio». «Si sieda. Torno subito.»
Mi indicò la sedia vicino alla scrivania illuminata. Vi andai e mi sedetti mentre lei spariva velocemente da qualche parte alla mia sinistra. Diedi un'occhiata al lavoro sparso sulla carta assorbente. Pagine di statistiche e un tampone pieno di note scritte a mano, che lei sembrava trasformare in una specie di rapporto. Mi frugai nelle tasche finché non trovai un portapillole contenente delle capsule di cui talvolta facevo uso per restare brillante, presente e vivace quando dovevo restare sveglio fino a tardi. Una non poteva nuocermi, anzi avrebbe potuto farmi bene. Avevo veramente bisogno di un sostegno. Quando ritornò con una tazza d'acqua, dissi: «Grazie, avrei dovuto prenderla prima», e buttai giù la capsula. «È molto grave?» disse. «Posso chiamare...» Scossi la testa e finii di deglutire, soddisfatto per averle dato l'impressione di essere un caso clinico. «Non va tanto male come sembra», dissi. «Ogni tanto vado soggetto a queste crisi. Prima mi sono dimenticato di prendere la medicina. Ecco tutto.» «È sicuro che sia tutto passato?» «Sì. Ora va tutto bene. Penso che mi muoverò.» Cominciai ad alzarmi. «No», disse, posandomi le mani sulle spalle ed esercitando una decisa pressione. «Lei aspetta. Si riposi un momento.» «D'accordo», acconsentii, lasciandomi ricadere. «Dimmi, perché lavori qui tutta sola?» Lanciò un'occhiata al materiale sulla scrivania, arrossì e distolse lo sguardo. «Ho indietro del lavoro», rispose piano. «Oh. Uno straordinario, eh?» «No, lo faccio per me stessa.» «Sembrerebbe una vera dedizione.» Le sue labbra si strinsero, gli occhi le si contrassero. «No», disse, «proprio l'opposto». Poi: «Lei non lavora qui, vero?» Scossi la testa. «Be'», continuò, sospirando, «non mi piace per niente quello che faccio, e non ci sono nemmeno molto portata. Ho fatto una gran confusione, e sono rimasta molto indietro. Sono venuta qui da sola per vedere di recuperare il tempo perduto». «Oh. Spiacente d'averti interrotta.» Si strinse nelle spalle. «Non importa», disse. «Stavo proprio preparandomi ad andarmene quando è arrivato lei.»
«Finito tutto?» Sorrise debolmente. «Può metterla così.» «Oh?» «Sì», disse. «Tra alcuni giorni verrò scoperta, e il mio impiego qui avrà fine.» «Sono spiacente.» Si strinse di nuovo nelle spalle. «Non lo sia. Tornerò all'ufficio di collocamento, e può darsi che il prossimo lavoro che mi troveranno mi piaccia di più.» «Quanti ne hai passati?» «Non ricordo. Un paio di dozzine, penso.» La studiai più attentamente. Dimostrava solo una ventina d'anni. «Non suona molto bene, vero?» disse. «Non riesco bene in niente. Sono anche portata agli incidenti.» «Forse c'è un errore nel tuo profilo attitudinale», suggerii. «Può darsi che tu debba fare tutt'altro tipo di lavoro.» «Oh, hanno cercato di farmi fare quasi ogni maledetta cosa», disse. «Ora, quando mi vedranno tornare, si limiteranno a scuotere la testa.» Ridacchiò. «Lei che cosa fa?» «Il musicista.» «Ecco qualcosa che non ho mai tentato. Può darsi che un giorno ci proverò. Come si chiama?» «Engel. Mark Engel. E tu?» «Glenda. Glenda Glynn. Le spiace se le chiedo perché camminava al buio nell'Ufficio?» «Semplicemente, avevo voglia di passeggiare», risposi. «Lei ha dei guai.» Mi sembrò strano che non l'avesse posta almeno come domanda. «Che cosa te lo fa pensare?» chiesi. «Non so», rispose. «È solo una sensazione. Ho indovinato?» «Se ti dicessi di sì, che cosa faresti?» «Cercherei di aiutarla se potessi.» «Perché?» «Non mi piace vedere la gente nei guai. Mi sembra di esserci sempre io stessa e non mi piace. Sono un po' empatica.» Non potrei dire se stesse scherzando o se fosse seria, quindi sorrisi. «Mi spiace deluderti», dissi, «ma non sono in nessun guaio». Aggrottò le ciglia. «Allora lo sarà», disse. «Molto presto, direi.»
Ero un po' irritato per la sicurezza dei suoi giudizi. Dal momento che stavo proprio per andarmene" e senza dubbio non l'avrei più rivista, non avrebbe avuto importanza. In un certo qual modo, però, ne aveva. «Solo a titolo di curiosità», dissi, «ti spiacerebbe dirmi come lo sai?» «Me l'ha detto mia madre perché io sono gallese.» «Non ha senso!» «Uh-huh. Ma scommetto che via da qui pensava di andare al Seminterrato. E non dovrebbe, sa.» Dovette leggermi in faccia lo stupore, perché sorrise. Almeno, speravo che me l'avesse solo letto in faccia. Avevo pensato di tagliare dal Seminterrato nel tentativo di liberarmi dall'inseguimento. Mi fece sentire a disagio. Era anche sicura della mia decisione. Sbuffai. «È una sciocchezza. Non puoi sapere...» «Gliel'ho detto.» «Va bene», dissi, alzandomi in piedi, «grazie per l'aiuto. Adesso ho intenzione di andarmene». Sentivo che la pillola cominciava a fare effetto, ed era la sensazione migliore che avessi provato da lungo tempo. «Spero che il tuo prossimo lavoro sia migliore.» Aprì il cassetto superiore della scrivania, vi ficcò dentro tutte le carte e lo richiuse. Vidi di sfuggita una sorprendente confusione di effetti personali e di pratiche di lavoro. Poi prese una giacca nera senza maniche dalla spalliera della sedia, se la infilò e spense la luce della scrivania. «Vengo con lei», disse. «Scusa?» «Potrei esserle d'aiuto», spiegò. «Mi sento in certo qual modo responsabile per lei, ora.» «È ridicolo! Non verrai da nessuna parte con me!» «Perché no?» Mi morsicai il labbro. Quasi ammettevo che sarebbe potuto essere pericoloso quando avevo appena insistito sul fatto che non mi trovavo nei guai. «Apprezzo le tue premure», dissi, «ma adesso sto benissimo. Veramente. Non c'è nessun bisogno che tu cambi la tua strada...» «Nessun disturbo», replicò, prendendomi per un braccio e facendomi voltare in direzione della rotostrada. Fu solo allora che mi accorsi che era alta poco meno di un metro e ottanta (solo pochi centimetri più bassa di me) e molto forte, anche se piuttosto
flessuosa. Reprimendo parecchie reazioni possibili, considerai la situazione. Era possibile che mi avesse salvato la vita solo perché si trovava dov'era. Se si era trattato dell'intenzione del mio inseguitore di gettarmi nel panico, ci era perfettamente riuscito. Si era riproposto di darmi il colpo di grazia quando ero scivolato al limite della razionalità, poi la presenza di Glenda probabilmente lo aveva fermato. Data questa possibilità, sarei potuto essere più sicuro tenendola con me per un po'. Mentre non volevo esporla al pericolo, non riuscivo a vedere ancora, lì per lì, alcun modo semplice per sbarazzarmi di lei. L'avrei tenuta con me a passeggiare per un po' contando di scoraggiare l'inseguimento, poi alla prima occasione l'avrei lasciata e me la sarei svignata all'Ala Zero. Sì, mi sembrava la cosa migliore per tutti. Mi dava fastidio il fatto che il mio avversario sembrasse conoscermi così bene. Non era solo il fatto che riuscisse a seguirmi così facilmente, ma che sembrava sapere con precisione che genere di pressione applicare e quando applicarla, per battermi prontamente come aveva fatto. Stavo cominciando a chiedermi che cosa ci sarebbe voluto per fermarlo. Qualcosa di straordinario, temevo. Bene, si poteva provvedere... Sembra che si avvicinino. «Prima li sistemiamo, meglio è», dissi dentro di me. Sei un'incarnazione migliore di quella di Lange. «Lo so.» Ma non ancora abbastanza buona, temo. «Che cosa intendi dire?» Impari, ma non abbastanza in fretta. Inoltre, penso che prenderanno anche te. «Forse sì. Forse no.» Comunque forse non sarebbe del tutto un danno. Puoi imparare qualcosa dall'esperienza. «A esempio?» Dimenticare i morti e smetterla di correre. Raggiungi il tuo nemico, e poi fa' piazza pulita. «Ho già un piano.» Sta funzionando proprio bene. «Seguirò il tuo consiglio di dimenticare i morti, però cominciando da te...» Aspetta! Hai bisogno di me, stupido! Se vuoi vivere... «Vattene!»
... tira la leva sette... Completai l'espulsione e sospirai: «Non posso farne a meno». «Che cosa ha detto?» chiese Glenda. «Niente», risposi. «Stavo parlando da solo.» «Per un momento è sembrato che ci fosse qualcuno vicino a lei.» «È la tua immaginazione celtica che cerca di farsi bella.» «No», disse, «perché io la sconto». Allora le lanciai un'occhiata ed ella rise. Strano senso dell'umorismo, quello. Quando fummo vicini alla rotostrada mi guardai intorno circospetto, ma anche questa volta non c'era nessuno in vista. Salimmo e fummo trasportati in mezzo all'oscurità, da una parte e dall'altra. La sua presenza sembrava avere su di me un effetto equilibratore, un'ancora umana contro la mia bufera nevrotica. «Come si sente adesso?» «Ancora meglio.» «Bene.» Dopo parecchi minuti, arrivammo a un incrocio e cambiammo per una striscia più grande. Il nostro percorso allora era meglio illuminato e c'erano altri passeggeri intorno. Un altro cambio e ci saremmo diretti verso l'ascensore. Tira la leva sette... Era un pensiero affascinante (anche se eretico), liberare tutte le bestie che Lange aveva incatenato nella notte scura della sua anima. Per un attimo ebbi voglia di ridere, poi mi sentii offeso, addolorato e leggermente divertito, in rapida successione. Quella parte di me che era stata quel tipo qualsiasi del vecchio Engel trovava divertente pensare a quella mezza donna del vecchio Lange in termini così romantici. Grazie al suo aspetto, spesso aveva avuto l'incarico di andare in giro come una vecchia checca, a prelevare giovani uomini bisognosi di riabilitazione. Pensarlo a lottare con dei demoni senza nome e poi portare a termine un suicidio più che simbolico per stabilire la connessione, era quasi inconcepibile per il buon vecchio Engel. Quella parte di me che ora era Lange era stata colpita e offesa. Ma già le barriere cominciavano a svanire, e io, chiunque fossi, reagivo infine soltanto con un leggero divertimento. Era un bene che la fusione procedesse così facilmente all'apparenza, però mi domandavo quali conflitti potevano scatenarsi nella più grande parte inconscia della mia mente. ... Tirare la leva sette avrebbe significato distruggere il lavoro maggiore
di Lange nel nostro continuo sforzo di dirigere l'evoluzione morale della coscienza umana. Provavo una certa tensione perché quello che era Lange dentro di me si opponeva al mio stesso pensare secondo questi schemi. Quello che non lo era, però, continuava a meditare riguardo alla natura della parte sacrificata. Era un rapporto simile a quello della falena con la fiamma. Avevo ereditato il demone personale di Lange, e naturalmente a lui nulla sarebbe piaciuto di più che sentirmi gridare Zazas, Zazas, Nasatanada, Zazas, le parole che fanno spalancare le Porte dell'Inferno... Dove l'avevo imparato? O da quella porzione di Hinkley che era mia, o da Lange, o da oltre la leva sette, decisi. Come in risposta, riuscii quasi a udire la voce di Hinkley che recitava qualcosa di Blake: Ma quando trovano il terribile Bambino, Il terrore dilaga per tutta la regione: Gridano: «Il Bambino! Il Bambino è nato!» E fuggono via da Ogni parte. La considerai la sua risposta alla metafora diabolica di tirare la leva sette. Dal momento che lui era stato il bibliotecario, aveva molto materiale da cui scegliere. Riflettendo, però, ciò rappresentava un'approvazione o una disapprovazione? Non c'era connessa nessuna sensazione che mi aiutasse a giudicare. L'ambiguità, decisi, era il guaio dei letterati. Io... Porca miseria! Mi imposi di non distrarmi. Tutto quello che stava facendo Lange era un tentativo per distogliere i miei pensieri dalle considerazioni iniziali? Oppure era ciò che restava di lui che tentava di superare l'entusiasmo della resurrezione? Come sarei stato io quando fosse venuto il mio turno? Avrei suonato il clarinetto per loro, decisi, dolcemente, ma con un pathos infinito... Mi morsicai il labbro. Guardai fuori oltre la striscia e osservai il nostro movimento. Studiai l'ondulazione dei capelli di Glenda dietro l'orecchio destro e sulla nuca. Battei leggermente il piede. Era tempo, potevo dire, che spostassi l'attenzione alle circostanze esterne. Inoltre, era diventato troppo evidente che i miei conflitti interiori erano davvero più forti di quanto non sembrassero qualche minuto prima. «Fin dove ti proponi di accompagnarmi?» chiesi. «Fin dove sarà necessario.»
«Necessario per che cosa?» «Per vederla al sicuro», rispose. «Potrebbe essere un compito più gravoso di quanto pensi.» «Che cosa intende dire?» «Avevi ragione, prima, quando dicevi che ero nei guai.» «Lo so.» «D'accordo. Quello che sto cercando di dirti è che, mentre avevi ragione sulla situazione, la sua gravità è un'altra faccenda. Il mio guaio è serio e pericoloso. Mi hai già aiutato più di quanto te ne renda conto. Ora che sono di nuovo in piedi e vado per la mia strada, il modo migliore per ripagarti è dirti addio. Non c'è veramente più niente che tu possa fare per aiutarmi a questo punto, ma se hai intenzione di rimanere con me il guaio potrebbe diventare contagioso. Quindi ti ringrazio ancora, Glenda, e ti lascerò all'ascensore.» «No», protestò. «Che cosa vuoi dire con 'no'? Non te lo stavo chiedendo. Te lo stavo dicendo. Dobbiamo separarci. E molto presto. Mi hai aiutato. Ora ti restituisco il favore.» «Ho la sensazione che le occorrerà ancora aiuto. Presto.» «Potrò trovarne.» «Sì. Perché ci sarò io.» Mentre proseguivamo, mi sforzai di non risponderle per le rime. Poi dissi: «Perché? Ti spiace dirmi perché?» «Perché», rispose senza esitazione, «non sono mai stata implicata prima in qualcosa di eccitante. Per tutta la vita l'ho desiderato, ma non è mai accaduto niente. Cominciavo a credere che non sarebbe mai accaduto niente. Poi è apparso lei mentre ero seduta là, sapendo che stavo per perdere un altro stupido impiego. Appena sentii suonare i telefoni e la vidi correre, capii che stava per succedere qualcosa di diverso. Sembrava quasi il destino. Il modo particolare in cui i campanelli sembravano seguirla... la sua caduta drammatica, quasi ai miei piedi... È stato molto eccitante. Devo sapere come andrà a finire, capisce?» «Ti chiamerò quando sarà tutto finito e ti farò sapere.» «Temo che non sarà sufficiente», obiettò. «Dovrà esserlo.» Si limitò a scuotere la testa e si voltò. «Dobbiamo cambiare a questo incrocio», disse dopo alcuni minuti, «se andiamo all'ascensore». «Lo so.»
Ci trasferimmo sull'altra striscia, dove il traffico era un po' più intenso. A quel punto non era in grado di dire se eravamo seguiti. «Immagino che ora lei stia cercando il modo migliore per sbarazzarsi di me.» «Infatti.» «Rinunci», disse. «Non ho intenzione di andarmene.» «Non sai assolutamente nulla della situazione in cui stai cercando di ficcarti», dissi, «e io non ho intenzione di illuminarti. Ti ho già detto che è pericoloso. Chiunque corra verso un rischio sconosciuto semplicemente per soddisfare un desiderio di eccitamento è uno stupido. Comincio a capire perché non riesci a tenerti un lavoro». «Non può insultarmi e andarsene.» «Sei una stupida!» «La pensi come vuole», disse, «ma ho diritto a usare i trasporti pubblici come chiunque altro. Ho già deciso dove andrò, quindi potrebbe anche essere gentile». «Mi ricordi il tipo di gente che sta a guardare gli incidenti.» «La mia intenzione è di non limitarmi a stare solo a guardare, se necessario.» «Non starò più a discutere con te», dissi. «Ma come fai a sapere che non sono un depravato, uno psicotico, un criminale, o un tipo di persona comunque indesiderabile?» «Non importa. Io ho già fatto la mia scelta.» «Anche se ci fosse in ballo la tua sicurezza personale?» «Suppongo di sì. Ma perché gliene dovrebbe importare, se non le spiace essere un tipo del genere?» «Non importa. Dimenticalo.» Per un momento osservai l'ascensore a colonna. In alto una gru girava, trasportando un carico possente di mobili per ufficio. In una buca alla nostra destra l'oscurità era spazzata via dalla lingua luminosa di una saldatrice, che riparava o sostituiva una conduttura. Debolmente, molto debolmente, e solo a tratti udivo della musica. Più avanti ora si vedeva alla base dell'ascensore una zona di parcheggio divisa geometricamente. Non era eccessivamente illuminata, c'era una statua di qualcuno o roba del genere alla estremità vicina e delle panche qua e là lungo il percorso. Quando ci avvicinammo, vidi che gli alberi erano naturali, non artificiali, e sembrava esserci una fontana verso la parte posteriore. «Sembra qualcosa uscito dalle pagine di Wolfe», osservò Glenda guar-
dando nella stessa direzione, e io diventai Hinkley più che mai, quasi senza rendermene conto. «Sì», mi trovai a dire. «È arrivato molto lontano dalla piazza del paese.» «Qui dovrebbero esserci un municipio e un tribunale con sopra un grande orologio.» «C'è un orologio sopra l'ingresso dell'ascensore,» «Sì, ma è silenzioso e segna sempre l'ora giusta.» «È vero. Non ci sono neanche escrementi di uccelli.» «Dovrebbe anche esserci un negozio di tagliapietre.» «Ma non le pietre tombali.» «Vero.» Allora fantasticai sulle piazze della vecchia Terra. Veramente lo strano signor Black ricordava queste cose, o semplicemente ammazzava il tempo prima di ammazzare me? Dal momento che non avevo ricordi del genere su cui basare qualsiasi nostalgia, potevo solo addossare la colpa dei miei sentimenti alle preoccupazioni di Hinkley: era solo un romantico, uno scaldapoltrone, un naturalista in un luogo che era completamente al di fuori della natura. Triste. E così mi sentii per parecchi minuti. Riguardo a Hinkley, alle piazze, a ogni cosa. «Leggi molto», dissi. Annuì. Ci dirigemmo verso il parco e camminammo tra il verde. Periodicamente, altoparlanti nascosti trasmettevano canti di uccelli registrati, dall'interno dei cespugli e degli alberi. Ci arrivò alle narici l'odore particolare della terra bagnata. Camminammo tutt'intorno all'ascensore, e passammo accanto alla piccola fontana scintillante. Glenda si bagnò le dita. «Che cosa stiamo facendo?» domandò quando completammo il giro della colonna e ritornammo nella direzione da cui eravamo venuti. «Aspettiamo un po'», dissi, riposandomi su una panca e guardando indietro lungo il percorso verso la rotostrada. Si sistemò di fianco a me, seguì la direzione del mio sguardo. «Vedo», disse. «Mentre aspettiamo, potresti raccontarmi qualcosa di te», proposi. «Che cosa vuole sapere?» «Qualsiasi cosa. Libera associazione di idee.» «Mi ricambierà il favore?» «Può darsi. Perché? È una condizione?» «Sarebbe simpatico.»
«Vedrò che cosa posso pensare di dire mentre stai parlando.» «Ho ventidue anni», cominciò. «Sono nata in questa Ala. Sono cresciuta nell'Aula. Mio padre era insegnante e mia madre un'artista: una pittrice. Ora sono morti tutti e due, e vivo nella Biblioteca. Io...» La afferrai per un braccio. «È lui?» chiese, studiando la figura che era appena apparsa sulla rotostrada. «Il nemico dal quale fugge?» «Non posso esserne sicuro», risposi. «Ma mi comporterò come se fosse lui. Vieni.» Tornammo dalla parte opposta della colonna e vi entrammo. «Potrebbe comportarsi così solo per evitare di parlare di se stesso», osservò. «Potrei, ma non è così.» Iniziammo la discesa, aumentando la velocità mentre camminavamo rapidamente lungo il movimento circolare. Correre per uscirne, poi aspettare che l'inseguitore ci raggiungesse. Se avessi continuato ancora così, avrei potuto cominciare a sentirmi sconfitto. Comunque non era nelle mie intenzioni. Avevo voluto provare qualcosa, e credevo di esserci proprio riuscito. Se si fosse trattato dello stesso uomo, mi sembrava che mi seguisse a una distanza troppo grande per mantenere il contatto visivo per l'intero percorso del Soggiorno. Mentre sarebbe potuta andargli bene nel precedermi, non poteva riporre completa fiducia nella sua abilità. Poiché a sua volta si era esposto e sembrava quasi sicuro che avesse intenzioni sanguinarie, ne risultava che avesse qualche mezzo per pedinarmi che fino allora non avevo preso in considerazione. Poteva avermi messo addosso un trasmettitore? La risposta non tardò molto ad arrivare, sebbene non fosse di utilità immediata. I miei abiti attuali erano rimasti appesi in un armadio, incustoditi, mentre ero sul palco dell'orchestra. Non sarebbe stato eccessivamente difficile prenderli e inserirvi qualcosa che avrebbe trasmesso i miei spostamenti quando me ne fossi andato. Poteva essere microscopico, comunque, e situato da qualsiasi parte. Individuarlo poteva essere veramente un'impresa. Sfortunatamente, l'alternativa di togliermi gli abiti non sarebbe servita a rendermi meno in vista in questa Ala. Ero contento, tuttavia, di aver preso il tempo per esaminarlo. Se non l'avessi fatto, l'avrei guidato verso il luogo del mio attacco, anche se sembravo perderlo di vista. Cosa che non sarebbe mai successa.
Percorremmo tutto il tragitto fino al Seminterrato e, ora che lo raggiungemmo, il mio piano era già abbastanza a punto. Salvo che per la gente addetta alla manutenzione, il Seminterrato era abbastanza poco frequentato. Ma era una distesa desolata di macchinari (reattori, generatori, propagatori di notizie, condizionatori, distributori, calcolatori, trasformatori, pannelli indicatori) seminascosti in una giungla di tubi e di cavi, strisce di servizio ogni pochi metri, scale di metallo che sembravano non portare da nessuna parte, piattaforme leggere che vibravano quando ci si saliva, un labirinto di passerelle a ogni piano, cavalletti, gru, l'odore del grasso e degli isolanti bruciati, incessanti ronzii, fruscii, rombi e crepitii che ne uscivano e un alone azzurro di elettricità dovunque. ... Tutto ciò offriva un sacco di nascondigli, come pure una possibile interferenza per qualunque tipo di trasmettitore io potessi avere addosso. Mi fermai un attimo e studiai il mio piano. Sebbene potessi scorgere un paio di ascensori lontani, era uno scambio della sotterranea che mi serviva. Individuai dei segnali che indicavano la strada per quello più vicino e portavano verso la striscia che conduceva in quella direzione. La mia intenzione era di spostarmi da Ala ad Ala fino a una stazione che mi portasse direttamente alla Stanza, qualunque fosse l'Ala, e poi avrei affrontato la partita a Go, senza fermarmi, maledicendo nel frattempo quel dannato gioco. Se il mio uomo fosse riuscito a pedinarmi attraverso lo spazio interstellare, forse avrebbe meritato di vincere. Avevo forti dubbi riguardo alla sua capacità a queste condizioni, comunque. ... E da qualche parte, prima di raggiungere il Cancello, avrei dovuto liberarmi di Glenda. Non mi sarebbe stato molto facile condurla al luogo dove ero diretto, e non vedevo nessun pericolo reale per lei se l'avessi lasciata indietro. Un veloce sparo di tranquillante appena fossi stato certo che eravamo soli, e poteva fare una dormita sulla panca di qualche operaio. Decisi che sarebbe stato più sicuro per lei che non tenerla con me più a lungo. Era una striscia spaziosa e lenta, ma nel giro di un minuto eravamo fuori vista dell'ascensore, grazie alla quantità di attrezzature dell'Ala. Una volta nel mezzo del nastro, intuimmo piuttosto che udire la vibrazione del posto. Due cambi veloci e fummo su una striscia più stretta e più rapida, il cui percorso correva approssimativamente parallelo al primo. Effettivamente eravamo solo a qualche decina di metri di distanza, ma era completamente nascosto a noi. Finora non avevamo incontrato nessun altro. Chiunque scendesse dall'ascensore avrebbe potuto vederci senza che noi
vedessimo lui, comunque, a causa del modo in cui le luci giocavano sulla superficie. Se vi era qualcuno, poteva avermi visto scrollare le spalle a quel pensiero, perché era circa tutto ciò che ero in grado di fare per il momento. Mi chiedevo degli altri: che cosa stavano pensando, facendo, se si rendevano conto appieno della mia attuale situazione. Sembrava probabile, perché sapevano che ero vivo e quindi senza dubbio erano al corrente dei delitti più recenti, comunque non avevo ordini da comunicar loro. Dovevano aver creduto che stessi ancora correndo e che mi sarei messo in contatto con loro appena possibile, che i loro tentativi di mettersi in contatto con me avrebbero solo potuto distrarmi dai miei problemi immediati. Mi chiedevo quanto spirito di iniziativa possedessero. Avremmo dovuto consultarci di nuovo appena avessi raggiunto l'Ala Zero. Camminavamo in fretta, aggiungendo la nostra velocità a quella della striscia. La luce era molto brillante, quasi abbagliante, perché qui era sempre pieno giorno. In alto, le gru si muovevano senza posa abbassandosi, alzandosi, spostandosi di fianco. Il macchinario sibilava, vibrava, ronzava, sibilava, vibrava, ronzava. Provai un sollievo irrazionale quando sorpassammo una cabina telefonica e il telefono al suo interno non squillò. «Mi dirà ora perché sta fuggendo, e da chi?» domandò Glenda. «No.» «Potrebbe essere utile se lo sapessi.» «Ti sei invitata da sola a questa gita», dissi. «Non è una gita guidata.» «Il pericolo che sentivo prima... è molto vicino ora.» «Spero che ti sbagli.» Ma sentivo che aveva ragione. Le mie tendenze paranoiche erano facilmente stimolabili, anche perché di recente erano venute spesso a galla. Presi la striscia seguente sulla destra, non sapendo dove portasse. Diligentemente, lei mi seguì. Eravamo stretti tra alti dirupi di metallo. La temperatura si elevò, divenne opprimente. Circa sei metri più sopra, due operai su impalcature metalliche ci guardavano con un'espressione di sorpresa sul volto. Facemmo parecchie altre deviazioni, passando anche un paio di minuti su una striscia per la manutenzione così stretta che dovemmo stare di profilo. Dopo un po', passammo su un altro nastro, più normale, che andava nella direzione giusta. L'unica altra gente che superammo era una scolaresca in visita al complesso di ventilazione. Erano più in là alla nostra sinistra, e presto li perdemmo di vista.
Cominciai a guardarmi intorno in cerca di un angolino sicuro o di un buco in cui lasciare Glenda. Estrassi la rivoltella e l'impugnai. Provavo una certa inquietudine a quel pensiero. Non mi piace lasciare le cose a meta, penso che si trattasse di questo. Mi incuriosiva. Una ragazza strana, che non riusciva a tenere un impiego, che mi aveva aiutato... Sarei tornato a indagare su di lei appena possibile. Me ne sarei occupato una volta risolti i miei problemi. «...Non guardi di colpo», la sentii dire, «ma penso che siamo seguiti. Non sulla striscia. Più su. A sinistra. Indietro». Voltai la testa, cercando di essere naturale. Fu sufficiente una breve occhiata, e distolsi ancora lo sguardo. Lui era sulla passerella, si muoveva a passi svelti, avvicinandosi a noi, guadagnando terreno. ... E quelle luci scintillanti, scintillanti sul blu dei suoi occhiali. Mi trattenni dal bestemmiare. Me l'ero più che aspettato. Per un istante patologico desiderai di avere con me qualcosa di più potente di una rivoltella tranquillante. Misi da parte il pensiero. Feci due passi avanti, e Glenda mi seguì immediatamente. «Maledizione! Non starmi così vicina!» dissi. «Quello che faccio potrebbe esserle utile.» «E dannoso per te. Sta' lontana!» «In una parola: no.» «Va bene. Ti ho avvertita. È tutto quello che posso fare. Goditi la tua eccitazione.» «Infatti.» La mia mente corse avanti. Ero stato più svelto di Lange, ma forse non ancora svelto abbastanza. In questo caso, amen. Può darsi che meritassi di morire. Il fatto che io fossi più forte di quanto lo fosse stato Lange da solo non mi assicurava la sopravvivenza in questa situazione. Almeno avevo imparato alcune cose sul mio inseguitore e intendevo impararne alcune altre. Controllai più avanti, in cerca di qualche grosso complesso di macchine, che offrisse dei rifugi, fessure, sporgenze, un posto dove sarei stato un bersaglio difficile, ma da cui avrei potuto mirare attentamente. Se ne presentavano parecchi possibili. Allora guardai indietro, cercando di valutare di quanto si avvicinava. «Che cosa ha intenzione di fare?» mi chiese Glenda. Cominciavo a provare un certo divertimento che non riuscirei a spiegare
bene, ma non avevo il tempo per analizzarlo. «Scaricarti la pistola addosso», risposi, «a meno che tu non faccia esattamente ciò che ti dico». «La ascolto.» «Avanti. A destra. A circa trecento metri... La grossa macchina grigia con la cappa nera all'estremità più vicina. La vedi?» «Sì. È un generatore Langton.» «Mi porterò a sinistra fra circa un minuto. Quando lo farò, tu rimani sulla striscia per alcuni secondi. Lui guarderà me. Allora tu sarai quasi di fianco a quella roba. Corri là e nasconditi dietro. Appena sarò alle prese con quell'uomo, esci fuori e scappa nel complesso posteriore. Tieni d'occhio ciò che succede e comportati di conseguenza. Buona fortuna.» «No. Io vengo con lei.» Girandomi in modo da non poter essere visto da dietro e da sopra, torsi la mano e puntai la rivoltella. «Se cerchi di farlo, ti addormenterò e lascerò che la striscia ti porti via di qui. Non discutere. Fa' come ti dico.» Poi saltai giù e mi precipitai verso il rifugio che avevo scelto, dando un'occhiata alla figura di sopra mentre si affrettava verso di me, alzando il braccio destro. Udii lo sparo. Dato che correva a quel modo e tutto il resto, ovviamente mi mancò. Uscii dalla sua visuale prima che potesse sparare ancora. Strisciai lungo l'angolo del macchinario e mi diressi nel canale che avevo visto, che nel punto centrale era interrotto da una barriera metallica alta circa un metro e da alcuni cavi che pendevano, poi sembrava continuare senza interruzioni fino alla fine. Apparvero otto entrate di servizio lungo il percorso, e probabilmente un canale laterale. Riuscivo a vedere in alto attraverso le aperture tra i pali e i cavi, e fui soddisfatto di averci azzeccato: sarebbe dovuto venire terribilmente vicino per far fuoco con buoni risultati in mezzo a quella confusione. Ero dentro di appena pochi passi quando la sentii. «Perdio!» imprecai voltandomi. «Ti ho detto di andare al generatore!» «Ho deciso di non andarci», ribatté. «Sapevo che non avrebbe guardato indietro una volta che avesse cominciato a correre.» Mi strinsi nelle spalle, mi voltai e proseguii in avanti. Sentii che mi seguiva. Riuscivo a vedere parecchie parti della passerella, compresa una diramazione che passava sopra l'ultima estremità della macchina. Secondo i miei calcoli, ora lui sarebbe potuto comparire in qualsiasi momento.
«Che cosa devo fare per aiutarla?» mi stava domandando Glenda. «Qualunque cosa ti venga in mente», risposi. «Declino ogni responsabilità per la tua integrità. La tua morte pesa sulle tue spalle.» La sentii tirare bruscamente il respiro e soffocare l'inizio di qualcosa che aveva cominciato a dire. Continuai a muovermi in avanti. Lui poteva essere sceso su una delle scale a pioli o su un passaggio verso il pavimento e dirigersi verso di noi attraverso il labirinto di ferraglia. Oppure poteva essersi fermato o procedere lungo un'altra strada più in alto. Poteva essere molto vicino. Era inutile cercare di sentire il rumore dei passi, a causa del rumore di fondo, a causa delle vibrazioni della macchina in cui ci trovavamo. Quando mi avvicinai al possibile canale laterale, comunque, un suono acuto riuscì a diffondersi dovunque. Era lo squillo di un telefono in qualche cabina di servizio vicina. Bestemmiando sottovoce e appiattendomi contro la parete, decisi di cacciargli quella roba nel canale alimentare da un'estremità o dall'altra alla prima occasione. Questa volta però rimasi calmo. Il suono mi logorava i nervi, ma riuscii a mantenere il controllo. Un momento più tardi, udii il rumore delle sue scarpe e mi resi conto di ciò che aveva fatto. Essendo in qualche modo a conoscenza dell'effetto che aveva su di me lo squillo, ovviamente si era procurato un'unità di servizio addetta alle riparazioni in grado di localizzare e attivare i telefoni. Si era diretto in una posizione sopra il mio rifugio, aveva fatto suonare il telefono nella cabina più vicina nella speranza di turbarmi, e si era lasciato cadere in cima alla macchina. Solo che questa volta io non abboccavo. Premuto contro il mio rifugio, potevo intuire più che udire i suoi passi veloci. Stava cercando un'apertura, cercando un punto per sparare con precisione. Sperando di trovarmi come una massa tremante di gelatina, presumevo. Improvvisamente, apparvero una testa, un braccio e una spalla, in alto alla mia destra, circa a una decina di metri giù nel canale, da dietro una giuntura di travi. Quando alzai la mia arma e la strinsi, sentii il rumore del suo sparo e il rumore del rimbalzo della pallottola. Poi lui se ne andò. Indietreggiai. Urtai contro Glenda. Senza guardare, la spinsi verso la nicchia, brontolando qualcosa di incomprensibile e rinculando. Quando le fui addosso, udii di nuovo il tonfo delle sue, scarpe e mi accorsi che era saltato attraverso il canale di destra. Spostai la rivoltella per coprire quella
che supponevo essere la sua nuova posizione e provai un improvviso, pazzo piacere al pensiero che il telefono aveva smesso di suonare. Poi comparve, sparò di nuovo, mi mancò. Anch'io sparai un altro colpo. La prossima volta, sentivo, sarebbe stata quella decisiva. Ora conosceva la mia posizione. Mi sporsi indietro e puntai la rivoltella verso l'alto. Sarebbe stato sopra la cima della nicchia questa volta, lo sentivo. Le mie probabilità, a conti fatti, non erano buone. Anche se lo avessi perfettamente inchiodato, mi avrebbe sparato. Il mio interesse, oltre che proteggere la ragazza, si concentrava sulla gravità delle ferite che avrei dovuto sopportare, se fossi sopravvissuto. Dovevo prenderlo, lo sapevo, lo sentivo, lo giuravo. Anche se mi avesse messo ancora quella pallottola dritta nel cuore, i miei riflessi mi avrebbero fatto sparare un colpo e lui sarebbe stato fuori combattimento per un po', lassù. Volevo vivere, trascinarlo con me all'Ala Zero, rivoltargli la mente e rovesciarne il contenuto per terra. Sarebbe stato così funesto morire, lasciarlo vulnerabile e non in grado di farci niente. «... Se muoio», mi accorsi che stavo dicendo a Glenda, «e lo lascio lassù privo di sensi», e non ero io a dire le cose terribili che sentivo, mi resi conto, anche se le parole uscivano proprio dalla mia bocca, «sei disposta a salire e finirlo con la sua stessa pistola? Una pallottola nel cervello? Nel cuore?» «No! Non posso! Non voglio!» «Mi eviterebbe un sacco di guai in seguito.» «In seguito?» ridacchiò quasi istericamente. «Se lei muore...» Poi tacque, ma potevo sentire il suo respiro affannoso, la sua tensione. Che cosa stava aspettando? Dannazione a lui! «Vieni!» gridai. «Questa è l'ultima volta! Anche se mi prendi, sei morto!» Niente. Ancora niente. Poi sentii Glenda parlare a bassa voce, rapidamente, insistentemente. «È proprio lei. Avevo ragione. Ascolti. È importante. Mi porti nel luogo segreto. Ho qualcosa per lei. È importante...» Era anche troppo tardi. Ci furono ancora tre passi e un tonfo, quando si lanciò attraverso il nostro canale e sparò verso il basso. Sentii un dolore bruciante al petto e alla cassa toracica. Sparai indietro, sentii che lo avevo colpito. Pantaloni bianchi, giacca blu, lunghi capelli castani, occhiali blu a spec-
chio, si era voltato quando era saltato giù, in posizione semiaccucciata, col braccio sinistro alzato per stare in equilibrio, il destro teso verso il basso, l'arma puntata, i denti serrati che lasciavano intravedere un sorriso impenetrabile, privo di umorismo. «Signor Black! No!» sentii Glenda gridare, quando un altro sparo mi colpì alla spalla, sbattendomi indietro contro di lei. La rivoltella tranquillante mi cadde di mano mentre tutto il mio braccio destro diventava inservibile. Lo avevo colpito, però, ne ero certo. Ed era il signor Black. Era lo stesso uomo col quale ero stato seduto nella Sala da Cocktail (quanto tempo fa?). Prescindendo dal colore e dalla lunghezza dei capelli, dall'abbigliamento diverso, dagli occhiali, vedevo la stessa linea della mascella, gli stessi zigomi e le stesse rughe... Alzai il braccio sinistro quando cercò di puntare la pistola per un altro colpo. Glenda stava ancora urlando quando mi morsicai il pollice e lo guardai e udii e sentii il suo ultimo colpo lacerarmi le budella. Poi cadde all'indietro mentre io cadevo in avanti, sembrandomi che una nube di inchiostro mi sgorgasse dal petto e mi scorresse alla testa. L'eco del colpo diminuì, svanì, sebbene sentissi ancora le vibrazioni della macchina sussurrare e risussurrare le parole Tira la leva sette, e Glenda stava gridando: «Biblioteca! Cubicolo 18237! Importante! Biblioteca! Cubicolo 18237...» Poi più nulla. 4 Mi rialzai e ripresi a correre. Era una follia, ma non potevo farne a meno. Era una buona cosa che non ci fosse in vista nessuno in grado di notarmi. Poi apparve un gruppo di gente, e dovevo o rallentare o farmi vedere: l'ultima cosa che volevo fare. Mi morsicai il labbro, guardai in tutte le direzioni, mi fermai, tirai parecchi respiri profondi. Poi cominciò a farsi avanti qualcosa di Engel, ed era meglio... Però. Chi avrebbe pensato Engel capace di comportarsi così bene come aveva fatto? Un clarinettista di una certa età, un tipo tranquillo, pacifico. Ora soltanto io/lui/noi sapevamo ciò che c'era stato dentro di lui, e io già diverso, per non essere mai ancora lo stesso, cambiando ancora, conscio dei processi che scorrevano come mercurio dentro di me, impossibile fer-
marli, pesanti, veloci, fluidi, che davano forza, fermezza... Però, eravamo più resistenti di quanto avessi pensato. Era solo stato che il motore aveva dovuto tossire prima di cominciare a funzionare pienamente. Ora eravamo quasi giunti alla meta e io, Paul Karab, ero il punto di connessione... Era iniziato tutto in modo poco raccomandabile, forse un poco ignobile, ma ora era diventata una missione. Avevo fatto le cose giuste per le ragioni sbagliate. ... Paul Karab ragionevolmente sano, trentacinquenne, Rappresentante del Soggiorno, Ala 1, il membro più giovane del Personale della Famiglia, che fuggiva spaventato. Ora il fattore-paura era diminuito considerevolmente (soltanto ora), ora che Engel/Lange era qui. Sempre meglio per il momento. Tutti i delitti mi avevano gettato in preda al panico, ciascuno più del precedente. In ogni occasione ero morto e mi ero riavuto in uno stato peggiore di prima. Ero stato pronto a cominciare a correre fin dal momento della connessione, ma era servito a darmi stabilità. Poi, quando Serafis e Davis l'avevano capito, la ragione era andata in fumo. Sentivo che anche la mia posizione, con tutte le sue difese, non era a prova di questo tipo di attacco, un attacco che chiaramente era un tentativo ben studiato per distruggere l'intera famiglia. Non avevo avuto la curiosità di Lange, né il rancore di Engel. Sarebbero arrivati in seguito, ne ero certo, ma il panico aveva sopraffatto questi importanti fattori di sopravvivenza. Me ne vergognai, ma solo per un attimo. Era servito per un fine utile, e io non ero più l'individuo che ne era stato sopraffatto. Osservai il procedere lento della gente in lutto che seguiva la bara sulla striscia. Il pastore camminava in testa a loro, andando al passo con la bara, leggendo le ultime preghiere. Da dove mi trovavo io, riuscivo a vedere la zona dove era stata celebrata la funzione religiosa, ma vari divisori e mobili mi impedivano di vedere la porta nera verso cui erano diretti. L'ovvia analogia arrivò e fece il nido nella mia mente, chiocciando con le sue piume scure, veloce: il Paul Karab che avevo conosciuto per tutta la vita era morto, metà della famiglia era morta, l'intero nostro modo di vivere forse stava tirando gli ultimi respiri. No. Non l'avrei permesso. La mia determinazione mi sorprese, ma c'era. Sapevo quello che avrei fatto, quello che dovevo fare. Senza aver preso una decisione cosciente, io
lo sapevo davvero. Gli altri potevano disapprovare. Ma poi, considerando le circostanze, sarebbero potuti essere d'accordo. In ogni caso era una scelta che spettava a me. La Cappella era, come sempre, un mosaico di luci e ombre. Mi mossi diagonalmente alla mia sinistra, passando dall'ingresso a una parte buia. Guardandomi in giro, mi lasciai cadere a terra ed entrai strisciando, non volendo attivare la cellula luminosa che avrebbe acceso una delicata illuminazione, l'odore dell'incenso, la musica dolce e le luci sull'altare. Scivolai su un banco e mi sedetti in disparte, in modo da poter guardare indietro verso l'uscita e tener d'occhio il corteo funebre. Avevo bisogno di una sigaretta, ma provai una specie di imbarazzo all'idea di accenderne una lì dentro, così non lo feci. Da dove ero seduto, potevo vedere la porta nera: l'entrata all'eternità, all'oltretomba, alla vita futura, a qualsiasi cosa. La striscia terminava proprio di fronte alla porta, riavvolgendosi sui rulli proprio in quel punto. Quando il corteo funebre avanzò, coi volti tesi, gli abiti scuri, lento, un rappresentante del direttore dei funerali si portò avanti e iniziò una sequenza d'apertura sulla piattaforma posta in quel luogo buio. Silenziosamente, la porta si aprì verso l'interno e la cassa da morto vi fu fatta passare, seguita da numerose corone di fiori artificiali (naturalmente non potevo esserne sicuro dal posto in cui ero seduto, ma una così grande abbondanza di fiori veri sarebbe costata una fortuna, circostanza smentita dall'esiguità del corteo) e, poiché il binario si inclinava poi a una giusta angolatura verso il basso ed era fornito di rulli, tutto quanto svanì lentamente dalla visuale. Poi la porta si chiuse, furono dette alcune parole conclusive dal pastore e la gente si girò e lentamente se ne andò, alcuni parlottando, altri in silenzio. Li osservai andarsene, attesi forse dieci minuti finché la zona non fu oscurata, aspettai altri dieci minuti. Poi mi alzai, attraversai, strisciai fuori. Quiete, silenzio... Anche la striscia dei funerali era stata fermata. La più vicina zona illuminata era a considerevole distanza, abbastanza lontana da non permettermi nemmeno di udire la musica. Avanzai, salii sulla striscia. Per qualche motivo, mi sporsi in fuori e la toccai, facendo scorrere la mano lungo di essa mentre la percorrevo lungo il lato verso la parete. Sensibilità tattile? Pensai a Glenda. Che cosa stava facendo in questo momento? Dov'era? Si era messa in contatto con la polizia, o era semplicemente fuggita? Finalmente calmo, i miei pensieri tornarono a quegli ultimi momenti che, fino ad allora, mi avevano ossessionato.
Che cosa stava dicendo in ultimo, là? Non le solite sciocchezze isteriche che ci si sarebbe aspettati da una giovane donna di fronte a una morte improvvisa e violenta. No, non mi sembrava proprio. Aveva ripetuto un indirizzo e mi aveva detto quanto fosse importante. Se questa però non era una forma d'isterismo, l'alternativa era sconcertante. Che uso poteva fare di quell'informazione un uomo moribondo, a meno che si trattasse di me? Ma lei non poteva saperlo. Non riuscivo a pensare a nessun modo per cui avrebbe potuto saperlo. ... O qualcun altro, per quello. Cioè, il signor Black. ... Che a quanto pare lei aveva riconosciuto. Tornando un po' più indietro, il nostro incontro era stato piuttosto insolito... Avrei dovuto scoprirlo, naturalmente. Qualunque cosa avesse potuto avere un qualche rapporto con l'attuale situazione spiacevole era d'importanza vitale. ... E la sua insistenza apparentemente irrazionale nel volermi accompagnare. Sì, avrei dovuto indagare sulla, faccenda. Molto presto. Attraversai la striscia, mi mossi parallelamente a essa, mi avvicinai alla porta nera. Dovevo stare sul lato destro per raggiungere la piattaforma. Quando arrivai alla porta nera, mi fermai, la strada mediante la quale i morti lasciano la Casa, l'unico modo in cui chiunque abbandona la Casa. Era di una lega leggera, di circa un metro e ottanta per due e mezzo, e nella penombra sembrava più una macchia o un buco che un oggetto. Manipolai la piattaforma ed essa si aprì silenziosamente. Ancora più buio. Anche stando dove ero io era difficile dire che ora era aperta. Il che mi andava bene. Salii sulla striscia e l'attraversai, piegandomi all'indietro per mantenere l'equilibrio e tenere una mano sulla parete liscia. Poi afferrai la porta e la tirai verso di me, facendola girare sui cardini, e la chiusi. Non si sarebbe aperta davvero finché io non avessi azionato il meccanismo, ma si sarebbe aperta se fosse arrivato qualcuno nei prossimi minuti. Camminai ancora carponi e. strisciai a ritroso lungo la galleria. Era lunga soltanto una dozzina di metri. Quando raggiunsi la parete posteriore, mi alzai, mi ci appoggiai e feci scorrere le dita sulla sua superficie, cercando la cassetta della manutenzione. Ci volle solo un attimo per trovarla e aprirne il coperchio. Quando lo feci, si accese la sua piccola luce interna e una volta di più riuscii a vedere
quello che stavo facendo. L'apparecchiatura non richiedeva quasi mai riparazioni, e ciò che feci allora non era riportato dal manuale di servizio. Comunque, non c'era nessuna ragione perché qualcuno sprecasse il suo tempo con le coordinate di trasmissione che spedivano i morti nel loro viaggio sotterraneo senza ritorno tra le stelle. Nessuno, tranne uno di noi, cioè. Terminai, richiusi il pannello e attesi. Ci sarebbe stato un intervallo di quindici secondi prima che funzionasse. Poi si sarebbe regolato di nuovo sulle sue vecchie coordinate. Da qualche parte dietro e sopra di me udii la porta scattare debolmente. Bene. C'era qualcosa che si supponeva io ricordassi... Fui improvvisamente gettato a terra. Mi aggrappai con le mani, scivolai sul fianco e mi rimisi in piedi di nuovo. Sì, si supponeva che ricordassi che, mentre stavo in piedi su una pendenza nel tunnel, la superficie alla quale mi stavo trasferendo non era così inclinata. Poi, tutt'intorno a me ci fu la luce. Era un corridoio breve e illuminato, con le pareti così luminose e abbaglianti che mi ferirono gli occhi. Quando mi riparai lo sguardo e mi mossi lungo il corridoio, la mia persona venne analizzata a centinaia, forse migliaia, di livelli da congegni nascosti che avrebbero permesso a una sola persona di passare attraverso la porta in fondo al corridoio. Quando mi avvicinai, la porta si aprì dal basso in alto, e io feci eco al suo sibilo mentre la varcavo ed entravo nell'Ala Zero. La sensazione di sollievo, di liberazione, fu intensa e immediata. Ero arrivato a casa. Ero salvo. Il nemico non mi poteva raggiungere qui. Seguii la curvatura a sinistra del corridoio tappezzato in rosso, muovendomi intorno al punto centrale della fortezza, passando le alte volte sigillate del Laboratorio, della Composizione, del Magazzino e dell'Archivio. Mentre camminavo mi stupii dello stato mentale che aveva mosso qualche precedente versione di me stesso a dargli dei nomi così prosaici, considerando ciò che realmente contenevano. Sardonico, penso. Proseguii lungo tutto ciò ed entrai nello studio o salotto che alla fine si apriva alla mia destra. Appena vi entrai, si accesero le luci e io le spensi con una manata, essendo sufficiente l'illuminazione proveniente dal corridoio. Era una stanza piccola dalle pareti chiare, con tappeti scuri, arredata con una scrivania, due poltrone, un divano con le estremità a tavolo, una libreria in vetro. Ogni cosa era proprio come me la ricordavo. L'attraversai fino alla parete vuota, girai il pulsante sul bracciolo della
poltrona, e la resi trasparente. Fuori era notte, e una grossa luna arancione era sospesa sopra le bianche colline di pietra circa mezzo chilometro alla mia sinistra, dando loro l'aspetto di una mandibola piena di denti rotti. Dall'altra parte, le rocce scure e levigate come se ci fosse piovuto sopra da poco. C'era in distanza un banco di nubi pallide che si allontanavano e sopra una scintillante moltitudine di stelle. Un indicatore esterno alla mia destra segnava la temperatura esterna a poco più di 13°C. Mi tirai indietro, girai una poltrona per mettermi davanti al panorama e mi sedetti. Sempre guardando fuori, trovai una sigaretta, l'accesi, fumai. Non importava quanto la situazione fosse urgente, dovevo godermi questo momento, questa sigaretta, questa vista dell'esterno, prima di fare il prossimo passo. Dovevo essere in un tranquillo stato mentale prima di poter procedere. Sarebbe stato diverso. Ciò che ne conseguiva era che avrei dovuto violare parecchie direttive per seguirne un'altra. Era una questione di opinioni. Se ora dovevamo fonderci, credevo che ci sarebbero state parecchie discussioni, ma io ero il punto di connessione, l'unico erede delle ultime esperienze di Engel e l'unico in posizione tale da poter agire. Spettava a me prendere una decisione e io l'avevo presa. Bravo! Finalmente abbiamo qualcuno con un po' di buon senso al posto di guida! «Non toccava per niente a te, vecchio», dissi. Certo che toccava a me! «Bene, non ho intenzione di discuterne con te. Ora fa poca differenza, e indubbiamente non ne farà nessuna tra poco.» Forse. «Che cosa intendi dire con 'forse'?» Aspettiamo e vedremo ...tra poco. «Non hai nessuna idea migliore di me su quanto accadrà. Be', non molto migliore.» Penso che tu abbia ragione. Vogliamo andare a scoprirlo? «Hai aspettato tutto questo tempo. Dannazione, puoi ben aspettare che finisca la sigaretta.» D'accordo. Goditi le tue meditazioni. Non capisci nemmeno che cosa stai guardando. «Perché tu, invece?» Più di te.
«Lo vedremo.» Sì. La notte era sufficientemente luminosa perché io scorgessi parecchi grandi crateri in distanza, con i contorni ammorbiditi dalla lenta crescita di vegetazione scura. Guardando insistentemente, riuscivo anche a distinguere i contorni della costruzione grande, distrutta, simile a una fortezza, ai piedi della collina. Il panorama mi affascinava. Forse avrei appreso qualcosa di più in proposito... Abbastanza! C'erano così tante cose! Quelle rovine... Quante centinaia di volte le avevo viste? Attraverso quanti occhi? Alzandomi, spensi la sigaretta in un portacenere lì vicino, mi voltai, e lasciai la stanza. La mia eccitazione era forte ora che raggiunsi la volta dell'Archivio. Iniziai la manipolazione delicata, complicata e potenzialmente fatale del suo meccanismo di chiusura: Un quarto d'ora dopo, lo aprii. Entrai e si accesero le luci. Parecchi minuti più tardi, la porta si richiuse dietro di me. La stanza misurava circa dodici metri per diciotto. La parete posteriore era concava, e incurvata intorno alla zona operativa, che era sollevata dal pavimento di circa trenta centimetri. Un calcolatore alto un metro correva lungo la parete intera, sporgendo di un'ottantina di centimetri. Montate sopra di esso c'erano file e file di dispositivi di controllo, che si estendevano in fuori come ali dal tavolo centrale e dalla sua mensola. La massiccia poltrona di controllo era ruotata nella mia direzione, come se mi aspettasse. Mi tolsi la giacca mentre andavo avanti, la piegai, la posai su un ripiano. Poi mi sedetti, mi voltai verso la mensola e mi misi all'opera. Ci vollero circa dieci minuti di preparazione, tra il controllare i sistemi e attivare le subunità nella loro giusta successione. Ne fui contento, perché l'attività impegnò completamente la mia attenzione per un po' di tempo. Alla fine comunque le luci furono schierate nell'ordine giusto, ed era ora di iniziare. Aprii l'armadietto alla mia sinistra, feci ruotare in fuori la calotta sul suo lungo e pesante braccio. Controllai anch'essa rapidamente. Perfetta. Me la accomodai sulla testa, abbassandola finché mi arrivò sopra le spalle. C'era un'apertura intorno agli occhi che mi permetteva di vedere quello che stavo facendo. Attivai il meccanismo che la metteva in funzione. Ci fu una vibrazione quando i suoi meccanismi interni ruotarono per allinearsi con qualunque parte stimassero saliente dalla mia struttura cranica.
Poi ci fu una tensione quando i cuscinetti mi si piazzarono contro il cranio. Seguì una piccola scossa e alcune piccole dosi di vapore umido. L'anestetico. Quando mi fu frizionato sulla pelle, i capelli ne bloccarono un po'. Comunque andava tutto bene. Non volevo rasarmi o portare una parrucca. Riuscivo a sopportare un po' di scossa lungo il collo. Suppongo che nessuno goda nel contemplare la violazione del suo intimo, tanto meno all'interno del suo cranio. Quali che siano la conoscenza e l'esperienza di un individuo, pensare ai sentimenti dà una certa emozione. Non è nemmeno necessario che vi siano effettivamente dei sentimenti. Entro un brevissimo spazio di tempo, comunque, l'indicatore blu si accese davanti a me e io mi resi conto che tutti i filamenti necessari erano riusciti a penetrarmi senza dolore nel cuoio capelluto, nel cranio, nella dura madre, nell'aracnoide e nella pia madre, si erano diretti in appropriate zone del cervello e si erano disposti in una rete in grado di eseguire il lavoro necessario. E io stavo ancora mordicchiandomi il labbro inferiore. In questo modo veniamo liberati dal proencefalo. La macchina era pronta. Ora era il momento della procedura standard impiegata per ogni nuova connessione. Ora era il momento per me di tornare indietro attraverso la mia/nostra mente e di cancellare sistematicamente tutte quelle parti di Lange e di Engel che sentivo in conflitto con la mia personalità e di estirpare i loro ricordi riguardanti cose anteriori al mio tempo. Ora era il momento del sacrificio, del suicidio parziale, di disfarsi del bagaglio eccedente, di quelle cose che servivano solo a confondere la mente, a creare conflitti, a rendere meno tollerabile la vita. Poiché nessuno sa quanto la mente umana possa contenere, a un certo punto decidemmo di non alterarne i confini. Credevo che quella fosse la ragione, a un certo momento, indietro nel sogno, era stata presa la decisione. Per quanto ne sapevo, avevamo sempre proceduto sulla base di questo fondamento logico e, poiché la famiglia esisteva ancora, si era sempre dimostrata efficace. Naturalmente finora. Adesso era il momento che Lange ed Engel se ne andassero, per diventare, forse, complessi autonomi, o demoni personali nell'oltretomba del mio subcosciente. Ora, comunque, la minaccia alla nostra esistenza occupava il posto principale nella mia mente, e volevo essere più grande, non più piccolo, sapere più cose, non meno. Conservata nella memoria e segnata da un ordine da non cancellare, vi era l'idea che, come procedura d'emergenza in un momento di grande pericolo, i morti potevano venir resuscitati. Non credevo che fosse mai stata impiegata, e naturalmente non avevo alcuna idea di
quali potessero esserne i risultati. Che si sarebbe trattato più che di ricordi, però, era ovvio. Tuttavia, mi sentivo un me stesso molto preciso e molto reale, nonostante fossi in parte Lange e in parte Engel. La situazione giustificava un'azione drastica. Divenni molto cosciente del battito del mio cuore quando rivolsi l'attenzione al pannello con le sette leve e gli spazi per molte altre. Ogni leva, la vita di un punto di connessione; ognuna, una generazione della nostra specie infilzata come una farfalla invisibile... Il palmo della mia mano era umido quando mi sporsi in avanti. Una leva veniva inserita nel pannello principale ogni volta che veniva completato il processo di cancellazione. Tirarne una significava annullare il lavoro di un predecessore, fare in modo che il suo predecessore vivesse ancora dentro di me. Che cosa dovevo fare? Ritenevo di essere qui per inserire la leva otto. La mano cominciò a tremarmi. Era sbagliato! Era ridicolo anche pensare... La mano mi divenne ferma, continuò a muoversi in avanti. Tentai, ma non riuscii a fermarla. Stetti a guardare come incantato quando si mosse attraverso il pannello, si fermò sopra al suo bersaglio e tirò la leva sette. 5 Non ero del tutto certo di che cosa mi aspettassi. Un clangore di cimbali? Uno spaccamento mentale, seguito da stato di incoscienza? Qualcosa di drammatico, penso. Comunque, più che altro era come svegliarsi alla mattina, con i ricordi del giorno precedente che gradualmente si sollevano sopra l'orizzonte. Un semplice schiarimento delle idee, che rivela ciò che è accaduto. Una galleria di ritratti di famiglia. Vecchio Lange... Naturalmente. Era stato un esempio in cui ci eravamo comportati come se fossimo nostro figlio. Fu solo per caso che la connessione passò da un'identità-Lange a un'altra. E ce n'erano stati altri nella fusione, per lungo tempo dimenticati, ma con me ancora una volta, come se non se ne fossero mai andati. Io ora ero il demone che ci stava guidando. Io ero Engel, Lange, Lange il Vecchio e quello che il Lange maggiore aveva conservato del suo prede-
cessore, una strana mente che qualche minuto prima avrei quasi definito aliena: Winton. Ma considerandolo come lo aveva visto il suo successore, adatto a proteggerlo, non sembrava poi così diverso. Di che cosa si trattava? Che cosa stava succedendo? Il cumulo dei miei ricordi ora tornava indietro di più di un secolo, ma era più di una questione di tempo e di quantità. Il senso di diversità che accompagnava la nuova validità di tutta questa esperienza era... qualitativo. Sì, proprio così. E che cosa era la qualità? È qualcosa che non sei in grado di apprezzare realmente nel tuo stato attuale. Potente. Ecco. Lui. Winton. Per un attimo, fui troppo stordito per rispondere. La consapevolezza era sempre stata presente, ma non mi ero preso la briga di considerarla: cioè che nel liberare il demone di Lange e assorbendolo, avrei cozzato contro la barriera più vecchia e precedente, con il demone che prima non avevo ritenuto per nulla in grado di influenzarmi. Avevi bisogno di ciò che ora hai, stava dicendo, come punto di partenza. Sei più intelligente e più forte per ciò che hai ottenuto, ma non basta contro il signor Black. Per capire, e per avere la possibilità di fare qualcosa al riguardo, sarà necessario tirare la leva sei. Fallo adesso. Deciso. E forte. Lo era. Nella sua insistenza. Fu quello che mi fece prendere la decisione. Avevo bisogno di quella determinazione, di quella forza. Ecco perché, prima di poter pensare a un'opposizione, mossi la mano di parecchi centimetri verso l'alto in diagonale e tirai la leva sei. Sì! Sì, quando la nebbia svanì e la memoria mi ritornò per forse un secolo e mezzo, non fu soltanto il ricordare grandi quantità di esperienze che mi commosse. I ricordi stessi, tuttavia, erano simili a un sogno e non particolarmente carichi di emozioni. Fu una tensione, un indurimento del carattere che arrivò dentro di me, che mi rassicurò a proposito della mia capacità di maneggiare la situazione attuale. E più, più ancora... Avevo a mala pena cominciato a classificare le mie reazioni, a considerare solamente il fatto che le aveva provocate, quando Birnam Wood iniziò a scalpitare, per così dire. La sensazione. Dio, la sensazione... Era come se acque di piena scaturissero improvvisamente dietro una diga antica. Ne sentivo la spinta, senza essere sicuro che avrei potuto resistere. Sì, eri debole e sei stato rinforzato. Ma adesso non è ancora il momento di fermarsi. Pensaci un momento. Ora ti occorrono tutte le armi di cui puoi disporre. Affronterai un nemico che è anche forte. Per questa ragione
devi essere più completamente te stesso. Tira la leva cinque e ricostruiscimi dentro di te. Ti mostrerò come comportarti col signor Black. «No», dissi. «Aspetta», ripetei. «Aspetta...» Non c'è tempo. La posizione di Black diventa più. forte ogni minuto di ritardo da parte tua. Non scartare lo strumento che può tagliare il diamante, non gettar via la chiave di volta. Avrai bisogno di me. Tira la leva cinque. La mano si mosse verso di essa, ma temevo di essere già andato troppo in là. Non c'era modo di giudicare l'energia dell'entità che poi mi avrebbe esortato a tirare la leva quattro, e poi la tre: e così di seguito, fino all'inizio, demolendo l'edificio eretto faticosamente, annullando secoli di sforzo collettivo per raggiungere un'evoluzione morale. Condivido i tuoi sentimenti, sono d'accordo con i tuoi principi. Però sono tutti inutili, se non sei più in grado di assecondarli. Ti serve la mia conoscenza dei rimedi specifici per difenderti in modo adeguato. Dunque, già che hai fatto trenta... Tira la leva cinque! Ora! I muscoli del braccio cominciarono a farmi male. Le dita erano piegate e rigide, come artigli. «No!» mi rifiutai. «Cristo! No!» Devi! La mano sobbalzò, le punte delle dita toccarono la leva. Ero andato troppo in là e troppo in fretta. Ogni sezione della mente era ben lontana dall'equilibrio. Poteva aver ragione Jordan (improvvisamente seppi che questo era il suo nome). Poteva aver ragione. Ma non avevo intenzione di ricevere pressioni da lui. Non ero nemmeno certo di che cosa fossi appena diventato. Liberare un altro sconosciuto dentro di me sarebbe stata una vera pazzia. È naturale che tu sia incerto. Ma devi anche renderti conto che la tua esitazione mette in pericolo gli altri, anche la ragazza... «Aspetta!» Poi arrivò la collera, implacabile. Io, James Winton, l'avevo cancellato, sacrificato, ucciso con la mia volontà. Ora questa feccia meschina, questo me stesso limitato, stava tentando di darmi degli ordini! Lentamente, la mano destra mi si chiuse a pugno. Poi la sbattei con violenza contro la sommità del calcolatore. «No!» dissi. «Ho quello che mi occorre.» Sei pazzo! Alzai la mano, con molta decisione, e premetti il pollice sulla leva cin-
que. Silenzio. Cercando di non pensare a niente, di non avere pensieri né sensazioni, mi spostai verso una leva motrice di attivazione e iniziai il processo per liberarmi dell'equipaggiamento. Finalmente, la pressione mi si allentò sulla testa e le luci indicarono che potevo togliere il cappuccio. Lo feci, rimettendolo nel suo armadietto, poi fermai tutte le macchine e mi allontanai dall'Archivio, chiudendo accuratamente la porta dietro di me. Mi diressi lungo il corridoio verso la Composizione e lì cominciai la procedura di apertura. Poi tornai nel mio studiolo, perché il meccanismo di serratura a tempo della Composizione impiegava un po' più di dieci minuti a funzionare. Mi lasciai cadere nella poltrona, accesi un'altra sigaretta e guardai fuori nella notte. La luna aveva viaggiato un bel po' nel breve tempo che io ero stato via. I disegni d'ombra si erano spostati attraverso il paesaggio, rivelando i segni dell'antica devastazione e anche di una maggior vegetazione. Il panorama mi era molto più familiare adesso di quanto lo fosse stato prima, benché ancora non capissi la natura di quel disastro. Una guerra, forse? Ora c'era qualcosa di ancora più interessante e sospetto intorno alle rovine ai piedi di quelle colline nude... Le mie meditazioni si interruppero bruscamente mentre guardavo quei ruderi. Era come se ci fosse stato un movimento. Mi alzai e mi affacciai alla finestra. Ancora qualcosa. Un luccichio... Sì, c'era un guizzo di luce dietro le mura crollate. Continuai a osservare, ed esso apparve ancora, parecchie volte. Cercai di cronometrare i lampi, ma non sembravano seguire alcuno schema particolare. Poi ci fu un bagliore, come se il raggio di un faro fosse stato fatto ruotare velocemente nel paesaggio di rovine e fosse caduto direttamente su di me, dove si fermò. Sollevai il braccio per ripararmi gli occhi dalla sua luminosità, e con l'altra mano cercai a tatto il controllo per oscurare la finestra una volta ancora. Poi mi sprofondai nella poltrona, in parte sorpreso del fatto di non essere particolarmente sconcertato dal fenomeno. Questa sensazione passò in fretta. In realtà non vi era nulla di strano in quella luce. Era stata soggetta a simili esplosioni periodiche per generazioni. Me ne ero appena dimenticato o, piuttosto, appena ricordato. Sì, sembrava qualcosa di meccanico che venisse occasionalmente disturbato, che subisse un breve attacco di attività, e
tornasse ancora allo stato di quiete. Uno dei fatti irrilevanti dell'esistenza. O lo era? Oh, per l'inferno! Avevo faccende più urgenti che esigevano la mia attenzione. Come, chi ero io? Mi resi conto di non essere più lo stesso individuo che era arrivato all'Ala Zero. E non era una perdita, ma un guadagno. Ecco come mi sentivo. Ma in che cosa consisteva il guadagno? Mi sentivo più Winton che Karab, per essere sincero. Ma era come se in realtà fosse sempre stato così, e l'altro non fosse che una fase temporanea, un laboratorio vivente che avevo impiegato per condurre certi esperimenti. E ora gravava su di me la necessità di abbandonare questa ricerca per un po' di tempo, per trattare questioni più importanti che erano sorte a preoccuparmi. Dio! come mi ero permesso di diventare ingenuo! Risi dei miei io affettati degli ultimi tempi. Delle loro paure. Dei loro scrupoli. Sulle spalle di chi pensavano di stare? Chi aveva dato loro il diritto di permettersi di essere schizzinosi? Chi aveva fornito loro l'opportunità di mettere in pratica i loro istinti superiori, come una banda di anonimi filantropi e benefattori della Casa? Nella generazione attuale, l'epoca di Lange, avevano fermato una piaga, evitato che parecchi disastri su larga scala fossero peggiori di quello che furono, promosso molte attività produttive nella ricerca medica, scoraggiato tre programmi di inchiesta scientifica che avrebbero potuto portare in una direzione indesiderabile, guidato i computer e gli uomini politici verso molte decisioni valide riguardanti il controllo della popolazione, il surrogato dell'aggressività e le zone di rilievo nell'educazione, avevano contribuito allo sviluppo di nuovi divertimenti, avevano visto l'indice di criminalità diminuire ulteriormente e avevano assistito numerosi gruppi e individui in tempi difficili. Ma perché avevano avuto questa opportunità di permettersi quello che ad alcuni poteva sembrare un'intromissione invadente, ad altri altruismo? La loro strada era stata lastricata di pensieri, sudore, sacrifici e non poco sangue. D'altra parte, ne era valsa la pena. Strano, pensare a me stesso simultaneamente da due prospettive temporali. Ma essi stavano fondendosi, fondendosi proprio come pensavo, e quindi me ne sentii considerevolmente arricchito. La prospettiva di Jordan sarebbe stata anche più ampia, lo sapevo. Possedevo alcuni dei suoi ricordi, e sapevo che era tornato indietro di un bel po' di tempo. Forse ero stato avventato nel trattare con lui... No! Da qualche parte si doveva segnare la linea di demarcazione. Quello che possedevo adesso sembrava sufficiente. C'era una ragione concreta e
importante per tutto ciò che facevamo, lo sapevo. Non avevo bisogno di tutti i rimedi specifici. Basandomi sulla mia attuale conoscenza di me stesso, avevo fiducia in tutte le mie decisioni precedenti. Credevo di non aver mai ucciso arbitrariamente, di aver avuto una ragione per ciascun suicidio parziale. Distruggere ogni cosa come esercizio di curiosità accademica sarebbe stato un atto di follia. Cominciò a ronzarmi la testa, riportandomi i pensieri a considerazioni più immediate. Mi alzai in piedi. La serratura della Composizione avrebbe dovuto essere quasi pronta per un'ulteriore manipolazione. Mi massaggiai delicatamente la testa mentre ripercorrevo il corridoio. Mi chiedevo di Gene, di Jenkins e di Winkel. Erano ancora vivi ed era ciò che realmente importava. Non avrebbero dovuto trovarsi in pericolo immediato, perché avevo lasciato il signor Black fuori gioco da qualche parte; ed essi avevano tutti avuto quello che sembrava il tempo sufficiente per stimolare il loro istinto di sopravvivenza e per alzare alcune difese. Non vedevo nessun bisogno di contattarli, finché non avessi avuto qualcosa da dire loro, cosa che non sarebbe ancora accaduta per un po'. Dovevo aspettare un po' di tempo prima di poter entrare nella Composizione, tempo che passai rompendomi la testa su Glenda. Era abbastanza evidente dai suoi commenti di commiato che sapeva qualcosa di me. Ciò che sapeva non era affatto così importante per me quanto il come era venuta a saperlo. E sapeva qualcosa del mio vecchio nemico, che in questi tempi si faceva chiamare signor Black. Se non altro per questo motivo, Glenda avrebbe occupato il primo posto nella mia lista di precedenza. Il meccanismo giunse al punto finale di attivazione, completai la sequenza, aprii la porta ed entrai. La disposizione della stanza era simile a quella dell'Archivio, solo proiettata su scala un po' più grande. Anche qui, le attrezzature, sebbene di varietà diversa, riempivano la parete opposta, e la poltrona di controllo, situata più in là sulla sinistra, era dello stesso tipo comodo dell'altra. Chiusi la porta dietro di me e mi ci avviai. Attivai il Bandito. Buffo, il mio soprannome per questa macchina era stato abbandonato in qualche tempo, per essere sostituito dall'attenuazione semplice e blanda: Composizione. Comunque era più che un espediente calcolato. Era anche un modo per ottenere i dati. Il fatto che le sue operazioni non fossero mai state scoperte era in un certo senso un tributo alla capacità del suo creatore senza nome, che lo aveva fornito di un accesso segreto alle principali banche di dati dell'Ala 1. E di più, ancora di più. In
caso di necessità, poteva controllare, calcolare i punti migliori di effrazione e introdurre nuovo materiale. Composizione, indubbiamente! Quindi lo sistemai in modo che cercasse il signor Black. Le mie speranze non erano eccessive, ma dovevo tentare. In questi ultimi tempi poteva aver commesso qualche errore. Avevo su di lui uno schedario abbastanza vasto, già digerito nelle brillanti interiora del Bandito, e a questo attingeva per la sua ricerca. Era stato fatto un errore, quantunque incomprensibile, nello sradicare questa porzione della nostra memoria. La cancellazione era probabilmente avvenuta perché sembrava proprio che la faccenda fosse stata conclusa definitivamente, e il ricordo cosciente della violenza non era una cosa desiderabile per i miei discendenti accuratamente civilizzati. Comunque, ciò provocò il mio errore, per procura. Così, dovevo capire e perdonare, maledizione! Impostai il Bandito perché mi trovasse la storia di Glenda, e dei suoi movimenti registrati più recentemente. Feci anche ricerche statistiche vitali su Hinkley, Lange, Davis, Serafis ed Engel, per vedere se qualcuna delle morti era già stata denunciata. Poi l'allarme cominciò a suonare e mi ritrovai in un istante pieno di adrenalina e in piedi. Mi mossi verso un pannello alla mia sinistra, accesi uno schermo e attivai un arsenale dopo aver fatto passare le denunce di morte dal controllo automatico a quello manuale. Fui deluso quando vidi che gli arrivi erano Winkel e una cassa da morto. Una cellula registrò la massa indicando lo stato non vivente del contenuto della bara: quindi la cassa conteneva presumibilmente ciò che era rimasto di Lange. Sorrisi della mia delusione. Sarei dovuto essere felice che Winkel, di tutti noi, fosse riuscito in ciò che aveva deciso di fare. Invece, ero un po' seccato che non si trattasse del signor Black che tentava di nuovo. Avrebbe scoperto presto che mi mancavano alcuni degli scrupoli dei miei fratelli. Tra l'altro, quei due perni avevano rappresentato le inibizioni di più di un secolo. Fino ad allora, aveva avuto soltanto piccioni d'argilla a cui sparare. Era quasi tempo che incontrasse un vampiro idrofobo. Speravo solo di poter avere il tempo, prima della fine, di dirgli che si trattava ancora di Winton. Spensi l'allarme e azionai un altoparlante. «Benvenuto, Winkel», dissi. «Sarò lì ad aiutarti fra un minuto. Sono nella Composizione.» «Karab», disse davanti allo schermo, una versione trentenne, più affabi-
le, di me stesso. «Ero preoccupato. Quando non hai fatto la fusione...» «Calmati. Stiamo facendo progressi.» Spensi lo schermo e l'altoparlante, aprii un cassetto, ne tolsi una piccola rivoltella, la controllai e la caricai, me la ficcai in tasca. Non so bene perché. Una sopravvivenza delle vecchie abitudini, penso. Non poteva certo trattarsi della mia incapacità di fidarmi di chiunque, perfino (e ghignai al pensiero) di me stesso. Quindi me ne andai, non essendovi alcuna difficoltà ad aprire la porta dall'interno, e provai ben poco rimorso di coscienza nel non richiuderla dietro di me, tanto era laboriosa la routine abituale. All'inferno il signor Black, comunque! Era lui la ragione dell'intera procedura, quella volta che era effettivamente andato all'Ala Zero ed era stato sorpreso solo per caso. Se l'avessi agguantato allora, la vita sarebbe stata tanto più semplice. Risalii il corridoio, passai attraverso le difese d'entrata e annuii a Winkel, che stava in piedi con aria tesa di fianco alla bara. «Bene», dissi, «facciamoci coraggio e andiamo nel Magazzino. Abbiamo una quantità di cose da fare». Annuì, afferrammo la roba e la trasportammo fuori. «Temevo che tu non fossi qui», osservò mentre andavamo. «I tuoi timori erano ovviamente infondati.» «Sì», ammise, e qualche momento dopo depositammo la cassa fuori della volta del Magazzino e io stavo rivolgendo l'attenzione alla serratura. «Sembra una pistola quella che hai in tasca», osservò. «Lo è.» «Non ha l'aria di essere una pistola tranquillante. Sembra una dell'altro tipo.» «Infatti.» «A che cosa ti serve?» «Pensaci un momento», dissi, mentre maneggiavo il meccanismo di chiusura. Vi lavorai fino allo scatto del congegno a tempo, poi mi raddrizzai e voltai a destra la testa. «Vieni alla Composizione. Devo controllare alcune cose mentre aspettiamo.» Mi seguì, ma si fermò di colpo quando ci avvicinammo alla porta. «Non è chiusa!» disse. «È vero. Il tempo ora è molto importante», replicai, spalancandola. Mi seguì all'interno, non dicendo nulla mentre mi dirigevo al Bandito
per conoscere le risposte alle mie domande. Come avevo sospettato, il signor Black si era coperto bene. Non c'era nulla su di lui, malgrado tutto. Il Bandito avrebbe continuato nella ricerca, naturalmente, cercando, sempre più lontano, delle indicazioni su quell'uomo. Notai che nessuna delle nostre morti era ancora stata registrata. Probabilmente il caso di Hinkley era un bel pasticcio e non si era ancora chiarito chi vi fosse implicato. Ed era troppo presto per avere qualcosa su Engel, anche ammesso che ne fosse stato trovato il corpo (cosa che non sarebbe potuta essere). ... No davvero, decisi, mentre cominciavo a scorrere i dati su Glenda. Il signor Black non andava in giro a raccontarlo, e più particolari apprendevo su Glenda, più lei sembrava imprevedibile. «Hai avuto delle difficoltà a portare qui il corpo di Lange?» domandai. «No, nessuna. Non è passato nessuno!» L'allarme suonò ancora. Riaccesi lo schermo e vidi che era Jenkins. Spensi l'allarme, attivai l'altoparlante e dissi: «Salve. Winkel e io siamo nella Stanza della Composizione. Vieni su. Non preoccuparti per Lange». Interruppi il circuito prima che potesse rispondere, un altro ragazzo nervoso della nostra statura e costituzione. Sentii lo sguardo di Winkel e mi voltai a guardarlo. «Sei cambiato», notò. «Moltissimo. Non capisco che cosa sia successo, che cosa stia succedendo. Perché non ti sei fuso con noi dopo essere arrivato qui? Perché non lo fai adesso?» «Pazienza», risposi. «Adesso il tempo è un lusso molto costoso e devo amministrarlo attentamente. Tra non molto spiegherò ogni cosa. Abbi fiducia in me.» Sorrise debolmente e annuì. «Allora sai che cosa devi fare?» Annuii anch'io. «So che cosa devo fare.» Qualche minuto più tardi arrivò Jenkins. Respirava affannosamente e aveva il viso arrossato. «Che cosa succede?» urlò, e sembrava sull'orlo di una crisi isterica. «Che cosa succede?» Winkel si mosse verso di lui, lo afferrò per una spalla e disse: «Calmati, calmati. Karab spiegherà tutto. Sa come comportarsi». Jenkins rabbrividì una volta, poi sembrò calmarsi un poco. Girò la testa e mi fissò. «Lo spero, spero veramente che tu lo sappia», disse riacquistando il controllo della voce e addolcendo il tono, rallentando. «Forse puoi cominciare dicendomi che cosa è accaduto all'Ala Cinque.»
«Che cosa vuoi dire?» chiesi. «Cosa c'è che non va?» «È andata», disse. 6 Dunque, Kendall Glynn, quel povero bastardo, era stato suo padre. Interessante, ma anche triste, strano e scomodo. Scomodo, sia perché non mi fido delle coincidenze, sia perché improvvisamente provai un senso di colpa per il modo in cui si era comportato Lange. Strano, non aveva fatto nulla. L'aveva ritenuto il modo più civile di trattare la situazione perché aborriva la violenza, mentre io avrei semplicemente atteso il momento giusto per ucciderlo da solo. Non che non me ne sarei sentito colpevole, ma sarebbe stato un genere di colpa diverso, un po' più pulito, secondo il mio modo di pensare. Pensavo a lui mentre armeggiavo con la serratura della porta dei Rifornimenti. Jenkins e Winkel erano lontani nel corridoio, nel Magazzino, a lavorare col corpo di Lange per congelarlo. Sembrava utile non solo dar loro qualcosa da fare finché arrivasse Gene e io potessi guidarli tutti insieme come alternativa alla connessione, ma anche far loro toccare effettivamente la realtà della morte. Poteva render loro un po' più facile accettare il da farsi. Era stato circa sedici anni fa, quindi Glenda era troppo giovane per ricordarsene bene. Benché naturalmente ne fosse a conoscenza: troppo e non abbastanza. Io/noi/lui/la connessione avevamo in quei tempi preso possesso del corpo attualmente freddo di Lange, e Kendall Glynn aveva dovuto essere formato. Era stato sufficientemente chiaro in merito alle sue idee per mantenermi sia consapevole sia circospetto per parecchi anni. Per un uomo di minore importanza, non mi sarei preoccupato così. Ma Glynn era più che un maestro di ingegneria. Era uno di quegli artisti-scienziati che compaiono ogni tanto nei secoli per giustificare l'esistenza di quella parola troppo impegnativa che è «genio». I colleghi lo rispettavano, lo invidiavano, lo ammiravano; il suo nome era noto all'uomo della strada come pure all'uomo di laboratorio. Si sposò solo a quaranta passati e divenne padre di Glenda, tuttavia non era particolarmente misantropo, come spesso è il caso di uomini brillanti che trascorrono la prima trentina incompresi. Stava impegnandosi, piuttosto che lottare, a diventare un uomo deciso a distruggere la maggior parte delle antiche tradizioni della società e a riempire il carro di una nuova specie di mele. Era l'ultimo vero rivoluzionario che io avessi
conosciuto, e lo rispettavo. Come per Lange, però, la mia sensazione principale era di apprensione. Quando seppi che le cose erano andate oltre lo stadio dei discorsi, che stava effettivamente preparando una presentazione per il Consiglio, e che aveva avuto, a quanto pareva, appoggi sufficienti da parecchie personalità per ottenere che fosse messo ai voti un suo progetto pilota, gli andai a far visita nella mia persona di Jess Borgen, un vecchio Membro dell'Accademia delle Scienze. Ricordavo bene quel giorno e quel corpo, perché la prostata mi dava parecchio fastidio e avevo dovuto fermarmi più volte sulla strada verso casa sua... Kendall non era il tipo dello studioso allampanato. Era basso e tarchiato, con lineamenti piuttosto irregolari e una zazzera di capelli neri solo leggermente brizzolati sopra le orecchie. La sua caratteristica più straordinaria erano gli occhi; erano enormemente ingranditi da lenti correttive, specialmente il sinistro, e davano l'impressione di osservare quasi tutto, di poter vedere attraverso quasi tutto. Considerando la mia situazione personale, trovavo questo fatto alquanto imbarazzante. Infatti, non fu per motivi soltanto urologici che dopo pochi minuti di conversazione dovetti congedarmi dal suo caos di globi, grafici stellari, tavoli di lavoro, lavagne, modelli modulari per eco-iniezioni, e dalla sua stazione di accesso al computer. Fu perché mi resi conto che si trattava di un uomo che sarebbe potuto essere capace di scoprire la cosa di cui altri avevano solo mormorato casualmente per anni. «Ma i diciotto mondi della Casa sono già approssimativamente di tipo terrestre, altrimenti non avremmo situato su di essi le Ali», aveva detto in risposta alla mia affermazione. «Ma ciascuno rappresenta un ambiente radicalmente unico.» «E lei vuole mandarci la gente prima che siano pronti?» «La gente o i mondi?» e aveva riso. «Entrambi.» «Sì», disse. «Possono restare nei moduli mentre si svolgono le operazioni.» «Ammettendo per un momento che tornerebbe a nostro vantaggio adattare gli eso-ambienti, perché preoccuparsi dello stadio intermedio? Perché non iniziare il lavoro dalla Casa stessa, e quando le cose saranno pronte quelli che vorranno potranno uscire e approfittarne?» «No», replicò. «Ho paura», e la sua voce era molto debole e non guardava più me, ma l'apparato di globi sul tavolo alla sua destra. «Considero la
Casa come un vicolo cieco per l'evoluzione della razza umana», continuò. «Abbiamo creato un ambiente statico, rigido, al quale l'uomo deve adattarsi o esserne sopraffatto. Essendo la creatura resistente e adattabile che è, non ne è stato sopraffatto. Nel giro di soli pochi secoli, è cambiato considerevolmente.» «Sì, ha smussato molti spigoli irregolari, è diventato un essere più razionale, più controllato.» «Quest'ultimo aggettivo non mi piace per niente.» «Intendevo auto-controllato.» Fece un rumore a metà strada fra un ridacchiare soffocato e un paio di sbuffi, e io mi congedai per andare nel suo gabinetto. Parlammo per circa due ore, ma vi era un effettivo punto di contrasto. Non discutevo la possibilità fisica delle sue proposte. Ero sicuro che tutti i mondi in questione potessero davvero essere resi abitabili per l'uomo. Ero anche ragionevolmente soddisfatto che i vari metodi di sopravvivenza che lui aveva progettato per quei pianeti che li avrebbero richiesti sarebbero serviti in modo adeguato a proteggere gli abitanti mentre proseguiva il terraforming. Non avevo nemmeno alcun dubbio sul fatto che l'altro suo progetto favorito, un nuovo programma di esplorazione interstellare su veicoli più veloci della luce, avrebbe portato alla scoperta di nuovi mondi, alcuni dei quali sarebbero potuti andare benissimo per l'uso umano. Se questi progetti si dovessero seguire simultaneamente, come lui desiderava, o soltanto in parte, qualsiasi parte, per me era senza importanza. Il mio interesse reale riguardava la minaccia che rappresentava per la Casa. Non temevo ciò che vi era Là Fuori, ma piuttosto ciò che la disponibilità di Là Fuori avrebbe fatto a quello che vi era Dentro Qui. Era ovvio che i suoi programmi erano su una rotta di collisione con i miei. «Che cos'ha contro la Casa?» gli domandai, come per scherzo, a un certo punto. «È già riuscita a condizionare gran parte di ciò che rimane della razza umana», rispose, «a comportarsi come una mandria di vacche. Un giorno o l'altro arriverà un toro, e quella è la situazione in cui ci troverà». «Devo prendere in esame questo punto», dissi. «La Casa è il primo posto nella storia della razza umana dove la gente è riuscita a vivere insieme in pace. Finalmente imparano a collaborare anziché a competere. Questo lo considero una forza, non una debolezza.» Gli occhi gli si contrassero nelle orbite, guardandomi come se mi vedessero per la prima volta. Poi: «No», disse. «Vengono picchiati in testa se
non collaborano. I loro cervelli sono mescolati alla rinfusa, vengono riempiti di medicine e sottoposti a terapie per adattarli a un modello innaturale se non sono 'pacifici' secondo quello stesso modello. Diventano claustrofili ben programmati. Ma per imparare a vivere insieme nella Casa e ad amarla, temo che stiamo sacrificando la nostra capacità di vivere da qualche altra parte. La Casa non può durare per sempre. La sua fine può anche essere la fine della razza umana». «Ridicolo!» dissi. Avrei potuto dimostrare la durevolezza della Casa. Avrei potuto provare che la dispersione della razza su diciotto mondi separati era un fattore abbastanza forte a favore della sua continuità. Ma entrambi questi argomenti sarebbero stati speciosi. Il mio reale disaccordo con lui consisteva nell'interpretazione di ciò che la Casa stava facendo alla gente. Però non avrei potuto discutere ampiamente questo argomento senza spiegare la mia parte nella faccenda e dargli un'idea a proposito dei miei piani globali. Quindi mi ritirai nel mio ruolo di benpensante e dissi: «Ridicolo!» Con un sorrisetto malizioso del labbro superiore aggirò il mio commento e annuì. «Sì, penso di sì», ammise. «È ridicolo che la situazione abbia fatto in modo da arrivare al punto in cui si trova. Sarebbe stato un po' più incoraggiante in termini di equilibrio razziale se ci fosse un diavolo di teoria storica valida, se qualche persona o gruppo potesse venir scelto come garante di questa pazzia.» Sospirò. «Comunque, spero che potremo imparare qualcosa dai nostri errori, col tempo.» A questo punto mi sentii a disagio, e riuscii a sviare la conversazione sui particolari di molti dei suoi sistemi di perfezionamento. Sfortunatamente, erano tutti molto ben progettati. Conclusi che, eventualmente, non sarebbero almeno andati sprecati. Se soltanto fossi riuscito a scoprire qualche pecca tecnica nel suo lavoro o qualche difetto più grave nei suoi concetti... Invece no. Era stato troppo preciso. Era proprio troppo bravo. Se soltanto non lo fosse stato, avrei potuto screditarlo nel suo campo, avrei potuto fermare così il suo progetto. Se soltanto... Il suo lavoro era sufficientemente interessante da preoccuparmi. Stavo già montando un'opposizione tra i Conservatori del Consiglio e dell'Accademia, ma non ero affatto sicuro che sarei riuscito ad averne pienamente ragione: e sarebbero occorse misure drastiche per evitare che sorgesse ancora a tormentarmi. Quindi, ragionava la mia incarnazione di Lange, vi era una alternativa
per combattere le idee di un uomo. Un controllo di vasta portata da parte del Bandito non riuscì a scoprire niente di piccante e di sfruttabile su di lui. Noioso o riservato, non importava. Non riuscii a trovare la mia arma nel suo passato. Trasalii passando in rivista i pensieri del mio ultimo ego, la sua decisione, il suo agire. Certamente ero cambiato molto in poche generazioni. La settimana seguente, prelevammo cinque bambine dai dintorni, in età dai cinque ai sette anni circa, a un'ora discreta e sicura della loro routine giornaliera. Vennero sottoposte all'ipnosi e vennero loro mostrati dei film di Kendall mentre venivano loro inculcate suggestioni su ciò che lui aveva detto e fatto durante gli ultimi pochi mesi. Si decise che due delle bambine dovessero effettivamente essere state molestate, e l'imene venne rotto chirurgicamente da Serafis e vennero provocate leggere infezioni vaginali. Una si sarebbe fatta avanti con la rivelazione, l'accusa, l'altra l'avrebbe raddoppiata, le rimanenti tre avrebbero fornito storie sul vecchio schifoso con la tasca piena di canditi. In seguito, naturalmente, le bambine sarebbero state curate da adatte autorità mediche e si sarebbe fatto dimenticare loro ciò che credevano realmente accaduto. In questo modo ci saremmo salvati la coscienza collettiva nei riguardi delle bambine. Successe esattamente come avevamo desiderato. Una volta che la notizia venne fuori, Kendall fu rovinato e, di conseguenza, le stelle divennero una parola ancora più sporca. Una volta mandato al lavaggio del cervello, fu definitivamente finito. Ricordavo la sua avversione per le tecniche di regolazione, ma non ci venne mai in mente che potesse essere un autentico caso patologico portato alla violenza, secondo la definizione di Lange, un vero regressivo. Penso che ci saremmo dovuti ricordare della sua risposta alla nostra domanda casuale, mentre lo portavamo al lavaggio del cervello: «Che cosa farà se perde in malo modo?» Aveva abbassato lo sguardo sulle pantofole, unito e disunito tra loro i pollici un paio di volte, poi aveva detto: «È tutto perso per noi, se non passa». Questo fu tutto. Circa quattro settimane dopo, si impiccò nel suo appartamentino al Dispensario. A quel tempo Glenda doveva avere cinque o sei anni. Mentre deploravamo la violenza, non ce ne sentivamo particolarmente colpevoli. Tendevamo a considerare ciò che era accaduto come uno di quegli sfortunati imprevisti che si verificano a volte quando si sta facendo solo il proprio lavoro. Inoltre, allora per noi era impossibile prendere in considerazione la possibilità di qualsiasi genere di legame tra Kendall e il
signor Black. Black, alla mia epoca, era stato considerato morto, e i ricordi di quell'uomo furono debitamente cancellati quando il Vecchio Lange mi sacrificò. Ora che ero tornato, però, l'intero caso di Kendall Glynn prese un aspetto differente, più sinistro. Diversamente dai miei successori, comunque, mi sentivo disgustato dal modo in cui era stata trattata la faccenda. Mi resi conto che esisteva un debito d'onore nei confronti di Glenda. Pensavo a tutto questo quando l'orologio scattò per l'apertura e i resti di Lange furono messi nel refrigeratore. A questo, e a molte altre cose. Naturalmente, avevo intenzione di correre dietro a Glenda. Sapeva qualcosa (probabilmente piuttosto importante) che voleva dirmi. Anche se non lo fece, comunque, ci sarei andato perché me lo aveva chiesto, e per la fortissima possibilità che fosse in pericolo. Quando alla fine la porta si aprì, entrai e prelevai una varietà di cose che sarebbero potute occorrermi. Le trasportai tutte fuori nel piccolo salotto, lasciando anche questa porta aperta dietro di me. «Biblioteca! Cubicolo 18237!» aveva continuato a ripetere Glenda. Dal momento che non aveva aggiunto un'indicazione dell'Ala, ciò stava a indicare che intendeva la Biblioteca, Cubicolo 18237 dell'Ala in cui ci trovavamo allora. ... Ala 5, della quale il Bandito aveva verificato le notizie di Jenkins. Non molto tempo fa, le ferrovie sotterranee si erano fermate e tutte le comunicazioni erano cessate. Era come se l'Ala 5 avesse improvvisamente cessato di esistere. Dopo aver posato il dispositivo, tornai alla Composizione, dove effettuai un altro controllo col Bandito. Mi confermò il rapporto iniziale che avevo ricevuto, senza nuovi sviluppi. Un esame del mio sistema privato della sotterranea per l'Ala 5 mostrò comunque che tutte le linee erano in attività. Come mi ero aspettato. La loro sorgente di energia a mio uso era situata qui, non là. Anche in caso contrario, provavo la curiosa sensazione che avrebbero potuto funzionare lo stesso. Sembrava che stesse prendendo forma un disegno del quale anch'io facevo parte. Dopo non molto tempo Winkel e Jenkins rientrarono. «Tutto a posto?» chiesi. «Sì», rispose Winkel. «Senti, abbiamo diritto di sapere che cosa sta succedendo...» «Naturalmente», dissi. «Lo saprete.» «Quando?» «Aspetteremo ancora un po' per vedere se arriva Gene.»
«Perché non fonderci con lui per trovarlo?» «Vi parlerò anche di questo.» Mi voltai e andai verso la porta. «Che cosa dobbiamo fare adesso?» mi chiese Jenkins. «Penso che sarebbe una buona idea se aspettaste qui Gene, per spegnere l'allarme quando arriverà.» «Perché non lo spegniamo addirittura?» Tornai al pannello di controllo e trasformai il nostro sistema di difesa da manuale ad automatico. Inoltre mi tolsi la pistola di tasca e la posai sopra il calcolatore. «Perché può accadere che entri qualcun altro», dissi, accendendo lo schermo e l'altoparlante. «Chi?» chiese Jenkins. «Anche di questo vi parlerò più tardi.» «Che cosa dobbiamo fare se è qualcun altro?» «Se le apparecchiature non ce la fanno, provvederete voi.» «Anche se dovessimo usare quella rivoltella?» «Anche se doveste usare i denti e le unghie. Ora salgo al salotto. Ho alcune cose da fare.» Mentre percorrevo il. corridoio li sentii parlare, ma non riuscii a capire di che cosa. Proprio di ciò, credo. Entrai nel salotto, lo attraversai e attivai la finestra. La temperatura si era leggermente abbassata e la luna si era spostata per una distanza considerevole, cambiando continuamente i disegni delle ombre. La luce dalle rovine non era più visibile. Rimasi a osservare forse per un minuto, ancora perplesso per il fenomeno di prima, poi rivolsi l'attenzione all'equipaggiamento che ero andato a prendere. Spogliandomi fino agli indumenti intimi, indossai un'armatura leggera che mi proteggeva dall'inguine al collo. Poi mi infilai dei pantaloni lunghi neri, perché volevo portarmi addosso degli esplosivi applicati all'interno del polpaccio sinistro. Misi una rivoltella di grosso calibro in una fondina appesa alla cintura, coperta da una camicia bianca a maniche corte. Dall'esterno, qualcosa mi disturbò mentre applicavo con un nastro lo stiletto all'avambraccio sinistro. Un movimento? Accesi una sigaretta e passai alcuni minuti guardando fuori della finestra. Il guizzo. Sì. Ci fu ancora. Una volta, due... Le mie osservazioni vennero interrotte dal suono della sirena. Abbando-
nai immediatamente il salotto e mi avviai lungo il corridoio. L'allarme cessò prima che avessi percorso sei metri, quindi rallentai il passo. Continuai finché vidi che era Gene, il nostro membro più giovane, allora gli feci un cenno e mi voltai. «Aspetta!» lo udii gridare, seguito dal rumore di passi rapidi. «Tra qualche minuto sarò da voi», replicai. «Va' nella stanza della Composizione. Jenkins e Winkel sono là.» Continuò a correre e decisi di mandarlo al diavolo. Gli avevo già detto dove stavo andando, e non avevo intenzione di stare lì a giustificarmi. Mi raggiunse proprio mentre stavo per rientrare nel salotto. Qualunque cosa stesse per dirmi fu dimenticata, comunque, quando insieme ci voltammo e il bagliore mi colpì. Mi afferrò il braccio e restammo lì per un momento, senza muoverci. Poi entrai nella stanza e lui lasciò la presa e mi seguì. Andammo alla finestra e restammo lì tenendo gli occhi socchiusi per la luce. Sì, veniva proprio dalle rovine. Alle nostre spalle, sentii Winkel dire brevemente qualcosa, come: «Che cos...?» Poi la luce cessò, e ogni cosa fuori tornò come prima. Mi sporsi e opacizzai di nuovo la finestra. Andai verso la sedia più vicina, nel punto in cui prima ero rimasto in piedi, e ci arrivai proprio mentre Jenkins irrompeva nella stanza. «Che cosa sta succedendo?» chiese, scrutandoci in volto. «Niente», risposi, prendendo una giacca grigio chiaro e infilandomela, «per ora». Mi lasciai cadere nella tasca di sinistra una manciata di spolette e due granate a gas. Cacciai in quella di destra tre piccole bombe dirompenti. «Ora torniamo subito alla Composizione», annunciai. «Qualcuno deve stare sempre in servizio là, finché questa faccenda non sia finita. Non ci deve essere nessun visitatore non autorizzato.» «Ce ne sono mai stati?» chiese Jenkins. «Sì.» «Chi?» «Ve ne parlerò nella Composizione. Andiamo.» Mi seguirono in corridoio. Mentre lo percorrevamo, Gene disse: «Che cos'era quella luce?» «Non so.» «Poteva essere qualcosa di importante.» «Credo proprio di sì.»
Entrammo nella Composizione e mi mossi per mettere a punto l'apparecchiatura sotterranea che mi avrebbe portato all'Ala 5. Prima di poter sistemare i circuiti, però, Winkel mi venne davanti e lì si fermò, con le mani sui fianchi. «Allora», domandò, «che storia è? Perché non hai fatto la connessione?» «Perché», risposi, «sareste stati cambiati radicalmente dal processo, e io vi voglio proprio come siete adesso finché non avrò deciso che cosa fare per la mia situazione». «Quale situazione? Com'è la faccenda?» Sospirai, accesi una sigaretta, mi spostai alla sua destra e mi sedetti sul calcolatore, di fronte a loro tre. «Ho tirato le leve sette e sei», dissi. «Hai che cosa?» «Mi avete sentito.» Ci fu silenzio. Mi ero aspettato una valanga di domande, invece si limitarono a sgranare gli occhi. «Bisognava farlo», dichiarai. «Venivamo uccisi a destra e a manca, e non vi era alcuna ragione apparente, nessun modo di porvi rimedio. Sbloccando generazioni di esperienza, speravo di scoprire qualcosa... informazioni, un'arma. Anch'io ne rimasi sgomento.» Winkel abbassò gli occhi e annuì. «Io avrei fatto la stessa cosa», disse. «Anch'io», confermò Gene. «Credo che l'avrei fatto anch'io», disse Jenkins, unendosi agli altri nello sforzo di farmi sentire meglio. «Hai scoperto qualcosa?» «Sì, credo di sì. Ma è una cosa piuttosto complicata, e ora ho il tempo di accennare solo ai punti principali.» «Prima di farlo», disse Winkel, «dicci una cosa sola: chi sei adesso, realmente?» «Sono la stessa persona di prima», risposi sapendo di mentire e sentendo anche il loro bisogno di essere rassicurati che ogni cosa non si stesse smontando nello stesso momento. «L'unica differenza è che adesso ho accesso a tutti i ricordi del Vecchio Lange e di Winton, come pure a quelli di Jordan che Winton decise di non sacrificare.» Ma se ne accorse, penso, e insistette. «Di tutti loro, chi ti sembra di essere di più?» disse. «Me stesso! Porca miseria!» esclamai. Ero mezzo intenzionato a fare allora la connessione e a eliminare le cause sia di discussione sia di spiegazione. Ma restavo fermo nella convinzione che non sarebbe stato saggio per qualunque decisione personale fosse infine stato necessario prendere.
Inoltre, dall'espressione della sua faccia, credevo che a quest'ora Winkel potesse essere preparato a far resistenza alla connessione. Quindi: «C'è stata una qualche ingerenza, naturalmente», ammisi. «Era inevitabile. Fortunatamente, è vantaggioso nella situazione attuale. Io sono ancora fondamentalmente me stesso, però.» Non sembrava ancora convinto, ma un'ulteriore insistenza non avrebbe rafforzato la mia affermazione (al contrario, forse), quindi decisi di piantarla lì e di limitarmi alle cose essenziali. «Sembra che, parecchie generazioni fa, un individuo sia venuto a conoscenza della nostra esistenza», cominciai. «Come venne a sapere di noi rimane un mistero. Ma a quei tempi dimostrò la sua conoscenza delle identità personali di tutti i membri della famiglia. Lo fece in un modo che assomigliava da vicino alla nostra situazione attuale. Tentò di ucciderci tutti. Ovviamente non ci riuscì, probabilmente perché era ancora forte fra noi la tendenza a rispondere all'attacco istantaneamente. Comunque, non riuscimmo a ottenere la sua distruzione, riabilitazione e nemmeno (cosa importante) a conoscere la sua identità. Riuscì ad assassinare tre di noi prima che aumentassimo gli accorgimenti e la varietà di mezzi di difesa, al punto che parecchi altri tentativi da parte sua vennero frustrati e divenne lui il cacciato. In due occasioni arrivammo quasi a prenderlo, ma riuscì a sfuggirci tutt'e due le volte. Poi sparì. Gli attacchi cessarono. Gli anni passarono. Niente. «Pur non dimenticando ciò che era accaduto», continuai, «l'assenza del pericolo ci consentì un graduale ritorno di qualche sensazione di sicurezza. Forse era morto, pensavamo. O aveva rinunciato alla sua vendetta per ragioni impenetrabili come quelle che gliel'avevano fatta iniziare. Quali che fossero le sue intenzioni, si procurava da solo la conoscenza dei nostri affari, perché non ci fu mai nessuna indicazione, da nessuna parte, di una consapevolezza della nostra esistenza. «Poi, circa nove anni più tardi, colpì ancora, all'improvviso come prima. I suoi piani e la sua coordinazione erano ottimi. Prese cinque di noi quella volta. Deve aver agito ancor meglio, dal momento che Benton non fu in grado di ucciderlo prima di morire. Apparentemente era piuttosto malconcio e ferito, ma riuscì a sparire prima che raggiungessimo la scena del delitto. Poi, ancora, niente. Per molti anni. Supponemmo che fosse morto in conseguenza delle ferite». «Come fai a sapere che si trattava dello stesso uomo?» mi domandò Gene.
«Una deduzione», risposi, «basata essenzialmente sul tipo analogo di attacchi. Abbiamo anche una grossolana descrizione fisica, dalle ultime impressioni di molte delle sue vittime. E abbiamo altri dati, come il suo gruppo sanguigno...» «Era lo stesso uomo che uccise te?» chiese Winkel. «Alla luce di quel che so adesso, sì. Credo che lo fosse.» «Ci furono altri attacchi oltre ai due che hai descritto?» «Sì. Molti anni dopo la morte di Jordan, quando Winton era il punto di connessione, venne qui, all'Ala Zero. La natura delle sue intenzioni non ci fu mai chiara. Non abbiamo alcuna idea di che cosa avrebbe fatto se il posto fosse stato vuoto, come lo è il più delle volte. Comunque, Winton per caso era qui (qui nella Composizione, in effetti) quando egli arrivò. L'allarme suonò e Winton lo sorprese sullo schermo. Fatto interessante, era riuscito a evitare le difese automatiche. Come fece, rimane un mistero. Winton si diresse verso il corridoio e lì lo sorprese, aprendo immediatamente il fuoco. L'altro fuggì, rispondendo al fuoco e, sebbene fosse ferito, riuscì a lanciarsi attraverso la grata e a uscire. Winton tornò qui e lo rintracciò, scoprendo che era andato nella Cappella dell'Ala 7. Si fuse immediatamente con gli altri, e cercammo di intercettarlo là. Ma a parte poche tracce di sangue, lui non fu trovato.» «Quello fu l'ultimo avvenimento del genere... fino ai tempi recenti, cioè?» «Sì. Il Vecchio Lange conservava il ricordo per precauzione. Però, quando divenne il punto di connessione, lo cancellò come un inutile ricordo di violenza. Era passato così tanto tempo che sembrava una supposizione esatta che il nostro nemico fosse morto.» «Un errore.» «Ovviamente.» «Non lasciava nessun indizio?» «Alcuni qui e là. Tutti di nessuna utilità. A esempio, lasciò cadere una borsa di attrezzi quando io... Winton gli sparai. Risultò essere stata rubata da un armadietto di manutenzione nella Cantina dell'Ala 11. La traccia finiva lì.» «Nessuna impronta, nessuna traccia di qualsiasi genere sugli attrezzi o sul contenitore?» «Nessuna. Portava sempre i guanti al momento giusto. Un tipo prudente. Passammo un bel po' di tempo a controllare chiunque avesse a che fare anche alla lontana con l'armadietto di manutenzione. Ancora, niente. Ma la
natura degli attrezzi stessi fece sorgere delle congetture interessanti.» «Di che genere?» «Gli attrezzi erano del tipo che una persona può scegliere per lavorare sulle serrature che allora avevamo sulle porte. Non vi fa venire in mente niente?» «Il clone mancante!» «Esattamente. Il nostro grande e insoluto mistero, ormai vecchio di più di un secolo. Un giorno un clone è uscito dal suo contenitore, e non si è più rivisto. Dove? Come? Perché? Non ci fu risposta. Assolutamente inutile per chiunque tranne che per la famiglia. Ritenuto inaccessibile a chiunque tranne che a noi. Sparito. Ecco perché installammo serrature più elaborate sulle porte e costruimmo il sistema di difesa. Cambiammo anche la sistemazione del passaggio sotterraneo. Nonostante queste precauzioni, però, qualcuno ci raggiunse di nuovo e fu solo per caso che potemmo fermarlo. La relazione sembra inevitabile, sebbene il motivo sia un'ipotesi qualsiasi. Rinnovammo interamente la struttura di sicurezza, raggiungendo quello che abbiamo oggi. Col passare degli anni, ci rilassammo di nuovo. Alla fine, passò tanto di quel tempo che ci sentivamo sicuri al punto da permettere a noi stessi di dimenticare, pezzo per pezzo, ogni cosa eccetto il grave fatto del clone mancante, che per qualche ragione nessuno si sentì di cancellare. Ritengo che il nostro signor Black sia implicato in tutto questo. «Dunque», conclusi, «voglio che un uomo stia sempre in questa sezione, controllando la stazione d'arrivo. Se dovessimo ricevere un visitatore imprevisto che sia in grado di evitare le difese automatiche, dovete essere pronti a convertirle immediatamente in manuali. Inoltre, voglio che prendiate qualcosa di più forte della pistola tranquillante e che lo teniate finché questa faccenda non sarà sistemata». I loro volti erano pallidi, perplessi, irritati. «Che cosa si pensa esattamente che dobbiamo fare con il signor Black?» chiese Winkel. «Be', mi piacerebbe avere il contenuto della sua testa intatto», gli risposi. «Ma se per caso capita nella traiettoria di una pallottola, va bene lo stesso.» Mi mossi verso un pannello e stabilii il percorso per l'Ala 5. «Non ci hai detto ancora tutto, vero?» chiese. «Solo le cose essenziali. Il tempo è importante. Comunque, sei il prossimo nell'ordine per il punto di connessione. Se mi succede qualcosa finirai col sapere più di quanto sappia io adesso. Questo è uno dei vantaggi dell'immortalità a puntate.»
«Potrei non volerla proprio.» «... e non c'è bisogno che tu la tenga. Questo è uno dei vantaggi del suicidio parziale.» Mi girai e andai verso la porta. «Intendi portarlo qui per interrogarlo?» Mi fermai e scossi la testa. «Il mio scopo è più modesto», dissi, «voglio solo far fuori quel figlio di puttana». Un minuto più tardi ero in un luogo buio e silenzioso dell'Ala 5. 7 Uscii con cautela, ma sembrava non esserci in giro nessuno. Bene. Chiusi la porta nera dietro di me e mi allontanai rapidamente. C'era qualcosa che non quadrava, e ci vollero diversi secondi per individuarlo. Era il silenzio. Era strano non udire niente oltre all'eco dei miei stessi passi. Non vi erano rumori di macchine, rumori di fondo, ronzii, rimbombi; perfino le rotostrade erano diventate mute. L'aria sembrava molto più calda del solito ed era immobile intorno a me. L'oscurità era molto più densa del normale, sebbene potessi vedere una zona illuminata debolmente, lontano sulla mia destra. Repressi la curiosità riguardo alla fonte della luce e proseguii nella direzione che avevo scelto. Nelle stesse condizioni era l'ascensore a colonna più vicino, una torre slanciata piantata in una distesa desolata dai contorni incerti che svanivano nell'infinito. Avrei dovuto percorrere la sua spirale, temevo. Mi domandai se il signor Black mi stesse aspettando da qualche parte, di qua o di là. Era possibile, conoscendo il nostro uso delle porte nere, sapendo che sarei venuto all'Ala 5. Era un risultato del suo tentativo di distruggerci, o qualcos'altro? Era parte di un piano a lunga scadenza, di cui la nostra eliminazione era soltanto un particolare secondario? In ogni modo, ora importava poco. Ero il più pronto possibile, date le circostanze. Proseguii nell'oscurità. C'era stato un guasto in cantina, oppure era stata deviata l'elettricità da qualche altra parte per far fronte a un'emergenza? E per quanto riguardava Glenda? Che cosa sapeva? Qual era la sua parte in questa storia?
Poi mi irrigidii sui miei passi e misi la mano sulla rivoltella, estraendola a metà dalla fondina. Che cosa...? Un accordo. Poi un altro. Poi musica arrabbiata, vibrante. Violenta. Suonata a scatti. Era un organo, venuto improvvisamente alla vita in un recesso non troppo distante alla mia sinistra. Qualche minuto dopo, riconobbi la musica, strano suono per un luogo di culto e di meditazione: la Dannazione di Faust. Naturalmente la seguii. Ci sono circostanze in cui l'anomalo dovrebbe essere sollecitato. L'ignoranza è una di queste. Mentre mi muovevo diagonalmente verso l'entrata a quella zona, vidi di sfuggita una scena bizzarra all'interno. Un uomo piuttosto scarmigliato in abito clericale era seduto alla tastiera. Un piccolo candelabro gli faceva luce da sopra lo strumento, e due bottiglie di vino gli tenevano compagnia. Avanzai, entrai. Mi sorrise, chiuse gli occhi e continuò a suonare. Quando mi avvicinai, riaprì gli occhi e il sorriso svanì, per essere sostituito da una espressione d'orrore a bocca aperta. Le sue dita incespicarono in una dissonanza finale ed egli cadde in avanti tremando. Rimasi lì fermo alcuni minuti, indeciso sul da farsi. Comunque lui risolse la questione sollevando la testa e abbassando le mani dal viso. Mi fissò ansimando, poi disse: «Non tenermi nell'incertezza. Qual è il verdetto?» «Che cosa intende dire?» Volli sapere. «La mia richiesta è stata esaudita?» chiese, abbassando gli occhi a guardarmi i piedi, poi girandoli verso l'altare. Seguii il suo sguardo e vidi che l'altare era in disordine, col crocifisso capovolto. Mi strinsi un poco nelle spalle. Quindi, il pastore locale aveva deciso di cambiar partito. Valeva la pena di sprecare del tempo a scoprire che cosa lo aveva spinto? Forse sì, conclusi, perché senza dubbio il motivo era un trauma recente. «Allora?» disse. «Chi pensa che sia io?» chiesi. Sorrise furtivamente e chinò il capo. «Ho visto da dove sei venuto», disse. «Ho osservato la porta nera da quando ho fatto l'offerta. Quando ti ho visto uscire, ho suonato una musica propiziatoria.» «Già. E che cosa cerca di guadagnarci?» «Mi hai ascoltato, sei venuto. Sai che cosa vorrei.» «Non mi faccia perdere la pazienza!» sbottai. «Voglio sentirglielo dire!
Adesso!» Gli occhi gli si spalancarono e si prostrò davanti a me. «Non intendevo offenderti!» disse. «Cerco solo di farti piacere!» «Che cosa le fa pensare di essere nel giusto?» «Quando è accaduto, e la gente ha cominciato a venire da me, con storie di terrore... celebrai delle messe. La gente continuava ad arrivare. Alla fine, mi fu concesso di dare un'occhiata. Prima che l'energia venisse a mancare. Prima dell'ordine di evacuazione. Vidi che eravamo stati abbandonati. Allora seppi che eravamo stati destinati alla distruzione, e pensai: rivolgiti ai tuoi amici del demone dell'iniquità, che, quando morirai, possano riceverti nelle abitazioni eterne.» «Perché pensava che foste stati abbandonati?» «Per la nostra presunzione, i nostri risentimenti, i nostri desideri segreti...» «Intendo dire, che cosa è accaduto?» Sollevò la testa, mi guardò. «Intendi le esplosioni e tutto il resto?» «Sì. E si tiri su da terra.» Si rimise faticosamente in piedi e indietreggiò. Quando fu all'altezza della panca, abbassai il capo e dissi: «Si sieda». Lo fece. «Le esplosioni, solo poche ore fa», disse, «quando lacerarono le pareti, ci mostrarono... le stelle... Oh, Dio!» Ebbe una comica espressione di spavento, poi aggiunse: «Mi spiace». «A che piano?» «Soggiorno», disse, fissando la bottiglia sopra l'organo. Sospirai. Bene. Era a quattro piani di differenza, dato che la Biblioteca era a soli due piani sotto di me. Comunque per lacerare le pareti... Doveva proprio essere un esplosivo. «Che cosa accadde dopo l'esplosione?» dissi. «Ci fu una corsa precipitosa per allontanarsi», raccontò. «Poi quando tutti si accorsero di ciò che era accaduto, ci fu una corsa precipitosa per andare a guardare fuori.» Si leccò le labbra, guardò di nuovo la bottiglia. «Poi un'altra corsa per allontanarsi», terminò. «Vada avanti e beva un po'», lo incoraggiai. Afferrò la bottiglia, se la portò alle labbra e rovesciò indietro la testa. Gli osservai il pomo d'Adamo andare su e giù. Ala 5. Almeno, aveva scelto un pianeta passabile per la sua catastrofe: l'atmosfera era respirabile, anche se un po' irritante, e di notte la temperatura era sopportabile.
«E lei è andato a vedere?» domandai. Abbassò la bottiglia, annuì e cominciò a tossire. Poi, dopo un momento, indicò l'altare. «Ho visto l'eternità», disse. «Il cielo continua sempre. E ho visto le luci nel cielo. Ho sentito l'odore dei vapori dell'Abisso. La gente gridava e sveniva. Altri spingevano in avanti. Alcuni correvano. Alcuni uscirono, penso, e si persero. Alla fine ci fecero ammassare indietro e lasciare quel piano. A quest'ora dovrebbero averlo bloccato. Molta gente venne alla Cappella. C'erano funzioni religiose in continuazione. Io stesso ne celebrai tre. Col passare del tempo mi sentivo sempre più strano. Sapevo che era il Giorno del Giudizio. Sapevo che eravamo tutti indegni. È la fine. La Casa cade e sono stati aperti i cieli. L'uomo è insignificante, di nessun valore. L'ho saputo quando ho guardato l'eternità.» Fece una pausa per bere un'altra sorsata, poi continuò: «Dopo la mia ultima funzione, seppi che non dovevo continuare. Non potevo continuare a pregare per la liberazione da ciò che sapevo che meritavamo. Meglio abbracciarlo, decisi. Così venni in questa sezione che era fuori uso. Tutti gli altri sono da quell'altra parte». Gesticolò in direzione dell'illuminazione (candele, senza dubbio). «Qui ho fatto quella che ritenevo la cosa più giusta», concluse. «Prendimi, maestro», e singhiozzò. «Non sono quello che lei ha chiamato», dissi, e mi voltai per andarmene. «No!» lo udii gridare; e sentii cadere la bottiglia, e lo sentii imprecare e lottare per riprendersela. Poi: «Ho visto da dove sei venuto!» urlò. «Sei venuto dalla porta nera!» «Lei si sbaglia», replicai. «No! So quello che ho visto! Chi sei?» Il suo stato doveva avermi colpito, e non solo dal punto di vista filosofico, un po' più di quanto avessi creduto, perché effettivamente presi in considerazione la sua domanda per un attimo e risposi onestamente. «Non lo so realmente», dissi continuando a camminare. «Bugiardo!» esclamò. «Padre delle Bugie!» Poi cominciò a piangere. «Dunque questo è l'Inferno...» lo udii dire mentre mi allontanavo. Me ne andai velocemente, pensando alle reazioni degli altri. Mi chiedevo se la sua poteva essere tipica. Pensavo di no. Speravo di no. Era un anormale, ecco tutto. La sua non era la direzione in cui li avevamo guidati. Camminavo a passo svelto, parallelo alla rotostrada immobile che portava verso l'ascensore a colonna. Gruppetti di persone si muovevano lungo di essa, passando in entrambe le direzioni nell'oscurità. La unica luce che c'era proveniva da quegli apparecchi e da quei segnali forniti di generatori
autonomi, da sezioni della Cappella illuminate dalle candele, da lumini votivi e da pile portate dai passanti. E nei cinque o dieci minuti seguenti, superai due lente processioni dove ognuno portava una candela accesa. Non vidi nessuno che non facesse parte di qualche gruppo. Pensai ancora alla perdita di energia. Questo tipo di emergenza avrebbe difficilmente richiesto un'azione che esigesse la maggior parte della produzione elettrica, anche per un solo piano. No. Doveva esserci stata una serie di guasti simultanei nella Cantina. Il che mi suggeriva l'idea di una bomba a orologeria piuttosto che di un lavoro a squadre, perché Black mi aveva sempre dato l'impressione di agire completamente da solo. Il calcolo del tempo, soprattutto, era molto importante. L'attacco alla famiglia, il foro nella parete, la perdita di energia. Riuscivo a immaginare il piano, sebbene non riuscissi a capirlo. Forse non ci sarei mai riuscito. Probabilmente avrei dovuto ucciderlo prima che potesse dirmelo. E nemmeno l'alternativa ci assicurava la spiegazione. Peccato. Tutto quel progettare, calcolare il tempo, coordinare... e il successo implicava la distruzione degli unici in grado di apprezzarlo. Era in certo qual modo triste, comunque si considerasse, qualunque cosa accadesse. Dopo non molto tempo, raggiunsi l'ascensore e vi entrai. Era buio e silenzioso. Cominciai a scendere la sua spirale. Affrettai il passo dopo il piano seguente (la Camera da letto) perché da là potevo vedere chiaramente l'origine di parecchi fuochi, uno vicino all'altro. La gente vi correva attorno, e al primo momento pensai che fossero in preda al panico o diventati matti e che li avessero appiccati loro stessi. Ma no. La maggior parte di loro sembrava batterli o versarci acqua. Sembrava che qualcosa non funzionasse nel sistema di estintori. C'erano autopompe tutt'intorno e per lo più sulla strada (sia in aria sia a terra). Gruppi di gru pendevano bloccate sopra di essi in posizioni diverse. Quando raggiunsi il piano seguente, la mia destinazione, fui soddisfatto che non ci fossero disastri. C'erano numerose piccole luci in movimento sotto di me. Torce elettriche, sembrava. Ero contento che il signor Black non si fosse dato alla piromania anche nella Biblioteca. Alcune persone sembravano proprio entrare alla base dell'ascensore, ma fino ad allora non avevo incontrato nessuno. Il che significava che si dirigevano tutti verso il basso. In direzione del Soggiorno danneggiato. Mi chiesi che cosa ci andassero a fare. Seguendo la mia mappa mentale, mi ricordai di un veicolo d'emergenza fuori attività a circa quattrocento metri nella direzione della parete opposta.
Decisi di impossessarmi di qualunque cosa fosse stata disponibile per spostarmi, perché il numero che Glenda mi aveva dato era a considerevole distanza. Quando raggiunsi il piano terreno, mi fermai in disparte mentre la gente entrava di corsa dietro di me e si dirigeva verso la spirale in discesa. Parlavano in tono eccitato, alcuni in modo quasi isterico, e molti di loro trasportavano pacchi. «Dove sta andando?» domandai a un uomo che era arrivato di corsa, e poi si era fermato un attimo per riprendere fiato. «Fuori», rispose. Non potevo credere che volesse dire ciò che sembrava voler dire. «Vuol dire all'esterno?» dissi. «Fuori della Casa?» «E dove altro? Ci sta crollando intorno, la Casa.» «Ma non può... voglio dire, laggiù è bloccato, è messo in quarantena, no?» Rise. «Segua il mio consiglio e venga», disse. «Non può credere com'è là fuori.» «Com'è?» «È meraviglioso!» «Ma...» Si allontanò in fretta e rapidamente fu fuori vista. Naturalmente ero turbato. Sopra, brani di conversazione indicavano una gran varietà di motivi per questo esodo su piccola scala, passando da una paura del crollo imminente della Casa a un desiderio d'avventura, un'attrattiva morbosa per gli effetti del disastro, il fanatismo religioso, l'interesse scientifico e anche soltanto una semplice curiosità da primate. Qualunque fosse la ragione, le conseguenze di quell'avvenimento si sarebbero protratte per un bel po' di tempo. Non apprezzavo gli imprevisti nel mio sistema chiuso, controllato. Per il momento non ci si poteva fare niente, comunque. Mi diressi fuori della porta e mi affrettai in direzione del deposito dei veicoli. Percorsi alla massima velocità gli ultimi cento metri verso il deposito, la cui porta era aperta. Accesi la torcia che avevo rubato all'uomo che mi aveva urtato e cominciai a maledire me stesso mentre uscivo. Sembravano esserci due veicoli giù alla mia sinistra. Mi arrampicai sul ciglio, rimasi per un attimo appeso per la lunghezza delle braccia e mi lasciai cadere sul pontile di sbarco. Uno dei mezzi di trasporto era bloccato per lavori di manutenzione e l'altro era fissato in una zona di parcheggio. Controllai il livello del carburan-
te del secondo, sbloccai le ruote e con uno sforzo considerevole riuscii a farlo scorrere fino al pontile. Partì velocemente, e nel giro di tre minuti volava. Mi muovevo con attenzione, abbastanza vicino al soffitto, con le luci anteriori e laterali accese al massimo, evitando gru e pilastri mentre passavo. Sotto, era come il negativo di una fotografia di falene intorno a una fiamma, tutte quelle lucine che svolazzavano verso la torre nera. Cubicolo 18237. Era una distanza abbastanza notevole. Periodicamente mi abbassavo per illuminare i segnali delle coordinate. Un altro veicolo mi incrociò, andando nella direzione opposta; ma non ne ricevetti alcun segnale. Distolsi la mente dai pensieri sulle reazioni della gente e rivolsi l'attenzione alle mie faccende personali. Il mio nemico aveva progettato le cose con cura, e a questo punto dubitavo che fosse in giro a rilassarsi. Ancora una volta pensai a Glenda, e alla possibilità che mi stessi dirigendo verso una qualche trappola. Prima mi aveva aiutato (un buon segno), ma era la figlia di Kendall, il che era sufficiente, secondo il mio modo di pensare, a giustificare qualsiasi azione contro di me, se fosse stata a conoscenza della mia parte nella faccenda. Che cosa la spingeva, e quali erano le sue intenzioni? Black si serviva di lei? In caso affermativo, in che modo? Benché spingessi la mente in una serie di labirinti, non riuscii ad arrivare a nessuna conclusione tranne che quella diretta. C'erano semplicemente troppe variabili. Qualsiasi tentativo particolarmente tortuoso poteva ritorcersi su di me. Sapevo che a quest'ora gli effetti del tranquillante su Black dovevano essere per la maggior parte svaniti. Quando giunsi nella sua sezione, individuai uno spazio aperto vicino a un riparo formato da tavoli, divisori e macchine, atterrai col veicolo, ne spensi le luci e il motore e sbarcai. Era abbastanza buio, ma, prima di scendere, avevo esplorato la zona col riflettore. Era sembrata deserta. Corsi verso il riparo, tuttavia, e intrapresi un percorso sinuoso che mi avrebbe portato nella zona del cubicolo che cercavo. Impiegai parecchi minuti per dirigermi verso la porta del 18237 investigando nelle vicinanze. Non riuscii a scoprire nessun agguato. Ma, mentre dalle finestre degli appartamenti adiacenti usciva lo scintillio della luce delle candele, quelle di Glenda erano buie. Mi avvicinai con la pistola in pugno, picchiai la porta col battente, aspettai. Mentre stavo lì, mi domandavo se era stata coinvolta nella confusione
generale, o se qualche altra cosa le aveva impedito di tornare. Se non c'era, decisi che sarei entrato ad aspettarla. Quando però mi mossi per bussare ancora, udii un rumore proveniente dall'interno e la porta venne sbloccata e socchiusa. Glenda era là nella luce debole, e i suoi occhi passarono rapidamente dal mio volto alla pistola e di nuovo indietro. «Sì?» disse. «Che cosa vuole?» «Poco tempo fa ci siamo separati piuttosto bruscamente», le ricordai. «Ma mi hai invitato a farti visita.» I suoi lineamenti si contrassero e si rilassarono nello spazio di un secondo. La sua voce era normale, perfino allegra, quando allora disse: «Naturalmente! Entra! Entra!» Ma mentre lo diceva alzò la mano destra come per sbarrarmi la strada. Poi quando esitai, perplesso, si gettò contro di me." Mentre incespicavo indietro per tenermi in equilibrio e lei scivolava sul pavimento, udii il rumore di uno sparo all'interno. Comunque, era riuscita a spingermi da parte in modo da mettermi fuori della linea di tiro. Immediatamente sparai due colpi attraverso la porta, proprio per fargli sapere che non ero lì a far niente, aspettando che mi si sparasse ancora addosso, e intanto urlavo a Glenda di mettersi al riparo. In realtà non le occorreva l'incoraggiamento, però, perché sparì rapidamente e senza rumore nella direzione da cui ero venuto. Mi sdraiai per terra e scivolai contro la parete, poiché ero visibile da entrambe le finestre e non avevo nessuna idea di dove si trovasse lui nell'interno. La mia previdenza fu ripagata quando la finestra più vicina fu frantumata da un altro sparo. Tirai fuori una delle mie due granate a gas, la attivai e la lanciai attraverso la finestra. Qualche momento dopo, lanciai la seconda. Restando attaccato al muro, strisciai indietro, perché giudicavo più prudente ripararmi dalla finestra vicina come pure dalla porta e dalla finestra sul suo lato opposto. Attesi. Sentii esplodere la granata, con uno scoppio smorzato, e, dopo un po', volute spettrali uscirono attraverso la finestra frantumata e la porta ancora aperta. Mentre mi chiedevo che cosa sarebbe successo dopo, successe. Ci fu un'esplosione e frammenti della parete mi caddero tutt'intorno. Venni inghiottito da una nube di polvere e di gas. Lottai per evitare di tossire, gli occhi mi lacrimavano e non riuscivo a vedere null'altro che una nebbia scura. Mi sentivo come se fossi stato preso a calci su tutta la schie-
na e il fianco. Tolsi la sicura alla pistola e continuai a sbattere gli occhi per schiarirli. Intravidi appena la figura che saltava attraverso i calcinacci causati dall'esplosione. Era da qualche parte lì vicino alla porta che aveva appena attraversato. Si spostò a destra, correndo, e gli sparai alle spalle. Lo mancai, naturalmente, ed egli continuò a correre. Scuotendomi di dosso le macerie, mi rimisi in piedi e mi lanciai dietro di lui, barcollando per un bel po'. Era ancora in vista, e questa volta non avevo intenzione di mancarlo. Arrivando a un divisorio, si girò improvvisamente e mi sparò prima di passarci dietro, senza aspettare di vedere l'effetto del colpo. Sentii una puntura all'avambraccio sinistro e, sollevata la mia arma, sparai tre colpi attraverso il divisorio. Poi girai verso una nicchia, e rapidamente ricaricai quando la raggiunsi. Mi misi carponi prima di guardare dietro l'angolo, e mi tirai indietro in fretta quando lo vidi che si sporgeva dal margine del suo divisorio e puntava una pistola nella mia direzione. Un momento dopo seguì lo sparo, piuttosto alto e lontano. Sparai anch'io prima di estrarre e innescare una granata esplosiva. Quando mi esposi per lanciarla, lui sparò ancora. Mi tirai indietro immediatamente, innescai un'altra granata e la lanciai dietro la prima. La prima esplose quando la seconda era ancora in aria. Ora che ci fu la seconda esplosione, la rivoltella era tornata nella mia mano destra. Voltai l'angolo e corsi verso quello che era rimasto del divisorio. Non c'era in giro nessuno quando raggiunsi la zona distrutta. Mi fermai, girando lo sguardo in tutte le direzioni, e poi vidi un uomo che fuggiva, lontano sulla sinistra. Mi lanciai dietro di lui. Stava attraversando una zona aperta, diretto verso un formicaio di corridoi stretti e di cabine di lettura. Correvo più in fretta che potevo, e la distanza fra noi si accorciò. Sparai un colpo ed egli sobbalzò, inciampò, si riprese e continuò a correre. Quando raggiunse un palo al margine della zona, ci si lanciò contro, si voltò all'improvviso e cominciò a sparare. Mi trovavo allo scoperto senza niente dietro cui ripararmi, quindi continuai a correre, alzando la pistola e sparandogli contro. L'unica ragione per mancarmi in queste condizioni era che fosse ferito. Mi scaricò contro la rivoltella, si accorse di non avere il tempo di ricaricarla, si voltò e barcollò verso il corridoio più vicino. Anche la mia arma si
era ormai scaricata, e mi rifiutai di concedergli il tempo che avrei impiegato a ricaricarla. Lo seguii nel corridoio. Più avanti, girò a sinistra in un passaggio laterale o in una cabina, e io rallentai. Mentre era ancora sufficientemente buio per confondere il mio senso della prospettiva, mi accorsi trasalendo che ora le luci in alto brillavano debolmente e forse erano così da parecchi minuti. Un brutto ségno, l'energia che tornava così rapidamente, quando volevo sorprenderlo e farlo fuori prima che ritornasse l'ordine. Ricacciai la pistola all'interno della camicia e afferrai lo stiletto dall'avambraccio dove si trovava. Era bagnato e leggermente curvato, e mi venne in mente che era stato sfiorato da una pallottola e mi aveva lacerato la pelle: la puntura che avevo sentito prima. Feci il giro largo dell'angolo dove aveva voltato lui, accovacciandomi, con la lama bassa. Mi balzò addosso. Aveva una lama di. qualche specie (ne vidi il vago scintillio mentre veniva verso di me) ma la teneva goffamente e il suo primo colpo, che riuscii a parare, fu più veloce dei successivi. Bloccò il mio stiletto con l'avambraccio e mi colpì violentemente l'addome. La mia armatura deviò il colpo, e dopo alcune finte riuscii a conficcargli la lama fino all'elsa nello stomaco. Emise un gorgoglio, si irrigidì e si piegò verso di me. Lo afferrai e lo calai a terra. Accesi un fiammifero per studiare meglio il suo viso. Gli tirai i capelli e si staccarono; era una parrucca scura. Sotto, i suoi capelli erano bianchi. Sì, era indubbiamente lo stesso uomo che aveva occupato la carrozzella a propulsione elettrica, che aveva chiesto a Lange di ordinargli da bere e poi gli aveva sparato. Il signor Black. E mi fissò e sorrise. «Jordan...?» chiese. «Winton», risposi. «Certo, certo... Non poteva essere nessun altro. Quegli indolenti...» «Perché» dissi. «Perché l'hai fatto?» Scosse la testa. «Lo scoprirai. Presto», replicò. «Oh, molto presto!» «Che cosa?» Fece una smorfia, poi si sforzò di sorridere ancora una volta. «Avrei potuto farti fuori, col coltello, se avessi voluto...» disse. «Pensaci...» Poi morì, facendomi un largo sorriso, e improvvisamente mi resi conto di ciò che aveva voluto dire. 8
La connessione... No! Era vecchio, e a un certo punto aveva cambiato la struttura facciale un po' più radicalmente del resto di noi, ma quando sentii la sua morte dentro il mio stesso essere e lottai per bloccare un repentino effetto di connessione, mi resi conto che il signor Black era il clone mancante. Digrignando i denti, premendomi le tempie, costruii pareti di resistenza intorno alla mia mente. C'è sempre una connessione quando uno di noi muore, e i suoi effetti variano. Non ha troppa importanza, comunque, perché tutti noi siamo contenuti all'interno di ogni altro, essendo il «punto di connessione» solamente il termine col quale ci rivolgiamo al più vecchio fra noi, che è automaticamente il capo della famiglia. Black era indubbiamente uno di noi, perché si stava verificando l'effetto finale della connessione. Per tutta la vita, doveva aver bloccato le connessioni abituali ogni volta che si verificavano. Tuttavia, poiché in silenzio faceva parte del nostro legame telepatico, potevo capire la sua misteriosa capacità quando decise di seguirci, conoscendo i nostri spostamenti. Essendo restato appartato da noi per tutta la vita, ci era del tutto sconosciuto. Gli effetti della sua personalità sulle nostre sarebbero potuti essere catastrofici. Naturalmente sarebbero stati diversi su ognuno. Comunque avevo la sensazione che avrebbe cercato di dominarci. Lo tenni a distanza. L'impulso che aveva premuto contro la mia mente si spense, si dileguò, sparì. Per un attimo, Winkel, Gene e Jenkins avrebbero pensato che fossi io a morire. Allora sarebbe stato troppo tardi. Chi di loro avrebbe ceduto per primo? mi chiesi. E che cosa avrebbe fatto poi? Cristo! Gli estrassi la lama dal ventre e la pulii sulla sua giacca. Il nostro fratello ribelle aveva certamente fatto una quantità di piani. Dovevo tornare immediatamente all'Ala Zero per cercare di fronteggiare qualunque catastrofe stesse per accadervi. E fui assalito dalla sensazione che sarei potuto non riuscire. Lasciai cadere lo stiletto in una tasca interna e mi girai allontanandomi. Glenda era nel corridoio tre metri più in là, che si dava dei colpetti sulla guancia con la punta delle dita. «È morto», disse. «Vero?» «Temo di no», risposi andando da lei e togliendole la mano dal viso.
Non le lasciai il braccio, ma lo usai per farla voltare delicatamente, nella direzione da cui eravamo venuti. «Vieni con me», dissi. «Ci sono cose di cui dobbiamo parlare, più tardi.» Non fece resistenza quando la condussi via da quella figura sorridente e la guidai verso il veicolo. Mentre camminavamo, le luci continuavano ad aumentare di intensità. Fu solo quando fummo in aria e sulla strada verso l'ascensore a colonna che parlò di nuovo: «Dove stiamo andando?» «In un posto chiamato Ala Zero», dissi. «Dov'è?» «È troppo complicato da spiegare proprio adesso.» Annuì. «So del vostro luogo segreto... che ne avete uno, voglio dire.» «Come fai a saperlo? Il signor Black?» «Sì», rispose. «Che cosa intendevi quando hai detto che non era morto? Ti ho visto... ucciderlo.» «È morto solo un corpo. Lui esiste ancora.» «Dove?» «All'Ala Zero, temo.» «Come? Allo stesso modo di come... fai tu?» «Forse. Che cosa ne sai?» «Sono sicura che in un certo qual senso tu sei il signor Engel, l'uomo col quale ero prima, l'uomo che ho visto morire. In qualche modo sei trasmigrato, e sei venuto all'indirizzo che ti avevo dato allora. Non ho idea di come avvenga.» «Ancora il signor Black? È da lui che ne hai sentito parlare?» «Sì.» «Che cos'è lui per te?» «Fu il mio tutore, dopo che mio padre morì e mia madre dovette essere portata via per le cure. Si offrì volontariamente e il consiglio di zona lo autorizzò. Era stato amico di mio padre.» «Che cosa faceva? Qual era il suo lavoro?» «Era insegnante. Studi classici. Allora usava il nome Eibon. Henry Eibon.» «Perché?» «In origine, mi aveva detto che si trattava di un gioco. Vedi, l'avevo conosciuto come signor Black quando soleva venire a trovarci. Cominciò a usare l'altro nome quando divenne il mio tutore. In seguito, naturalmente, mi resi conto che era più che un gioco, ma tenni la bocca chiusa perché gli
volevo bene. Era molto buono con me... Dici che c'è una possibilità che lo riveda presto?» «Temo di sì.» «E se tu mi dicessi che cosa è per te?» «Siamo stati nemici per lungo tempo. Iniziò la vendetta. Non ho nessuna idea riguardo al perché.» Rimase zitta mentre percorrevamo la rimanente distanza e io individuai una zona deserta non troppo lontana dall'ascensore a colonna e feci atterrare il veicolo in una saletta di lettura a tre pareti. Mentre l'aiutavo a scendere, dissi: «E tu?» «E se ti dicessi 'sì'?» La afferrai per le spalle e la feci girare, così che il suo viso era a circa venti centimetri dal mio. «Parla!» la incitai. «Dimmi perché!» «Lasciami andare! Non ho detto di saperlo!» Strinsi la presa, poi la allentai. Le feci scivolare la mano lungo il braccio e la voltai per il gomito. «Vieni», dissi. «Dobbiamo salire di un paio di piani.» Se non voleva parlare, non avevo tempo per tirarle fuori le risposte. Avevo voluto raggiungerla per due motivi: per proteggerla e per ottenere le informazioni di cui sembrava in possesso. Ora non sembrava per niente bisognosa di protezione, né sembrava disposta a cedere le informazioni. Ma adesso che ero a conoscenza del suo particolare rapporto con Black, automaticamente mi scoprii a pensare a lei come a una specie di ostaggio. Non mi piaceva la scoperta di questa mia reazione, ma non avevo nemmeno intenzione di rinunziarvi. «Fondamentalmente», disse mentre ci dirigevamo verso l'ascensore nella luce che stava aumentando, «tu voi tenere la gente nella Casa, vero?» «Be'», ammisi, «come punto essenziale e generale, sì. Penso che sia una buona idea». «Perché?» «È il migliore modo che conosca perché la gente impari realmente a vivere insieme.» «Forzandola?» «Naturalmente. Quando non ci sono più alternative alla promiscuità e le energie aggressive sono incanalate, gli uomini tendono a cooperare piuttosto che a competere. Qualche misura coercitiva è però necessaria per avviare un'impresa del genere.» «Poi che cosa accadrà?»
«Che cosa vuoi dire?» «Gli uomini sono cambiati di molto, vivendo nella Casa?» «Penso di sì.» «Continueranno a cambiare?» «Credo.» «Sarà loro permesso di uscire all'esterno quando avranno raggiunto un punto ideale di adattamento?» «Naturalmente.» «Perché 'naturalmente'? Perché non proprio adesso? Perché vuoi vederli prigionieri finché non saranno cambiati?» «Non sono prigionieri. Possono andare e venire come piace a loro.» «Nella Casa!» «Nella Casa.» «Perché non anche fuori?» La testa cominciò a dolermi e divenni pienamente cosciente di tutti gli altri miei mali e dolori. Non me la sentivo di risponderle. Vuoi che lo faccia io? «Perché no?» decisi. «Va' avanti, Jordan. Di' tutto quello che vuoi.» Dammi la tua bocca, la tua gola, il tuo fiato. Rilassati. Lo feci, e qualche minuto dopo cominciò a parlare. «Lasciarli liberi?» disse. «Per diversificare, accentuare le loro differenze, incitare la competitività, l'aggressività, la violenza degli uni verso gli altri? Una volta quasi riuscirono ad autodistruggersi, in quel modo. In circostanze simili, la prossima volta potrebbero riuscirci. Per evitarlo, bisogna cambiare l'uomo. Non è ancora quello che sarà, ma è meglio di quello che era. Quando avrà imparato a vivere con i suoi simili, in pace, qui nella Casa, allora sarà pronto per uscirne.» «Ma sarà ancora umano?» disse lei. «Qualunque cosa lui sia sarà umano, perché allora quella sarà la misura dell'umanità.» «Che cosa ti dà il diritto di formulare tutti questi giudizi?» «Qualcuno lo deve fare. Chiunque lo voglia, può farlo.» «Il signor Black lo volle. E non era d'accordo con te. Per rendere la Casa sicura per i tuoi ideali di non-aggressività, di non-violenza, lo hai ucciso.» «Io esisterò soltanto per il tempo necessario ad assicurare la tranquillità, poi morirò anch'io.» «Chi deve decidere quando arriverà questo momento?» «Io.»
Rise. «Possiamo contarci?» disse. «Non vedo alcuna ragione per non farlo. L'ho fatto molte volte prima.» Scosse la testa, si voltò a osservarmi. Cercò di fermarsi, ma le tenevo ancora il braccio e continuai a spingerla verso l'ascensore. «Ho la sensazione che stiamo parlando due lingue differenti», affermò. «Un momento sembri razionale, e il momento dopo devii su una tangente. Sei una sola entità, o il tuo nome è Legione?» Strinsi la mente come in una morsa, e: «Rimani dietro di me, Jordan», dissi al mio interno. D'accordo, me ne vado, e se ne andò. «Io sono me stesso», dissi. «Devo chiamarti Engel?» «Perché no? È un nome buono come un altro. Dimmi perché Black voleva far uscire gli uomini dalla Casa.» «Pensava che si stesse lobotomizzando la razza, trasformando gli uomini in vegetali, e che, se alla fine si fossero fatti uscire all'esterno, non sarebbero stati in condizione di sopravvivere.» «Allora il nostro dissenso è troppo fondamentale per discuterne, perché si basa su una questione di interpretazione. Che cosa ti ha raccontato di me?» «Mi disse che c'è un nemico della gente con molti corpi che la pensa come la pensi tu.» «Ti riferì come venne a conoscenza di questo stato di cose?» «No.» «Che cosa ti disse a proposito del suo... ambiente?» «Assolutamente nulla.» «Stai mentendo.» Si strinse nelle spalle. «Che cosa hai intenzione di farci?» «Niente, per ora.» Entrammo nell'ascensore. La gente continuava a passare veloce dietro di noi, tutti diretti verso il basso. «E se mi mettessi a urlare?» disse. «E se mi rifiutassi di accompagnarti più oltre?» «Non lo farai. Verrai senza causare difficoltà.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Ho attratto completamente la tua curiosità, e la tua è una delle menti
più attive della Casa.» «Che cosa ne sai della mia mente?» «So quasi tutto quello che c'è da sapere su di te.» «Ora sei tu che stai mentendo.» Questa volta fui io a stringermi nelle spalle, e sorrisi. Salivamo, girando, giravamo, salendo. «... Mi avresti addormentata», osservò dopo un po', «e avresti agito come se fossi stata ammalata». «Forse.» Qualche momento dopo, mi accasciai improvvisamente contro il muro, e un urlo involontario mi sfuggì dalle labbra. Mi afferrò il braccio sinistro mentre annaspavo in aria, e mi aiutò a sostenermi mentre venivo assalito da spasmo dopo spasmo, con il mondo che avanzava, retrocedeva, si spostava di lato, sembrava riunirsi intorno a me e dentro di me. «Che cosa c'è?» chiese. Ma riuscii solo ad ansimare: «Aspetta. Aspetta...» Infine, tutto crollò, il centro tenne. Ripresi l'equilibrio, tirai un paio di respiri profondi di aria viziata, e ricominciai a muovermi. Glenda mi teneva per il braccio e ripeteva la domanda molte volte. «Il buon vecchio signor Black ha appena assassinato altre due persone», spiegai in fretta. «Ora pensa di avere il predominio e, se può esserti di consolazione, forse ha ragione.» Non rispose, ma si mosse veloce con me. Alcuni individui correvano dietro di noi, diretti verso il basso. Ci ignoravano completamente. Mi domandavo che cosa ne era stato del ragazzino al quale piaceva correre nella direzione sbagliata. Con gli occhi della mente, lo vidi ritto davanti a un enorme foro nella parete, voltandosi per tirare fuori la lingua, poi di corsa attraverso un campo illuminato dalle stelle. Quando arrivammo al piano della Cappella, c'era un po' più luce di prima, anche se non più della luce del crepuscolo. Il debole scintillare delle candele arrivava da molte nuove direzioni. Le strisce delle rotostrade restavano inattive. Puntammo nella direzione da cui ero venuto, mentre mi chiedevo se il pastore apostata non fosse ancora uscito. Erano stati Gene e Jenkins a morire, Winkel si era sottomesso all'assalto della personalità di Black. Un attimo di lavoro con l'arma più vicina e si era impadronito dell'Ala Zero. E ora? C'ero io, naturalmente. Ero l'ultimo rimasto. Una volta sbarazzatosi di me, sarebbe potuto anda-
re avanti con i suoi piani, quali che potessero essere. Mi spiaceva che, se lui avesse vinto, probabilmente non avrei mai compreso l'esatta natura del nostro rapporto di parentela, non avrei mai saputo che cosa gli era passato per la mente per tutto questo tempo. Sarebbe quasi valsa la pena di correre l'ultimo rischio per scoprirlo... Comunque accantonai quel pensiero per il momento. Volevo correre. Volevo raggiungere la porta nera al più presto possibile, lanciarmi attraverso di essa e mettere a posto le cose, finalmente. Ma mi sentivo abbastanza male e sapevo che i miei riflessi si erano rallentati. Inoltre non c'era senso ad arrivare completamente senza fiato. Volevo anche dire qualcosa a Glenda. Desideravo chiederle: «Allora, che cosa volevi dirmi quando mi invitasti a venire da te mentre stavo morendo?» Desideravo dirle che sapevo che la sua storia sull'aver perso un sacco di impieghi era una bugia, che sapevo che aveva una cattedra di ingegneria. Volevo chiederle perché, dato che mi aveva attirato in un'imboscata, all'ultimo momento mi aveva spinto fuori della linea di tiro. Volevo chiederle perché ora era stata così accondiscendente nell'accompagnarmi. Ed ero curioso di sapere se era armata. Ma naturalmente non dissi nulla. Camminavamo veloci, sorpassando alcune persone, ignorandole e venendo ignorati. Tutti loro sembravano diretti verso una o l'altra funzione. A tempo debito, ci avvicinammo alla zona del mio arrivo. Sfortunatamente, c'era in corso una funzione religiosa troppo vicina per utilizzare il passaggio che avevo in mente. Mi occorsero quasi dieci minuti per individuarne un altro in una zona deserta. Feci scattare la porta e la spalancai, salii, mi voltai, sporsi una mano e aiutai Glenda a entrare. Non protestò né discusse, ma mi seguì giù lungo il pendio, con la mano sulla mia spalla. Dietro, aprii la scatola e armeggiai con essa, sapendo che lei stava osservando tutto quello che facevo. Bene, potevo anche pasticciare con i suoi ricordi, in seguito, se c'era un seguito. La porta si chiuse sopra e dietro di noi. Rinchiusi la scatola e presi posizione davanti a Glenda, con una granata innescata nella mano sinistra, la pistola nella destra. Se il sistema difensivo era sull'automatico, non avrebbe sparato quando mi avesse analizzato, comunque. Se fosse stato sul manuale, speravo che la presenza di Glenda lo avrebbe trattenuto dal premere i tasti. In caso contrario, avevamo ancora la mia armatura tra noi e la morte. Forse sarei riuscito a sconfiggerla in tempo. «Presumo che questa non sia una procedura standard», sentii Glenda di-
re. «Sposta indietro il tuo peso. Atterreremo su una superficie piana», dissi. Ora che avevo finito di dirlo, eravamo già arrivati. 9 Barcollai leggermente in avanti nonostante la posizione, udii la sirena che cominciava a suonare e scagliai la granata contro l'armeria. Spinsi Glenda contro la parete opposta e la riparai dall'esplosione che seguì. Prima che fosse cessata l'eco, mi girai e mi lanciai attraverso il portale che si stava aprendo. Non si vedeva nessuno. L'allarme continuava a suonare. Corsi avanti. Girando nella prima grande zona di silenzio del corridoio curvo, vidi che la porta per la Composizione era ancora aperta. Girai intorno alla massiccia intelaiatura metallica ed entrai tenendomi basso, ad arma spiegata. Ma non era necessaria un'entrata del genere. C'erano solo Gene e Jenkins, e sapevo già che erano morti entrambi. Il modo in cui erano morti non era particolarmente importante per me, sebbene notassi che a Gene era stato sparato nella tempia sinistra e Jenkins aveva sangue sul petto e sull'addome. Mentre osservavo la scena, mi vennero in mente vaghi ricordi dell'attacco. È strano come funzioni una connessione finale. Se le cose fossero andate diversamente, loro avrebbero conosciuto i miei ultimi momenti con terribile chiarezza. Sembra sempre di passare con più chiarezza dai membri più anziani della famiglia a quelli più giovani, rispettando penosamente una specie di ordine di anzianità nella trasmissione del punto di connessione. Perché debba essere così, non lo so. Non che importi gran che, penso. Attraversai la stanza e spensi la sirena. Glenda entrò mentre me ne stavo allontanando, poi si fermò e impallidì. Le andai vicino, la feci voltare e la spinsi fuori. «Di qua», dissi, e la condussi lungo il corridoio. Anche la porta dell'Archivio era aperta. Mi fermai quando me ne accorsi e avanzai da solo. Mi avvicinai, entrai rapidamente. Era vuoto. Ma prima di potermi rilassare, sospirare, raddrizzare, i miei occhi andarono automaticamente alla parte più importante della stanza, e lì si fermarono. Erano state tirate le leve cinque, quattro, tre e due. La poltrona era stata fatta ruotare a destra. Il cappuccio pendeva spostato sul lato ad angolo so-
pra di essa. Fu il dolore alle spalle che mi fece accorgere di quanto mi si fossero tesi i muscoli. Tirai un respiro profondo, mi asciugai il sudore dalla fronte, mi voltai. Per un po', mi rifiutai di accettarlo. Chiunque o qualunque cosa lui fosse dentro, Black vi aveva aggiunto quattro dei miei demoni, tre dei quali io non conoscevo. Come clone, non c'era ragione perché non potesse farlo. Ma fino ad allora non mi aveva mai sfiorato il pensiero che lo potesse fare. Impreparato com'ero, fu per me uno shock maggiore di tutto quello che era accaduto di recente, comprese le mie morti e la spaccatura nell'Ala 5. Mi appoggiai all'intelaiatura della porta, tenendo d'occhio il corridoio. Automaticamente, presi una sigaretta e l'accesi. Ora dovevo avere la mente lucida e agire in fretta. Trovarlo. Quella era la prima cosa. D'accordo. Poteva essere dovunque. Poteva essere ancora in giro, oppure poteva essere tornato alla Casa. La prima cosa da farsi, allora, era di controllare col Bandito, vedere se aveva fatto qualcosa di registrabile come Winkel. In caso di risposta negativa, la seconda cosa da fare era cominciare a setacciare l'Ala Zero in cerca di lui. Debolmente consapevole della presenza importuna di Glenda, ritornai alla Composizione. Non notai le sue reazioni davanti ai corpi, questa volta, ma mi rimase al fianco. Ma non interrogai il Bandito. Quando attraversai la stanza per andarci, il mio sguardo fu attratto da una luce rossa che scintillava sulla mappa dell'Ala Zero posta sotto la superficie trasparente della sommità del calcolatore. Indicava che era stato aperto uno sportello. Se non si trattava di un espediente per distrarmi, allora significava che la mia preda poteva essere uscita all'esterno, sulla superficie del pianeta stesso. Il cronometro mi indicò che lo sportello era stato aperto soltanto da quattro minuti circa. «Maledizione a lui! Che cosa vuole?» esclamai, con la mente in subbuglio. Poi mi decisi e presi Glenda per mano. «Vieni! Torniamo ancora alla porta seguente. Devo farti vedere qualcosa. È urgente.» La riportai alla mensola centrale nell'Archivio. Tirando fuori lo stiletto, lo usai per far saltare via la saldatura alla base della leva uno. Poi mi voltai verso Glenda e mi accorsi che le stavo ancora tenendo la mano. I suoi occhi si spostarono dal macchinario alla lama, alla mia faccia. Posai l'arma e abbassai la sua mano, la lasciai. «Voglio chiederti un favore», cominciai. «È estremamente importante e
non ho tempo di spiegarti che cosa significhi.» «Avanti, chiedi», disse. «Sto per andarmene da qui e uscire all'esterno. Non ho la minima idea di quanto tempo starò fuori, anche se intendo starci solo per poco. Quando tornerò potrò essere confuso, incoerente, ferito. In tal caso avrei bisogno della tua assistenza.» Indicai la poltrona. «Se dovesse succedere, voglio che tu mi faccia sedere su questa poltrona, anche se dovessi addormentarmi per farlo.» «Con che cosa?» domandò. «Tra un attimo ti darò una pistola tranquillante. Se sembrerò in qualche modo turbato, o... alterato... fammi sedere sulla poltrona e abbassami questo cappuccio sulla testa.» Lo spinsi con la mano. «Poi premi questi interruttori: tutta la fila cominciando da sinistra e in ordine fino alla fine. Tutto il resto è a posto. Poi tutto quello che devi fare è aspettare finché non si accenda la luce azzurra. Quando avverrà, tira questa leva completamente in fuori. È tutto.» «Poi che cosa succederà?» «Non so... precisamente, cioè. Ma è l'unico rimedio al quale riesca a pensare per ciò che potrebbe capitare. Ora devo andare. Lo farai se sarà necessario... se sarò intontito, disorientato?» «Sì. Se mi prometti che poi risponderai alle mie domande.» «Va bene. Per favore, ripetimi la procedura.» Lo fece, e la accompagnai fuori in fretta una volta ancora. «Ti porterò in un posto comodo vicino al portello», dissi, «dove potrai aspettare, e guardare la superficie esterna. Potrai vedermi allontanare e tornare». Mi preoccupava quella luce, comunque, e decisi di mostrarle come opacizzare la finestra se fosse stato necessario. «... Un'altra cosa», aggiunsi. «Potrei non essere io quando tornerò.» Si fermò di colpo. «Scusa...?» Era perplessa. «Il mio aspetto potrebbe essere diverso. Be', potrei essere un'altra persona.» «Allora quello che mi stai chiedendo è di costringere la prossima persona che vedrò a mettersi sotto questo apparecchio, che l'idea gli piaccia o no.» «Solo se sembrerà confuso, intontito...» «Penso che chiunque lo sarebbe se si cercasse di spingerlo sotto quella roba.»
«Non sarà proprio chiunque. Sarò io, in una forma o in un'altra.» «D'accordo. Sarà fatto. Ma c'è un'altra cosa.» «Che cosa?» «E se non tornerà nessuno?» «Allora è tutto finito», dissi. «Torna a casa e dimentica tutto.» «Come? Non ho nessuna idea di dove siamo; lasciata sola, non saprei come tornare.» «Nella stanza dei morti», spiegai, «in basso, e a sinistra del centro sulla parete opposta, c'è un piccolo pannello verde che controlla il sistema di trasporto. È abbastanza semplice. Riuscirai a trovarlo all'occorrenza». Poi la condussi nel salotto, e lei si tirò indietro addosso a me, emettendo un piccolo grido. La finestra era stata resa trasparente. Adesso la luna non era visibile, ma una luce pallida era soffusa sul paesaggio, indicando che la seconda luna, più lenta, più grande, più luminosa, era già sorta, ma per il momento era nascosta ai nostri occhi. «Quella non è una fotografia. È una finestra vera, no?» chiese. «Sì», risposi, spingendola delicatamente avanti, girandole intorno e dandole un'arma tranquillante. «Sai come usarla?» Stava avanzando verso la finestra. Diede un'occhiata alla pistola, mormorò: «Sì», e continuò ad avanzare, come ipnotizzata. Mi avvicinai a lei, le presi la mano, gliela misi nel palmo e le chiusi le dita sopra di essa. «Non ho mai visto prima l'esterno... davvero», disse. «Bene, guarda finché vuoi. Ora devo andare. C'è un interruttore semplice per accendere-spegnere lì a sinistra, sotto l'intelaiatura. Funziona. La opacizzerà, se vuoi.» «Perché dovrei volerlo? È meraviglioso.» «C'è un fenomeno ottico... una luce accecante... che va e viene. Desidererai opacizzarla, se verrà.» «Va bene, finché non accade ho però intenzione di guardare. Io...» «Allora ciao per ora. A presto.» «Aspetta!» «Ho già aspettato troppo.» «Ma ho visto muoversi qualcosa là fuori. Poteva essere un uomo.» «Dove?» Puntò il dito in direzione delle rovine. «Da quella parte.» Non vidi muoversi niente ed ella disse: «Ora è andato», e io dissi: «Grazie», e la lasciai lì in piedi a guardare fuori, chiedendomi se si fosse accorta della mia partenza.
Risalii il corridoio fino al recesso dove si trovava lo sportello. Era in realtà una serie di tre porte, che offrivano vari gradi di resistenza e forme di protezione. Nessuna delle tre era sorvegliata, e le attraversai rapidamente, facendo una pausa solo per tirar fuori la pistola. Faceva freddo, e gli odori della notte mi giunsero alle narici... umidi, e sfumati del vago profumo dell'erba in crescita. Dopo un attimo, il senso di novità svanì. Ero stato all'esterno alcune volte prima, molto tempo fa, e le impressioni non mi erano del tutto sconosciute. Velocemente mi accinsi ad attraversare la superficie irregolare e mi precipitai in direzione delle rovine. Il silenzio veniva interrotto di quando in quando da tenui trilli, non saprei se di uccelli o di insetti. Passai attraverso piccoli banchi di nebbia ogni volta che il terreno si abbassava sensibilmente. I sassi erano umidi e scivolosi. Negli spazi chiari vedevo la mia ombra, tanto era diventato forte il chiaro di luna. Voltandomi, potei vedere l'enorme sfera bianca nella sua interezza, grossa sopra la mia fortezza, ora. Alcuni banchi di nuvole le correvano davanti, ma il cielo era per il resto chiaro e risplendente di innumerevoli stelle. Allora fui assalito da una serie di sensazioni particolari che iniziarono, credo, con un senso di incertezza e di apprensione. Il panorama stellare aveva qualcosa a che fare con quello stato d'animo (quelle stelle che avevamo tentato di rendere in qualche modo oscene), come pure il paesaggio immobile e inflessibile attraverso cui mi muovevo, solo adesso, per la prima volta dopo anni e anni, fuori della Casa, all'inseguimento dell'individuo più enigmatico che avessi mai conosciuto, in direzione di quelle misteriose rovine. Era una cosa insolita che pensassi a questo modo. Fino a quel momento le rovine non mi avevano mai turbato. Erano semplicemente là, e questo era un fatto che anch'esso contribuiva a questo strano momento di introspezione. Allora mi venne in mente la possibilità che le cose particolari che normalmente non mi davano da pensare erano probabilmente cose una volta a me note, e come una spada nella roccia il margine della mia curiosità era smussato a livello di subconscio. Quante cose avevo saputo e dimenticato? Qualcuna di esse mi sarebbe stata utile adesso? Stavo correndo verso la mia distruzione per seguire un uomo che sapeva quasi tutto quello che sapevo io, con in più parecchie esperienze di vita di cui io non sapevo niente? Probabile. Ma pensavo di aver progettato questo incontro. La cosa che mi dava noia era che anche lui sarebbe stato in grado di capirlo. E perché scegliere questo posto come campo di battaglia? Aveva a che
fare con le rovine, lo sapevo. Allora mi resi conto che ne avevo una certa paura. Perché? Se soltanto avessi tirato più leve... Andai avanti, preparato a un'imboscata, ma tuttavia dubitando che ce ne sarebbe stata una. Dalle rovine non usciva una scintilla, non un raggio di luce. Erano immobili, con le loro ombre che solo ora cominciavano a indietreggiare nella luce lunare. I miei passi arrivavano attenuati, smorzati. Il mio respiro sembrava il rumore più forte intorno a me... Il terreno saliva, poi scendeva ancora, e per un momento ebbi una chiara visione per una buona distanza. Comunque lui non si vedeva da nessuna parte. Ci fu un soffio d'aria, freddo, leggero, e la nebbia si diradò, sparì, mentre mi dirigevo su un terreno più alto. Stavo andando a uccidere un uomo in nome del pacifismo, dell'armonia, della fratellanza, e per mantenere l'integrità della Casa. A quest'ora era abbastanza ovvio che anche le sue intenzioni verso di me erano letali. Mentre non ero certo delle implicazioni, sembrava che lui non fosse d'accordo con me sulla questione dell'umanità rinchiusa. Questa era una ragione sufficiente per toglierlo di mezzo, per quanto mi riguardava. Comunque, mentre con chiunque altro mi sarei limitato a eliminarlo come un pazzo, la sua insistenza e occasionale ingenuità avevano risvegliato in me la curiosità in merito alle sue motivazioni. Non avevo alcun dubbio sulla correttezza della mia fede, che la natura umana poteva essere alterata, che l'uomo poteva essere forzato a evolversi moralmente. Mentre giravo attorno a una piccola pozza schiumosa al centro di un cratere, per un attimo mi chiesi perché. Non era un interrogativo sulle nozioni, semplicemente un'improvvisa curiosità sul dove le avevo ricevute. Sembrava che avessero sempre fatto parte del mio bagaglio mentale. Stando così le cose, mi colpì il fatto che con tutte quelle leve tirate Black e io spartissimo ora un'ereditarietà della quale lui sarebbe dovuto essere di gran lunga più conscio. In questo caso, poteva darsi che egli avesse acquisito l'atteggiamento mentale adatto. C'erano parecchie possibilità... Oppure era in preda a un imperativo assolutamente opposto, e in questo caso era stato cambiato; oppure il nostro passato remoto era sufficientemente ambiguo perché lui vivesse senza modificare i suoi atteggiamenti. Poteva darsi che tutte e tre le possibilità fossero sino a un certo punto corrette. La natura della prima era, al presente, inconoscibile per me come
la fonte più lontana dei miei stessi sentimenti. Intendo dire, ero conscio del fatto che le mie stesse nozioni erano razionali senza essere necessariamente logiche, cioè deduttive. Facevano parte della mia... «tradizione» mentale (penso che sia la parola migliore). I suoi sentimenti, cioè, erano altrettanto forti, e presumo che fosse possibile che l'accumulazione di quattro vite depositate in lui tirando le leve non l'avesse necessariamente piegato al mio modo di pensare. Tuttavia, dovevano esserci delle conseguenze... Comunque, era come indovinare i risultati di un'analisi in cui due prodotti chimici virtualmente sconosciuti fossero mischiati e riscaldati. La terza ipotesi era quella che mi turbava, come un dito in una piaga fresca... Vale a dire, la possibilità che il mio passato non fosse solido come il presente. Supponiamo che ci fosse effettivamente qualcosa che lo incoraggiasse e lo incitasse? La ragione del suicidio parziale mediante la leva con ogni successione del punto di connessione era più che un adattamento della personalità per una fusione permanente. Veniva anche considerato come un atto di civilizzazione progressiva, un'ulteriore riduzione graduale, a ogni occasione, di quegli elementi classificati come antisociali, a seconda dell'evoluzione morale dei tempi. La mia condizione attuale era una prova della funzionalità del sistema. Ero capace di cose che sapevo avrebbero fatto rabbrividire, inorridire o addirittura svenire Lange o Engel. Per il momento ero soddisfatto, dato il tipo di uomo che inseguivo. Ma sebbene mi sentissi inevitabilmente cattivo, la necessità di esserlo mi era sgradita. I mezzi erano giustificati solo perché Black era un anacronismo. Ma che cosa c'era dietro alle altre leve? Era quello che mi preoccupava. Sapevo quello che ero stato fino a poco prima, e sapevo che cosa ero diventato. Il ritorno era stato una cosa facile e naturale, e avevo assorbito e dominato le mie ultime personalità abbastanza facilmente... come se non si fosse trattato che di stati d'animo passeggeri. Tutte le parti non sacrificate di Jordan erano parte dei miei ricordi; il resto lo conoscevo oscuramente come attraverso un diaframma, quando, in momenti di crisi, diventava il mio demone personale. Lì per lì, avrei detto che era un po' più mediocre e più anormale di me. Per estensione, allora, non avrebbero potuto anche le versioni precedenti di me stesso sostenere anziché contraddire quello che spingeva Black? Mi ero arrampicato su uno specchio, passo dopo passo con dolore. E se non l'avessi fatto? E se non ci fosse stata nessuna volontà irresistibile di migliorare la mia condizione, e nessuno sforzo? Black e io eravamo della stessa carne. Non capivo come o perché, ma era così. Ed era
questo a rendermi apprensivo. L'unica vera differenza tra di noi era un'idea, o un ideale. E, come sfaccettature della stessa persona, volevamo ancora, in senso completamente letterale, ucciderci per quello. Il sentimento che si impadronì di me in quel momento non era dissimile da quello che aveva assalito Engel quando fuggiva da file di telefoni che suonavano. Soltanto, io sapevo che se avessi risposto, la voce dall'altra parte sarebbe stata la mia. Scrutando avanti, mi feci strada tra i mucchi di pietre frantumate. Trattenni le mie sensazioni, in parte le soffocai, restai vigile. Poteva essere da qualsiasi parte in agguato. Superai un piccolo cratere dentro e intorno al quale le rocce si erano fuse. Quasi immediatamente dopo, il terreno si curvava verso l'alto e presi un percorso accidentato su per il lungo pendio, con cocci e schegge di qualche minerale che mi luccicavano sotto i piedi. Improvvisamente, arrivai a un punto alto dietro un mucchio di ciottoli, da cui potevo vedere le rovine distanti circa un chilometro. Cercai immediatamente riparo e studiai il panorama. Era immobile e chiaro nella luce della luna, senza alcun movimento apparente da nessuna parte, eccetto che per alcune creaturine volanti che si abbassavano e fuggivano velocemente. Dall'interno delle rovine non proveniva nessuna luce. Rimasi a osservare per breve tempo, guardai indietro la grande massa scura dell'Ala con il suo unico piccolo quadrato luminoso, rivolsi ancora lo sguardo in avanti. Allora lo vidi. Avanzando rapidamente, era appena apparso da un pendio frastagliato che sembrava una saetta spezzata a metà che attraversava il piano. Saltellando fra le rocce, procedeva verso le rovine. Immediatamente gli fui dietro, correndo giù dal pendio, scivolando e inciampando, smuovendo la ghiaia. Non avevo bisogno di nascondermi ora che sapevo dov'era. Alla prima occasione mi misi a correre. Sembrava indubbiamente che si stesse dirigendo verso quella fortezza abbattuta, e sentii un improvviso bisogno di raggiungerlo prima che ci arrivasse. Il fatto che vi si stesse dirigendo mi preoccupava di più che se mi avesse teso un'imboscata. Essendo la sua conoscenza del passato superiore alla mia, temevo che andasse a cercarvi qualcosa che potesse dargli il sopravvento nel combattimento imminente. Giù, poi su di nuovo. Non c'erano altri pendii più scoscesi per il resto del percorso. Era tutto in salita, un terreno corroso, fuso, spezzato, cosparso di
macerie. Presto diventò impossibile correre. Ma mi sforzai al limite delle mie possibilità e guadagnai terreno. Tra quanto tempo si sarebbe accorto di me? Qualche minuto dopo, non importava. Gli ero più vicino di quanto lui non fosse vicino alle rovine. E le prime due volte che guardò indietro, in un modo o nell'altro non mi vide. Ormai respiravo affannosamente e sentivo il sangue pulsare violentemente nelle tempie. Rallentai. Dovevo. Poco dopo mi vide, mi fissò un momento, si voltò e cominciò a correre. Bestemmiando, lo seguii più in fretta che potevo. Eravamo troppo lontani per preoccuparci di spararci a vicenda. Poi, per un po', dovetti limitarmi a sperare che si stancasse più in fretta di me. Se solo fossi riuscito a fargli rallentare l'andatura un po' di più, si sarebbe convinto che aveva una sola possibilità di farcela. Volevo che arrivasse alla conclusione che, correndo, non sarebbe arrivato in tempo dove era diretto, così che si voltasse a combattere e a farla fuori in un modo o nell'altro. Guardò ancora indietro e, benché non ne potessi più, aumentai la velocità. Eravamo quasi a distanza di voce. Barcollò leggermente, si rimise a correre. Lentamente, le cose presero una piega migliore. Sembrava che le mie speranze stessero realizzandosi. Cominciai a credere che ce l'avrei fatta a trattenerlo. Quando un minuto dopo guardò indietro, sembrava che avesse deciso nel senso che io speravo. Virò a destra, dirigendosi in una zona piena di grosse pietre e di piccoli ciottoli. Fantastico! Feci lo stesso. Non dovevo muovermi lentamente e con prudenza quando indossavo l'armatura. Avevo già la pistola in pugno prima che sparisse dietro il masso più vicino. Feci un giro largo per superarlo, ma non c'era. Aveva continuato a camminare, e il primo sparo mi arrivò da un cumulo di sassi lontano circa trenta metri. Quando individuai la sua posizione, non sparai, aspettando che si mostrasse di nuovo, perché quella prima volta si era tirato indietro. Non volevo perdere un colpo su un bersaglio incerto a quella distanza. Comparve, a circa quindici metri, ed entrambi sparammo. Sentii l'impatto contro l'armatura sul petto, e il mio sparo rimbalzò sulla pietra. Continuai a correre e tutti e due continuammo a sparare. Questa volta non indietreggiò. La mia armatura fermò altri due dei suoi colpi, credo. Poi uno dei miei lo fece sussultare. Per un attimo, sentii rinascere la speranza.
Comunque, ognuno di noi sparò ancora una volta. Sentii un dolore lancinante nel lato sinistro della testa e inciampai. La pistola mi cadde dalle dita intorpidite. Non potevo permettere che finisse a quel modo. Mi sembrò di sentire uno scatto metallico vicino alla testa. Voltandomi, vidi la parte superiore delle sue scarpe. Avevo il braccio destro completamente fuori uso, ma non potevo permettergli di stare lì a ricaricare tranquillamente e a premere ancora il grilletto. Gli afferrai le caviglie con la mano sinistra, e ne presi una. La sinistra, penso. Cercò di liberarsi, ma io riuscii a mantenere la presa. Allora cercò di prendermi a calci col piede libero, proprio quando gli diedi uno strattone alla caviglia e rotolai verso di lui. Finì a terra. Mollai la presa, e con la mano sinistra tentai di estrarre dalla giacca lo stiletto incurvato. Ci riuscii. Era troppo lontano dal suo cuore o dalla sua gola, però, e si stava già muovendo di nuovo. L'unica cosa che riuscivo a immaginare era tentare di spaccargli l'arteria nella gamba più vicina a me con l'unico colpo che avrei potuto sferrare. Sarei potuto riuscire a gettarmi sopra di lui e a tenerlo giù mentre si dissanguava. Il resto sarebbe stato nelle mani di Dio. Vibrai la pugnalata e lui la bloccò. Mi afferrò il polso. Tentai, indebolito (potevo anche vedere il sangue sui suoi abiti), ma era ancora in vantaggio. Alzò l'altra mano e cominciò a forzarmi le dita per farmi mollare l'arma. Ormai ero all'ultimo limite della coscienza, ma mi resi conto ugualmente che le cose stavano così, che non potevo far più niente. Mi strappò la lama e la rovesciò. Ironico. La mia stessa arma... avevo avuto l'intenzione di ucciderlo, di bloccare la connessione e quindi liberarmi di lui per sempre. Ora, però... L'ultima cosa che vidi prima di sentire la puntura della lama fu il suo volto. La sua espressione non era di trionfo, comunque: solo di stanchezza e un po' di paura. 10 Silenzio, luce, sangue. Dolore... Troppo tardi. Troppo tardi... Chiuso... No! Da cima a fondo... Sì! Capogiro...
... E la luce. La luce! Continuavano a battere le palpebre. Continuavo a battere gli occhi. Mi sentivo tutto bagnato. Sudore, sangue, saliva... Avevo la testa piena di turbini, afferravo dei pensieri, li intrecciavo, affiancavo delle immagini, la mia consapevolezza girava in tondo... Smettere di pensare, frenare l'attività mentale il più possibile, limitare la coscienza al livello di osservazione e di reazione... questo sembrava l'unico modo per mantenere un certo equilibrio. Dolore. Sentivo male in molti punti, ma il dolore nella mano destra era particolarmente intenso. Per tutto il tempo ero rimasto a osservarla, ma ora costrinsi la mia attenzione a fermarsi su questo particolare. La mano mi era diventata bianca nello sforzo di impugnare l'elsa della spada che sporgeva dalla gola dell'uomo che giaceva per traverso sulle mie gambe. Aveva una ferita di striscio sopra l'occhio sinistro, e sangue sulla fronte, sulla guancia e sul collo. Sì, sì, avevo capito, ma rimossi la faccenda dalla mente con la stessa velocità con cui vi si era affacciata e considerai il problema della mia mano. La strinsi e mi tirai le dita, riportando alla memoria un altro ricordo che soffocai immediatamente. Gradualmente si rilassarono, e involontariamente emisi un urlo quando i muscoli mi si allentarono. Una volta liberi, comunque, lasciai cadere immediatamente la mano e strizzai forte gli occhi. La luce... Faceva male, dato che il raggio era diretto completamente sulla mia faccia. Voltai la testa, riaprii gli occhi. Era ancora troppo forte, adesso veniva dal fianco. Decisi di andarmene. Tra l'altro volevo anche allontanarmi dal cadavere. Lentamente, mi liberai, tenendo la testa girata rispetto al corpo e alla luce. Mi accorsi immediatamente degli altri dolori, in particolare nella parte bagnata della vita, sul fianco destro. Mi alzai in piedi, comunque, e mi appoggiai contro il macigno di fianco al quale ero disteso, respirando affannosamente e con la testa che mi girava ancora per parecchi minuti. Mi sembrava di essere in preda a un incubo, terrorizzato al pensiero di ciò che era appena accaduto, terrorizzato per ciò che sarebbe potuto accadere. Appena il mondo mi si fermò intorno, mi spinsi avanti e cominciai a camminare. Seguii la grande luna bianca che tramontava. ... Andarmene da quella luce abbagliante. Ma mi seguiva. Girai a destra, poi a sinistra. Affrettai il passo. Ma la luce rimaneva con me.
Repressi un'ondata di follia. «No! Non pensare! Per amor del cielo, non pensare!» dissi forte, sorpreso della mia stessa voce. Non pensare. Poteva gettarmi nel panico, nella confusione, nel caos. Considerare solo un'idea per volta e concentrarsi su quella fino a escludere tutte le altre. Fissai l'attenzione sui miei movimenti, contando i passi, osservando i dintorni, pensando ai miei piedi, alle mie gambe. Ma stavo andando nella direzione sbagliata. O no? Sì. Sì. Stavo andando verso le rovine. Io... Non pensare! ricordai a me stesso. Va' via! Va' via! Sì. In quel momento era più importante allontanarsi da quella luce più di ogni altra cosa. Buona idea. Ma... Seguila! Va' via! Camminai rapidamente. Cinquanta passi. Cento. Va' diritto. Cinquanta passi. Svolta a sinistra. Cinquanta... La luce mi seguiva, proiettando ombre mutevoli davanti a me, illuminandomi la strada. Era una cosa che faceva rabbrividire, e mi misi a correre, cercando una barriera che potesse interporsi tra me e la fonte della luce. A qualche centinaio di metri di distanza, vidi un riparo che faceva al caso mio e corsi verso di esso, vi girai attorno, mi fermai a riposare ansando. Automaticamente cercai una sigaretta. Sigaretta? Non ne avevo. Ma era giusto. Winkel non fumava. Piuttosto... Aspetta! Black... No! Non pensare. Mi morsicai il labbro. La luce non poteva raggiungermi. Era buio, ed ero solo in un posto tranquillo. Cercai di rilassarmi, e sentii il respiro che cominciava a rallentare. I battiti del cuore ne seguirono l'esempio. La fitta lancinante nel fianco si tramutò in un dolore sordo. Sanguinava ancora, sebbene non più con tanta abbondanza. Gli tenni il palmo della mano premuto contro. Dovevo tornare indietro, raggiungere le rovine. Ma quella maledetta luce... Se fosse sparita, sarei potuto andare per la mia strada. Ma perché? Perché alle rovine? Quello che in realtà volevo era andare via e... No! Aspetta! Aspetta... Avevo distrutto l'ultimo di loro. Adesso era tutto finito.
No. Avevo finalmente fatto fuori il signor Black. No. No? No! Allora si sollevò il coperchio dell'inferno. Io/lui eravamo stati troppo deboli per resistere alla fusione finale. La conseguenza più orribile di questo capire le cose fu un desiderio di ridere e di urlare allo stesso tempo. Rendermi conto di ciò che era successo non voleva dire accettarlo... o essere in grado di farci qualcosa. Del tutto impotente, riflettei su ciò che ero diventato: vale a dire, letteralmente, considerandolo nello stesso tempo da entrambi i punti di vista, ero il mio peggior nemico. Credo che risi, o sbuffai, momentaneamente. Ero trascinato per. corridoi di ricordi dove tutte le azioni ricordate erano guidate da sentimenti e desideri che ora incontravano i loro opposti a ogni passo. Cominciai a sentirmi soffocare. Era troppo. Veramente troppo. Stava spaccandomi in due. A quel punto ero completamente incapace di aiutare me stesso. Qualunque cosa pensassi o provassi, arrivava una reazione immediata, un contraccolpo di colpa, di collera, di paura. L'unica cosa che mi salvò, che una volta ancora chiuse il coperchio su tutto questo, venne dall'unico luogo possibile: il mondo esterno. Fui distratto. Si trattava di un rumore non forte e piuttosto lontano, ma completamente fuori posto. Metallico. Ricorrente. Improvvisamente, la mia esistenza si concentrò nei sensi, e i residui delle emozioni appena attraversate si consolidarono nella più completa circospezione. Tesi le orecchie, andai a destra, mi abbassai, guardai attentamente dal bordo della roccia che mi dava riparo. La luce inondava ancora l'altro lato del macigno, anche se per un attimo non mi colpì direttamente negli occhi. Poi mi prese in pieno, muovendosi velocemente avanti e indietro sopra il masso, ma non prima che avessi individuato la fonte del rumore. Era un tozzo robot di qualche genere, con quattro estensori a forma di cavo e occhi fotoelettrici, che veniva nella mia direzione rullando su ruote scure. Immediatamente mi voltai e corsi via. Non c'era dubbio, veniva per me. Giù. Poi su. Poi giù ancora. La luce mi seguì per un certo tempo, ma l'angolo del pendio mi portò rapidamente al di sotto della sua portata. Rallentai, ansando, premendo la mano sul fianco. Dovevo razionare con cura
le mie energie. Il fatto che molto del rimanente percorso fosse in discesa mi sarebbe stato di aiuto. Guardai indietro, ma la macchina era fuori vista dietro il crinale. Davanti, la luna inargentava la facciata della fortezza dell'Ala Zero. Riuscii a scorgere la solitaria finestra illuminata. Potevo vedere le orme che avevo seguito. La bruma incollata al suolo, i banchi di nebbia, di vapori, avevano un tocco di fosforescenza. Le rocce bagnate scintillavano come vetro nero. Pensavo di avere ancora una probabilità di riuscire a sfuggire al mio inseguitore meccanico. A tratti lo sentivo ancora, mentre spostava ciottoli, schiacciava i sassi, seguiva le mie tracce a ritmo sostenuto. Tra l'altro non sapevo se dovessi ringraziarlo o maledirlo. Mentre ero stato tormentato da quella luce, ne ero anche stato attratto. Ora che, fino a un certo punto, sapevo chi ero, riuscivo a capire un po' più facilmente. In effetti avevamo cercato di raggiungere le rovine... non sapevo esattamente perché. Non faceva certo parte di un piano elaborato per prendere l'ultimo di loro/noi. No. E il desiderio di andarci era ancora forte dentro di me. Quella luce rappresentava molte cose, e per me una di queste era un segnale, un richiamo. Solo che il me stesso che aveva raggiunto non era più il me stesso al quale era stato destinato. Parte di me ne era stata spaventata, terrorizzata, era fuggita. Però il suo richiamo persisteva e, anche mentre scappavo, ero stato attratto dalla chiamata. Questa ambivalenza si risolse in favore di una fuga continua, comunque, con la comparsa del robot. Dietro quel «coso» ci doveva essere una specie di intelligenza. Il non comprendere che cosa rappresentava era una ragione sufficiente per sfuggirlo. Ma dopo non molto tempo i rumori diventarono più forti. Ora il robot sembrava muoversi più velocemente. Mentre camminavo, continuavo a guardare indietro. Saltavo tra formazioni di sassi frastagliati, fra crepacci, burroni, crateri, scendendo ancora vicino alla zona nebbiosa. Comunque, là avevo poche speranze di seminare il robot, quando mi accorsi che la conformazione superficiale della zona mi avrebbe presto fatto tornare alla portata di quella luce. Poi mi sembrò di vederlo di sfuggita mentre percorrevo il paesaggio con lo sguardo. Costringendomi a muovermi in fretta, inciampai, caddi quasi in preda al panico per la lentezza nel riprendere l'equilibrio, ripresi animo, avanzai più decisamente. Il robot continuava ad aumentare la velocità, si muoveva più in fretta di
me. Ma nel suo avanzare non era preciso e diretto, perché faceva svolte alla cieca, si fermava di colpo, indietreggiava, cambiava direzione, girava intorno alle cose. Vedendo ciò, deviai bruscamente dietro una roccia e cambiai percorso per tenere quanti più ostacoli potevo fra me e la macchina. Tuttavia, sembrava conoscere la mia direzione generale. Cominciai a nutrire nuove preoccupazioni riguardo alla mia capacità di distanziarlo una volta all'aperto e su terreno piano. Che cosa diavolo dovevo fare? Accecalo, stupido! La sorpresa durò solo un attimo, perché non era altro che una parte di me che non mi era familiare come i miei demoni. «Come?» domandai. Volta la testa a destra... Basta! Vedi quella scarpata? Raggiungila e salici! «Verrò individuato.» Questa è l'idea. Vai! Andai. Aveva un piano, ed era più di quanto avessi io. Se non puoi fidarti del tuo demone, di chi puoi fidarti? L'idea prese possesso di me mentre andavo verso la scarpata. Non vi era nulla di complicato... il che, considerando le circostanze, era un bene. Il rumore di una maggior attività su per il pendio mi avvertì che ero stato scoperto. Quando guardai indietro, la macchina stava correndo verso di me. Affrettai il passo e, quando guardai ancora, mi resi conto di che razza di pendio ripido si innalzava davanti a me. Comunque iniziai a salire immediatamente, senza preoccuparmi nemmeno di guardare indietro. In questo modo la paura ci rende tutti atleti. «Hai ragione», dissi, con il sangue che mi pulsava, con il rumore del mio inseguitore che si faceva sempre più forte. Mentre procedevo mi chiesi se la macchina si sarebbe azzardata su questa salita o se si sarebbe limitata ad aspettarmi. Non credevo che avrebbe potuto farcela fino in cima, anche perché non ero certo di farcela neanch'io. Diventava sempre più ripida, e alla fine dovetti cercare degli appigli per le mani come per i piedi. La presa era debole, e il fianco continuava a dolermi e a sanguinare. Quando fui a un'altezza tale da sentirmi al sicuro dalla macchina, là mia maggior paura fu di svenire e cadere. Respirando affannosamente, riuscii a portarmi sulla vasta piattaforma che avevamo notato, a circa tredici metri dal suolo, dove crollai. Poi credo di aver perso la conoscenza per qualche istante.
Fu il rumore dal basso a risvegliarmi. Ma non rapidamente. Mi sentivo gli arti appesantiti, la testa sul punto di esplodere. Lembi di pensieri e di immagini, come frammenti di sogno, si fusero e svanirono prima che potessi esaminarli da vicino. Mi appoggiai sui gomiti, sollevai la testa e mi voltai per guardare giù, oltre la sponda. Il robot stava tentando di salire sul pendio. Aveva raggiunto un'altezza di circa quattro metri e mezzo. L'angolatura del pendio aumentava in quel punto, e il robot stava muovendosi cigolando molto lentamente, in su e in giù, con gli estensori che si dibattevano verso sporgenze rocciose. Distruggilo! Distruggilo! «Va bene! Diavolo!» borbottai. «Va bene!» Girai lo sguardo in cerca di munizioni. La maggior parte dei sassi sembrava o troppo grossa o troppo piccola. Li catalogai velocemente. Dovevo tentare di farne rotolare uno grosso o lanciare qualcuno dei sassi più piccoli? I muscoli mi diedero la risposta. Mi misi in ginocchio, poi mi alzai, ne accumulai circa una dozzina della dimensione di un pugno vicino alla sponda. Ormai l'automa era salito di un altro metro ed era riuscito ad afferrare una sporgenza solida. Continuava la sua avanzata. Scagliai tre sassi. Due mancarono completamente il bersaglio e uno colpì l'intelaiatura in basso. Giuda due volte porco! Ne scagliai altri due, e solo uno passò vicino ai ricettori. Trovò un altro appiglio, si avvicinò di un altro metro e mezzo, salì ancora più su. La mia pietra seguente sfasciò un ricettore. Fu un colpo di fortuna, ma mi risollevò le speranze. Feci rimbalzare tutti i miei sassi rimanenti sulla sua intelaiatura, ma senza notevoli risultati. Ormai era salito di circa sette metri e mezzo e continuava a muoversi. La sua angolazione sembrava piuttosto precaria, ma i suoi tentacoli erano dei cavi robusti e lucenti, e mi parevano più che adatti a sostenerlo. Mi misi in cerca di altre munizioni. Trovai un sasso delle dimensioni di un cavolo e lo scagliai a fatica, usando tutt'e due le mani. Si abbatté contro il robot con forza notevole. Con mia sorpresa, la macchina si fermò per parecchi minuti, appesa là. Lentamente, però, riprese a salire. Faticai con un altro masso, circa tre volte le dimensioni di quello precedente, e cercai di ripetere l'impresa. Questa volta l'automa emise una breve
successione di rumori metallici prima di ricominciare a muoversi. Ma ormai avevo quasi esaurito il mio arsenale. Di sassi facilmente maneggiabili, cioè. Ce n'erano alcuni troppo grandi, e non speravo di farcela a smuoverne uno. D'altra parte... Ce n'era uno più indietro, un po' più in su. Certamente abbastanza grosso da provocare la distruzione che desideravo. Se fossi riuscito a smuoverlo, sarebbe rotolato. Se fosse rotolato, poteva arrivare fino alla sponda e oltre. Se l'avesse fatto e fosse andato giù nel punto giusto, le mie preoccupazioni immediate sarebbero finite. ...Sfortunatamente, era di forma irregolare, e non potevo essere sicuro del percorso che avrebbe seguito. Mentre stavo lì a pensarci, il robot improvvisamente fece un balzo avanti di circa un altro metro, e cominciò immediatamente a lanciarsi in cerca di una posizione d'appoggio. Mi voltai frettolosamente e mi diressi verso il macigno. L'automa aveva già superato la metà della salita. Sulle prime non riuscii a smuoverlo. Dovetti buttarmi su di esso con tutto il peso sette od otto volte prima che si muovesse leggermente. Ormai, mi sentivo le braccia quasi inservibili e la combinazione del mal di testa e del capogiro col dolore nel fianco era prossima a sopraffarmi. Ma il fatto che si fosse mosso mi ridiede un po' di forza. Spinsi ancora due volte e in entrambi i casi si mosse. Ormai il rumore del robot era paurosamente vicino. Cercai di far forza appoggiando la schiena contro la parte inclinata della roccia e spingendo con le gambe. Ciò mi aumentò il dolore nel fianco, ma smosse il macigno ancora un po'. Girando la testa, vidi gli estensori frustare l'orlo del mio nido, in cerca di appigli, cadere indietro, ricominciare. Rinnovai gli sforzi. Il macigno tremò, oscillò in avanti, dondolò indietro. Di nuovo. Di nuovo. Quasi si mosse. Ma mi sentivo esausto. Incapace di spingere un'altra volta. In grado a mala pena di muovermi... Due degli estensori afferrarono qualcosa. Seguì un ronzio affannoso, che qualche momento dopo si unì a uno stridore di ruote. Ma non avevo ancora ripreso forza. Stavo là dolorante, in ascolto. Ci fu un lampo di luce, un altro mentre il robot barcollava e annaspava, e poi il raggio fu una volta ancora su di me. Bestemmiando, girai la testa. In quell'istante, trovai la forza supplementare che mi occorreva. Tesi le gambe, quasi convulsamente, e cominciai a spingere. I miei denti
erano serrati tanto forte che pensai potessero spaccarsi tutti. Un sudore freddo mi imperlò la fronte e mi scese negli occhi. Il fianco mi pulsava in ritmo col cuore. Poi, lentamente, lentamente, il masso si mosse in avanti. Si spostò di parecchi centimetri, mi sembrò, prima di fermarsi. Mi riposai e lo lasciai dondolare indietro. Allora mi tesi di nuovo e spinsi. Questa volta continuò a muoversi oltre il punto dove prima si era fermato. Rallentava ma continuava a spostarsi, e mantenni la pressione finché mi sembrò di scoppiare. Rallentò, sembrò che stesse per fermarsi. Poi andò avanti e io mi sdraiai a terra. Avrei perso l'occasione di vedere ciò che accadde in seguito se la testa non mi fosse rotolata a sinistra e la luce non mi avesse ancora colpito gli occhi. Mi piegai e con quel movimento riuscii a vedere l'avanzata del masso. La sezione anteriore del robot era in vista, di venticinque o trenta centimetri. Il macigno sembrava procedere lontano, e temetti che potesse mancarlo. Ma invece no. Colpì l'angolo sinistro dell'automa con uno splendido fracasso. Poi sparirono entrambi. Sentii il rumore dell'impatto sotto di me, proprio mentre svenivo di nuovo. Quanto tempo poi giacqui là disteso, non lo so. Penso di aver sognato stelle innumerevoli che galleggiavano come isole luminose in un lago buio, uomini che andavano avanti e indietro, pacifici, sereni, saggi, nobili. Mi sembrava di esserne compiaciuto, per ragioni contraddittorie: o il lavoro che avevo avviato per educarli era terminato, e terminato completamente, oppure questo era accaduto nonostante ciò che era stato fatto, e a causa della sua veloce conclusione. In ogni modo era un bel quadro, se tolto dalla cornice, e mi rincrebbe abbandonarlo. Penso che sia stata la luce a risvegliarmi. Quando alla fine rinvenni, non potei essere sicuro se veramente avevo sognato o semplicemente avevo fissato le stelle in una sorta di sogno a occhi aperti. Non che la cosa importasse davvero. Mi rivoltai e cercai di mettermi carponi, tenendo la faccia riparata dalla luce. Lentamente, mi trascinai fino all'orlo. Il robot giaceva rotto e contorto sul dorso, laggiù e forse in fuori di circa nove metri. Il masso non si vedeva da nessuna parte. Mi appoggiai sullo stomaco e rimasi là a fissarlo, sentendomi dapprima esultante, poi depresso. Che cosa ero io stesso se non una sorta di mecca-
nismo rotto? Conservando solamente ciò che giudicavo indispensabile, mi ero modificato in modo da essere funzionale al massimo, e, finita l'opera, mi ero usato fino a esaurirmi. E poi ancora. O, piuttosto, lui l'aveva fatto. Cristo! No! Io l'avevo fatto. Noi? Va bene. Stavo cominciando ad accettare ciò che era accaduto. Le cose si erano riordinate inconsciamente dal momento di quella connessione più recente. Il tirare le leve, con il conseguente ripristino di ricordi che avevo precedentemente eliminato, produceva shock psichici di varia intensità, ma in fin dei conti il materiale rivelato era assimilabile in quanto era mio, era familiare, si era adattato e mi era appartenuto. Poi arrivò il punto di connessione alieno, attraverso il quale erano state filtrate altre porzioni del mio ego originale. Alieno, però? Non più. No. Perché, in un attimo, mi trovai dall'altra parte dello specchio, a considerare l'odioso bagaglio che avevo acquisito tirando le leve e uccidendo Winton. Eppure, non avevo ottenuto ciò che volevo... una comprensione della motivazione fondamentale di quella banda di intriganti. Intriganti? Lo era anch'io, naturalmente. Ma per reazione a loro. Loro? Noi. Adesso. Buffo. ... Perché nessuno di noi sapeva il motivo per cui continuassimo a comportarci in un certo modo, qualunque fosse, o chi fossimo in realtà. Indubbiamente, io ero stato il clone mancante, un furto reso necessario a quel tempo in virtù della mia età avanzata e dei miei poteri che si indebolivano. Ci era voluto un suicidio controllato minuziosamente per effettuare il trasferimento senza permettere agli altri di venire a conoscenza della mia vera natura. Prima, ero stato in giro per generazioni, quasi dall'inizio. Ma lì le cose divennero oscure. Avevo sempre saputo di avere lo stesso sangue del nemico; e siamo, sempre stati nemici, perché fin dal principio non ero stato d'accordo con le loro decisioni sulla formazione della Casa. Ma ero impotente, e avevo aspettato un'occasione migliore, disapprovando. Li conoscevo sia dalle loro azioni sia come occasionale parte silenziosa nelle loro connessioni. Ci volle molto tempo prima che la mia sfiducia verso il loro sistema di imprigionamento e controllo progressivo arrivasse al punto in
cui cominciai a considerare la loro eliminazione. La Casa era stata concepita solo come un provvedimento provvisorio (il collegamento e la saldatura fra tutti gli avamposti come rifugio comune per l'umanità in conseguenza della catastrofe che aveva inghiottito la Terra), un luogo dove fare una pausa per una seconda vita. La famiglia, invece, aveva deciso di renderla più permanente, sostenendo che la stessa cosa sarebbe accaduta di nuovo, dovunque andassimo, a meno che non si facesse qualcosa per cambiare l'uomo stesso. Volevano fare della razza umana un prigioniero e un ammalato, secondo me. La mia sensazione era che la semplice dispersione sarebbe stata sufficiente a garantire la continuità umana, in virtù delle divergenze e della quantità di possibilità di sviluppo che si sarebbero verificate. Ero tornato sulla Terra nei suoi ultimi giorni, a lavorare con le squadre di evacuazione, e credevo che la guerra, la catastrofe fossero state solo un incidente, un malinteso, un errore. E anche se così non fosse stato, la stessa cosa non avrebbe dovuto necessariamente ripetersi. Volevo l'uomo fuori della Casa e sul suo cammino ancora una volta. Mi mancavano l'organizzazione e la capacità della famiglia. Tutto ciò che ne condividevo era l'anonimato. Decisi di approfittarne in pieno e di fare un piano minuzioso, di colpire rapidamente e con precisione. La prima volta fallii, ma ancora non sapevano di chi si trattasse o il perché. Le autorità erano inutili, ignare dell'esistenza della famiglia e soggette alla sua influenza. Studiai i loro metodi, li imitai nel tenermi nascosto e, sì, appresi qualcosa della loro antica crudeltà. Non fu difficile. Ma essi cambiarono. Sapevo il perché. Quella nozione di evoluzione morale la condividevano e praticavano anche a livello personale. Ciò alla fine fu la loro rovina. Questa volta erano troppo deboli e io avevo vinto... una specie di vittoria di Pirro. Non sapevo neppure chi io fossi in realtà. I miei ricordi remoti erano di un vagabondaggio nella Cantina dell'Ala 1, dove infine andai a lavorare, per un certo tempo, come addetto alla manutenzione. Fu solo gradualmente, mediante l'osservazione e la telepatia, che venni a sapere della famiglia e del suo grandioso esperimento. Decisi di ostacolarli e cominciai a educare me stesso. Sapevo che distruggendoli avrei potuto perdere la possibilità di risalire alle mie origini. Tuttavia desideravo compiere questo sacrificio. Le leve che ero riuscito a tirare non mi portarono questa conoscenza. Se avessi risposto prima alla luce, avrei potuto... Che cosa significava quella luce? Appena mi colpì nel salotto ne fui at-
tratto. Se non avessi perso tempi a cercare la conoscenza nelle leve, l'avrei raggiunta. Se avessi evitato... Non va bene. Avrei evitato una battaglia che era realmente necessaria per il completamento del mio lavoro. Ora si trattava solo di conservare la stabilità, di tenere la situazione sotto controllo. Io... Ma non volevo più seguire la luce. Ora ne ero respinto. Io... Noi... Sì. Noi. No. Io. Noi siamo io. Guardai l'automa fracassato, sembrandomi di far parte dei suoi rottami. Il tempo passava. La luce mi passava sopra la testa dal dietro, proiettando ombre simili a macchie di Rorschach. La testa continuava a pulsarmi. Un leggero soffio d'aria formò nuvolette di caligine dietro il robot. Qualcosa di scuro e veloce sfrecciò nell'aria. Qualcosa di piccolo e non troppo vicino gracidò e ronzò brevemente. Dal mio angolo di visuale, la luna era una ruota di ghiaccio che girava. Cominciai a battere i denti. Avevo le punte delle dita ghiacciate dove erano a contatto della pietra. Alzati. «Io...» Ora devi scendere e tornare indietro. Alzati. «Sono stanco.» Alzati. Adesso. «Non so se ci riesco.» Ci riesci. Alzati. «Non so se lo voglio.» Ciò che vuoi non ha importanza. Alzati. «Perché» Perché l'ho detto io. Adesso! «D'accordo! D'accordo!» Mi tirai su, lentamente. Rimasi un attimo carponi, poi mi sedetti all'indietro sui fianchi. «Va meglio?» Sì. Ora alzati in piedi.
Lo feci. Trascorsi alcuni secondi di vertigine, mi resi conto che ce la potevo fare. Volsi le spalle alla luce, trovandomi in faccia all'Ala Zero. Ecco dove sei diretto. Vacci. Abbassai la testa, tirai molti respiri profondi e mi decisi. Scendendo, scoprii che scendere non era difficile quanto salire. Specialmente quando persi l'equilibrio e scivolai per gli ultimi due o tre metri. Alzati. Va' avanti. Va' avanti. «Non mi posso mai fermare?» chiesi. Ma ritrovai una volta ancora l'equilibrio e cominciai a camminare, piegato in parte in avanti, mentre mi stringevo il fianco. La discesa mi aveva condotto ancora fuori della portata della luce, e ciò mi fu di qualche aiuto. Superai il robot senza guardarlo una seconda volta. Salivo, scendevo, barcollavo. Inciampai, mi rialzai, proseguii. Lo sforzo mi riscaldò abbastanza. Dopo un po', rividi la grossa massa scura della mia Ala. La finestra illuminata mi ricordò Glenda, che a sua volta mi fece pensare a suo padre. Era stato mio amico, e io lo avevo distrutto. Non lo stesso io. Non allora. Non adesso. Cercai di considerare la cosa in questo modo e sentii che cominciavo ad accettarla. Non che fossi assalito dal rimorso, ma non ero più la stessa persona che ero stato... allora, o alcuni giorni od ore prima. Forse la distruzione e la ristrutturazione erano meno debilitanti di quanto sarebbero potute essere perché ci avevo fatto l'abitudine. Ora capivo chi ero stato... fino a un certo punto. Quello era un punto di partenza, comunque, per scoprire chi fossi attualmente. Avevo incoraggiato Glynn, vedendo in lui una speranza per il futuro, un mezzo per fuggire dalla Casa. Era arrivato a piacermi personalmente, però, e quando lo distrussero adottai la figlia. Allora non avevo fatto particolari progetti su di lei. L'avevo fatto unicamente per l'amicizia con suo padre. Ma in seguito, quando mi accorsi che le sue doti intellettuali erano davvero eccezionali, vidi che con una educazione estensiva era anche a conoscenza delle speranze e dei progetti del padre, fino nei particolari. Li abbracciò con entusiasmo. Comunque, ormai ero quasi arrivato a considerarla più mia che sua. Così fu naturale che alla fine la mettessi al corrente anche di alcune delle mie speranze e progetti. Era assolutamente empatica, per cui avevo ottenuto il suo appoggio. Adesso avrei preferito aver potuto agire senza di lei. Non sapeva che avevo intenzione di uccidere Engel o di costringere Winton a uccidere me. Tuttavia, aveva funzionato. Non riuscivo a vedere nessun altro modo. Avevo vinto... Ma se aveva funzionato e avevo vinto, allora perché mi dirigevo verso
l'Ala Zero e non alle rovine? Perché... Continua a camminare. Doveva esserci una ragione. Solo che non riuscivo a ricordarla. La mia testa era annebbiata quanto la notte intorno a me. Mi pulsava ancora come un dente guasto. Non cercare di pensare. Limitati a camminare. Glenda. Ecco. Mi stava aspettando. Stavo tornando da Glenda, a dirle che ormai era tutto finito. Alzati! Strano. Non ricordavo di essere caduto. Mi sforzai di alzarmi e quasi immediatamente ricaddi. Non è molto lontano. Devi continuare. Alzati! Volevo farlo. Volevo collaborare. Questo spirito voleva proprio... ... Solo che le gambe continuavano a incrociarsi, facendo i movimenti sbagliati. Questo maledetto corpo non ne voleva sapere di cooperare... Come un pendolo, sentivo anche la mente comportarsi ancora in modo strano. Andava tutto bene, però, se solo ce l'avessi fatta a camminare. Un altro tentativo, poi giù ancora. Una piccola cosa come quella però non mi doveva preoccupare. Non era necessario che stessi in piedi per andare avanti. Mi era già successo di portare dei corpi anche oltre questo punto. Era tutta una questione di atteggiamento. Ostinazione, determinazione... queste importavano. Forse cocciutaggine era una parola migliore. Strisciai in avanti. Il tempo cessò di avere significato. Avevo le mani fredde. Su per una salita. Me ne resi conto a mala pena quando dopo un po' di tempo la luce mi colpì di nuovo. Quando me ne accorsi, mi diede l'illusione passeggera di trovarmi su un palcoscenico, a recitare davanti a un pubblico invisibile, completamente silenzioso, tanto era preso dalla mia recitazione. Proprio prima che le braccia mi abbandonassero per la terza volta, vidi ancora l'Ala, vidi la finestra. Adesso era vicina, molto più vicina. Lentamente, molto lentamente, mi trascinai avanti, come un insetto rotto a metà. Sarebbe stato ridicolo non farcela a questo punto. Assurdo... Fu faticoso socchiudere gli occhi e sollevare il capo. Per quanto tempo ero rimasto lì?
Non andava bene. Si può frustare il corpo, guidarlo, spingerlo. Ma gli andirivieni della mente seguivano un ordine diverso di regole. E questo era... PARTE TERZA Da fuori del tempo, compresi tutto. La famiglia mi aveva preso, caricato e puntato contro Styler. Styler mi aveva preso, manovrando le circostanze secondo un disegno che mi programmò a recitare l'Otello al posto del suo Amleto, e mi liberò per condizionare l'umanità secondo schemi pacifisti che riteneva giusti. Potevo soltanto fare delle congetture, ma sembrava abbastanza ovvio che aveva ottenuto un campione dei miei tessuti a un certo punto dei miei vecchi esperimenti con i cloni. Aveva robot in grado di cavarsela al suo posto (aveva ancora robot), e aveva progettato l'Ala Zero. I mezzi in effetti non erano quelli materiali. A un certo punto aveva usato quel campione per clonizzare il signor Black originale, aveva impresso suggestioni che lo resero una specie di anti-me e l'aveva mandato nella Casa con l'amnesia e l'istinto di sopravvivenza che lo guidavano. Venne messo là per controllarmi ed equilibrare i miei sforzi al momento giusto, operando come una specie di bomba sociologica a tempo. Il momento era arrivato e questo era accaduto. Una parete era distrutta, Glenda era pronta con le formulazioni di Glynn e io ero stato neutralizzato. Mi pareva quasi di sentire la voce di Styler che diceva: «... Ora aggiungere 8 cc della base di Black all'acido di di Negri». Mi voltai a dare un'occhiata alle luci colorate. Infine mi sporsi in fuori e cominciai a girare gli interruttori. Sentii un grido allarmato provenire dalla mia destra e una mano si protese appoggiandomisi al braccio. Non riuscivo a girare la testa per guardarla, a causa del cappuccio. Mi giunse dai recessi del tempo la visione di contadini che aravano un piccolo campo, il cui confine era segnato da un teschio di animale montato su un paletto. «È tutto a posto», dissi. La mano scivolò via. «Chi...?» disse infine. Che cosa diavolo avrei dovuto rispondere? «Ero la Legione», ammisi infine, esitando, «un'intera galleria di facce. Ero Black, ero Engel, ero Lange, ero Winton, ero Karab, ero Winkel. E
Jordan e Hinkley e Lange il Vecchio. E un'orda di altri di cui non ho mai sentito parlare. Potrei dirti che non ha importanza, ma non è vero, perché sono me stesso. Penso di dover scegliere una faccia. Bene, allora chiamami Angelo. È così che è cominciata». «Ho paura di non capire. Sei...?» Sollevai il cappuccio dalla testa e mi girai a guardarla. «Sì», dissi, «va tutto bene davvero. Grazie per aver fatto quello che ti ho chiesto. Sono tornato indietro io, o sei dovuta venire a prendermi?» «Ti ho aiutato», spiegò. «Ti avevo visto cadere.» «Vuoi dire che sei andata all'esterno?» Le si illuminò il viso. «Sì. Avevo sognato di avere la possibilità di farlo. Non di questo tipo, certo. Ma... era così bello!» Mi strofinai il fianco. «Mi hai bendato, vedo.» «Sanguinavi.» «Sì, mi pare.» Mi alzai in piedi, mi appoggiai un momento allo schienale della poltrona, andai al calcolatore e cominciai a frugare sulla mensola. «Che cosa cerchi?» «Sigarette. Ho bisogno di fumare.» «Ce n'è nell'altra stanza, quella dove stavo ad aspettare.» «Allora andiamoci.» Rifiutai il suo braccio. Attraversammo il corridoio. «Da quanto tempo mi hai riportato dentro?» chiesi. «Da un'ora e un quarto, più o meno.» Annuii. «E intanto la luce cosa faceva?» «Non lo so. Non l'ho più guardata da quando ti ho portato dentro.» Arrivammo alla stanza, vi entrammo. Mi indicò le sigarette, ne rifiutò una. Mi diressi alla finestra e, dopo averla azionata, guardai fuori. Una pozza di luce color bronzo filtrava attraverso il cielo, sfumando i contorni delle cose. Inspirai profondamente, soffiai fuori il fumo. «Ti è piaciuto davvero là fuori?» domandai. «Sì... ed è così bello adesso, col sole che comincia a levarsi.» «Bene. Voglio che tu venga fuori con me a far due passi.» «Non sei in gran forma.» «Ragione di più per avere qualcuno con me. D'altra parte avrò bisogno di una segretaria.» Piegò la testa da un lato e socchiuse gli occhi. Sorrisi.
«Vieni. Ce la prenderemo comoda. Quattro passi ci faranno bene.» Annuì e mi seguì fuori ai portelli. Li attraversammo e affrontammo il fresco della mattina. «Non riesco a ignorare gli odori», disse, tirando un profondo respiro. «L'aria è così diversa da quella della Casa!» Poi: «Ma dove andiamo?» chiese. Girai la testa e l'alzai. «Lassù.» «Alle rovine? È piuttosto lontano...» «Con comodo. Non c'è fretta», dissi. «Abbiamo tutto il tempo del mondo.» Ci avviammo in quella direzione. Mi infastidiva il mio bisogno di fermarmi spesso a riposare. Dovemmo anche fare una deviazione, perché non volevo che ci trovassimo a passare vicino al corpo che avevo lasciato. Sebbene cercassi di ignorare il dolore al fianco, lei se ne accorse, mi girò attorno e mi prese il braccio. Questa volta la lasciai fare. Ridacchiai. «Ti ricordi di quando ti regalai gli schettini, quando compisti i sette anni?» dissi. «E tu scivolasti e ti stortasti la caviglia proprio il giorno dopo? Pensavo che fosse slogata, ma in realtà era fratturata. Ma tu non ti lasciasti prendere in braccio. Ti appoggiasti a me proprio in questo modo. Non volevi piangere, ma avevi il viso tutto sudato e continuavi a morderti le labbra. Cadendo ti eri strappato quel vestitino blu che ti piaceva così tanto. Quello con le cuciture gialle sul davanti.» Mi strinse le dita sul braccio fino quasi a farmi male. Si levò una brezza leggera da oriente. Le presi la mano e gliela accarezzai. «Ora va tutto bene», la rassicurai, e lei annuì in fretta e io mi voltai. Ancor prima di vederlo, percepii lo scintillio di quella luce nelle rovine. Tremolò, tornò indietro, rimase su di noi. Non era più così forte ora che l'aria si illuminava della luce del sole. Ci facemmo strada tra i sassi, attorno ai crateri, sulla collina, giù, poi su ancora. «Un uccello!» gridò. «Sì. Carino. Giallo.» Era una bella mattinata quella che stava aprendosi sul mondo, che ammorbidiva i colorì del paesaggio in cui si era svolto il mio incubo. Un ammasso di cumuli sulla sinistra annunciava che in seguito sarebbe piovuto, e una brezza fredda dalla stessa direzione lo confermava, ma l'oriente era ancora chiaro e luminoso e c'era più verde di quanto avessi immaginato.
La luce che aveva usato per darmi la caccia si fermò finalmente sull'orlo superiore di quel po' di facciata dell'edificio che restava ancora in piedi, si oscurò e si spense. Ci dirigemmo verso le porte spalancate. «Dobbiamo entrare?» chiese. «Sì.» Avanzammo ed entrammo nell'anticamera franata e bruciacchiata, illuminata dal cielo attraverso il soffitto crollato, piena dei detriti dei secoli. «Che cosa dobbiamo fare qui?» chiese, mentre ci facevamo strada tra le macerie in direzione dell'angolo meno rovinato, a sudovest della stanza. «Fra un minuto. Credo che lo saprai fra un minuto, più o meno», risposi. «È per questo che mi serve una segretaria.» Il corridoio sul retro che avevo percorso tanti anni prima era completamente ostruito da una frana probabilmente peggiorata da uno smottamento delle alte colline sul dietro. La condussi in una saletta d'attesa relativamente sgombra dove si distinguevano ancora le forme dei mobili sotto la massa di polvere. Sì, ricordavo giusto. L'apparecchio scuro era rannicchiato come una tarantola nella sua nicchia sulla parete. Tirai fuori il fazzoletto. Mentre lo spolveravo, il telefono squillò. Glenda emise un breve suono inarticolato, che forse voleva essere una domanda. «Ecco», dissi, facendo un passo indietro. «Adesso è abbastanza pulito. Ti spiace rispondere al telefono?» Annuì, e con un misto di perplessità e timore si fece avanti e alzò il ricevitore. «... Pronto?» Ascoltò un momento, poi coprì il microfono e mi guardò. «Vuol sapere chi sono.» «Allora diglielo», risposi. Obbedì, ascoltò ancora, lo coprì e mi guardò di nuovo. «Vuol sapere se c'è il signor Angelo di Negri.» «Tu sei la segretaria del signor di Negri. Chiedigli cosa vuole.» Daccapo, e: «Vuole parlarti del tuo lavoro», mi riferì. «Per il momento sono occupato», dissi e cominciai a spolverare una poltrona. «Digli che lo accontenterai tra breve e descrivigli la struttura della Casa, con la sua suddivisione in Ali e con la sua organizzazione interna. Chiedigli se ha qualche domanda in proposito.» Ci volle un bel po'. Avevo finito di ripulire la poltrona dallo sporco dei secoli, con gran cura, e mi ci ero seduto prima che tornasse a rivolgersi a me. «Vuole sapere se adesso può parlarti.»
Scossi la testa. Accesi una sigaretta. «Digli che la parete dell'Ala 5 è caduta, e che la gente sta uscendo. Digli che tu devi tornare a dirigere un programma di assistenza per l'esodo che avrà luogo.» «Io?» «Vuoi farlo, no?» «Sì, ma...» «Sei a conoscenza delle attrezzature necessarie? Di come costruirle e usarle?» «Credo di sì.» «Allora parlagli anche di questo.» Finii di fumare. Dopo un bel po' accesi un'altra sigaretta. «Vuole sapere a che cosa pensi che sia servito tutto ciò», disse finalmente. «E come diavolo faccio a saperlo?» risposi. «Non sono nemmeno sicuro di quello che ho appreso io stesso, salvo che adesso capisco come ci si sente a far parte di una grande macchina.» Parlò con lui brevemente, poi mi riferì: «Dice che gli piacerebbe sentire la tua voce. Dice che vorrebbe che tu gli dicessi qualcosa. Qualsiasi cosa». Mi alzai in piedi e mi stirai. «Digli che il debito d'onore è cancellato fra noi», risposi, «Digli che ti spiace, ma il signor di Negri adesso non verrà al telefono. Poi appendi.» Eseguì, e io accettai ancora una volta il suo braccio e le permisi di aiutarmi a uscire dalle rovine. Il sole era sorto e le nuvole erano più vicine. Credevo che ce l'avremmo fatta a evitare la pioggia. O forse no, ma chi se ne frega. FINE