I LA STRATEGIA DELLA RAPINA
1. // soldato, un gioioso predone La razzia, che fu tipica dei popoli preistorici, consiste in un'incursione rapida e limitata nello spazio, compiuta da una forza armata in territorio straniero con lo scopo elementare di prelevare bottino e di provocare nel contempo distruzione di risorse quali, per esempio, le messi ancora sul campo. Dalla razzia, operata da soli uomini a piedi, si può distinguere il raid, condotto invece con truppe montate, che si inserisce in uno schema strategico più elaborato, ma la distinzione in verità non è sempre facile. La depredazione mediante razzia o raid costituisce, ad ogni modo, anche una forma primitiva di logistica che mira aU'autosostentamento, mentre la devastazione sistematica, svolta in una cornice stagionale, viene di solito applicata contro resistenze troppo ostinate: entrambe sono forme di guerra che rimangono costantemente in uso, attraverso il tempo, sin oltre l'età medievale1. La civiltà nata in Europa dalle grandi migrazioni di popoli era, appunto, basata sulla guerra e sull'aggressione e non esisteva alcuna distinzione precisa fra saccheggio e attività militare vera e propria. Il territorio occupato da popoli stranieri, semplicemente delimitato da paludi e foreste, era considerato come una riserva di caccia e veniva percorso ogni anno da giovani organizzati in bande per spogliare il nemico di tutto ciò che era possibile asportare: tanto ornamenti, armi e bestiame, quanto uomini, donne e bambini che potevano poi essere riscattati. Al termine dell'impresa ogni capo provvedeva a distribuire il bottino: la guerra veniva così a costituire «una regolare forma di attività economica di gran-
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de rilievo», sia per i profitti che procurava sia per i danni che infliggeva. Da un punto di vista meramente economico non è quindi del tutto corretto considerare la guerra come pura «produzione negativa» poiché essa non impiegava lavoro e capitale solo allo scopo di «distruggere la massima quantità e qualità possibile di lavoro o capitale del cosiddetto nemico», ma si proponeva anche di sottrarre a questi almeno una parte della sua ricchezza. Le «tendenze aggressive nutrite dalle società primitive dell'Europa barbarica», che sarebbero da annoverare «fra le più potenti forze di espansione» dello sviluppo economico europeo, continuarono ad agire in tale senso molto a lungo2. Per tutta l'età medievale, infatti, il modo di gran lunga più diffuso di guerreggiare consistette in scorrerie devastatrici generalmente limitate nel tempo e nello spazio, così frequenti e così normali da costituire - si è calcolato - almeno l'80 per cento degli episodi militari attestati dalle fonti. Quali che siano i motivi scatenanti, la guerra si configura normalmente come una prova di forza in cui, per costringere l'avversario a cedere, risulta conveniente ricorrere non tanto a battaglie campali quanto alla privazione dei suoi mezzi di sussistenza: si può così parlare di una tattica o strategia calcolata in cui le rapine e le distruzioni hanno, insieme con lo scopo di scoraggiare il nemico, anche l'intenzione di ricavare un guadagno economico: il modello, in altre parole, rimane la guerra primitiva protesa alla ricerca del bottino. Anche le azioni militari, senza alcun dubbio condotte per conseguire un importante fine politico, non disdegnavano affatto il lucro immediato, il quale veniva anzi esibito come la prova più evidente del successo. Ne può fornire un'idea - un caso fra i mille possibili - il modo in cui i Milanesi diedero notizia ai loro alleati della grande vittoria ottenuta a Legnano il 29 maggio 1176 contro Federico Barbarossa: «Vi sia noto che abbiamo riportato sui nemici un glorioso trionfo: degli uccisi e degli annegati non c'è numero; siamo in possesso dello scudo, del vessillo, della croce e della lancia dell'imperatore; nelle sue casse abbiamo trovato molto oro e argento, e il bottino dei nemici che abbiamo preso non crediamo possa essere calcolato da nessuno; noi tuttavia non lo consideriamo nostro desiderando che venga messo in comune con il papa e con le altre città». Segue la menzione di alcuni dei più importanti
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personaggi catturati, che sono solo una parte dell'infinito numero di prigionieri caduti nelle mani dei vincitori. In primo piano, come si vede, non viene affatto messo l'immenso significato politico e morale della vittoria che, dopo oltre vent'anni di lotte accanite, veniva a capovolgere il rapporto di forze in Italia, ma l'entità della preda, la qualità dei trofei e il numero dei prigionieri. Il permanere dei caratteri primitivi della guerra, esasperati anzi dalla ristrettezza degli orizzonti locali in cui essa normalmente si svolge, è evidente nel trattato che Teodoro di Monferrato - cresciuto tra i feroci antagonismi che aprivano in Italia l'età delle signorie - redasse nel secondo decennio del Trecento. Le guerre, egli dice, nascono per tre principali ragioni: per vecchi odi, «per casi avventurosi» che occorrono fra principi e signori, e per il desiderio di impadronirsi delle terre altrui. Nel primo caso si guerreggia col «fare preda mediante scorrerie, spaventando e disorganizzando i lavori dei campi in modo che paesi e città siano più poveri e bisognosi». E se il secondo modo si serve piuttosto di malizie e tradimenti, il terzo, prima di giungere allo stadio di guerra generale, prevede di nuovo un succedersi di scorrerie: il signore più forte si studia di guastare i beni, le vigne, le terre e i possessi del meno potente, di bruciare paesi, case e mulini e di «distruggere i mezzi di sostentamento della vita umana mettendo tutto a guasto senza fine». Solo in un secondo momento si ricorrerà alla mobilitazione di mezzi adatti ad affrontare assedi e battaglie, per difendersi sono intanto necessarie guarnigioni di frontiera dotate di un armamento sufficiente a contrastare le scorrerie del nemico, inseguirlo e tendergli agguati per recuperare la preda. A scopo dissuasivo occorre poi rispondere con la medesima tattica «mettendo fuoco ovunque possibile per mostrare che non siete pigri ma fate il meglio che potete»: così si spaventa l'esercito degli avversari i quali, vedendo le fiamme e gli altri danni, penseranno che è meglio limitarsi a conservare le terre già possedute anziché tentare di impadronirsi di quelle altrui. Non si fa, è vero, alcun riferimento alla ricerca della preda e alla semplice distruzione in quanto tale, ma se esse non sono più lo scopo immediato, l'antica scorreria è rimasta (o torna periodicamente ad essere) il tipo di guerra più diffuso. Ciò che soprattutto sollecita la combattività di ogni soldato medievale - e non dei so-
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li mercenari - è del resto, in generale, la prospettiva dell'arricchimento mediante il bottino o la possibilità di riscuotere buoni riscatti3; e molto spesso le circostanze consentono e favoriscono il superamento del sottile limite che vi è tra il combattente e il razziatore così che la guerra tende spesso ad assomigliare a un grande brigantaggio praticato in tutta impunità. In un processo celebrato nel 1220 a Castelletto d'Orba (Alessandria) i giudici insistono per sapere da certi uomini legati al marchese di Monferrato, e testimonianti in suo favore, se hanno mai rubato su strada. Le risposte tendono a distinguere e a precisare: uno di essi «in tempo di guerra andò insieme con il marchese a fare preda, mai però in tempo di pace». «No - risponde un altro - se non per la guerra del marchese, e andando con lui»; e ancora: «Sì, con il marchese per la guerra che questi aveva con Alessandria, ma non in pace»; «non di nascosto, ma come rappresaglia ho preso delle cose sulla strada per ordine del signore»; e un ultimo teste: «Fui con il marchese di Monferrato a una certa ruberia che apertamente fece sulla strada, mai però rubai altrimenti». Il tenore delle deposizioni tende dunque a mettere in evidenza che un conto è derubare i viandanti di nascosto in tempo di pace, e tutt'altra cosa è fare preda palesemente in tempo di guerra agli ordini di un capo riconosciuto: si deve cioè ben distinguere fra ruberia pura e semplice e il prelievo di prede come azione di guerra, una distinzione che non era sempre né facile né ovvia. Come considerare, per esempio, quel Bagnagatta, catturato nell'ottobre del 1160 sulla strada fra Lodi e Pavia, il quale - dice il cronista Ottone Morena - stava nascosto notte e giorno nei boschi con molti altri suoi compagni per catturare Tedeschi e chiunque fosse del partito imperiale: era un predatore audacissimo che aveva già preso e messo a morte molti amici dell'imperatore, ed era più temuto di qualunque altro Milanese: un fuorilegge, dunque, ma politicamente impegnato, che conduceva una sua guerra personale con precisa scelta di campo. La cronaca francese attribuita a Jean de Venette così registra, nel 1360, l'avvento della Grande compagnia: «In quell'anno sorsero i figli di Belial e uomini malvagi, guerrieri di diverse nazioni, non aventi alcun titolo né ragione per aggredire gli altri se non la propria malvagità sotto specie di fare preda». Essi, «senza alcun titolo» - ribadisce il cronista - opprimono il popolo nei villaggi
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fra l'indifferenza dei signori che dovrebbero proteggerlo, derubando i viaggiatori lungo le strade, imprigionando uomini per estorcere loro denaro. Del resto anche i soldati del re inviati a combattere quei ladroni «presero a guastare il paese come gli altri depredando i villaggi del vino e delle vettovaglie tanto che i contadini li temevano quanto e più dei nemici». Coloro che dovevano provvedere alla difesa dai malvagi si danno anch'essi a spogliare i viaggiatori comportandosi in modo simile a certi cavalieri che tenevano mano ai briganti. Non diversa è la condotta delle truppe regie che occupano Mantes e Meulans agli ordini di Bertrand du Guesclin, un comandante considerato dal nostro cronista «valoroso nelle armi». Non c'è, in breve, nessuna differenza di fatto fra gli sbandati che agiscono per proprio conto e i soldati regolari che dovrebbero contrastarli: l'unica diversità consiste nell'«avere titolo» sufficiente per giustificare le violenze esercitate: «Non hanno titolo» per agire così, ripete infatti Jean de Venette, dei predoni, quasi sottintendendo che, se titolo avessero, non ci sarebbe nulla da obiettare. Il gusto di fare man bassa tocca indifferentemente uomini di alta e di bassa condizione, fanti quanto cavalieri, e appare così indissolubilmente legato alla nozione stessa di guerra da indurre a domandarsi se esso «non ne sia la causa piuttosto che un sintomo». Nel 990 circa, secondo Richero, Ugo Capeto avrebbe fatto assumere al suo esercito, impegnato in battaglia contro l'usurpatore Carlo, uno schieramento tripartito in cui la prima schiera doveva dare inizio al combattimento, la seconda serviva da eventuale supporto, mentre la terza non aveva altro compito che raccogliere le spoglie del nemico battuto4: nulla sembra mostrare meglio che la vittoria non era concepibile senza bottino. L'esercito in certe epoche può essere immaginato, in modo distorto certo, ma non poi còsi lontano dalla realtà, come un autentico paese di cuccagna in cui il denaro scorre a fiotti, e dalle parole stesse dei cronisti che, con entusiasmo e goloso compiacimento, raccontano di favolose prede e di grandiosi bottini, prima di qualunque altro più nobile sentimento, traluce l'invidia per coloro che ne sono i beneficiari. «Traggono oro e argento che non si può contare. / Già si sono arricchiti tutti questi cristiani / con l'ingente bottino che hanno trovato» dice il poeta commentando una redditizia vittoria del Cid Campeador. Vedendo i Francesi racco-
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gliere il bottino al chiaro di luna fuori di Tolosa, al cantore della crociata contro gli Albigesi viene spontaneo osservare: «Nessuno potrebbe valutare la grande fortuna che ci guadagnarono, e saranno ricchi per tutto il resto della loro vita». Nel 1328 i Ghibellini pavesi tesero un agguato al tesoro papale trasportato sotto buona scorta da Avignone a Piacenza per il pagamento dei mercenari: nelle mani degli aggressori rimasero più di 30.000 fiorini senza contare il grande numero di cavalli, di muli e di prigionieri. Si trattò - dice con gli occhi lustri il cronista Pietro Azario - «del più grande bottino mai acquisito in così breve tempo e diviso in Lombardia». Certi mercenari tedeschi al soldo di Venezia riuscirono inopinatamente nel 1338 a passare a guado l'Adige, oltre il quale molti contadini del Veronese si erano fiduciosamente rifugiati contando sulla sua insuperabilità: 13 villaggi furono saccheggiati e l'esercito vittorioso - racconta compiaciuto il cronista Iacopo Piacentino - ritornò con una preda di 2.000 animali grandi, 5.000 piccoli e ben 660 carri pieni di ogni ben di Dio. I cronisti Galeazzo e Bartolomeo Gatari registrano a loro volta la preda, fatta nel 1386 dal condottiero Facino Cane, di «137 carrette di Todeschi» cariche di «mandorle, pepe, zafferano et altre speciarie et mercantie di varie sorti, come panni d'oro, d'argento, velluti, rasi e seta in gran copia per somma et volume di ducati 80 mila»; un colpo che procurò «uno delli maggiori bottini che mai fosse stato fatto in quelle parti», con il quale «si fecero tutti ricchi, ma maggiormente li capi, come è cosa conveniente». Nella stessa dettagliata enumerazione dei beni predati - si è osservato - «si sente balenare la cupidigia del cortigiano»5. Un poeta cavaliere come Bertran de Born, presentendo una guerra vicina, scriveva verso la fine del XII secolo: «Trombe, tamburi, bandiere e pennoni / e stendardi e cavalli bianchi e neri, / ecco quel che vedremo tra poco. / E saranno tempi belli perché si prenderanno beni agli usurai / e per le strade la bestia da soma / non sarà mai in sicurezza / né senza paura il borghése, / né il mercante che viene di Francia; / ma ricco sarà colui che piglierà di gran cuore». Gli fa eco due secoli dopo, dalle pagine di Froissart, il famoso routier Aymerigot Marchès arricchitosi nelle guerre tra Francia e Inghilterra: «Quanto eravamo pieni di gioia quando, cavalcando alla ventura, potevamo trovare sui campi un ricco abate
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o un ricco priore, o un ricco mercante o una teoria di muli di Montpellier, di Narbona, di Limoges o di Fanjeau, di Bézier, di Carcassonne o di Tolosa, carichi di drappi d'oro o di seta di Bruxelles o di Montvillier e di pelletterie provenienti dalle fiere del Lendit o d'altrove, o spezie da Bruges o altre mercanzie provenienti da Damasco o da Alessandria. Tutto era nostro o riscattato a nostro talento. Tutti i giorni avevamo nuovo denaro». E il cronista Raimondo Muntaner, uomo di cultura ma, nello stesso tempo, amministratore dei rapaci Almugavari aragonesi durante la loro avventura in Oriente, così ricorda il periodo in cui essi erano padroni di Gallipoli: «Per cinque anni interi ci campammo in mezzo agli agi e alle gioie: noi non seminavamo né aravamo, né coltivavamo vigne, né le tagliavamo; ciò nonostante raccoglievamo ogni anno tanto vino quanto bastava al nostro uso e altrettanto di frumento e avena. E così vivemmo per cinque anni a 'bocca che vuoi'». Senza differenze di epoca né di classe sociale, senza né scrupoli né pentimenti, tutte queste testimonianze considerano senz'altro la guerra come un'occasione di bella vita e di arricchimento. Antonio Cornazzano, che aveva in merito una certa esperienza, scrisse nel 1476 nel suo De re militari: «Per gli toi inanimar prometti preda / levando ognun timor che gli confonde. / A dire el ver non è mente che creda / quanto amano i soldati oro e guadagno / fin al cacciarsi in ogni cosa feda»6. Come stupirsi allora di un fenomeno semantico, assai frequente nell'ambito della nomenclatura militare, in cui certe denominazioni prima attribuite a combattenti onorati scivolano rapidamente verso accezioni peggiorative sino a contraddistinguere chi pratica la prepotenza brutale e il delinquente comune? Tale è stata la sorte di «scherano» che già nel XII secolo designa non più un uomo inquadrato in una scara («schiera»), ma spregiativamente il razziatore irregolare. Il medesimo destino tocca, più in fretta, a «berroviere», che passa dalla primitiva accezione di «cavaliere valoroso» a «soldato scorridore audace e avido» e poi a «uomo di malaffare». Così «masnadiero», da soldato facente parte di una masnada, precipita a «ladrone» e ad «assassino da strada». «Brigante» era dapprima chiunque appartenesse a una «brigata d'arme», ma assume presto il significato, poi definitivamente invalso, di bandito e facinoroso. Del resto le cose non erano andate meglio in un passato alquanto più remoto allorché latro da «soldato
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mercenario greco», aveva assunto, già nel latino classico, il significato di «predone» dal quale non si riscattò più7. Trattare della guerra medievale, prima di ogni altra cosa, significa quindi occuparsi delle modalità con le quali avvenivano le azioni di rapina e di distruzione, e dei risultati che da esse si attendevano. Se davvero - come è stato detto - tanto l'incursione quanto la scorreria (ammesso che sia possibile distinguerle) sono da considerare come azioni poste «sotto l'orizzonte militare» e vanno quindi ritenute come «omicidi plurimi» piuttosto che episodi di una campagna militare, la guerra medievale è vera guerra soltanto nel 20 per cento di tutte le sue manifestazioni. Del resto «combattimenti, massacri, saccheggi e rapimenti sono stati per lungo tempo i compiacenti ispiratori dello storico: la violenza aggiunge sempre alla rievocazione del passato un che di piccante, e in effetti è raramente gratuita; essa non rappresenta che l'emergere al livello degli avvenimenti di un'economia fondata sulla rapina che si scatena soprattutto nei periodi di depressione, quando non vi è altra possibilità di arricchirsi se non impadronendosi dei beni altrui»8, situazione che peraltro - va detto - non è affatto limitata al Medioevo.
2. Razzie di frontiera 2.1. Nella Gallia merovingia. Gregorio di Tours, verso la fine del VI secolo, proponendosi di narrare «guerre di re contro popoli nemici», attesta, nel quadro della Gallia merovingia, il permanere di abbondanti manifestazioni di una guerra limitata a scorrerie di frontiera con lo scopo precipuo di sottrarre risorse ai vicini. Ecco i Danesi che, sbarcati sulla costa adantica, tornano in patria con le navi zeppe di prigionieri e di refurtiva; i Longobardi e i Sassoni, da poco stanziati in Italia, penetrando attraverso i passi delle Alpi occidentali, fanno ritorno carichi di bottino. I Bretoni irrompono a più riprese nella regione di Rennes e di Nantes traendone prede e uomini in catene, mentre da sud fanno lo stesso Baschi e Visigoti. Spesso l'azione predatoria proveniente dall'esterno ottiene una risposta immediata che mira al recupero del bottino o a una ritorsione punitiva, attività che rappresentano quindi
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un logico corollario della pura e semplice guerra di rapina: Teodeberto sconfigge i Danesi sul mare e riporta a terra quanto essi avevano rubato; contro le irruzioni dei Bretoni il duca Beppoleno «sconvolse a ferro e fuoco le altre zone della Bretagna» scatenando però «un furore ancora più grande»; come ritorsione per una precedente scorreria dei Burgundi, i Visigoti devastano invece il territorio di Arles senza incontrare alcuna resistenza. Dalla spedizione fatta in Gallia i Longobardi ritornarono nel 570 «arricchiti di inestimabile preda», ma in seguito i tentativi simili non ebbero più lo stesso facile successo: di fronte alla decisa reazione dei Franchi gli incursori poterono fare ritorno in Italia solo dopo aver lasciato i prigionieri e tutta la refurtiva guadagnata; in seguito ecco i Franchi stessi penetrare nella valle dell'Adige dando inizio, in quella ristretta area di confine, a una serie di azioni e di reazioni che hanno sempre per scopo di fare preda o di tentarne il recupero: il longobardo Ragilo saccheggia il castello di Non caduto nelle mani del nemico, ma sulla via del ritorno viene raggiunto e ucciso dal franco Cramnichis che arriva a devastare Trento; il duca di questa città, Evino, lo insegue e lo uccide «riprendendo tutta la preda che quello aveva fatto». Le guerre intraprese dai Franchi mirano però, ben presto, a un obiettivo più elevato: imporre, cioè, la propria egemonia sui popoli vicini. All'inizio del VI secolo re Clodoveo, impegnato contro i Burgundi, viene così consigliato: «Devasti i campi, saccheggi le colture, rovini le vigne, tagli gli olivi e sottrai tutti i prodotti della regione; ma in questo modo tu non riuscirai a nuocere in nulla. Manda piuttosto una legazione e imponi che anno per anno ti versino un tributo». Si passa così a una fase in cui la pura e semplice rapina viene superata da un fine politico superiore; ma essa rimane componente ineliminabile di ogni guerra, sia essa diretta contro altri popoli sia quando, nel corso delle ricorrenti lotte intestine, rimane entro i confini della Gallia. La prospettiva della preda non cessa di avere un'attrattiva irresistibile: «Venite con me - dice Teodorico I agli Alverni nel 534 - io vi condurrò in una terra dove troverete oro e argento quanto la vostra cupidigia può desiderarne, e potrete prendere greggi, schiavi e vesti in abbondanza», e li convince così facilmente a seguirlo. La promessa di suddividere i proventi di una futura preda incoraggia alleanze: Clotario accetta di aiutare suo fratello Teodorico contro i Turingi per
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«avere una parte del bottino se per volontà divina sarebbe toccato a loro il dono della vittoria». La minaccia del saccheggio ha, per contro, un forte potere intimidatorio: nel 584, alla morte di Childerico I, si contendono il regno Gontrano e Childeberto; a nome di quest'ultimo il duca Cararico tenta di indurre gli uomini di Poitiers a riconoscere il suo re: «Se voi vi opporrete sconvolgeremo tutto, come abbiamo già cominciato a fare»: e infatti «ogni cosa era messa a fuoco, saccheggiata e gli uomini ridotti in schiavitù»9. 2.2. La Cilicia bizantina. Le scorrerie di confine sono diffuse tanto in Occidente quanto nel vicino Oriente lungo ogni linea che separa dominazioni contrapposte. Fra Vili e X secolo la Cilicia venne a trovarsi tra la Siria araba e la penisola anatolica rimasta bizantina: si trattava di una frontiera «aperta» attraverso la quale le iniziative militari arabe, perso lo slancio religioso iniziale, si ridussero a periodiche incursioni che avevano per scopo solo la ricerca della preda mentre i Bizantini, da parte loro, non miravano a porre ad esse un termine definitivo ma solo a mantenere un equilibrio fondato appunto su una certa nozione di «frontiera», secondo una tecnica che venne illustrata dal futuro imperatore Niceforo Foca nel trattato militare noto come De velitatione. Un primo tipo di incursione era condotto dagli Arabi con pochi cavalieri scelti che raggiungevano direttamente i villaggi posti nelle immediate vicinanze del confine. Per un'azione più complessa partivano insieme fanti e cavalieri; questi ultimi procedevano sull'obiettivo senza fermarsi per approfittare dell'effetto sorpresa mentre i fanti allestivano un accampamento e là attendevano l'arrivo degli scorridori assicurando la protezione del bottino sulla via del ritorno. Il tipo di incursione più frequente raggiungeva però una complessità ben maggiore: una forza mista sufficientemente numerosa, composta per due terzi di cavalieri, penetrava nel territorio bizantino marciando anche per più giorni e accampandosi ogni sera in un luogo diverso. Dall'ultimo campo la cavalleria, ormai alla portata dell'obiettivo, partiva sul far della sera per la sua razzia mentre il resto del contingente ne attendeva il rientro per poi ripiegare insieme verso casa. Vi era ancora un quarto genere di impresa che vedeva all'opera forze considerevoli tanto da assumere l'aspetto di una campagna di guerra vera e propria.
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L'esercito veniva raccolto almeno un mese prima traendo forze da regioni anche remote: lo scopo non era più il semplice saccheggio ma la devastazione sistematica di un'intera regione. Per ragioni di sicurezza e anche di rifornimento il corpo di spedizione era indotto a cambiare continuamente il suo accampamento con spostamenti di una ventina di chilometri, e da ciascuno di tali campi partivano piccole incursioni nel raggio di 4-6 chilometri che impegnavano per due o tre giorni la metà o i due terzi degli effettivi disponibili. L'obiettivo abituale delle incursioni è soprattutto la razzia del bestiame, ma gli Arabi - precisa l'autore del De velitatione - nei villaggi presi di mira passano «al pettine fine» ogni casa per fare man bassa di qualunque cosa: uomini e cavalli, denaro nascosto e provviste, tutto, insomma, ciò che gli abitanti non siano riusciti a mettere in salvo per tempo compresi, naturalmente, gli eventuali tesori custoditi nelle chiese. Come reagiva l'organizzazione militare bizantina al peso di tale continua minaccia? Non appena la rete degli informatori segnalava una penetrazione nemica lo stratego incaricato della difesa doveva individuare i villaggi in pericolo e farne sgombrare rapidamente gli uomini e animali in siti di rifugio predisposti. Mobilitate poi le sue forze, egli assegnava loro missioni appropriate: alla cavalleria spettava il compito di seguire da vicino la progressione del nemico, pronta ad agire tanto di giorno quanto di notte avendo a proprio favore il vantaggio del numero e della conoscenza del terreno; il nemico, sopravanzato durante la ritirata, veniva atteso ai passaggi del Tauro quando i suoi cavalli erano stanchi ed era appesantito da un bottino che era così possibile recuperare con una certa facilità. L'avidità dei Bizantini non era del resto minore di quella araba: essi stessi, impiegando le medesime tattiche, penetravano periodicamente nella zona musulmana perseguendo la conquista di bottini spesso modesti. Non a caso gli uni e gli altri scelgono di attaccare il rispettivo nemico mentre si ritira gravato dalla preda; il recupero consente buoni guadagni e si punta preferibilmente sui carriaggi poiché là si trovano insieme le bestie da traino e i bagagli trasportati. Gli stessi uomini, venduti e scambiati, hanno un buon prezzo cosi che si preferisce catturare invece di uccidere, ed è proprio la legge del profitto che contribuisce a rendere questa guerra fra vicini, stagionale come le fiere, meno sanguinosa e più tollerabile10.
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2.3. Il «secondo assalto contro l'Europa»: Vichinghi, Saraceni, angari. Qualcosa di più che semplici razzie di confine furono le scorrerie condotte fra Vili e XI secolo da Normanni, Saraceni e Ungari contro l'Europa cristiana: certo si trattò di un'attività predatoria che pur senza proporsi, in generale, alcun obiettivo di conquista né di dominazione politica, appare comunque organizzata e tecnicamente condotta secondo modalità di una vera e propria guerra. L'«assalto contro l'Europa» da parte di questi popoli si presenta, in un certo senso, proprio come una guerra allo stato puro che, senza bisogno di nascondersi dietro falsi scopi, si propone direttamente come azione di rapina. La più antica razzia vichinga di cui sia rimasta memoria scritta esemplifica bene il carattere di quelle imprese. L'abbazia che sorgeva nell'isola di Lindisfarne, presso la costa inglese del Northumberland, ricevette inaspettatamente la visita dei pirati l'8 giugno del 793: i monaci e i loro servi vennero rapidamente trucidati o messi in catene, il bestiame finì sgozzato e tutti gli edifici, dopo aver subito un minuzioso saccheggio, furono devastati e poi dati alle fiamme insieme con i libri, le provviste e i beni non trasportabili. I tesori e gli uomini validi, divenuti preda dei Vichinghi, furono imbarcati sulle navi che salparono lasciandosi alle spalle l'isola ridotta a un campo di rovine fumanti. Tale elementare modo di procedere subì in seguito un graduale perfezionamento: dopo aver depredato le coste indifese, sfruttando abilmente gli estuari oceanici, i Vichinghi cominciarono a risalire i grandi corsi d'acqua colpendo le città e le ricche abbazie all'interno del paese. Una maggiore conoscenza del terreno portò ad allargare il raggio d'azione e la durata delle scorrerie; si organizzarono basi sicure alle foci dei fiumi nelle quali si poteva raccogliere il bottino e rifugiarsi durante la cattiva stagione. Da uomini di mare i pirati si trasformarono progressivamente in abili combattenti resi più mobili ed efficaci dall'uso delle cavalcature che si procuravano sul posto: si trattava ormai di vere e proprie operazioni anfibie destinate per lungo tempo a non incontrare alcuna resistenza da parte degli aggrediti. Un conte sassone, trovandosi nell'845 alla corte del re danese Orico, fu testimone del ritorno di una di tali spedizioni: il suo capo presentava al re la Francia come un vero e proprio Eldorado a disposizione degli audaci pronti a rischiare l'avventura, d'altron-
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de facile, redditizia ed esaltante; egli esibiva come trofei una trave prelevata dall'abbazia di Saint-Germain-des-Prés e la serratura di una porta di Parigi. I pirati, contando sulla rapidità e sulla sorpresa, comparivano spesso inattesi, per esempio in occasione di feste solenni, allorché la minaccia era più lontana dalla mente delle vittime. L'uso del fuoco, le urla impressionanti e altri espedienti terroristici, come l'efferata esecuzione in pubblico di prigionieri importanti, contribuivano validamente a provocare il panico e a debilitare il morale degli aggrediti. Le incursioni saracene che, come quelle vichinghe, provenivano dal mare, ebbero con esse alcune analogie ma anche notevoli diversità. L'irresistibile espansione islamica, giunta nei primi decenni dell'VIII secolo a dominare gran parte della penisola iberica, si ridusse in seguito a una serie di grandi scorrerie lanciate al di là dei Pirenei, ma senza alcuna volontà di mettere radici in Gallia. L'aggressività musulmana tese poi a trasferirsi dalla terra al mare irradiando scorrerie che ormai più che «arabe» si potevano dire «saracene» in quanto erano prevalentemente opera di popolazioni islamizzate di sangue non arabo. Dall'Africa settentrionale, dalla Spagna, dalla Sicilia e da Creta esse si diressero per almeno due secoli verso le terre cristiane affacciate sul Mediterraneo. Ci è pervenuta, da parte islamica, la relazione dell'impresa compiuta contro Genova il 21 giugno 934. Quel giorno - si legge - il «comandante dei fedeli» Yakub ibn Ishaq al Tamimi a capo di una flotta di 20 navi diretta verso il «paese dei Rum», piombò sulla «ben fortificata città chiamata Genova». Superate le mura combattendo, continuò la sua azione per le varie vie sinché ne rimase padrone: «uccise i combattenti cristiani e politeisti e prese prigionieri i loro figli; saccheggiò tutto quello che c'era come tela di lino, filato di seta grezza, filato di lino e altre cose. Quindi incendiò la città e tutte le sue chiese, palazzi e altri beni che erano troppo pesanti per essere portati via. I Rum, che avevano avuto notizia del suo arrivo, accorsero da ogni direzione per combatterlo, ma Allah gli diede la vittoria ed egli ne uccise un gran numero. Yakub tornò vittorioso con molto bottino e pieno di giubilo». Alternativo allo sbarco improvviso in vicinanza dell'obiettivo, sul quale dirigere un'azione della durata di pochi giorni per poi reimbarcarsi con la preda, come nel caso di Genova, i Saraceni - non senza analogia con quanto messo in opera sulle sponde
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atlantiche dai Vichinghi - costituirono basi costiere fisse e ben protette dalle quali estesero all'interno le loro sistematiche scorrerie, allargando via via il raggio d'azione in cerca di sempre nuove risorse al di là del territorio già battuto e quindi non più redditizio. Benché venuti dal mare, gli incursori islamici mostrarono attitudine ad agire nei territori montani sino a tendere agguati sui passi alpini e a saccheggiare le ricche abbazie che vi sorgevano. Diverse furono naturalmente le forme di aggressione adottate, a decorrere dall'ultimo decennio del IX secolo sino alla metà del successivo, dagli Ungari i quali, secondo le tradizioni dei popoli cavalieri di provenienza orientale, misero a punto uno strumento perfezionato ed efficiente contro il quale gli eserciti occidentali - come era già successo contro i Vichinghi - rimasero a lungo impreparati a operare. Ad essi gli Ungari opponevano, infatti, una collaudata tattica di cavalleria leggera armata di arco, mobilissima e con grandi capacità di manovra esaltate da un addestramento quotidiano e da forte coesione disciplinare. Dopo aver impegnato il nemico frontalmente essi fingevano la fuga attirandolo in agguati sapientemente predisposti. Le loro razzie avvenivano, per contro, in modo del tutto tradizionale. Nel febbraio dell'anno 900 l'abate di Santo Stefano di Aitino, ai limiti della laguna veneta, così lamentò davanti al doge di Venezia l'aggressione poco prima subita: «A causa dei nostri peccati la crudelissima gente degli Ungari è venuta in Italia e ha perpetrato nel nostro territorio molte depredazioni, incendi e omicidi»: i possessi del monastero erano stati saccheggiati, i coloni uccisi o messi in fuga. Anch'essi, come i Vichinghi, agivano di sorpresa sfruttando con abilità gli effetti spaventevoli del loro aspetto e delle loro grida, mediante l'uso intimidatorio del fuoco e gesti di deliberata brutalità. Pur evitando, in genere, di attaccare i luoghi fortificati, la loro grande mobilità ne faceva sembrare il numero spropositato, accresceva la paura delle vittime e ne sminuiva la capacità di resistenza. Legati tuttavia alle necessità delle cavalcature, risultavano condizionati dalla disponibilità di foraggio e costretti, quindi, a operare solo nelle stagioni adatte; la stessa ragione impediva loro di allontanarsi troppo dalle grandi strade che agevolavano nondimeno l'estensione delle loro incursioni a buona parte dell'Europa; esse vennero così in certe zone a sovrapporsi alle parallele incursioni saracene, ma mentre queste, dalle loro basi fisse,
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tendevano a sfruttare un tratto ridotto di territorio sino a esaurirne ogni risorsa, le depredazioni degli Ungari risultarono, in definitiva, meno nocive in quanto distanziate nel tempo e alquanto diluite nello spazio11. 2.4. Spagna: una «frontera caliente». La frontiera tra musulmani e cristiani che divise la penisola iberica per più secoli ebbe caratteristiche in parte simili a quella della Cilicia: lungo di essa la Spagna cristiana crebbe alle spese della Spagna musulmana praticando una vera e propria politica del bottino. Un topos storiografico ricorrente, in verità, tende piuttosto ad assimilare la Spagna della Reconquista alla più tarda situazione della «frontiera» nordamericana: il paragone non è però del tutto infondato poiché in entrambi i casi troviamo attività economiche e militari intimamente associate. Nella realtà iberica il grado di militarizzazione appare nondimeno molto più elevato tanto da suggerire la definizione di una «società organizzata per la guerra»; si è però giustamente osservato che la stessa cosa si potrebbe dire di tutte le società medievali europee, la differenza non è quindi di sostanza bensì di grado: in Spagna tutti gli uomini liberi sono tenuti al servizio armato a piedi o a cavallo e sono mobilitabili in qualunque momento sotto il comando dei capi locali, spesso operanti ai margini del potere ufficiale, sia per la risposta ad attacchi nemici, sia per limitate azioni offensive. «La frontera de Espana es de natura caliente», scriveva re Alfonso il Savio nella seconda metà del Duecento, ma essa rimase tale almeno dall'XI al XV secolo: lungo la linea che separava le due dominazioni la guerra «fu una specie di industria, priva di motivazioni religiose o politiche». Le spedizioni che penetravano nel territorio nemico non miravano né all'occupazione stabile, né alla sottomissione della popolazione musulmana, ma avevano come obiettivo, insieme con l'estensione dello spazio percorso dalle 8reggi, la pura e semplice ricerca del bottino. I procedimenti operativi delle spedizioni cristiane nei territori musulmani ricordano da vicino quelli applicati secoli prima dai musulmani stessi in Anatolia. L'esercito di Alfonso VII, in missione nel 1133 oltre il Guadalquivir - dice ad esempio la Chronica Adefonsi imperatoris - «si accampò nel territorio di Siviglia, e ogni giorno dagli accampamenti uscivano grandi gruppi di cavalieri, che nella nostra
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lingua chiamiamo algaras, e andavano a destra e a sinistra predando tutte le terre di Siviglia, di Cordova e Cannona». Le truppe, una volta superato il fiume, stabilivano successivi accampamenti che rimanevano presidiati dai fanti mentre i cavalieri saccheggiavano il territorio circostante e accumulavano la preda nel campo. Ma già negli ultimi anni dell'XI secolo imprese simili erano state compiute dal celebre Cid Campeador. «Date orzo ai cavalli» ordina il Cid la sera prima dell'azione, e con una silenziosa marcia notturna va ad appostarsi dinanzi al villaggio fortificato di Castejon dove si concerta il seguito dell'impresa. La sua banda è composta da trecento cavalieri «senza i fanti e tutti gli altri elementi di valore»: il fido Alvar Minaya con duecento uomini andrà in avanguardia (algara) lungo il fiume Hanares «sin oltre Hita, oltre Guadalajara e fino ad Alcalà»; «con Dio e vostra sorte faremo gran guadagno» si ripromette. Il Cid stesso comanderà i cento uomini della retroguardia (zaga). All'alba egli punta su Castejon e in breve gli abitanti, sorpresi fuori delle mura, cadono nelle sue mani con tutto il loro bestiame: superata la porta di slancio, le guardie vengono sorprese e messe in fuga e, spada alla mano, il Cid travolge ogni altra resistenza. Il villaggio è conquistato con «il suo oro e il suo argento» che i fedeli si affrettano ad accumulare. I duecento cavalieri dell'«avanguardia» intanto, come previsto, giungono a saccheggiare, senza che nessuno osi attaccarli, sino ad Alcalà e risalgono il fiume con una grande preda: «intere greggi di pecore e di vacche e tante altre cose, ricchezze molto varie». Tutti si ritrovano fra le mura di Castejon dove «i bottini raccolti sono ammonticchiati» pronti per essere ripartiti fra tutti i partecipanti. Ma rimanere fermi diviene pericoloso: l'acqua scarseggia e può sopraggiungere il re con i suoi armati. Il Cid libera allora duecento Mori catturati e la mattina dopo tutti cavalcano oltre il fiume verso Saragozza facendo ancora grande bottino in tutte le terre attraversate, e si accampano infine in posizione forte su un colle lungo il fiume Jalon in attesa di altre battaglie vittoriose e di altre prede. Simili attacchi a sorpresa richiedevano una profonda conoscenza del terreno e della situazione nemica sottintendendo quindi un'intensa attività di informazione, rapida esecuzione e altrettanto veloci ritirate, un'organizzazione che ha lasciato larga traccia nelle fonti e nella stessa varietà terminologica del linguaggio:
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Yalgara è una spedizione di razzia condotta da un corpo di cavalleria leggera, più o meno numeroso a seconda dell'ampiezza del teatro di operazioni, che agisce, come si è visto, in coordinamento tattico con la zaga, destinata a proteggere la preda. La cavalgada è un'operazione analoga che richiede però un dispositivo più complesso e comprende quindi anche soldati a piedi. Altre spedizioni militari intese a fare bottino sono contraddistinte con nomi dal significato non sempre chiaro - corredura, azaria, rafala, almofalla - ciascuno dei quali nasconde qualche caratteristica diversa12. L'attività predatoria continuamente esercitata nell'ambiente della frontiera spagnola diede origine a corpi franchi spontanei come gli Almugavari, menzionati per la prima volta nel XIII secolo: si tratta di montanari aragonesi e catalani, veri campioni nella razzia e negli attacchi a sorpresa, il cui desiderio di bottino era insaziabile. Essi erano vestiti ed equipaggiati in modo semplice e disadorno: una correggia, un accendino e uno zaino di cuoio in cui hanno una scorta di pane per tre giorni, ma la loro sobrietà è tale che all'occorrenza sanno vivere anche di sole erbe; sono armati con un coltellaccio, due dardi e una lancia, che nelle mischie serrate spezzano per potere con essa uccidere meglio i cavalli nemici. Il loro grido: «Aur! Aur! Desperta ferre!» basta a gettare il terrore. «Viri bellatores, praedae avidi» li definisce Niccolò Speciale nella sua Storia Sicula: essi non conoscono altra attività che non sia la guerra, e quando le occasioni di predare in patria vengono meno devono cercarle altrove, prima in Sicilia e poi in Oriente13. 2.5. Le «spoglie trionfali» di Roberto il Guiscardo. Possibilità analoghe a quelle della frontiera spagnola offriva, nella seconda metà dell'XI secolo, anche l'Italia meridionale ancora divisa fra Longobardi e Bizantini, e su di esse costruirono inizialmente la loro fortuna alcuni famosi capi normanni. Riccardo Quarel, giunto in Italia nel 1046 - racconta Amato di Montecassino - non appena installato a Genzano di Lucania «non aspettò fino al giorno seguente; la stessa notte penetrò in un'altra città ed i cavalieri riportarono preda smisurata che saziò pienamente i cittadini della sua terra». Riccardo «donava quel che poteva predare e non lo conservava, e la notte prendeva quel che restava. In questa maniera va saccheggiando tutta la terra intorno», e presso di lui intanto i cavalieri continuamente crescevano.
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Roberto, che sarà poi detto Guiscardo, ottenuto il castello di Scribla nella valle del Crati, al confine con la Calabria bizantina, «guardò e vide terra assai vasta e città ricche, villaggi frequenti e campi pieni di bestiame in quantità»: un vero invito alla preda che non tardò ad essere raccolto. «Prendeva i buoi per arare e le giumente che facevano buoni puledri - dice ancora Amato - dieci grassi maiali e trenta pecore», ma imprigionava «anche gli uomini che si riscattavano con pane e vino. E però tutto ciò non lo saziava». Catturò quindi a tradimento Pietro di Bisignano e lo liberò solo dietro il pagamento di 20.000 soldi d'oro. In seguito - aggiunge Goffredo Malaterra - la sua clientela si arricchì di 60 Slavi pratici della Calabria. Roberto domandò loro «se conoscevano qualche luogo raggiungibile dove si potesse far preda» ed essi indicarono un paese «al di là dei monti altissimi, per vie molto scoscese, in valli profondissime» dove sapevano di una preda enorme, che però «non poteva essere tratta di là senza grave rischio». Scelgono una notte in cui i Calabresi celebravano una loro festa e il colpo (cui partecipa in incognito lo stesso Roberto) riesce in pieno: i derubati inseguono bensì i predatori, ma vengono respinti combattendo. «Conseguite così spoglie trionfali» Roberto «fece cavalieri i suoi fanti». Il castello di Scribla accolse da allora le prede e i proventi dei riscatti ottenuti tormentando i Calabresi con continue incursioni, premessa di future, più gloriose imprese. Non a torto, dunque, qualche decennio più tardi, Anna Comnena ricordava che Roberto aveva fatto fortuna nella Longobardia meridionale come capo di una banda di briganti che si procuravano cavalli, armi e ricche prede derubando i viaggiatori14. 2.6. Scherani e gualdane nell'Italia dei comuni. Le razzie non erano meno frequenti lungo i confini che separavano le città dell'Italia centrosettentrionale, perpetrate furtivamente nei periodi di pace o apertamente durante le numerose guerre. Il 26 dicembre 1227 gli ambasciatori del comune di Cremona protestarono a Milano in pieno consiglio contro una grave «ruberia, preda e violenza»: nonostante la tregua in atto, un reparto regolare costituito da fanti e cavalieri, arcieri e balestrieri, era entrato in Fornovo a mano armata e con le bandiere levate: «La terra è presa», proclamano, e pretendono di essere alloggiati nelle case del villaggio, si impadroniscono di buoi, vacche, cavalli e giumenti e di tutti gli altri
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beni della popolazione, percuotono duramente due uomini e feriscono una donna con il bambino nella culla. La preda deve essere restituita - chiedono perciò gli ambasciatori - perché fatta «in malo modo e ordine, contro ogni forma e buona consuetudine di Lombardia», senza che gli uomini di Fornovo avessero offeso nessuno. «Voi siete uomini sapienti - aggiungono - e sapete bene che quanto è stato fatto è indecente e contro l'onore del comune di Milano», ma non sappiamo se la giusta protesta dei Cremonesi abbia avuto seguito. Si trattava, in quel caso, di un semplice incidente di frontiera, ma le ruberie lungo le linee di confine dovevano essere abituali ovunque. Gli abitanti di Montegalda, al limite del territorio vicentino - racconta Rolandino da Padova - sconfinavano spesso furtivamente nel Padovano provocando gravi danni tanto che, viste vane le proteste per via diplomatica, nel 1188 i danneggiati occuparono militarmente Montegalda. Non diversamente avveniva sul confine con Venezia così che nel 1215 il comune di Padova organizzò una spedizione contro le sue terre. Anche i Trevigiani venivano spesso di notte a danneggiare i villaggi lungo il confine del distretto padovano e questa volta non ci si accontentò di rispondere con un'immediata ritorsione ma si stabilì di invadere e guastare i beni del nemico due volte l'anno, e solo la mediazione del vescovo di Brescia impedì che la questione degenerasse. Ma ecco di nuovo nel 1231, sempre sul confine trevigiano, comparire uomini che di giorno si tengono nascosti presso il castello di Noale, all'insaputa dei signori del luogo, ed escono la notte a predare nel distretto di Padova provocando un'altra risposta armata. Non si trattava di cittadini trevigiani ma di non meglio precisati «malfattori» che vivevano di preda attestandosi lungo le frontiere comunali anche in tempo di pace e, nei frequenti periodi di guerra, erano pronti a continuare le loro razzie accodandosi agli eserciti mobilitati. Essi sono probabilmente da identificare con quella genia di persone che dalla prima età sveva, tanto in Lombardia quanto in Toscana, le fonti chiamano scarani, disposti al saccheggio con l'una o con l'altra delle parti in lotta. All'assedio di Crema nel 1159 agisce persino una grossa compagnia di poveri e accattoni chiamati per scherno «figli di Arnaldo», armati solo di pietre e di roncole, ma la cui prontezza nell'uccidere incute terrore. Nel Duecento, quando le guerre tendono a prolungarsi,
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tali uomini si moltiplicano in ogni teatro di operazioni vivendo sul paese mediante la cattura di persone e di bestiame tanto per vettovagliarsi quanto per lucrare sui riscatti. Nell'area veneta i comuni tendono ad allontanare, almeno a parole, dai loro distretti «scherani, ladroni e derubatori», qui indicati anche con il caratteristico termine di zaffones. Gli stessi comuni non esitano però a servirsene sia per parare i colpi di mano condotti da altri zaffones contro il proprio territorio, sia nelle azioni offensive come di un'avanguardia disposta a tutto pur di arraffare a man salva. Nel maggio del 1258 un'incursione notturna depreda Villanova Padovana, ma ecco sopravvenire, insieme con i berrovieri del comune, certi zaffones che catturano i predoni e recuperano il bottino. Essi vigilavano lungo il confine - precisa Rolandino - «per ordine del podestà ma anche a fine di lucro», e «non si curavano affatto di che cosa fosse la pietà e l'onestà, credendo anzi che il bene stia là dove è più grande il profitto». Nel medesimo anno il comune di Padova conduce un'azione contro Treviso e in essa - nota ancora il cronista - «certi fanti e zaffones che volgarmente chiamiamo gualdana, procedendo disordinatamente per più di un miglio davanti alle schiere dei cavalieri, più animosi di quanto fosse richiesto», superano temerariamente le prime difese della città e vengono sterminati15. Il vocabolo gualdana, di origine germanica, già attestato nel IX secolo, sembra indicare nell'Italia dei comuni un insieme informale di uomini («banda», più che «schiera» o «reparto» organicamente inteso) a piedi e a cavallo che poteva precedere un esercito in avanzata o che, più semplicemente, in un contesto di guerra aperta, operava scorrerie. Si trattava normalmente di azioni spettanti alla cavalleria leggera regolare che nell'Italia del Nord si identificava nel XII secolo con gli «scudieri» e nel successivo con i «berrovieri», insieme ai quali agiscono però gli irregolari zaffones tanto che Rolandino da Padova, come si è visto, li considera tutt'uno con la gualdana. Nella Firenze del Duecento e Trecento la gualdana è costituita da ribaldi inquadrati sotto una loro bandiera con il compito di andare appunto «rubando e ardendo le case» sul territorio nemico. Si chiamava però gualdana, nel 1260, anche un servizio al quale erano tenuti a partecipare di giorno e di notte, al pari della guardia, tutti i componenti dell'esercito comunale.
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Nel 1247, durante l'assedio di Parma da parte di Federico II, ogni mattina i cavalieri imperiali si disponevano presso la città e vi rimanevano sino a sera «aspettando e custodendo le loro gualdane» che non solo bruciavano e devastavano tutto ciò che trovavano, ma si portavano via anche tegole e mattoni delle case distrutte per utilizzarli, secondo l'ordine dell'imperatore, nella costruzione di nuove abitazioni. Verso la fine del secolo ritroviamo la stessa pratica nell'organizzazione militare veneziana a Creta che indirizzava contro i ribelli dell'isola gualdane composte da dieci a trenta gualdanatores i quali si spartivano poi la preda lasciandone una quota fissa al capitano o al castellano. Si trattava di azioni di razzia ridotte, sempre ben distinte dalla cavalcata, per quanto anche i partecipanti a quest'ultima si dividessero gli eventuali guadagni16. In certi periodi e zone le reciproche razzie a cavalieri dei confini comunali raggiunsero ritmi che parrebbero incredibili: Giovanni Sercambi elenca fra l'aprile e l'ottobre del 1397 almeno 25 irruzioni lucchesi sul territorio pisano alle quali rispondono, tra febbraio e novembre, altre 22 operate dai Pisani sul territorio lucchese17. Sarebbe certo sproporzionato paragonare la gualdana italica all'algara spagnola, ma affinità certamente esistevano, così come essa può richiamare l'usanza di cavalcare «alla ventura» praticata in Francia durante la guerra dei cento anni. Nel giugno del 1259 - racconta ancora Rolandino - la cavalleria padovana fece un'incursione contro il borgo vicentino di Thiene associandosi «certi uomini prudenti e desiderosi dei beni altrui che chiamiamo zaffones» i quali ebbero un posto di rilievo: il bottino fu ingente, ma il popolo insorse contro la decisione di concederne ad essi una parte troppo grande. Gli zaffones, cresciuti lungo le piccole frontiere del mondo comunale veneto, avevano in comune con gli Almugavari aragonesi solo la caratteristica di essere «cupidi di beni altrui», non sembra infatti trattarsi propriamente né di mercenari né di combattenti; essi corrispondono dunque a quei «ribaldi» o barattieri aggregati all'esercito per fornire certi servizi ripagandosi con la razzia, ultimo gradino sociale di un vasto sistema che coinvolge l'intera società: dai signori più potenti, desiderosi di appropriarsi di interi territori, ai boriosi cavalieri che mascherano la loro avidità dietro l'alibi della prodezza, ai mercenari stranieri e italiani, sino ai fanti cittadini e rurali, tutti
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cercano nella realtà della guerra gratificazioni che i soli zaffones ammettono apertamente: la cupidigia dei beni altrui.
3. // saccheggio «spontaneo» 3.1. Gli eserciti «amici». In età medievale ogni esercito, per il solo fatto di essere tale, sembra incapace di astenersi dalla preda in ogni possibile occasione, tanto che il suo semplice passaggio viene a costituire una grave sciagura per ogni luogo attraversato, senza distinzione fra amici e nemici. Clodoveo, diretto nel 507 contro i Visigoti, deve chiedere ai suoi di non predare né a Poitiers né lungo il corso del trasferimento, salva la possibilità di rifornirsi di erba e di acqua, e il soldato che osò sottrarre fieno a un privato venne senz'altro passato per le armi. La capacità di far rispettare la disciplina, mostrata allora da Clodoveo, si rivela però del tutto eccezionale: persino il piccolo esercito di scorta a Rigunte, la figlia di Chilperico, che nel settembre del 584 andò sposa al re dei Visigoti, riuscì a compiere rapine inaudite: «spogliavano le capanne dei poveri - dice Gregorio di Tours - devastavano i vigneti al punto che portavano via con le uve anche i rami e le radici spezzate, rubavano le pecore e non tralasciavano nulla di quello che potevano trovare sulla strada lungo la quale avanzavano». In occasione della spedizione in Italia del 590 il duca Audovaldo, dopo aver mobilitato la popolazione della Champagne, si presentò a Metz dove «operò depredazioni così ingenti e tali omicidi e devastazioni» da sembrare nemico del suo stesso paese; e anche altri capi della stessa spedizione «compirono imprese analoghe al punto da seminare la rovina più sulla loro terra e sul popolo che l'abitava che conseguire sui nemici qualche vittoria». Talora la reazione della popolazione locale è inevitabile: nel 585 un esercito accampato presso Comminges devasta tutta la regione circonvicina, ma alcuni soldati «incalzati dalla sete della bramosia», allontanatisi troppo, furono uccisi dagli abitanti18. In seguito, gli obblighi vassallatici che imponevano il servizio militare dovevano, in linea di principio, soddisfare anche le esigenze alimentari dei combattenti, se non con l'approvvigionamento diretto, almeno rendendolo più facile, ma l'abituale man-
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canza di un'organizzazione logistica, che provvedesse in modo continuo e soddisfacente alla sussistenza delle truppe operanti, induceva ovviamente a compiere requisizioni a danno dei civili. Occorrerebbe, a rigore, distinguere tra prelievi fatti per le strette necessità di sopravvivenza e il saccheggio indiscriminato a scopo di rapina, ma si tratta di una distinzione il più delle volte impossibile nei fatti, innanzitutto da parte di colui che si vedeva comunque sottratti i propri beni a titolo gratuito e con le cattive maniere. Proprio la necessità di approvvigionarsi in modo «lecito» era all'origine di tutti gli eccessi di una «licenza militare» che si poteva tradurre in pura rapina verso i nemici quanto verso gli amici. Lo sperimentato condottiero Orso Orsini nel suo trattato su Governo et exercitio della militia, scritto nel 1476, osservava che le genti mal pagate «sempre vanno vacabunde» e molti invece di combattere «stanano a vedere come potessero arrobare qualche carriaggio de li amici o fare qualche altra ribaldarla o miseria». Machiavelli qualche decennio dopo ribadiva: «Dal volersi potere nutrire d'ogni tempo nascono le ruberie, le violenze, gli assassinamenti che tali soldati fanno così agli amici come ai nimici», né si possono per questo punire poiché «tu non puoi gastigare uno soldato che rubi, se tu non lo paghi, né quello, volendo vivere, si può astenere dal rubare»19. Ma anche prescindendo dalle intenzioni predatorie, lo stesso semplice passaggio di truppe è motivo di gravi danni estesi per ampi tratti del paese innanzitutto perché un controllo - ammesso che possa e voglia essere esercitato - è più difficile da assicurare su uomini in movimento; se poi, come spesso avviene, un esercito è accompagnato da mezzi pesanti, si aggiunge il danneggiamento delle strade, l'abbattimento di alberi, di case e di muri per agevolarne il passaggio. Ancora peggiori sono, naturalmente, i danni provocati là dove le truppe stazionano: la loro sola presenza rischia inratti di esaurire le risorse di una intera regione che debba provvedere al nutrimento di uomini e di animali poiché ben raramente essa e sufficientemente ricca da poter vettovagliare in modo conveniente un gran numero di persone, senza contare che i soldati, anche ui tempo di pace e sul proprio territorio, tendono a non pagare ciò che consumano: in Francia agli stati generali del 1484 un deputato lamentò che, secondo un detto popolare, «le genti d'arme prendono ciò che pagano, ma non pagano ciò che prendono»20.
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Nel 1158 l'esercito boemo in marcia verso Milano attraversava il territorio bresciano contro il quale - dice Ottone Morena - «aveva stabilito di non fare alcun danno»; se non che «gli scudieri sottraevano ai villani qualcosa da mangiare, come si è soliti fare negli eserciti, né - aggiunge il cronista - si può facilmente fare in modo diverso». Ma i Bresciani reagirono duramente ferendo e uccidendo gli scudieri e togliendo loro i cavalli. I Boemi risposero allora assaltando per 15 giorni castelli e villaggi, distruggendo molti abitati col fuoco e portando via ai Bresciani una preda infinita sin presso le mura della città. Il caso esemplifica bene sia la necessità dell'approvvigionamento forzoso di un esercito in marcia a carico delle popolazioni locali, considerata come ovvia e consacrata dall'uso, sia le conseguenze cui essa può facilmente arrivare. La capacità di radunare un esercito, mantenerlo e condurlo senza provocare troppi danni è, non a caso, considerato titolo di merito proprio di un grande comandante. Essa non mancò, come si è visto, a Clodoveo, e Procopio di Cesarea sottolinea che Belisario era amato sia da parte dei suoi soldati sia, cosa rara, dalla popolazione rurale verso la quale «era così riguardevole e premuroso che nessuno, finché Belisario fu generale, ebbe mai a subire violenza alcuna»: egli pagava accuratamente il prezzo di quanto veniva acquistato, e quando il grano era maturo «stava molto attento che la cavalleria non lo danneggiasse mentre nessuno dei suoi ebbe mai la facoltà di toccare i frutti maturi sugli alberi». Gli può stare alla pari il comportamento in più casi riconosciuto a Guglielmo il Conquistatore: nel 1065, quando le sue truppe fronteggiavano i Bretoni, egli impedì loro di appropriarsi delle messi e delle greggi nei luoghi in cui erano accampate; l'anno dopo, quando si radunò il grande esercito destinato alla conquista dell'Inghilterra - tiene a precisare il suo biografo Guglielmo di Poitiers - «avendo impedito ogni saccheggio, nutrì a sue spese cinquantamila cavalieri per un mese» e non permise ad alcuno di prendere qualsiasi cosa: «gli abitanti della zona passavano in tutta tranquillità con i buoi e i montoni tanto nei campi coltivati quanto nei luoghi deserti e le messi attendevano intatte la falce del mietitore senza conoscere il calpestio dei cavalieri nelle loro orgogliose cavalcate né il taglio dei foraggiatoti. Ognuno, anche debole e disarmato, poteva percorrere il paese a proprio piacimento cantando senza tremare alla vista degli squadroni di cavalieri».
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T diritti degli abitanti furono salvaguardati allo stesso modo anche dopo il ritorno dalla vittoriosa impresa nel corso della quale Guglielmo ordinò di punire severamente gli scudieri che, spinti dalla volontà di fare bottino, avevano incendiato il castello di Dover, provvedendo a ricostruire le fortificazioni danneggiate21. Nello stesso anno in cui avveniva la conquista dell'Inghilterra, il milanese Erlembaldo chiamò alle armi i suoi concittadini per la spedizione che doveva recuperare il corpo del martire Arialdo. Secondo Andrea da Strumi, Erlembaldo impose ai suoi uomini di «non procedere con rapine e con danno dei poveri e degli innocenti, ma portando con sé il necessario per vivere»: esprime, cioè, l'intenzione di evitare le abituali prepotenze a danno degli inermi provvedendo a un embrionale apparato logistico. Ciò nonostante l'esercito indusse alla fuga le pacifiche popolazioni circonvicine evidentemente ammaestrate dalle negative esperienze già fatte in precedenza. I Milanesi e, più in generale, gli Italiani del Nord, che nell'anno 1100 partirono per una crociata destinata, nelle loro intenzioni, a conquistare Bagdad e il regno turco del Corassan, furono assai meno disciplinati di coloro che avevano formato le truppe di Erlembaldo, come del resto avvenne per la maggior parte degli eserciti crociati diretti in Oriente. Essi avevano avuto dall'imperatore di Costantinopoli l'autorizzazione ad attraversare la Bulgaria purché acquistassero i viveri loro necessari a un prezzo convenuto e non devastassero le sue terre, ma ben presto gli accordi e gli ordini dei comandanti furono trasgrediti e, senza alcun valido motivo, i «Lombardi» cominciarono a depredare il bestiame e i volatili dei Bulgari e, quel che è peggio per un popolo cattolico - osserva scandalizzato il cronista Alberto di Aquisgrana -, divorandoli nel tempo del digiuno quaresimale. Chiese e oratori furono manomessi per impadronirsi delle cose preziose in essi conservate e certi facinorosi giunsero a tagliare le mammelle di una donna che difendeva i suoi averi22. JI tratta di violenze e razzie deplorevoli, ma certo non inferiori a quelle commesse da qualunque altro esercito in marcia in qualunque territorio, anzi, più probabilmente, dalle minoranze criminali sempre presenti, non diciamo in una forza armata, ma in qualsiasi assembramento numeroso di persone. Le violenze compiute ai Lombardi in Bulgaria sono giudicate più riprovevoli del soli-
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to sia perché non motivate da alcuna necessità, sia perché compiute da uomini votati a una missione di carattere sacro come quella del pellegrinaggio armato. È significativo, tuttavia, che il cronista si indigni, più che a motivo del saccheggio e delle gratuite violenze, per la mancata osservanza del digiuno quaresimale. 3.2. / mercenari. È soltanto in parte assimilabile alla «normale» tendenza predatoria di un qualunque esercito medievale (di solito mobilitato per un tempo ridotto) la presenza ininterrotta e dirompente dei soldati di mestiere. Così, verso il 1180, Walter Map parla dei mercenari brabanzoni, che militarono anche in Italia negli eserciti di Federico I: dapprima semplici ladruncoli originari del Brabante, poi veri fuorilegge cui presto si associarono ribelli, falsi chierici, monaci rinnegati e delinquenti comuni; ora, organizzati in formazioni chiamate «rotte», vagano a migliaia per regni e province, rivestiti dalla testa ai piedi di cuoio e di ferro, non esitando a ridurre in cenere monasteri, villaggi e città, e a violentare per puro gusto di esercitare violenza. Almeno dagli ultimi decenni del XIII secolo i fuorusciti delle città padane tenevano al loro servizio uomini che Salimbene da Parma indica come «cavalieri mercenari, berrovieri e ribaldi» bergamaschi, milanesi e della Liguria i quali, oltre che combattere per conto di chi li pagava, andavano «depredando e portando distruzione nei paesi del vescovado reggiano, catturando uomini e torturandoli in modi diversi, raffinati e inconsueti, per costringerli a riscattarsi a suon di denaro». E il cronista si dilunga anzi, non senza un certo sadico compiacimento, a descrivere minutamente le vessazioni alle quali essi sottoponevano le loro vittime23. Quello che appariva ancora eccezionale nell'Italia padana del Duecento, diventerà abituale in mezza Europa soprattutto nella seconda metà del secolo seguente al tempo delle compagnie di ventura organizzate come veri e propri eserciti permanenti e itineranti, sempre disposti alla preda, sia per conto dei loro datori di lavoro, sia soprattutto per il proprio tornaconto diretto. Lo stesso termine ventura, con il quale si è convenuto di denominare quelle formazioni, indica di per sé un gruppo di combattenti che, abbandonando per un certo tempo la guarnigione o l'accampamento, si dedica alla ricerca del bottino o al sequestro di persona allo scopo di estorsione; la nozione di ventura richiama, infatti,
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«uno stile di guerra in cui l'obiettivo non è più di superare un avversario ma di arricchirsi con tutti i mezzi possibili», nel quale auindi moventi economici elementari soppiantano ogni intenzione politica. In Francia le «grandi compagnie» che presero sviluppo dopo il 1360, durante una pausa della guerra dei cento anni, vennero popolarmente indicate a seconda della provenienza geografica dei loro componenti, come Inglesi o Bretoni; i documenti ufficiali parlano invece, più semplicemente, di «compagnie di predoni», di «ladroni e saccheggiatori delle grandi compagnie» o di «empie, inique compagnie» per le quali il brigantaggio su vasta scala è, se non l'unico, certo lo scopo principale benché talvolta nascosto da paraventi legali. Prodotte - come scrisse uno storico dell'Ottocento - da una crisi di disoccupazione di quell'industria che era allora la guerra, esse semplicemente continuano a esercitare l'attività che già svolgevano quando erano agli ordini del re di Francia e d'Inghilterra: si installano in un castello o in un villaggio fortificato e ne fanno la base delle loro sistematiche scorrerie; si impadroniscono del bestiame, saccheggiano e bruciano le abitazioni, violentano le donne, uccidono gli uomini o, quando essi sono ricchi, li imprigionano e li tormentano per costringerli a riscattarsi. Ai contadini e agli abitanti di interi territori non rimane che rifugiarsi nel folto dei boschi, in isole o in paludi inaccessibili oppure riscattarsi dal fuoco e dallo sterminio col denaro o mantenendo i loro taglieggiatori24. Avvenimenti analoghi a quelli francesi toccarono anche l'Italia, percorsa dai primi decenni del Trecento in poi da numerose compagnie formate specialmente da stranieri: dapprima soprattutto Tedeschi, poi anche Ungheresi e Inglesi passati dalla Francia in Italia. Le compagnie anche qui, quando rimanevano disoccupate, ricattavano città e saccheggiavano le campagne. Uno dei più noti condottieri fu, intorno alla metà del Trecento, Montreal d'Alu ^ e t t ° F f a ' ^ /Ioria ^ e - E ^ ' lassato senza paga da chi l'aveva assoldato, «avendo l'animo grande alla preda, si propose d'accogliere gente d'arme d'ogni parte d'Italia, e fare una compagnia di pedoni con la quale potesse cavalcare e predare ogni paese e ogni uomo». breve radunò un grande numero di uomini e cominciò la uova attività con tanto successo che «per la fama delle grandi
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prede - ricorda il cronista fiorentino Matteo Villani - molti soldati ch'avevano compiute loro ferme, senza volere più soldo traevano a Fra' Moriale» per partecipare ai proventi delle ruberie e prede che la gran compagnia andava facendo. «Tutti i comuni della Toscana e dell'Umbria non ebbero altro scampo che non fosse comprarsi l'esenzione degli attacchi di Fra' Moriale», ma soprattutto, come in Francia, ne risentirono le campagne provocando non di rado la reazione dei contadini. Nel 1358 la «Grande compagnia», comandata da Corrado di Landau, nel corso di un trasferimento nella valle Lamone, fra Romagna e Toscana, lungo l'aspro e malagevole passo delle Scalelle, fu in gran parte massacrata dai montanari esasperati per i saccheggi. Lo stesso Landau venne catturato e, mentre i suoi mercenari cercavano di mettersi in salvo, «non solo gli uomini - scrive ancora Matteo Villani - ma le femmine [...] loro toglieano le cinture d'argento e danari e gli altri arnesi» ad almeno parziale risarcimento delle ruberie subite. Anche Ambrogio Visconti, a capo della propria compagnia, cadde nel 1374 nelle mani di montanari bergamaschi - dice Bernardino Corio - e «vituperosamente fu morto insieme con grande quantitate de nobili e gente d'arme»25. Nella seconda metà del XIV secolo, quando le compagnie andavano già mutando carattere e si avviavano a diventare formazioni militari di una certa stabilità agli stipendi delle signorie italiane, il taglieggiamento della popolazione civile rimase comunque una loro notevole fonte di utili, e bottino e riscatti continuarono anche nel Quattrocento ad essere una componente ineliminabile dei profitti di guerra con la quale le compagnie integravano le loro paghe. Antonio Cornazzano, confidente e biografo di Bartolomeo Colleoni, considera le azioni di saccheggio da lui compiute come parte integrante dell'attività militare e degne di apprezzamento come altre doti di un buon condottiero. Nel 1423 a Napoli il Colleoni «non ebbe rivali nell'ardimento e nel saccheggio»; poco dopo all'Aquila «ebbe la soddisfazione di tornarsene al campo carico di bottino e con parecchi prigionieri»; nel 1428, dopo un'incursione nel territorio di Cremona, «fece ritorno nella terra natale carico di gloria e di bottino». L'anno dopo a Brescia contro il Piccinino si mostra «abile predatore oltre che valoroso guerriero»; e combattendo nel 1447 contro i Francesi a Bosco Marengo, mentre i suoi uomini mugugnavano perché tenuti
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nell'impossibilità di predare, egli li esorta indicando loro il nemico: «Soldati! Esigete da costoro il vostro bottino! Ecco chi vi darà il frutto della vostra fatica e del vostro valore!». Ogni tanto la riflessione teorica, insieme con le constatazioni della pratica, portano a riscoprire i vantaggi politici che si possono avere astenendosi dai guasti e dal saccheggio come già faceva Belisario. Nel 1478, poco dopo la morte del Colleoni, uno dei Memoriali di Diomede Carafa fa osservare l'utilità di prendere i luoghi «a patto» e senza sottoporli a distruzione e saccheggio: in tale senso dovrebbero agire - egli dice - «quelli che da più sono» e non tanto «uno capitaniecto de ventura che non cura se non de andare appicando, et per dare spavento alli populi». All'inarca nello stesso tempo il poeta francese Pierre Michault scriveva: «Tutto deve tremare all'ombra della lancia, / Se non provocate oltraggi / Non sarete valorose genti d'arme». Il Colleoni, quando nel 1467 volle proibire ai suoi di «robbare né fare presoni» probabilmente intendeva ormai comportarsi da persona «da più», se non che - dice il cronista Cristoforo da Soldo - per poco non causò «la destructione delle so zente d'arme» poiché «tanto pochi dinari li dava che gli era necessario vender cavalli et arme per vivere». E rimane senza dubbio significativo che l'imponente statua equestre di Andrea Verrocchio, che ancora oggi troneggia a Venezia nel «campo» dei Santi Giovanni e Paolo (elevata, come si sa, con il denaro a ciò appositamente destinato dal Colleoni stesso nel suo testamento) una mattina fu trovata «con un sacco in spalla e una scopa in mano», certa allusione alla rapacità esercitata in vita dal condottiero26.
4. «Raid»: la distruzione organizzata 4.1. Tecniche di conquista e di repressione. Belisario che, come si è visto, fu sempre risolutamente contrario al saccheggio come manifestazione di indisciplina, non esitò a programmare la depredazione sistematica del Piceno. Mentre ancora si trovava assediato in Roma dall'esercito goto, egli inviò in quella regione duemila cavalieri al comando di Giovanni: in essa erano rimasti pochi Goti, in maggioranza impegnati nell'assedio di Roma, mentre
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«c'erano donne e bambini dei nemici e tesori dovunque». Giovanni doveva condurre «repentine incursioni» facendo prigionieri e depredando quanto gli capitava, senza tuttavia danneggiare i Romani ivi residenti. Se la conquista dei luoghi fortificati e presidiati non fosse riuscita al primo colpo era opportuno aggirarli e passare oltre. Ben chiara è dunque la distinzione fra i saccheggi per pura avidità personale e le sistematiche scorrerie devastatrici intese come azioni di guerra che perseguono fini strategici ben precisi: si tratta della medesima differenza che si è inteso stabilire fra la razzia e il raid, anche se, per coloro che subiscono, non cambia certo molto. Terribili furono i raid di sterminio che Pipino il Breve scatenò dal 761 in poi nella Gallia del Sud per stroncare la volontà di indipendenza mostrata dagli Aquitani. Il loro duca Guaiferio, va detto, non mancò di replicare, sinché gli fu possibile, nel medesimo modo. Nel maggio del 763 l'esercito di Pipino superò la Loira e si abbatté sull'Aquitania «guastando tutta la regione» e distruggendo con il fuoco le ville pubbliche di Guaiferio. Dopo aver rovinato l'intero paese e spopolato molti monasteri, Pipino giunse a Yssandon, dove si trovava la maggior parte delle vigne da cui «quasi tutta la regione - le chiese come i monasteri, i ricchi come i poveri - solevano trarre il loro vino, e le fece sradicare e distruggere». Nei due anni seguenti Guaiferio rispose con analoghe azioni di ritorsione, ma fu regolarmente contrastato e battuto. Nel 766 Pipino dislocò a Bourges una scara, cioè uno squadrone di cavalleria di pronto intervento, e di là tornò a guastare sistematicamente tutta l'Aquitania. In seguito, sconvolgendo il solito calendario stagionale, infierì anche nei mesi invernali senza tuttavia giungere a catturare il suo ostinato antagonista, che trovò anzi nuovi alleati e mise ancora in difficoltà i Franchi nei territori di Bourges e di Limoges «al punto che nessun colono osava uscire per coltivare i campi e curare le vigne». Il succedersi delle azioni distruttive risuona con martellante monotonia nelle brevi notazioni tanto del cronista Fredegario quanto degli Annali franchi: «distrusse con il fuoco», «bruciarono con l'incendio», «in quell'incendio bruciarono tutta la regione guastata», «tutto guastò, saccheggiò e incendiò», «tutte le mura furono gettate a terra», «ordinò di incendiare l'intera regione e i monasteri furono distrutti», «devastando tutta la provincia di
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Aquitania», «depredando la guastò a fondo», «fu distrutta con il ferro e con il fuoco». Nel 768 Pipino mise, infine, le mani sulla famiglia di Guaiferio e poco dopo questi venne ucciso a tradimento: il nemico fu così definitivamente prostrato dopo nove terribili campagne in cui la tattica del saccheggio ripetuto fu praticata da entrambi i contendenti. I braccialetti d'oro e il serto di pietre preziose di cui Guaiferio si era fregiato, vennero appesi alla croce dell'altare maggiore di Saint-Denis: il bottino fu così esibito come segno della difficile vittoria ottenuta contro un avversario ricco quanto valoroso27. Carlo Magno, figlio di Pipino, che aveva seguito il padre nelle spedizioni contro gli Aquitani, applicò una strategia simile nella ventennale guerra che egli, dal 772 in poi, sostenne contro i Sassoni: un anno dopo l'altro si videro succedersi le azioni distruttive e predatorie insieme con l'opera di forzata conversione al cristianesimo ostacolate, l'una e l'altra, da una fierissima resistenza. La sottomissione della Sassonia, che portò i confini della cristianità occidentale sino al fiume Elba, fu il risultato di un «lento strangolamento» attuato mediante l'allestimento di numerose basi fortificate che, sostenendosi a vicenda, bloccarono il corso dei fiumi e consentirono all'esercito franco di terrorizzare e devastare sistematicamente il paese nemico costringendolo così a piegarsi. In ambiti più limitati la devastazione e la razzia furono applicati alla repressione di ribellioni interne. Guglielmo il Conquistatore - pur capace, come si è visto, di tenere a freno le sue truppe dal saccheggio e dai danni - si mostra all'occasione spietato: contro i ribelli del Northumberland non si accontentò di devastare terre e di bruciare case ma, preso dall'ira, colpì con la stessa violenza colpevoli e innocenti; le messi furono incendiate, il bestiame soppresso, le scorte di viveri bruciate e in tutte le terre a nord del fiume Humber ogni mezzo di sussistenza fu distrutto tanto che l'intera regione venne poi travagliata dalla carestia. Contro i sudditi che avevano dato ospitalità a briganti, Ugo Capeto, non meno ferocemente, impose un radicale programma di distruzione: «Devastate tutta la regione - proclamò - distruggete le chiese, bruciate le case, abbattete i forni e i mulini, portate via le greggi e gli armenti insieme con le cose di ogni genere e tornate carichi di preda in modo da non lasciare nulla a quei delinquenti»28.
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Assai spesso, in ogni epoca, le distruzioni programmate ebbero come obiettivo di indurre una città alla resa: tale fu la tattica adottata verso la metà dell'XI secolo dai Normanni contro le città bizantine dell'Italia meridionale i cui abitanti combattevano soltanto in difesa delle proprie mura: «Essi - scrive il cronista Goffredo Malaterra - li colpivano con frequenti incursioni, estirpavano le loro vigne e i loro oliveti, portavano via bestiami e armenti e le altre cose indispensabili non lasciando nulla di integro fuori delle mura». La difesa del territorio esterno sarebbe in realtà spettata all'esercito imperiale che fu in quell'occasione del tutto inadeguato al suo compito; le città quindi, per le quali il territorio rappresentava un indispensabile mezzo di sopravvivenza, non erano organizzate per difenderlo e, nonostante la robustezza delle loro fortificazioni, rimasero così in balia degli invasori29. Anche una grande città come Milano, che era poco conveniente assalire in modo diretto, dovette cedere per ben due volte a Federico I e ai suoi alleati italiani in seguito ai guasti sistematici operati nel contado e al successivo blocco economico. La città fu attaccata una prima volta nell'agosto del 1158; dopo alcune scaramucce l'imperatore, con la maggior parte del suo esercito - dice Ottone Morena - «devastò tutte le messi che trovò, tagliò anche le viti e gli alberi, bruciò le case, distrusse i mulini», senza che i Milanesi osassero più uscire dalle mura. «Cavalieri e scudieri dell'imperatore, allora, andando per il vescovado, per la Martesana e per il Seprio, spogliavano tutti i castelli e i villaggi e poi li bruciavano e distruggevano completamente». Pochi luoghi rimasero che non fossero del tutto rovinati, e ai primi di settembre Milano si arrese a patti. Ma pochi mesi dopo la città, come se nulla fosse stato, riprende la sua guerra contro l'imperatore che organizza un altro forte esercito per muovere efficacemente contro i ribelli. Nel maggio del 1161 le messi vengono nuovamente guastate per due giorni sin presso porta Romana respingendo le ripetute reazioni milanesi; quindi Federico I, «muovendo intorno a Milano fino a porta Ticinese, devastò tutte le messi, tagliò viti e alberi; e aggirandosi nei pressi per dieci giorni circa, distrusse ogni cosa che era nei dintorni della città», e anche nell'allontanarsi in direzione di Lodi «rovinò le biade, le viti e gli alberi per la distanza di quindici miglia».
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Le scorrerie ripresero nella prima settimana di agosto e, benché i cittadini tentassero più volte di impedirle, continuarono sinché l'imperatore ebbe distrutto «quasi tutte le messi dei Milanesi, le vigne e gli alberi e tolto loro quasi ogni speranza di vivere». Nel contempo vennero stabiliti presidi in alcuni punti accuratamente scelti dai quali le truppe imperiali erano in grado di impedire ogni afflusso di rifornimenti; la città rimase così bloccata a distanza per tutto l'inverno sinché nel marzo del 1162 fu costretta alla resa senza condizioni30. Il gioco era riuscito una seconda volta, ma solo a patto di avere costantemente sul piede di guerra un numeroso esercito che potesse eseguire scorrerie su vasta scala e contemporaneamente tenere a bada i ritorni offensivi dei Milanesi. Durante la guerra che dal 1212 al 1217 contrappose fra loro molte città dell'Italia settentrionale, Pavia vide il suo territorio circondato da ogni parte da potenti nemici che premevano sui confini. Milano e Piacenza, in specie, concentrarono spesso le loro forze penetrando a più riprese nel contado con massicce scorrerie. L'entità delle forze impiegate, il loro equipaggiamento nonché la durata delle campagne e gli effetti da esse prodotti possono suggerire, con qualche attendibilità, quali fossero gli intendimenti operativi perseguiti. Nel giugno del 1213 i Milanesi operano in Lomellina con «tutta la loro gente» compreso il carroccio, impiegato di solito soltanto in caso di mobilitazione generale. In agosto ai cavalieri piacentini si uniscono quelli milanesi ancora con universa gente eorum e con le artiglierie per condurre regolari assedi. Nell'ottobre del 1214, ricevuto un rinforzo di mille cavalieri milanesi, Piacenza muove il suo esercito al completo ancora dotato di materiale d'assedio. Il giorno seguente agiscono però contro l'Oltrepò pavese solo i cavalieri piacentini mentre contemporaneamente la Lomellina viene di nuovo invasa dai Milanesi. Nel maggio del 1216 essi partecipano all'azione con i fanti e i cavalieri di quattro quartieri con i rispettivi territori extraurbani, insieme agli effettivi di tre quartieri piacentini di nuovo muniti di materiale d'assedio. E infine, nell'agosto dello stesso anno, tornano in Lomellina fanti e cavalieri di quattro quartieri milanesi e di parte del contado nonché Vercellesi e Novaresi «con tutta la gente e la forza loro» ancora equipaggiati per la guerra d'assedio.
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Nel giro di tre anni vengono dunque condotte ben otto campagne sempre contro le stesse zone periferiche del territorio pavese, la Lomellina e l'Oltrepò, confinanti rispettivamente con Milano e con Piacenza, cui toccano ciascuna quattro scorrerie. La Lomellina viene colpita due volte nell'estate del 1213, una nel giugno del 1215 e un'altra nell'agosto del 1216; l'Oltrepò è vittima di un'incursione nell'autunno del 1214, di due nell'estate del 1215 (con una ritorsione pavese in luglio) e poi ancora, più pesantemente, nel maggio e giugno del 1216. Non si tratta, beninteso, delle uniche azioni di guerra che coinvolsero in quello stesso periodo le vittime e gli aggressori (tutti contemporaneamente impegnati nel quadro generale del conflitto che si rivolgeva anche contro altri avversari qui non considerati) ma certo l'attività svolta dagli alleati contro Pavia fu di notevole rilievo. Allo sforzo sicuramente ingente fatto sul piano degli effettivi e dei mezzi mobilitati, corrisponde tuttavia la scarsa durata delle campagne: anche se non sempre precisabile essa, nella maggior parte dei casi, supera di poco la settimana con tendenza però a prolungarsi sino a oltrepassare nel 1216 le due settimane. I risultati sul piano materiale furono pesanti benché il cronista tenda a mettere in secondo piano la depredazione e la cattura di prigionieri insistendo invece sugli effetti distruttivi. Molti castelli e villaggi fortificati sono presi e distrutti, dopo brevi assedi, a mezzo del fuoco, e vengono incendiati centri abitati indifesi e case isolate; in ciascuno dei luoghi colpiti segue la desolazione dei coltivi nelle campagne circostanti, comprese le vigne e i prodotti caratteristici di ogni zona, tra i quali si sottolineano i castagneti dell'Oltrepò e i campi di lino e di legumi in Lomellina. Il notaio cronista Codagnello, nel redigere le sue brevi registrazioni, si serve di un formulario che, per quanto ripetitivo, è sufficientemente vario da evitare l'eccessiva monotonia: le notizie di distruzione di cui sono disseminati i suoi Annali vengono ritmate da una coppia di verbi (di solito capere et comburere, cioè «prendere e bruciare») in cui il primo può essere sostituito da devastare, diruere o incidere; più raramente i verbi salgono a tre: capere, destruere e comburere, ma nel ricordare le grandi e sistematiche scorrerie compiute dai Milanesi e dai suoi concittadini piacentini nel maggio e nel giugno del 1215 sul territorio dell'Oltrepò pavese, Codagnello giunge alla martellante successione di
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ben quattro verbi: destruxerunt, esplanaverunt et diruerunt et combusserunt; destruxerunt, diruerunt, combusserunt, dissipaverunt, in cui pare di scorgere un segno del compiacimento per i danni inflitti agli odiati vicini e nemici. Le scorrerie, pur avvenendo in territori di confine, non hanno in questo caso la caratteristica della semplice razzia a scopo di lucro e, d'altra parte, non sono nemmeno operazioni che mirano a una conquista definitiva; il grande spiegamento di forze e l'impiego di armi pesanti che si accompagna alla brevità delle campagne, alla ripetitività dei colpi a breve scadenza sferrati sempre sui medesimi obiettivi nonché all'evidente coordinamento degli attacchi, condotti talora contemporaneamente su due fronti, sembrano indicare l'intenzione di infierire con insistenza su un avversario già in difficoltà, mostrando la propria superiorità di mezzi e capacità di intervento al fine di piegarlo psicologicamente e indurlo a desistere dalla lotta. Per quanto Milano e Piacenza avessero patito nel 1213 gravi sconfitte in due diverse battaglie campali (a Castelleone da parte dei Cremonesi, e a Casei Gerola da parte degli stessi Pavesi), Pavia deciderà nella primavera del 1217 di patteggiare una pace separata accettando le condizioni imposte dai suoi più accaniti avversari, i quali raccolsero così i frutti della loro strategia distruttiva31. 4.2. Le «cavalcate» inglesi in Trancia. \.2L cavalcata è nel XIII secolo un servizio militare dovuto da un inferiore all'autorità costituita, evidentemente così chiamato perché richiesto uomini dotati di cavalcatura. Si doveva trattare originariamente di un'azione, offensiva o difensiva, di durata limitata condotta da soli cavalieri, ma in seguito, almeno negli eserciti comunali italiani, risulta difficile distinguere nettamente tra semplice cavalcata ed «esercito» (od «oste») vero e proprio poiché tanto nell'una quanto nell'altro sono coinvolti per più giorni fanti e cavalieri. A Firenze la differenza dipendeva semplicemente dal fatto che di solito la cavalcata non portava al seguito tende per accamparsi come faceva invece l'«esercito». Certo affini alla cavalcata italiana dovevano essere la cavalgada spagnola e la chevauchée francese, quest'ultimo nome è però rimasto legato, in particolare, non tanto alla prestazione militare dovuta al re di Francia dai suoi sudditi, quanto alle celebri spedizioni compiute dagli Inglesi in territorio francese tra il
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1346 e il 1359 durante la prima fase della guerra dei cento anni. Per quanto la pura e semplice traduzione di chevauchée con raid non sia ritenuta soddisfacente, si trattò certamente di operazioni di razzia e di distruzione che colpirono buona parte della Francia sino a ottenere effetti clamorosi sul piano politico32. Dai primi di ottobre al dicembre del 1356 Edoardo principe di Galles, detto il Principe nero, al comando di un cospicuo corpo costituito da cavalieri, arcieri a cavallo e a piedi e da semplici fanti, marciò da Bordeaux attraverso tutta la Francia meridionale sino a Narbona tornando a Bordeaux ai primi di dicembre. Una larga parte delle terre fra l'Atlantico e il Mediterraneo vide gli Inglesi aggirarsi pressoché indisturbati in una cavalcata «di guerra», va precisato, e non «di avventura». Il Principe nero - riferisce lapidariamente il cronista inglese autore deWEulogium - «cavalcò, incendiò e distrusse» per più di due mesi, non solo villaggi, città aperte, ma anche castelli e luoghi fortificati, fermandosi solo davanti alle città più forti come Carcassonne e Narbona di cui si accontentò di bruciare i sobborghi. L'operazione aveva lo scopo dichiarato di provocare i maggiori danni possibili all'avversario sia sul piano materiale sia su quello psicologico, vivendo sul paese, derubando tutti gli oggetti di valore e distruggendo gli altri. Il cronista Roberto di Avesbury così compendia i risultati di quella che egli chiama una «ammirevole e terribile avanzata»: il principe «non solo prese con facilità circa cinquecento villaggi, ma anche numerose grandi città e luoghi fortificati e, fatta una infinita preda, per otto settimane andando e tornando le devastò per incendio». Lo sconcerto provocato dall'operazione può essere riassunto dall'apprensione che colse gli abitanti di Montpellier i quali, temendo di subire la stessa sorte della vicina Narbona, «fecero demolire tutti gli edifici dei sobborghi portando il legname da costruzione entro le mura»; e molti si trasferirono ad Avignone per sentirsi così protetti «dalle ali del papa» che allora vi risiedeva. Ma il papa stesso non si considerava affatto al sicuro tanto che fece ricoprire di ferro le porte del proprio palazzo, e il suo «maresciallo», sconfitto e catturato dagli Inglesi, dovette riscattarsi con 50.000 fiorini. Gli Inglesi rientrarono a Bordeaux «carichi di un immenso bottino, gloriosi dei loro facili successi», coscienti del danno che avevano inflitto al re di Francia mettendo a sacco una delle sue
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province più ricche. Lo stesso principe di Galles scrisse al vescovo di Winchester che le terre percorse erano «molto ricche e prosperose, e non passava giorno senza che città, castelli e fortezze fossero presi dalle nostre forze». La Francia si sentì allora senza dubbio psicologicamente schiacciata e calpestata sotto i piedi di invasori troppo potenti. Froissart non ha difficoltà ad ammettere che il principe di Galles fece «una grande e bella cavalcata di genti d'arme inglesi e guascone conducendole in un paese dove ottennero ben grandiosamente il loro profitto». «Sappiate - aggiunge - che il territorio di Carcassonne, il Narbonese e il Tolosano, dove gli Inglesi furono in quella stagione, era uno dei più grassi paesi del mondo, popolato da gente buona e semplice che sino allora non aveva visto guerre, pieno di ricchezze, ma niente rimase integro di fronte ai predoni che portarono via tutto, specialmente i Guasconi che sono molto cupidi». Alla fine gli Inglesi decisero di tornare indietro solo «perché si erano impadroniti di così tanti beni, ed erano così carichi che per quella stagione non ne volevano di più»; ripassarono quindi la Garonna «tanto gravati che i loro cavalli a malapena riuscivano a procedere». In certi luoghi, anzi, gli invasori si prendevano solo più il vasellame d'argento e i buoni fiorini trascurando tutto il resto. L'accento è decisamente posto sull'abbondanza della preda (non senza un certo sentimento di invidia) mentre scarsa attenzione, come al solito, si dedica alle sofferenze della popolazione, non solo derubata ma spietatamente e sistematicamente uccisa come avvenne a Carcassonne dove la «persecuzione» di uomini, donne e bambini fu tale «da provocare grande pietà»33. La cavalcata del Principe nero, che si distese per una fascia di circa 5 miglia a cavaliere delle principali vie di comunicazione, richiama le analoghe razzie praticate dagli Ungari nel X secolo, ma mentre quelle erano volte essenzialmente alla rapina, gli Inglesi perseguono piuttosto uno scopo simile ai raid che Belisario aveva ordinato nel Piceno durante la guerra greco-gotica, e hanno un altro precedente molto fedele, per tecnica e risultati, nelle sistematiche incursioni con le quali Milanesi e Piacentini avevano colpito nel XIII secolo le terre pavesi. Certo sorprende che gli incursori, pur senza portarsi al seguito l'ingombrante peso di vere e proprie macchine d'assedio, riescano ad avere ragione con relativa facilità dei luoghi fortificati. Si dovrà però tenere conto che in
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molti casi si trattava di fortificazioni vecchie e inadeguate, mal difese da popolazioni locali per lo più non addestrate alla guerra e colte di sorpresa dall'inattesa penetrazione in profondità di truppe formate da professionisti scelti. Teodoro I di Monferrato nei suoi Insegnamenti indicava come primo obiettivo delle scorrerie distruttive condotte sul territorio nemico quello di indurre i sudditi dell'avversario «ad avere cattive parole verso il loro paese» e a «mormorare contro il loro signore»; tale fu appunto lo scopo perseguito dagli Inglesi i quali, senza affatto disdegnare la preda, demoralizzarono e impoverirono i nemici dando alla popolazione, così duramente colpita, una ragione immediata per desiderare la pace e accettare le richieste degli invasori; nello stesso tempo sfidarono l'orgoglio dei Francesi e li costrinsero a misurarsi in campo aperto a Crécy e a Poitiers: due sconfitte che confermarono l'inferiorità della loro organizzazione militare34. 4.3. Il dileggio e la sfida. Se le «cavalcate» inglesi in Francia, come altre operazioni simili, ebbero motivazioni strategiche, nel mondo comunale italiano è molto diffusa la scorreria come provocazione e sfida rivolta contro l'avversario, al sicuro entro le mura della sua città, formalmente per indurlo a uscire e ad accettare battaglia. Ma, come se già si sapesse che tale eventualità ben difficilmente può in quell'occasione verificarsi, il guasto finisce spesso per concludersi con atti di dileggio e di sfida fine a se stessi, volti a umiliare e a ridicolizzare il nemico. Nel maggio 1230 i Fiorentini - racconta Giovanni Villani mossero contro Siena e «disfeciono da XX tra castella e gran fortezze, e tagliaro il pino di Montecellese» accanendosi poi contro i sobborghi della città. Nel 1226 gli stessi Fiorentini «vennero ad oste a Pisa infino a San Iacopo in vai di Serchio e quivi tagliaro uno grande pino, e batterò in sul ceppo del detto pino i fiorini d'oro». Nel marzo del 1288 furono invece gli Aretini che «corsono insino a San Donato in Collina presso a Firenze a VII miglia, ardendo e guastando, sicché i fumi delle case e dell'arsione si vedea della città di Firenze, e cominciarono a tagliare l'olmo di San Donato per dispetto dei Fiorentini». Nel giugno del 1292 i Fiorentini, ancora contro Pisa, andarono sino all'abbazia di San Savino «e a quella badia disfeciono il
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campanile e tagliarono uno grandissimo e bello albero di savina per dispetto de' Pisani, e per la festa di santo Giovanni feciono correre il palio presso alle porte di Pisa. E fatto intorno a Pisa grande guasto, e arso il borgo dal fosso Arnonico a Pisa, il quale era nobilemente acasato e ingiardinato, si tornarono in Firenze sani e salvi, sanza contrasto o riparo de' nimici; e sì era in Pisa il conte da Montefeltro con VIII cento cavalieri, e non s'ardì a mostrare per la viltà che sentiva ne' Pisani, e stette pure alla guardia della cittade». In tutti questi casi l'abbattimento di un grande albero, che occupa un posto importante nel paesaggio, assume il significato simbolico di affermazione della volontà di dominio e di comando verso il nemico che non sa o non osa proteggere il proprio territorio. Ma altre volte sono le stesse fortificazioni della città a subire danneggiamenti provocatori. Guido di Montefeltro nell'aprile del 1281, quando era capitano a Forlì, cavalcò sino ai borghi di Faenza e qui, schierati i suoi uomini, «fece fare un grande guasto di vigne e di alberi e siepi, bruciò molte case sin presso il borgo della porta di Ponte, fece distruggere e abbattere la porta di Durbecco e spianare gran parte della riva del fossato comune. E nessuno - conclude il cronista Pietro Cantinelli - osò uscire dalla città di Faenza, così che lo stesso giorno gli assalitori ritornarono a Forlì35». Naturalmente non tutte le azioni di tale genere rimanevano senza risposta: se esiste un'organizzazione militare efficiente e il nemico non ha una superiorità numerica schiacciante, scatta la naturale tendenza a vendicare l'offesa e a recuperare la preda. Un esercito ravennate era giunto nel 1080 a guastare le campagne presso Faenza e ad abbattere, anche qui, un grande antico castagno per accamparsi poi sul territorio; un'altra volta nel 1103 i nemici di Faenza si bagnano provocatoriamente nel fiume proprio davanti alle porte della città, giocano ostentatamente fra loro irridendo i cittadini, e giungono a porre il fuoco sotto le arcate del ponte. In entrambi i casi i Faentini, costretti dapprima a subire impotenti, ricevono un inaspettato aiuto esterno che consente loro di passare al contrattacco e di sgominare gli avversari. Nell'agosto del 1189 un esercito parmigiano intento a guastare il territorio di Pontremoli viene sorpreso dai Piacentini che giungono in aiuto dei loro alleati: i saccheggiatori non appena sentite le trombe desistono dall'azione e fuggono, ma vengono inseguiti, rag-
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giunti e battuti. Sul fare della notte seguente i Pontremolesi stessi conducono un rastrellamento per i boschi dal quale ritornano con preda e altri prigionieri. Conseguenza più clamorosa ebbe la provocatoria scorreria fatta da Milanesi e Piacentini in territorio cremonese nel giugno del 1218: essi prendono e distruggono il castello di Santa Croce e il villaggio di Ardola con il solito corredo di danneggiamenti sistematici alle messi, alle vigne e agli alberi. I Cremonesi e i loro alleati non tardano a reagire e si giunge così alla battaglia campale di Zibello: per una volta la provocazione aveva avuto l'esito cercato, ma lo scontro non portò ad alcun risultato definitivo. Nel marzo del 1273, per vendicare il sequestro di balle di panni dirette a Genova, un esercito astigiano va a dare il guasto a Cossano Belbo, ma ecco intervenire in forze gli uomini di Carlo d'Angiò; gli Astigiani, colti «in guastis Cossani» subiscono una secca sconfitta e lo stesso cronista Guglielmo Ventura, relatore dei fatti, viene catturato insieme con trenta e più altri prigionieri. Simili partite, fatte di botte e di risposte, si restringono talvolta ad ambiti topograficamente molto circoscritti. Nel settembre del 1270 gli uomini di Gravago e delle valli Ceno e Taro, sull'Appennino tra Parma e Piacenza, messi insieme cinquanta cavalieri e quattrocento «sergenti», saccheggiano il villaggio piacentino di Gussana sottraendo grande quantità di bestiame; ma mentre si ritirano con la preda ecco il capitano piacentino con quaranta cavalieri assoldati, e con gli abitanti della zona rapidamente mobilitati, inseguire uccidendo e catturando molti degli aggressori. In quello stesso mese il conte Landi da Zavatterello prepara un colpo contro il castello di Zenevredo, anch'esso presidiato da cavalieri assoldati da Piacenza. Le intenzioni del conte vengono risapute e i Piacentini organizzano preventivamente la contromossa chiamando in aiuto i Cremonesi. Il Landi manda comunque a segno la sua scorreria: brucia Zenevredo e si ritira con un grande bottino di bestie e di masserizie rustiche inseguito a distanza e separatamente dai Piacentini, dai Cremonesi e dagli uomini di Zenevredo. Gli scorridori però, con un audace ritorno offensivo, battono questi ultimi catturando prigionieri, molte armi e quattro bandiere, e poi, «senza danno, con la preda e con il guadagno conseguito», rientrano a Zavattarello sfuggendo agli altri inseguitori ai quali non rimane che ritornare malinconicamente sui propri passi36.
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4.4. Scorrerie «strategiche» e «tattiche». Scorrerie vengono intraprese anche per punire chi abbia mancato a una fedeltà politica. Quando nel 1164 le città della Marca Veronese si ribellano a Federico I, questi con i cavalieri lombardi e pochi Tedeschi si spinge fin presso Verona «distruggendo molti castelli e villaggi», ma i Veronesi sono in grado di opporgli forze superiori e l'imperatore deve desistere. Solo nella primavera del 1167, quando ritorna dalla Germania con un grande esercito e si avvia verso Roma, le minacce tornano ad avere effetto immediato: i Bolognesi sono senz'altro disposti a obbedire ai suoi ordini, ed è facile estorcere denaro alle città romagnole. La scorreria e la devastazione sono dunque efficaci non tanto in se stesse, ma quando hanno alle spalle uno strumento militare sufficientemente poderoso da rendere credibile la minaccia. Mentre Federico Barbarossa era impegnato nell'Italia centromeridionale, dove il suo esercito fu decimato da una grave pestilenza, le città lombarde, nel settembre del 1167, avevano congiurato contro di lui. Non appena tornato in Lombardia l'imperatore non perse tempo tanto che già il 26 settembre, insieme con coloro che gli erano rimasti fedeli, guidò una scorreria sulle terre milanesi a sinistra del Ticino, le devastò e ne riportò «ingente preda». I collegati si affrettarono a inviare soccorsi ai Milanesi sguarnendo il Piacentino; Federico appena lo seppe rientrò a Pavia e, senza nemmeno scendere da cavallo, si rifocillò rapidamente e subito, varcato il Po, portò la devastazione sul territorio di Piacenza «incendiando, distruggendo castelli e villaggi ed estorcendo molta preda». Nei giorni seguenti le scorrerie ripresero contro il territorio di Lodi e i Lodigiani non tardarono a rifarsi saccheggiando ripetutamente quello pavese sino al sopravvenire dell'inverno. Con la rapida campagna intrapresa l'imperatore intendeva evidentemente mostrare che ogni disobbedienza doveva essere pagata, ma le sue forze erano di nuovo troppo scarse per pretendere di ottenere risultati significativi: razzia e controrazzia in questo caso acquistano da entrambe le parti un evidente significato politico che va ben al di là dei soli danni o guadagni economici inflitti o acquisiti con la preda. Vi sono, al contrario, scorrerie intese a esercitare una pressione psicologica, che sembrano ottenere con facilità un esito positivo, sempre che abbiano alle spalle un potere reale: dopo ripetute
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sollecitazioni e minacce i Lodigiani si rassegnano ad aderire alla Lega lombarda solo nel maggio del 1167 quando si videro alle porte un grande esercito che «rapinava il vino, la biada, botti e tini, le casse e tutte le altre cose che si potevano portare, e bruciavano le case dei contadini e quel che non si poteva portare via; rubavano la paglia e il fieno che erano fuori della città e spogliavano tutta la terra». Per almeno due volte, nel 1212 e nel 1228, i Piacentini costrinsero alla sottomissione il comune di Bobbio ricorrendo alla distruzione di «messi, legumi, vigne e alberi». Nel 1274 e nel 1275 Astigiani e Monferrini obbligarono Alessandria ad abbandonare l'obbedienza angioina mediante il guasto sistematico del suo territorio per otto giorni; si rivolsero quindi contro Savigliano e, «guastando alberi, canapa e messi», indussero il marchese di Saluzzo a cambiare bandiera; in seguito corsero il palio attorno alle mura di Alba guastandone le vigne e gli alberi sicché anch'essa rinunciò al dominio regio. Alla scorreria «strategica» (che si inquadra cioè in un piano concertato di ordine generale) può corrispondere, a un livello più basso, la scorreria «tattica». Anch'essa è un mezzo per ottenere altri scopi sebbene più limitati, contando proprio sulla reazione dell'avversario per farlo cadere in trappola. Nel luglio del 1159, prima di assediare Crema, Federico I concertò con i suoi alleati lombardi un'azione del genere contro i Milanesi: cento cavalieri di Pavia avrebbero operato una scorreria nel loro territorio uccidendo il più grande numero di uomini e facendo il maggior bottino possibile; provocata così la risposta del nemico, i Pavesi dovevano fuggire per un itinerario stabilito lungo il quale l'imperatore avrebbe teso un agguato con trecento cavalieri. La prima parte dell'operazione riuscì in pieno, ma in seguito essa prese una piega imprevista: gli scorridori, nel ritirarsi carichi di bottino, non riuscirono a imboccare la strada convenuta e furono raggiunti e battuti dalla pronta reazione milanese. L'imperatore, intuendo quanto era successo, mosse quindi verso Milano lungo due diversi percorsi: i Milanesi vincitori furono intercettati sulla via del ritorno, quattrocento cavalli e trecento dei loro migliori cavalieri furono catturati e imprigionati prima a Lodi e poi a Pavia raggiungendo così l'obiettivo di scoraggiare il comune di Milano e indurlo a non ostacolare l'assedio di Crema37.
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La scorreria come esca per attirare il nemico in un'insidia viene abitualmente praticata in Italia durante tutta l'età comunale. Nel luglio del 1256 il podestà di Padova applicò magistralmente l'espediente contro i Bassanesi fedeli a Ezzelino da Romano: durante la notte del 3 luglio si spostò a Cittadella con numerosi cavalieri e berrovieri e di là, la mattina dopo, incaricò un nucleo di costoro di «percorrere la campagna di Bassano e di depredarne il bestiame» conducendolo verso Cittadella mentre egli, con il resto del contingente, sarebbe rimasto là nascosto. Il piano riuscì perfettamente: i razziatori vennero inseguiti non solo dai cavalieri di Bassano ma anche da sei «bandiere» di mercenari tedeschi che erano là per caso; gli inseguitori stavano ormai per raggiungere i fuggitivi, ostacolati in quel punto da una grande fossa, allorché l'insidia si rivelò. I Padovani attaccarono alle spalle gli inseguitori mentre gli inseguiti volsero i loro cavalli impegnandoli di fronte; si combatté aspramente e infine, secondo il resoconto di Rolandino, i nemici lasciarono sul terreno duecento morti, venticinque cavalieri furono catturati, gli altri furono inseguiti sino ai fossati di Bassano nei quali molti finirono per precipitare. I vincitori ritornarono circonfusi di gloria ostentando in trionfo le armi sottratte al nemico, centocinquanta cavalli e molta altra preda. Egualmente significativa fu l'impresa «ingegnosamente e sapientemente» portata a termine il 9 maggio 1270 dai cavalieri e dai «cavalcatori» di Pavia contro i fuorusciti della stessa città che avevano la loro base in Bassignana. Mentre i cavalieri, con insegne e trombe, si ponevano in agguato presso il fiume Agogna, a valle di Lomello, cento «cavalcatori» battono la campagna levando una grande preda. Presto quelli di Bassignana li avvistano ed escono loro contro inseguendoli sino all'Agogna; accortisi solo allora dell'agguato, fuggono a loro volta inseguiti sino a Cairo: è ormai notte e in buon numero riescono a fuggire, ma molti vengono presi insieme con una grande quantità di cavalli. «Del quale fatto - conclude il cronista - i Pavesi furono molto esaltati». In azioni di questo genere, più che in cariche frontali o cavallereschi duelli, era spesso impiegata la cavalleria pesante, in stretta cooperazione con quella leggera (berrovieri, cavalcatori), come dimostra, una volta di più, l'annuncio di una trionfale vittoria inviato nel marzo del 1244 dal podestà di Piacenza al suo collega di Bologna: cavalieri tedeschi, cremonesi e pavesi erano penetrati
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per recare danno nel distretto della sua città, «e mentre se ne tornavano lieti ed erano giunti a un passaggio su un corso d'acqua dalla rapida corrente, noi uscimmo dall'agguato gridando: 'Eia miles Placentie!', e così virilmente e potentemente li attaccammo da tergo perforando i loro scudi e le loro corazze con le spade e con le frecce, in modo che i cadaveri di molti rimasero sul campo, altri annegarono nelle acque e centocinquanta cavalieri sceltissimi di Cremona e di Pavia furono presi prigionieri»38. 4.5. Dalla parte delle vittime. Come erano vissute le scorrerie da parte di chi direttamente le subiva? A quali accorgimenti si poteva ricorrere per evitare di esserne coinvolti o per riportarne almeno il minor danno possibile? Per i saccheggi di cui fu vittima, nel corso di alcuni decenni, un limitato territorio discusso a lungo fra i comuni di Pavia e di Piacenza, possiamo giovarci di una fonte che permette, una volta tanto, di scendere nei particolari e di mostrarci che cosa realmente vi fosse dietro le frasi stereotipe spesso usate dai cronisti. Nel clima di distensione stabilitosi in Italia dopo il 1177, i due comuni decisero di dare soluzione alla loro lunga diatriba promovendo un'indagine che accertasse i diritti di ciascuno sui cosiddetti «cinque luoghi», i villaggi, cioè, di Monticelli, Pieve di Parpanese, Olmo, San Marzano e Mondonico, tutti posti sulla destra del Po a breve distanza dal fiume, tra questo e la collina. Numerosi testi furono interrogati il 14 e il 15 novembre 1184 in Pavia nel brolo dei consoli, e quattordici pergamene ci hanno conservato quarantasei deposizioni in favore di Pavia e trentatré in favore di Piacenza dando spesso voce alle vittime dei saccheggi che, per motivi diversi, avevano funestato quelle terre nei trent'anni precedenti39. La memoria copre appunto l'arco di circa tre decenni, per quanto i testi non siano sempre concordi fra loro né abbiano sempre precisa nozione di chi siano stati i nemici che hanno loro inflitto i danni, poiché gli episodi cui si allude hanno motivazioni e protagonisti diversi. Pur trattandosi di luoghi contesi fra due dominazioni in concorrenza fra loro, posti lungo vie di comunicazione importanti, come il Po e la grande strada che ne segue la sponda destra, gli episodi lamentati sono relativamente rari, ne tutti i cinque luoghi furono danneggiati contemporaneamente dalle stesse scorrerie, che peraltro muovevano ora da Piacenza ora
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da Pavia coinvolgendo anche i rispettivi alleati: la Lega lombarda da un lato e il partito imperiale dall'altro. I luoghi maggiormente colpiti paiono essere Monticelli e Pieve di Parpanese in quanto più vicini alla strada e al Po: essi furono toccati da una scorreria (non esattamente databile) compiuta dai soli Piacentini risalendo il fiume; in due altri casi si trattò invece di eserciti della Lega lombarda diretti nel 1170 circa contro il territorio pavese, e cinque anni dopo contro l'esercito imperiale che, abbandonato l'assedio di Alessandria, si era attestato presso Montebello. In ognuna delle tre occasioni Monticelli e Pieve patirono l'incendio che nel 1175 - ricorda uno dei testi - fu appiccato a Pieve dal contingente bresciano partecipante alla spedizione leghista, e a Monticelli (dove fu abbattuta anche la torre) da quello cremonese. Le due incursioni compiute dall'esercito dei «Lombardi» toccarono anche Olmo che fu incendiato due volte e per due volte si vide sradicate le vigne, tagliati gli alberi, saccheggiata la chiesa. San Marzano e Mondonico, entrambi sulle colline a destra del Po, rimasero allora indenni ma furono in compenso coinvolti nelle scorrerie che nel settembre del 1167 Federico I aveva lanciato contro il territorio piacentino. San Marzano vide passare i Brabanzoni dell'imperatore insieme con gli uomini del contado pavese, e andò a fuoco per due volte: nella prima occasione bruciarono due case e furono sottratti buoi e altre bestie. A Mondonico passarono i Tedeschi e gli uomini del marchese di Monferrato insieme ai quali operavano cavalieri e fanti provenienti dal contermine distretto pavese, nonché un «esercito di Guercino» condotto sin là - si dice - da Alberico Torto, ma che rimane per noi un entità di difficile identificazione. Tutti comunque presero e portarono via sia uomini sia animali, la chiesa venne saccheggiata, le campane furono staccate dal campanile e asportate. Più particolareggiata di altre è la testimonianza di Giovanni Basso i cui ricordi risalgono sino al 1149. Egli era in casa quando vi irruppero gli uomini di Broni, alcuni dei quali egli riconobbe personalmente, insieme con altri cavalieri pavesi; essi cominciarono a spogliarlo e gli portarono via tutto, ma - dice - «Poiché li P^&ùda parte del signor Razone di Broni, mi lasciarono le scarpe, le brache e una vile camicia», e mentre stava là nascosto vedeva 1 cavalieri e sentiva i richiami da loro lanciati: «Cavalere Pa-
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pie! Cavalere Papié!», cosa che non lasciava dubbi sull'identità dei saccheggiatori. Le spogliazioni avvenivano quindi in modo quanto mai accurato; ogni oggetto veniva asportato, e normalmente seguiva l'incendio delle case, con l'abbattimento delle fortificazioni in muratura, là dove esistevano, ma non sempre la cattura degli uomini e la devastazione sistematica dei coltivi, che richiedeva tempo e l'impegno di molte persone. Vi erano possibilità di sfuggire ai danni o di mitigarne la portata, come fece Giovanni Basso appellandosi alla conoscenza di una persona influente, quale doveva essere quel Razone di Broni a lui noto. Alla raccomandazione di un potente preventivamente ricorse, in data non precisabile, anche Oberto de Alda di Pieve di Parpanese. Quando seppe che i Piacentini progettavano un'incursione contro il territorio pavese risalendo il Po con le navi, andò a Piacenza dal console Guidotto, con il quale era evidentemente in confidenza, e gli disse: «Che facciamo? Io temo che gli equipaggi delle navi facciano del male agli uomini di Pieve e brucino il luogo». Guidotto chiamò Giacomino di Raimondo, corriere del comune, e gli disse di accordarsi con lui; Oberto de Alda lo condusse a Pieve e lo tenne là per tre giorni: tra spese sostenute e pagamento del corriere, compreso il suo cavallo, ci vollero dieci soldi che vennero raccolti tra gli abitanti i quali dunque, almeno per quella volta, furono così al sicuro in quanto affidati al comune di Piacenza. Nel 1167, quando le reiterate scorrerie di Federico I crearono pericolo nel territorio piacentino, analoga iniziativa fu presa a Pieve da un certo Rainaldo il quale disse agli uomini del luogo che era utile dare qualcosa ai Tedeschi per comprare la propria sicurezza: «E così - dice un teste - convenimmo di dare loro grano e offrimmo loro il denaro per comprarlo», ciò che pare sia stato sufficiente a evitare guai peggiori. Anche gli abitanti di Mondonico, dopo il primo saccheggio, acquistarono dai Pavesi e dall'imperatore la salvaguardia contro guasti futuri per cento moggia di spelta e 60 lire. Contando su una rete di conoscenze clientelati, che appare assai fitta e diramata, vi era modo di recuperare, almeno in parte, i beni mobili asportati in occasione del saccheggio, se naturalmente si conosceva la persona giusta e si era in grado di pagare un adeguato riscatto. Gli uomini di San Marzano, derubati dai Pavesi, «andarono dietro a quell'esercito» e ovunque ritrovarono loro co-
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se le riebbero per interessamento dei consoli di Pavia. Uberto Mangiavillano recuperò una vacca da un uomo di Pavia, e presso un prete, sempre pavese, rinvenne un suo scrigno. Tedaldo Basso riebbe due buoi «per cura di Giacomo Rivario di Pavia, suo signore». Una delle due campane sottratte alla chiesa venne riscattata presso uomini del territorio pavese per 12 soldi, ma non fu possibile riavere la seconda. Anche coloro che partecipano a una spedizione di saccheggio «ufficiale» possono avere scrupoli e incertezze legalitarie da risolvere però nel giro di breve tempo. Il marchese Guglielmo di Monferrato, che nel 1167 era al seguito dell'imperatore nella scorreria contro Piacenza, prima di ordinare il saccheggio di Mondonico avrebbe domandato di chi era quel luogo; avuto risposta che i suoi signori abitavano a Piacenza non ebbe più dubbi e la depredazione ebbe inizio. Le deposizioni dei testi, in verità, non ci fanno assistere ad alcuna lamentela pietosa né a reazioni disperate: coloro che hanno subito i danni non sono indigenti ridotti sul lastrico, ma dispongono di somme sufficienti per riscattare i loro oggetti e per comprarsi la sicurezza; sono anche in grado di consegnare rilevanti quantitativi di grano pochi giorni dopo aver subito il guasto, segno che le scorte erano state messe in salvo per tempo. Le vittime, inoltre, mostrano notevoli capacità di iniziativa e sanno destreggiarsi fra i diversi poteri concorrenti mediante una rete di conoscenze di buon livello. A turbare periodicamente la sicurezza delle popolazioni dei «cinque luoghi» non erano in verità soltanto le scorrerie provenienti da nemici esterni durante i periodi di guerra; i medesimi danni potevano, infatti, essere inferti da nemici assai più vicini e incombenti che erano innanzitutto le stesse città di Piacenza e di Pavia in concorrenza l'una con l'altra per arrivare al dominio del territorio, e che si servivano volentieri, per questo, di mezzi violenti manovrando gli uomini dei villaggi vicini o impiegando lo stesso esercito comunale. Quando gli abitanti di Monticelli rifiutarono di pagare il fodro e il giogatico ai Piacentini - racconta il teste Pietro Cheno - questi vennero a Monticelli a piedi e a cavallo e a mano armata saccheggiarono il luogo portandosi via la preda; la maggior parte di essa fu poi resa, ma una certa quantità rimase nelle loro mani. Lo stesso accadde a San Marzano: «Una volta,
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quando la guerra era già cominciata e gli abitanti stavano fuggendo verso Bosnasco con le biade e con i buoi, intervennero gli abitanti di Olubra, di obbedienza piacentina, che si appropriarono di buoi, carri e biade e li portarono a Piacenza e non poterono più essere recuperati». Non diversamente si agiva dall'altra parte. Un console del comune di Pavia andò a Mondonico pretendendo di nominare i consoli della comunità locale, la quale rifiutò. Il console convocò gli uomini del luogo minacciandoli: «Se non verrete sarete morti!», così che dovettero rassegnarsi a obbedire. Per ottenerne la sottomissione definitiva i cavalieri pavesi vennero a razziare dieci paia di buoi dai pascoli di Mondonico, «Ma noi - dice fieramente un teste - li inseguimmo cacciandoli via fino a Bosnasco; essi non ci restituirono i buoi e noi non facemmo niente per loro». Ma era naturalmente una lotta impari che non lasciava dubbi su chi alla fine sarebbe stato il vincitore. Il saccheggio e, in specie, il sequestro del bestiame erano quindi impiegati come abituali mezzi di pressione anche in tempo di pace. Vi era ancora un terzo livello di violenza derivante dagli antagonismi fra privati e dalla delinquenza comune, non sempre facilmente distinguibili fra loro, che agivano con- gli stessi mezzi, fra l'una e l'altra comunità rurale o all'interno delle comunità stesse. Nel 1167, quando San Marzano fu saccheggiato dai Brabanzoni, il teste Enrico Orso, che era andato al mulino, ritornando a casa trovò il paese bruciato; seppe poi che la sua cascina, insieme con quella di un vicino, era stata in realtà incendiata da un tale Poltronello: sembra dunque che ai danni provocati dai predoni si fossero aggiunti quelli dovuti all'iniziativa di qualche uomo del luogo. Gli abitanti di Grintorto catturarono tre o quattro persone di San Marzano, le portarono al loro paese e le resero poi su «fidanza» del vescovo di Piacenza, mentre un altro, preso dagli Arcelli (una famiglia di maggiorenti della zona), dovette riscattarsi per 40 soldi piacentini. Certi uomini di Mondonico andarono a Castelnuovo di Piacenza per rubare; uno di essi fu catturato e impiccato, ma poi a Castelnuovo si temette che quelli di Mondonico facessero loro guerra e incendiassero il luogo; si rivolsero perciò ai consoli di Piacenza i quali ne approfittarono per imporre il proprio dominio. Ancora: Giovanni Orabona aveva guerra con un uomo di Baselica e là rubò le vacche di certo Bignotto Capello; co-
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stui andò a Mondonico per recuperarle, ma l'autore del furto si era intanto trasferito a Piacenza con moglie e figli; Bignotto ricorse allora ai consoli di quella città che fecero arrestare e condannare il colpevole. Sono episodi sufficienti a mostrare quanto la violenta sottrazione di beni, la minaccia di incendi e saccheggi fosse diffusa a ogni livello; e ciò può aiutare a capire, forse, l'assuefazione delle popolazioni rurali di fronte alle analoghe violenze del tempo di guerra. 4.6. Un'arma di distruzione: il fuoco. Le tecniche distruttive praticate per tutta l'età medievale, essenzialmente basate sull'uso del fuoco, erano in sostanza le stesse della preistoria, e nel corso dei secoli non mutarono di molto. Nel 573 i Sassoni venuti in Italia con i Longobardi passarono in Provenza, ma appena superato il Rodano furono affrontati dal franco Mummolo che chiese loro conto delle azioni delittuose commesse: «Ecco, avete devastato la regione del re mio signore, avete trafugato i raccolti, avete decimato le greggi, avete dato fuoco alle case, avete saccheggiato oliveti e vigneti». Quasi mille anni dopo il borghese di Parigi, che nei primi decenni del Quattrocento compila il diario degli avvenimenti di cui è testimone, descrive e deplora il comportamento dei saccheggiatori, attivi intorno alla città, quasi con le medesime parole: le bande degli Armagnacchi il 3 ottobre 1411 «fecero tanti mali come li avrebbero fatti i Saraceni poiché essi appendevano le persone, le une per i pollici e le altre per i piedi, uccidevano, ricattavano, stupravano le donne e appiccavano fuochi». E dopo un decennio eccoli ancora a trascorrere «come diavoli scatenati», uccidendo, rubando e saccheggiando: «il 5 aprile 1420 misero fuoco al forte di Champigny-sur-Marne e bruciarono donne, bambini, uomini, buoi, vacche e pecore e altro bestiame, avena, biada e altri grani», e se qualcuno tentava di sfuggire alle fiamme veniva trapassato dalle lance o dilaniato dalle scuri. Le stesse notazioni ritornano con scarse varianti anche quando cambiano i protagonisti, siano essi Borgognoni, Piccardi o Inglesi, sottolineando di volta in volta particolari diversi, mentre il paragone con i Saraceni alterna, nelle pagine del Diario, con la ferocia di Nerone e di altri antichi persecutori di cristiani40. L'incendio, efficacissimo in campagna contro le messi mature e la vegetazione, lo era altrettanto nei centri abitati in un'epoca in
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cui la maggioranza delle case era di legno e di paglia. Nel 1158 la presenza dell'esercito boemo che infieriva nel Bresciano fu rivelata dal fumo degli incendi: «Il feroce soldato - dice il poeta - tutto aggredisce col ferro e col fuoco, incendiando villaggi, prendendo castelli e rocche», ed ecco levarsi «fiamme che illuminavano ogni cosa» mentre «un fumo nero riempiva l'aria e si rendeva visibile da ogni parte». Erano soprattutto le fiamme e il fumo a dare immediata visibilità alla guerra e a trasmettere all'intero paese l'angoscia per la tragedia collettiva che colpiva uomini e cose. La ininterrotta presenza del fuoco nelle regioni colpite consente a poeti e letterati medievali di usare con proprietà parole ed espressioni tratte di peso dai classici latini: verso la fine del X secolo in Inghilterra Gudach, prima di farsi monaco e divenire santo - racconta Orderico Vitale - era solito disertare ferocemente le terre dei suoi avversari «igne ferroque»; e i Pisani nel 1065 - dice l'iscrizione celebrativa dell'impresa - durante una loro spedizione navale, devastarono le terre circostanti Palermo «ignibus et ferro»41. La guerra combattuta fra Como e Milano dal 1118 al 1127 vide entrambi i contendenti ricorrere al ferro e al fuoco con grande frequenza: «Incendiano i villaggi e incendiano pure le misere capanne. Vanno distruggendo viti e campi e gli orti rigogliosi: tutto viene sconvolto e calpestato». I Comaschi nell'Isola Comacina, loro acerrima nemica, «spogliano, uccidono, bruciano, distruggono ogni cosa; diroccano le mura, gettano le messi nel lago, mozzano le viti e gli oliveti in frutto». Naturalmente la distruzione è preceduta da un sistematico saccheggio che giunge nell'Isola sino alle strutture murarie: «Fuori dai muri svellono le travi, fossero pure colmegne, e le portano alle navi, e altre molte cose depredano». Ecco ancora i Comaschi «tornare festanti con ricco bottino» da Liemo mentre sui tetti del villaggio «avvampa la gettata fiamma». Solo eccezionalmente l'anonimo poeta (probabilmente un ecclesiastico) ha modo di compiacersi della pietà dei suoi concittadini: gli abitanti di Menaggio, pure da essi incendiato, all'appressarsi delle fiamme invocano aiuto e viene loro gettata una fune: «L'uno dopo l'altro calano di sotto e così sono sottratti alla morte». A Comenido insieme con l'abitato va a fuoco anche la chiesa, gli uomini che vi si erano rifugiati fanno appena in tempo a «balzare fuori abbruciacchiati» per arrendersi ai vincitori. Poco dopo a Vertemate non si sfugge invece all'eccidio: «Avvampa il rogo, bru-
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eia insieme con il villaggio, dall'incendio combusto, anche il castello e molte bestie. Sono a fil di spada trucidati fanti e cavalieri e pure le donne, validi e infermi, giovani e vecchi, ma molti sono inceneriti dal fuoco». Pentiti poi degli eccessi a cui si sono spinti, gli aggressori stessi «per le troppe morti piangendo, dalle fiamme li strappano e difendono dal fuoco salvando lor la vita e insiem le cose. Centoventi (i più dal fuoco combusti) furon gli uccisi, ma più furon gli arsi». La pratica del saccheggio e dell'incendio dei centri abitati viene applicata con sistematicità dai Tedeschi di Federico I, il quale, nel 1158, ritenne utile regolamentare con speciali «leggi militari» la procedura da osservare in guerra. Si vietava, è vero, sotto la minaccia di gravi punizioni, di incendiare villaggi e case; se però un castello veniva preso con la forza si prescriveva di «portar via i beni che vi sono dentro» senza incendiarlo, a meno che ciò venisse deciso dal «maresciallo»42, decisione che, nella pratica corrente, doveva tuttavia essere presa con preoccupante frequenza: oltre che un danno inflitto al nemico, l'incendio assumeva così un valore di forte e dura punizione contro chi aveva osato resistere in armi contro l'autorità costituita. 4.7. Guasti e guastatori. In Italia nell'età comunale matura, il saccheggio e la devastazione appaiono talvolta come momenti distinti di un'operazione razionalmente organizzata e affidata a specialisti diversi che agiscono, gli uni e gli altri, sotto la protezione della cavalleria. Mentre la gualdana, come si è visto, procede al saccheggio, dietro ad essa i «guastatori», muniti di appositi attrezzi, operano il «guasto» sistematico del territorio nemico. Troviamo esplicitamente attestata un'organizzazione del genere almeno dal maggio del 1229 quando il podestà di Piacenza mette in preallarme fanti e cavalieri della città e, nello stesso tempo, invia messi perché gli abitanti del distretto tengano pronti «armi, cavalli, mannaie, scuri e altri ferri necessari per fare il guasto»; sabato 3 maggio cominciarono infatti a «bruciare e a devastare messi e legumi, vigne e alberi che si trovavano nel territorio di Bobbio». «Guastatori» partecipavano certo in misura massiccia agli eserciti operanti nell'area veneta nei decenni centrali del XIII secolo anche se il loro numero non viene mai chiaramente indicato:
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«tutti» i guastatori padovani sono presenti nel 1239 alla spedizione che Federico II fece contro Castelfranco Veneto, e «una gran parte» di essi fu impiegata da Ezzelino da Romano contro Treviso e contro Este; di nuovo «tutti i guastatori» di cui egli potè disporre in quel momento furono visti al lavoro nel 1256 sotto le mura di Padova, muniti di «ronconi acutissimi», scuri, zappe e badili per «tagliare alberi e cespugli, vigne e ogni pianta, spianare le strade e ostruire tutti i fossati». Nel 1260 l'esercito comunale fiorentino dispone di duecento guastatori dotati di scuri (aumentabili di altre seicento unità) retribuiti ciascuno con 12 denari per ogni giorno di effettivo lavoro; ad essi sovrintendono appositi ufficiali «ai guasti» e hanno apposite bandiere. Tale specializzazione non era però necessariamente presente nelle città minori: nell'aprile del 1280 i comuni marchigiani di Matelica e di Fabriano dovevano partecipare all'esercito papale con cavalieri, balestrieri e fanti muniti di «armi, cavalli, ferri e altri strumenti opportuni al guasto». In questo caso, parrebbe da intendere, tutti i fanti mobilitati, all'occorrenza, avrebbero dovuto fungere sia da combattenti sia da guastatori43. L'obbligo di fornire guastatori all'atto della mobilitazione rimane normalmente valido e costante nel corso del Trecento: a Chieri nel 1328 erano i forestieri ivi residenti a dover portare, oltre alle armi, anche strumenti adatti al guasto. Vent'anni dopo il principe d'Acaia ordina agli uomini di Moncalieri in possesso di volamina, «messorie» e «messorietti», di portarli al seguito nell'esercito indetto contro Savigliano in modo che il guasto delle messi «si possa fare più in fretta». Nel maggio del 1374 Amedeo VII di Savoia, in guerra contro il marchese di Saluzzo, invitava i suoi comuni a partecipare alla spedizione «con grande comitiva di cavalieri e fanti a bandiera alzata con armi e altri strumenti a devastazione dei campi presso Carignano», e Giovanni Sercambi accenna a una hoste composta nel 1396 da «gente da cavallo e con falci fienaie acciò che a tucto il grano che era in su campi si desse il guasto». È possibile che la dotazione di strumenti appositi, specialmente per il taglio delle messi, indichi l'intenzione di utilizzare queste ultime a proprio beneficio anziché darle semplicemente alle fiamme. Se, come spesso avviene, esse non erano ancora giunte a maturazione, potevano comunque essere usate come foraggio per i cavalli44.
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Il consiglio dell'esercito perugino operante nel 1282 contro Foligno impartisce il 5 giugno precise disposizioni su «come deve essere fatto il guasto e da parte di chi»: all'azione partecipano tutti i fanti mobilitati tanto di Perugia quanto di altra provenienza, e si raccomanda di procedere velocemente sotto la protezione dei cavalieri armati e schierati; i confini dell'area da devastare vengono esattamente stabiliti «in modo che non rimanga nessun albero vivo». Il guasto assume qui dunque i connotati di un'operazione accuratamente predisposta e attuata in modo «scientifico», che ha riscontro in certe prescrizioni della trattatistica militare antica. Onosandro, dopo aver raccomandato di «fare i guasti moderatamente», sottolineava la necessità di impedire che i soldati «vadano temerariamente alle rapine e alla preda» per evitare che siano sorpresi isolati e uccisi. Se poi si ordina deliberatamente un saccheggio, bisogna avere cura di far accompagnare chi lo esegue da debita scorta armata. E ben difficile credere che il trattato di Onosandro, scritto in greco nel II secolo d.C, abbia mai potuto influenzare la prassi bellica dell'Europa occidentale prima dell'età moderna, quando furono riscoperti i trattatisti greci. Nell'Italia comunale si giunse probabilmente a codificare certi procedimenti sulla base dell'esperienza senza bisogno di suggerimenti teorici esterni. Vi erano del resto, in questo come in altri campi, pratiche che ci rimangono sconosciute: sarebbe interessante sapere, per esempio, a quale specifica funzione fossero destinate le «lance lunghe da guasto» di cui all'inizio del Trecento dovevano essere dotati certi fanti bolognesi45. A Firenze nel 1260 marraioli e palatoli per ordinamento, dotazioni e compiti rimanevano ben distinti dai guastatori. Così nell'esercito perugino del 1282 essi non vengono affatto confusi con gli «zappatori» che, sempre scortati da cavalieri o da balestrieri, devono precedere l'esercito in marcia per riattare convenientemente le vie di comunicazione. Altrove invece tale confusione, almeno terminologica, fu inevitabile: nel Trecento nella Lombardia viscontea e nell'area veneta soggetta agli Scaligeri il termine «guastatore» designa in realtà gli «zappatori» e, benché oramai le popolazioni, in generale, non siano più tenute al servizio militare, quasi completamente svolto mediante l'assoldamento di mercenari, continuano ad essere obbligate a fornire «guastatori» intesi
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sia come mano d'opera per erigere fortificazioni campali, sia come uomini dotati di strumenti adatti al movimento di terra. Nel 1330 e 1334 Mastino della Scala richiedeva alla città di Treviso di fornire quattrocento «guastatori» espressamente divisi in quattro diversi reparti dotati, rispettivamente, di vanghe e badili, di scuri e coltellacci, di zappe e infine di falci e messorie46. Si stava attenuando, e si sarebbe in seguito del tutto perduta, ogni distinzione fra guastatori e zappatori; i primi, che in precedenza potevano anche essere combattenti regolarmente mobilitati, finivano per diventare semplici manovali. Un avveduto capitano come Orso Orsini, nel suo progetto di esercito presentato al re di Napoli nel 1478, prevedeva la necessità di un corpo di cinquecento guastatori dotati bensì di «boni ferramenti d'ogni sorte, cioè sappe, pale, accepte et ronche»; ciascuno di essi avrebbe però dovuto avere anche «una bona cortella da taglio ad lato da servirsene in onne bisogno», e un arco con le relative munizioni «a ciò che quando non bisognasse lavorare, potessero trare e fare damno a li nimici come li altri». Constatando poi che «l'arte de li guastatori è tenuta vile ne li campi», egli auspicava che si scegliessero per tale compito uomini «fidati, iuvini, apti et prosperusi» da retribuire come soldati restituendo ad essi la dignità di combattenti. Il suo contemporaneo Diomede Carafa riteneva anch'egli importante l'opera dei guastatori, ma intendendoli solo come zappatori, per «acconcare passi et camini» in modo da facilitare la marcia dell'esercito e dei suoi carriaggi, purché controllati da un capo che desse loro le opportune direttive, e con una scorta di fanti «per lloro securitate, ad ciò non patessero dampno»47. Ciascuno dei due trattatisti proponeva di fatto, senza saperlo, il ripristino di situazioni che erano già state ampiamente sperimentate in passato.
5. Il bottino 5.1. Lo spoglio sul campo di battaglia. Il notaio e cronista Pietro Azario, in quanto amministratore di mercenari viscontei, partecipò di persona nel 1351 a una spedizione in Toscana; egli narra quindi, come testimone diretto, che i Milanesi giunsero sino alle
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porte di Firenze saccheggiando e bruciando molte case e palazzi con i loro annessi, e aggiunge che proprio allora, per indicare quelle genti e quelle azioni, avrebbe avuto origine il nuovo termine di «saccomanno» «la cui radice e vocabolo perdurano tuttora in Lombardia». Di tale testimonianza (sia o no essa da prendere alla lettera) si servì Ludovico Antonio Muratori per contestare quanto sostenevano ai suoi tempi gli accademici della Crusca: «saccomanni» e «saccardi» non erano affatto addetti al trasporto di vettovaglie, al servizio di un esercito mediante sacchi, ma coloro che seguivano l'esercito tenendo il sacco pronto per raccogliere il bottino; di là appunto derivarono vocaboli ed espressioni come «saccheggio», «saccheggiare», «dare il sacco», «mettere a sacco» e simili. A sostegno della sua tesi Muratori aggiungeva un brano tratto dalle Gesta del condottiero Giacomo Piccinino in cui si racconta la presa di un Castiglione: ecco gli uomini di Braccio da Montone superare l'antemurale e i fossati e scalare audacemente le mura; fra essi vi erano non solo armati «ma anche inermi e, ciò che è incredibile a dirsi, muniti soltanto di un sacco». I «saccomanni» del Trecento e del Quattrocento si identificano dunque con i «ribaldi» e gli zaffones che, come si è visto, sin dal Duecento erano normalmente impegnati nelle azioni di gualdana sino a confondersi con essa. Uno dei modi di accumulare la preda complessiva è quindi costituito dall'apporto di un vero formicaio di singoli predoni, il più delle volte non combattenti, che concorrono ciascuno con il suo sacco. Il «saccheggio» spicciolo è fatto perciò da tante e il più delle volte incontrollabili azioni individuali. Tutti gli eserciti medievali erano seguiti da «un inquietante corteo di veicoli carichi di oggetti eterocliti, di ladroni curvi sotto i loro sacchi, di spogliatori di cadaveri» che «non temevano neppure di portare via le statue dei santi» talché nei cronisti sorge spontaneo il ricorso all'immagine biblica di una «devastazione di cavallette»48. Se, per definizione, il vincitore spoglia il vinto delle terre, delle ricchezze e del prestigio, non c'è dubbio che tale processo di appropriazione comincia dallo stesso campo di battaglia dove per tradizione antichissima si spogliavano i nemici uccisi. Il latino classico stabiliva una precisa differenza fra la praeda e gli spolia, parola quest'ultima, che indicava propriamente il risultato di tale azione. L'usanza continuò nell'esercito bizantino: quando questo
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combatteva contro i Goti sotto le mura di Roma - racconta Procopio - i soldati colpirono un alfiere nemico e subito «si lanciarono per impadronirsi dell'insegna e del cadavere», i Goti però li prevennero recuperando l'insegna e «tagliarono al morto la mano sinistra» per togliergli il braccialetto d'oro assai bello, «di cui non volevano che gli avversari facessero sfoggio». Non appena i barbari si ritirarono «i Romani spogliarono il resto del cadavere». Nel 539, all'assedio di Osimo, venne ucciso un goto «tutto coperto d'oro» e un Mauritano «lo prese per i capelli e andava trascinando il cadavere per spogliarlo». Le leggi militari bizantine punivano i soldati che, come in questi casi, si soffermavano a spogliare i morti durante il combattimento, consentendolo quindi solo alla fine49. Le fonti scritte occidentali preferiscono in generale sorvolare sull'argomento, ma Liutprando di Cremona non teme di presentarci il cavaliere italico Ubaldo che nell'893 a Pavia, ucciso in duello un Bavaro, ne spoglia il cadavere abbandonandolo poi nell'alveo della Vernavola. Alludono all'usanza alcuni testi poetici anglosassoni come il Beowulf'A quale accenna esplicitamente, in almeno un paio di occasioni, a «combattenti meno nobili» intenti a spogliare i cadaveri dopo la battaglia; la Chanson de Roland ci mostra a sua volta Orlando, agonizzante a Roncisvalle, uccidere con un colpo dell'olifante l'arabo che, credendolo già morto, stava per depredarlo della sua spada, e un episodio analogo ricorre nel poema inglese sulla Battaglia diMaldon. Il Carmen de Hastingae proelio del vescovo Guido di Amiens segnala da parte sua che nel 1066, non appena terminata vittoriosamente la battaglia di Hastings, «tutta felice la Gallia cerca le spoglie di guerra», scena del resto ben illustrata nel margine inferiore della tappezzeria di Bayeux; essa raffigura, infatti, alcuni uomini intenti a spogliare i morti delle loro armature e a raccogliere in mucchio spade e scudi custoditi da uno di loro armato di lancia, indizio quest'ultimo, che si trattava forse di una spogliazione sistematicamente organizzata. Non diverso, anche se meno esplicito, il quadro offerto dal Cantare del Cid: dopo la vittoria campale di Alcocer «gli uomini del mio Cid poi saccheggiano il campo: / fan bottino di scudi, d'armi e ricchezze abbondanti. / Quando là sono giunti hanno trovato sparsi ben cinquecentodieci cavalli dei musulmani»50. La tendenza a spogliare subito i corpi degli uccisi, che era, come si è visto, duramente repressa dalle leggi bizantine perché di-
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stoglieva gli uomini dal combattimento, fu non di rado motivo di gravi sconfitte: basterà citare il caso famoso di Tagliacozzo dove nel 1268 Carlo d'Angiò batté Corradino di Svevia. Dopo il primo scontro - racconta Giovanni Villani - «i Tedeschi si credettero avere vinto» e «si cominciarono a spandere per lo campo, e intendere a la preda e alle spoglie», soccombendo così facilmente alla terza schiera che re Carlo aveva tenuto di riserva secondo i consigli di Everardo di Valéry, «maestro dell'oste e savio di guerra», il quale «conosceva la cupidigia de' Tedeschi e come erano vaghi delle prede». Oltre quarant'anni dopo, il 29 agosto 1315 a Montecatini, Uguccione della Faggiola, trovandosi di fronte proprio il nipote di Carlo I di Angiò, ricordava perfettamente che Corradino era stato sconfitto perché «tutte le sue genti, sicure di avere già vinto, cominciarono a spogliare il campo e a bottinare» dando modo a re Carlo di «irrompere con la sua schiera sui predatori e metterli in rotta». Nell'imminenza della battaglia ammonì pertanto i suoi che, in caso di vittoria, nessuno scendesse da cavallo né uscisse di schiera per catturare prigionieri o per spogliare i nemici sinché il combattimento era in corso, e l'osservanza di quell'ordine fu uno dei fattori della vittoria. Due anni prima, in Piemonte, il capitano imperiale Guarnieri di Homberg si era scontrato a Quattordio con Ugo del Balzo, siniscalco di Roberto d'Angiò, e anche là, dopo il primo urto favorevole, i Tedeschi, ritenendo di avere ormai vinto - narra Albertino Mussato - subito scesero da cavallo per darsi alla preda, e non ressero al ritorno offensivo degli avversari. A quella battaglia partecipava, dalla parte dei vinti, anche Teodoro di Monferrato il quale nei suoi Insegnamenti deplorerà infatti che certi comandanti, per incoraggiare la combattività dei loro uomini, permettono che ciascuno trattenga per sé tutto il bottino fatto. Ciò - rileva Teodoro - provoca gravi inconvenienti poiché, non appena la prima schiera ha rotto il nemico, i combattenti «scendono da cavallo e si separano l'uno dall'altro per spogliare i morti, e abbandonano le loro insegne» per curarsi solo della ruberia; e, peggio ancora, «si sottraggono l'un l'altro il bottino di robe e di cavalli fatto in battaglia, e il più forte deruba il più debole» così che, approfittando del disordine, il nemico può contrattaccare con successo. Anche il coevo Pulcher tractatus de materia belli consiglia il
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comandante di proibire che «durante la battaglia qualcuno raccolga le spoglie, si dia a prendere cavalli vaganti o le armi o qualunque altra cosa», in modo che tutti pensino soltanto a «rompere, abbattere e uccidere i nemici»51. Scoraggiato per ragioni di efficienza nel corso della battaglia, lo spoglio sistematico dei cadaveri rimane costume affermato e incontestato dopo la fine dello scontro. Gli stessi feriti vengono molto spesso finiti a scopo di depredazione e si giunge sino a disertare per potersi dedicare a tale attività, che coinvolge tutti i combattenti senza alcuna distinzione sociale. Dopo la battaglia di Brustem, combattuta nel 1467, i morti vengono spogliati sia da cavalieri sia da fanti borgognoni, e la tendenza è così generalizzata da far dubitare che «il desiderio di bottino fosse il motivo preminente di tutta la guerra medievale». È quindi normale che alla fine i vincitori trovino sul campo di battaglia i corpi tanto di nemici quanto di amici «morti e nudi», benché ciò - secondo Teodoro Paleologo - sia da deplorare come «segno di sporco e vile costume». Si può dire di più: oltre allo sciacallaggio e alle mutilazioni esercitate a scopo di rapina sui morti - pratica corrente anche se spesso sottaciuta - lo stesso trattamento viene talora riservato ai vivi. Nel 1075 - racconta il cronista Tolosano - i Faentini sorpresero i Ravennati che, dopo un'incursione sul loro territorio, si riposavano sparsi nei campi: molti di essi perirono a causa degli anelli che portavano perché ebbero le mani amputate e le dita recise, tanto che - egli conclude, non senza un sinistro compiacimento - «per questo motivo oggi i Ravennati evitano di portare anelli, specialmente in tempo di guerra»52. 5.2. Le grandi prede. Insieme alle piccole prede individuali vi sono le grandi prede «collettive», certo più rare, corrispondenti a intere città prese di forza o a un esercito battuto sul campo e costretto a fuggire abbandonando tutti i suoi bagagli. Nel 1212 agli Spagnoli vincitori a Las Navas de Tolosa toccarono - afferma la Crònica general - «oro e argento, vesti preziose e molte, nobili robe di seta e numerosi altri oggetti pregiati, vasi di gran prezzo e averi di diversa natura». Su di essi si precipitarono cavalieri e fanti di Aragona, mentre i nobili disdegnarono quelle ricchezze, soddisfatti dell'onore di aver battuto e ucciso i nemici. L'anno dopo, nel quadro molto più ristretto del mondo comunale italiano, i Pa-
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vesi sconfissero a Casei Gerola i Milanesi e i loro alleati; costoro - scrive un cronista genovese - lasciarono nelle mani dei vincitori, oltre a un cospicuo numero di prigionieri, «buoi, carri, carrette, tende, padiglioni, bagagli e tutto l'equipaggiamento» per un valore di complessive 40.000 lire pavesi53. I Fiorentini, battuti nel 1260 a Montaperti, abbandonarono sul campo un «incommensurabile bottino» consistente in «cavalli, armi, muli, asini, tende e nel carico di grano che stavano trasportando a Montalcino». Dopo la grave batosta toccata al ponte di San Procolo, presso Faenza, nel giugno del 1275, i Bolognesi si ritirarono lasciando ogni cosa: «Carri carichi di pane, vino, derrate, carni, padiglioni, trabacche, tende, un'immensa quantità di denaro e tutti i paramenti dell'esercito». E il 24 aprile 1345 il marchese di Monferrato Giovanni II, sconfitti gli Angioini a Gamenario, presso Chieri, annunciava trionfalmente: «Abbiamo preso e teniamo trabacche, padiglioni, carreggi, trabucchi e tutto il resto»54. Aridi e ripetitivi elenchi sono talora trasfigurati e colorati dalle capacità affabulatorie dei relatori, incoraggiate dal ricordo dei protagonisti, dalla lontananza dei luoghi e dall'esotismo del nemico. Nel febbraio del 1248 i Parmigiani ruppero con una memorabile sortita l'assedio a cui da molti mesi li sottoponeva Federico II e penetrarono nell'accampamento fortificato dell'esercito imperiale, una vera e propria città cui era stato dato l'augurale nome di Vittoria: «E così - scrive Salimbene da Parma - portarono via all'imperatore tutto il suo tesoro che comprendeva oro, argento, pietre preziose, vasi e vestimenti; si impossessarono del suo corredo e della suppellettile, e anche della corona imperiale, che era di grande peso e valore, tutta d'oro e tempestata di pietre preziose con molte figure in rilievo lavorate che sembravano cesellature. Era grande come un'olla. Aveva più valore di dignità e di tesoro che la funzione di ornamento del capo». Essa era stata trovata da un ometto di media statura chiamato scherzosamente Cortopasso, che «la portava in giro per le strade tenendola in mano come un falcone, mostrandola a tutti quelli che la volevano vedere, a vanto della vittoria conseguita e dello scorno sempiterno di Federico». Si trattò veramente di un caso eccezionale poiché «tutto ciò che uno poteva trovare e portare via era suo, né alcuno ardiva o presumeva di togliere alcunché agli altri. Né si sentì allora una pa-
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rola di contesa o di ingiuria. E così, spogliato il principe ricco, furono arricchiti in modo straordinario i poveri», i quali rivendettero ai mercanti, prontamente venuti da varie parti, «vasi d'oro e d'argento, gemme, monili, perle e pietre preziose, vestimenti di porpora e di seta e ogni sorta di cose che si conosca in tutto il mondo per uso e ornamento della gente». Ma - conclude il cronista «è da sapere che molti tesori in oro e in argento e pietre preziose, rimasero sotterrati dentro orci, locali e tombe proprio nel posto dove era la città di Vittoria, e sono ivi ancora al giorno d'oggi, ma non se ne conoscono i nascondigli». Sta alla pari con il tesoro di Federico II l'enorme preda toccata ad Alfonso XI di Castiglia e di Leon, vincitore degli Arabi nell'ottobre del 1340 nella battaglia di rio Salado, che assume, sotto la penna dell'Anonimo Romano, toni altrettanto favolosi: Alfonso ebbe il corpo della regina uccisa che «creder non se pò, nelle gamme, nelle vraccia e in canna avea cierchi di aoro purissimo smaitati, ornai di prete preziose»; il re la fece imbalsamare e ricavò poi dal marito come riscatto «infinita quantitate de moneta». «Lo tesauro dello re fuito», poi, era così grande che «mille muli ne furono fatigati a portare arme e aitro arnese», benché si trattasse solo della quarta parte dell'intero bottino poiché le altre tre «ne erano furate per iente», la quale, mentre i vinti in fuga venivano massacrati, allegramente «daose alla guadagna dello robare»: insieme a grandissimo numero di prigionieri «anco ce fu guadagnata molta robba: denari, arnesi, arme, vestimenta, vascella di metallo de rame, cavalli, muli, somari, cammielli, paviglioni, trabacche, tanto foraggio, tanto arnese». Il re si tenne il padiglione regale con tutto quello che c'era dentro: «lo paviglione avea nome Alfanic, treciento cammare avea». Una decima parte dei tesori e dei trofei e dei prigionieri fu inviata al papa in Avignone. La grande preda è vissuta come una festa, non solo da chi materialmente ne beneficia, ma anche con la fantasia di chi da lontano descrive e se ne compiace. Dal punto di vista dei conquistatori ogni città grande o piccola non era che un deposito di ricchezze e quindi un potenziale, immenso bottino desiderato, concupito e accarezzato con l'immaginazione nell'eventuale possibilità di potersene impadronire. L'esempio forse più clamoroso di un tale modo di considerare la città come preda è dato da Costantinopoli, la più grande allora esi-
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stente al mondo, che i partecipanti alla quarta crociata ebbero nelle loro mani il 12 aprile 1204. Il bottino fu così grande - scrive uno dei protagonisti di quella straordinaria impresa - «che nessuno saprebbe dirvene la fine: oro e argento e vasellame e pietre preziose e drappi di raso e di seta e vesti di vaio e di grigetto e di ermellino, e tutte le cose più ricche che mai si trovassero in terra. E Goffredo di Villehardouin, maresciallo di Champagne, testimonia in coscienza e secondo verità che da quando il mondo fu creato non fu mai fatto un bottino tanto grande in una città»55. 5.3. Scenari e inventari del saccheggio. Al contrario di quanto si nota nelle fonti scritte, il saccheggio è solo raramente raffigurato da miniatori e illustratori, più propensi a sottolineare i fatti epici e a dare rilievo ad avvenimenti spettacolari, forse non solo per motivi moralistici o di propaganda, ma per la difficoltà di rappresentare in modo efficace la grande rapina che, come si è visto, risveglia invece assai spesso l'interesse e l'invidia dei cronisti. Le scene di saccheggio non sono però del tutto mancanti: ecco, per esempio, la città di Caen depredata nel 1346 dagli Inglesi. Sullo sfondo alte fiamme si levano da un quartiere incendiato mentre in primo piano, sull'alto di una porta cittadina, due degli aggressori stanno finendo di uccidere altrettanti difensori già piegati a capo in giù sulle mura; uomini a piedi entrano da una breccia avviati verso l'interno dove altri soldati infieriscono a spada alzata contro invisibili avversari, e un guastatore munito di piccone sta demolendo una torre. A destra dalla porta principale e a sinistra da un'uscita secondaria, confluiscono a frotte i saccheggiatori già appesantiti dalla preda. Alcuni recano sulle spalle sacchi o colli legati con cura o tengono in mano scrigni e panieri; uno ha caricato il suo bottino su una carriola, un altro trascina con difficoltà una cesta piena di bottiglie: tutti hanno sul volto espressioni compiaciute e soddisfatte. Soldati con lance in spalla, da cui pendono gli oggetti rubati, voltano le spalle avviati verso l'esterno: abbiamo qui un saggio di quegli «oggetti eterocliti» che andavano a riempire i loro bagagli sui carri. Le cronache di Giovanni Sercambi sono illustrate da numerose vignette che raffigurano scorrerie nelle campagne, menzionate con grande frequenza dal cronista negli ultimi anni del XIV secolo e nei primi del successivo. Ecco le genti del duca di Milano che
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ritornano da una spedizione fatta nel 1397 sul territorio di Cortona «ardendo e derubando». Gli scorridori marciano da destra verso sinistra e si lasciano alle spalle la città chiusa nelle sue mura turrite, procedendo divisi in due gruppi: i fanti tengono le lance lunghe in verticale e i cavalieri le hanno in spalla; ciascuno di essi trascina prigionieri con le braccia legate. Tra i due gruppi vi è una mandria di buoi spinta da un armato a cavallo, mentre un altro alla sua destra si volge indietro a minacciare con la spada l'ultimo dei prigionieri. Sulle colline alberate che fanno da sfondo alla colonna in marcia si vedono gruppi di case da cui escono fumo nero e fiamme rosseggiami; attorno ad esse si aggirano uomini armati di lancia insieme ai quali procede un portatore di fuoco: la fiamma arde nella gabbietta metallica dotata di lungo manico, lo stesso strumento che compare costantemente in numerose scene analoghe36. Le diverse vignette di Caen e del Sercambi si può dire rappresentino, rispettivamente, in tempi non molto lontani fra loro, il saccheggiatore di città, che si compiace di quegli oggetti eterocliti trovati nelle case, e dello scorridore di campagna, soddisfatto per la razzia di animali e di prigionieri dai quali trarrà un congruo riscatto. L'incendio è contorno consueto e nota comune per entrambi gli ambienti. Non mancano esempi di elenchi analitici di oggetti facenti parte di bottini, compilati per lo più dalle vittime con l'intento di reclamarne la restituzione. Così fece a Piacenza nel 1077 un vassallo del vescovo di Pavia Guglielmo chiedendo giustizia davanti all'imperatore Enrico IV. Il suo nemico Bergondio in tempo di tregua lo aveva sorpreso nel sonno entro una torre del vescovo a lui affidata: egli aveva fatto appena in tempo a fuggire in camicia e calzoni mentre la moglie, i figli e i servi venivano spogliati di ogni veste e ornamento. Tutte le sue armi da cavaliere erano state sottratte: corazze, elmi, spade, scudi, lance, e insieme con esse ottimi cavalli, buoi, innumerevoli pecore e maiali; trenta letti ben forniti di lenzuola, velami, coperte e cortine; tre pellicce di alto pregio appartenenti alla moglie, trenta mantelli di martora, grigetto, volpe e agnello; 150 moggia di grano, 200 congi di vino nonché oro, argento e pietre preziose per l'ammontare di almeno 100 lire. Qui si tratta specialmente di oggetti preziosi e rari, ma non si arretrava di fronte a qualunque cosa, anche all'apparenza insigni-
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ficante. Nel 1127 i cittadini di Bruges, sollevatisi in armi con il nobile intento di vendicare l'uccisione del loro conte, si lasciano distrarre dalla ricchezza della residenza comitale dedicandosi a un coscienzioso saccheggio: essi - racconta Galberto di Bruges «portarono via dalla casa del conte parecchi materassi, tappezzerie, tele, coppe, paioli, catene, sbarre di ferro, legacci, corde di minugia, gogne, braccioli, tutti gli strumenti usati nelle prigioni, la porta di ferro del tesoro del conte, le condutture di piombo nelle quali scorreva l'acqua dei tetti. Rubarono ogni cosa persuasi di poterlo fare senza commettere un delitto. Nella casa del prevosto presero i letti, i cassoni, le panche, gli abiti, le coppe e tutto l'arredamento. Non dirò dell'immensa quantità di carne, di grano, di vino e di birra che saccheggiarono nella cantina del conte, del prevosto e dei canonici. Nel dormitorio di questi ultimi, pieno di vesti costosissime, fecero tale bottino che, per portarlo via, non cessarono di andare avanti e indietro da quando entrarono nel castello sino a notte». Tutto dunque poteva costituire oggetto di preda senza fare distinzioni troppo sottili. Alla stessa conclusione si arriva scorrendo il lungo e minuzioso elenco (ogni voce è accompagnata dal valore in denaro) degli oggetti sottratti nel 1202 dal castello vercellese di Robbio che i Pavesi avevano preso d'assalto: si tratta di cavalli, armi difensive e offensive, coperte e biancheria da letto, vestiario, attrezzi da lavoro, suppellettili di cantina, stalla e cucina, arredi domestici, catene da pozzo, misure, un tamburo, un corno, 25 arnie di api, e poi ancora sette carri di calce e cemento, scorte di cereali e legumi, quattro scrigni, una clessidra e legname da costruzione. L'elenco fu redatto per reclamare una restituzione che probabilmente non avvenne mai. Sorte non diversa dovette toccare anche agli oggetti di cui lo stesso esercito pavese si appropriò nel 1237 saccheggiando il monastero cistercense di Morimondo, pazientemente enumerati da un monaco nella speranza di ottenere, ancora una volta, la restituzione o l'indennizzo del danno calcolato in 10.000 lire imperiali. Trascurando le colture e gli edifici, consideriamo solo gli oggetti sottratti, gli arredi bruciati o distrutti e gli animali rubati o uccisi secondo l'elenco che procede, con una certa sistematicità, edificio per edificio. Dalla stalla erano stati presi 35 buoi, 5 cavalli, 120 maiali e un'asina; dal pollaio mancavano 60 fra galline e
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capponi, dalla dispensa e dalla cucina 22 prosciutti di maiale salati, sale, olio, cera, candele, formaggio, mascarpone, datteri, pepe e altre spezie, vino, pane, farina, noci, mele e castagne; pentole di rame, di bronzo, di pietra oliare e piatti di legno, scrigni e bicchieri. E così per gli attrezzi e i materiali della calzoleria, della sacrestia, della chiesa, della sartoria, per gli attrezzi agricoli, dell'officina fabbrile e della legatoria, fra i quali sono compresi un orologio con cinque campane e tutte le strutture metalliche del mulino. Gli edifici erano stati incendiati con le scorte di vino, cereali, legumi, foraggio e mangimi; nella chiesa non si trascurò, con palesi intenzioni sacrileghe, di spezzare la pietra dell'altare e di spargere a terra le ostie consacrate insieme con le reliquie dei santi e il crocifisso. Al confronto di tali enormi danni suona pateticamente insignificante l'inventario delle cose rubate a Ugolino di Ruggerotto che questi, castellano di Grosseto per conto del comune di Siena, volle far redigere nel 1266. I Grossetani, ribellatisi alla dominazione senese, avevano assediato e incendiato il castello tentando di uccidere lo stesso Ruggerotto. Egli, dopo aver resistito per un tempo giudicato ragionevole, si era infine arreso a condizione che fossero salvi lui e i componenti del presidio con tutti i loro beni; se non che il castellano era poi stato preso, percosso in testa con una mazza di ferro e derubato di tutto. L'elenco dei suoi averi comprendeva due paia di lenzuola, una coperta, un tappeto, un paio di brache, camicie, un asciugatoio, panni da dorso foderati di agnello, una «pelle di parigino verdello con fodera bruna» e altri capi di vestiario, di equipaggiamento, armamento e provviste per un totale di 33 lire e 14 soldi57. Oltre ai combattenti di ogni ceto sociale, ai ribaldi e ai predoni non combattenti che seguivano abitualmente un esercito, l'occasione di fare preda attirava da vicino e da lontano un gran numero di estranei pronti ad approfittarne. Nel 585 molti degli abitanti di Tours - ricorda il loro concittadino Gregorio - non esitarono a seguire l'esercito di re Gontrano «a scopo di guadagno», ma una parte di loro, aggrediti da quelli di Poitiers, se ne dovettero invece tornare «totalmente depredati». Carlo il Calvo l'8 ottobre 876 rimase sconfitto ad Andernach: la presenza di pletoriche salmerie impedì la fuga ai vinti non muniti di cavallo, i quali furono lasciati letteralmente nudi dai villani sopraggiunti. Nello
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scontro di esito incerto avvenuto fra Carlo il Semplice e Roberto I a Soissons il 15 giugno 923 a ricavarne vantaggio furono, oltre ai rustici dei dintorni, anche gli abitanti del suburbio che raccolsero le spoglie di entrambi gli eserciti. Durante la crociata albigese, Tedeschi e Frisoni, sconfitti presso Mongey dal conte Baldovino di Foix, furono finiti e derubati da contadini e vagabondi i quali «tutti senza eccezione guadagnarono un grosso bottino» tanto che avrebbero avuto di che vivere «tranquillamente tre mesi e quindici giorni e tutto l'anno». Ma «se si fossero appesi come ladri quei villani che uccisero i crociati e li spogliarono - commenta il poeta - l'avrei trovato un bene»58. Non appena nel 1275 si sparse in Faenza la voce dei numerosi carri abbandonati dai Bolognesi a San Procolo, gli abitanti della città, uomini innanzitutto, ma anche «infinite donne», uscirono per impadronirsi di un simile ben di Dio, «ebbero quegli arnesi e li portarono a Faenza». Salimbene da Parma ci informa che durante le lotte intestine in atto negli stessi anni i rustici del contado reggiano non erano sempre ridotti alla parte di vittime, ma pienamente immersi nella violenza di parte e pronti al saccheggio dei paesi vicini. E, tanto per confermare la lunga durata del fenomeno, quando nel 1401 le bande di mercenari che agivano in Piemonte per conto del principe d'Acaia presero e misero a sacco il castello monferrino di Albugnano, parteciparono allegramente all'impresa anche gli abitanti dei luoghi circonvicini59. 5.4. La spartizione e la coscienza. Teodoro Paleologo, come si è visto, ritiene un grave errore incoraggiare la rapacità dei singoli combattenti: gli uomini della prima schiera, che sono anche i più esposti ai colpi del nemico, hanno minori occasioni di fare bottino rispetto ai commilitoni che li seguono: a parte altri inconvenienti, si corre così il rischio che nessuno voglia più battersi ai posti d'onore. Egli raccomanda quindi che l'intera preda sia radunata in luogo adatto e ripartita equamente fra tutti i combattenti; e così appunto fecero ai suoi tempi avveduti comandanti come Uguccione della Faggiola e Cangrande della Scala: il primo, dopo la vittoria di Montecatini, rimase per ben dieci giorni sul posto sinché «venne spogliato il campo di battaglia e furono radunati i prigionieri», proventi da dividere, s'intende, secondo la spettanza di ciascuno; e Cangrande nel 1320, schierando i suoi contro Pa-
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dova, in modo del tutto analogo, «ordinò che nessuno si spostasse sinché durava la mischia, pena la morte, sapendo che non avrebbe perso la preda a lui spettante». La divisione consensuale non era certo una novità ma un'usanza universalmente diffusa da tempo immemorabile. Le leggi bizantine prevedono appunto che il bottino venga radunato, inventariato ed equamente suddiviso; se si era fatto un voto si attribuiva innanzitutto alla Divinità e alla Chiesa la parte di sua spettanza, si detraeva un sesto che toccava al fisco imperiale e il rimanente veniva distribuito tra le diverse unità senza privilegi di grado poiché gli ufficiali già avevano un soldo molto più alto dei soldati; si teneva invece conto della bravura personale dimostrata e della posizione occupata in battaglia; armi e armature, in specie, toccavano ai più coraggiosi, ma erano compresi nella distribuzione anche i non combattenti addetti ai servizi e ai trasporti. Belisario a Roma, nel 538, impartisce allo stratego Giovanni l'ordine di conservare il bottino che si prevedeva di fare nel Piceno e di spartirlo fra tutti i soldati; e aggiunge una battuta che Procopio ci ha tramandato: «Non è giusto che i fuchi siano uccisi a gran fatica da alcuni, e altri, senza nessun disagio, si godano il miele»60. La pratica di suddividere la preda era egualmente diffusa tra i Franchi, come dimostra il famoso episodio del vaso di Soissons: nel Campo Marzio dovevano appunto «essere divisi tutti gli oggetti del bottino». Nella Spagna della Reconquista la ripartizione obbediva a precise consuetudini: dopo l'azione «i bottini raccolti furono ammonticchiati» - narra il poeta - e il Cid «ordinò si ripartisse la preda senza fallo: / gli addetti gliene dessero giusto conto con carta / i suoi cavalieri ne ebbero una bazza: / spettò a ciascuno di essi cento marchi d'argento, / e ai fanti andò esatto la metà, / mentre per il mio Cid tutto il quinto rimase». Traspare qui, già pienamente operante, l'accurata organizzazione poi attestata nella documentazione spagnola successiva: ecco gli «addetti», cioè i cuadrilleros, incaricati di inventariare il guadagno fatto e di distribuirlo tenendo conto del ruolo dei singoli combattenti. Si provvedeva, innanzitutto, a indennizzare coloro che avevano subito danni nel corso dell'azione; la parte spettante al signore variava dalla sesta alla quinta se i cavalieri avevano agito senza la cooperazione dei fanti, alla settima se invece avevano agito soltanto questi ultimi. Se si trattava di ripartire prigionieri mori e ar-
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mamento si oscillava dal quinto al settimo a seconda delle singole consuetudini. Si indennizzavano, poi, i proprietari degli animali uccisi o feriti, di solito per un quinto del loro prezzo; il valore attribuito ai cavalli variava a seconda dei luoghi, e così i risarcimenti per le ferite riportate e per le armi perdute secondo una circostanziata casistica. Il re, quando poteva far valere i suoi diritti, rivendicava per sé un quinto di tutto il bottino61. L'immensa preda fatta dai crociati a Costantinopoli nel 1204 venne riunita, come si era in precedenza convenuto, in tre chiese: «In realtà - lamenta Villehardouin - alcuni portarono il bottino lealmente, altri in mala fede, poiché la cupidigia, che è radice di tutti i mali, non mancò; anzi gli avidi cominciarono da allora in poi a trattenere cose» malgrado la scomunica minacciata dal papa. Per questo molti, colti sul fatto, furono giustiziati, e in specie il conte di Saint-Poi fece impiccare con lo scudo al collo uno dei suoi cavalieri che aveva sottratto qualcosa, ma di «molti che ne sottrassero, piccoli e grandi, non si venne a sapere». Ad ogni modo tutto ciò che si potè accumulare fu diviso a metà tra i Veneziani e gli altri: senza ciò che era stato rubato toccarono a ciascuno più di 400.000 marchi d'argento e circa 10.000 cavalcature; essi furono spartiti valutando «due sergenti a piedi per uno a cavallo e due a cavallo per un cavaliere». Anche la regola dei Templari si occupa del problema: «Il bottino, le bestie da soma, gli schiavi, il bestiame di cui le case del regno di Gerusalemme si impadroniscono in guerra, vanno messi a disposizione del commendatore della terra, esclusi i destrieri, le armi e le armature, che vanno al maresciallo»; e il commendatore di Gerusalemme «deve ricevere la metà del bottino conquistato in battaglia al di là del Giordano», ma non al di qua del fiume62. Le modalità della divisione potevano anche essere oggetto di trattative o di decisioni individuali: quando i crociati antialbigesi presero Carcassonne, «di tutto il bel bottino fecero un mucchio, dei cavalli e dei muli, di cui c'era abbondanza, essi fecero una divisione come loro sembrò meglio». Quando, nel giugno del 1218, si sperava di conquistare Tolosa Simone di Monfort promise al conte di Soissons, per incoraggiarne l'iniziativa: «Voi avrete il quinto o il quarto del bottino e saranno vostri i migliori destrieri», ma egli sdegnò l'offerta e chiese che fosse piuttosto pagato il soldo che gli era dovuto. I comuni italiani del Duecento, nel con-
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trarre alleanze fra loro, hanno innanzitutto cura di precisare di volta in volta la parte di bottino spettante a ciascuno dei contraenti in base al numero e alla qualità degli uomini impiegati e del valore del bottino stesso: nel 1200 Genova promette ai conti di Ventimiglia che di tutto quanto sarà preso darà loro la terza parte, e altrettanto convengono nel 1228 il comune di Torino e il Delfino di Vienne. I comuni di Fabriano e Camerino nel 1214 stabiliscono che, se nel corso della guerra vi sarà lucro «per preda, battaglia o presaglia» da 1000 a 500 lire, Camerino abbia 100 lire in più; se si lucrerà meno di 500 lire si farà invece a metà, così come si farà senz'altro per i cavalli63. Esistevano però anche qui più antiche e radicate consuetudini: nel 1204 diversi rami dei marchesi aleramici convennero con il comune di Alba che «per i prigionieri e le prede ci si regoli come si usa da antica data nei territori di Monferrato e del Vasto». Le somme lucrate venivano suddivise in base all'armamento e all'importanza operativa di ciascun combattente: un cavaliere era allora considerato alla pari con un arciere a cavallo mentre nel 1261 un cavaliere contava quanto due fanti; fra questi, poi, una parte maggiore toccava agli armati di balestra mentre i balestrieri montati avevano la preferenza su tutti gli altri combattenti a cavallo, compresi i cavalieri veri e propri. Un regolare atto notarile sanzionò, il 4 gennaio 1255, la spartizione fra i cavalieri cremonesi dei guadagni fatti il mese prima contro gli uomini di Bologna che si erano spinti nel territorio di Bergamo; insieme con cospicue somme derivate dalla vendita del bottino, essi si divisero anche alcuni testi giuridici che i dotti militari bolognesi avevano ritenuto utile portarsi al seguito: un Codice e un libro di Decretali stimati complessivamente 30 lire imperiali furono divisi a metà; altri due libri di leggi, indicati come Autenticum e Diestutn novum, vennero valutati 12 lire. Situazioni alquanto varie troviamo attestate in Italia nel Trecento. Nel 1323 a Vercelli Uberto de Bena si vide rifiutato l'indennizzo di 170 lire che egli richiedeva per il suo cavallo, perduto nel corso di una spedizione fatta per conto del comune, poiché era già stato sufficientemente compensato dalla preda e dal riscatto dei prigionieri, considerati quindi sostitutivi dell'indennizzo. Tale connessione ritorna nei patti sottoscritti dal marchese Giovanni II di Monferrato con certi mercenari tedeschi da lui ar-
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molati nel 1341: si stabilisce innanzitutto che quanto si guadagnerà in guerra «dovrà essere messo a bottino, inventariato e diviso fra tutti i partecipanti alla battaglia o alla cavalcata, in modo che due fanti valgano quanto un cavaliere». La divisione andrà però fatta non «per barbutas» ma per cavalli: dovrà, cioè, essere considerato il numero delle cavalcature e non degli uomini; se poi il marchese desiderasse per sé tutto il bottino e i prigionieri potrà averli purché dia agli assoldati paga doppia per un mese completo insieme con l'indennizzo dei cavalli perduti. Quando all'azione sia presente il capitano del marchese, a questi spetterà la decima parte del lucro; in ogni caso, prima di dividere il bottino, dovrà essere detratta Xemenda per le cavalcature perdute o guastate: se esso sarà a tale scopo sufficiente il marchese non dovrà dare nulla di più64. La consuetudine di «mettere a bottino» o «abbottinare», cioè di dividere collettivamente, ogni preda bellica è attestata nell'esercito del conte di Savoia Amedeo VII operante in difesa di Asti nell'agosto 1372: in due occasioni, dopo scontri e razzie, i sabaudi «abbottinarono» tra loro i guadagni conseguiti contro i viscontei, non si dichiara però in che proporzione ciò avvenne. Lo stesso si deve dire per i mercenari al soldo di Venezia ai quali si raccomanda di far partecipare alla divisione anche i fanti e i balestrieri, senza ulteriori precisazioni. Un esempio di spartizione, che ricorda da vicino quanto era avvenuto secoli prima a Costantinopoli, si ha nel 1380 con la capitolazione di Chioggia: i cavalieri e i fanti delle compagnie nominano rispettivamente cento e venticinque «butinieri» che entrano in città e perquisiscono minuziosamente ogni persona «per menuto fin su le ongie di pie»; tutti i beni mobili - «balestre, arme d'ogni raxon, lencuoli, leti, arcenti e dinari» - vengono ammassati nella chiesa di Santa Maria e «partidi», non si dice con quale criterio, tra i mercenari e quindi prontamente rivenduti65. Grande importanza ebbe la distribuzione dei profitti per le compagnie di ventura straniere che agirono in Italia nella prima metà del Trecento. Fra le altre eccelse la capacità organizzativa di Fra' Moriale il quale - dice Matteo Villani - «faceva scrivere, e con ordine dava a catuno certa parte del bottino, e tutte le ruberie e prede ch'erano venali facea vendere, e faceali scorgere lealmente, per dare corso alla sua mercatanzia. E ordinò camarlingo che ri-
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cevea e pagava e fece consiglieri e segretari con cui guidava tutto; e da tutti i cavalieri e masnadieri era ubbidito come fosse loro signore». Nel Quattrocento, nei contratti fra committenti e condottieri, speciali clausole riguardavano il bottino: si conveniva di solito che a costoro spettassero i beni mobili di cui riuscivano a impadronirsi: nel 1432 i Fiorentini concedono a Micheletto degli Attendoli e alla sua compagnia, «perché sollecitati dalla speranza di preda siano più combattivi nelTespugnare castelli», che tutti i prigionieri e le cose mobili in essi ritrovati siano senz'altro di loro proprietà, mentre i castelli stessi apparterranno a Firenze. Le medesime parole ricorrono quasi letteralmente anche nei patti intercorsi nel 1429 tra il Carmagnola e Venezia, la quale usava però trattenersi la decima parte del bottino66. Il giurista lombardo Martino Garati, che scrive nel 1445 un suo trattato sul diritto di guerra, considera i beni mobili sottratti al nemico di pertinenza dei «capi dell'esercito che in Lombardia chiamiamo capitani» i quali li assegnano poi ai loro subordinati secondo il merito, criterio però non sempre facile da applicare, tanto che Francesco Sforza aveva escogitato un suo particolare modo di procedere ricordato in una lettera del condottiero Donato Del Conte, già agli ordini dello Sforza, e che nel 1476 combatteva al soldo del duca Galeazzo Maria, figlio di Francesco. Il condottiero Del Conte durante una spedizione in Piemonte aveva costretto alla resa il villaggio fortificato di Montanaro, e nella relazione dei fatti inviata al duca scrive che, per evitare odi, «stridi et affanni da quelli che diriano: tu hai meglio tractato quella squadra che la nostra, et similia, ho facto come fece altre volte la felice memoria del signor vostro padre in la Marcha, cioè ho admonito ognuno che se aparicchi ad entrare senz'arme, et poi gli ho facto aprire una porta, et dicto che ognuno vadi a guadagnare, et in questa forma è stata saccheggiata la terra». Il metodo sforzesco tendeva dunque a conciliare - all'italiana, potremmo dire - le opposte esigenze di una relativa disciplina e sistematicità dell'operazione con la libertà di arraffare concessa ai singoli67. In Francia Jean de Bueil, nel suo Jouvencel, scritto intorno al 1466, attesta tre modi di dividersi preda e riscatti che i soldati stessi concordavano fra loro prima dell'azione. Con la spartizione «à butin» ciascuno dei partecipanti riceveva una porzione, probabilmente favorendo coloro che avevano concretamente messo le ma-
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ni sui beni; con la formula «à prix d'une esguillette» si provvedeva invece a un'accurata suddivisione fra tutti, mentre la «bonne usance» prevedeva che ciascuno si tenesse ciò che era riuscito a prendere; una parte dei proventi toccava però sempre, secondo l'uso, ai detentori di incarichi militari della corona: contestabili, marescialli, ammiragli, mastri dei balestrieri e capitani. Il ricorso ai «bottinieri», che abbiamo visto applicato anche in Italia, era diffuso in tutta Europa. Almeno dal XIII secolo in poi il re d'Inghilterra si riservava la terza parte di quanto legittimamente guadagnato in guerra dai suoi soldati; a questo scopo prigionieri, denaro, animali e armi, tutto doveva essere scrupolosamente registrato e stimato prima della vendita, ma naturalmente da tali conteggi sfuggiva il più, cioè quanto, essendo stato guadagnato illegalmente, non poteva essere controllato. Il cronista Olivier de la Marche descrive vivacemente la spartizione avvenuta nel 1443 dopo la presa di Lussemburgo: «Quanto al bottino - egli dice - fu gridato che ciascuno, di qualunque condizione fosse, si rivolgesse al signore di Ternant e al signore di Humyères eletti 'bottinieri', e che tutti giurassero di consegnare il loro bottino, fosse oro, argento, rame, lenzuola, pelletteria e ogni altra cosa che poteva tornare a profitto. Guglielmo di Grenant fu pubblico bottiniere e vendeva il bottino su un palco gridando: 'Una volta! Tre volte!'. E quel bottino fu così ben condotto e gestito che i compagni ne ebbero il meno mentre si diceva che i bottinieri ne approfittarono largamente». Normalmente il denaro ricavato dalla vendita - detratto il necessario per riscattare i membri della compagnia eventualmente caduti nelle mani del nemico veniva distribuito secondo l'ammontare dei salari abituali: a un cavaliere banneret toccava così il doppio di un cavaliere bachelier, il quadruplo di un uomo d'arme e otto volte di più di un semplice arciere68. Anche Ylnstruction scritta da Filippo di Clève intorno al 1516 raccomanda di nominare un butinier per ogni compagnia per impedire che le prede vengano nascoste, e Raimondo Montecuccoli nel secolo seguente prevede, al momento in cui una piazzaforte viene conquistata, la necessità di «ripartire le case, acciocché ciascuno abbia la sua parte del butino non essendo permesso di buttinar per altr'ordine, e bisogna punire severamente quelli che comincieranno a spogliare, in questo modo si possono ripartire le
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case migliori a quelli che l'avranno acquistato meglio e far il resto per la sorte, nella qual nissuno non s'ha da lamentare che della sua disgrazia»69. Non si può fare a meno di rilevare (per quanto non si tratti di osservazione molto originale) che, se attraverso i secoli mutano, per quanto non granché, usi e procedure, la natura umana rimane sempre la stessa. La maggior parte delle testimonianze alimenta l'impressione che gli uomini di guerra fossero sempre e dovunque avidi, feroci e sadici distruttori in perenne cerca di preda, pronti a tutto pur di mettere le mani su sempre nuovi tesori: gioiosi ladroni mai toccati da rimorsi di coscienza né da alcun dubbio sulla bontà e liceità del proprio operato; né sentimenti diversi paiono avere coloro che ne raccontano le gesta, indifferenti non solo davanti alla universale avidità di bottino, ma pronti a entusiasmarsi davanti alla grande e bella preda, e scopertamente invidiosi della fortuna altrui, senza mostrare alcuna remora morale o religiosa. In realtà le cose non erano così semplici. Teologi, canonisti e giuristi continuarono a interrogarsi su questo punto, in verità più con l'aria di scusare le abitudini correnti che di contrastarle: se la guerra è giusta - consentivano i più - anche il bottino è legittimo pur con qualche limitazione: i danni andrebbero commisurati al rischio e agli scopi perseguiti, i non combattenti e i prigionieri dovrebbero essere rispettati. I principi e gli Stati, dal canto loro, riconoscevano limiti ancora più ampi: tutto è permesso purché non ne soffra troppo la disciplina del loro esercito e siano rispettate le chiese, per non provocare l'ira divina, e si salvaguardi da una distruzione troppo radicale un territorio di cui si spera di entrare in possesso. Ma non solo a livello teorico generale si ponevano dei limiti, il più delle volte elusi o non rispettati; anche qualche coscienza individuale poteva provare un sia pur tardivo rimorso e bisogno di espiazione, specialmente quando veniva l'ora di redigere il proprio testamento. Il 21 febbraio 1224 il cavaliere trevigiano Gabriele da Camino, signore di alto rango, stabilisce che 500 lire siano distribuite ai poveri a titolo di indennizzo per i danni da lui provocati in diverse occasioni; si nominano in specie i poveri di Piacenza, del Trevigiano, del Bellunese, Cenedese, Veronese, di Mantova, Brescia, «e specialmente di quei luoghi in cui io fui con l'esercito e furono provocati danni e commesse cattive azioni».
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Gli fa eco il veronese Bonaugurio da Orti testando il 20 marzo del 1237: egli si dilunga nella rassegna dei suoi peccati fra i quali include le prede cui ha partecipato in cinque diversi luoghi e occasioni; una di esse fu fatta «con altri berrovieri all'esercito padovano quando essi Padovani erano a Rivalta», cioè sicuramente in guerra contro nemici dichiarati, ciò che tuttavia non bastava per escludere la preda dal novero delle colpe da confessare e da emendare. Nell'uno e nell'altro caso l'aver operato nel quadro di regolari campagne di guerra, e quindi con una copertura legale, non era sufficiente a tacitare la coscienza: la condizione militare e lo stato di guerra non esimevano dunque dal pentimento e dalla necessità di riparazione. A maggior ragione molti dei Ghibellini pavesi che avevano partecipato al fruttuoso agguato teso ai portatori del tesoro pontificio presso Casteggio nel luglio del 1328, impresa cosi invidiata dal cronista, finirono in seguito per restituire la preda e invocare l'assoluzione70.
II IL RIFLESSO OSSIDIONALE
1. Proliferazione delle fortezze e ossessione dell'assedio Nel mondo antico ogni grande compagine politica, governata da un'autorità centrale efficiente, fa fronte ai suoi nemici esterni munendosi di fortificazioni periferiche, opportunamente disposte e presidiate, che divengono così anche un segno di ricchezza e di superiorità organizzativa rispetto ai potenziali aggressori. Alla metà del II secolo d.C. Elio Aristide poteva scrivere che la città di Roma non aveva bisogno di mura perché sufficientemente protetta dal metaforico muro delle sue legioni schierate ai confini dell'impero, ma meno di cento anni dopo le fortificazioni, prima dislocate esclusivamente sul limes, cominciano a diffondersi all'interno segnalando da un lato la sopravvenuta debolezza dell'autorità centrale e dall'altro la necessità di salvaguardare gli abitanti inermi dalle penetrazioni barbariche sempre più frequenti e profonde. Nel dicembre del 406 Alani, Vandali e Svevi, superato il Reno nei pressi di Magonza, erano dilagati in Gallia e nulla aveva potuto proteggere la popolazione dalle loro violenze: «Non la densità delle selve - lamentò il vescovo Orienzio - né l'asperità delle alte montagne, né la corrente dei fiumi dal rapido gorgo; non i castelli dei singoli luoghi, né le città difese da mura; non l'intransitabile mare, né lo squallore del deserto; non i burroni scoscesi e neppure le caverne nascoste fra le rupi», così che l'improvvisa emergenza venne percepita come catastrofe «piombata sul mondo intero». Il Commonitorìum di Orienzio pur esasperando, per amore di retorica, la realtà dei fatti, rivela che le mura urbane e le for-
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tezze rurali allora già esistenti erano di numero ed efficacia del tutto insufficienti poiché fu necessario cercar scampo in rifugi occasionali offerti dalle condizioni naturali del terreno: caverne e gole nascoste in zone boscose e deserte, sommità rocciose ritenute inaccessibili, ostacoli fluviali e marini solo apparentemente insuperabili. È verisimile perciò credere che quella dura esperienza abbia contribuito a incrementare l'allestimento di altre cerchie urbane e, nelle aperte campagne, la costruzione di nuove fortezze di rifugio più sicure. La storiografia corrente sino a pochi anni fa soleva senz'altro datare al III secolo tutte le mura di età romana ancora oggi esistenti, e solo di recente la più raffinata valutazione delle tecniche costruttive da un lato e l'apporto degli scavi archeologici dall'altro, hanno consentito di individuare più fasi che dal III secolo si estendono almeno sino al V interessando tanto le città quanto i centri abitati minori. La progressiva diffusione di fortificazioni pubbliche e private all'interno dell'impero, destinata a contrassegnare durevolmente la storia dell'Occidente, ha dunque i suoi inizi nel mondo tardo antico. I barbari avanzanti incontrano così davanti a sé sempre nuove mura elevate non solo per iniziativa di singole città, ma secondo un disegno strategico d'insieme che persegue, appunto, lo scopo di frazionare la forza d'urto delle penetrazioni nemiche. In tale «preludio di Medioevo», di fronte a città che si trasformano in fortezze, la guerra tende sempre più a manifestarsi come guerra d'assedio, caratteristica che rimarrà costante per molti secoli. L'utilità delle fortificazioni dipende invero, più che dalla solidità, dalla risolutezza dei difensori: le città infatti, talora paralizzate da un eccessivo numero di rifugiati, piuttosto che affrontare i disagi di un assedio, preferiscono molto spesso negoziare un riscatto. Le fonti letterarie cominciano a far menzione di residenze fortificate private anche fuori delle città: Sidonio Apollinare descrive il burgus di Ponzio Leonzio (costruito all'inizio del IV secolo in corrispondenza dell'odierno Bourg-sur-Gironde, alla confluenza fra Garonna e Dordogna) enfaticamente presentato come un formidabile complesso dotato di torri e di mura che nessuna macchina da guerra, ariete, catapulta, né qualunque altra delle più avanzate tecniche d'assedio potrà mai abbattere. Ma quelle mura in realtà rinserrano lussuosi edifici termali con colonnati rivestiti
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di preziosi marmi importati da lontane regioni, ampi granai, locali riscaldati per l'inverno e un'officina di tessitura costruita in forma di tempio; sulla torre centrale, poi, si trova una sala da pranzo con vista sulle montagne che dominano l'orizzonte. Non è da meno la grandiosa dimora che nel secolo successivo il vescovo di Treviri, Nicezio, ha fatto elevare sulla Mosella; essa, nella descrizione di Venanzio Fortunato, appare come un grandioso recinto murario guarnito di ben trenta torri attorno ali.'aula sorta su un'altura sino a poco prima boscosa. La moda di tali meravigliosi complessi dalla Gallia era passata in Italia: verso la fine del V secolo una fortezza simile aveva costruito nella sua diocesi il vescovo di Novara Onorato, definita dalle fonti come «affidabilissima speranza di vita» contro i pericoli di una possibile guerra. Nello stesso periodo il futuro re dei Goti Teodato aveva trasformato in residenza fortificata un'isola del lago di Bolsena: alle sue rocce, già protette dalle acque, l'opera dell'uomo aveva aggiunto «mura, ponti, propugnacoli e torri» al riparo dei quali il padrone poteva soggiornare sicuro in previsione, anche qui, di «orribili guerre». Le descrizioni poetiche tendono retoricamente a presentare come fortezze inespugnabili quelle che erano in realtà sontuose ville residenziali il cui apparato difensivo, prendendo a pretesto le esigenze di sicurezza effettivamente sentite in alcuni momenti, mirava a una semplice esibizione simbolica divenuta moda aristocratica. Le fonti epigrafiche e i dati desunti dallo scavo archeologico e dal rilievo di strutture sopravvissute sino ai nostri giorni attestano nondimeno la comparsa, fra IV e VI secolo, di numerose fortificazioni minori certamente nate dalla necessità di proteggere le popolazioni locali. Nell'Italia del Nord molte si collegano al sistema difensivo alpino: si tratta di «castelli» di diverse dimensioni e struttura costituiti da robuste cerchie murarie allestite a protezione di insediamenti della pianura e del pedemonte, mentre sui rilievi più aspri sorgono rifugi resi sicuri dalla loro stessa posizione. Apprestamenti analoghi e coevi sono attestati in Francia ed entro l'area romanizzata della Germania: si va da ville romane rafforzate con fossato e terrapieno ad autentiche fortezze indicate nei testi di Sulpicio Severo e di Gregorio di Tours con i termini castrum, castellum e oppidum, la cui natura è stata confermata in più
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casi dalle ricerche archeologiche; esse erano comprese nei possessi di grandi famiglie aristocratiche e costituivano lo sdoppiamento di insediamenti di pianura con evidenti funzioni di rifugio. Siamo anche qui di fronte a un certo «preludio di Medioevo» il quale però - sia chiaro - è ancora di là da venire; va quindi evitata la tentazione di vedere semplicisticamente le fortificazioni tardo-antiche come veri e propri castelli ante litteram: quelli che alcuni secoli dopo riempiranno della loro presenza l'intero Occidente non avranno alcun rapporto diretto con le lontane anticipazioni dei secoli IV e VI, da considerare quindi, tutt'al più, come una «preistoria» del vero castello medievale1. La riprova, comunque, della frequenza dei luoghi fortificati e della importanza militare da essi assunta si ha attraverso le ventennali vicende della guerra greco-gotica, combattuta in Italia nel VI secolo, note attraverso il circostanziato racconto di Procopio di Cesarea. Le operazioni consistettero in massima parte nell'attacco e nella difesa di località murate rispetto alle quali gli scontri in campo aperto furono numericamente insignificanti riducendosi di fatto alle pur importanti battaglie di Tagina e dei Monti Lattari. Caratteristiche analoghe assumono le guerre combattute dai Franchi per la conquista dell'Aquitania dove, accanto a importanti cerchie urbane, erano stati recuperati molti antichi oppida, e numerosi «castelli» erano sorti sui percorsi stradali; la toponomastica rivela, da parte sua, una fitta serie di punti fortificati specialmente lungo le frontiere settentrionali e orientali. La «guerra dei castelli», inaugurata dunque da Belisario in Africa e in Italia, fu praticata anche in Spagna dai Visigoti contro Baschi e Bizantini, e dai Franchi e dagli Aquitani contro Visigoti e Arabi; gli Aquitani indipendenti vi ricorsero per contrastare il ritorno offensivo dei Pipinidi, e questi ultimi la riproposero contro i propri nemici, tanto che - come si sa - nella penisola iberica proprio la frequenza dei castelli sarebbe all'origine dei nomi di Catalogna e di Castiglia. I Longobardi, divenuti dopo il 569 padroni dell'Italia, assimilarono abbastanza rapidamente, a proprio vantaggio, i criteri difensivi che erano stati propri dell'ultimo periodo romano e dell'età di Teodorico applicandoli contro i loro avversari transalpini, Franchi e Avari: la presenza di numerose città fortificate fu sfruttata ponendola in coordinamento con le Chiuse alpine che furono strumento, ancora per qualche secolo, di una difesa «elastica»
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in profondità di tipo tardo antico. Le Chiuse almeno dal IV secolo sbarravano le principali vie di accesso attraverso le Alpi ed erano collegate a un sistema di avvistamento e di rifugio; sino a metà dell'VIII secolo si potè così esercitare un'azione ritardatrice in corrispondenza delle valli alpine e il logoramento dell'aggressore lungo gli assi di penetrazione verso sud. In condizioni sfavorevoli i Longobardi si chiudevano nelle città della pianura padana eludendo il contatto con gli invasori, i quali erano perciò costretti a ritirarsi senza poter conseguire risultati decisivi. Se invece il rapporto di forze era positivo per i difensori, il nemico, sboccato in piano, poteva essere sorpreso e annientato in campo aperto, come infatti avvenne in più occasioni2. Coloro che vissero nei territori romani durante gli ultimi tempi dell'impero dovettero soffrire di un vero e proprio «complesso dell'assedio» percepibile attraverso numerosi indizi. Nel IV secolo l'anonimo autore del trattato De rebus bellicis parla con apprensione dei barbari circumlatrantes: essi, abbaiando come cani, «stringono tutto intorno con la loro morsa l'impero romano». All'incirca nello stesso tempo Vegezio dedica gran parte della sua Epitoma rei militaris alla difesa delle località fortificate, implicitamente denunciando il fallimento di una concezione difensiva globale, il frantumarsi dell'unità imperiale e l'incapacità del potere di proteggere i suoi sudditi. La preoccupazione per l'assedio come realtà sempre incombente sembra passare integralmente ai barbari insediatisi sul territorio dell'antico impero romano d'Occidente: in Italia, in specie, i Goti di Teodorico ereditano dall'età tardo antica, insieme con superstiti idee di grandezza imperiale, anche le angosce di un mondo abituato ormai da secoli a vivere in stato di assedio, ed esse sembrano ben presenti, secoli dopo, nella mente di un barbaro romanizzato come Paolo Diacono. È da notare, innanzitutto, che nella sua Storia dei Longobardi di fronte a non meno di trentacinque episodi di assedio e conquista di luoghi fortificati, le battaglie in campo aperto rievocate o ricordate in modo più o meno ampio non sono più di tre: tali dati confermano dunque l'importanza complessiva che l'assedio ha assunto rispetto ad altre forme di guerra. Nelle opere di Paolo si assiste poi alla sottolineatura e alla costante drammatizzazione di famosi assedi del passato: ecco Antiochia e Tiana assediate nel 271 dall'imperatore Aureliano, Metz, Orléans, Aquileia e Ravenna as-
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sediate da Attila, e Roma sottoposta a blocco da parte di Totila. Sotto la penna dello scrittore tali rievocazioni si arricchiscono di nuovi particolari leggendari e la durata attribuita agli assedi tende a lievitare: forse la suggestione viene da Giordane che già attribuiva al blocco di Ravenna da parte di Teodorico una durata triennale, certo è che, contro ogni dato storico reale, Paolo porta a tre anni gli assedi posti da Attila ad Aquileia e dagli Arabi a Costantinopoli nel 717. Ad assumere intensità, durata e drammatizzazione prima ignota sono però soprattutto certi episodi relativi a Pavia. Qui, dove già Odoacre aveva assediato Oreste, padre dell'ultimo imperatore d'Occidente, Teodorico sarebbe stato bloccato per due anni; in seguito sarà Alboino a stringerla in un assedio, dalla sacramentale durata di tre anni, concluso da un miracolo che salva la città dalla distruzione, ricalcato su quanto le storie di Aureliano raccontavano a proposito di Tiana. In realtà è da respingersi non solo la durata triennale ma l'intero avvenimento che ha tutta l'aria di un calco fantasioso suggerito dalla mitizzazione dell'assedio come fatto topico, presente in forma quasi ossessiva nell'immaginazione di Paolo Diacono. Egli bene esprime, dunque, un modo di sentire più generale tipico non solo del proprio tempo ma anche di tempi precedenti e successivi nei quali appare di fatto già pienamente operante il «riflesso ossidionale»: di fronte a un attacco si tende, cioè, a reagire automaticamente rinchiudendosi con le proprie forze entro i luoghi fortificati3. In tale quadro sembrerebbero nondimeno fare eccezione i Franchi che, sino ai primi decenni del IX secolo, sono costantemente all'attacco nella sottomissione dell'Aquitania, nella lunga e faticosa conquista della Sassonia e del regno longobardo, nello sforzo di imporre la loro autorità in Bretagna e sugli Avari; essi svolgono quindi senza dubbio un'intensa attività di espugnazione e di distruzione di fortezze nemiche ricorrendo anche - sempre in funzione offensiva - alla costruzione di nuovi apprestamenti. Solo quando i confini dell'impero carolingio cessano di ampliarsi si pensa ad allestire, oltre l'Elba, una linea difensiva continua a rafforzamento del limes Saxonicus; altre fortezze (utili, probabilmente, tanto per l'attacco quanto per la difesa) sorgono sulla frontiera orientale mentre, per contro, all'interno dell'impero, le antiche cerchie urbane vengono cedute a privati e tranquillamente
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usate come cave di materiali. Tale atteggiamento, manifestato da Carlo Magno e dai suoi immediati successori, era probabilmente implicito nella natura stessa dello strumento militare messo in piedi dai Pipinidi: organizzato per l'espansione e collaudato da un secolo di guerre di aggressione, esso era di fatto privo di mentalità difensiva, cosa che non mancherà di avere contraccolpi sulle condizioni dell'età immediatamente seguente. Il disinteresse per le fortificazioni dovette ben presto subire una rapida inversione: esse divennero infatti indispensabili con il progressivo deteriorarsi della sicurezza dovuto sia alla conflittualità interna fra i competitori al trono, sia alle aggressioni di nemici esterni (Vichinghi, Saraceni e poi Ungari), cui i regnanti non sono in grado di porre valido riparo. Dagli ultimi decenni del IX secolo poi, nei regni usciti dalla disgregazione dell'impero, vengono quindi aumentando le fortezze pubbliche e private: si tratta di un intenso processo che vede sorgere castelli ovunque sia ritenuto utile e possibile. Anche l'impero carolingio finisce così per seguire, sia pure con modi e tempi ad esso peculiari, il medesimo ciclo che si era verificato per altri imperi: giunti al limite delle conquiste, essi tendono a fortificarsi contro le offese esterne, resistono per un certo tempo ricercando una loro omogeneità sinché, divenuta impossibile la difesa periferica, le fortificazioni si moltiplicano all'interno chiudendo di fatto il ciclo. L'incastellamento dei secoli X e XI non rappresenta, però, un semplice proseguimento della tendenza alla proliferazione dei punti fortificati in atto sin dal III secolo, ma un fatto del tutto nuovo e originale poiché esso si attua a cura di signori, ecclesiastici e laici, che agiscono autonomamente dal potere centrale in forte crisi; l'incremento numerico dei castelli contrassegna perciò, nello stesso tempo, il collasso della potenza imperiale carolingia e anche, contraddittoriamente, un momento di grande sviluppo e vivacità economica e demografica. D'allora in poi, per molti secoli a venire, chiunque in Europa potrà costruire castelli privati - come recita un testo famoso - «per ripararsi dai nemici, trionfare degli eguali, opprimere gli inferiori». Il loro numero raggiunge così una densità senza precedenti; il valore difensivo è, in generale, tecnicamente basso, ma viene esaltato dalla limitatezza dei mezzi a disposizione degli attaccanti: il «riflesso ossidionale» è pertanto destinato a radicalizzarsi e a condizionare il modo di combattere
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in Occidente ancora per mezzo millennio4. Se, per tutta l'età medievale, come si è visto, gran parte dell'attività bellica consistette in azioni di razzia e di distruzione, vengono quantitativamente subito dopo le operazioni che riguardano l'attacco e la difesa di luoghi fortificati lasciando assai poco spazio alle battaglie combattute in campo aperto che in passato sono state a torto considerate come l'unica «vera» forma di guerra.
2. he tecniche ossidionali in Occidente L'arte di attaccare e di difendere le fortificazioni (poliorcetica) raggiunse il suo livello più alto nell'età ellenistico-romana tanto che Frontino, componendo intorno all'anno 84 d.C. i suoi Strategemata, riteneva che la meccanica militare avesse ormai da lungo tempo raggiunto la perfezione e che non fosse più possibile migliorarla. Dai tempi in cui il trattatista terminò la sua opera il livello della tecnologia cessò effettivamente di elevarsi e nella tarda antichità tese anzi a diminuire; in tale campo tuttavia la superiorità dei Romani sui barbari non fu mai messa in discussione e le regole allora formulate - si può dire - rimasero valide, sia pure attraverso dimenticanze e parziali recuperi, sino alla fine dell'età medievale. Per attaccare in modo attivo una fortificazione occorreva innanzitutto potersi avvicinare in sicurezza, e a tale scopo i mezzi più semplici e comuni erano i plutei o musculi («topolini»), cioè grandi scudi su ruote per proteggere i tiratori che, sfidando i colpi degli assediati, dovevano spianare il terreno e colmare il fossato difensivo aprendo così la strada ai mezzi più pesanti e spettacolari incaricati di agire direttamente sulle mura. Il primo di questi a entrare in azione era di solito la vinea o «testuggine»: si trattava di un robusto capannone «blindato» dotato di un tetto molto inclinato per favorire lo scivolamento dei proiettili e delle materie incendiarie che il nemico lanciava dall'alto; sotto di esso i minatori potevano arrivare indenni alle mura per scalzarne le fondamenta con appositi attrezzi, oppure per aprirvi brecce percuotendole con l'ariete, grossa trave dalla testa ferrata in bilico su robusti sostegni. Più imponente era la torre mobile («elepoli», «tur-
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ris ambulatoria») di altezza superiore alle mura, montata su ruote e spinta da uomini che agivano dal suo interno; essa era munita di ponti volanti che consentivano di superare le mura dall'alto. Fornite di ruote erano talora anche le scale d'assalto perché potessero essere più facilmente avvicinate e più difficilmente rovesciate dai difensori. Era infine possibile giungere sulle mura anche mediante congegni a contrappeso come la sambuca e il tollenone, capaci di sollevare interi drappelli di uomini armati sino all'altezza della merlatura. Dal momento che sia l'attaccante sia il difensore facevano ricorso a composizioni incendiarie, tutti i mezzi di avvicinamento, costruiti in legno, dovevano essere protetti contro il fuoco da pelli di bovini appena scuoiati, da strati di terra e da materiali spugnosi imbevuti d'aceto. Le macchine d'assalto operavano accompagnate dal tiro delle «artiglierie», mezzi di grande importanza e interesse dal punto di vista meccanico; esse, disposte in posizione arretrata, erano in grado di far piovere proiettili di pietra sulle difese nemiche. Sotto il livello del suolo, infine, se le condizioni del terreno lo consentivano, si potevano aprire gallerie sia per far crollare le mura sia per sbucare di sorpresa nel loro interno. Era consigliabile che le diverse componenti dell'attacco agissero in sincronia fra loro: nello stesso momento in cui le macchine da lancio iniziavano il tiro contro la sommità delle mura, gli arieti dovevano batterle dal basso e i minatori attaccarle sotto il livello del suolo: il nemico, impossibilitato così a rispondere a tante minacce simultanee, avrebbe ceduto più facilmente. Non è facile stabilire quanto dell'antica e raffinata tecnologia d'assedio si sia potuto conservare nella pratica: le popolazioni che conquistarono il potere in Occidente furono generalmente incapaci di dominare la complicata e ingombrante attrezzatura necessaria per affrontare convenientemente le fortificazioni romane, ma si mostrarono comunque in grado di improvvisare gli strumenti più ovvi ed elementari: Attila fece infatti tremare le mura di Orléans sotto i colpi dei suoi arieti, e in Spagna, sui blocchi ciclopici della cerchia di Terragona, si riconoscerebbero ancora oggi le tracce lasciate dall'assedio dei Visigoti di Eurico. Le difficoltà che i barbari incontravano nelTassimilare fino in fondo la tecnologia di tradizione greco-romana sono ben esemplificate da un celebre episodio occorso durante la guerra greco-gotica. Vitige nel
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536 ritenne di poter prendere Roma per mezzo di arieti, scale e torri mobili di legno alte quanto le mura della città, trainate sul posto da buoi. All'avvicinarsi di quegli strumenti - racconta Procopio - i Romani rimasero sbigottiti, ma Belisario, «vedendo lo schieramento nemico incedere con le macchine, se la rideva e ordinava ai soldati di starsene fermi e di non venire alle mani fino a un suo cenno. Perché ridesse, lì per lì non dava a conoscerlo, ma più tardi si capì. Tuttavia i Romani, pensando che facesse lo spiritoso, lo insolentivano chiamandolo impudente e s'arrabbiavano assai per il fatto che non cercasse di arrestare l'avanzata nemica. Quando però i Goti arrivarono presso il fossato, il generale fu il primo a tendere un arco e a colpire, prendendolo in pieno nel collo, uno di loro, tutto corazzato, che guidava un reparto». Diede poi ordine alle sue schiere di mirare soltanto ai buoi così che, caduti subito questi, i nemici non erano più in grado di far muovere le torri né, «ricevuto quello smacco, riuscivano a escogitare un rimedio. Ed ecco come ci si potè rendere conto della previdenza di Belisario nel non tentare d'opporsi ai nemici ancora a distanza, e anche del perché rideva dell'ingenuità dei nemici che, con tanta sconsideratezza, speravano di poter portare in giro dei buoi sotto le mura avversarie». È dunque evidente che i Goti, pur capaci di costruire torri mobili, non conoscevano i meccanismi per farle muovere stando al coperto, né avevano tenuto conto della gittata e dell'efficacia delle armi da lancio di cui disponevano i difensori della città5. Sembra che, in generale, abbia fatto difetto agli invasori soprattutto la capacità di mettere a punto le grandi macchine da getto carreggiabili di cui erano dotati gli eserciti ellenistici e romani: catapultae e ballistae in grado di lanciare dardi o sassi fino a circa 700 metri mediante due fasci di fibre elastiche sottoposte a torsione. Tali strumenti, considerati «il capolavoro tecnologico dell'antichità», erano entrati in uso, nella loro forma definitiva, soltanto nel III secolo d.C. e venivano impiegati sia in battaglia per scompaginare a distanza le file nemiche, sia, soprattutto, nelle operazioni di assedio. Le alte competenze tecniche necessarie per la costruzione e per l'impiego di tali artiglierie erano però possedute solo da rari specialisti tanto che nel IV secolo si trovò conveniente ripiegare suU'«onagro», una nuova macchina che forniva prestazio-
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ni simili alle precedenti ma che, essendo dotata di un'unica grande molla, era molto più semplice da costruire e da utilizzare. Il suo peso raggiungeva però le due tonnellate ed era, quindi, essenzialmente adatta a funzioni di difesa statica: si trattò di una «novità regressiva» indice del peggioramento delle capacità tecnologiche che caratterizzò appunto gli ultimi due secoli dell'impero. Non è chiaro quanto di tali capacità sia pervenuto sino ai secoli dell'alto Medioevo. Una parte della storiografia ritenne che in Occidente si succedessero più secoli «senza artiglieria», ma si è in seguito osservato che gli intervalli fra una guerra e l'altra non furono in realtà così lunghi da provocare una completa dimenticanza delle tecniche d'assedio tardo-antiche. Le stesse operazioni di cui si ha notizia fra VII e Vili secolo lascerebbero anzi pensare che Ispano-visigoti, Aquitani e Franchi ancora conoscessero le tradizioni poliorcetiche romane. La sicurezza è però difficilmente raggiungibile poiché spesso le scarse fonti di quell'epoca si limitano a dare notizia di assedi senza fornire alcun particolare; accennano a «piogge di pietre» senza menzionare i mezzi con i quali esse vengono scagliate, parlano genericamente di «macchine» senza indicarne la natura. Qualche elemento in più lo fornisce solo Gregorio di Tours in occasione dell'assedio di Comminges, nell'alta Garonna, avvenuto nel 585. Per distruggere la città il duca Leudegiselo prepara «nuove macchine»: carri con arieti coperti di grate e di tavole, al di sotto delle quali l'esercito possa avvicinarsi per sfondare i muri. La stessa designazione degli arieti su ruote come «nuove macchine» fa pensare alla ripresa - forse attraverso «consigli» scritti - di tecniche ormai generalmente desuete. Anche i difensori, tuttavia, sono in grado di rispondere con il lancio di pietre e di botti incendiarie confezionate con pece e con grasso. Secondo Paolo Diacono nel 603 il re longobardo Agilulfo avrebbe espugnato Mantova dopo averne «abbattuto le mura con gli arieti»; «arieti e diverse macchine da guerra» sarebbero poi stati impiegati da Rotari per impadronirsi «senza alcuna difficoltà» di Bergamo, ma non vengono forniti altri particolari. La sofisticata tecnologia delle macchine da getto, derivata dalle esperienze di età antica, che i barbari non furono mai in grado di utilizzare, doveva già essere caduta in desuetudine nel corso del VI secolo poiché, dopo la guerra greco-gotica, non si ha più alcuna notizia dell'«onagro»; ma non tutto è così chiaro ed esiste pur sempre la
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possibilità che le tecniche romane non siano mai state completamente dimenticate. In ogni caso, proprio intorno al VI secolo, si vennero affermando nell'area mediterranea macchine del tutto nuove con funzionamento a bilanciere che, rispetto alle artiglierie antiche, non solo si presentavano più semplici da costruire e da mantenere, ma avevano anche una potenza considerevolmente maggiore. Esse sono per la prima volta attestate nella raccolta dei miracoli di san Demetrio che descrive l'assedio posto a Tessalonica dagli Avaro-slavi nel 597: i barbari, rivestiti di ferro, dispongono di un impressionante parco di macchine fra le quali spiccano certi «petroboli» (lanciatori di pietre) che superano l'altezza delle mura. Essi sono costituiti da un affusto quadrangolare sul quale sta in bilico una grande trave che reca, da un lato, la sacca di una fionda destinata ad accogliere il proiettile, e dall'altro i cavi per la trazione manuale; quando questi vengono azionati, enormi blocchi di pietra volano per l'aria con spaventoso rumore, e da essi la città si salva solo grazie alla protezione del santo patrono. Sorprende che gli Avaro-slavi fossero in grado di costruire e di utilizzare simili apparecchi e si pensa che essi ne siano venuti a conoscenza attraverso istruttori bizantini. Alcuni cronisti ricordano, infatti, che nel 579 durante l'assedio di Appiana, sul Danubio, un soldato trace di nome Busa, catturato dagli Avari, per salvarsi la vita avrebbe insegnato loro il modo di costruire macchine d'assedio che essi ancora ignoravano. I diversi autori parlano, in verità, di «elepoli» o di arieti e non di macchine da lancio; anche qui dunque non tutto è chiaro. Il mangano «a trazione», descritto nei miracoli di san Demetrio è nondimeno già menzionato nelle fonti arabe all'epoca del profeta Maometto (571-632 d.C), mentre dal VII secolo in poi fanno la loro comparsa nei documenti bizantini i temini manganon e petraria, entrambi sconosciuti nell'antichità. Sapendo che le artiglierie a bilanciere erano operanti in Cina molti secoli prima, si può così ipotizzare un itinerario di penetrazione di tale mezzo da lancio che dall'estremo Oriente, attraverso il mondo arabo, approdò all'area mediterranea orientale; di là solo in un secondo momento raggiungerà la Francia, allora centro politico, culturale e militare del mondo occidentale. Rimane dubbio - come si è detto - se prima di allora i Franchi avessero continuato a conoscere il funzionamento delle macchine
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a torsione dell'età tardo-antica o se avessero recuperato procedimenti ormai dimenticati attraverso la lettura di trattatisti come Vitruvio, Vegezio o l'anonimo autore del De rebus bellicis, fatto che, per quanto in teoria possibile, appare nondimeno assai difficile da realizzare. Certo in ambito franco non si ha notizia né di mangani né di petrarie prima del IX secolo inoltrato, né i due termini viaggiano insieme. La precedenza sembra spettare alla petraria citata come vettore di proiettili incendiari in un codice della Mappae clavicula che venne forse trascritto nei primi decenni del IX secolo a Saint-Armand presso Tours. Gli Annales Laurissenses, redatti intorno all'830, narrano poi, sotto l'anno 776, l'assedio di Syburg da parte dei Sassoni ben dotati di petrarie, per quanto quei barbari si mostrino incapaci di impiegarle in modo corretto. L'attendibilità dell'episodio è peraltro discussa potendo trattarsi di un'interpolazione alquanto posteriore. All'incirca nello stesso tempo ecco comparire nelle fonti narrative franche anche il mangano. L'anonima vita di Ludovico il Pio, scritta verso l'850, ci presenta il protagonista nell'atto di assediare Tortosa mediante mangani e altre macchine di tradizione antica; il monaco di Saint-Germain Abbone, autore nell'890 circa di un poema sulla difesa di Parigi assediata pochi anni prima (885886) dai Normanni, ci fornisce addirittura una rapida descrizione della macchina da lancio «volgarmente chiamata mangano». Se la denominazione era già allora considerata popolare non poteva trattarsi di un calco libresco, possibile invece per le altre macchine insieme menzionate. La cronaca di Reginone di Prum sotto l'anno 873 ci mostra infine Carlo il Calvo assediare Angers occupata dai Normanni servendosi di «nuovi e raffinati macchinari»; di essi in verità non viene dichiarata la natura, ma potrebbe appunto trattarsi di macchine da lancio a bilanciere. La presenza del mangano è del resto attestata anche da una fonte iconografica sinora non sufficientemente valorizzata: una miniatura del Libro dei Maccabei, databile al 925 circa, rappresenta appunto, fra le torri di una città assediata, l'inconfondibile sagoma di un mangano a trazione. Si ha pertanto conferma che le artiglierie di nuova concezione erano presenti in Francia negli anni in cui l'impero carolingio era ormai in crisi, mentre non è del tutto sicuro che di esse avessero già potuto servirsi gli eserciti del tempo di Carlo Magno.
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Altrettanto incerto rimane, per ora, se i Franchi siano venuti a conoscenza di mangano e petraria mediante i contatti diretti che essi ebbero con gli Arabi nella penisola iberica, oppure attraverso l'Italia per il tramite bizantino e longobardo. In favore di quest'ultima ipotesi vi è il fatto che il termine petraria risulta usato una prima e unica volta nella Storia dei Longobardi di Paolo Diacono. Egli scrisse, è vero, la sua opera negli ultimi decenni dell'VIII secolo, ma in essa, parlando dell'assedio di Benevento da parte dell'imperatore bizantino Costante, avvenuto nell'anno 663, si narra che costui - fatto decapitare il precettore di re Grimoaldo - ne lanciò la testa in città «con una macchina da guerra che chiamano petraria». Questa parola è da interpretare come un «neologismo tecnico» poiché non compare in nessun altro testo latino anteriore; se si considera poi che, nel racconto, la macchina risulta impiegata dai Bizantini, petraria potrebbe davvero essere un recente calco dal greco. Va ancora aggiunto, per completezza, che l'episodio di Benevento appare coniato su un altro analogo presente negli Strategemata di Frontino: Domizio Corbulone all'assedio di Tigranocerta lancia in città la testa di un prigioniero mediante una ballista. Il fatto che tale vocabolo sia stato sostituito dal neologismo petraria acquista quindi un non trascurabile valore documentario6. Le fonti narrative a Roma e nell'Italia centromeridionale continuano, nei secoli seguenti, a menzionare la petraria ignorando però il mangano. Va nondimeno tenuto presente che il solo nome non è di per sé sufficiente a testimoniare con certezza l'esistenza dell'oggetto da esso indicato; in mancanza di altri dati più precisi è quindi, per ora, impossibile arrivare a conclusioni definitive sulla natura, sui modi e sui tempi in cui le nuove macchine da lancio furono adottate e, più in generale, sui progressi della tecnologia d'assedio in Occidente, problema sul quale gravano non poche altre incognite. Il già citato poema di Abbone sull'assedio di Parigi ha indotto più di uno a constatare, non senza sorpresa, che le tecniche di attacco e di difesa di una fortificazione apparirebbero già allora molto progredite. Circa un secolo dopo l'opera di un altro francese, le Storie di Richero, descrivono nei particolari torri mobili e arieti dando da intendere che essi erano al suo tempo di impiego corrente. Oltre che, come si è visto, del mangano, Abbone parla dell'uso di dardi avvelenati, di proiettili lanciati con fionde e baliste, di
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mura attaccate alla base mediante macchine chiamate musculi, di fuoco liquido composto di cera, olio e pece, di grandi frecce capaci di trafiggere d'un colpo più nemici; il cielo di Parigi appare attraversato da proiettili di pietra e di piombo lanciati da catapultae e ballistae «nervis iaculata», azionate cioè mediante meccanismi a torsione; si accenna a protezioni per tre o quattro uomini che «la penna latina chiama plutei e crates», cioè specie di mantelletti; si parla, infine, di testudines formate di scudi e di arieti su ruote. Si tratta di un armamentario di vocaboli e di procedimenti che si richiamano evidentemente alla trattatistica antica: a Vitruvio e a Vegezio, innanzitutto, ma anche ai racconti di Cesare, senza che sia però possibile indicare un'unica, precisa fonte. Abbone potrebbe quindi aver avuto a disposizione una di quelle raccolte sul genere della Mappae clavicula dove, insieme con «ricette» per comporre colori e per fondere metalli, si trovano indicazioni di «balistica incendiaria», consigli per l'avvelenamento di frecce e per la costruzione di arieti su ruote. Si ha, in conclusione, più di una ragione per sospettare che il poema di Abbone contenga elementi libreschi ai quali, del resto, l'autore stesso sembra alludere quando parla di una «penna latina» dalla quale ha desunto la sua nomenclatura. «Quanto più ci si familiarizza con gli scritti degli antichi - è stato giustamente osservato - tanto più ci si accorge che molte descrizioni degli storici medievali sono semplici riprese degli autori precedenti, che con la verità del fatto realmente accaduto hanno poco o niente a che fare». Ciò non esclude che tale tendenza «di tipo umanistico» a richiamarsi a modelli antichi abbia talora contribuito alla rinascita di certe tecniche attraverso un consapevole collegamento con il passato. Simile è il caso di Richero la cui opera, giuntaci nel manoscritto originale, non è sospettabile di interpolazioni. Egli, verso la fine del X secolo, descrive con una certa ampiezza un ariete su ruote con il quale, nel 938, il re di Francia Ludovico IV avrebbe demolito le mura di Laon costringendo la città alla resa, e parla di uno strumento dello stesso genere risultato invece inefficace nel 988 quando Ugo Capeto tentò di rioccupare la medesima città. Più complesso e macchinoso il funzionamento di una torre mobile, fatta costruire nel 985 da re Lotario contro Verdun, alla quale gli avversari contrappongono una macchina simile, pur essendo alla fine costretti ad arrendersi.
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Neppure delle descrizioni di Richero è possibile indicare una matrice precisa, ma anch'esse risultano ispirate alla trattatistica tecnica del genere vitruviano. Potrebbe trattarsi, in specie, di excerpta di una traduzione latina di Apollodoro di Damasco, con il quale si notano indubbie somiglianze. Il fatto stesso che non si nominino mai i costruttori delle macchine, personaggi chiave in tali situazioni, rafforza l'impressione che si tratti di dati desunti da un'opera tecnica. Né ciò stupisce dal momento che in altri punti del suo lavoro Richero (allievo, ricordiamo, del grande Gerberto di Aurillac, di cui condivide gli interessi scientifici) si compiace di digressioni mediche anch'esse verisimilmente tratte da antichi testi mentre, per la narrazione di battaglie e per altri particolari di interesse militare, attinge volentieri al Bellum lugurthinum di Sallustio. Del resto, di fronte alla normale laconicità delle fonti coeve sugli aspetti tecnici, la precoce e inusuale loquacità di Abbone e di Richero riesce di per sé sospetta. Tali autori andranno perciò interpretati non come specchio di una realtà effettiva, ma come testimonianza di un'aspirazione, che era ai loro tempi in atto, verso il recupero della tecnologia antica di cui si vedranno a non lunga scadenza i frutti. Si dovrà partire dall'ipotesi che nei secoli IX e X, quando non si trattava di attaccare fortificazioni ereditate dall'età tardo antica, tanto le difese quanto le concezioni difensive erano elementari e risultavano efficaci solo per l'insufficienza dei mezzi d'attacco. L'azione si sviluppava mediante assalti frontali, incendi, iniziative individuali basate sulla sorpresa e, soprattutto attraverso il blocco statico che era la tecnica più correntemente adottata dall'assediante. I cronisti dell'Italia meridionale riferiscono, infatti, molti casi di assedi condotti senza l'impiego di particolari strumenti, e soltanto nell'821 mostrano Napoli duramente attaccata con «iaculis et scorpionibus»; arieti e altre generiche macchine vengono poi messe in campo nell'887 contro l'anfiteatro di Capua. I dati successivamente forniti dal Chronicon Salernitanum (redatto nel X secolo) documentano però che da tempo in Campania venivano impiegate petrarie (insieme, anche qui, con più generiche «macchine») da parte sia dei Bizantini, che nell'861 avevano assediato Avellino e Capua, sia dei Saraceni che assalgono Salerno nell'871. Le ripetute campagne intraprese da Ludovico II in quelle regioni
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lo videro impegnato in numerose, anche se non sempre fortunate operazioni di assedio, specialmente contro Bari. Le esperienze di guerra compiute nell'Italia del Sud, che coinvolsero dunque eserciti di diversa provenienza e capacità tecnica, poterono avere non poco peso nello stabilire la tradizione di tecnologia ossidionale che sembra sottintesa nelle numerose notizie date dal cronista salernitano. Esse avrebbero costituito, nel secolo successivo, un terreno di coltura favorevole per i futuri sviluppi della poliorcetica normanna7. Sarà infatti la seconda metà dell'XI secolo a rivelare progressi significativi, consistenti essenzialmente nel recupero di procedimenti già in uso nell'antichità greco-romana, sia attraverso i contatti degli occidentali con le civiltà araba e bizantina, che avevano conservato memoria diretta di quelle pratiche, sia riscoprendo e interpretando autonomamente la trattatistica antica. I progressi si manifestano, forse non a caso, lungo la linea di contatto fra la cristianità e il mondo islamico, dalla penisola iberica alla Sicilia, da un lato, e con il mondo bizantino dall'altro, includendo i mari interposti. Alcuni importanti assedi ebbero luogo in Catalogna e fra essi vi fu nel 1064 quello di Barbastro; benché la scarsità delle informazioni disponibili non permetta in concreto di dire quale contributo esso abbia apportato allo sviluppo della poliorcetica, sta però di fatto che, in anni di poco successivi, gli Usatges catalani proibiscono di assediare fortezze servendosi di ingenia «che i rustici chiamano fundibula, gossa e gatta», ossia - si dovrà intendere - di macchine da lancio, per scalzare le mura e per accostarsi ad esse al coperto. Tecniche simili, assai probabilmente, erano note nel medesimo periodo anche agli Arabi, che nella penisola iberica si contrapponevano all'iniziativa militare cristiana, e ai marinai di Pisa e di Genova che, sin dall'inizio dell'XI secolo, avevano condotto spedizioni navali contro le basi islamiche nelle grandi isole del Mediterraneo occidentale e in Nord Africa. Le celebrazioni poetiche ed epigrafiche di quelle gesta, in verità, poco ci dicono sugli aspetti concreti delle tecniche utilizzate, mentre migliori possibilità offrono le fonti disponibili per l'Italia meridionale e per la Sicilia dove, nella seconda metà del secolo, operano con successo i guerrieri venuti dalla Normandia. La tecnica d'assedio da costoro praticata nei primi decenni era prevalentemente statica e tendeva a indurre l'avversario a cedere so-
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prattutto per fame; fra 1053 e 1098 essi si mostrano nondimeno in grado di minacciare i luoghi fortificati mediante l'esibizione di machinamenta appositamente «preparati per prendere le città»; la loro natura .non viene precisata, ma l'effetto psicologico è così grande da indurre talora gli assediati alla resa a prima vista. Tali macchinari saranno da identificare con le scale «artificiosissime» impiegate nel 1071 nella presa di Palermo e con le torri su ruote, munite di arieti e di ponti d'assalto, poi utilizzate da Roberto il Guiscardo nel 1068 all'assedio di Bari e, vent'anni dopo, in quello di Durazzo, operazioni nelle quali egli fu in grado di impressionare e mettere in difficoltà tanto gli Arabi quanto i Bizantini. I Normanni avevano sin d'allora assimilato integralmente la tecnologia d'assedio dell'età ellenistica, con tutta probabilità attraverso codici come quello dell'XI secolo oggi conservato in Vaticano e verisimilmente proveniente dalla biblioteca dei re normanni: esso contiene una silloge di poliorcetica che va sotto il nome di Erone di Bisanzio, vero e proprio manuale corredato da illustrazioni sufficienti per consentire la riproduzione pratica dei meccanismi descritti. Attraverso il raccordo sempre attivo fra i Normanni d'Italia e di Normandia, i progressi avvenuti in Puglia e in Sicilia si estesero ben presto dalle rive del Mediterraneo centrale alle sponde atlantiche: nel 1066 Guglielmo il Conquistatore impiega infatti, nell'assedio di Londra, grandi macchine per abbattere e scalzare le mura; Exeter viene indotta alla resa da attacchi condotti per più giorni, con gli stessi mezzi, sull'alto delle mura e dal sottosuolo. Boemondo di Altavilla, qualche decennio dopo, certo si giovò in Palestina delle esperienze fatte nell'Italia meridionale per affrontare con successo, accanto ad altri guerrieri occidentali, i grandi assedi che segnarono l'intero corso della prima crociata da Nicea a Gerusalemme: là dunque confluirono le conoscenze poliorcetiche messe a punto durante le «precrociate» europee dai Normanni, dalle città marinare italiane e dai reduci degli assedi catalani. Con il ritorno dei crociati in Europa le innovazioni tecniche, arricchite dalle esperienze di Terrasanta, rifluirono poi in Occidente, e se ne videro risultati significativi, per esempio, nell'investimento di Durazzo da parte di Boemondo nell'ottobre del 1107, nelle operazioni condotte dai Pisani alle Baleari nel 1114, dai Milanesi a Como nel 1126, dai crociati anglonormanni a Lisbona nel
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1146 e, infine, nei numerosi assedi che ebbero luogo, dopo la metà del XII secolo, nell'Italia padana nelle lotte tra Federico I e i comuni italiani e nella Francia di Filippo Augusto. È questo, si può dire, il momento più alto raggiunto nel recupero della poliorcetica antica: arieti, «gatti» e gigantesche torri mobili sono ormai presenti in ogni grande assedio dell'Occidente, appoggiati dal tiro delle macchine da lancio secondo precisi schemi tattici, messi a punto da Pisani e Genovesi sulle coste del Mediterraneo orientale subito dopo la prima crociata, e che ritroviamo negli assedi di Maiorca e poi di Como: una o più coppie di torri mobili, alle quali viene interposto un «gatto», protette dal tiro incessante delle macchine da lancio, attaccano le fortificazioni mentre i tiratori appostati sulle torri mobili non danno tregua ai difensori costretti così in breve ad arrendersi. E se i nomi delle macchine da lancio sono ancora gli stessi che già circolavano in età carolingia, lo stupore dei cronisti davanti alle loro prestazioni sottintende progressi di cui non è possibile stabilire la natura, ma che devono averle migliorate di molto: nel 1159 i mangani eremaschi, secondo Ottone Morena, lanciano pietre grandissime «tali che si crederebbe impossibile se non fossero state viste con gli occhi». Se ci lasciamo guidare dalle innovazioni lessicali (che sono del resto l'unica possibilità di cogliere un rinnovamento tecnologico), progressi decisivi dovrebbero essere intervenuti tra il sesto e l'ottavo decennio del XII secolo allorché, accanto al mangano e alla petraria, compare nell'Europa mediterranea il «trabucco», cioè la macchina da getto a bilanciere, munita di contrappeso, che conferiva nuove possibilità al vecchio mangano e apriva prospettive di ulteriori perfezionamenti. La prima menzione del trabucco a contrappeso comparirebbe in area bizantina nel 1165, ma nel 1189 già si trova in Italia settentrionale la forma diminutiva: in quell'anno, infatti, gli uomini di Solagna giurano fedeltà al comune di Vicenza impegnandosi a non tirare in città «nec cum mangano, nec trabuchello, aut cum prederia». Il nuovo mezzo doveva dunque essere già presente da tempo, avanguardia di una diffusione che nei primi decenni del Duecento si estendeva ormai a tutta l'Europa. Dovette aprirsi, così, un periodo di intensa ricerca volta a migliorare ulteriormente l'efficacia del mezzo i cui risultati si colgo-
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no, anche qui, innanzitutto attraverso la comparsa di nuovi elementi lessicali: l'opera di Egidio Romano, scritta nell'ottavo decennio del Duecento, menziona infatti quattro tipi di macchine da lancio, indicandone anche brevemente il funzionamento: accanto al semplice trabucco, dotato di contrappeso fìsso, esiste ormai la biffa (detta anche blida, biblia, briccola) munita di contrappeso mobile, il tripantum (o tripontum) che possiede l'uno e l'altro, mentre una quarta macchina senza contrappeso sarà da identificare con il vecchio mangano a trazione manuale rimasto in uso accanto ai nuovi tipi, ciascuno dotato di caratteristiche balistiche proprie. Se i progressi nel campo delle macchine da lancio continuarono, non così sembra si possa dire per le altre tecniche di assedio. La superiorità degli attaccanti aveva permesso nel 1160 a Federico I di trionfare a Crema, ma egli fallisce nel 1174 contro Alessandria: questa città, fondata da pochi anni, è priva di mura e affida la sua difesa a forti spalti di terra battuta e a un ampio fossato: anche qui, come a Crema, l'assedio si svolge per buona parte nella stagione invernale e gli strumenti impiegati sono gli stessi, se non che i risultati ottenuti risultano molto diversi. Le due parti, in sostanza, finiscono tecnicamente per equivalersi lasciando dunque pensare che lo scompenso in favore dell'attaccante - provocato, verso la metà del XII secolo, dall'arrivo delle nuove tecnologie - al tempo dell'assedio di Alessandria fosse già stato recuperato e fosse subentrata fra attacco e difesa una nuova posizione di stallo. Nel Duecento gli sfoggi di tecnologia non trovano più alcun cronista disposto a stupirsi, segno evidente che la diffusione di certe innovazioni è ormai un fatto acquisito e la costruzione di efficaci macchine da lancio e di avvicinamento, insieme con l'uso del fuoco e delle gallerie di mina, sono divenute pratiche correnti. Si spiegano così anche i numerosi insuccessi di assedi che si verificano nel corso di quel secolo, dalla crociata antialbigese nel Sud della Francia a quelli di Federico II contro le città italiane. Per dare una nuova fondamentale scossa ai procedimenti poliorcetici occorrerà ormai attendere l'avvento delle armi da fuoco8.
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3. «Mirandi artifices»: gli ingegneri militari Nel mondo greco sin dal IV secolo a.C. la poliorcetica «si era ormai meccanizzata a tal punto che il successo sembrava toccare a chi si assicurava il servizio degli specialisti più numerosi e qualificati nella costruzione dei macchinari d'assedio». L'importanza allora assunta dai detentori del sapere tecnico, rimasta in parte viva anche nell'alto Medioevo, tornò a crescere, insieme con il progressivo recupero dei procedimenti poliorcetici antichi, sino a toccare il culmine nel corso dei secoli XII e XIII. Chi erano coloro che per tanto tempo ebbero nelle mani le sorti delle guerre? La risposta non è facile poiché essi poco scrissero di se stessi e gli storici raramente li tengono in conto, e non tanto per riconoscerne i meriti, quanto per deplorarne la doppiezza e l'inaffidabilità, come si è visto per Busa, accusato di aver insegnato agli Avari il modo di costruire le macchine d'assedio impiegate contro Tessalonica. Si trattava, in generale, di artigiani, fabbri e carpentieri, in possesso di un sapere empirico acquisito attraverso la pratica e trasmesso quasi esclusivamente per via orale, di padre in figlio o da maestro ad apprendista. Al vertice della gerarchia stava ^architetto» (detto poi «ingegnere») il quale, condividendo l'esperienza dei suoi subordinati, era in grado di organizzare e dirigere il complesso dei lavori d'assedio. Le fonti solo occasionalmente lasciano intravedere la loro figura, per lo più sotto forma di uomini itineranti disposti, per necessità o per desiderio di lucro, a mettere le proprie nozioni di tecnologia militare a disposizione di un committente interessato a servirsene. Vitruvio - uno dei pochi «architetti» che, in età romana, abbia affidato il suo sapere allo scritto - dopo aver esposto il modo di costruire le macchine da guerra, si compiace di ricordare famosi assedi del passato nei quali l'opera degli «architetti» aveva consentito di raggiungere il successo. La raccolta di esempi ha probabilmente un'intenzione apologetica, quasi una «rivincita dell'architetto» nei confronti degli storici i quali citano talora nomi di semplici soldati protagonisti di combattimenti omettendo invece quelli di uomini che, con la loro opera, hanno contribuito alla vittoria in modo ben più concreto. Nella mentalità corrente la partecipazione degli «architetti» o «ingegneri» alla guerra non era sufficiente a farne dei veri guerrieri né, d'altra parte, l'impegno in
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problemi puramente tecnici bastava per meritarsi un prestigio intellettuale; essi, in breve, pur essendo apprezzati per le proprie capacità pratiche, non potevano essere messi sullo stesso piano né dei combattenti né dei «sapienti». Si tratta di una sottovalutazione del sapere tecnico che trascorre, senza interruzione, dall'antichità all'età medievale quasi fosse un impulso antropologico insopprimibile dell'uomo occidentale. A maggior ragione i tecnici vengono trascurati dalla letteratura epica concepita a esaltazione dell'eroe e delle sue capacità di colpire direttamente l'avversario; solo incidentalmente, quindi, è possibile cogliere la presenza degli «ingegneri» nel bel mezzo di un'azione di guerra. Nel gennaio dell'886, mentre Parigi è assediata dai Normanni - racconta Abbone - costoro erano intenti a costruire una complessa macchina d'assalto su ruote quando un proiettile lanciato dai difensori colpì a morte i due artifices o magistri che sovrintendevano ai lavori: «Essi furono così i primi - osserva compiaciuto il poeta - a subire il trapasso che stavano preparando per noi». Nulla viene detto sull'abilità né sulla provenienza dei due, la cui importanza è però indirettamente provata dal fatto che, scomparsi loro, la macchina non potè più essere completata. Decisamente eccezionale, per l'epoca, è la figura del «maestro» messa in scena nel X secolo dall'anonimo autore del Chronicon Salernitanum. Intorno al 946 il principe Gisolfo assediava il ribelle castello di Aquino, ma pur giovandosi - dice il cronista - di «diverse macchine», non riusciva ad averne ragione. Fu allora che si presentò a lui Sichelmanno, «uomo valido nel lavorare il legname», originario dell'alpestre luogo di Acerno: «Mio principe, vuoi che prendiamo questo castello?» egli propose confidenzialmente a Gisolfo, e rapidamente realizzò «una macchina che noi chiamiamo petraria, di mirabile grandezza» in grado di «danneggiare fortemente le mura» e di indurre infine i ribelli a cedere. Il principe Gisolfo già aveva a disposizione «diverse macchine», ma la loro efficacia era evidentemente modesta; solo la personale abilità di Sichelmanno riesce a rendere la sua petraria migliore delle altre: un semplice artigiano - viene da domandarsi come aveva acquisito tanta abilità nel fabbricare «mirabili strumenti di guerra»? Nessuna spiegazione viene fornita; è però notevole che la vicenda sia stata tramandata insieme con il nome del protagonista: Sichelmanno diventa così l'antesignano di tutta una
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serie di personaggi presenti nelle storie dei secoli successivi, il cui prototipo andrà forse ricercato negli «architetti» dell'antichità ricordati da Vitruvio. Può non essere casuale che, un secolo dopo, altre notizie sull'esistenza e sull'attività di uomini esperti nella costruzione di macchine d'assedio provengano ancora dall'Italia meridionale. Nel 1042 il barese Argiro, imbevuto di cultura bizantina, allestisce o fa allestire a Trani una torre d'assedio giudicata dai cronisti «mai vista da occhi umani in tempi moderni», espressione che rivela a un tempo la rarità dell'oggetto e il suo recupero dal passato. Negli anni immediatamente successivi l'espansione normanna in Puglia fu accompagnata dall'attività di «artefici dottissimi» che conoscevano machìnamenta in grado di «abbattere mura e torri». Non si specifica, nemmeno qui, né la provenienza delle persone né la natura delle macchine costruite, ma è assai ragionevole credere che sia Argiro sia i «dottissimi artefici» al servizio dei Normanni avessero attinto le loro conoscenze alla tradizione dell'antica trattatistica greca. Nello stesso periodo sviluppi analoghi si scorgono nella penisola iberica: nel 1058 il conte di Barcellona Raimondo Berengario ha ai suoi ordini un «Adalbertus ingeniator» in grado di costruire macchine d'assedio, al quale viene imposto di giurare il segreto sulle tecniche a lui note. Altri ingegneri militari accompagnano l'esercito catalano attivo contro Saragozza e, nello stesso anno, si parla del «donum de ingeniatores» con il quale i vassalli del conte dovevano contribuire alle ingenti spese richieste da quello sforzo economico non indifferente. La precoce menzione di ingeniatores (termine che compare ora per la prima volta nelle fonti europee occidentali) implica evidentemente una ricerca in atto anche se mancano esplicite indicazioni sui risultati conseguiti. Qualcosa di più dice il carme pisano che celebra la vittoria della spedizione contro Madia (una base araba dell'Africa settentrionale) avvenuta nel 1084. Prima di dirigersi contro di essa Pisani, Romani, Genovesi e Amalfitani, che costituivano il grosso del contingente, attaccarono e conquistarono il munitissimo castello di Pantelleria, contro il quale - dice il poeta - certi «mirandi artifices» costruirono alte torri di legno che consentirono un successo ritenuto impossibile. Fra gli «artefici» che realizzarono la memoranda impresa è possibile che vi fosse anche il grande Bu-
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scheto, costruttore del duomo di Pisa, il cui epitaffio, insieme con l'abilità e i meriti artistici, celebra una sfida da lui vinta contro un nemico, del quale non si dichiara la natura, e che potrebbe ben essere un nemico reale anziché simbolico9. Dall'Italia meridionale, come si è visto, le innovazioni tecnologiche raggiunsero rapidamente la Normandia. Proprio là, all'assedio di Bréval, nella Quaresima del 1094, fa la sua comparsa un «ingegnosissimo artefice» che costruisce per Roberto di Bellème le macchine da impiegare contro la fortezza nemica: si tratta di una torre mobile su ruote e di un ordigno capace di lanciare «ingenti sassi»; lo stesso «artefice» consiglia inoltre agli attaccanti il modo di distruggere il vallo e le siepi difensive, e abbatte «i tetti delle case provocando agli abitanti così gravi disgrazie da indurli alla resa»: era evidentemente un uomo esperto in ogni campo della tecnologia d'assedio. La sua «ingegnosa sagacia» - dice Orderico Vitale - giovò in seguito ai cristiani nella conquista di Gerusalemme; proprio in Terrasanta le cronache tornano a mostrarci all'opera figure di «ingegneri» portatori di raffinate nozioni tecniche, e li ritroveremo in seguito sempre più spesso presenti sui principali teatri di operazioni d'Europa e del vicino Oriente. I crociati il 14 maggio 1097 avevano cinto d'assedio Nicea e da settimane - racconta Alberto di Aquisgrana - si stavano inutilmente accanendo contro le sue formidabili mura, allorché si presentò ai capi dell'esercito cristiano «un tale di nazione longobardo, maestro e inventore di grandi arti e opere». «Vedo - egli disse - che le macchine da voi allestite si affaticano invano, molti dei vostri cadono sotto le mura e anche altri corrono grave pericolo»: nessuno strumento, infatti, riusciva a intaccare le fortificazioni della città «fondate dall'astuzia degli antichi». Se si vorrà dare ascolto ai suoi consigli - proseguì il «Longobardo» - fornire i mezzi necessari e promettere un premio adeguato, egli si dichiarava in grado di abbattere la torre sottoposta sino allora a inutili sforzi. Ottenuto quanto richiedeva, il «maestro d'arte», senza perdere tempo, «connette parti inclinate e adatta graticci di verghe» dando così forma a un «mirabile strumento» in grado di resistere alle frecce, al fuoco e alle pietre lanciate dai difensori turchi; sotto tale protezione si adopera «con i rimanenti suoi operai» a minare le fondamenta della torre sinché, incendiati i sostegni di legno predisposti, essa precipita nella notte con rumore di tuono.
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Quel risultato non fu di per sé sufficiente a provocare subito la caduta della città, ma giovò intanto a rinsaldare il morale dell'intera spedizione e quindi al conseguimento del successo finale. Si trattava verisimilmente di un «Longobardo» venuto dalla «Longobardia minor» al seguito di Boemondo di Altavilla, cioè dall'Italia meridionale dove, come si è visto, la frenetica attività bellica indotta dalle conquiste normanne aveva dato luogo, per un cinquantennio, a innumerevoli episodi di attacco e difesa di piazzeforti in un ambiente soggetto a non mai spente suggestioni culturali bizantine. Il «maestro d'arte» accompagnato, a quanto pare, da un gruppo di aiutanti, si trovava là con il preciso intento di offrire i suoi servizi dietro compenso. L'apparecchiatura da lui realizzata ricorda poi, molto da vicino, la «testuggine da minatore», in grado appunto di «far scivolare tutti i proiettili diretti contro di essa», illustrata nei Poliorketika di Apollodoro di Damasco, che evidentemente il «Longobardo» doveva conoscere10. Quando i crociati, nel luglio del 1099, giunsero sotto le mura di Gerusalemme, i capi studiarono la possibilità di ingeniare la città cioè, si deve intendere, di attaccarla per mezzo delle macchine, ma, a quanto pare, i «maestri» colsero l'occasione per approfittare in modo poco nobile delle proprie competenze: si lavorò alacremente per trasportare, anche da molto lontano, il legname necessario e tutti prestarono la loro opera spontaneamente e gratuitamente «eccetto gli artefici che si fanno invece pagare». Non viene detto espressamente di chi si tratta, ma sembra si intenda alludere ai carpentieri della flotta genovese menzionati infatti poco dopo. Più onesto si mostrò l'«ingegnere» di origine orientale protagonista nel 1124 dell'assedio di Tiro. I crociati veneziani erano duramente bersagliati dalle macchine da lancio dei difensori e nell'esercito cristiano non vi era nessuno che avesse sufficiente esperienza per dirigere il tiro; ci si risolse allora a richiedere la collaborazione di «un tale di Antiochia di nazione armeno e di nome Havedic, che si diceva in ciò espertissimo». Egli senz'altro accettò di sovrintendere alle macchine cristiane e ci riuscì così bene che i loro proiettili raggiungevano senza difficoltà qualunque bersaglio venisse indicato. Fu subito stabilito di retribuire pubblicamente Havedic con un congruo compenso in modo che potesse presentarsi decorosamente, e d'allora in poi egli si applicò con tanta diligenza e sapienza che non solo l'assedio prò-
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seguì, ma dopo il suo arrivo i danni inferti al nemico furono raddoppiati. L'episodio (che rivela implicitamente la scarsa preparazione tecnica dei Veneziani) ci mostra un «ingegnere» famoso e, ciò nonostante, diligentissimo esecutore, ben degno di essere ricordato per nome. I «sapienti artefici» costruttori di macchine d'assedio ebbero un ruolo di grande importanza durante la spedizione pisana del 1114 contro le Baleari. Il poeta che narra l'impresa nel Libro di Maiorca ci presenta il tecnico Oriciade sotto le mura di Ibiza mentre «erge ad occidente una mirabile macchina per assalire lungo tratto delle robuste mura», e poco dopo ci fa sapere che «la testuggine costruita dall'abile Oriciade» aveva già aperto nel muro più di una breccia. In seguito il popolo pisano «si affatica per trasportare sopra le alte mura della città il castello di legno che Domenico apparecchiò con ingegnosa cura»: qui dunque, di nuovo, i nomi di due tecnici vengono accomunati a quelli (certo molto più numerosi) dei combattenti che contribuirono alla riuscita dell'impresa11. Proprio grazie ad essa il prestigio tecnologico riconosciuto alle città marinare dell'alto Tirreno dovette ricevere ulteriore impulso. Negli anni tra il 1115 e il 1125 l'arcivescovo di Compostella si rivolse infatti a Genova e a Pisa per avere uomini esperti nell'allestimento di navi da guerra: il genovese Augerius, «peritissimo costruttore di navi» e un giovane pisano «espertissimo nell'arte nautica» risposero all'appello realizzando vascelli che consentirono vittoriose spedizioni contro i pirati saraceni. E, per quanto non venga espressamente detto, è verisimile credere che i due abbiano prestato la loro opera anche nelle operazioni d'assedio, altrettanto vittoriose, intraprese in quegli anni dal bellicoso arcivescovo. Anche i Milanesi, quando nel 1127 decisero di porre fine alla ormai decennale guerra contro Como, cercarono proprio a Genova e a Pisa gli uomini capaci di costruire le macchine necessarie all'espugnazione della città nemica: «Ritornano prontamente - scrive l'anonimo poeta - alla ventosa Genova, città molto ingegnosa, e ricercano per nome noti artefici preparati nell'arte di fabbricare castelli di legno e adatte baliste. Noti artieri, abili tanto da sapere debellare duramente gli spietati nemici. Tornano pure a Pisa, del pari molto ingegnosa, e vi assoldano parecchi esperti di quest'arte, mastri dotti nello scalzare le mura». Vent'anni dopo i
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crociati anglonormanni impegnati contro Lisbona, si videro messa fuori combattimento la loro torre d'assalto insieme con l'ingegnere che la dirigeva; come per caso apparve allora sulla scena un Pisano qualificato come «uomo di grande industriosità» che in breve allestì una «torre lignea di mirabile altezza» e la guidò con successo alla conquista della città. Sempre nel 1146 tecnici genovesi fornirono la loro fondamentale opera nell'espugnazione di Almeria e di Tortosa. Esisteva, dunque, un vero e proprio mercato di tecnologia militare che dalle città marinare italiane dell'alto Tirreno raggiungeva da un lato le sponde atlantiche e dall'altro l'entroterra padano. Nella seconda metà del XII secolo Pisa e Genova parteciperanno con i loro tecnici alle lotte fra i comuni italiani e Federico Barbarossa; esse rappresentarono in Italia uno dei momenti culminanti nello sviluppo della poliorcetica medievale, che vide applicare nell'Europa continentale le esperienze d'oltremare. Nel 1158 un contingente pisano composto di balestrieri e di «edificatori» (cioè di uomini specializzati nella costruzione di mezzi d'assedio) partecipò al primo blocco di Milano; gli «artefici» genovesi fornirono invece la loro opera nel 1174 nel fallito assedio di Alessandria e assicurarono la collaborazione di artifices e di magistri ai loro alleati a nord dell'Appennino: nel 1173 Genova promette infatti di fornire «due artefici» ai marchesi di Gavi e nel 1181 agli Alessandrini tre mastri di legname e un «ingegnoso artefice»12. È questo il momento in cui i cronisti sono propensi a mitizzare la funzione e l'importanza degli ingegneri militari: dalla loro valentia e dalle loro scelte di campo, come già era avvenuto in età ellenistica, possono addirittura dipendere le sorti di una guerra. A Crema nel 1159 ritroviamo la figura del tecnico giunto da regioni lontane per stupire gli astanti con le sue capacità: Vincenzo da Praga riferisce infatti che «venne all'imperatore un uomo da Gerusalemme, il quale, insieme con i Gerosolimitani, aveva distrutto, mediante i suoi strumenti, molte fortezze dei Saraceni; costui prometteva di fare una torre di legno tale da condurre gli attaccanti in mezzo al castello di Crema». I Cremonesi subito gli fornirono il denaro e i materiali indispensabili per realizzare l'opera che, portata a termine con grande rapidità, ottenne effetti risolutivi. Se a Nicea sessanta anni prima un exploit simile era stato compiuto da un «maestro» proveniente dall'Italia meridionale, Tuo-
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mo attivo a Crema proviene, al contrario, dalla Palestina. Sembra se ne possa concludere che i flussi delle conoscenze tecnologiche procedettero prima da Occidente verso Oriente e poi, arricchiti delle esperienze delle prime crociate, rifluirono in Europa. Anche Crema disponeva però di un suo «maestro assai più ingegnoso di tutti gli altri» di nome Marchese, autore di gran parte delle macchine che servivano alla sua difesa, e poi responsabile della sconfitta perché, allettato dai regali di Federico I, fuggì di notte mettendosi spudoratamente al servizio della parte imperiale. Si è proposto di identificare il costruttore della grande torre mobile che permise l'espugnazione di Crema con l'architetto cremonese Tinto Muso di Gatta sovrintendente, l'anno dopo, alla costruzione delle mura di Lodi. L'identificazione non è sicura, ma certo il 30 dicembre 1159, quando ancora perdurava l'assedio, l'imperatore elevò Tinto alla dignità di conte «per grandi e particolarmente segnalati servizi» non meglio precisati. Si assiste così al massimo riconoscimento ottenuto da un semplice «ingegnere» che, grazie al suo sapere tecnico, viene elevato ai fastigi dell'aristocrazia funzionariale. Gli si avvicina il caso di mastro Guintelmo, il celebrato «ingegnere» che fu al servizio di Milano dal 1156 al 1162, particolarmente abile nell'allestire, oltre che macchine d'assedio, ponti e carri da guerra. Grazie ai meriti conseguiti mediante le sue abilità tecniche, gli vennero affidate delicate funzioni politiche tanto nella buona quanto nella cattiva fortuna: dopo aver dettato le condizioni di resa ai Pavesi, sconfitti a Vigevano nel 1157, l'«ingegnosissimo mastro Guintelmo, nel quale i Milanesi avevano riposto le loro speranze», cinque anni dopo ebbe il triste incarico di consegnare le chiavi della città all'imperatore in segno di resa. Un «ingegnere» giunge ad avere un nome e, probabilmente, un elevato livello sociale anche nella Chevalerie Ogier, famoso poema epico francese del XII secolo: Malrin, costruttore della macchina indispensabile per prendere il castello di Ogier, viene infatti rappresentato nell'atto di rivestire l'usbergo e di allacciarsi l'«elmo brunito», equipaggiamento di solito riservato ai guerrieri di élite. È un altro segno del prestigio che ormai circonda gli «ingegneri», e non è poca cosa che esso provenga da quell'ambiente letterario di solito così sdegnoso nei loro confronti. Ma l'abilità può anche avere delle contropartite inattese e infelici: Lanfredo,
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«lodato sopra tutti gli architetti di Francia del suo tempo» per la capacità di costruire torri imprendibili, secondo una voce raccolta da Orderico Vitale, sarebbe stato ucciso dai suoi stessi committenti perché non fabbricasse simili opere anche a vantaggio di altri signori. Costoro, del resto, compresa l'importanza crescente che la costruzione delle macchine d'assedio aveva assunto nelle azioni di guerra (e quindi, in definitiva, nell'acquisizione e nella conservazione del potere), non tardano a dimostrare nei loro confronti un vivo interesse, non solo assicurandosi i tecnici migliori, ma sostituendosi addirittura ad essi nel progettare ed eseguire le macchine. In Normandia Roberto di Bellème, oltre a circondarsi, come si è visto, di buoni ingegneri, era egli stesso - al dire di Orderico Vitale - «ingegnoso artefice nel costruire edifici e macchine, e in altre difficili opere». Nel 1123 durante l'assedio di Pont Audemer racconta ancora lo stesso autore - Enrico I d'Inghilterra istruisce direttamente i carpentieri intenti alla realizzazione di una torre mobile redarguendoli quando sbagliano e lodandoli quando agiscono rettamente, sinché per suo mezzo costringe il castello alla resa. Nel 1147 Goffredo di Angiò dirige personalmente l'assedio del castello di Montreuil-Bellay mostrandosi perfettamente a suo agio nel maneggiare la carpenteria di guerra. Di Ezzelino da Romano, futuro signore della Marca Trevigiana, si tramanda che nel 1213 all'assedio di Este «benché giovane (ma era ormai sulla ventina) già costruiva macchine per lanciare sassi nella rocca». Federico II vuole conoscere i nomi propri con i quali sono designati mangani e trabucchi, e re Carlo I d'Angiò nel 1269 non disdegna «di dare una mano ai ribaldi nel tirare le corde di un trabucco». Nel 1251 in Siria, durante la crociata di Luigi IX di Francia - scrive Joinville - il suo amico conte d'Eu, uomo «molto sottile», costruì una piccola macchina da lancio [bible] con la quale per gioco prendeva di mira la sua tavola durante i pasti spaccando piatti e bicchieri. Con l'aumento della sua importanza la disprezzata tecnologia sembra così acquisire una patente di nobiltà, ma c'è anche chi vede nel fenomeno un segno di decadenza e di svalutazione degli ideali cavallereschi. Il trovatore Guiot de Provins, vissuto alla corte di Federico I e partecipante alla terza crociata, lamenta, attorno al 1206, la bassa qualità dei principi del suo tempo mentre «ba-
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lestrieri e minatori, tagliapietre e ingegneri saranno d'ora in poi più cari»13. Nel XIII secolo, in coincidenza con la diffusione delle tecniche d'assedio e soprattutto delle macchine da lancio, la menzione di ingegneri militari indicati con il loro nome non è più un'eccezione. Ciò nonostante nel 1216, durante l'assedio di Beaucaire, nella Canzone della crociata albigese, quando i difensori riuscirono a bloccare l'ariete attivo contro il castello, fu necessario attendere l'arrivo dell'ingegnere che l'aveva allestito, in quel momento assente; non appena ritornato egli si insinuò furtivamente in un anfratto roccioso per tentare di aprire una breccia con altri mezzi. È quindi evidente che gli esperti in quell'arte erano ancora pochi e la presenza dello specialista indispensabile; lo stesso, per quanto rimanga anonimo, viene poco dopo designato come «abile ingegnere dal cuore fermo e generoso». Resiste nondimeno il topos del geniale straniero, dotato di abilità eccezionali che, sopravvenuto al momento opportuno, consente con la sua opera la conquista di una città imprendibile o la vittoriosa difesa di una fortezza in grave pericolo. Nel luglio del 1238, mentre Federico II cinge d'assedio Brescia, Ezzelino da Romano gli invia prigioniero «un certo Spagnolo di nome Calamandrino, uomo esperto di trabucchi e briccole»; costui cade però nelle mani dei Bresciani e gli effetti della sua presenza in città appariranno ben presto evidenti: sulle torri mobili che gli assedianti avvicinano alle mura erano stati legati ostaggi, ma Calamandrino, erette le sue macchine, lanciava da par suo pietre contro le torri mostrandosi così buon ingegnere da distruggerle senza colpire alcun prigioniero. Naturalmente l'attacco fallì e l'imperatore dovette abbandonare l'impresa. Al non frequente caso di uno Spagnolo operante in terra italiana fa riscontro la presenza di un Italiano in terra spagnola, fatto che, come si è visto, aveva numerosi e antichi precedenti. A Giacomo I di Aragona, impegnato nell'assedio della città di Buriana, si presenta nel 1254 «un maestro di Albenguena (cioè di Albenga) che aveva nome Nicoloso», il quale già nel 1229, durante l'assedio di Maiorca, aveva costruito un trabucco per il re. Egli si rivolge al sovrano con una familiarità di eloquio che ricorda quella di Sichelmanno di fronte a Gisolfo di Salerno: «Messere, non vale la pena di stare qui se voi non potete prendere questo luogo; se volete lo potrete prendere
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in quindici giorni». Il re gli domanda come, ed egli chiede sufficiente legname per costruire una torre mobile («castell de fusta») che entro breve si rivelerà infatti risolutiva. Ma ormai sia una città assediata, per condurre efficacemente la propria difesa, sia l'assediante in difficoltà, non hanno più bisogno di attendere l'esperto straniero giunto provvidenzialmente da lontano per mettere a disposizione la sua competenza: la diffusione delle tecniche su scala generale fa sì che ciascuno possa far fronte attingendo all'interno della città o dell'esercito, come mostrano, per esempio, lo sforzo tecnologico operato nel 1243 da Federico II contro Viterbo e le vittoriose contromisure di cui furono capaci i suoi abitanti. E nel 1256 fra i crociati antiezzeliniani che assediavano Padova ecco rivelarsi, al momento del bisogno, la figura di un anonimo frate minore laico, già «maestro ingegnere» di Ezzelino, esperto nella costruzione di «macchine e trabucchi e gatti nonché arieti per prendere città e castelli». Egli, obbedendo ai suoi superiori, costruì rapidamente un «gatto» che permise in breve l'espugnazione della città14. Insieme con tali racconti, che ricalcano evidenti motivi tradizionali, nel XIII secolo conosciamo per nome ingegneri militari al servizio tanto di monarchi quanto di grandi e piccole città. Nel 1201 un mastro Urric accompagna Giovanni senza Terra in Normandia «ad facienda ingenia»; nel 1249 Jocelin de Cornaut «maistres engignierres» di Luigi IX di Francia costruisce 18 engins contro i Saraceni di Damietta; Alfonso di Poitiers, in vista di una spedizione in Terrasanta, stipula nel 1268 un contratto annuale con il «magister Assaut machinator» promettendogli la paga di 5 soldi tornesi al giorno. La città di Tolosa dispone di suoi validi ingegneri e quando, nel 1216 si vede minacciata dai crociati di Simone di Monfort, i consoli non hanno che da ordinare a «Bernardo Parayre e a mastro Garnier, uomini esercitati alla bisogna, di andare a tendere i trabucchi, e per tirare i cavi vi furono diecimila uomini». Anche un piccolo comune come Imola si serve nel 1222 dell'opera di mastro Buvalello incaricato di «costruire e disporre mangani» e altre macchine da lancio; e non stupisce certo che il podestà di Genova, nell'aprile del 1227, abbia ai suoi ordini un «mastro Marino» in grado di erigere un trabucco contro Albisola. Il 7 aprile 1233 il romano Oddone Monticelli sottoscrive un
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contratto con il comune di Siena impegnandosi, per 100 soldi al mese, a «fare, rifare e amministrare» diversi tipi di macchine da lancio per tutto il tempo della guerra contro Firenze, escludendo però di rimanere, senza la sua volontà, rinchiuso in qualunque fortezza assediata, salvo che si tratti della città di Siena. L'entità dello stipendio pattuito e l'accettazione di certe condizioni mostrano che l'opera dei «maestri ingegneri» rimaneva preziosa. Costoro, d'altra parte, avevano un alto concetto di se stessi. Segatino da Bassano - personaggio per ogni altro verso sconosciuto alle storie - offrendo il 7 febbraio 1318 i suoi servizi al comune di Treviso dichiarava di sentirsi «più utile e più perfetto nonché maggiormente necessario e idoneo di cinquanta uomini d'arme». Un suo ben più noto collega, il senese Mariano di Iacopo detto Taccola, all'inizio del trattato De machinis da lui completato nel 1449, non esita a presentarsi come «Ser Marianus Taccole alias Archimedes vocatus», dichiarando nel contempo, alquanto ipocritamente, che gli «ingenia, machinas et tormenta» ivi illustrati non sono stati messi a punto per essere usati contro cristiani, ma solo «contra infideles et barbaricas gientes». Fra gli inconvenienti che la professione offriva vi era anche il pericolo di venire incidentalmente e inaspettatamente proiettati nel vuoto al posto di un proiettile. Si è tramandata la disavventura accaduta nel 1232 a un «maestro» veronese impegnato nella difesa del castello di Nogarole assediato dai Mantovani: manovrando una librilla da lui stesso costruita, si trovò lanciato in aria e, dopo aver percorso un notevole tragitto, cadde miracolosamente incolume nel bel mezzo del campo nemico. Quell'avventura finì bene, ma chissà quanti altri rimasero vittima di incidenti legati all'impiego delle grandi macchine da lancio. Proprio all'inizio del Trecento Marin Sanudo Torsello nel suo progetto di crociata, redatto con viva conoscenza dei problemi tecnici e pratici, raccomandava la necessità di avere a disposizione macchine dalla gittata il più possibile ampia, al che ingegneri ed esperti facenti parte dell'esercito dovevano «aguzzare la loro mente»; era perciò necessario fare tutto il possibile per disporre di «buoni ingegneri», oltre che di legname da costruzione perfetto. Antonio Cornazzano gli faceva eco, nel suo De re militari, ancora nel 1476: «Ond'io consiglio in questo ogni signore / O l'artifice bon di tener lassi, / o se gli è bon gli facci utile o honore»15.
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Il famoso taccuino compilato da Villard de Honnecourt mostra che gli «ingegneri» medievali non si occupavano solo di macchine militari, ma certo tutti quelli che hanno lasciato memoria di sé furono innanzitutto uomini di guerra poiché - per quanto spiaccia ammetterlo - è innanzitutto «la perpetua sete di potenza che spinge gli uomini verso il progresso». In ciascuno di essi, mentre cercava di valorizzarsi vendendo a caro prezzo la propria capacità di costruire e governare macchine d'assedio, vi era probabilmente la stessa frustrazione, che abbiamo visto emergere in certe pagine di Vitruvio, nel vedersi sottovalutato e posposto, non solo ai combattenti, ma anche agli uomini della cultura ufficiale, frustrazione che si ritrova così viva in certi scritti di Leonardo da Vinci. Del resto, ancora dopo di lui, Francesco Guicciardini faceva dire al maresciallo di Francia Giangiacomo Trivulzio: «Le guerre si fanno con le armi de' soldati e col consiglio de' capitani; fannosi combattendo in su la campagna, non co' disegni che degli uomini imperiti si notano in su le carte, o si dipingono col dito o con una bacchetta nella polvere»16. La tecnologia avrà infine i suoi riconoscimenti soltanto nell'inoltrata età moderna.
4. he vittorie della fame Il De regimine principum, redatto da Egidio Colonna intorno al 1280, si rifa alla trattatistica antica soprattutto attraverso il De re militari di Vegezio, dal quale tuttavia trae solo quanto viene considerato ancora valido per i suoi tempi e non trascurando di introdurre opportuni aggiornamenti. Tre sono per il Colonna i modi di prendere una fortezza: per sete, per fame e per battaglia. Non a caso la sete viene messa al primo posto: se mediante diversi accorgimenti, infatti, alla mancanza di viveri si può per un certo tempo sopravvivere, è invece praticamente impossibile ovviare alla sete. Chi intraprende un assedio deve quindi innanzitutto fare in modo di privare di acqua gli assediati. È inoltre opportuno iniziare le operazioni durante la stagione estiva, prima che i prodotti del nuovo raccolto siano venuti a integrare le scorte dell'anno precedente, e quando più facilmente l'acqua si può esaurire. Non si tratta di suggerimenti peregrini o puramente teorici: nel 1059 Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero decisero di
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bloccare Reggio Calabria proprio «al tempo in cui si cominciavano a raccogliere le messi»; l'anno dopo i cittadini di Troia, assediati a loro volta, «vedono che è venuto il tempo di mietere e che altri mieteranno là dove essi avevano seminato, e le provviste che intendevano riporre nei loro granai sono perdute». Cristiano di Magonza, secondo Boncompagno da Signa, procedette all'assedio di Ancona proprio «alla fine del mese di maggio quando i viveri scarseggiano»17. Le storie, nondimeno, sono piene delle drammatiche vicende di valorosi difensori che, debilitati e abbrutiti dalla fame, continuano ciò nonostante eroicamente a resistere nella speranza di ricevere un aiuto dall'esterno. E a questo scopo gli Strategemata redatti nel II secolo da Frontino già elencavano espedienti che gli assediati, ridotti ormai allo stremo ma intenzionati a non cedere, potevano mettere in atto per dare al nemico l'impressione di una inesistente abbondanza. Certi Traci bloccati su un monte - racconta Frontino - nutrirono con l'ultimo grano loro rimasto alcune pecore e le lasciarono cadere nelle mani degli assedianti; quando questi, uccidendo gli animali, li trovarono pieni di grano, credettero naturalmente che gli avversari ne avessero in tale quantità da usarlo per alimentare persino gli animali e quindi, scoraggiati, ritennero opportuno togliere l'assedio. Tale aneddoto ha ispirato racconti simili riferiti ad assedi medievali del tutto leggendari o ha contribuito ad arricchire di nuovi favolosi particolari assedi realmente avvenuti. Appartiene alla prima categoria la favola di «dame Carcas», signora eponima di Carcassonne in un tempo in cui la città avrebbe sostenuto un quinquennale assedio da parte di Carlo Magno. Ella con l'ultimo grano rimasto avrebbe pasciuto una scrofa che, gettata poi dalle mura nel campo nemico, scoppiò spargendo il grano ovunque e inducendo perciò senz'altro i Franchi costernati a rinunciare all'impresa. Non troppo diversamente si sarebbe comportato Gagliaudo Aulari, un immaginario cittadino di Alessandria che nel 1175, quando essa era sottoposta ad assedio da parte di Federico I, sempre con l'ultimo grano disponibile, provvide a rimpinzare una vacca e la spinse poi nel campo nemico «facendo così credere al Barbarossa che la città, in realtà stremata, nuotasse nell'abbondanza, donde la decisione dell'imperatore di togliere il blocco». Il valore di tale espediente viene senz'altro riconosciuto da
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Antonio Cornazzano che scrive infatti nel suo De re militari: «Tolto qual dentro havean poco frumento / ne pascono cavai, pecore e buoi, / e d'industria lason torsi l'armento. / Uccisi questi li nimici suoi / per tal pasto trovato in la ventraglia / qual disperati si partir da poi, / cassi di tutti i fer che pungie e taglia»18. Lo stesso motivo si trova ripetuto anche altrove testimoniando così la fortuna di certi aneddoti raccolti da Frontino e, nello stesso tempo, la frequenza dell'assedio condotto per affamare l'avversario mediante l'elementare tecnica del blocco. Nel mondo occidentale, per buona parte del Medioevo, infatti, l'ignoranza delle tecniche d'assedio antiche o l'insufficienza dei mezzi disponibili riduceva spesso l'azione degli attaccanti a un elementare blocco statico che mirava a ridurre alla fame i difensori per costringerli così alla resa. Le vicende della guerra greco-gotica che, come si è già visto, fu soprattutto combattuta attraverso l'espugnazione di località fortificate, videro numerosi presidi arrendersi per fame tanto da parte dei Goti quanto dei Bizantini, nonostante l'indubbia superiorità tecnica di questi ultimi. Nel 538 contro Rimini i Goti di Vitige, dopo vani tentativi iniziali di prendere la città con la forza, «rimasero tranquilli - dice Procopio aspettando che i nemici si arrendessero per fame». L'anno dopo i Goti stretti in Orvieto da Belisario, razionarono gli ultimi viveri rimasti e, prima di arrendersi, «ancora per molto tempo si nutrirono di cuoio e di pelli ammorbidite nell'acqua». La stessa sorte subirono i presidi di Osimo e di Fiesole dopo che il primo si era a lungo nutrito di sola erba; e per fame fu piegata nel 540 la stessa Ravenna. Due anni dopo i Goti, passati alla riscossa sotto la guida di Totila, costringono i Napoletani a cedere perché «la stretta della fame li soffocava». I cittadini di Milano si arresero perché «erano così travagliati e sopraffatti dalla fame che i più si cibavano di cani, di topi e di altri animali quali mai prima erano serviti di cibo all' uomo». Nel 546 fu la volta di Piacenza in cui i Bizantini, «privi ormai totalmente di viveri, ricorsero a cibi impuri sotto la pressione della fame»; difatti, prima di arrendersi a discrezione, giunsero a cibarsi dei loro simili. L'anno dopo, costretti a cedere perché «ormai privi di ogni mezzo di sussistenza e senza speranza di aiuti», furono i difensori di Rossano Calabro, e poco dopo la stessa sorte toccò a Reggio Calabria.
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Insieme con la fame ha naturalmente grande peso la sete; la mancanza di acqua può anzi da sola indurre alla resa presidi ancora agguerriti e disposti alla resistenza. Prima cura di chi intenda bloccare una città fornita di acquedotto è perciò l'interruzione del rifornimento idrico: Belisario, disponendosi nel 536 all'assedio di Napoli, «tagliò la conduttura che portava l'acqua in città», del resto senza provocare molto disagio poiché all'interno delle mura esistevano numerosi pozzi. Del pari i Goti, assediando Roma, «tagliarono tutte le condutture, che erano ben 14, perché in città non entrasse più acqua». Assai peggiore fu la situazione dei luoghi in cui l'unica fonte esistente era talvolta esterna alle mura. È questo il caso di Osimo dove Belisario, dopo aver tentato inutilmente di far demolire l'antico e robusto fabbricato che proteggeva la sorgente, «ordinò ai soldati di gettare nell'acqua carogne di animali ed erbe capaci di avvelenare gli uomini, e di mettervi in continuazione calce viva». I Goti di Urbino, «fidando nella saldezza della posizione e nell'abbondanza dei viveri», dileggiano dapprima dall'alto delle mura gli attaccanti, ma poi, per un caso del tutto inspiegabile, l'unica fonte esistente in città «in breve si seccò spontaneamente e cominciò a non buttare più. In tre giorni l'acqua mancò al punto che i barbari, attingendo di lì, la bevevano mista a fango, e perciò decisero di arrendersi». Nel corso della guerra greco-gotica troviamo dunque, ampiamente esemplificate, situazioni destinate a ripetersi infinite volte nei secoli successivi in circostanze altrettanto drammatiche: ovunque le fonti hanno tramandato notizie sufficientemente ampie di assedi conclusi in favore degli attaccanti, le rese per fame rimangono a lungo prevalenti anche quando questi non si limitano al puro blocco statico. Così nei numerosi attacchi a piazzeforti intrapresi nella seconda metà dell'XI secolo dai Normanni nell'Italia meridionale, di cui dà notizia Amato di Montecassino. Nel 1060 in Puglia i cittadini di Troia erano bensì disposti a pagare il solito tributo, aggiungendo anzi oro e cavalli greci, ma Roberto il Guiscardo non si accontenta: egli vuole disporre del sito più alto della città per costruirvi un castello che li riduca alla completa obbedienza. I cittadini rispondono con il lancio di pietre e di saette, ma il duca non molla: «Non lasciò uscire fuori quelli della città, né entrare i villani con le vettovaglie o per prestare aiuto. Il pane venne loro a mancare e fanno poco fuoco perché c'è penuria di le-
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gna; occorre loro il vino, né hanno acqua». Fu così che la città dovette venire a patti e accontentare il vincitore in tutte le sue richieste. Due anni dopo il principe Riccardo chiede ai cittadini di Capua di mettere a sua disposizione porte fortificate e torri e, al loro rifiuto, assedia la città. «Quelli di Capua, benché indeboliti dalla fame», resistono eroicamente: risarciscono le mura, però «continuano a non poter portare dentro le cose di cui avevano bisogno per vivere» così che, venuta meno la possibilità di ricevere soccorso dall'esterno, si arrendono nel maggio del 1062. La medesima situazione dopo cinquanta giorni di resistenza si ripete a Trani assediata dal Guiscardo nel 1073 e, sempre per mancanza di viveri, si arrendono nel 1076 Santa Severina, Castrovillari e Salerno. Per quest'ultimo luogo sappiamo da altri cronisti contemporanei che i cittadini, rimasti bloccati per sette mesi per mare e per terra, patirono tanta fame da ridursi a mangiare gli animali domestici e i topi. Canne, a sua volta, si arrese a Riccardo nel 1073 «per difetto di acqua» essendo le sue cisterne rimaste a secco. Ciò avveniva non solo in una regione notoriamente povera di acqua come la Puglia, ma anche altrove. Nel 1064 in Spagna la città di Barbastro, assediata dai Normanni, cadde perché l'enorme pietra di un muro «costruito dagli antichi» ostruì incidentalmente il condotto sotterraneo che forniva acqua alla città; gli abitanti temettero di morire di sete e vennero a patti, che poi i vincitori non si curarono di mantenere: ne seguì un massacro e un grande bottino. Anche Mont-Saint-Michel, in Normandia, assediato nel 1091 da re Guglielmo e dal duca Roberto, si arrese dopo quindici giorni «per grandissima penuria d'acqua»19. Straziante la situazione in cui vennero a trovarsi i crociati chiusi nel castello di Xerigordo, presso Nicea, nel settembre del 1096. I Turchi per prima cosa li privarono dell'acqua «e i nostri - racconta l'Anonimo - soffrirono talmente la sete da aprire le vene dei cavalli e degli asini per suggerne il sangue; altri imbevevano panni nelle latrine e ne spremevano il liquido in bocca; qualcuno orinava nella mano d'un compagno e beveva; altri scavavano il suolo umido, vi si coricavano e spargevano la terra sul loro petto, tanto era l'ardore della sete». Gli stessi rivoltanti espedienti sono però ripetuti, un secolo dopo, neìl'Hàforia de expeditione Fridenci dai crociati tedeschi oppressi dalla sete, così che c'è da domandarsi se non si tratti, più che di un'accettata realtà, di orrifici
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luoghi comuni. La solita ricerca di cibi alternativi toccò anche ai crociati bloccati nel 1098 in Antiochia: si cibano della carne di cavalli e di asini e poi si cuociono foglie di fico, vite, cardo e di ogni altro albero; si cercano residui proteici nelle pelli disseccate di cavalli, di cammelli, di buoi e di bufali. Ancora un secolo dopo nell'Italia del Nord, durante le lotte della prima età sveva (quando le tecniche d'attacco avevano ormai fatto notevoli progressi) casi simili continuano a ripetersi. Nel 1155 in Tortona assediata da Federico I la rapida caduta della città bassa costrinse tutta la popolazione a rifugiarsi nella parte alta che disponeva di un'unica sorgente; gli assedianti naturalmente provvidero presto a renderla imbevibile, prima immergendovi carogne e putredine e poi spegnendovi torce impregnate di pece e di zolfo. In capo a tre mesi i cittadini furono costretti ad arrendersi - dice Ottone di Frisinga - non tanto perché logorati dai continui attacchi quanto perché sopraffatti dalla sete. Nel 1161 anche i difensori di Castiglione, strettamente bloccati dai Milanesi, «non potevano accedere all'acqua che era fuori del castello» ma, proprio perché ridotti alla disperazione, essi trovarono la forza di operare una sortita che si rivelò decisiva per la salvezza20. Epica fu, nel 1173, la difesa di Ancona bloccata dalla parte di terra dall'esercito di Cristiano di Magonza e per mare dalla flotta veneziana, di cui Boncompagno da Signa ci ha lasciato un celebre resoconto redatto - assicura - sulle testimonianze di coloro che erano stati presenti ai fatti. Gli Anconetani furono ben presto a corto di viveri, i prezzi delle derrate in città non tardarono a salire e «cominciò quindi a esservi la pestilenza della fame, perché si dice propriamente che c'è la fame allorquando si offre il denaro e non si riesce a trovare chi abbia da vendere». I cittadini, uomini e donne, continuano nondimeno a difendersi con grande valore, molti compiono esemplari atti di eroismo e gli anziani invitano i giovani alla resistenza. Il pane e i legumi mancano ormai del tutto; anche qui si ricorre dapprima agli animali domestici e ai topi, poi si passa al cuoio cotto in diversi modi, e poiché sale, olio e vino non mancavano ancora, con essi si ritemprano parzialmente le forze giovandosi inoltre dei frutti di mare «che stanno sott'acqua attaccati alle pietre»; ciò nonostante tutti erano pallidi e denutriti e gli uomini «a stento si potevano spostare se non per andare a combattere». A quel
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punto le donne avrebbero addirittura deciso di offrirsi come cibo per i combattenti: «Forse che le carni degli asini sono più saporite da mangiare delle nostre? Mangiate dunque noi!». Questo e altri aneddoti edificanti, suggeriti al nostro autore dalle sue risorse retoriche, potranno lecitamente non essere presi alla lettera. In ogni caso i terribili sacrifici richiesti agli Anconetani non furono sofferti invano: dall'esterno venne infatti organizzato un esercito di soccorso che indusse il nemico a togliere l'assedio e l'eroica città fu salva. Non così avvenne in tanti altri casi, per esempio a Penne d'Agenais assediata dai crociati antialbigesi nel giugno e nel luglio del 1212: nonostante la poderosa azione delle macchine da lancio, «se gli assediati avessero avuto di che mangiare e bere gli altri certamente non l'avrebbero ancora presa e non vi sarebbero potuti entrare». Ma «il calore era grande, ed essi non poterono resistere; la sete li tormentava tanto che cadevano ammalati; i pozzi erano a secco», così che la resa fu inevitabile. I crociati furono a loro volta assediati nell'agosto del 1216 nel castello di Beaucaire; dopo aver resistito oltre due mesi, la guardia affacciata al torrione «mostrò la tovaglia e la bottiglia trasparente per far capire che i viveri facevano difetto e che avevano mangiato tutto il loro pane e bevuto tutto il loro vino». Ciò nonostante la resistenza continua, ma tra i cavalieri riuniti a consiglio si ripetono ormai le dichiarazioni di sfiducia. Dice Guglielmo de la Motte: «Ecco che cofani e granai sono vuoti, non abbiamo più uno staio di alcuna specie di grano e i cavalli sono talmente affamati che cominciano a mangiare il legno e la corteccia delle piante». E poco dopo lo stesso interloquisce: «La fame ci opprime e la sola decisione che io conosca per darci sollievo è di mangiarci i nostri ronzini e i nostri destrieri, poiché la carne di mulo che abbiamo mangiato ieri era buona; ci basterà un quarto di cavallo al giorno ogni cinquanta uomini, e quando saremo alla fine e avremo mangiato l'ultimo, allora ciascuno mangi un suo compagno! Colui che si difenderà meno bene e si abbandonerà alla paura sarà giusto e ragionevole che sia mangiato per primo». E poi macabramente insiste: «Non mi è mai sembrato che la carne umana avesse buon gusto, ma per il momento in cui i corsieri arabi saranno stati divorati, ci resta solo un pane e un po' di vino nella cantina». È un invito a battersi sino alla morte.
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In Calais, assediata dagli Inglesi per un intero anno dall'agosto del 1346 e lentamente privata di ogni possibilità di rifornirsi di viveri, ritroviamo la stessa terribile situazione già sperimentata da altre città. Nel giugno del 1347 Jean de Vienne espone infatti al re di Francia che ormai gli assediati, divorati cani, gatti e cavalli, non possono più trovare viveri in città se non mangiando carne umana, e se non verranno soccorsi entro breve tempo saranno costretti a consegnarsi al nemico non senza prima aver sostenuto un'ultima battaglia «per vivere o per morire, poiché è meglio onorevolmente morire sul campo piuttosto che mangiarci l'un l'altro». A causa del blocco posto da Francesco Sforza nel 1449, i Milanesi rivissero i medesimi tormenti che i loro lontani antenati avevano patito durante la guerra greco-gotica: «Erano oppressi da extrema fame in forma che più non potevano supportare, e molti erano poveri, come sempre grande numero vi è in Milano, quale per sostentare da la fame non solamente mangiavano cavalli et asini ma gatte, cani e toppi e molte altre cose le quale sono abhorrende a la natura umana, il che ne la pubblica piaza del broletto se vendevano come fosse stata cosa suave al vivere umano, il perché spesso nascevano contentione e tumulto, mangiando herbe e radice senza alcun condimento. Nesuno se non era ricco gustava vino, molti vechii et amalati per tale necessitate perivano per le vie, onde ogni cosa era piena di pianti, ululi, stridi e di lamenti»21. A indurre gli assediati a sopportare tali inauditi sacrifici per continuare la resistenza è la speranza, invero non sempre ben riposta, di ricevere un soccorso dall'esterno che possa, se non togliere l'assedio, almeno rifornire di viveri e rafforzare il presidio con uomini freschi, operazioni che avvengono per lo più di notte: il castello di Exmes, in Normandia, sottoposto nel 1090 a un duro blocco invernale, fu audacemente soccorso da novanta cavalieri che, entrati con il favore delle tenebre, portarono alimenti e armi inducendo così gli assedianti alla rinuncia. In modo simile fu soccorso nel 1228 il castello di Bazzano stretto dai Bolognesi: l'esercito di Modena si attestò sul fiume Samoggia e dopo tre giorni, senza attaccare direttamente il nemico, un drappello di fanti scelti forzò il blocco con un riuscito colpo di mano notturno introducendo carri pieni di pane, vino, pece, zolfo e frecce da balestra. In un quadro in cui per vincere - come ricordava Vegezio e, dopo di lui, Egidio Colonna - la fame conta molto più della spa-
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da, assume grande peso la presenza dei «non combattenti» ovvero, come più icasticamente e impietosamente vengono detti, delle «bocche inutili»: si tratta delle persone che, rinchiuse nella fortezza assediata, consumano viveri senza recare alcun valido contributo alla resistenza; per il solo fatto di esistere esse lavorano così in favore del nemico. Prima di lasciarsi bloccare in Roma dall'esercito goto, Belisario, prevedendo con esattezza i futuri problemi di sussistenza, ordinò di trasferire a Napoli donne, bambini e servi non necessari alla difesa delle mura «per evitare di ridursi alla carestia». Il saggio provvedimento non riuscì comunque a evitare la temuta mancanza di viveri. Nel 1155 la caduta di Tortona fu causata dal sovraccarico di abitanti, in massima parte non combattenti, ammassati in uno spazio ristretto. Un dramma simile si ripete, in piccolo, nel 1292 nel castello di San Cassiano in Val Lamone assediato da Maghinardo di Susinana: in un'area ridotta erano rinchiuse duecento persone «tra maschi, donne e bambini» che rimasero perciò ben presto senz'acqua. Gli assedianti che vogliono più rapidamente avere ragione di una fortezza - consiglia Egidio Colonna - se catturano alcuni degli assediati hanno interesse non a ucciderli, ma piuttosto a mutilarli rendendoli invalidi e a rimandarli indietro perché contribuiscano così a consumare più in fretta le scorte senza essere di alcun giovamento per la difesa. Non si tratta di una spietatezza puramente teorica: nel 1305, racconta Giovanni Villani, i Fiorentini e i Lucchesi assediarono Pistoia «e chiunque era preso che n'uscisse, all'uom era tagliato il pie e alla femina il naso, e ripinto dentro nella città per un ser Landò d'Agobbio, crudele e dispietato ufficiale, il quale per gli Fiorentini fu soprannominato Longino»22. Secondo una tale «tattica logistica» le «bocche inutili» divenivano un'autentica arma nelle mani dell'assediarne, di cui l'assediato aveva tutto l'interesse a liberarsi. Anche Antonio Cornazzano nel 1476 esortava: «Quando el raccolto pur non gli bastasse / tutta l'età disutile a far facti / per lo consiglio mio fora si casse: / femine, putti, vecchi, i ciechi, i matti; / ma questo esser conviene in sul principio / perché l'hoste da poi ne guasta i tracti». Meno spietato si dichiarava però, in quegli stessi anni, un uomo di guerra come Diomede Carafa: se gli assediati vogliono cacciare la «gente dessutile», «se voleria evitare quanto fosse possebile. Ma quando puro lo fecissero» saranno da accogliere e lasciar andare
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via senza danno «che s'à da havere respecto al nostro Signore Idio ed a quelle et quilli che sono innocenti». Usò accortamente e spietatamente l'arma delle «bocche inutili» Filippo Augusto di Francia quando nel 1203 decise di prendere per fame il formidabile complesso di Chàteau Gaillard. In esso si erano rifugiati molti abitanti dei dintorni e il comandante della guarnigione, ormai alle strette, decise di espellere coloro che non erano in grado di portare armi; il re da parte sua, rendendosi conto che così gli assediati potevano resistere più a lungo, non permise loro di uscire; più di quattrocento persone, uomini, donne e bambini, respinte dagli uni e dagli altri, rimasero bloccate nello spazio intermedio costrette a vivere in grotte e a nutrirsi d'erba od occasionalmente di qualche animale di passaggio, così che i più morirono di fame. Una simile, terribile odissea toccò nel 1495 a Novara occupata dai Francesi di Carlo Vili e assediata da Ludovico Sforza: non appena i viveri cominciarono a scarseggiare il duca di Orléans espulse dalla città, come al solito, «i poveri e gli inutili». Sorte analoga ebbero molte altre persone anche nel corso dell'età moderna. Siena, assediata dagli Spagnoli, si trovò nel 1555 nella necessità di espellere più di quattromilacinquecento «bocche inutili»: «quei disgraziati cercavano di attraversare le schiere nemiche - scrive Blaise de Monluc, responsabile della difesa - ma venivano ricacciati verso la città; tutto l'esercito restava in armi notte e giorno a questo scopo, e ce li respingevano fino ai piedi delle mura perché li rimettessimo dentro per farci mangiare più alla svelta quel po' di pane che ci restava, e per tentare di far rivoltare la città». Anche qui i malcapitati sono ridotti a vivere di erbe e condannati a una lenta decimazione dalla quale soltanto la quarta parte riuscì a salvarsi: «È la legge della guerra - conclude Monluc - bisogna essere crudeli se si vuole avere la meglio sul nemico. Dio deve essere molto misericordioso verso di noi che facciamo tanto male». Ciò nonostante non esita, poche righe dopo, a consigliare la stessa condotta ai futuri uomini di guerra cui vuole lasciare un insegnamento, anche se, come dicono i fatti stessi, la spietatezza non è certo garanzia di vittoria. Talora la sorte delle «bocche inutili» fu meno terribile: nel 1228 i bambini rimasti rinchiusi in Bazzano furono «onorevolmente» sfollati dai fanti modenesi che avevano soccorso il castel-
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lo, e nel 1347 più di millesettecento uomini, donne e bambini espulsi da Calais, per cavalleresca decisione del re d'Inghilterra, poterono passare attraverso l'esercito assediante ricevendo anche amorevole assistenza. Il popolo di Milano nel 1449 fu trattato da Francesco Sforza con la solita italica doppiezza: «Molti per il consentimento de magistrati refugivano ne le vicine castelle dove per misericordia erano ricevuti, ma il conte comandò che niuno subsidio fusso loro sporto, ma fussino costrecti ritornarsene ne la afflicta cita», salvo a farsi magnanimo quando si profilava ormai la sua caduta e vedeva vicina la possibilità di imporre su di essa la propria signoria. Nel gennaio del 1450 «a cinquecento famelici Milanesi donò un ducato per caduno e deteli licentia che puotessino tornare a Milano». Al momento di entrare nella città, finalmente nelle sue mani, l'affamatore diventa prodigo: «Seguitava adunque il conte e tutti i luoghi per li quali havea a passare erano pieni d'infinita turba, li quali venevano o per videre il nuovo principe o per dimandare cibo a soldati. Et erano pieni li campi per spacio de diece miglia passi, a quali assai gratamente secondo il tempo li soldati satisfavano imperò che ciaschuno haveva portato tanto pane quanto potevano le sue facultate. Era bello a videre con quanta avidità la turba spiccava il pane il quale pendeva dal collo o da le spalle o dal braccio de soldati e con quanta ingordigia lo devoravano»23. Non fu l'unico caso in cui un nemico venne accolto come liberatore.
5. Le macchine: efficacia e limiti 5.1. Le torri mobili. La conquista di una fortezza «per battaglia» esige l'impiego di macchine da lancio e d'assalto che richiamano le tecniche già in uso nell'antichità recuperate nella pratica, come abbiamo visto, almeno dalla prima metà dell'XI secolo, ma applicate in modo razionale e completo solo nel corso del successivo. Già nel 1068 Roberto il Guiscardo, «abile più di chiunque altro a condurre un assedio tanto da superare il famoso Demetrio Poliorcete» - scrive enfaticamente Anna Comnena - nell'ottobre del 1107 davanti a Durazzo si attardò nella costruzione di «macchine, testuggini, torri, arieti e ripari adatti alla protezione di operai e zappatori» che preludevano evidentemente a un investimento
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ben concertato della città, anche se poi non raggiunse gli effetti desiderati. Nell'investimento finale di Maiorca da parte dei Pisani agiscono nel 1115 quattro torri mobili appoggiate da un congruo numero di macchine da lancio e da zappatori, e dieci anni dopo i tecnici genovesi e pisani chiamati dai Milanesi a operare contro Como, di nuovo allestiscono due coppie di torri mobili «e nel mezzo fra due torri un 'gatto' viene portato con la sua copertura, e un altro viene posto tra le altre due»: tali mezzi, protetti dal tiro incessante di quattro macchine da lancio, attaccano le mura mentre i tiratori appostati sulle torri non danno tregua ai difensori costretti in breve ad arrendersi. Una cooperazione simile fra torri mobili, macchine da lancio e gallerie di mina viene attuata contro Lisbona nel 1147 dove, infatti, Tedeschi e Fiamminghi costruiscono un «maiale» (cioè una macchina per scavare), un ariete e una torre. Le fonti però pongono in genere l'accento non tanto sull'esistenza di un progetto operativo definito e sulla sua corretta esecuzione, bensì sull'imponenza dei mezzi più appariscenti, cioè soprattutto sulle torri mobili, di cui ci si compiace di descrivere la potenza e la spettacolarità. Suggestiva è l'azione, presentata dall'anonimo cronista della prima crociata, svoltasi contro la città di Marra nel novembre del 1098. Raimondo di Saint-Gilles aveva fatto costruire un «castello di legno forte e alto congegnato su quattro ruote» nel quale erano saliti numerosi cavalieri insieme con «Everardo il Cacciatore che suonava forte la sua tromba». Avvicinata alle mura da altri cavalieri corazzati, la torre resistette al fuoco e ai massi lanciati dai difensori; dall'alto del terrazzo superiore, intanto, anche i nostri lanciavano «immense pietre» e, inalberando sulle aste «onorevoli insegne», cercavano di arpionare gli avversari mediante uncini ammanicati. L'operazione proseguì sino a sera mentre «dietro la torre mobile i chierici rivestiti delle sacre vesti pregavano e scongiuravano Dio perché difendesse il suo popolo, esaltasse la cristianità e deprimesse il paganesimo». Con tecnica non dissimile l'anno dopo verrà presa anche Gerusalemme24. Boemondo d'Altavilla nel 1107 a Durazzo si serve di una grande torre mobile munita di ponti volanti in grado di far scendere i suoi uomini sulle mura: completamente chiusa sul davanti dal basso all'alto e divisa in più piani, la costruzione aveva feritoie aperte sui fianchi dalle quali usciva una grandine di proiettili, e l'ulti-
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mo piano era occupato da guerrieri corazzati con la spada in pugno, pronti all'attacco. I difensori riusciranno nondimeno, prima a porre la potente macchina in condizioni di non nuocere, e poi a distruggerla. In quello stesso anno, per costringere il castello di Gournai alla resa, Luigi VI di Francia fa elevare anch'egli una torre a tre piani che, dominando dall'alto la fortezza, impedisce agli arcieri e ai balestrieri che la difendono di mostrarsi, costringendoli infine a nascondersi in rifugi sotterranei. Un ponte consente agli aggressori di calare sulle mura dove però una trappola li attende: i sostegni, cedendo, li farebbero precipitare su pali acuminati nascosti da uno strato di paglia; ma la guarnigione, venuta meno la possibilità di essere soccorsa dall'esterno, preferisce prima arrendersi. Non sembra comunque che la torre (come quella impiegata a Bari da Roberto il Guiscardo) fosse dotata di ruote. Il poeta del Liber Maiolichinus si compiace a sua volta di esaltare retoricamente le torri costruite dai Pisani alle Baleari: «Le loro vette sublimi si spingono nel cielo con le nubi più eccelse, contro i venti freddi di settentrione. Nulla fece con maggiore arte Dedalo sagace». Una volta protette con graticci di vimini e pelli bovine le torri corsero sui rulli «spinte senza sforzo» e «molti astanti, che mai simili moli coi loro occhi avevano potuto vedere, ammirano le torri che camminano» verso le mura nemiche. Di «ammirevole altezza» appariva pure la torre costruita da un altro Pisano nel 1147 a Lisbona, ma nello stesso anno a Montreuil-Bellay, secondo Jean de Marmoutier, Goffredo d'Angiò fece elevare torri di legno di tanta altezza da sopravanzare quelle della fortezza assediata e anch'egli le fece avvicinare alle mura per mezzo di rulli «piene di cavalieri e arcieri che tolsero agli abitanti ogni possibilità di muoversi sicuri per le strade»25. La torre mobile allestita nel 1159 dai Cremonesi contro Crema - dice Ottone Morena - era «di così ammirevole grandiosità che da questa parte del mare né eguale né simile mai era stata vista»; a Crema, del resto, l'insolita mole delle macchine realizzate diventa un motivo dominante non meno della meraviglia da esse suscitata: accanto alla torre ecco infatti tre mangani così grandi «che tali mai non furono visti da nessuno» e due «gatti» «mirabili e grandi» destinati a operare di conserva con gli altri mezzi. Con enfasi ancora maggiore Vincenzo da Praga descrive il grande affusto della torre montato su quattro ruote, le enormi travi che la
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compongono disposte con «mirabile ingegno» per sei piani sovrapposti; e poi ne loda il rivestimento in lamine di ferro, la perfetta manovrabilità e il grande ponte d'assalto destinato a calare sulle mura nemiche. Tale manovra invero fallirà, ma l'imponente costruzione faticosamente avvicinata, consentirà - come era già successo altrove - di dominare dall'alto con il tiro degli archi e delle balestre l'intera fortezza nemica che sarà così in breve costretta alla resa. Speciale interesse viene rivolto, come si è visto, all'altezza delle torri, che doveva essere tale da poter dominare le mura nemiche delle quali i costruttori dovevano quindi, prima di tutto, conoscere la misura in modo il più possibile esatto; a tale scopo diversi erano i metodi impiegati: si considerava l'ombra proiettata sul terreno, si contavano i filari di pietre che costituivano il paramento murario, e chi disponeva delle conoscenze e degli strumenti necessari, si avventurava in più complessi calcoli trigonometrici. L'impiego di torri mobili continuerà senza grandi novità anche negli ultimi due secoli del Medioevo quando già, insieme con le macchine da lancio tradizionali, si sono ormai affermate le nuove artiglierie a polvere pirica. Durante la guerra dei cento anni ecco, per esempio, agire nel 1385 all'assedio di Pechpeyroux «un apparecchio su quattro ruote» a tre piani ciascuno dei quali ospitava venti balestrieri. Due anni dopo gli Inglesi, per attaccare Ribadane, si servono anch'essi di un «apparecchio» su ruote che «si poteva comodamente spostare con le forze dell'uomo portandolo dove si voleva, dentro il quale stavano agevolmente cento arcieri e altrettanti uomini d'arme»; costoro con il tiro tengono impegnati i difensori consentendo nel contempo ai minatori di aprire una breccia nel muro e di provocare così la caduta della città26. Ben presto si tese a conglobare il maggior numero di funzioni possibile in un'unica grande macchina che, con la complessità, aumentava anche il suo aspetto impressionante. La grande torre allestita a Durazzo nel 1081 da Roberto il Guiscardo recava sulla sommità macchine litobole che ne appoggiavano così direttamente l'azione. Ancora più complicate furono le macchine allestite da Boemondo per il secondo assedio: l'enorme «testuggine» su ruote che egli fece avanzare per prima contro la città, coperta di pelli e spinta da migliaia di uomini che agivano dall'interno, ingloba in sé un ariete, e infatti non appena la macchina giunse a ridosso
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delle mura, le ruote furono smontate ed essa venne fissata saldamente al suolo perché le scosse non ne sconnettessero la copertura, quindi l'ariete cominciò a colpire le mura con grandi colpi cadenzati, senza tuttavia conseguire molto successo. La riunione di più funzioni in realizzazioni definite «mostruose» continua nel corso del tempo come dimostrazione di virtuosismo meccanico e, nello stesso tempo, per influire psicologicamente sull'avversario. Tale è anche la «gatta» allestita nel 1218 da Simone di Monfort contro i Tolosani ribelli, «così potente che mai dal tempo di Salomone ne fu costruita una simile», essa «non teme alcun trabucco né petriera, né blocco di pietra perché la piattaforma, i fianchi, le putrelle, le capriate, le porte, le volte, la catena e la trama di questa gatta sono legate in ogni parte con ferro e con acciaio». «Metterò nella gatta - dichiara Simone - 400 dei migliori cavalieri che sono con noi e 150 arcieri perfettamente equipaggiati, poi la spingeremo a piedi sul fondo del fossato della città». Nel 1243, durante l'assedio di Viterbo, Federico II fece elevare un «alto e insolito edificio detto maristella», ritenuto invenzione di pirati: la sua forma oblunga ricordava infatti una nave e poteva contenere non meno di trenta guerrieri corazzati in grado di offendere con lance e con frecce. Ricoperto sul davanti con lamine di ferro, era dotato di un enorme rostro metallico con fortissime catene per agganciare e distruggere lo steccato della città. All'assedio di Padova del 1256 - racconta Salimbene da Parma - un frate minore laico, che era stato ingegnere di Ezzelino da Romano, rapidamente realizzò un «gatto» che «nella parte anteriore ardeva e nella posteriore ospitava uomini armati». Ma non sempre l'efficacia concreta di tali macchine era molto elevata. Nel 1374 al tempo dell'assedio di Kyrinia, nell'isola di Cipro, secondo il cronista greco Macheras, i Genovesi misero in campo una torre di legno chiamata «troia» dotata di un dispositivo per tagliare le pietre delle mura mentre ognuno dei suoi tre piani ospitava una macchina da lancio: essa poteva così, forse, avere qualche relazione con il tripantum o tripontum, una delle macchine rapidamente descritte da Egidio Romano, il cui nome sembra infatti alludere a una struttura costituita da tre piani sovrapposti. I Francesi nell'agosto del 1387 conducono dinanzi alle mura di Bergerac un grande apparecchio pure denominato «troia» (nome che nel Trecento, tanto in Italia quanto in Francia, indicava prò-
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priamente un tipo di macchina da lancio), esso era composto in modo da gettare pietre e da contenere nel suo interno non meno di cento uomini d'arme che potevano così avvicinarsi per assalire la città: vi erano perciò riunite le funzioni di una torre mobile, di un «gatto» e di una macchina da lancio, simile al dispositivo ancora consigliato e descritto, nel secolo successivo, da Christine de Pisan27. ' 5.2. Le «artiglierie». Quali erano il numero, le prestazioni e gli effetti delle macchine da lancio impiegate negli assedi medievali? Diciamo subito che è difficile rispondere poiché le fonti riportano, in genere, non dati concreti ma semplici impressioni deformate dall'enfasi retorica e dal desiderio di stupire. Il numero dei «petroboli» schierati dagli Avaro-slavi nel 597 a Tessalonica, secondo l'estensore dei Miracoli di san Demetrio, doveva essere veramente impressionante se davvero contro il solo muro orientale ne furono impiegati più di cinquanta. Essi lanciavano enormi blocchi di pietra che solcavano l'aria con rumore di tuono tuttavia, grazie al miracoloso intervento del santo patrono, uno solo giunse a toccare le mura mentre gli altri caddero o al di qua o al di là scavando grandi crateri. Perché non si pensi che i nemici, per loro inesperienza, tirassero troppo lungo o troppo corto e non si dica che il danno fu evitato per lo spessore del muro - argomenta l'agiografo - Dio permise che almeno uno dei proiettili colpisse il coronamento del muro, e bastò quell'unico colpo per demolirlo sino al cammino di ronda. Le macchine sarebbero quindi state in grado di abbattere le mura della città. Lepetrarie di «ammirevole grandezza» impiegate in Campania nel IX secolo (in genere non più di una alla volta) secondo il Chronicon Salernitanum non conseguivano effetti altrettanto impressionanti: quella costruita nell'871 dai Saraceni contro Salerno, con i suoi ripetuti colpi giunge a «danneggiare abbastanza» una torre, e l'analoga macchina realizzata da Sichelmanno contro il castello di Aquino «intaccava fortemente il muro di quel castello», è vero, ma gli assediati furono poi indotti ad arrendersi perché «alquanti dei loro erano morti». Essa aveva dunque effetti letali contro il personale non sufficientemente protetto mentre le strutture murarie, pur messe in pericolo, resistevano. Le prestazioni delle nuove macchine resero nondimeno opportuno rettificare e rafforzare
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le cerchie murarie preesistenti: il principe Grimoaldo, facendo ricostruire le mura di Salerno, tenne infatti in debito conto gli eventuali effetti che su di esse poteva produrre la «macchina che noi chiamiamo petraria». Negli stessi anni gli «ingenti sassi» lanciati dai mangani parigini fecero scempio degli assedianti normanni protetti soltanto dai loro scudi. Nel 1084 l'imperatore Enrico IV, secondo Guglielmo di Puglia, «aveva spezzato con le macchine da lancio {tormenta) le alte mura di Roma e demolito molte torri dell'invitta città»; l'anonimo autore che redigeva in quegli stessi anni la Chanson de Roland ci mostra Carlo Magno lieto per la presa di Cordova di cui le sue macchine {catables) «hanno abbattuto le torri»28. Simili sono gli effetti prodotti dagli apparecchi allestiti dai Pisani nell'impresa balearica, che il poeta, fedele alla terminologia classicheggiante, chiama baliste o semplicemente machine senza mai indicare con precisione il loro numero. Sin dalla partenza «si preparano macchine che scaglino enormi massi sulle mura e scrollino e abbattano le case»; davanti alle fortificazioni di Ibiza «una guerresca macchina è costruita e innanzi spinta dalle forze di artefici periti, che disfaccia colpendo le alte torri»: è forse la stessa che poco dopo, scagliando grandi massi, «va sgretolando le muraglie con immensa rovina» e «fa crollar le torri sotto i colpi incessanti». Più tardi entra in scena «una balista che nell'armata non aveva l'uguale: con spessi colpi batteva il castello su in alto, ed or scagliava oltre le torri i sassi, ora al di fuori, e dei pagani faceva di frequente orrido scempio». Pur nell'enfasi del linguaggio epico anche qui i «grandi massi» scagliati contro le fortificazioni possono certo «sgretolare» lentamente i muri e anche provocare alla lunga il crollo di torri, mentre senz'altro le abitazioni vengono abbattute, le merlature alte sono raggiunte e uccisi i combattenti allo scoperto. Non diversamente agiscono le baliste che nel 1126, durante l'assalto finale contro Como, vanno «su tutta la città gittando massi», «senza riposo giorno e notte». A Lisbona nell'agosto del 1147 gli Anglonormanni erigono due «fundae balearicae» (ovvero mangani a trazione), una sulla riva del fiume manovrata dai marinai e l'altra dai cavalieri; gli «artiglieri» vengono divisi in gruppi di cento così che, a un segnale stabilito, una «centuria» può dare il cambio ali altra. Se davvero - come sottolinea il cronista - in dieci ore fu-
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rono scagliate cinquemila pietre, la cadenza di tiro superò un colpo al minuto. Tale performance, certo molto faticosa per coloro che la realizzarono, mostra quali potevano essere le prestazioni di un mangano, ma non conosciamo né il «calibro» dei proiettili lanciati né i risultati raggiunti: si trattava del resto di un semplice tiro di copertura per proteggere l'azione di coloro che nel frattempo minavano le mura. Alla metà del secolo in Italia, se i tipi di macchine impiegate sono sempre gli stessi, sembra che vi sia nella loro potenza qualcosa di nuovo: a Tortona nel 1155 la pietra lanciata da un mangano dal basso all'alto, superando le mura superiori della città, si ruppe in tre parti e ciascuna di esse raggiunse e uccise un cavaliere tra coloro che in quel momento erano riuniti a parlamento accanto alla cattedrale; un risultato certo inatteso sia per le vittime, che se ne stavano tranquille ritenendo di essere fuori del tiro nemico, sia per gli autori stessi dell'impresa che tramandarono l'avvenimento come eccezionale. Le realizzazioni balistiche messe in atto nel 1159, durante l'assedio di Crema, dalle due parti in lotta non finiscono di stupire i cronisti: gli ingegneri cremonesi dispongono di «tre mangani di dimensioni tali che nessuno ne aveva mai visti di simili»; anche i mangani e le petriere fabbricati dai Cremaschi lanciano «massi enormi», di «spaventosa grandezza», «così grandi da non crederci se non si fosse visto con i propri occhi», tali «che mai furono visti lanciarsi»29. C'è davvero del nuovo, pare, almeno nel gigantismo delle macchine, se non nei loro meccanismi. In realtà quale peso potevano raggiungere quei proiettili visivamente considerati «grandissimi»? Per tutta l'età del mangano e della petriera i dati numerici sono pochissimi e molto vaghi. I saraceni che difendono Tortosa danneggiano nel 1148 una torre mobile genovese in avvicinamento lanciando pietre da 200 libbre, corrispondenti a non più di 60 chilogrammi; saranno stati almeno delle stesse dimensioni i proiettili di mangano con cui, di rimando, i Genovesi abbattono in seguito i muri di case e palazzi. Le petriere bizantine poste nel 1202 sulle mura di Costantinopoli, secondo Roberto di Clari, lanciavano pietre «così grandi che un uomo non sarebbe riuscito a sollevarle da terra»; nulla in confronto alla potenza dell'analoga macchina fatta erigere nel 1185 da Filippo Augusto di Francia all'assedio di Boves se essa - come af-
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ferma Guglielmo il Bretone - era in grado di lanciare massi trasportabili da non meno di quattro uomini: un peso calcolabile dunque in un paio di quintali. Di fronte a simili proiettili non stupisce perciò che nelle robuste mura della fortezza si aprano ben presto vistose screpolature e che l'intero edificio, spezzato in più punti, minacci di crollare, ma è anche lecito supporre che l'enfasi abbia indotto il poeta a qualche esagerazione30. Appartengono ancora all'epoca del mangano e della petriera le macchine da lancio che vediamo in azione nella crociata antialbigese. All'assedio di Termes nel 1210 - dice il poeta - «né mangani né petriere facevano alcun male agli assediati» protetti dalle forti mura del castello e ben provvisti di viveri: essi infatti saranno domati solo dalla dissenteria. Due anni dopo contro il castello di Penne d'Agenais, pur altrettanto forte, «i crociati tedeschi con i loro grandi mangani lanciarono tante pietre che rischiarono di farvi breccia». A Moissac nel 1212 «le petriere tiravano tutto il giorno senza sosta: niente di straordinario che demolissero le fortificazioni e le facessero a pezzi. Niente di straordinario che gli assediati prendessero paura»; ma quando «un grande spigolo delle mura della città precipitò nel fossato creando una breccia dalla quale si poteva passare», il fatto viene considerato un miracolo fatto da Gesù in favore dei crociati. I numerosi proiettili lanciati nel 1216 dagli abitanti di Beaucaire contro il torrione sono così efficaci che «il legno, la pietra, il piombo vengono ridotti in briciole»; una Calabre «batte e demolisce la Porta della Vigna e il suo muro». Per converso una macchina analoga, messa in campo da Simone di Monfort, «tira tutto il giorno contro il portone della città, sui merli quadrangolari e ne spezza le grosse pietre da taglio»; essa è «così solida e potente che rompe e demolisce e fa a poco a poco crollare tutta la porta». Le macchine dunque, anche qui, come già avveniva nel secolo precedente, provocano alle strutture murarie danni certo preoccupanti per chi li subisce, ma non tali da spazzare via senz'altro le mura, e quando davvero queste cadono l'avvenimento non viene attribuito tanto all'efficacia delle macchine quanto a un intervento soprannaturale. Al solito i proiettili sono molto efficaci contro le persone non sufficientemente protette: a Boves nel 1185 ben pochi difensori hanno il coraggio di rimanere sulle mura; nel 1212 le perdite causate dalle petriere tra i crociati assediati nel castello
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di Tolosa sono così forti che chiunque si fermi sul cammino di ronda cade in basso, deve ritirarsi insanguinato o viene colpito a morte poiché «le bertesche e i parapetti non li proteggono più». Lo stesso Simone di Monfort fu ucciso nel giugno del 1218 da una petriera manovrata dalle donne di Tolosa: «La pietra cadde direttamente dove occorreva; essa colpì il conte sull'elmo d'acciaio così fortemente che gli spezzò gli occhi, il cervello, i denti di sopra, la fronte e le mascelle; il conte cadde a terra molto insanguinato e livido». Ci si aspetterebbe di assistere a mutamenti rilevanti allorché, dai primi decenni del XIII secolo in poi, venne diffondendosi su scala generale il trabucco a contrappeso fisso considerato, non a torto, ben più potente delle macchine da lancio precedenti; in realtà le fonti, pur mettendo a disposizione dati numerici più abbondanti e suddivisi fra tipi di macchine diverse, non permettono di cogliere cambiamenti molto significativi. Così almeno si constata nell'Italia comunale che, essendo teatro di continue guerre, riflette certo un andamento comune anche al resto dell'Occidente: mentre continua l'impiego del mangano, la petriera viene lentamente sostituita dal trabucco. In un assedio gli attaccanti schierano in media un complesso di sette o nove macchine da lancio fra le quali spesso vi è un solo trabucco, e anche quando il numero complessivo delle macchine giunge eccezionalmente alla quindicina, esso figura sempre in quantità assai ridotte; più volte si ha menzione dei suoi contrappesi di piombo. Dopo la metà del secolo tale preminenza del trabucco passa a una nuova macchina chiamata blida, biffa, biblia, briccola: si tratta di un suo perfezionamento dotato, come sappiamo da Egidio Romano, di contrappeso mobile31. Gli apparecchi vengono talora costruiti sul posto nel corso dell'assedio, ma anche portati al seguito dai reparti operanti, probabilmente smontati, segno questo da un lato delle capacità tecniche raggiunte e dall'altro dell'esistenza di veri e propri parchi di artiglieria. Per la produzione, la custodia e il trasporto di mezzi tanto delicati e ingombranti era certo necessaria una complessa e costosa organizzazione logistica; la disponibilità di macchine da lancio veniva così a costituire una prima discriminante, sul piano economico e tecnico, fra la volontà di potenza e l'effettiva capacità di conseguirla, che escludeva senz'altro i soggetti più deboli.
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L'importanza attribuita alle macchine, e la loro relativa rarità, è segnalata anche dai nomi propri, retorici o pittoreschi, che venivano ad esse attribuiti: nel 1168 i Faentini disponevano di due mangani battezzati «Asino» e «Falcone» impiegati nella conquista di Argenta. Nel giugno del 1191, durante l'assedio di Acri, Filippo Augusto di Francia schiera una sua eccellente petraria chiamata Mala Vicina, contrapposta a una macchina turca detta Mala Cognata. L'usanza si mantiene nel tempo poiché nel 1294 gli Orvietani avevano un trabucco di nome Vattelana (cioè «battilana»), i Modenesi nel 1306 una balista chiamata Lupa, e nomi propri assumevano i trabucchi schierati nel 1304 da Edoardo I d'Inghilterra contro il castello di Stirling. Nomi simili saranno dati nel secolo successivo anche alle grandi bocche da fuoco: nei primi decenni del Quattrocento i principi d'Acaia possedevano in Piemonte bombarde chiamate Spazacampagna, l'Ardie, Dame Loyse e la più grande di esse, in omaggio ad Amedeo Vili, portava il nome di Domina Amedea. Non diversamente, nel 1474 il duca di Milano possedeva bombarde denominate Corona, Bissona, Liona e Galeazasca32. Se nulla di preciso è dato conoscere sulla gittata delle macchine a contrappeso, si può almeno registrare quanto fece scrivere il genovese Oberto Doria contro i Pisani che, nel 1283, progettavano di avvicinarsi alla città rivale per lanciarvi simbolicamente, in segno di sfida, pietre fasciate di drappi rossi: «Ho sentito talvolta dire che i trabucchi sono apparecchi che tirano molto lontano», ma se i Pisani entreranno in mare egli si avvicinerà loro tanto che per raggiungerli non saranno più necessari «né trabucchi né balestre, né altri arnesi che tirino da lontano». Possediamo qualche dato in più sul «calibro» dei proiettili lanciati. Fra le quattordici macchine schierate nel 1249 da Ezzelino da Romano contro la rocca di Este - dice Rolandino da Padova - ce n'erano che «lanciavano pietre dal peso di 1200 libbre e oltre», corrispondenti a ben 580 chilogrammi se calcolati secondo la libbra padovana «grossa» o di 405 se ci si attiene invece a quella «sottile»: un peso, in ogni caso, impressionante. Più modeste, ma egualmente ragguardevoli, erano le prestazioni delle macchine impiegate dai Forlivesi nel 1277 contro Bagnacavallo, che lanciavano pietre di 600 libbre, cioè di circa 2 quintali. Nel 1317 a Napoli Roberto d'Angiò ordina la costruzio-
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ne di dodici trabucchi: tre «grandi» in grado di gettare pietre dal peso di due cantari; tre «mediocri» per pietre di un cantaro, e tre di un quarto di cantaro. Anche in questo caso le equivalenze mutano a seconda che si intenda il cantaro grande (89 kg) o piccolo (32 kg) dando per i trabucchi «grandi» proiettili dal peso massimo di 180 kg. Per quanto imponenti, essi non supererebbero quelli lanciati nel secolo precedente dalle petriere di Filippo Augusto. Si ha l'impressione che nel corso del Trecento vi sia la tendenza a realizzare macchine sempre più potenti: i trabucchi che nella prima metà del secolo suggeriscono a Buridano la teoria delYimpetus gettano infatti proiettili di 5 quintali; nel 1374 i Genovesi impiegarono all'assedio di Kyrinia, nell'isola di Cipro, «una macchina chiamata troia» capace di lanciare pietre dal peso che andava da 12 a 18 cantari, cioè da 570 a 850 chilogrammi; e si ha notizia che i Bernesi e i Veneziani possedevano trabucchi caricati con proiettili pesanti sino a 12 e a 14 quintali33. In quei decenni tuttavia le grandi macchine da lancio tradizionali cominciano ad essere affiancate dalle bombarde: al tempo dell'assedio di Audenard nel giugno del 1382 - racconta Froissart - gli uomini di Gand costruiscono un apparecchio «meravigliosamente grande» largo 20 piedi e lungo 40 detto «mouton» per tirare pietre nella città e, accanto ad esso, una bombarda, pure «meravigliosamente grande» con un calibro di 53 pollici che gettava frecce ancora «meravigliosamente grandi e pesanti», e quando era scaricata veniva udita di giorno alla distanza di 5 leghe e di notte sino a 10 facendo «così grande tempesta da sembrare che tutti i diavoli dell'inferno fossero in cammino». Nel giugno del 1387 l'esercito padovano assedia per otto giorni Montegalda con «molte e grandi bombarde e mangani, i quali tutti lanciavano pietre nel castello e nella bastita»; la cooperazione delle vecchie e delle nuove artiglierie continuerà almeno per un altro secolo: Diomede Carafa consigliava ancora di «dare noia a quilli de dentro», oltre che con le bombarde, «dove se pò de li trabucche», e nel 1474 fra le dotazioni dell'esercito sforzesco figurano, insieme a bombarde e spingarde, anche una bricola con «la perticha, el fuso, le braghe e altri legnami et fornimenti». La «svolta decisiva» che in Francia avrebbe provocato la scomparsa delle antiche macchine «nel secondo quarto del secolo XV»34, andrebbe dunque postdatata in Italia di almeno una ventina di anni.
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Ma quale era, in generale, l'efficacia dei trabucchi? I primi menzionati nella Canzone della crociata albigese sono manovrati nel 1218 dai cittadini di Tolosa: «Belli e grandi quarti di roccia furono messi nelle fionde ed essi abbattono, rovesciano, fanno a pezzi il castello Narbonese, le sue porte fortificate, i suoi ripari, le bertesche, le caditoie che le collegano e le finestre alte della Torre Ferranda». Contro Ventimiglia nel 1221 i Genovesi fabbricano sul posto due mangani e due trabucchi che «con l'ingente mole delle pietre lanciate e con i loro formidabili colpi sconquassano la città e la riducono in rovina». Un trabucco costruito, anche là, in breve tempo sul posto colpisce le mura del castello di Monteiaro con pietre grandissime, e una di esse, penetrata all'interno, rompe la cisterna così che nel giro di diciotto giorni, gli uomini del presidio «non potendosi più proteggere», decidono di chiedere la resa. In condizioni da «non potersi più proteggere» dal tiro vengono egualmente ridotti nel 1227 i castelli di Albisola e di Savona. I trabucchi di Federico II nel 1237 martellano il castello di Montichiari, presso Brescia, «gettando a terra muri e case»; quelli di Ezzelino da Romano «danneggiano molto» il castello di San Bonifacio, spezzano le mura del palazzo nei castelli di Noale e di Mussolente nonché «muri, torri e palazzo» della rocca di Este. Nel 1230 a Cipro un trabucco abbatte quasi tutte le mura del castello di Diodamore; la sua rocca «era così forte che non si poteva scalare», ma il poeta cronista fa dire a uno dei difensori: «il loro trabucco ci fa crollare addosso i nostri forni, e anche i muri e le costruzioni di pietra, e merli e case: se ci danno l'assalto come ci difendiamo?». Sono parole che sembrano interpretare bene l'impressione di «non potersi più proteggere» espressa dagli Annali genovesi. Guido di Montefeltro nel 1278 innalza sette «mangani» (e più probabile, però, che si trattasse di trabucchi, termine sempre ignorato dal cronista Cammelli) i quali bombardano il castello di Calboli notte e giorno «distruggendo e perforando i muri, uccidendo gli uomini» così che il presidio è costretto ad arrendersi35. Gli effetti descritti, a ben vedere, non sono diversi da quelli già ottenuti da mangani e petriere, ma è possibile che la maggiore potenza delle macchine a contrappeso dovesse ormai fare i conti con strutture murarie assai più resistenti rispetto a quelle dei secoli precedenti: Egidio Colonna, negli ultimi decenni del Duecento, raccomandava di costruire le mura con un riempimento di terra
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pressata per meglio resistere ai colpi delle macchine da lancio e, nello stesso tempo, di usare come proiettili pietre di torrente più solide e adatte al tiro. Senza voler negare effetti distruttivi più estesi, certo possibili contro fortificazioni di particolare debolezza, pare, in generale, che i danni riguardino soprattutto le strutture abitative interne e non la cerchia esterna delle fortezze colpite, cosa che del resto era sufficiente a mettere i presidi in forte disagio sino a costringerli alla resa. Vi sono peraltro fortezze che, per la loro posizione o per la grande robustezza delle mura, si rivelano del tutto inattaccabili: nel 1220 contro le mura di Mortennano, spesse 10 braccia, i proiettili di mangano e del trabucco «onerato plumbo» impiegati dai Fiorentini, facevano l'effetto di semplici «fave di marmo» così che si dovette ricorrere alle gallerie di mina. Il castello di Montagnon, sui Colli Euganei, nel 1237 «non poteva essere espugnato con macchine o trabucchi poiché con essi è impossibile raggiungerlo». Teodoro di Monferrato all'inizio del Trecento, da ottimo osservatore della realtà, consiglia espressamente di non dirigere il tiro sulle mura poiché poche sono le fortezze cui si possa nuocere, ma di colpire invece le bertesche e le garitte dove i nemici stanno di guardia o, fuori di esse, le case di abitazione e i loro annessi. Da parte sua il cronista pugliese Domenico da Gravina, assistendo nel 1349 all'azione svolta da quattro trabucchi all'assedio di Corato, fa questa osservazione: «Come allora vidi e penso, un centro abitato {terra) non può mai essere preso per mezzo del trabucco il cui impiego è utile solo contro i castelli benché con i suoi colpi e con l'effrazione delle pietre lanciate, uccida molti uomini nelle bertesche e spacchi moltissime di queste ultime»36. Già nel corso della prima crociata e poi via via in modo crescente, si ha testimonianza che le macchine da lancio potevano rimanere in funzione ininterrottamente giorno e notte. Per controllare quindi il tiro notturno Egidio Colonna consiglia di legare sempre alla pietra un tizzone acceso in modo che si possa verificare l'assetto della macchina e se sia da aumentare o da diminuire il peso del proiettile. Implicitamente contrario a tale accorgimento si professa invece Teodoro di Monferrato facendo osservare che, con il favore del buio, è più difficile per gli assediati schivare i colpi in arrivo e la notte stessa, inoltre, «les grieve plus et trouble»37.
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5.3. Gli effetti psicologici. Al di là della sua reale efficacia sul piano materiale il dispositivo d'assedio messo in atto contro una fortezza assumeva, nelle sue varie componenti, un potente valore di pressione psicologica. Una silloge tattica greca consigliava all'assediarne di disporre il proprio apparato a debita distanza dalle mura, oltre che per evidenti ragioni di sicurezza, anche perché esso apparisse più terribile agli occhi del nemico. Grande effetto poteva infatti esercitare sugli assediati il numero di coloro che li tenevano chiusi e, forse anche di più, la vista dei macchinari posti in campo. Lo spiegamento dei mezzi, le scenografie dimostrative degli schieramenti, l'ostentazione della propria potenza e determinazione mira a impressionare gli assediati per indurli alla resa: l'apparato ossidionale ha dunque un valore di dissuasione psicologica forse superiore alle sue capacità di svolgere un'azione fisica diretta. Cesare racconta nel suo De bello Gallico che gli Atuatuci furono indotti alla resa alla sola vista di una torre d'assalto che si muoveva contro di essi: se i Romani erano in grado di spingere avanti con tanta rapidità macchine di mole così grande - pensarono - certo essi dovevano avere dalla loro l'aiuto divino. E un simile effetto, per quanto di per sé non risolutivo, poteva esercitarsi anche su popolazioni meno primitive e niente affatto estranee alle dimostrazioni di capacità tecnologiche. Anna Comnena scrive che quando gli abitanti di Durazzo, assediata nel 1081 da Roberto il Guiscardo, videro fuori delle mura le elepoli e l'immensa torre di legno interamente ricoperta di pelli la cui struttura superava le fortificazioni della città, furono presi dal terrore, anche se in seguito seppero reagire in modo adeguato. Nel 1107 Boemondo ripetè il tentativo già fatto da suo padre con uno spiegamento di mezzi ancora superiore, e di nuovo la prima, enorme «testuggine» da lui allestita apparve agli assediati come un «mostro indescrivibile» presentando ai loro occhi «uno spettacolo terrificante»; la seconda torre mobile, non meno della prima, risultò «spaventevole a vedersi» tanto più che «avanzava senza che si conoscesse la causa del movimento e sembrava muoversi da sola come un gigante che emerge dalle nuvole». «Grande paura» provarono - secondo gli Annali di San Disibodo - i Saraceni di Lisbona quando nel 1147 videro avvicinarsi alle loro mura la torre mobile costruita dai crociati, tutta piena di armati e anch'essa debitamente coperta di pelli di toro; pare anzi
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che tale misura di protezione contribuisca a dare ai mezzi d'assedio un aspetto più spaventoso e temibile. A maggior ragione la complessità delle macchine che riuniscono in sé - come si è visto una molteplicità di funzioni conferisce loro un aspetto insolito che impressiona psicologicamente l'avversario: la «maristella» fatta allestire da Federico II contro Viterbo viene infatti descritta come un «mostruoso edificio», e ancora nel 1377 gli abitanti di Bergerac rimasero esbahis - dice Froissart - di fronte alla «troia» che i Francesi avevano faticosamente trasportato davanti alle loro mura, tanto da indurli ad arrendersi senza combattere. Non a torto, quindi, Teodoro Paleologo sottolinea l'utilità di dotarsi di apparecchiature che «spaventino e stupiscano i nemici». Ignoriamo che cosa fossero esattamente i machinamenta di cui disponevano Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero nel 1059 durante l'assedio di Reggio Calabria, ma gli abitanti appena li videro rimasero terrorizzati e senz'altro si sottomisero; altrettanto fecero nel 1082 in Grecia i trecento Varangi che difendevano Castoria, e nel 1098 i ribelli cittadini di Capua38. Un potere simile ebbero certe macchine da lancio e specialmente, nel XIII secolo, i trabucchi messi in campo dai Genovesi: nel 1216 Vernazza si ribellò al dominio di Genova aderendo ai Malaspina, l'esercito genovese intervenne, prese e bruciò il borgo e mise l'assedio al castello; coloro che vi erano rinchiusi, vedendo che si preparavano contro di loro macchine e trabucco, si arresero immediatamente. Nel 1273 il presidio del castello di Tagliolo alla sola vista delle macchine fu preso dal panico e cedette; durante le operazioni condotte in Corsica nel 1289 bastò che un trabucco tirasse un paio di giorni ininterrottamente contro il castello di Rocca di Valle perché i difensori «timore moti» rinunciassero a ogni ulteriore resistenza. Contro gli abitanti del fortissimo castello di Caspigra fu addirittura sufficiente erigere il trabucco per indurli rapidamente alla resa. Non solo i prestigiosi artiglieri genovesi, del resto, conseguivano simili risultati: il marchese d'Este nel 1239, recuperando le sue terre occupate da Ezzelino da Romano, ottenne il castello di Calaone - dice Rolandino - «per paura dei trabucchi». La sola minaccia di ricorrere a tali macchine poteva dunque avere un effetto deterrente tale da convincere senz'altro un presidio alla resa. Non a torto quindi - raccomandava Marin Sanudo Torsello - ogni comandante di esercito deve
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ben riflettere sulle macchine da lancio poiché, se esse si mostrano all'altezza del loro compito, «il nemico ne avrà molta paura, tanto che dal terrore sarà costretto a cedere il campo o la piazza»39. All'impiego delle «artiglierie» si collegano usi che intendono anch'essi esercitare una pressione psicologica non necessariamente basata sulla loro capacità distruttiva. Nel 1229 a Cipro, il traditore che aveva indicato al nemico i punti deboli del castello di Kyrinia sui quali indirizzare l'offesa, fu giustiziato - dice Filippo da Novara - gettandolo con il trabucco contro le mura del medesimo castello. Le macchine da lancio possono inoltre essere utilizzate per eseguire tiri, diciamo così, «non convenzionali» intesi a ottenere effetti di natura puramente psicologica: nel 1097 i crociati proiettarono in Nicea le teste dei nemici uccisi in uno scontro affinché i Turchi «si spaventassero maggiormente». Nel corso del Duecento, specialmente in Toscana e in Emilia, si stabilì l'usanza di lanciare entro le mura di una città assediata, con intento di insulto e sfida, disprezzo e irrisione, i corpi di certi animali, soprattutto asini: cinque ne gettarono «per dispetto e vergogna» i Fiorentini in Siena nel 1233; un asino vivo fu «trabuccato» dai Bolognesi in Modena nel 1249; e ancora nel 1289 i Fiorentini, dopo la vittoria di Campaldino, «manganarono» in Arezzo «asini colla mitria in capo per dispetto e rimproccio del loro vescovo». Nel «manganare» o «trabuccare» un asino all'intenzione di dileggiare l'avversario si univa probabilmente un'implicita dimostrazione delle proprie capacità tecniche dato il peso cospicuo dell'animale. Ma il lancio di materie «improprie» poteva anche passare dal simbolico al pratico. Nel 1309 i Veneziani in lotta contro i Ferraresi, come da tempo era uso nelle battaglie navali, ricorsero alla proiezione di «olle piene di sterco e orina, calce, sapone, zolfo e pece infuocati»; non a caso, dunque, Mariano Taccola nel 1449 contempla che città, rocche e castelli possano essere conquistati «per feci e pesce corrotto lanciati con mangano», e più avanti aggiunge all'elenco «cadaveri umani e acqua putrefatta con cipolle, formaggio e biade»: i componenti del presidio si sarebbero così presto ammalati e quindi costretti a sottomettersi40. Eccoci dunque passati dal semplice dileggio a una vera e propria guerra «batteriologica». Gli attacchi - consigliano i trattatisti - devono essere reiterati senza sosta con spiegamento di mezzi e di rumori improvvisi, di
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giorno e soprattutto di notte poiché il buio, come si è già visto, accentua ancora l'effetto terrorizzante. Durante la guerra greco-gotica il presidio dell'inespugnabile fortezza rupestre di Petra Pertusa, lungo la via Flaminia, si arrese a discrezione perché spaventato dagli enormi blocchi di roccia che i Bizantini avevano fatto piovere dall'alto di un dirupo. In certi casi può essere sufficiente a intimidire l'avversario la determinazione di pochi. Parpanese, castello pavese posto al confine con Piacenza e dotato di una solidissima torre presidiata da oltre cento uomini, viene attaccato nell'ottobre del 1214 dai Piacentini e dai Milanesi che riempiono i fossati e giungono sugli spalti; i difensori, vedendo che i nemici «non intendevano desistere», si rifugiano nella grande torre. Alcuni Piacentini, proseguendo nell'azione, spaccano con le scuri il ponte levatoio, lo abbattono e giungono di corsa con le armi brandite, levando alte grida, fino ai piedi del torrione dove cominciano a scardinare con grandi colpi la porticina posta accanto alla porta maestra. A quel punto i difensori, «fortemente impressionati e anzi presi da folle paura, facendosi con il braccio il segno della croce, si arrendono ai consoli di Piacenza». L'aggressività mostrata dagli attaccanti aveva tolto ogni volontà di continuare una resistenza che in realtà avrebbe potuto proseguire ancora molto a lungo. Durante la medesima campagna, altri castelli fortissimi come Bosnasco e Rovescala avrebbero ceduto semplicemente alla vista del modo «mirabile» con il quale i Piacentini si preparavano ad attaccarli. Casale Monferrato, assediato il 17 luglio di quello stesso anno, resiste validamente sinché - dice ancora il cronista Codagnello - gli abitanti, scorgendo i nemici, risoluti a non desistere dall'impresa, dirigersi verso di loro armati e disposti «in schiera strettissima» con tutti i mangani, petriere, gatti, torri mobili, ponti e più di cento scale, furono presi dal panico e si diedero prigionieri al podestà di Milano. E i difensori di Soriasco, nell'Oltrepò pavese, dopo un solo giorno di assedio, «vedendo i Milanesi e i Piacentini che stavano schierati attorno al castello con innumerevoli scale e altre macchine, preparandosi a dare l'assalto, oppressi dal terrore, ritenendo di non poter più resistere né difendersi», si arrendono. Nell'opera di intimidazione, far credere agli assediati che le loro mura erano minate e stavano per cadere, poteva assumere un'importanza determinante. Nel febbraio del 1267 Carlo d'An-
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giò aiutò i Lucchesi nella conquista del castello pisano di Mutrone «che era fortissimo di mura grossissime» ben difficili da superare; agli assediati si fece intendere che era in corso lo scavo di una galleria di mina: «per ingegno e inganno - scrive Giovanni Villani - la notte faceano recare calcinacci d'altra parte e il dì li faceano gittare fuori mostrando che fosse del tagliamento del muro del castello, per la qual cosa quegli d'entro impauriti s'arenderono salve le persone; e usciti del castello, e vedute le cave, s'avidono dello inganno». In seguito tale espediente è dato dal Cornazzano come pratica corrente: «Spesse volte anche dimostranza fassi / di cave già fornite e d'altri viste / onde la terra per temenza dassi»41. Naturalmente anche il fuoco ha grande valore intimidatorio e può essere utilizzato per piegare psicologicamente il morale dei difensori. Ad esso ricorrono con frequenza i Comaschi nella loro lotta contro Milano e i suoi alleati: nel 1120 viene attaccata la torre di Lierno «piena di uomini superbi, troppo vocianti ingiurie turpi; infatti sol parole dicevano», ma «mentre fanno gli spacconi e tali ciance sbraitando vanno», ecco che «sul tetto avvampa la gettata fiamma: vinta di colpo la superbia cade e affloscia. Ora, annodate le funi, uno dopo l'altro, se ne fuggono via». L'anno dopo è la volta del castello di Drezzo: visto vano ogni sforzo i Comaschi «preparan quindi il medicato fuoco» e Pagano Prestinari scocca una «infocata, fiammeggiante, luminosa saetta»; i tetti «ardono tosto fumigando e una densa caligine s'aderge ad offuscare il cielo»: i difensori resi trepidanti dalla paura, subito si arrendono. Più tardi coloro che sono rinchiusi nel campanile fortificato di Menaggio provocano i Comaschi insultandoli duramente; per tutta risposta il loro ariete scava nella parete una fessura e «per là la fiamma immettono e fan penetrare le torce. L'acceso fuoco tosto fiammeggiando divampa in un baleno» e subito gli assediati «al1 appressarsi della morte invocano aiuto», viene loro gettata una fune e tutti riescono a calarsi a terra «e così già di morte sulla soglia al rischio sono sottratti». Nel giugno del 1246 Padovani e Bassanesi assediano per conto di Ezzelino da Romano il castello trevigiano di Mussolente che resiste intrepido all'incessante martellamento dei trabucchi sinché, dopo nove giorni, vanno a fuoco il villaggio e la cinta esterna: «A quella vista quelli che erano nel castello, pensando che loro non poteva toccare che la morte, consegnarono la fortezza, se
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stessi e tutto ciò che avevano». Dieci anni dopo, quando i crociati antiezzeliniani attaccano Bovolenta, un incendio danneggia gravemente il borgo: non solo i difensori del castello ne furono terrorizzati, ma «il fumo che si levò di là fu segno per tutti quelli della parte avversa, che stavano in Piove di Sacco e in Padova, che grandi pericoli e paure li aspettavano, e fu premessa della successiva rapida sconfitta». Talora interi gruppi di fortezze cadono, per una specie di «effetto domino», in seguito alla paura da cui sono invasi coloro che dovrebbero difenderle. Quando nell'894 Arnolfo di Carinzia scese dalle Alpi per far valere le sue pretese imperiali - scrive Liutprando di Cremona - «accolto dai Veronesi, va verso la città di Bergamo dove, confidando nelle fortissime mura del luogo, non gli si aprono le porte credendo di poter tranquillamente resistere». Le mura invece, contro ogni previsione, cedono, si apre una breccia e attraverso di essa gli aggressori penetrano in città, la incendiano, trucidano la popolazione e infine impiccano sulle mura violate lo stesso conte di Bergamo che aveva guidato la resistenza. Lo sconcerto provocato dall'inatteso avvenimento è tale che le più importanti città del regno italico, benché protette da solide cerchie di mura, subito si sottomettono ad Arnolfo senza resistere. La grande emozione suscitata dall'improvvisa caduta di Bergamo (verisimilmente dovuta a caso accidentale più che alla superiore perizia poliorcetica degli attaccanti) pesò sul morale dei difensori per tutta la durata della campagna e soprattutto pesò il trattamento inflitto alla città, brutale espressione di furor teutonicus cui la mentalità italiana, sotto la dominazione carolingia, si era disabituata. Fenomeni simili accaddero in Puglia e in Sicilia durante la conquista normanna: gli invasori concentravano i loro sforzi contro una fortezza e quando riuscivano ad averne ragione, vi irrompevano depredandola: «Per conseguenza - riferisce Goffredo Malaterra - anche i rimanenti castelli circonvicini, vedendo ciò che sarebbe loro toccato, spontaneamente si sottomettevano al loro potere»42.
6. La terra e il fuoco «Gli assedianti - consiglia Egidio Colonna - devono segretamente scavare la terra in un certo luogo nascondendolo agli occhi
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del nemico, se necessario, con una tenda o con un edificio, e ivi aprire gallerie sotterranee, come fanno i minatori per cercare argento o altri metalli, più profonde di quanto lo siano i fossati della fortezza da espugnare in modo da arrivare sotto le sue mura»; queste vengono provvisoriamente sostenute con puntelli di legno ai quali in un secondo tempo si appicca il fuoco provocandone così il crollo. Se la caduta avverrà verso l'esterno si otterrà anche il riempimento dei fossati agevolando così l'accesso agli assalitori. Le gallerie possono anche proseguire oltre la cerchia, in modo da sbucare direttamente nella città o nel castello assediato in simultaneità con la caduta delle mura. Bisogna però usare alcune ovvie avvertenze: occorre via via armare le pareti con legname per evitare che la terra franando soffochi i minatori; il materiale estratto va nascosto agli occhi degli assediati perché non si accorgano dell'operazione in atto, e infine, al momento di appiccare il fuoco ai puntelli, occorre che tutti si ritirino in luogo sicuro per evitare di rimanere sepolti. La pratica di minare le mura delle fortezze assediate, corrente nell'antichità, sarebbe già stata impiegata nel 1066 in Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore, il quale a Londra e a Exeter avrebbe anche avuto a disposizione macchine per scalzare le mura. Durante la prima crociata, poi, tale tecnica giovò, come si è visto, alla presa di Nicea. L'uso delle gallerie da mina non si diffuse però con facilità e probabilmente dovette essere più volte riscoperto sia per semplice intuito, sia attraverso la lettura della trattatistica antica. Mentre durante il primo assedio di Durazzo, avvenuto nel 1081, Roberto il Guiscardo ancora ignora le mine, esse vengono utilizzate nel 1108 da suo figlio Boemondo: «Scavando avanzarono sotto terra come talpe che aprono il loro cunicolo - scrive infatti Anna Comnena - e progredirono in linea retta con una galleria molto larga e lunga togliendo continuamente terra con l'aiuto di carri. Quando ebbero condotto sufficientemente avanti il loro scavo, essi si rallegrarono come se avessero compiuto una grande prodezza», mentre la loro iniziativa era destinata al fallimento. Pochi anni dopo ecco gli zappatori pisani in azione contro le mura di Maiorca: «Vacillavan le torri di Maiorca / e crollavan le mura, che scalzava / lo scavatore, a cui per ogni giorno una bionda moneta si donava», sinché «ampia una breccia per quaranta passi fu aperta nelle mura».
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Meno buoni sono i risultati ottenuti nel 1147 a Lisbona dai crociati inglesi, tedeschi e fiamminghi: gli uomini di Colonia per ben cinque volte tentano di minare il muro mediante «fosse sotterranee» e per altrettante volte i tentativi vanno a vuoto; solo in ottobre l'impresa finalmente riesce: crollano 200 piedi di muro, ma la resistenza opposta dai Saraceni è tale che le truppe d'assalto non riescono egualmente a entrare in città43. Come già Guglielmo il Conquistatore, anche Federico I nel 1155 dispone a Tortona di una macchina denominata talpa, nome più che appropriato per la funzione di scavo che è destinata a svolgere; Ottone di Frisinga presenta, tuttavia, l'attacco mediante cunicoli come un «artificio inusitato». Nonostante la novità del procedimento i Tortonesi ne sarebbero venuti a conoscenza - sospetta il cronista per il tradimento di qualcuno del campo imperiale, e furono in grado di parare il colpo. Ancora fallimentare fu il tentativo compiuto da Federico I nell'inverno del 1174 ad Alessandria: l'imperatore - scrive Romualdo Salernitano - «ordinò di fare fosse e cunicoli sotto terra, e vi fece entrare cavalieri armati perché attraverso di essi improvvisamente irrompessero nella città» impreparata a quella trappola. Gli Alessandrini percepirono il pericolo e, armi alla mano, impedirono virilmente l'ingresso ai Tedeschi. La potenza divina volle poi che una parte della galleria crollasse seppellendo coloro che vi si trovavano così che il disastro fu completo. La vera e propria collezione di fallimenti cui abbiamo assistito fu interrotta in Francia dai tecnici di Filippo Augusto i quali nel 1185, con la protezione di un «gatto», praticano sotto le mura esterne di Boves uno scavo «da manuale»: incendiati quindi i sostegni il muro crolla; tra nembi di polvere e fumo i guerrieri corazzati francesi irrompono sul nemico colto di sorpresa e «molti trucidano e molti catturano». Altra brillante operazione pienamente riuscita fu la mina (questa volta praticata direttamente alle fondamenta delle mura) che permise al re di impadronirsi nel 1203 dell'imprendibile Chàteau Gaillard. Nonostante tali precedenti, qualche anno dopo l'ambiente militare fiorentino, di norma assai aggiornato nelle tecniche, considerava ancora la risoluzione di un assedio mediante lo scavo di gallerie come «cosa inaudita e per l'innanzi insolita». L'attacco sotterraneo condotto nel 1220 contro le fortificazioni di Mortennano comportò spese in-
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genti e quaranta giorni di dure fatiche, ma la torre del castello e le sue mura spesse 10 braccia in un attimo furono distrutte dalle fondamenta; il comune di Firenze, soddisfatto dell'esito, in segno di riconoscenza, esentò l'ideatore del progetto e i suoi discendenti da ogni futura imposta e prestazione44. Nel 1228 la medesima tecnica appare ben nota ai Bolognesi che giungono a scalzare le fondamenta del castello di Piumazzo «per terrarum cavernas» e, nello stesso anno, insieme con i Faentini, minano il castello modenese di Bazzano sinché «appiccato il fuoco al legname che sosteneva il muro, questo crollò in quantità non piccola»; solo l'accanita resistenza opposta dai difensori fece fallire l'attacco. Nel 1241 i minatori di Federico II penetrano in Faenza per cunicoli sotterranei sino a scontrarsi con gli avversari, e l'anno dopo l'imperatore con lo stesso mezzo sperò inutilmente di ottenere Viterbo. Ezzelino da Romano per conquistare il castello di Este nel 1249 ricorre ai minatori delle argentiere carinziane in grado - dice Rolandino da Padova, in vena di richiami mitologici - di far entrare in una notte «cinquecento fanti saltati fuori miracolosamente dalla terra, come gli uomini di Cadmo dalla semina dei denti». Lo scavo di gallerie sembra dunque conservare qualcosa di favoloso benché l'uso, là dove il terreno lo permette, sia ormai corrente. Firenze dopo il successo di Mortennano vi ricorre spesso contendendo a Siena i minatori (qui detti guerchi) che operano nelle miniere d'argento di Montieri, presso Volterra. Contro il castello senese di Selvole nel 1231, a lungo e inutilmente bersagliato con i mangani e con il fuoco, i Fiorentini, «scavate le rive e penetrati sotto le mura, le ruppero insieme con la torre», e nel 1324 la rocca di Cappiano si arrese loro «per tema di cave e di edificii». Non sono da meno, naturalmente, gli avversari di Firenze: i Pisani nel 1263 scavano «fosse sotterranee» sotto la rocca di Castiglioncello; Castruccio Castracani, assediato nel 1325 Montemurlo, «fece cavare il castello - dice Giovanni Villani - dalla parte della rocca e fece cadere molto delle mura»; ciò nonostante i difensori respinsero le ingiunzioni di resa sinché furono avvertiti che quanto ne rimaneva era a sua volta minato e poteva crollare da un momento all'altro; vollero controllare di persona e quindi, «veggendo per le cave cadere le mura e per li molti edifizii flagellati», acconsentirono finalmente di arrendersi a patti. Non volle invece
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in nessun modo cedere il presidio della torre di Porto Pisano, messa «sui puntelli» dai Genovesi nel 1290, che crollò facendo scempio dei difensori45. Il ricorso alle cave sotto le fortificazioni viene ancora consigliato da Jean de Bueil nel 1466, e dieci anni dopo da Antonio Cornazzano, in tempi in cui la polvere da sparo era ormai da tempo entrata nell'uso; sin dal 1403 però il fiorentino Domenico Benintendi aveva espresso l'idea di attivare le mine con la polvere da bombarda, e in seguito Mariano Taccola in uno dei suoi disegni aveva ben illustrato gli effetti teorici di una mina esplosiva. Filippo di Clève, che conosceva la mina fatta brillare da Francesco di Giorgio Martini a Napoli nel 1495, ancora vent'anni dopo suggerisce l'applicazione della polvere da sparo non per ottenere un'esplosione, ma solo per accelerare la combustione dei tradizionali sostegni di legno posti sotto le fondamenta, una tecnica nella quale eccellevano allora, più che gli Italiani, i minatori belgi di Liegi e di Namur46. In verità da tempo immemorabile l'uso del fuoco era uno degli elementi immancabili nell'investimento di ogni piazzaforte: l'arazzo di Bayeux raffigura due guerrieri che, brandendo lance portafuoco, si sforzano di incendiare la palizzata del castello di Dinant; nel febbraio del 1115 il fuoco ebbe una parte importante nell'espugnazione di Maiorca da parte dei Pisani: «Appiccano i Latini alle moresche macchine le fiamme / nelle notturne tenebre e con l'arte dagli avveduti Greci or non è molto / ritrovata, mirabile, che all'uomo, / come se in nessun luogo sia, si cela, uno dei castelli bruciano alla svelta. / Carboni ardenti e volanti faville / qua e là si spargono, e sospinte / le scintille s'avventano attraverso / il tavolato d'un altro castello, / che arde ben tosto dalle fiamme avvolto». Nei numerosi assalti a fortificazioni cui fu costretto, in quegli stessi anni, Luigi VI di Francia, il fuoco non manca mai: nel 1101 il castello di Monchy viene bruciato sino al recinto della torre maestra; Luzarches è attaccato l'anno dopo «ora con le armi ora con il fuoco», e Meung «fu oppresso in modo intollerabile con il lancio di armi e di fiamme», sinché cedette. I Genovesi nel 1125 attaccano il castello e il borgo di Piombino «appiccando il fuoco e combattendo»; nel 1239 Federico II si impadronisce del castello bolognese di Piumazzo «premesso il fuoco al primo assalto con
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fiamma e incendio» e lo stesso avviene a Crevalcore: «Il nostro vittorioso esercito, venuto allo scontro - scrive l'imperatore stesso lo prese in un attimo e in un batter d'occhio con le fiamme e con la spada», e le sue macchine nel 1243 a Viterbo «lanciano spesso il fuoco»47. Mancano, in tutti questi casi, particolari più precisi sull'uso che gli attaccanti facevano del fuoco; naturalmente, essendo le porte i punti più vulnerabili di ogni fortificazione, esse dovevano essere l'obiettivo preferito anche mediante il semplice accostamento di materiali infiammabili: nel 1111 Luigi VI fece avvicinare alla porta del castello di Puiset carri carichi di legna secca trattata con grassi per offrire maggiore alimento alle fiamme; i Pavesi nel 1202 attaccarono Robbio «ponendo con la forza il fuoco davanti alla porta di quel castello per bruciarlo insieme con quelli che vi erano dentro». A Padova nel 1256 l'esercito antiezzeliniano tentò di forzare la porta Altinate mediante un «gatto»; i difensori lanciarono su di esso materiale incendiario che si propagò alla porta; subito dall'esterno - scrive Rolandino - aggiunsero «legno al legno, fiamma alle fiamme, strame a strame» così che la porta bruciò provocando la caduta della città. Nel 1329 il principe d'Acaia retribuì con 50 lire i «barattieri» che trasportarono la legna per appiccare il fuoco alla porta del castello di Morozzo. Tolosa, priva di mura, nel 1218 venne attaccata con il fuoco almeno due volte: dapprima avanzarono «genti di razza straniera» portando a tradimento «fuoco, paglia, torce e tizzoni», ma esse furono colpite prima che riuscissero a incendiare la palizzata; un'altra volta carrette cariche di sarmenti e di legna ardente furono condotte di corsa sino al fossato, subito «la paglia fiammeggia, l'incendio si estende», ma i cittadini accorrono con acqua e con pietre, e coloro che avevano condotto le carrette sono costretti a una fuga precipitosa48. Talora il fuoco veniva semplicemente acceso contro le mura delle fortezze attaccate: ecco ancora i Pisani a Maiorca nel 1115: «Le schiere si fan sotto e il fuoco è posto ai piedi della torre». Pochi anni dopo i Comaschi contro l'Isola Comacina «accatastata molta segata legna, ad essa dan fuoco. Trepidano gli assediati che sortire non possono dal castello circondato». Il castello di Salussola, presso Vercelli, viene messo in grave pericolo dalla semplice accensione dei rovi secchi cresciutigli intorno.
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All'alba del 23 dicembre 1242 i Bresciani attaccano Palazzolo sull'Oglio dopo aver «messo il fuoco in più luoghi» e, in un secondo tempo, gettando il fuoco nelle case e nel «legname fatto portare presso le torri». Federico II lancia carrelli incendiari unti di grasso nel fossato di Viterbo insieme con fascine di sarmenti per appiccare il fuoco allo steccato, ma senza riuscirci. A Tezzoli, presso Mantova, nel 1267 gli attaccanti appiccano addirittura il fuoco a una torre mobile e la spingono contro il castello il quale, «incendiato tutto intorno», viene facilmente conquistato. Mariano Taccola nel 1449 propone un suo metodo di attacco che si collega all'antichissimo uso degli animali portatori di fuoco: se all'interno di un castello vi sono case coperte di legno o di altro materiale infiammabile, si prenda un gatto o un topo e lo si imbeva di acquavite attaccando poi alla sua coda un canapo acceso trattato con zolfo; introdotto attraverso una fessura del muro o una fognatura, l'animale correrà qua e là causando inevitabilmente un incendio e agevolerà così la conquista del luogo poiché - aggiunge più avanti - gli assediati non potranno spegnere il fuoco e nel contempo difendere le mura49. Le fiamme, una volta accese, divengono facilmente pericolose anche per coloro che le hanno provocate talché le lesioni causate dal «fuoco amico» non sono affatto rare. Nel 1169 i Genovesi, per impadronirsi del castello pisano di Capalbio, incendiano tutto ciò che lo circonda, ma la fiamma «retro comburente» li costrinse a rinunciare all'azione. Qualcosa di analogo successe nel 1234 ai Piacentini che assediavano il castello di Pigazzano: attraverso un foro praticato nel muro misero fuoco a un deposito di fieno e di legna il quale produsse una temperatura tale che non solo impedì loro l'ingresso, ma li indusse a ritirarsi. Nel 1263 i Pisani scavano gallerie sotto le mura di Castiglioncello, i Lucchesi rispondono lanciando il fuoco «liquido» attraverso un cunicolo di contromina, se non che le fiamme, attraverso i camini di tiraggio, si propagano alla rocca superiore costringendo il presidio ad abbandonare la difesa. Nel 1314 - narra Albertino Mussato - Cangrande della Scala incendiò Abano Terme per terrorizzarne i difensori, le fiamme però, librandosi inaspettatamente in senso contrario, uccisero molti suoi uomini e cavalli. Siamo qui ai margini di quegli effetti causati dal mutare improvviso del vento, o da altri imprevedibili elementi, che vengono volentieri interpretati come fatti miracolosi.
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Il fuoco fatto appiccare nel 1033 a un castello dal conte Goffredo costringe il presidio a rifugiarsi nel dongione e già pensa di venire a patti per avere salva la vita quando, miracolosamente, le fiamme si arrestano proprio davanti a una chiesa di legno. Per intervento del beato Pietro Levita di Salussola i rovi incendiati, come si è visto, attorno a quel castello, spinti dal vento, finiscono parte contro i beni di coloro che avevano suscitato il fuoco e parte in luoghi disabitati e lontani mentre tre colombe - al dire di alcuni testi - sorvolavano per tre volte il cielo. A Viterbo nel 1243 un diabolico vento spirante da occidente favorì inizialmente gli espedienti incendiari messi in atto contro la città da Federico II, ma si rivolse poi - per virtù della beata Vergine - contro le sue torri d'assalto, dodici delle quali furono ridotte in cenere. Terribili erano gli effetti del fuoco nelle lotte cittadine durante le quali le tecniche della guerra d'assedio venivano applicate a un ambiente per sua natura di grande vulnerabilità. A Firenze nel 1295 - scrive Dino Compagni - «il popolo trasse al palagio del podestà con la stipa per ardere la porta» e facilmente ci riuscì con conseguente saccheggio e devastazione. Altrettanto facile e ricorrente era l'incendio delle abitazioni appartenenti alla fazione avversa: nel 1301, al rientro in città di Corso Donati, vengono prese di mira le case dei popolari, «e quelli difendendosi miservi fuoco e arseno le case d'intorno ch'erano loro». Più tardi lo stesso Corso Donati «con balestra e con fuoco combatté il palagio dei Signori» e, nel corso dei disordini, i suoi seguaci «misero fuoco ne la torre dei Rondinelli». Il culmine fu toccato il 10 giugno 1304 allorché Neri degli Abati, «uomo reo e dissoluto», non esitò a incendiare la casa dei suoi stessi consorti in Orsanmichele mentre altri lanciarono il fuoco in Calimala e lo appiccarono alle case dei Cavalcanti così che - conclude Giovanni Villani - «arse tutto il midollo, e tuorlo, e cari luoghi della città di Firenze»50. Nonostante i suoi terribili effetti non risulta che l'impiego del fuoco in guerra fosse sentito come un atto poco cavalleresco o contrario al codice morale corrente: non solo manca ogni condanna esplicita di un suo uso indiscriminato, ma vediamo talora considerate come imprese del tutto meritorie e onorevoli le azioni con esso condotte: nel 1244 Andriolo de Mari sottopose il territorio savonese a «fuoco e rovina» sino ai fossati della città e se ne torno a Genova «con onore», e Rolandino da Padova, sempre
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attento a mettere in rilievo le virtù militari dei suoi concittadini e il loro spirito cavalleresco, considera che essi abbiano agito viriliter incendiando uno dei sobborghi di Bassano e distruggendo mediante il fuoco Villanova Veronese. Né le fonti, in genere, ritengono degne di particolare attenzione le vittime di un impiego militare del fuoco51.
7. La scalata, la forza, il tradimento Tra i modi di impadronirsi di una fortezza «per battaglia», il più «comune e pubblico» - dice Egidio Colonna - consiste nell'awicinare scale alle mura e condurre un attacco appoggiati dal tiro dei propri arcieri, balestrieri e frombolieri: un modo semplice e diretto, è vero, ma pericoloso e difficile se non attuato di sorpresa. Secondo il cronista Malaterra gli uomini di Roberto il Guiscardo penetrarono nel 1071 in Palermo e nel 1084 in Roma collocando silenziosamente le scale in una parte poco sorvegliata delle mura per poi aprire le porte dall'interno al resto dell'esercito. È per questo che l'attacco mediante scalata avviene assai spesso nelle ore notturne e scegliendo i luoghi più accessibili e meno sorvegliati. Nel 536 Belisario fece appoggiare alla cinta di Napoli le scale e ordinò la scalata, ma nessuna di esse arrivava fino agli spalti: i falegnami le avevano fabbricate al buio e non erano riusciti a farle della misura giusta. Le legarono allora a due a due e, salendole così accoppiate, i soldati riuscirono a superare le mura. Nel giugno del 1098, nella notte in cui Antiochia venne consegnata ai crociati, sessanta di essi salirono per una scala «già drizzata e fortemente legata alle mura della città», che però presto si ruppe facendoli «piombare in grande angoscia e tristezza»: il colpo comunque riuscì. Scale d'assalto assai sofisticate furono messe a punto, intorno al 1075, dal capopopolo milanese Erlembaldo per espugnare le case forti in città: esse erano alte venti cubiti, ferrate alla base, in grado di reggersi da sole52. L'impiego di scale è documentato come corrente in ogni azione di sorpresa, specialmente notturna, come quella che nel 1230 consentì ai Senesi di prendere e distruggere il castello fiorentino di Stiella: il comune retribuì poi con 10 soldi gli uomini che «re-
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cuperarono le scale usate a Stiella abbandonate da coloro che le avevano portate». In modo simile, nel dicembre del 1242, il podestà di Brescia conquistò le torri di Palazzolo sull'Oglio: «I nostri, agguerriti e valorosi, con somma audacia, come era stato disposto, valicato a guado il fiume Oglio nel luogo di Mora, appoggiando le scale superarono virilmente il muro» tenendosi quindi pronti a un ulteriore balzo prima dell'alba. I mercenari inglesi operanti in Italia dopo la metà del XIV secolo avevano messo a punto scale particolarmente adatte alle sorprese notturne nelle quali erano specialisti: «Scale avevano artificiose - scrive Filippo Villani - che il maggiore pezzo era di tre scaglioni, e l'uno pezzo prendea l'altro a modo delle trombe e con essa sarebbero montati in su ogni alta torre». Una scalata notturna nello stile dei mercenari inglesi viene analiticamente raccontata, nel secolo seguente, dallo Jouvencel di Jean de Bueil. Occorre agire in silenzio - egli spiega - per non svegliare le sentinelle nemiche; sarebbe quindi preferibile avere scale di corda le quali, inoltre, non si rompono mai, mentre ciò avviene spesso con quelle di legno quando le si carica un po' troppo. In ogni caso esse devono essere smontabili in modo che ciascun uomo partecipante all'azione possa portarne agevolmente un troncone sul dorso; una volta individuato il punto più favorevole per la scalata, senza che nessuno dei componenti la squadra debba muoversi dal suo posto, i tronconi vengono fatti passare di mano in mano e si innestano l'uno sull'altro: i ramponi d'attacco devono essere stretti, i punti di giunzione ben scorrevoli e i pioli debitamente rinnovati in modo che non emettano il minimo rumore. Montata la scala, sale l'uomo più vicino che ha il compito di fissare sull'alto del muro, fra due merli, un grosso bastone dal quale far pendere una scala di corda di riserva. Tutti saliranno in silenzio: in questo modo le sentinelle, sorprese, saranno eliminate e la fortificazione cadrà facilmente nelle mani degli attaccanti53. L'attacco per scalata non si limita tuttavia a subdole azioni notturne, ma comprende anche audaci imprese compiute in presenza del nemico, assai frequenti nel corso della prima crociata. Ecco come l'anonimo cronista, con vivacità di testimone diretto, descrive l'ardore e il vigore dei tentativi messi in atto l'I 1 dicembre 1098 sotto le mura di Marra: «I cavalieri combattevano ogni giorno il nemico drizzando scale contro le mura della città, ma il va-
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lore dei pagani era tale che i nostri non potevano fare alcun progresso. Ciò nonostante Gulfero di Lastours salì per primo sul muro con una scala che si ruppe sotto il peso dei suoi compagni troppo numerosi. Egli giunse nondimeno sul muro con alcuni altri; avendo intanto trovato una seconda scala la drizzarono rapidamente: molti cavalieri e fanti subito vi salirono e scalarono a loro volta il muro. I Saraceni li attaccarono con tale vigore, sul muro e in terra, lanciando frecce e puntando loro addosso le lance che molti dei nostri, presi da paura, si gettarono dall'alto»; altri, per contro, resistono valorosamente mentre dal basso le mura vengono minate e la città è così costretta alla resa. Nel giugno del 1099, quando i crociati giunsero sotto Gerusalemme - dice lo stesso autore - «aggredimmo la città fortissimamente e in modo talmente ammirevole che se le scale fossero state pronte, essa sarebbe caduta nelle nostre mani al primo assalto». Nel marzo del 1115 i Pisani attaccarono Maiorca: Ugo Focaccia «sale per i gradini di una scala. / I cinque Mori che di sopra stanno / le loro forze oppongono e si serrano / con molte grida sull'ardito giovane. / Nessuno infine può recare aiuto / a quell'ardimentoso, che resiste / con lo scudo e con l'elmo a mille colpi» riuscendo infine a conquistare la torre. Pochi anni dopo ecco i Comaschi contro la fortezza di Capella: «Alla muraglia appoggiano le scale e, su per esse entrati, uccidon chi fa resistenza. / Scalzan la torre e ne abbattono la cima». La rottura di una scala in piena azione - come si è visto - non era un avvenimento raro: anche nel 1156, all'assedio di Zara, morirono così numerosi «nobili loricati» veneziani. Non minore audacia mostrarono, circa mezzo secolo dopo, i crociati conquistatori di Costantinopoli: nel luglio del 1203 - racconta Villehardouin - «drizzarono le scale contro un barbacane presso il mare. E il muro era guarnito di Inglesi e di Danesi, e l'assalto fu forte, buono e duro. E di viva forza due cavalieri e due 'sergenti' salirono sulle scale e conquistarono il muro contro di loro. Salirono circa una quindicina e si combatteva a corpo a corpo con le asce e con le spade»54. Dei trecentosettanta assedi del XIV secolo ricordati nelle Cronache di Froissart, nel 30 per cento dei casi si tenta un assalto, nel 20 per cento si utilizzano macchine d'assedio e si pratica una scalata, tecnica che continua quindi ad essere più che mai attuale e pericolosa per gli attaccanti. Il castello di Montegalda il 13 luglio
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1387 fu assalito dai Padovani «pensando - scrive Conforto da Costozza - di impadronirsene con la forza e con l'astuzia: vennero con forte apparato, con fascine nei fossati e scale al muro del castello», ma i difensori, che erano stati preavvisati, «sprezzando il furore delle balestre, li fecero retrocedere turpemente con massimo danno: si stima infatti che in quell'assalto morissero 50 dei più audaci e oltre 200 rimanessero feriti». L'apparato di scale necessario per assaltare in grande stile una città di riguardo - secondo Jean de Bueil - poteva essere imponente: egli raccomanda infatti di provvedere non meno di 24 scale doppie, grandi e forti, lunghe da 36 a 40 piedi e di larghezza tale da permettere a quattro uomini di procedere di fronte; ci volevano poi da 120 a 160 scale di legno lunghe 25 piedi e altre più piccole. Si tratta, naturalmente, di previsioni teoriche che dovevano essere commisurate all'importanza della città da conquistare e al numero degli attaccanti55. L'assalto mediante scalata in presenza del nemico è da considerare un momento di massimo dinamismo, ma in ogni assedio prolungato, a momenti di intensa azione si alternavano inevitabilmente lunghi periodi di attesa che mettevano alla prova la resistenza nervosa di entrambi i contendenti. Durante il semileggendario assedio cui Canossa, intorno alla metà del secolo X, sarebbe stata sottoposta da Berengario II, Donizone ci mostra Adalberto Attone rinchiuso nella rocca che «s'annoia costretto a un'inerzia sì lunga», e quindi «se ne stava sull'alto del castello dedicandosi al gioco». Uno scudiero che nel 1155 a Tortona militava nell'esercito imperiale, «oppresso dalla noia del lungo assedio», volle dare un esempio di come si sarebbe potuto procedere con maggiore aggressività: armato della sola spada, di scudo e della piccola scure che di norma i suoi colleghi portano legata alla sella, scalò il terrapieno della Torre Rossa scavandovi gradini con la scure; non si lasciò spaventare dal tiro incrociato dell'una e dell'altra parte che faceva piovere una grandine di sassi e di frecce, giunse sino alla torre ormai semidiroccata, abbatté un avversano e poi, evitando nuovamente tutti i pericoli, ritornò illeso negli accampamenti. Federico I volle premiarlo con la cintura di cavaliere ma egli rifiutò: era nato plebeo - disse - e tale preferiva rimanere. Per sollecitare l'iniziativa e l'ardire degli assedianti si usava offrire premi a colui che per primo sarebbe entrato nella fortezza
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nemica. Ancora sotto le mura di Tortona, il mattino del 26 maggio 1155 i Pavesi promettono pubblicamente di dare «moltissimo denaro» al primo che fosse entrato in città, ma - osserva il cronista milanese - non poterono ottenere quanto desideravano. Anche il podestà di Bologna nel 1228 promise al primo che sarebbe entrato nel castello modenese di Bazzano, o ai suoi figli, un premio di 100 lire e l'immunità da ogni onere comunale, senza trovare nessuno disposto a obbedire ai suoi mandati. Lo trovarono invece i Senesi i cui registri delle spese del 1229 segnano in uscita 50 lire date a Ranieri Pulce che entrò per primo nel castello di Tornano. Gli statuti di Lucca del Trecento prevedevano addirittura in modo permanente, per il primo uomo che entrasse in un castello conquistato, un premio di 10 lire o una coppa d'argento di pari valore. Al tempo delle compagnie di ventura il premio che si attribuiva per lo stesso motivo aumentò sino a 25 fiorini, e Diomede Carafa nel 1478 consiglia di attribuire premi non solo «allo primo fosse stato in montare», ma anche al secondo e al terzo; invero più che a denaro egli pensa a parole di encomio con lo scopo di mostrare che il valore consegue «utele et honore, che sono le cose che ad quisto mundo se desidrano et per che se travalglya». Si trattava di modi per stimolare e per favorire, quindi, la presa delle fortezze mediante l'assalto diretto, evenienza che evidentemente non fu mai troppo frequente56. Nelle lotte comunali italiane i cronisti lasciano nondimeno intendere che le conquiste di forza talora avvenivano: i Milanesi nel maggio del 1156, servendosi delle petriere costruite da mastro Guintelmo, presero «con sommo sforzo» il castello di Stabbio e lo distrussero «sebbene fosse munitissimo e non si potesse espugnare quasi da nessuna parte»; ebbe importanza, in quel caso, l'emulazione nei riguardi dei commilitoni degli altri tre quartieri che poco prima «avevano preso il castello e le torri di Chiasso con assalto violento e quasi disperato». Nella successiva campagna che i Milanesi condussero nel Novarese il castello di Cerano, dopo soli tre giorni di assedio, fu preso «con tale violenza che molti preferirono la morte alla salvezza»; tentando poi di assalire il castello di Morghengo, un certo numero di uomini annegò nel fossato, ma «lo conquistarono poi a forza». Giovanni Codagnello negli anni fra 1200 e 1220 segnala a sua volta almeno sette casi di castelli
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presi, come egli dice, vi o per vim senza però mai fornire particolari. Poco di più si apprende da Pietro Cantinelli: Maghinardo di Susinana il 18 giugno 1296 cavalca con i Faentini contro il castello di Settefonti e, trascorso un paio di giorni, «dopo pranzo, per forza e con grandissima battaglia il castello fu preso e tutti coloro che vi erano dentro catturati o uccisi»: i morti, si precisa, furono I l e i prigionieri 34, ma non è detto nemmeno qui con quali modalità la conquista sia avvenuta. In realtà la presa di una città o di un castello «con la forza» assumeva un rilievo innanzitutto giuridico per il diverso trattamento cui andavano incontro i presidi che non scendevano a patti con i vincitori; lo riassume brevemente - nel racconto di Salimbene da Parma - Xultimatum lanciato da Guido di Albareto nel maggio del 1283 agli uomini di Cavillianum rinchiusi nella pieve fortificata di San Polo: «Ciascuno pensi alla sua anima, consegnatevi a noi e potrete andarvene incolumi, se invece non accetterete e sarete presi con la forza sarete tutti impiccati senza misericordia». E non erano minacce vane: se a Cavillianum le cose andarono altrimenti, sappiamo che, per esempio a Montepallero, a sud-ovest di Parma, nel 1267, quando il castello fu preso «per vim» dai Parmigiani, tutti quelli che vi furono trovati «vennero appesi agli alberi per la gola, eccetto tre nobili ai quali fu tagliata la testa». Nello stesso anno il castello di Parola, presso Fidenza, fu conquistato «per vim» da Uberto Pelavicino «e tutti coloro che vi erano, in numero di 36, furono appesi per la gola e tre, con il capitano, decapitati». Tale costume era antico e universalmente diffuso; ecco come nel 536 Belisario cerca di indurre i Napoletani ad arrendersi per evitare di essere presi con la forza: «Ho visto più volte la presa di una città e conosco per esperienza quel che succede in simili casi. Gli uomini fatti li si ammazza tutti, le donne che chiedono di morire ci si guarda dall'ucciderle: violentate, sono costrette a subire un trattamento inumano e miserevole; i fanciulli, privi ormai di chi li nutra e li educhi, finiscono fatalmente schiavi e proprio dei più aborriti nemici, sulle cui mani hanno scorto il sangue dei padri. E lasciamo stare il fuoco che distrugge, oltre a tutte le sostanze, la bellezza della città»57. La presa «per forza», per quanto non corrisponda a una tecnica specifica chiara e facile da definire, ha comunque i connotati di una irruzione violenta. Nel 1208 i Fiorentini, all'assalto del
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castello senese di Rigomagno, si videro le scale spezzate da una pioggia di sassi; il primo degli attaccanti fece allora sgabello al seguente e così via via, reggendosi vicendevolmente, raggiunsero la sommità delle mura nonostante che i difensori li respingessero con le spade, con le scuri e con il getto di fuoco misto a zolfo; quest'ultimo fu spento dalla pioggia e dalla grandine che però ferì chi era privo di armatura. Il castello infine cedette e più di duecento nemici caddero prigionieri. Secondo il racconto di Guglielmo di Tudela, singolare fu il modo in cui nel luglio del 1209 fu presa Béziers da parte non propriamente dei crociati antialbigesi, ma dei «ribaldi», cioè dai vagabondi che li seguivano. Essi, a piedi nudi e armati soltanto di mazze, calano nel fossato della città, scalzano le mura con picconi e spaccano le porte; gli assediati, presi da improvvisa paura, abbandonano gli spalti e si rifugiano nelle chiese. Viste le porte aperte, a quel punto anche i crociati si armano e si affrettano a entrare facendo ressa. I ribaldi, riscaldati dall'azione, non avevano paura di morire e nemmeno di uccidere: massacrano tutti coloro che incontrano, penetrano nelle case e si impadroniscono degli oggetti di valore. Nulla si dice del comportamento dei crociati, ma sappiamo che tutta la popolazione venne sterminata. Giovanni Villani racconta a sua volta il modo in cui l'esercito di Carlo d'Angiò nel 1265 riuscì, del tutto inopinatamente, ad avere ragione dell'importante castello di San Germano. In esso re Manfredi aveva posto «gran parte di sua baronia, Tedeschi e Pugliesi, e tutti i Saracini di Nocera coll'arcora e balestra e con molto saettamento, confidandosi più in quello riparo che inn-altro, per lo forte luogo e per lo sito, che dall'una parte ha grandi montagne e dall'altra paduli e marosi, ed era fornito di vittuaglia e di tutte cose bisognevoli per più di due anni». Gli uomini del presidio, sentendosi perfettamente sicuri, si divertivano a schernire e a provocare i nemici, fu così che i Francesi «con grande furore assalirono la terra, e dando battaglia da più parti»; un gruppo di audaci, in particolare, inseguendo alcuni che erano usciti per scaramucciare, riuscirono a penetrare nella fortezza da «una postierla ch'era aperta per ricoglierli»; essa fu presa «per forza d'arme, e entrarono dentro, e incontanente la loro insegna misono in su le mura». Per questo «quegli di fuori presono cuore e ardire, e chi meglio si poteva si mettea dentro alla terra. Quegli d'entro, vedute
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le 'nsegne de' nemici in su le mura, e presa la porta, molti ne fuggirono, e pochi ne stettero alla difensione; per la qual cosa, la gente del re Carlo combattendo ebbono la terra di San Germano a dì X di febbraio MCCLXV e fu tenuta grandissima meraviglia, per la fortezza della terra, e piuttosto fattura di Dio che forza umana, perché dentro v'avea più di M cavalieri e più di VM pedoni intra' quali aveva molti arcieri saracini di Nocera». Il concorso, in gran parte accidentale, di circostanze sfavorevoli provoca così la caduta «per forza» di un castello ritenuto fra i più sicuri. In altri casi l'attaccante viene spinto a superare la sua inferiorità cercando complicità all'interno della fortezza nemica in modo da penetrarvi con l'inganno e il tradimento. Nel 544, durante la guerra greco-gotica, le porte di Tivoli erano guardate di comune accordo dagli abitanti e dagli Isaurici che militavano nell'esercito bizantino; essi vennero a diverbio tra loro e gli Isaurici per dispetto introdussero in città i Goti di Totila che uccisero tutti gli abitanti compreso il vescovo. Altri Isaurici, per denaro, consegnarono Roma nelle mani di Totila una prima volta nel 546 e una seconda nel 549. Durazzo, inutilmente assediata nel 1081 da Roberto il Guiscardo, gli viene aperta per tradimento da un abitante veneziano. Nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 1098 Antiochia, da tempo assediata dai crociati, fu posta nelle mani di Boemondo dall'emiro turco Firuz diventato suo amico58. Nel 1241 il castello di Segno, presso Savona, anch'esso a lungo e inutilmente assediato, viene preso per tradimento dal marchese Giacomo del Carretto; l'anno dopo la fortezza veronese di Arcole finì allo stesso modo nelle mani di Ezzelino da Romano. Nel 1260, per contro, il castello e la fortissima torre di San Zenone, in cui si era rinchiuso Alberico da Romano, dopo quattro mesi di resistenza, furono consegnati al nemico dai difensori stessi desiderosi di ingraziarsi coloro che apparivano ormai i sicuri vincitori. I traditori, se presi, vengono colpiti da punizioni di esemplare ferocia allo scopo di scoraggiarne l'esempio: nel luglio del 1287 alcuni congiurati - racconta Salimbene - dovevano aprire dall'interno le porte del castello di Reggiolo ai fuorusciti di Reggio; dieci vennero scoperti e riuscirono a fuggire, ma uno di essi fu preso, torturato, appeso per le braccia al palazzo del comune, poi decapitato, trascinato per la pubblica via in segno di derisione e inrine bruciato; tutti i suoi congiunti furono banditi in perpetuo. Il
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diacono di Sant'Antonino delle Castella confessò «spontaneamente e prontamente, senza tortura» la sua intenzione di consegnare Bianello ai fuorusciti: «Subito gli segarono le canne della gola e lo portarono in giro per il borgo morto e nudo, poi lo buttarono giù dal castello come un vile cadavere. E così fu sepolto con la sola camicia nella chiesa di Sant'Antonino». A sua sorella Berta, ritenuta complice, «tagliarono la lingua e la espulsero da Quattro Castella»59.
8. Risorse della difesa 8.1. Le deficienze dell'attacco. La difesa - puntualizza Egidio Colonna - deve innanzitutto poter contare sulla consistenza della fortezza basata sia sulla natura del luogo sia sulla struttura e sulla disposizione di mura, torri e fossati; ovviamente, poi, per evitare la fame, occorre provvedere sufficienti scorte di acqua e di viveri e allontanare per tempo i deboli e gli inutili. Non meno importante, s'intende, è la disponibilità di armi, munizioni e materiali di ricambio. La seconda risorsa di chi si difende va cercata nella sostanziale debolezza dell'offesa, che assai spesso induce a non tentare neppure un assedio, operazione di per sé lunga e costosa che richiede non solo mezzi e spiccate capacità tecnico-organizzative, ma anche la disponibilità di un esercito numeroso per bloccare a lungo e il più ermeticamente possibile la fortificazione nemica. E ciò era tanto più vero se si trattava di un centro abitato o di una città di rilevanti dimensioni. Ancora nel 1479 Diomede Carafa consigliava somma prudenza prima di decidere un assedio: se la fortezza non è facilmente espugnabile e «se vedesse chyaramente si li perderla lo tempo et le fatiche ultra lo dampno», è meglio rinunciare in partenza, anche per non rimetterci in reputazione. I Milanesi, che pure erano in grado di mobilitare da soli eserciti cospicui, quando nel 1126 vollero bloccare Como dovettero ricorrere all'aiuto di numerose altre città dell'Italia settentrionale: «Invitan molti, / e da ogni parte ad assalir le mura / di Como conducon gente», e solo allora, «insiem raccolte / tutte quante e dovunque queste genti», occupando la campagna «duramente ser-
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rano / con stretto giro la città». Pochi anni dopo in Francia, solo mettendo insieme le forze di tre diversi eserciti il castello di Cosne potè essere «circondato da tutte le parti dai nemici in modo che nessuno poteva né entrare né uscire». Il ricorso a espressioni come «undique obsidere» o «expugnare», «ex omni parte hostiliter circuire», significa che si trattava di casi inconsueti e per ciò stesso degni di essere segnalati. Il successo degli assedi posti da Federico I a Tortona, Crema e Milano ebbe come primo fattore la disponibilità di effettivi numerosi. Si poteva, è vero, ovviare alla scarsità delle forze mediante onerosi lavori di controvallazione che richiedevano, però, non comuni capacità organizzative e grande disponibilità di tempo. Secondo Liutprando di Cremona così già avrebbero agito nel 924 gli Ungari che, operando per conto di Berengario I, «circondarono con una fossa le mura della città di Pavia e, piantate le tende lungo il giro, impedivano ai cittadini ogni via d'uscita». Così, secondo Amato di Montecassino, pare si regolassero, nella prima metà dell'XI secolo, i Normanni nell'Italia meridionale: «Circondano la fortezza nemica piantando i loro accampamenti presso le mura e apparecchiano quindi 'castelli' con fossati e palizzate», ossia - sembra - una vera e propria controvallazione rafforzata da torri di legno fisse. Non diversamente nel 1103 Luigi VI di Francia circonda il castello di Montaigu «di pali e di vimini» con vallo guarnito da torri di legno60. Tale rimane il modo abituale di bloccare una località fortificata anche nei secoli successivi, come avvenne a Poggibonsi nel 1267: i Ghibellini vi furono assediati dai Guelfi di Toscana che «isteccarlo intorno intorno, e con torri e difici di legname - dice Giovanni Villani - acciò che la gente che v'erano rinchiusi dentro non ne potessero uscire né avere soccorso, e gittandovi dentro con molti difici», cioè macchine da lancio. Era però di fatto praticamente impossibile bloccare le città più grandi: il pur numeroso esercito ostrogoto che assediò Roma nel 536, non essendo in grado di circondare una cerchia muraria che contava 14 porte, si accontentò di controllarne circa la metà, pur potendo circolare a proprio talento lungo l'intero perimetro esterno. I crociati sbarcati nel 1203 a Costantinopoli si trovarono in una situazione «davvero terribile a vedersi perché - scrive Villehardouin - l'intero esercito arrivava
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ad assediare soltanto una delle porte della città che era di fronte a loro, a tre leghe di distanza dalla terraferma»61. Talora è sufficiente incontrare una resistenza di poco superiore alle previsioni per convincere l'assediante ad abbandonare l'impresa. Ai Normanni, nel 1061 a Centuripe, presso Catania, e ad Aiello Calabro nel 1065, bastò la forte resistenza opposta sulle mura dai tiratori per convincerli alla rinuncia. I Milanesi all'alba del 18 luglio 1160 mossero in forze contro Lodi decisi a espugnarla: avevano disposto di assediare la città per almeno otto giorni - osserva Ottone Morena - ma non rimasero nemmeno un giorno e mezzo per paura dei Cremonesi e dell'imperatore. Si è già visto che in modo simile fallì nel 1173 l'assedio posto dagli imperiali ad Ancona. Se l'impresa accenna a prolungarsi oltre il previsto è subito in agguato fra gli assedianti il pericolo della «noia». Nel 1059 Ruggero d'Altavilla, quando vide che Squillace non poteva essere presa rapidamente e che i suoi «erano afflitti dalla noia di quella fatica», fece bloccare la porta con un castello che tenesse sotto pressione la città e sciolse l'esercito. Anche durante l'assedio di Montreuil-Bellay, di fronte alle grandi difficoltà opposte dal sito, il tempo passava inutilmente e Goffredo d'Angiò, vedendo le sue genti «oppresse dalla noia», fu sollecitato a ricorrere all'astuzia e ai ritrovati tecnici che gli daranno poi la vittoria. La rocca di Bismantova, in cui nel 1287 si erano rinchiusi i fuorusciti di Reggio Emilia, venne assediata per molti giorni dagli uomini di Dallo, ma ben presto anch'essi «presi dalla noia» - racconta Salimbene - discesero di lassù e si allontanarono. D'altra parte la necessità di vettovagliare un grande esercito imponeva agli assedianti le stesse preoccupazioni che si volevano provocare negli assediati. I cittadini di Béziers quando, nel luglio del 1209, si videro circondati dai crociati antialbigesi «non credevano in nessun modo che l'esercito potesse mantenersi e che entro 15 giorni si sarebbe disperso poiché teneva lo spazio di una lega e le strade potevano appena contenerlo». Era la speranza di tutti i cittadini, che si sentivano invece sicuri e ben provvisti dietro le proprie solide mura. Nel 955 re Lotario chiude il conte di Poitiers nel castello di Santa Radegonda, ma dopo due mesi l'esercito «debilitato dalla mancanza di vettovaglie» deve rinunciare all'impresa. I Saraceni assediati in Maiorca dai Pisani nell'autunno del 1114
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furono presto in difficoltà: «Fame e gravi affanni / assai scemano il popolo barbarico. / Oltre le carni, alle svernanti truppe tutto fu scarso: nulla più del vino. L'isola è saccheggiata. Offre il re i patti». Ma anche gli assedianti non stanno meglio: «Non v'è dubbio che a noi le vettovaglie / mancano ed ai cavalli, né dobbiamo / più trattenerci in ansia così lunga», dicono i maggiorenti riuniti a parlamento, ma si decide, nonostante tutto, di tener duro sino alla vittoria. A Tolosa nel 1211, invece, dopo mesi di inutili tentativi, i crociati «si misero a smontare padiglioni e tende» e tolsero l'assedio «perché i viveri costavano troppo e non potevano procurarsene a sufficienza: un pane per un breve pasto valeva ben due soldi, e non avrebbero avuto di che nutrirsi senza le fave e senza i frutti degli alberi, quando ne potevano trovare»62. Peggio era, naturalmente, se l'assedio doveva svolgersi nei mesi invernali, come accadde nel 1174 all'esercito di Federico I deciso a prendere Alessandria ad ogni costo. Dopo tre mesi già «incombeva l'asprezza dell'inverno e l'esercito pativa la mancanza di tutte le cose necessarie» sia agli uomini sia ai cavalli. I Boemi che facevano parte della spedizione, in specie, cercavano di mantenersi facendo scorrerie nei dintorni, ma alla sera ritornavano avendo trovato soltanto paglia e talvolta nulla affatto. Terminate le provviste che avevano portato con sé chiedevano perciò al duca Ulderico di avere lo stipendio promesso dall'imperatore o il permesso di rimpatriare; non ottenendo né l'uno né l'altro, il giorno prima di Natale decisero per la fuga finendo in gran parte nelle mani dei Milanesi. Anche se non tutto l'esercito si sbandò l'assedio si risolse comunque in un grave fallimento. Nel 1207 i Faentini assediavano Bagnacavallo ma, «vedendo che non era possibile prendere il castello in breve tempo e che, per la grandissima penuria di vettovaglie, non avrebbero potuto rimanere, decisero di ritornare a casa». Anche i Fiorentini che nel 1233 bloccavano Siena dovettero rinunciare a proseguire le operazioni per mancanza di un adeguato approvvigionamento. Il problema non era certo venuto meno negli ultimi decenni del Quattrocento quando Diomede Carafa faceva notare che con i lunghi assedi «se distrugino li exerciti, che ei ragionevole stanno ben tempo in un loco, mancano le strame et onne cosa necessaria: perdite di cavalli, perdite di nomini, carastie di victuaglie, et mille altri mali». Talora sono le intemperie a dare il colpo di grazia alle
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speranze degli attaccanti quando le operazioni si prolungano oltre la stagione appropriata: inondazioni - dice Tolomeo di Lucca posero fine agli assedi di Fucecchio verso la fine del 1261 e di Nozzano nel 126363. Nemmeno il ricorso a macchine sofisticate e di avanguardia garantisce il successo: basti ricordare che i due assedi di Durazzo da parte dei Normanni, nonostante la profusione di mezzi, non riuscirono a piegare una guarnigione intenzionata a resistere. Il fallimento dell'impresa è anzi spesso sanzionato proprio dal rogo delle macchine d'assedio che l'aggressore mette in atto prima di ritirarsi. Argiro lasciando Trani nel 1042 fece incendiare la torre mobile da lui costruita con grande maestria, forse perché non servisse da modello ai suoi avversari. I Milanesi, abbandonando nel 1161 l'assedio di Castiglione, bruciarono mangani, petriere e gatti; Federico I ad Alessandria, nel 1175, ordinò di incendiare insieme con gli accampamenti anche le torri di legno; non diversamente Federico II nel 1238, togliendo l'assedio a Brescia, «fece bruciare gli edifici e i castelli di legno», e il podestà di Genova nel 1243, rinunciando a continuare gli attacchi contro Savona, Ordinò del pari di porre il fuoco ai trabucchi e agli altri edifici. La stessa scena si può talora riproporre anche in caso di vittoria: a Crema nel 1160 «i Cremonesi e i Tedeschi posero il fuoco e bruciarono la torre mobile dell'imperatore e tutti i loro mangani, petriere e gatti e macchine: esse, benché fossero state fabbricate in lungo tempo e con la spesa di oltre duemila marchi d'argento, in pochissimo tempo furono ridotte in cenere», nota con un certo rincrescimento Ottone Morena64. 8.2. Le contromisure. Ad ognuna delle tecniche adottate dall'attaccante deve corrispondere l'adatta risposta da parte del difensore. Si previene la possibilità di scavare gallerie di mina mediante fossati assai profondi e possibilmente pieni d'acqua; dove ciò sia impossibile occorre vigilare se si vedono in atto trasporti di terra da parte del nemico o qualunque altro indizio che riveli la sua intenzione di scavare gallerie, individuarne il sito e quiridi rispondere con un cunicolo di contromina. Così già fecero nel 1108 i difensori di Durazzo di fronte all'iniziativa di Boemondo d'Altavilla: «Scavano dalla loro parte una larga trincea e vi si appostano per individuare il punto in cui gli assedianti opereranno la Io-
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ro penetrazione», e non appena i nemici sono scoperti, «bruciano loro la barba e il viso» con getti di fuoco liquido. Anche i Tortonesi nel 1155, venuti a conoscenza dell'insidia sotterranea loro preparata da Federico I, seppero validamente reagire con una galleria di contromina soffocando gli attaccanti sotto terra. Si è già visto quanto accadde nel 1263 a Castiglioncello dove i Lucchesi risposero alle gallerie scavate dai Pisani in modo non diverso da quello già usato secoli prima dai Bizantini a Durazzo, sia pure con esito del tutto sfavorevole65. Invece del fuoco Egidio Romano propone l'acqua: il cunicolo di contromina scavato dai difensori - egli consiglia - dovrà essere pendente in direzione dell'attaccante; in esso sarà così possibile versare grandi tini di acqua o anche di orina, tenuti in serbo per questo scopo. Tale accorgimento, egli dice, è già stato utilizzato in passato con buoni risultati e non sarà quindi impossibile ripeterlo in futuro. L'acqua interviene pure per scoprire se si stia occultamente e silenziosamente lavorando nel sottosuolo; occorre per questo sistemare sulle mura una bacinella: se la superficie del liquido in essa contenuto si increspa, è segno che vi è sotto il nemico che scava, si dovrà quindi preparare la contromina e, se possibile, deviare nel cunicolo un corso d'acqua. Contro le macchine da lancio e i mezzi d'assalto messi in campo dagli assedianti si reagisce innanzitutto con il tiro delle proprie artiglierie. Le più antiche raffigurazioni di esse a noi note riguardano appunto macchine da lancio collocate su torri e mura in posizione difensiva: tale è la miniatura del LiberMaccabeorum di Leida, allestito attorno al 925, che raffigura una scena di assedio con un mangano in azione collocato in alto fra due torri. La «Bibbia di Torino», attribuibile all'inizio del secolo XII, mostra un'analoga macchina piazzata sulla sommità di una torre. Il Liber in honorem Augusti alla fine dello stesso secolo presenta molte città e fortezze dell'Italia meridionale munite di mangani dai quali pendono numerose e lunghe corde di trazione. Trabucchi che si affrontano scagliandosi reciprocamente proiettili dall'alto e dal basso delle mura si vedono negli Annali genovesi ad illustrazione dell'assedio di Albisola del 122066. Si tratta in questo caso di un duello di artiglierie impegnate in un azione, assai ricorrente, che oggi diremmo di «controbatteria». Nel 1077, mentre Roberto il Guiscardo assediava il castello di Sa-
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lerno, un proiettile lanciato dai difensori colpì una petraria staccandone una trave che ferì il duca al petto. A Tortona nel 1155 si assistette a uno scambio di colpi fra due mangani uno dei quali, colpito, dovette interrompere il tiro per essere riparato; tre anni dopo a Milano un «onagro» mise fuori uso una petriera impiegata dagli imperiali spezzandone di netto l'asta di lancio. Nel corso della terza crociata una petriera turca danneggiava con «veementi e frequenti colpi» una macchina equivalente di Filippo Augusto di Francia che questi faceva tosto rimettere in efficienza. Il tiro difensivo delle macchine da lancio si indirizzava naturalmente anche contro le torri mobili per metterle fuori combattimento prima che raggiungessero le mura. Contro la torre che i crociati impiegano a Marra nel 1098 «subito i pagani fecero uno strumento che lanciava grandissime pietre così che uccisero quasi tutti i nostri cavalieri» pur senza danneggiare, a quanto pare, la torre stessa, ciò che avviene invece in altri casi. A Ibiza nel 1114 contro una torre mobile pisana «si scagliano dal sommo della rocca / nembi di dardi e volano di sopra agli abitanti d'Arno enormi massi»67. Nel 1148 i Saraceni di Tortosa bersagliano una torre mobile genovese in avvicinamento riuscendo a rovinarne un angolo, ma essa viene presto accomodata e protetta con reti di corda in modo tale che poi non dovette più temere offese. L'avvicinamento della grande torre messa in campo nel 1159 a Crema viene tenacemente ostacolato dal preciso tiro dei mezzi da lancio dei difensori. Federico I tenta di impedirlo facendo appendere sull'enorme macchina ostaggi milanesi e cremaschi (espediente già sperimentato durante la prima crociata), ciò nonostante i danni subiti sono tali che è necessario riportarla indietro per rivestirla con una doppia protezione di vimini intrecciati, cuoio e panni di lana; benché i mangani avversari non cessino di bersagliarla, raggiungerà infine la prossimità delle mura. Il crudele accorgimento di legare ostaggi alla torre viene imitato nel 1238 da Federico II durante l'assedio di Brescia, ma Calamandrino, che dirigeva il tiro dei difensori, «erette le sue macchine, lanciava pietre contro le torri e mostrava di essere un ottimo ingegnere» riuscendo a distruggerle senza colpire i prigionieri. La lotta, che doveva essere frequente, tra mezzi d'attacco e macchine da lancio schierate in difensiva, suggerì nel XIII secolo a un trovatore provenzale un «contrasto» fra una gata e un trabu-
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quet nel quale i due mezzi si scambiano battute: «Sono forte - dice la prima - e non mi potrai far male, scaverò una breccia nelle mura e avrò ospitalità in città». Risponde il trabucco compiangendola: «Quanto ti avrò ferita con tre colpi non potrai più essere guarita»68. 8.3. fuoco «amico». Rimedio sovrano della difesa contro le macchine nemiche è soprattutto il fuoco, lanciato o «portato» nel corso di opportune sortite. I Turchi di Marra si oppongono alla torre mobile allestita dai crociati nel novembre del 1098 gettando, oltre che «grandissime pietre», anche «fuochi greci» pensando di incendiarla e devastarla, «ma Dio onnipotente non volle che quella volta essa bruciasse». Non sempre, dunque, il cosiddetto «fuoco greco» è infallibile. Esso aveva invece eseguito bene il suo compito a Durazzo nel 1081 contro l'imponente torre di Roberto il Guiscardo: furono preparati sugli spalti nafta, pece, spezzoni di legna secca e macchine da lancio; appena venne l'ordine la parte alta della torre era già in fiamme, e mentre gli uomini che la occupavano cercavano affannosamente di mettersi in salvo, essa fu attaccata dal basso con le scuri così che in breve venne completamente annientata. Circa vent'anni dopo la stessa sorte tocca alla torre messa in campo da Boemondo: passato il primo smarrimento i difensori preparano sulle mura una sopraelevazione di legno adatta al lancio del fuoco liquido e che permette di dominare dall'alto la macchina nemica avanzante; lo spazio intermedio fra essa e le mura viene riempito con ogni specie di materiali infiammabili, li si cosparge di olio e vi si appicca il fuoco con torce e tizzoni. Presto le fiamme si alzano e, quando ad esse vengono aggiunti getti di fuoco liquido, l'intera temibile costruzione arde offrendo un tremendo spettacolo per molte miglia intorno; gran parte degli uomini che si trovano nel suo interno vengono inceneriti, e chi può cerca scampo gettandosi disperatamente dall'alto. Qualcosa di simile accadde nel 1147 all'assedio di Lisbona quando il fuoco gettato dai difensori contro una macchina da lancio bruciò, insieme con essa, anche l'ingegnere che ne dirigeva il tiro. Il tentativo di incendiare le macchine nemiche, a seconda se sia o no riuscito, risulta spesso decisivo per l'esito finale di un assedio. Nel 1127 i Comaschi «sortono fuori audacemente portando il fuoco. / Cercan cupidamente d'incendiare le incombenti torri, senza
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frutto / però pel grandinare troppo fitto / delle pietre scagliate. Le volanti / frecce pur feriscono i cavalieri; / dal di sopra colpiscono le torri / e via di là ricacciano i Comaschi»: la città poco dopo verrà presa. Egualmente inutili risultarono nel 1159 i ripetuti sforzi fatti dai difensori di Crema contro le macchine di Federico I: prima «con il fuoco acceso» uscirono dalla porta di Umbriano per bruciare il mangano dell'imperatore; esso fu però validamente difeso e furono incendiati solo tre o quattro dei graticci che lo proteggevano. Un altro tentativo egualmente infruttuoso fu fatto contro il grande «gatto» da parte di un drappello uscito da un cunicolo; quella stessa pericolosa macchina fu di nuovo attaccata lasciando cadere dall'alto di un apposito ponte barili incendiari, ma coloro che in quel momento erano sotto il «gatto» (fra i quali lo stesso imperatore) intervennero con acqua e con terra riuscendo a spegnere l'incendio. Crema sarà condannata infine a cedere. Un'improvvisa sortita degli assediati di Carcano nel 1160 riuscì invece a distruggere con il fuoco la torre di legno ivi costruita dai Milanesi, e l'anno dopo a Castiglione un'azione simile giunse «con somma forza» a incendiare il loro «gatto» e a uccidere o catturare coloro che vi stavano sotto69. Entrambi quegli assedi fallirono come fallì nel 1175 l'assedio di Alessandria, ancora priva di mura e difesa soltanto da forti spalti di terra battuta e da un ampio fossato. Gli strumenti impiegati furono gli stessi che già avevano assicurato la vittoria a Crema: un grande «gatto» e una torre mobile altissima; anche là si trattò di un assedio invernale, ma il tempo piovoso provocò gravi inconvenienti agli assedianti rimasti privi di un adeguato supporto logistico mentre il fango impedì di manovrare secondo le aspettative. Ma soprattutto, al contrario di quanto era successo a Crema, gli Alessandrini «uscirono fuori - scrive Romualdo Salernitano - e messo il fuoco, bruciarono il castello di legno pieno di cavalieri corazzati che l'imperatore intendeva far entrare in città», e con essi - aggiunge Giovanni Codagnello - bruciarono i balestrieri genovesi che lo guarnivano. Sorte non diversa ebbero nel 1238 e nel 1243 gli assedi posti da Federico II a Brescia e a Viterbo: nel primo caso i difensori distrussero con il fuoco la macchina (porca) che riempiva il fossato; i Viterbesi «per quelle cave che avevano fatto andavano con li fochi sino alli logiamenti e tutti li abbruciavano» insieme con le macchine e i «castelli» di legno nemici70.
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In ogni azione di guerra, tanto nell'attacco quanto nella difesa il fuoco veniva «portato» o «lanciato». Già abbiamo assistito alle sortite dei difensori di Como «audacemente portanti il fuoco» di Crema «con il fuoco acceso» e di Viterbo che «andavan con li fochi»: si sarà trattato, in tutti questi casi, di «bastoni porta fuoco» oppure di semplici torce. Di «torce infocate d'incendio apportatrici» parla più volte l'anonimo comasco; «plurimas faces» fa preparare Federico II contro Viterbo, e contro di lui i cittadini agiscono «accensis facibus». Sinibaldo di Corso Donati - riferisce Dino Compagni - contribuì all'incendio di Firenze nel 1304 con «un gran viluppo di fuoco a modo d'un torchio acceso». Le torce si prestavano anche ad essere lanciate a mano per distanze necessariamente limitate: «mittunt taedas», «iaciunt taedas» dice dei suoi concittadini l'anonimo comasco, e così può essere avvenuto in molti casi in cui le fonti parlano di «igne proiecto», «igne iactato», come avvenne a Padova nel 1256 quando «iactatus est ignis in gatto». Vi sono però molti altri modi di lanciare il fuoco: mediante sifoni, secondo una tecnica nota ai Bizantini e a pochi altri, o mediante speciali frecce incendiarie: nel giugno del 1090 il castello di Brionne, in Normandia, venne incendiato lanciando sui suoi tetti di legno frecce le cui punte metalliche erano state rese incandescenti sopra la forgia. Frecce incendiarie usano i Comaschi a Drezzo, e ben note esse sono anche ai Milanesi che nel 1161 scagliano nella città di Lodi «pilottos et sagittas igne accensos». La pratica durò certamente nel corso dei secoli poiché anche a Firenze all'inizio del Trecento «si saettò il fuoco in Calimala»71. Materie incendiarie venivano naturalmente lanciate anche mediante le grandi macchine da getto: Egidio Colonna descrive anzi un'apposita fondina costituita da catenelle di ferro, o meglio «tessuta con ferro», per poter lanciare blocchi di metallo incandescenti contro le macchine nemiche. Con simili accorgimenti dovettero operare nel 1161 le petriere milanesi che lanciarono il fuoc ° dentro Lodi; a Siena nel 1230 vennero spesi 16 soldi per una «funda malliarum ferri», e i Viterbesi nel 1243 disponevano di mezzi adatti per lanciare contro gli assedianti «incudini infuocate e acute masse di ferro». Frequente dovette essere anche in terraferma l'uso delle olle incendiarie di terracotta specialmente consigliate per la guerra navale: «in conseguenza dell'urto - spiega
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Egidio - il vaso si rompe e la miscela infuocata accende la nave». A Siena nell'agosto del 1229 e nel giugno del 1230 vennero acquistate ampolle di vetro e olle, verisimilmente di terracotta, poi trasportate nei castelli di Montefollonica e di Quercigrossa, per essere impiegate nel lancio difensivo di miscele incendiarie. In Piemonte circa un secolo dopo il principe d'Acaia si approvvigiona in diverse occasioni di tupini (orci) «per lanciare il fuoco» tanto per l'attacco quanto per la difesa: essi furono portati nel 1306 all'assedio di Lanzo, nel 1328 a quello di Carrù, e figurano nel 1332 fra le dotazioni difensive del castello di Cavallermaggiore72. 8.4. Gli artifici incendiari. Abbiamo sin qui genericamente parlato di fuoco impiegato in azioni di guerra, ma occorre precisare la molteplicità della sua natura: accanto al fuoco, diciamo così, «semplice» esiste un fuoco «artificiato» e infine la speciale miscela incendiaria di difficile definizione che si suole indicare con il nome di «fuoco greco». Le fonti solo raramente consentono di stabilire una differenza fra i diversi tipi: dobbiamo pensare a fuoco «semplice» dove si parla soltanto di legna o di «stipa» incendiata, ma non si può escludere che anche in quei casi i materiali fossero trattati con sostanze adatte ad agevolare o potenziare la combustione, e si trattasse quindi di fuoco «artificiato». Tali sostanze vengono incidentalmente menzionate in numerose occasioni. Ha fatto scuola, anche qui, il testo di Vegezio il quale, in almeno tre diverse occasioni, accenna a fuoco composto di bitume, zolfo, resina, pece liquida e stoppa imbevuta di olio «incendiario». Vegezio viene, come al solito, quasi letteralmente ricalcato dai volgarizzamenti del Duecento e da Egidio Colonna che indica quella stessa miscela con l'espressione «ignis fortis». Allora si andavano, d'altronde, diffondendo in Occidente ricettari come il Liber ad comburendum hostes nel quale si nomina una gamma assai vasta di ingredienti per comporre fuochi di diversa natura. Il Liber «sembra essere la traduzione latina, fatta nel XII o XIII secolo, di uno di quei trattati tecnici di ricette trasmessi e rimaneggiati senza interruzione dall'antichità in poi attraverso l'Oriente arabo e l'Occidente latino»73. È tuttavia difficile trovare una traccia precisa di tali ricette nei fuochi «artificiati» che le fonti ci fanno conoscere: i carri incendiari usati a Puiset nel 1111 erano carichi di legna secca sempli-
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cernente trattata con grassi; i Comaschi nella loro guerra contro Milano si servono più volte di «medicato fuoco» nella cui composizione entrano resina e pece bollente. Le botti lanciate dai Cremaschi nel 1159 contengono, insieme con legna secca, zolfo, lardo, olio, sugna e pece liquida. All'inarca le stesse sono le materie con le quali a Padova nel 1256 viene alimentato l'incendio della porta Altinate: Rolandino enumera infatti «oleum, parve pulveres, porcine carnes, sulphur, pix et similia incentiva», dove l'unica novità potrebbero essere le misteriose «parve pulveres». Anche fra i materiali incendiari radunati da Federico II a Viterbo nel 1243 vi sono sego, olio, pece comune e pece greca in quantità con carrelli «peruncta pigmentis». Legni ripieni di «bruschi et catrano» furono preparati dai Genovesi nel 1241 per incendiare le navi savonesi. Si tratta quindi, in generale, di materiali di uso più o meno corrente in grado di agevolare la combustione, fra i quali ricorrono con particolare frequenza la pece e lo zolfo. Di fuoco «mixto sulphure» si servono i Senesi contro i Fiorentini che attaccano il castello di Rigomagno nel 1208, e una miscela semiliquida contenente zolfo doveva essere anche il fuoco «lavorato» o «temperato» che si usò nel 1304 per incendiare il centro di Firenze dal momento che esso fu portato sul posto in una pentola e «quando ne cadea in terra lasciava uno colore azurro». Pece greca e zolfo sono i materiali di cui si approvvigiona il principe d'Acaia nel 1328 per operare contro Carrù74. Sottintende invece una maggiore sofisticazione e una ricerca più approfondita la miscela messa a punto nel 1151 a MontreuilBellay, che si pretende suggerita dal testo di Vegezio: in essa entrano oli di noce, di canapa e di lino cotti ad alta temperatura; gli effetti ottenuti si mostrano immediatamente decisivi per la resa del castello. Di pece, lino, olio e altre materie incendiarie si erano serviti nel 1147 anche i Saraceni che difendevano Lisbona; composto «cum pice et naphta» sarebbe stato il fuoco lanciato nel 1263 dai Lucchesi difensori di Castiglioncello, ma l'espressione usata dal cronista risente di una reminiscenza biblica ed è quindi per lo meno sospetta. Nessuno ci spiega quale fosse la natura del1 «ignis pennacius» efficacemente impiegato dai Pisani a Maiorca nel 1115, ma nel 1229 per preparare il loro «focus pennacis» i Senesi spendono a più riprese somme considerevoli «prò sulpho et pegola et pece et rascia», e poco più tardi per l'«oleum petro-
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leum», cioè nafta. Verisimilmente allo stesso scopo dovevano servire colla, zolfo, rascia, vernice e pece che si trovavano immagazzinati nel 1235 nel castello senese di Chianciano, ingredienti, questi ultimi, che hanno almeno parziale riscontro con alcune delle ricette del Liber ad comburendum hostes13. In nessuno dei casi sinora ricordati la miscela incendiaria viene indicata con il nome di «fuoco greco», e quando - invero assai raramente - tale espressione ricorre, l'unica caratteristica messa in evidenza è la sua inestinguibilità. Liutprando di Cremona nel X secolo menziona in più occasioni il «grecus ignis» usato dai Bizantini, il quale «da nulla può essere spento se non dall'aceto». Esso dovrebbe corrispondere al «fuoco liquido» così efficacemente usato a Durazzo, che Anna Comnena dice composto «da resina di pino mescolato a zolfo», ma certo tace di altre componenti destinate a rimanere segrete: il micidiale fuoco, lanciato mediante sifoni e tubi di canna, «cade come un fulmine carbonizzando le facce dei nemici» e pochi di essi si salvano «fuggendo come sciami di api scacciate dal fumo». Secondo il cronista normanno Malaterra nel 1081 la flotta veneziana già conosceva e utilizzava l'«ignem quem Graecum appellant» impossibile a spegnersi con l'acqua. Durante la prima crociata i Turchi si servono regolarmente di un fuoco detto «greco» che il cronista Alberto di Aquisgrana ricorda in più occasioni come composto di «grasso, olio, pece e zolfo» e del tutto inestinguibile con l'acqua76. I Pisani ignoravano ancora il fuoco «greco» nel 1098 allorché i Bizantini lo usarono contro di loro lasciandoli sgomenti; ne vennero probabilmente a conoscenza pochi anni dopo nel corso delle operazioni condotte contro il litorale palestinese poiché nel 1114 nell'impresa di Maiorca essi, secondo il Liber Maiolichinus, si servirono della fiamma «con l'arte degli avveduti Greci or non è molto ritrovata», che corrisponde dunque all'ignis pennacius di cui parlano, nella stessa occasione, i Gesta triumphalia. Le cronache dei conti di Angiò (scritte tra 1170 e 1180) vogliono che nel 1151, sempre durante l'assedio di Montreuil-Bellay, il conte Goffredo abbia fatto uso anche di «fuoco greco» il quale «elevandosi rapidamente in globi» provocò l'incendio di tutto il castello, episodio nel quale alcuni vedono il primo impiego di questo ritrovato in Occidente, evidentemente perché ignorano quanto avevano già fatto i Pisani a Maiorca. Federico II nel 1243 a Viterbo, insie-
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me con molti altri materiali incendiari, ordinò di confezionare «fuoco greco in grande quantità», e se ne servì, ma senza successo per incendiare lo steccato della città; i difensori da parte loro, proprio per «spegnere rapidamente il fuoco greco», avevano preparato nei luoghi opportuni ampie riserve di aceto. L'autore che riferisce questi particolari sapeva distinguere bene il fuoco «greco» (qualunque fosse la sua vera natura) dagli altri ritrovati incendiari utilizzati contemporaneamente ad esso, ma tale capacità mancava quarant'anni dopo al volgarizzatore senese del De regimine principum di Egidio Romano. L'«ignis fortis», composto «ex oleo, sulphure et pice et resina» rimane se stesso, cioè «fuoco molto forte fatto di olio comune e di pece nera e di solfo e gromma»; ma là dove Egidio aveva parlato semplicemente di «sulphur, pix, oleum», il traduttore scrive invece «fuoco grechesco»; e i «vasa piena pice, sulphure, rasina, oleo» da impiegare nella guerra navale divengono senz'altro «vugelli pieni di fuoco greco», espressione che a quell'epoca, dunque, era ormai avviata verso la banalizzazione. Il fuoco «greco» lanciato di notte mediante petriere e balestre dai Turchi a Damietta nel 1249 impressiona vivamente i crociati francesi: «Esso - dice Joinville - nel venire faceva un rumore che sembrava un fulmine del cielo e un dragone che volava per l'aria, e gettava un chiarore tale che si vedeva attraverso l'esercito come di giorno». Re Luigi IX ogni volta tendeva le mani al cielo e implorava Dio di proteggere le sue genti, ma gli effetti erano più psicologici che reali poiché gli «spegnitori», a ciò preparati, riuscivano abbastanza facilmente nel loro compito77. C'è quindi da domandarsi quale tipo di miscela incendiaria potesse produrre simili effetti. Se, come oggi si ritiene, il fuoco greco propriamente detto va distinto dagli altri preparati per la presenza o per l'assenza del salnitro, tale non sarebbe stato neppure il fuoco «pennace» dei Pisani e dei Senesi, il quale mancava infatti di questo componente, pur trattandosi di una miscela giudicata inestinguibile al pari del fuoco infernale, destinato, cioè, a dare la «pena eterna», dal quale appunto prendeva il nome di penace. In Occidente dovette comunque essere sempre problematico procurarsi la nafta, che era uno dei componenti indispensabili, e ciò che rendeva assai difficile la preparazione del fuoco «greco» in senso proprio; con tale
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epiteto venivano perciò di solito indicate miscele simili per quanto in realtà diverse. I Senesi, in compenso, almeno dal 1230 sapevano probabilmente lanciare il loro fuoco pennace mediante i cosiddetti «stomboli»: si trattava verisimilmente di razzi costituiti da tubi di carta arrotolata e ripieni di «materie resinose, oli, bitumi e forse anche polvere pirica» che al momento dell'accensione producevano uno «stombolo», cioè uno scoppio. La pratica rimase certo in uso nei tempi successivi poiché esattamente un secolo dopo, fra le spese fatte dal principe d'Acaia per preparare nel 1329 l'assalto al castello di Morozzo, ritroviamo menzione di «rochetis factis occasione traendi ignem de exercitu domini intus Morocium». Di razzi lanciafuoco si serviva ancora nel 1408 Giovanni Senza Paura78 benché ormai da tempo la polvere pirica, derivata dal primitivo fuoco greco, avesse trovato altra ben più rivoluzionaria applicazione nelle armi dette appunto «da fuoco». 8.5. Miti in gestazione: olio bollente e gallerie di fuga. Di tutti i proiettili che gli assediati potevano utilizzare contro gli aggressori montanti all'assalto delle mura, l'immaginazione dall'età romantica ai nostri giorni mette al primo posto l'olio bollente dando così - si è scritto di recente - una vera e propria «caricatura della difesa»: «Chi potrebbe credere che i difensori alimentassero fuochi sull'alto delle mura per scaldare pesanti marmitte riempite di un liquido costosissimo, e per di più che gli stessi difensori le afferrassero infuocate per versarle sugli assalitori?». La difesa, si osserva, doveva invece servirsi di proiettili solidi e di fuoco, oltre che di calce liquida o di più prosaici barili di escrementi. L'osservazione, a prima vista logica, è però basata più sul buon senso contemporaneo che sui documenti: in un certo numero di testi, specialmente di area greca, si menziona infatti in modo esplicito l'uso di olio bollente in funzione difensiva. Secondo i Poliorketika di Apollodoro di Damasco, scritti nel II secolo d.C, l'olio bollente deve essere trasportato sulle mura in recipienti di rame per essere gettato sugli assalitori mediante un apposito apparecchio. L'olio, per quanto certamente costoso e disponibile solo in piccole quantità, è materia che si trova con una certa facilità nelle zone mediterranee, e non era pertanto assurdo proporre di esso un uso «militare». Apollodoro stesso prevede però di sostituirlo con l'acqua, certo molto più facilmente reperibile, ma che
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pone problemi non troppo diversi dall'olio per il suo riscaldamento e trasporto sul luogo d'impiego. La proposta di Apollodoro non è comunque isolata; già nel 70 d.C. durante la difesa di Gerusalemme contro i Romani, Giuseppe l'Ebreo ordina l'uso di olio bollente; secondo Procopio di Cesarea, nel VI secolo gli abitanti della città di Topiro, in Tracia, si difesero da un attacco degli Sclaveni «versando su di loro olio e pece molto bollenti». Una silloge tattica greca, ripresa nel X secolo, prevede di spegnere rapidamente con l'aceto «il piombo fuso o la pece o l'olio bollente molto meglio dell'acqua»79. E se non l'olio, certamente l'acqua bollente dovette essere usata in funzione difensiva con una certa frequenza: a Tolosa nel 1213 essa cade sugli aggressori i quali «quando la sentono si allontanano e scrollandosi dicono tra loro: La rogna è ben più dolce di queste acque bollenti che ci gettano». Una chanson de geste del XIII secolo descrive la difesa di un castello mediante carboni ardenti e acqua calda; e nel 1351 - racconta Matteo Villani - i Pistoiesi disposero «a pie delle mura intorno intorno, molti fornelli con caldaie per apparecchiare acqua bollita» da gettare sui Fiorentini che li assediavano. Il presidio vicentino di Montegalda, attaccato nel 1387 dai Padovani, si difende gettando «acqua di cenere calda» che fece «arretrare turpemente» gli aggressori. Mariano Taccola nel 1449 consiglia di difendersi dai «nemici battaglianti» mediante il lancio di polvere di calce che, penetrando negli occhi, li costringerà a desistere subito dal combattimento; in mancanza di calce si può usare sabbia di fiume fine e ben secca o polvere raccolta sulle strade, insieme con batuffoli incendiari fatti con stoppa imbevuta nell'olio. All'olio ardente, ben cotto in caldaia, si ricorrerà - continua il Taccola - per lanciarlo contro arieti e «gatti» in procinto di aprire brecce nelle mura: il liquido, filtrando sul dorso di coloro che stanno al riparo delle macchine, li costringerà a retrocedere; mancando l'olio si può usare vino cotto che, gettato con stoppa accesa, brucerà la macchina. Il vino potrà a sua volta essere sostituito da un barilotto contenente una miscela di pece e di trementina che, acceso, diffìcilmente potrà essere spento con l'acqua. In ogni caso - conclude 1 Archimede senese - «incendiate così le macchine, gli sbrecciatori del muro saranno costretti a prendere la fuga». Filippo di Weve, intorno al 1516, raccomanderà ancora di tenere pronti per
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respingere gli assalti del nemico calce viva e caldaie piene d'acqua, di olio bollente nonché di piombo fuso da gettare «a cucchiaiate». Ma ormai a tale arcaico armamentario si allineavano anche «le pietre da fuoco che si chiamano granate» e altri ordigni «da fuoco»80. Ultima risorsa dell'assediato che si vede ormai alle strette e senza speranza di resistere, ma che non intende arrendersi, è la fuga silenziosa nel cuore della notte. Nel 936 i difensori di Langres sopraffatti - ricorda lapidariamente Richero - «nocte egressi aufugerunt». Il 10 giugno 1098 alcuni cavalieri cristiani assediati dai Turchi in Antiochia, sconvolti dal combattimento del giorno prima durato sino al sopravvenire del buio, «fuggirono segretamente nel corso della notte calandosi lungo il muro dalla parte del mare», ma in quella rischiosa impresa - nota con raccapriccio l'anonimo cronista - dei loro piedi e delle loro mani non rimasero che le ossa». Nel 1103 la guarnigione del castello di Montaigu, assediato da Luigi VI di Francia, prima che il cerchio si chiudesse, «nocte furtim exiliit»; e vent'anni dopo l'intera popolazione di Como, ormai senza speranze di sfuggire agli assedianti, venne evacuata in massa attraverso il lago: «i giovani di Como / ed insieme le donne ed i fanciulli / salgono sulle navi abbandonando / con i nemici la città: Ogni cosa / portano seco. Non vi lascian nulla». Solo più tardi i vincitori si accorsero che la città era rimasta vuota ma, per evitare sorprese, ne rimandarono l'occupazione al giorno seguente. Dopo il Natale del 1140 il giovane e audacissimo conte Ranolfo - annota Orderico Vitale - fuggì nella notte da Lincoln che era stata attaccata a sorpresa dal re, e riuscì a rifugiarsi a Chester. I Senesi di Selvole nel 1231, vedendo le proprie mura irreparabilmente minate dai Fiorentini, approfittano di una notte di pioggia e grandine riuscendo in gran parte a eclissarsi furtivamente. Numerosi episodi simili si verificarono in Lombardia e in Emilia durante le lotte contro Federico II: nel settembre del 1237 i difensori di Montichiari, presso Brescia, stabilirono di comune accordo di dileguarsi «nella notte silenziosa»; da Faenza bloccata dall'imperatore nel 1240, molti riuscirono ad allontanarsi con il favore delle tenebre; i cavalieri rinchiusi nel castello di Vixiranutn, rimasti senz'acqua, lo lasciano di notte senza nemmeno avvertire «sergenti» e rustici assediati insieme con loro81.
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Tali fughe avvengono di solito calandosi dall'alto delle mura o aprendo brecce alla loro base; eccezionale fu invece il modo in cui il presidio del castello di Pechpeyroux, non lontano da Tolosa, piantò inopinatamente in asso gli assedianti. Nel 1385 i Francesi al comando di messer Gaultier de Pasac - racconta Froissart pongono l'assedio alla fortezza che sorge, in posizione assai difficile da prendere, sull'alto di uno spuntone roccioso. «Ci vorrà molto tempo - pensa Gaultier - ma il re di Francia è ricco abbastanza per mantenere qui un assedio, qualunque cosa costi, anche per un anno intero». Dopo tre giorni viene ordinato un primo assalto mediante una torre a ruote a tre piani ciascuno dei quali contiene venti balestrieri; costoro cominciano a scaricare le loro armi entro le mura ma senza avere alcuna risposta, e soltanto dopo un po' si accorgono di sprecare le munizioni poiché la fortezza è del tutto deserta. «Sappiate che nel castello non c'è nessuno», comunicano: «Come lo potete sapere?» domanda messer Gaultier. «Lo sappiamo perché con tutti i tiri che abbiamo fatto nessuno si è mostrato». Ma il comandante rimane poco convinto. Coloro che erano a ciò destinati portano le scale, le appoggiano cautamente al muro e salgono: la fortezza è effettivamente vuota benché le porte siano chiuse dall'interno. Queste vengono aperte e il ponte calato, ma lo sconcerto rimane grande e si teme di essere di fronte a qualche magia. Messer Gaultier ne parla al siniscalco di Tolosa: «Non possono essersene andati che passando sotto terra», azzarda questi. E difatti presto si scopre che l'uscio della cantina dà in una galleria lunga circa mezza lega che sbuca in un bosco fuori delle mura: attraverso di essa gli uomini del presidio, dopo aver calcolato le difficoltà della loro situazione, si erano silenziosamente dileguati. «I castelli di queste parti sono dunque tutti così?» domanda messer Gaultier. Il siniscalco non ha dubbi: se non tutti certo sono parecchi e in specie quelli una volta posseduti da Rinaldo di Montalbano; quando lui e i suoi fratelli guerreggiavano contro Carlo Magno - spiega - li fecero costruire così su consiglio del loro cugino Mangin proprio per poter sfuggire agli assedi a oltranza senza che il nemico se ne accorgesse. «Appena sarò di ritorno - conclude Gaultier - farò fare la stessa cosa nel mio castello di r-asac, anche se non dovrò mai guerreggiare contro il re, o duca o vicino». Si può qui scorgere l'origine letteraria delle gallerie di fu-
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ga che diventeranno in seguito uno dei miti strettamente legati a ogni castello medievale, ma che erano evidentemente ancora ignote al tempo in cui Froissart scriveva82.
9. L'ostinazione del cavaliere Il mondo romano, com'è noto, fu militarmente caratterizzato da un esercito di fanti bene addestrati, mentre il Medioevo viene considerato l'età della cavalleria; in realtà non è possibile osservare una opposizione così netta poiché dal III secolo d.C. in poi l'organico delle legioni contemplò contingenti di cavalleria via via sempre più importanti: per poter affrontare Sarmati e Unni con le loro stesse tecniche di combattimento vennero infatti create formazioni di arcieri montati e di cavalieri pesantemente corazzati {clibanarii o catafractarii) destinati a operare in coordinamento tattico fra loro. I clibanarii tuttavia agivano alla maniera di imponenti e ciechi automi senza stabilità né capacità operative proprie tanto che, senza l'appoggio degli arcieri, rischiavano di essere inutili: la loro somiglianza con il futuro cavaliere medievale risulta pertanto del tutto esteriore. Nello stesso periodo la fanteria rimaneva importante ed è perciò difficile stabilire un preciso spartiacque fra l'epoca dominata dai fanti e una successiva che si vorrebbe appannaggio esclusivo del combattente a cavallo. Inoltre sin dagli ultimi secoli dell'impero, come si è visto, un numero sempre più alto di città e di centri abitati minori veniva difeso da mura, e con esse dovettero fare i conti i popoli che aspiravano a stanziarsi nell'Occidente romano i quali, in misura maggiore o minore, combattevano tanto a piedi quanto a cavallo: l'età medievale perciò vide non solo e non tanto il cavaliere stabilire lentamente una supremazia sul fante, ma la fortezza affermare la sua superiorità su entrambi. Uno degli elementi - forse il principale - che conferisce efficacia difensiva a una fortificazione è dato dalla mancanza di strumenti adeguati da parte di coloro che intendono attaccarla, e di essi erano appunto sprovvisti i futuri padroni dell'Occidente: «Nulla è tanto ignoto ai barbari quanto i macchinari e l'astuzia degli assedi», aveva osservato a suo tempo Tacito. Spesso i fatti Stes-
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si rivelano che, se falliva il colpo di mano a sorpresa e non era possibile ricorrere a complicità interne, gli invasori si limitavano a stringere le città murate mediante un blocco statico con il proposito di stancare e di affamare gli assediati, come tentarono di fare, per esempio, quei Visigoti che, all'inizio del V secolo, Paolino di Pella ci mostra, immobili dietro i loro carri, sotto le mura di Bazas, presso Bordeaux83. Pochi anni dopo risultano significative, sotto tale aspetto, le vicende dell'invasione visigotica in Italia. Alarico supera le Alpi nel novembre del 401 e assedia Aquileia: alcune città impaurite gli aprono senz'altro le porte; egli evita di assediare Milano e, dopo aver tentato inutilmente di prendere Asti, viene battuto in campo aperto a Pollenzo ed è costretto a ripassare le Alpi. Le mura mostrano quindi una certa efficacia, e ciò induce Roma e Torino a rafforzare le proprie; molti ricchi, nondimeno, per timore dell'assedio, preferiscono nascondere i loro tesori e rifugiarsi in Sicilia e in Sardegna. Alarico, ritornato in Italia nel 408, punta direttamente su Roma, la blocca e la riduce alla fame accettando di ritirarsi solo dietro il pagamento di un forte riscatto. Il blocco si ripete altre due volte alla fine del 409 e nel 410 sinché, nell'agosto di quest'ultimo anno, i Visigoti riescono a penetrare in Roma: dopo tanti secoli la città subisce quindi l'incendio e il saccheggio, fatto che desta profonda impressione in tutto il mondo romano, ma i barbari riescono nel loro intento solo perché la porta Salaria viene loro aperta dall'interno. Rivelatrice dell'impotenza dei barbari di fronte alle cerchie urbane antiche è la pratica, a lungo proseguita, di distruggere le mura delle città conquistate. Così fecero i Vandali in Africa per impedire - scrive Procopio - l'eventuale ribellione dei soggetti e per non offrire basi a un'eventuale riscossa imperiale; né si preoccuparono mai (in un secolo circa di stabile dominio) di ripristinare le fortificazioni lasciando andare in rovina anche quelle di Cartagine, le uniche che erano state risparmiate. I Goti in Italia, in un primo momento, operarono in modo del tutto opposto: Teodorico dopo la conquista non solo non distrusse le cerchie urbane, ma in trent anni di regno si impegnò in ogni modo al loro rafforzamento. Ancora nei primi anni della guerra greco-gotica gli Ostrogoti, risolvendosi alla difesa di Palermo, Napoli e Urbino, fidano pienamente nelle fortificazioni; quando percepiscono che la pò-
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polazione romana è loro ostile (come avviene a Salona, Roma e Rimini), oppure rimangono a corto di viveri (Porto, Centocelle, Albano) escono dalle mura senza pensare affatto a distruggerle. Fu per primo Vitige che, dovendo abbandonare Pesaro e Fano, ne fece abbattere le mura «perché i Romani non avessero a dar noia ai Goti rioccupandole». Le sue previsioni si avverarono così che, traendo spunto da quell'esperienza, Totila deciderà (secondo quanto Procopio gli fa dire) di distruggere le mura delle città riconquistate «perché l'esercito nemico non avesse una solida base da cui partire per condurre la guerra con gherminelle». Il proposito fu messo in atto a Benevento, a Napoli e a Roma; in alcuni casi però Totila fu costretto a ricostruire le cerchie che egli stesso aveva fatto demolire. Per Roma, in specie, dovette fare i conti, oltre che con le necessità conseguenti alla condotta della guerra, anche con problemi di prestigio «internazionale» essendosi visto rifiutare dal re dei Franchi la mano della figlia proprio perché, conquistata la città, l'aveva in parte demolita e non era stato capace di conservarla. Di fronte all'altalenante atteggiamento dei Goti, non vediamo invece mai i Bizantini distruggere le mura delle città conquistate per impedirne un uso militare agli avversari, fatto di per sé assai significativo della loro superiorità nella guerra d'assedio, che trovò la più clamorosa dimostrazione, come si è visto, nei falliti tentativi operati da Vitige contro Roma nel corso dell'anno 537.1 Goti erano prevalentemente cavalieri, e al palese fastidio da essi espresso nei confronti delle cerchie murarie, dovuto alla scarsa esperienza nelle tecniche d'assedio, verisimilmente si univa l'insofferenza nei confronti dell'ostacolo che impediva loro di far valere le proprie qualità di abili cavalcatori; con la distruzione delle mura si illudevano quindi di costringere il nemico - come diceva Totila - a «scendere in campo a viso aperto»84. Dopo i Goti, in Italia sembrerebbero aver agito in modo non dissimile anche i Longobardi: le ripetute distruzioni di mura da loro operate, prima che una rituale «degradazione» punitiva di città ribelli (che si inseriva peraltro nel solco della tradizione romana), poterono appunto avere lo scopo di rendere inoffensivo il nemico impedendogli in un immediato futuro di poter nuovamente usufruire di quelle fortificazioni. Così si può senz'altro giustificare la distruzione della cerchia di Brescello nel 584, delle città costiere della Liguria marittima nel 643, dell'Isola Comacina nel
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701 cui si può ancora collegare la demolizione delle mura di Napoli nell'821. Da tali distruzioni, operate a ragion veduta dopo la vittoria, si dovranno nondimeno distinguere i semplici danneggiamenti avvenuti nel corso delle operazioni, come si vide a Padova nel 601 e a Cremona e Mantova nel 603. Tanto i Franchi quanto i loro avversari ricorsero più volte allo stesso espediente. Nel VII secolo Guaiferio di Aquitania, ribelle a Pipino il Breve, fece demolire le mura di Poitiers, Limoges, Saintes, Périgueux, Angoulème e di molte altre città, che Pipino avrebbe però fatto immediatamente ricostruire. Quest'ultima affermazione lascia in verità alquanto scettici poiché i Pipinidi, ancora al tempo di Carlo Magno, mostrano a loro volta di trovarsi alquanto a disagio davanti alle cerchie urbane tardo-antiche. Pervennero infatti a impadronirsi di Pavia, Verona e Saragozza dopo lunghi ed estenuanti assedi, e Barcellona e Tortosa, negli anni 800801, cedettero a Ludovico il Pio solo per fame; si spiega così che nel 778, non appena conquistata Pamplona, le sue mura siano state distrutte perché la città «non potesse ribellarsi». Fu verisimilmente per analoghi motivi che Carlo Magno nel 788 impose al duca di Benevento Grimoaldo di abbattere le mura di Salerno, Conza e Acerenza. Sembra dunque che il più agguerrito esercito dell'Occidente continuasse a condurre i suoi assedi con i medesimi primitivi criteri usati dai barbari nei secoli precedenti manifestando nei confronti delle cerchie murarie un'analoga inferiorità, e si spiega così, forse, il disinteresse per le tecniche d'assedio mostrato da autori dell'età carolingia come Rabano Mauro e Sedulio Scoto i quali, pur traendo lezione dalla lettura di Vegezio in altri campi, dimenticano del tutto i suoi consigli sulla difesa e sull'attacco delle fortificazioni. Ma alla pregiudiziale ripugnanza che gli eredi degli antichi barbari, ormai ascesi ai fastigi imperiali, continuavano a ostentare per le tecniche poliorcetiche si venivano certo unendo nuove motivazioni85. Quanto avviene nell'ambito dell'impero carolingio si rivela, intatti, cruciale per stabilire i futuri rapporti non solo tra fanti e cavalieri, ma anche fra questi ultimi e la fortezza. La storiografia recente ha cercato di collocare nell'età dei Pipinidi più di una «rivoluzione» che riguarda l'impiego bellico del cavallo: si è pensato che al tempo di Carlo Martello o di Pipino il Breve (legandosi
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o no all'adozione della staffa) i Franchi avessero dato vita quasi ex nihilo a una cavalleria pesante e a una leggera, subito divenute strumento fondamentale della loro irresistibile espansione. Per quanto tale tesi presenti più di una debolezza, rimane nondimeno certo che fra Vili e IX secolo i Franchi diedero ai cavalieri «più importanza di quanto ne avessero nell'età merovingia» e, insieme con la cavalleria - intesa come arma combattente - si venne allora rafforzando il suo prestigio militare, ben presto avviato a diventare un mito. Ma tale innovazione non potè avvenire senza che il cavaliere si scontrasse, in modo più evidente di quanto già avveniva in passato, con la scomoda e ineludibile realtà della fortezza. Se ne scorge un segno evidente nella celebrazione che il poeta Ermoldo il Nero fa del giovane Ludovico il Pio intento, negli anni 800-801, all'assedio di Barcellona: mentre gli arieti si accaniscono inutilmente contro le solide fortificazioni della città, ecco il principe infiggere la sua lancia nel marmo delle mura: un orgoglioso gesto di sfida che è, nello stesso tempo, una confessione di impotenza contro una fortezza decisa ad arrendersi soltanto per fame. La formazione della mentalità cavalleresca aveva fatto ulteriori progressi nell'ultimo quarto del IX secolo quando il monaco sangallese Notchero il Balbo rievocava, in onore dell'imperatore Carlo il Grosso, le prodezze ormai leggendarie dei suoi antenati. Con grande efficacia retorica egli descrive Carlo Magno a cavallo davanti alle mura di Pavia, corazzato da capo a piedi, circondato da un immenso esercito di cavalieri parimenti vestiti di ferro, che riempiono lo spazio circostante sino all'orizzonte: una visione talmente impressionante da paralizzare i difensori della città e da provocarne senz'altro la resa. Il disagio che il cavaliere continua a provare di fronte alla fortezza viene qui semplicemente dissimulato e sottaciuto. Non si prende nemmeno in considerazione la necessità di ricorrere a un regolare assedio, concentrando invece tutta l'attenzione sulla maestà e sulla terribilità del cavaliere corazzato: esse sono tali che bastano da sole a procurare la vittoria così che la celebrazione del guerriero a cavallo e l'affermazione della sua superiorità non potrebbero trovare espressione più completa. Fra le suggestioni che agivano sulla fantasia di Notchero vi è certo un brano delle Storie di Ammiano Marcellino nel quale si descrive l'assedio posto nel 359 ad Amida dall'esercito persiano di Sapore: in questo modo
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l'immagine letteraria del catafratto tardo-antico viene a dare man forte alla costruzione del mito del cavaliere destinato a dominare i campi di battaglia nell'età postcarolingia. Notchero scrive peraltro in un momento in cui negli eserciti i combattenti a piedi sembrano del tutto scomparsi e più che mai la figura stessa del soldato viene a identificarsi con il cavaliere. Per quanto appaia a prima vista irrazionale, si può credere che in tale epoca gli assedi siano stati davvero condotti da soli uomini a cavallo; celebri miniature mostrano infatti, con una certa frequenza, cavalieri armati di lancia che minacciano direttamente i difensori delle mura. Si tratta certo di una schematizzazione simbolica, ma non è da escludere che essa rifletta una parte della realtà: sono cavalieri pesanti coloro che, all'inizio dell'VIII secolo, attaccano Liegi e pervengono a uccidere il santo vescovo Lamberto, descritti dalla Vita Landiberti come rivestiti di corazza e di elmo, armati di scudo, lancia e spada, ma anche dotati di faretre piene di frecce. La scena dell'arazzo di Bayeux nella quale si vedono cavalieri caricare direttamente una fortificazione potrebbe, dunque, essere qualcosa di più che una semplice «licenza artistica». Si è del resto osservato che Richero, richiamando avvenimenti della fine del IX secolo, cita non meno di otto casi in cui eserciti di cavalieri assediano fortezze senza alcun ausilio di fanti: il combattente a cavallo che, in quanto cacciatore, è addestrato anche a tirare con l'arco, sa certo usare quest'arma tanto per difendere quanto per attaccare una fortificazione così che molti assedi possono essere effettivamente avvenuti senza il concorso della fanteria. Il confronto tra fortezza e cavaliere, in altri termini, diventa più diretto86. Si possono quindi meglio intendere anche episodi a prima vista fantasiosi come la presa della città leonina da parte di Arnolfo di Carinzia, avvenuta nel febbraio 896 e raccontata da Liutprando di Cremona: gli uomini, protetti da scudi e da graticci, muovono a caterve verso le mura dopo aver preparato «moltissimi strumenti di guerra»; si intendeva così, evidentemente, iniziare un assalto in piena regola, se non che ecco un leprotto, spaventato, ruggire verso la città: alcuni cavalieri lo inseguono e i Romani, vedendoli avanzare verso di loro, subito si danno alla fuga abbandonando la difesa. Fu allora sufficiente ai cavalieri ammonticchiare le some e le selle: «Grazie al mucchio salgono sulle mura»,
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presto altri con una trave sfondano la porta e la città è presa. Quello che per Notchero era semplice finzione letteraria si sarebbe qui dunque fatto nella realtà: lo spettacolo dell'irruenza e della spettacolare terribilità dei cavalieri lanciati alla carica è tale da provocare la ritirata dei difensori così che, senza sforzo, il cavaliere diviene padrone della fortezza. Ciò non significa che ogni disagio sia caduto, come mostra un altro episodio narrato dallo stesso Liutprando. Siamo ormai nel terzo decennio del X secolo quando il duca di Svevia Burcardo, inviato in Italia da Rodolfo di Borgogna per prepararne la riconquista, esce sotto le mura di Milano in una rabbiosa minaccia che conviene integralmente ascoltare: «Non sarò più Burcardo - egli dice - se non costringerò tutti gli Italici a usare uno sperone solo e non li farò cavalcare su cavalle deformi; non stimo nulla la consistenza e l'altezza di questo muro con il quale essi credono di essere forti, e ne precipiterò giù gli avversari con il getto della mia lancia». Le sue parole esprimono, in sostanza, lo stesso senso di impotenza già mostrato da Ludovico il Pio davanti alle mura di Barcellona; Burcardo nasconde però la sua insofferenza dietro la presunzione di superiorità ormai consolidata nella mentalità del guerriero a cavallo: chi osa resistergli con mezzi che lo mettono in difficoltà è soltanto degno di disprezzo, e tali sono tutti gli Italici che egli si propone di ridurre allo stato servile, indicato appunto dal cavalcare giumente e dall'uso di un solo sperone. Una certa cavalcatura e un certo equipaggiamento, simboleggiando l'unico modo onorato di combattere, hanno ormai assunto un preciso significato sociale87. Passano i secoli ma, si direbbe, la sfida tra il cavaliere e la fortezza continua. L'antica mentalità del cavaliere carolingio che affrontava le mura in modo diretto, sembra perdurare intatta tra i Francesi stabiliti nel regno crociato di Oltremare. Filippo da Novara ci ha tramandato quanto raccontava ai suoi tempi Giovanni di Ibelin, signore di Beirut, riferendosi a un episodio del 1168. Il re di Gerusalemme Amalrico, durante una campagna in Egitto, ordinò a suo zio Ugo di Ibelin «che assalisse e facesse assalire la città di Bilbays che avevano assediato; ed egli rispose che sarebbe andato all'assalto; e non appena arrivò sul fossato spronò e vi saltò dentro, egli e il suo cavallo. E il cavallo si ruppe il collo e mio zio la gamba». Né basta, poiché «messer Filippo di Nablus, il buon
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cavaliere che era suo zio, saltò nel fosso dietro a suo nipote e fu ridotto in tale stato che per poco non morì». Un tale sconsiderato modo di agire non doveva essere isolato se re Amalrico si risolse a promulgare un'apposita legge «per la quale mai un cavaliere avrebbe dovuto prestare servizio in caso di assedio a città o castello o in luogo dove il cavallo non lo potesse portare, se non si trovava assediato o a dover difendere la propria vita». Un «vero» cavaliere non si risolveva quindi facilmente ad abbandonare la sua cavalcatura nemmeno nel corso degli assedi, ed era normale che, una volta praticata una breccia nelle mura, o aperta per tradimento una porta, ci si precipitasse a cavallo dentro la città. Secondo una tradizione pavese, raccolta nell'XI secolo dalla Cronaca di Novalesa, nel 774 i Franchi riuscirono a conquistare Pavia solo perché una figlia di re Desiderio, innamoratasi di Carlo Magno, gli consegnò le chiavi: «E quando Carlo in quella stessa notte — scrive il cronista - dopo essersi avvicinato alla porta della città, riuscì ad entrarvi, gli andò incontro la fanciulla che abbiamo detto, ebbra di gioia per la promessa ottenuta, ma fu subito calpestata dagli zoccoli dei cavalli e uccisa perché era notte. Allora Algiso, il figlio del re, svegliato dallo scalpitio dei cavalli che irrompevano dalla porta, estratta la spada, abbatteva tutti i Franchi che entravano. Ma subito il padre gli proibì di farlo, perché quello che succedeva era la volontà di Dio». Fuori di leggenda, il Ltber Maiolichinus ci mostra in più occasioni i cavalieri pisani in azione in prossimità delle mura di Maiorca: ecco il console Roberto che «si lancia solo contro più nemici, / li scompiglia e, incalzandoli ad un tempo, / mentre volgono in fuga, li ricaccia entro le porte delle mura. Cade il suo cavallo nel fossato (oh! caso iniquo)», ma riesce a rialzarsi e a resistere a lungo prima di essere definitivamente sopraffatto. Non appena una breccia viene aperta nelle mura subito i cavalieri pisani, senza badare troppo alle difficoltà e all'opportunità, incalzano il nemico tra le case della città: «Tien dietro ai cavalieri / dei pedoni lo stuolo, ma l'entrare / è assai duro. Difficile ai cavalli / l'ingresso e arduo troppo il ritornare, / se vogliono ritirarsi», e infatti l'assalto fallisce. Ciò nonostante il giorno dopo ecco i risani di nuovo all'attacco: «Ma per i cavalieri troppo stretta è 1 apertura al ciglio della breccia. / I fanti fanno invito d'inoltrarsi
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I ai cavalieri, che, rivolte indietro le briglie, si dirigono alle tende». Si tratta di tentativi falliti, è vero, ma l'azione dei cavalieri attraverso le brecce in una simile circostanza è presentata come del tutto ovvia e normale. E quando, pochi anni dopo, Como subisce la stessa sorte di Maiorca, i Milanesi «rovesciato il muro, / il profondo fossato ora pareggiano. / Spianan la via cercando di forare / le pietre, affinché possano per gli aperti / accessi entrare i cavalieri». Ancora nel 1253 a Kyrinia, nell'isola di Cipro, Filippo da Novara ci mostra i cavalieri ostinatamente legati alla loro cavalcatura: di fronte a una torre d'assalto incendiata dai difensori «i cavalieri fuori salirono a cavallo e spronarono fino al fossato; là scesero ed entrarono nel castello di legno che bruciava ed estinsero l'incendio a forza». Anche in difensiva, del resto, quando il cavaliere era chiuso entro una fortificazione assediata, trovava modo di operare secondo le sue attitudini in groppa alla cavalcatura: nel 1111 nel castello di Puiset bloccato da re Luigi VI, gruppi di uomini a cavallo erano incaricati della difesa percorrendo al galoppo la parte interna del grande recinto, da un punto minacciato a un altro, pronti a respingere gli aggressori che vi fossero penetrati. Una tecnica difensiva simile risulta applicata anche nell'Italia settentrionale alla metà del XIII secolo: Ansedisio Guidotti, podestà di Padova per conto di Ezzelino da Romano, nella necessità di organizzare la difesa della vasta cerchia cittadina con un numero di effettivi insufficiente a guarnirla in tutta la sua estensione, ordina nel 1256 che i cavalieri disponibili «corrano all'interno degli spalti in modo da impedire l'ingresso ai nemici sopravvenienti, colpendoli a morte sul posto». L'accorgimento poteva consentire a un ridotto numero di persone di provvedere alla difesa di recinti che erano spesso, in proporzione, di notevole ampiezza88. A lungo dunque il cavaliere cercò di dominare la fortezza senza venir meno alla sua peculiarità di combattente a cavallo, anche contro il buon senso e ogni opportunità tattica. Assai più duttile e pragmatico si presenta, al contrario, nei suoi rapporti con la fortezza, il cavaliere in versione normanna. In verità già oltre mille anni prima Frontino aveva presentato nei suoi Strategemata un repertorio di espedienti che permettevano all'assediarne in difficoltà di farsi aprire fraudolentemente le porte di un luogo fortificato, né essi erano senza riscontro nelle vicende militari in segui-
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to effettivamente occorse: Ammiano Marcellino racconta infatti che nel 378, durante la rivolta di Magnenzio contro l'imperatore Costanzo, certi partigiani di quest'ultimo (avessero letto o no Frontino) riuscirono a superare le «Chiuse» delle Alpi Giulie spacciandosi per fedeli di Costanzo. Guglielmo di Puglia ci mostra, sul finire dell'XI secolo, un Roberto il Guiscardo molto ben disposto a raccogliere tale eredità. Egli ai suoi esordi perseguita i Calabresi razziando qua e là senza essere in grado di prendere «né città né castello», ma l'impotenza contro i luoghi fortificati, anziché suggerire atteggiamenti sprezzanti, spinge la sua mente a elaborare inganni ingegnosi: eccolo fingersi morto e chiedere di essere sepolto in un monastero dentro le mura; il desiderio viene accolto, se non che, nel pieno della cerimonia funebre, Roberto si alza dalla bara, estrae le armi che vi aveva nascosto e dà ai suoi il segnale dell'attacco vittorioso: «Fu il primo castello in cui tu mettesti guarnigione, o Roberto», conclude il poeta ammirato. Il gioco si ripete in altra forma a Durazzo in modo che il duca, «non avendo potuto vincerla con le armi, la conquistò con l'inganno». Il ricorso allo stesso classico espediente, più volte riproposto nel corso dei secoli, segnala di fatto la perdurante difficoltà che il cavaliere continuava a provare nei confronti della fortezza. Nel 1312 il guelfo Filippone di Langosco sconfigge presso Borgovercellile truppe di Matteo Visconti che erano appena uscite da Vercelli ghibellina, e lo stesso giorno, inalberando l'insegna del biscione catturata in battaglia, si presenta sotto le mura della città e si fa aprire la porta fingendo di essere Marco Visconti. Lo stesso fa Estous, protagonista della Prise de Pampelune, poema franco veneto del XIV secolo, impadronendosi senza colpo ferire del castello di Toletele, azione in verità poco cavalleresca, ma certo non ritenuta biasimevole dal momento che viene attribuita all'eroe positivo di una chanson de gestes. Anche negli ultimi secoli del Medioevo l'inganno è spesso l'unico modo per introdursi rapidamente e con poche forze in luoghi fortificati altrimenti imprendibili senza un assedio che richiederebbe uno sproporzionato impiego di tempo, di uomini e di mezzi. E all'inganno non disdegna affatto di ricorrere anche un cavaliere di alto prestigio come Bertrand du Guesclin. Nel 1351 eccolo nascosto in un bosco in attesa di un'occasione favorevole
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per impadronirsi del castello di Fougeray occupato dagli Inglesi. L'occasione si manifesta quando la guarnigione ordina legna da ardere: du Guesclin può così introdursi nel castello con trenta compagni che si fingono legnaioli: la guardia viene uccisa, gli uomini di servizio sopraffatti con l'aiuto di rinforzi giunti al momento buono, e il castello è preso. Ma il duello tra fortezza e cavaliere continuerà sinché le innovazioni dell'età moderna toglieranno a entrambi gran parte della loro importanza89.
Ili UOMINI CONTRO 1. Battaglie negate e vittorie virtuali «La battaglia in campo aperto - scrisse il trattatista tardo antico Vegezio - si risolve nel giro di due o tre ore, dopo di che la parte vinta perde tutte le speranze. Prima di giungere all'estremo bisogna perciò tentare e ponderare ogni cosa. I buoni comandanti, infatti, non amano la battaglia campale nella quale entrambi i contendenti corrono pericolo, ma operano di nascosto per sconfiggere o almeno per atterrire i nemici lasciando incolumi i propri uomini». Il testo di Vegezio - tramandato e letto, sempre più assiduamente, almeno dai tempi carolingi - influenzò senza dubbio la condotta della guerra in età medievale e si può quindi pensare che il suo invito a evitare lo scontro diretto abbia contribuito al ridursi delle battaglie combattute in campo aperto. Abbiamo d'altronde già notato che durante la guerra greco-gotica esse furono pochissime, possiamo ora aggiungere che il loro numero fu egualmente ridotto nelle vicende che portarono alla costituzione dell'impero carolingio, e che scarse continuarono ad essere anche in seguito. Pur ammettendo che ciò sia in parte dovuto ai precetti di Vegezio, si deve ricordare che la presenza di fortificazioni sempre più numerose, e il conseguente «riflesso ossidionale» da esse indotto, è di per sé sufficiente a spiegare il fenomeno; il semplice buon senso, inoltre, consigliava di risparmiare le proprie forze anziché rischiarle in avventate contrapposizioni frontali che potevanoportare in poche ore al fallimento completo. Sull'altro piatto della bilancia pesava nondimeno l'idea (nutrita da una perdurante tradizione epico-letteraria) che lo scontro diretto fosse un'oc-
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casione per ostentare atti di coraggio individuale, mentre l'eredità antropologica occidentale proponeva di cercare la sconfitta del nemico mediante un solo colpo nella speranza di conseguire, con l'aiuto divino, una vittoria decisiva, tendenza chiaramente espressa nelle parole che il cronista angioino mette in bocca a Lisia di Amboise. Questi, rivolgendosi nel 1044 al conte Goffredo Martello, impegnato nell'assedio di Tours, lo esorta a tralasciare l'impresa e ad affrontare i Franco-borgognoni di cui è annunciato l'arrivo: «Le battaglie durano poco - egli dice - ma il vantaggio per il vincitore è grandissimo: gli assedi prendono molto tempo ed è difficile sottomettere le città mentre le battaglie ci sottopongono le nazioni e le fortezze; dopo la battaglia i nemici vinti spariscono come il fumo: data battaglia e vinto il nemico, voi dominerete la Turenna». Ritroviamo qui una posizione esattamente opposta a quella di Vegezio; ciò nonostante le battaglie continuarono ad essere «cerimonie eccezionali», giudizi di Dio da affrontare con estrema prudenza e ai quali si giungeva soltanto quando gravi circostanze lo imponevano. Federico II nel 1237 si mostrò desideroso di imporre rapidamente la sua autorità ai comuni cittadini dell'Italia settentrionale e rinfacciò ai Milanesi la tattica dilatoria da loro adottata: «Temendo di venire con noi a battaglia campale, si sforzano di sbarrare il passo al nostro valoroso esercito in strettoie e ai passaggi dei fiumi, formano con i loro armati masse che contrappongono ai nostri cavalieri rendendo così impossibile un combattimento libero e senza impedimenti» nel quale sia possibile ottenere, una volta per tutte, la vittoria decisiva. Lo stesso imperatore, peraltro, pochi anni prima si era ingegnato, con un vero capolavoro di diplomazia, a recuperare il regno di Gerusalemme senza guerra e spargimento di sangue; ora invece, avendo a disposizione per poco tempo un grande esercito in grado di schiacciare il nemico, aveva fretta di concludere e si faceva zelatore di battaglie. L'occasione cui agognava si verificò a Cortenuova nel novembre del 1237: fu una brillante vittoria sul campo, certo, ma ben lungi dall'essere risolutiva poiché i comuni ribelli continuarono a opporgli un atteggiamento difensivo basato su un accorto sfruttamento del terreno che diede loro il successo finale1. È poco probabile che i responsabili militari dei comuni italiani intendessero davvero uniformarsi ai precetti di Vegezio, e tut-
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tavia il comportamento degli eserciti sul campo è spesso tale da farlo credere. Nel settembre del 1229 i Bolognesi stanno assediando il castello modenese di San Cesario sul Panaro quando la loro azione viene disturbata dall'arrivo di un forte esercito nemico. «Di primo mattino, al sorgere dell'aurora - si legge in una relazione stesa dagli stessi Bolognesi - scorgemmo i nemici mentre attraversavano il fiume chiamato Scoltenna, sulla cui riva avevano piantato gli accampamenti parecchi giorni prima. Subito il nostro esercito corse vigorosamente alle armi e, benché i nemici apparissero sia di fronte sia da tergo, movemmo loro incontro da tutte le parti e li seguimmo con le insegne, il carroccio e le formazioni di cavalieri e fanti unanimemente desiderosi di combattere. Essi però cominciarono a trincerarsi e a derivare acqua dal fiume facendola scorrere tra noi e loro perché non potessimo assalirli. Vedendo dunque che evitavano in tutti i modi lo scontro, tornammo alle tende con gioia e con trionfo». I Bolognesi, nonostante la situazione che si era creata, diedero comunque l'assalto alla fortezza di San Cesario che fu espugnata e distrutta. «Intanto - continua la relazione - tutta la nostra cavalleria, che era largamente disseminata sul campo, si raccolse e si schierò davanti a loro aspettandosi magnanimamente un assalto, ma essi non lasciarono le tende. Il giorno dopo il nostro esercito si diffuse per la campagna e i nemici uscirono dalla parte opposta; credevamo di venire a battaglia verso mezzogiorno, ma essi non si mossero fin verso sera, e solo quando il sole aveva già cominciato a tramontare ci mescolammo infine in un duro combattimento». Lo scontro si protrasse sino a notte inoltrata e, per quanto duro e sanguinoso, si concluse con esito incerto così che sia gli uni sia gli altri poterono poi ritenersi vincitori. Dalla relazione citata risulta evidente l'intenzione dei Bolognesi di attribuire la ripetuta dilazione dello scontro di San Cesario alla responsabilità del nemico; essi, pur dichiarandosi più volte disposti a combattere, si limitano in realtà ad attendere che gu avversari facciano il primo passo senza prendere alcuna iniziativa: l'intenzione di tergiversare sta dunque da entrambe le parti, per quanto - va riconosciuto - i Bolognesi fossero già impegnati nell'assedio, che riuscirono a condurre a buon fine proprio sotto gli occhi dei nemici in attesa. L'atteggiamento temporeggiatore, qui apertamente condannato, appare infatti piuttosto
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diffuso: ogni esercito parte, si direbbe, deciso a evitare la battaglia pur cercando di simulare determinazione e di esibire la propria forza con l'intenzione di intimorire l'avversario e di mostrare che lo scontro è stato eluso solo per la sua codardia. E siccome, di necessità, il combattimento viene sospeso con il sopravvenire del buio, sembra a prima vista legittimo sospettare che il lungo temporeggiare faccia parte di un gioco teso a mettere il meno possibile a repentaglio le proprie forze salvaguardando, nello stesso tempo, l'onore. Non sarebbe casuale, quindi, che certe battaglie - come avvenne nel 1229 a San Cesario - inizino proprio «ante vesperas», «circa vesperas» o addirittura «post vesperas» (possiamo intendere intorno alle 18) e che altre durino «a vesperis usque sero», cioè, all'incirca, dalle 18 alle 21, anche se non è da escludere che, una volta avviato, uno scontro possa protrarsi in modo imprevedibile «sino a mezzo della notte» per essere in ogni caso interrotto senza giungere a risultati chiari e definitivi. Il temporeggiamento è però spiegabile anche in altro modo: accanto ai numerosi fattori che condizionarono la prassi bellica occidentale, dal XII secolo in poi se ne venne diffondendo uno relativamente nuovo consistente nel ricorso alla divinazione astrologica. Le fonti rimangono a lungo reticenti al riguardo, ma non è affatto da escludere che già all'inizio del Duecento tale fattore avesse cominciato a influenzare la scelta del giorno e dell'ora in cui si intendeva arrischiare una battaglia. Certo la tendenza si fece, nel corso di quel secolo, sempre più frequente ed esplicita, come mostrano certe azioni militari di Ezzelino da Romano. Con il maggior numero di effettivi che gli era stato possibile mobilitare, egli varcò l'Oglio il 30 agosto 1259 sotto l'ascendente del Sagittario - narra Rolandino da Padova - e «cavalcò magnificamente intorno alle mura del castello di Orzi», intenzionato a portare la guerra nel cuore della Lombardia e a compiere imprese mai più viste da Carlo Magno in poi. La decisione di muovere l'esercito proprio in quel giorno era stata presa «su consiglio dei suoi astrologi e sapienti», ma, ciò nonostante, molte incertezze dovevano ancora pesare sui tempi e sui modi della spedizione se lo stesso Ezzelino ritenne necessario interpellare i propri collaboratori militari circa l'opportunità di «superare il fiume e di venire alle mani con il nemico oppure no». Costoro unanimemente lo
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dissuasero dall'intraprendere l'operazione, al che il tiranno tagliò corto: «So che il vostro parere è migliore del mio, ma voglio comunque passare», e così - conclude il cronista - «coscientemente e determinatamente si avviò verso la morte». Come in questo caso clamoroso e decisivo, forse anche altri audaci comportamenti tattici di Ezzelino andranno interpretati come «fiduciosa subordinazione ai responsi astrologici» nella certezza degli esiti positivi che essi sembravano garantire. Egli non era del resto il solo a fidarsi delle stelle: Federico II prendeva le sue decisioni, anche militari, in accordo con i sapienti e gli astrologi che manteneva a corte e, almeno dai primi decenni del Duecento, «geometri» e «matematici», come li chiamano le fonti, scrutano il cielo e indagano il corso degli astri, stipendiati dai comuni di Siena e di Firenze, per determinare i momenti più propizi e i luoghi più adatti in cui dare corso alle iniziative di maggiore importanza, tra le quali è compresa, s'intende, la condotta delle operazioni di guerra. E benché le fonti a noi note non ne facciano espressa menzione, è assai probabile che allo stesso modo si regolassero anche i comuni dell'Italia settentrionale. A prima vista la passiva accettazione di regole oscure, estranee a ogni dote di intuito, abilità ed esperienza, che condizionano pesantemente le decisioni operative, parrebbe incompatibile con la reputazione e la «professionalità» di qualunque capo militare. La realtà stava invece altrimenti se Guido Bonatti, il più famoso astrologo professionista del Duecento, dopo essere stato tra i consiglieri di Ezzelino da Romano, passò al servizio di Guido Novello e poi di Guido di Montefeltro, cioè dei più esperti uomini di guerra del tempo. Secondo una tradizione a noi pervenuta, il Bonatti, appollaiato sul campanile di San Mercuriale di Forlì, dopo aver speculato gli astri, segnalava al Montefeltro addirittura il momento preciso in cui indossare la corazza, montare a cavallo e muoversi verso il nemico; per quanto una tale immagine possa apparire grottesca, è indicativa della disposizione mostrata dal famoso e valoroso condottiero a rinunciare a buona parte delle sue responsabilità operative; esse finivano così per trasferirsi a uomini C -ft ~ ^ u a ^ u n ( ì u e fosse la loro fama, abilità e preparazione «scientifica» - divenivano di fatto gli arbitri delle decisioni militari di maggior peso. Proprio come successe a Ezzelino, coloro che eser01 a v a n o il comando correvano quindi il rischio di confidare più
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nell'«aiuto dei pianeti» che nella «velocità dei cavalli» votandosi a una pericolosa fiducia nell'irrazionale. Era facile post eventum addurre involontari errori e inavvertenze nel calcolo dell'oroscopo: l'astrologo rischiava bensì, da un lato, di divenire il capro espiatorio di imprese fallite, ma dall'altro poteva arrogarsi il merito delle vittorie. Una vera e propria astrologia «militare» interveniva dunque a influenzare, in modo ritenuto scientifico, giorni e luoghi in cui mobilitare e far muovere un esercito, scegliere il sito e l'ora in cui accamparsi, iniziare un assedio, accettare o rifiutare lo scontro con il nemico; non è quindi da escludere che a ciò fossero dovute molte delle tergiversazioni messe in atto prima di misurarsi in una battaglia in campo aperto2. L'arte di fronteggiare un nemico senza venire alle mani non era peraltro un'invenzione di quei tempi. Nell'893 il re d'Italia Berengario I chiese aiuto ad Arnolfo di Carinzia contro il suo antagonista Guido di Spoleto; l'esercito tedesco giunto in Italia al comando di Sventiboldo, figlio di Arnolfo, fu bloccato davanti a Pavia dove Guido - sappiamo da Liutprando di Cremona - «aveva rafforzato con palizzate e con le sue forze un fiumiciattolo di nome Vernavola», che scorre non lontano dalla città, in modo che «una parte non poteva assalire l'altra dato che il fiume vi scorreva in mezzo». Gli avversari rimasero di fronte per molti giorni sinché Guido, mediante l'esborso di una congrua quantità di argento, convinse Sventiboldo a ritirarsi. La Vernavola è ai nostri giorni un corso d'acqua di valore impeditivo assolutamente trascurabile, e tutto lascia pensare che esso non fosse molto diverso negli ultimi decenni del IX secolo: serviva dunque da semplice pretesto per mascherare la scarsa volontà di battersi che evidentemente dominava in entrambi gli schieramenti. Come in questo caso paradigmatico la presenza di un corso d'acqua, anche insignificante, fra i contendenti è spesso sufficiente a giustificare la loro inerzia, ma talora nessun pretesto è ritenuto necessario. Il 26 ottobre 1160 presso Lodi - racconta Ottone Morena - un drappello di cavalieri milanesi avvista un corrispondente reparto lodigiano ed entrambi rimangono a fronteggiarsi valutando l'avversario senza decidersi ad attaccare per primi; infine, con il sopraggiungere della notte, ciascuno ebbe una buona ragione per tornare alla propria sede. Si trattava di un incontro casuale e si può capire l'esitazione e l'indisponibilità a impegnarsi in uno
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scontro non previsto, ma si tergiversa anche quando, al contrario, vi era un preliminare e reciproco intento di venire alle mani. Verso la fine di maggio del 1287 i cavalieri e i fanti di Reggio Emilia escono dalla città e si attendano presso il torrente Campora decisi ad attaccare i ribelli che infestano il contado. Questi muovono loro incontro richiedendo anch'essi battaglia; i due eserciti stazionano a circa mezzo miglio l'uno dall'altro e inviano vicendevolmente «spie ed esploratori» per conoscere consistenza e debolezze dell'avversario: «e così - conclude il cronista - fecero per tutto quel giorno sinché, presi dalla noia, se ne tornarono senza combattere». Ognuno avrà certo avuto le sue giustificazioni che non possiamo conoscere nei particolari e che non necessariamente vanno ascritte a semplice viltà. Del resto anche un abile e audace condottiero come Castruccio Castracani non fu esente da simili esitazioni. Nel 1320 «con la sua gente, vigorosamente, se ne venne ad oste a Cappiano in su la Guisciana a petto a' Fiorentini». E qui i due avversari, non per un solo giorno ma per mesi, rimasero a fronteggiarsi sulle sponde opposte del fiumicello e «persero tempo a badaluccare con grande spendio, facendo battifolli, fortezze, ponti e dificii, per gravare l'una oste l'altra, senza avanzare niente l'una parte l'altra». Infine ciascuno si ritirò «per la vernata e mal tempo di pioggia» senza nulla concludere. I Fiorentini, pur uscendone «con poco onore» poterono sempre dire di aver distolto le forze di Castruccio dall'assedio di Genova allora in atto. Un caso analogo, per quanto assai più clamoroso, avvenne in Francia nell'ottobre del 1339: gli eserciti francese e inglese si fronteggiarono a Buironfosse, sul fiume Oise, per più giorni; il re d'Inghilterra chiese battaglia e il re di Francia accettò stabilendo la data per il 23 ottobre: «Ciascuna oste si armò e schierò - racconta Giovanni Villani - e 1 re d'Inghilterra venne con sua gente schierato nel luogo ordinato, e stette in sul campo infino a vespro. Il re di Francia e sua oste s'armò ma però non si mosse con sua gente del campo, ma con inganno e maestria di guerra si credette vincere i nemici»; volle infatti bloccare il passo dal quale gli Inglesi ricevevano i rifornimenti trovandolo però già ben presidiato dai suoi avversari; questi d'altronde, a corto di viveri, vedendo che i francesi non si presentavano, dopo aver «trombato e ritrombato,
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se n'andarono» e il re di Francia ritornò a Parigi «sano e salvo ma con poco onore». Froissart, che vide le cose più da vicino, assicura che l'esitazione e la rinuncia dei Francesi si dovette ai diversi pareri che dividevano i comandanti: di fronte a coloro che consideravano l'elusione del combattimento come un'insostenibile vergogna, altri facevano osservare che se la sorte delle armi fosse stata contraria al re di Francia questi avrebbe perso il suo regno mentre, vincendo, non avrebbe affatto ottenuto il regno d'Inghilterra. Si trattava, a ben vedere, di una riproposizione dell'ammonimento di Vegezio sulla pericolosità di scelta imposta dalla battaglia in campo aperto. Ad aumentare le perplessità sarebbe inoltre intervenuta l'allarmante notizia che, secondo i calcoli elaborati dal grande astrologo di Roberto di Sicilia, se il re di Francia avesse combattuto, sarebbe certamente stato sconfitto3, e non è da escludere che proprio tale ultimo elemento abbia indotto a traccheggiare sino alla definitiva rinuncia, come già probabilmente avveniva, per le medesime ragioni, nell'Italia comunale. Lo scarseggiare di battaglie in campo aperto imponeva l'esigenza di avere dei surrogati. Già Vegezio sottolineava la necessità di ordinare le proprie forze per primi poiché «i nemici, vedendo gli eserciti schierati contro di loro, cominciano ad avere paura»; rivolgendosi poi direttamente al comandante proseguiva: «Tu, schierato e pronto, sorprendi l'avversario trepidante mentre ordina il suo esercito: infatti è già una parziale vittoria turbare il nemico prima di combattere». Dal momento poi che uno scontro diretto fra due eserciti (come consigliava lo stesso Vegezio) era finché possibile evitato, la «parata» veniva talora a sostituire di fatto la battaglia. Nel 1207 i Faentini - racconta il cronista Tolosano - muovono audacemente contro i Ravennati che avevano occupato il castellare di Meldola: «Avvistati i nemici, si dispongono in una pianura presso il castellare, separati solo da un ruscello, tutti riuniti sotto le proprie bandiere, e invitano anche con la voce e con i gesti i nemici perché vengano al combattimento», ma poi, visto che essi rimanevano sordi a ogni sollecitazione, senz'altro se ne «ritornarono a casa con lode e cantico», come se avessero ottenuto una brillante vittoria. Invece che in campo aperto, come nel caso precedente, la «parata», accompagnata da guasti e saccheggi, può
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avvenire - come si è in parte già visto - davanti alle mura di una città nemica con lo scopo di provocare gli abitanti a uscire. Nel 1229 Padova, contro i Trevigiani sobillati da Ezzelino da Romano, inviò un «copioso esercito a sterminio delle terre nemiche»; il podestà guidò «magnificamente» le sue genti con il carroccio sino al Piave e sin sotto la città avversaria tanto che «i Padovani allora videro le torri e le mura di Treviso, sentirono le campane e le voci della città, ma, non avendo visto nessuno dei nemici, l'esercito sano e incolume ritornò a Padova con trionfo». L'intento di provocare un avversario per indurlo a misurarsi in campo aperto appare più esplicito nell'episodio che, nell'agosto del 1256, ebbe per protagonista diretto Ezzelino da Romano. Quando egli seppe che la città di Padova gli era stata sottratta dai «crociati» comandati dal legato papale e sostenuti dai Veneziani, si presentò con un grande esercito sotto le mura, schierò la sua cavalleria in sette formazioni perfettamente disposte e risplendenti di armi, e ordinò ai guastatori di abbattere ogni albero, cespuglio, vigna e coltivazione, di spianare le strade e riempire i fossati «come se si aspettasse un attacco di cavalieri e desiderasse avere una sanguinosa battaglia campale»; ma inutilmente i cavalieri di Ezzelino rimasero immobili per tutto il giorno in attesa del nemico perché il legato - dice Rolandino - impedì recisamente ai suoi, già pronti a irrompere, di uscire dalle mura, così che lo scontro si ridusse a qualche scaramuccia di fanteria con la gualdana degli avversari. Il cronista, imbevuto di mentalità cavalleresca, ha qualche difficoltà a giustificare il mancato accoglimento di una sfida lanciata in modo così palese: anche i guasti ordinati da Ezzelino nella campagna di Padova assumevano un significato non dubbio in quanto destinati, oltre che alla distruzione di risorse, alla preparazione del terreno per uno scontro fra cavalieri. Il tiranno, pur dovendo partirsene senza aver ottenuto lo scopo che si prefiggeva, ebbe quindi ragione di sentirsi moralmente vincitore. Più popolaresca fu la sfida lanciata dai Milanesi e dai loro alleati nel giugno del 1295 a un esercito cremonese chiuso in Lodi: essi si avvicinarono «sino alla distanza di quattro colpi di balestra e anche fino ai fossati, suonando le trombe e gridando: 'Uscite ™on, ruffiani di Cremona! Uscite fuori, fanfaroni, e venite a combattere! Ma gli sfidati non osarono uscire. I Milanesi rimasero fìo a mezzogiorno e poi se ne ritornarono incolumi» mentre i Cre-
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monesi, a loro volta - conclude con asprezza il cronista parmigiano - col favore della notte «furtivamente e vergognosamente si ritirarono». Nel maggio del 1297 Maghinardo di Susinana, capitano del popolo di Faenza, marcia con le sue truppe da Imola verso Castel San Pietro dove si trova l'esercito bolognese; ivi dispone le schiere inviando messaggeri agli avversari per annunciare loro che era pronto a venire a battaglia, «ma essi rifiutarono in pieno». Spedì allora trombettieri e tamburini sino al fiume Sillaro dove i Bolognesi si erano accampati, e al tramonto pose ivi anche il suo campo. «Fatte le cose in questo modo - conclude anche qui il cronista - i suddetti Romagnoli ritirando le loro schiere, magnificamente e con astuzia, ritornarono a Imola, ciò che avvenne a disdoro e vergogna dei Bolognesi»4: si trattava di una vittoria virtuale piena e indiscutibile. Negli affrontamenti senza battaglia viene spesso messa in evidenza la capacità di rimanere in faccia al nemico o di operare in sua presenza senza che esso reagisca. Nel 1237 presso Arquata Scrivia, il podestà di Genova muove contro Tortonesi e Pavesi che guarnivano il luogo e si attenda a un miglio da loro «così che entrambi gli eserciti si vedevano»; ivi rimasero per più giorni sinché «Pavesi e Tortonesi levarono il campo» ammettendo così implicitamente la sconfitta. I Milanesi nel 1156 prendono e distruggono Cerano, nella bassa pianura novarese, «ciò vedendo Pavesi e Novaresi che erano là vicino con tutte le loro forze». Il relatore bolognese del 1229 - come si è visto - tiene a precisare che i suoi concittadini presero il castello di San Cesario sotto gli occhi del nemico senza che esso osasse intervenire; anche il podestà di Brescia sottolinea, nel 1242, che Pontoglio fu espugnato dai suoi «vedendo i nemici bergamaschi là riuniti»5. Chi scrive, mettendo in evidenza il mancato impegno del nemico, mira implicitamente ad accusarlo di codardia esaltando così, per contrapposizione, il valore dei propri concittadini o alleati risultati doppiamente vincitori. Secondo un meccanismo accertato dai moderni studi di etologia, di fronte a una minaccia che si manifesta a una certa distanza, un animale può ritirarsi o attaccare, e ciò avviene in modo variabile da specie a specie, secondo certi limiti che gli zoologi hanno definito «distanza di fuga» e «distanza critica». C'è motivo di ritenere che limiti analoghi valgano anche per il comportamento degli uomini impegnati in un'azione bellica, e in esso rientrano
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probabilmente le manifestazioni con le quali, prima di giungere a uno scontro diretto, gli attaccanti tentano istintivamente di intimidire e di mettere in fuga gli avversari senza giungere a combattimento. A tale scopo il bell'ordinamento delle schiere poteva apparire addirittura più importante del loro stesso impiego sul campo: mostrare di fronte all'avversario ordine, compattezza e disciplina era infatti sufficiente, come si è visto, per indurlo, se non ad arrendersi, almeno a ritirarsi. Radolfo di Caen descrive i guerrieri di Tancredi che, durante la prima crociata, emergono armati e inquadrati in modo perfetto da una valle presso Tarso, di fronte agli occhi sgomenti dei Turchi: ecco dapprima le punte ferrate delle lance, cui si aggiungono in rapida sequenza le aste di frassino, gli elmi, gli scudi e i torsi corazzati sinché le sagome minacciose dei guerrieri a cavallo si stagliano in tutta la loro imponenza sull'orizzonte; a quel punto continua Radolfo - il nemico non resse all'assalto di «elmi, scudi e corazze» e si diede alla fuga, come se proprio le armi difensive, per l'aspetto che conferivano ai cavalieri occidentali, fossero in effetti le più temibili. Nel 1126 - racconta Sugero - i difensori del castello di Montferrand rimasero allibiti di fronte all'«ammirevole esercito» di Luigi VI, i cui elmi e corazze luccicavano al sole, e abbandonarono precipitosamente le mura esterne ritirandosi, virtualmente già vinti, nel ridotto centrale. Teodoro di Monferrato, che riflette nei suoi Insegnamenti la tradizione degli eserciti comunali italiani, consiglia di radunare scudieri e uomini d'arme «in un'unica formazione ben strettamente ordinata» perché non solo gli uomini «congiunti insieme si sostengono meglio e più fortemente», ma i nemici, vedendoli così serrati, «li temono di più». E difatti nel 1215 i Casalesi assediati, alla vista degli attaccanti che avanzavano pronti all'assalto «in strettissime schiere», ritennero senz'altro opportuno arrendersi; davanti al castello di Taivano, circondato dai Bolognesi nel 1275, |,!I"frvento di «una bella schiera di cavalieri», formata da Guido di Montefeltro proprio «con lo scopo di mostrarsi», manovrando con ordine e disciplina, incoraggiò gli assediati e nello stesso tempo indusse gli assediami a ritirarsi. Non di rado una campagna di guerra poteva così risolversi in una semplice esibizione di forza nella quale il numero, il perfetto inquadramento, lo sfavillare deifi armi e delle armature, la ricchezza dell'apparato, i colori, il nu-
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mero delle bandiere, il coro delle voci e il risuonare degli strumenti musicali acquistavano un valore di pressione psicologica di grande efficacia: un buon capitano - verrebbe da concludere mostrava di essere tale innanzitutto mediante l'abile regia della sua troupe. Ma naturalmente non sempre il gioco riusciva. Ezzelino da Romano nel 1239 finse di soccorrere i castelli di Cerro e di Calaone assediati dal marchese d'Este mostrando ripetutamente da lontano le spade nude e agitando le bandiere nel gesto «che i Lombardi chiamano mactare», ma «il marchese era sull'alto del monte ed Ezzelino in piano», commenta il cronista, e non ottenne quindi alcun risultato. Analogo tentativo mise in atto nel 1242 l'esercito comunale di Bergamo per recare conforto al presidio di Pontoglio attaccato dai Bresciani. I Bergamaschi con tutte le loro forze - riferisce il podestà di Brescia - avanzarono sino a mezzo miglio dagli avversari e là costituirono le schiere di cavalieri e fanti; «i nostri - continua il relatore - si comportarono tutto il giorno con prudenza rimanendo inoffensivi verso il nemico, ma pronti a combattere non appena esso si fosse mosso». Intanto sotto i suoi occhi continuarono le operazioni contro gli assediati i quali, seppure controvoglia, dovettero infine arrendersi senza poter avere alcun aiuto dai concittadini i quali - conclude beffardamente - li soccorsero soltanto «con il suono delle trombe e lo sventolio dei vessilli». Non bisogna comunque credere che a battaglia non si giungesse mai e che i contrasti militari fra i comuni italiani si riducessero sempre - come qualcuno ha ritenuto - a semplici «atti periodici volti alla propria autoaffermazione» nei quali gli eserciti cittadini si ritrovavano ogni estate subito dopo il raccolto per riprendere la lotta contro l'abituale nemico e strappargli il carroccio, come se si trattasse di disputarsi un titolo sportivo a cadenza annuale6. Al di là della semplice, scenografica parata (un rito necessario per salvare in quei casi prestigio e autostima) erano pur sempre in gioco forti interessi economici, volontà di affermare il proprio potere e feroci antagonismi politici in cui il sangue finiva inevitabilmente per scorrere in vere guerre, anche se non sempre in vere battaglie.
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2. «Geometria della paura» I conti Guarino e Algiso, ambasciatori di Ludovico il Pio, nell'835, entrando a Pavia nell'alloggio del vescovo Oggero, furono invasi da improvviso e inspiegabile terrore. Vedendoli pallidi e tremanti il vescovo ne domandò loro la ragione: «Forse - risposero allarmati - è stabilito che qui debba finire la nostra vita, mai infatti, neppure quando ci trovammo di fronte ai nemici in guerra, fummo invasi da una paura così grande». Il vescovo li rassicurò: il loro sgomento derivava dal mancato ossequio a reliquie là conservate, e infatti scomparve non appena essi si prostrarono davanti ai corpi santi. Veniamo così a conoscere ciò che difficilmente, in condizioni normali, sarebbe stato confessato: anche i capi dei valorosi guerrieri franchi, allora incontrastati dominatori dell'Occidente, al momento di affrontare il nemico in guerra potevano essere sopraffatti dalla paura. Ci si è domandati che cosa davvero si sappia del combattente in combattimento e si è dovuto ammettere che «in verità non se ne sa molto, almeno in termini di resoconti scritti» poiché «rari sono i racconti che diano un'immagine reale dell'attesa, della paura, dello smarrimento, della rapidità, della viltà, della sconcezza, della sofferenza, dell'orrore»7. E se ciò vale in generale per tutte le battaglie della storia, tanto più lo si può dire per l'età medievale. Che cosa provava, per esempio, un fante o un cavaliere degli eserciti comunali italiani al momento di schierarsi in campo aperto di fronte al nemico? Si trattava - è bene ricordarlo - di combattenti non professionisti periodicamente distolti, per qualche giorno o tutt'al più per qualche settimana, dalle attività lavorative quotidiane. I rari resoconti a noi noti parlano del comportamento collettivo dei combattenti per lo più tenendo conto dei risultati da essi conseguiti. Ecco, nelle parole di Landolfo Seniore, i Milanesi solidalmente impegnati nel 1037 nella difesa della loro città contro l'esercito imperiale di Corrado II: «Schivati accortamente i proiettili avvera i , cavalieri e fanti, come era stato loro insegnato dagli istruttori militari, difendevano a gara la posizione sulla quale erano disposti combattendo in modo cauto e oculato: nessuno si precipiJ Sf r123 d i s c e r n i m e n t o a col PÌre il nemico; nessuno abbandoa il luogo a lui assegnato se non sotto un pesante assalto o per-
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che ferito; nessuno si attentava a saltar fuori da solo per colpire un avversario che si presentasse a tiro. E se la pressione nemica si accentuava in un dato settore, non tutti si disponevano a correre in rinforzo, ma soltanto il reparto a ciò designato mediante opportuni segnali». I combattenti sono qui poco più che degli automi ben addestrati e disciplinati e il loro comportamento «da manuale» induce al sospetto che l'autore, nel rievocare quel glorioso e già lontano avvenimento, intenda in realtà offrire un modello da imitare per i cittadini del suo tempo. Poco, naturalmente, è lecito aspettarsi dalle ricostruzioni letterarie come il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, che pure ci presenta in modo sufficientemente realistico i due partiti bolognesi affrontarsi nel 1279 in città in una vera e propria battaglia campale: i primi formano «una schiera streta / suxo la piaca» e provocano con le grida gli avversari i quali «tosto arcolseno la soa cavalaria / da l'un d'i ladi de la pia$a / e de peduni feno una gran massa, bene aschierati cum aliegra fa<ja». I contendenti si fronteggiano e «Alora fo sì grandi li cridi levati, / trambe le parti stanno striti e serati, / de ma?e e de spade lì s'anno dati / gran percosse. / Ma l'una parte e l'altra è sì grossa / che zascuno sta fermo a la soa posta, / dagando e percotando de gran botta per onne lato», sinché una delle due parti, sopraffatta, abbandona senz'altro la città. Anche qui l'azione prevale sui sentimenti, che si manifestano solo per un attimo nell'«allegra faccia» dei fanti: essi, sentendosi evidentemente rassicurati dal loro numero e dalla solidità della propria formazione, lasciano trasparire anche nella fisionomia la fiducia nella vittoria. Indicazioni più utili, seppure indirette, sul comportamento in battaglia dei combattenti possono essere desunte da un altro genere di fonti sotto tale aspetto poco utilizzate: un congruo numero di statuti cittadini della seconda metà del Duecento consente, infatti, di farsi un'idea del modo in cui le schiere degli eserciti comunali venivano stabilite e mantenute in ordine, e di avere quindi - sia pure senza precise distinzioni fra fanti e cavalieri - qualche dato sull'atteggiamento degli uomini che nelle schiere venivano inquadrati. La prima preoccupazione dei capi appare quella di far muovere l'esercito verso la zona delle operazioni in modo il più possibile ordinato: le schiere di cui parlano gli statuti sono quindi innanzitutto formazioni di marcia. Per definirle essi
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usano di preferenza il termine sclera, ma non mancano i sinonimi tra i quali predomina acies in alternativa con numerosi e più generici vocaboli di estrazione classica come legio, cohors, agmen, turma, caterva preferiti dalle fonti narrative. L'italiano «schiera» (come mostra in più casi Giovanni Villani) trova poi un equivalente nel francese bataille. Nessuno di tali vocaboli ha in sé un valore organico fisso, né corrisponde a una quantità numerica ben definita: basti dire che nel 1260 - come sappiamo dal Libro di Montaperti - erano compresi in un'unica schiera i cavalieri di tre «sesti» della città di Firenze, un'altra schiera riuniva tutti i fanti, e l'intero esercito, comprendente anche numerose forze alleate, marciava diviso in sole sei schiere. Non diversamente, nel 1282 i Perugini diretti contro Foligno si dispongono per la partenza in cinque «acies seu schede» costituite da altrettanti corpi fra loro omogenei, e simile disposizione si osserva anche per il ritorno. Il Liber de regimine di Giovanni da Viterbo, che riecheggia da vicino il linguaggio degli statuti, rivolgendosi in generale ai podestà comunali, riassume: «I cavalieri si armino e si ordinino nelle loro schiere in ordinanza per procedere con cautela». Egli intende insistere, come si vede, soprattutto sul concetto di ordine. 3. «Ordinare le schiere delle battaglie» Una correlazione assai stretta viene stabilita fra l'ordinamento delle schiere e la visibilità delle insegne: sulla fronte nessun fante o cavaliere deve superare il vessillo del comune e del podestà e ognuno dovrà «seguire i segnali e i vessilli» rimanendo di continuo accanto ad essi; sul tergo il limite è dato dalle insegne degli ufficiali «guardaschiera» dietro ai quali si vieta di «fare coda». La posizione di ciascun fante e cavaliere entro la schiera non è lasciata al caso, ma corrisponde a un ordine stabilito, tant'è vero che u podestà e gli ufficiali del comune hanno facoltà di multare duramente e di percuotere sia colui che rilutti a raggiungere il suo Posto, sia chi tenti di uscirne. Perché poi, durante la marcia, le di^anze non si dilatino oltre il dovuto, ciascuno è tenuto a «proces t ì r b S t r T ° ^ Ì e t r o *e bandiere», mentre appositi incaricati, dispocoda, provvedono a «stringere sul tergo» perché tutti prò-
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cedano serrati. Tali regole valgono per la marcia poiché, una volta avvistato il nemico da affrontare, l'esercito deve necessariamente passare dall'ordine di marcia all'ordine di combattimento. Che esistesse una differenza fra i due ordinamenti è di per sé ovvio e risulta ben chiaro da alcune relazioni di battaglie. Nel 1260 - dicono di se stessi i vincitori di Montaperti - «diligentemente, con somma sagacia, ordinammo le schiere dei nostri per combattere» contro i Fiorentini; e questi pure, per quanto sorpresi in marcia, ebbero tutto il tempo di costituire «con sommo studio» «una schiera più forte». Nel 1268 Carlo d'Angiò, riferendo a papa Clemente IV sulla vittoria di Tagliacozzo, accenna prima al suo spostamento «con le schiere formate» e poi a «schiere distinte e ordinate a battaglia» in vista del nemico il quale, a sua volta, lo attende nella pianura antistante «senza tuttavia avere in nessun modo sciolto le sue schiere». Nel 1257 a San Procolo, presso Faenza, tanto Guido di Montefeltro quanto i suoi avversari bolognesi «designarono le schiere per combattere», e Uguccione della Faggiola nel 1315 a Montecatini accenna alle sue «schiere di combattimento» («acies preliares») così definite, va inteso, proprio perché si differenziavano da quelle di marcia. Anche il Liber de regimine raccomanda che, prima dello scontro, il podestà proceda «all'ordinamento di cavalieri e fanti» senza tuttavia precisare come. Sulla disposizione delle schiere per il combattimento non più di qualche cenno si trova nelle fonti narrative: nel 1229 a San Cesario sul Panaro - dice Giovanni Codagnello - i Bolognesi vennero sorpresi «enormemente dispersi sul campo» tanto che a stento poterono radunarsi e «ridursi in schiera» come appunto «è consuetudine fare in simili casi». Qualche aiuto per saperne di più viene dai consigli dati dai trattatisti là dove essi non si limitano a proporre astratte parafrasi di Vegezio ma forniscono particolari che si ha ragione di credere attinti alla pratica del loro tempo. Il Pulcher tractatus de materia belli (probabilmente composto nell'Italia centrosettentrionale all'inizio del XIV secolo) sottolinea la necessità che, al momento opportuno, il tumulto e il clamore non impediscano di sentire bene la voce di chi «ordina e conduce la schiera», e se tale condizione venisse meno si dovrà ricorrere a opportuni segnali sonori e visivi come trombe, corni e bandiere. Ecco dunque una conferma che le schiere venivano ordinate sul campo di battaglia mediante comandi vocali
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e con l'ausilio alternativo di segnali convenzionali, operazione che sarebbe stata certo difficile, o addirittura impossibile, da realizzare se gli eserciti comunali non avessero avuto un sia pur sommario addestramento collettivo in ordine chiuso. Lo ribadisce, intorno al 1280, il De regimine principum di Egidio Romano: l'osservanza dell'ordine nelle schiere - egli dice «non può essere ottenuta senza grande esercizio», e di tali esercizi fornisce anche alcuni rapidi esempi: disporre cavalieri e fanti in righe, prendere le distanze fra l'una e l'altra, raddoppiare i ranghi sino a ottenere schiere dalle forme desiderate. Queste sono essenzialmente quattro: quadrangolare, triangolare, a forbice e rotonda. La prima è giudicata la meno utile, la seconda e la terza sono consigliabili per attaccare un nemico numeroso, la quarta risulta indispensabile per difendersi contro un avversario più forte. Si tratta, è vero, di una semplificazione e razionalizzazione dei dati più ampiamente esposti neìTEpiioma di Vegezio, ma il rapporto con la realtà non doveva mancare dal momento che, nella pratica, un certo numero di fanti raccolti a massa costituisce «per lo più un raggruppamento a forma rettangolare o quadrata con angoli smussati». I meglio armati, i più valorosi e autorevoli si dispongono nelle prime righe «e dietro si pigia la plebe, sempre utile colla sua presenza e con il suo numero a mantenere la coesione, sostenere e sospingere quelli che sono davanti». Ciò non esclude più elaborate formazioni triangolari, rettangolari e quadrate come quelle che sapevano formare le fanterie di Liegi, dove pure gli uomini meglio protetti e armati venivano collocati nelle file esterne. Se ragioni economiche impedivano alla fanteria comunale regolari esercitazioni in tempo di pace, l'addestramento delle reclute poteva avvenire, oltre che direttamente sul campo di battaglia, nel corso dei conflitti politico-sociali che periodicamente travagliavano la vita cittadina, e attraverso la diffusa usanza dei giochi di guerra; le «battagliele», in specie, praticate in molte città italiane impiegando apposite armi di legno e con fitto lancio di pietre, assumevano talora l'andamento di vere e proprie esercitazioni tattiche sul terreno. Quando, verso la metà del Duecento, nele citta dell'Italia centrosettentrionale emergono le prime figure esplicite di uomini di guerra, fra le doti precipue loro attribuite vi e in pruno luogo l'abilità nell'ordinare le schiere, capacità che doeva quindi essersi sviluppata nei tempi precedenti in modo non
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diverso da quanto avveniva, qualche secolo dopo, per fanterie professionali valorose e agguerrite come gli Svizzeri e i Lanzichenecchi, formatesi di fatto sui campi di battaglia: essi si limitavano a «marciare ordinati fra i due uomini accanto e quello davanti», eseguivano un «per fila a destra o a sinistra per passare dalla lunga colonna di marcia alla formazione di combattimento», e sapevano poi compiere conversioni a destra e a sinistra. I cavalieri comunali, a loro volta, potevano passare, con semplicità anche maggiore, dalla colonna di marcia alla disposizione di battaglia per lo più su una sola riga. Nell'ambito di uno schieramento i rapporti tra fanti e cavalieri potevano variare: «Molti dei moderni - dice il Pulcher tractatus ordinano le schiere dei cavalieri a sé, senza fanteria, e quelle dei fanti a sé senza cavalleria; altri invece mescolano fanti e cavalieri stabilendo tuttavia un ordine opportuno» nella scelta del quale venivano evidentemente in luce la pratica e l'abilità personale di ciascun comandante. All'inizio del Trecento il frate predicatore Giordano da Pisa (1260-1310) paragona Dio e il mondo da lui governato con il «buono duca che ha a ordinare le schiere delle battaglie», riferendosi evidentemente a usi correnti ai suoi tempi, che sono poi quelli stessi del Pulcher tractatus. Il buon comandante - egli dice - «non farae solamente una ischiera, ma molte, e non metterà ogni uomo dinanzi, e a' più forti porrà in mano le 'nsegne, e' più deboli ordinerà di dietro, e per sé istanno i cavalieri, e per sé i pedoni, e per sé istanno i balestrieri, e per sé quegli colle lande; e così il buon duca, ch'é bene savio dell'oste, tutta l'oste ordina così, e chie della sua ischiera esce, si è bando il piede; non si dee nullo partire della sua ischiera». Gli statuti di Bologna prevedono, in caso di schieramento in campo contro i nemici, un ordinamento misto: «due vessilli di cavalieri precedano sempre il popolo (cioè la fanteria) e altri due vessilli siano posti sul suo tergo», disposizione nella quale si è voluto vedere il tipico schieramento degli eserciti comunali «lombardi»8.
4. A tu per tu con il nemico Eccoci dunque al momento cruciale, quando il nemico, intento a sua volta a ordinare le proprie schiere, è ormai visibile a bre-
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ve distanza e la tensione nervosa, nella probabilità di uno scontro imminente, tocca il massimo. Se era già difficile mantenere un ordine decente durante la marcia, ora le difficoltà evidentemente si moltiplicano, come si vede da alcuni statuti che contengono disposizioni riguardanti l'esercito ormai schierato sulla linea di combattimento. Ad Alessandria è normalmente vietato al podestà percuotere i cittadini «salvo durante le spedizioni militari o nei confronti di colui che esca di schiera o si allontani dal gonfalone quando siamo in campo contro i nemici». A Vicenza si proibisce a «qualunque cavaliere, berroviere (ossia cavaliere leggero) o fante» di uscire dai ranghi «quando siamo schierati accanto ai nemici». A Ferrara «dopo che i cavalieri saranno ordinati, nessuno deve separarsi dalla schiera in vista dei nemici»; a Mantova si minacciano punizioni a «ciascun cavaliere che si ritiri dalla battaglia» e a Tortona, infine, «nessuno deve allontanarsi dalla battaglia né abbandonare i suoi gonfaloni o le sue bandiere quando vi è combattimento». Ben impegnativo risulta poi il compito qui attribuito al «guardaschiera» se, come sembra evidente, esso doveva svolgersi in presenza del nemico: tale ufficiale ha infatti l'obbligo di stare sempre davanti alla schiera e «custodire e salvare tutti quelli che ne fanno parte tenendoli inquadrati»; per converso «ciascuno, tanto cavaliere quanto fante, deve stare in schiera a volontà del guardaschiera e obbedire ai suoi ordini senza ribellarsi». Particolarmente severe sono le disposizioni che riguardano gli uomini incaricati di portare le insegne, severità giustificata dalla capitale importanza che assumevano i segnali visivi nei momenti più delicati: «Se avverrà che la cavalleria di Mantova pervenga a battaglia, nessun gonfaloniere deve ritirarsi dal combattimento, ne volgere in fuga, né abbassare il vessillo», disposizioni riprese quasi alla lettera negli statuti di Modena. A Tortona, più compiut m n ^ f te, si stabilisce: «Prima che il combattimento con i nemici abbia inizio, ogni gonfaloniere e portabandiera deve afferrare il g ku ne. ° ^a bandiera nelle proprie mani tenendoli diritti e non abbassarli mai durante la battaglia». Ciascun alfiere è assistito da appositi consiglieri tenuti a indirizzarne convenientemente l'azione. Non si deve uscire di schiera - si precisa a Vicenza - per ggire verso le retrovie e neppure per andare «incontro al nemi», cioè, in sostanza, fuggire in avanti. Tale avvertimento vale innanzitutto per i cavalieri: ad essi è specificamente proibito di to-
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gliere il freno dalla bocca della cavalcatura o di scendere di sella «quando i vessilliferi sono a cavallo». I fanti non vengono esplicitamente menzionati sia perché considerati meno importanti, sia perché, in mancanza di mezzi altrettanto veloci, la fuga era per loro meno facile. Conviene aggiungere un testo che, pur riguardando la società di San Giorgio di Chieri (cioè un'organizzazione militare privata), è lecito ritenere che riprenda regole generalmente imposte ai fanti cittadini in guerra: nel 1259 i consoli della società devono far procedere in prima fila, davanti al gonfalone, i tiratori con archi e balestre tesi e frecce e quadrelli incoccati; segue un reparto di quattrocento uomini selezionati in base alla migliore qualità dell'armamento, dotati cioè di corazza di maglia o di lama d'acciaio e di copricapo metallico; viene poi il grosso del «popolo» tallonato da un drappello di venticinque degli uomini migliori i quali hanno il compito di «restringere» gli altri e di impedirne la fuga: «e se qualcuno fuggisse - si aggiunge - incorrerà nella pena di 50 lire, e i predetti 25 potranno impunemente percuotere tutti i fuggenti e imporre loro la pena affinché stiano fermi e tengano il volto e le armi rivolti verso i nemici e i ribelli della detta società». Benché non si distingua nettamente tra la fase della marcia e quella dello schieramento che precede l'eventuale scontro, si tratta di disposizioni che, come in nessun altro caso a noi noto, formano un piccolo corpus in sé ben definito e completo9. 4.1. Il bastone e la vergogna. L'uomo - e quindi anche il combattente - per sua natura «non è di ferro» perché possa sostenersi tanto a lungo, scriveva già nel Trecento Teodoro di Monferrato nel suo manuale: egli si preoccupava in verità soltanto della stanchezza fisica sostenendo la necessità che all'uomo impegnato per lungo tempo in battaglia spettassero opportuni momenti di riposo «poiché nessuno deve essere costretto oltre le sue possibilità». Una simile attenzione rivolta all'umanità del soldato è un fatto raro e fortemente anticipatore di fronte all'abituale tendenza di ogni tempo a considerare il combattente - come scrisse Charles Ardant Du Picq - «un'unità astratta nelle combinazioni del campo di battaglia» anziché un uomo reale di carne e ossa, corpo e anima. «Per quanto forte sia l'anima non può dominare il corpo al punto che non si verifichi una rivolta della carne e turbamento del-
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lo spirito di fronte alla distruzione». I conti vanno dunque fatti con quell'essere «nervoso, impressionabile, emozionato, turbato, distratto, sovreccitato, mobile, sfuggente a se stesso» che è il soldato in battaglia. L'esperienza prova che esso resiste sino a una certa soglia di terrore al di là della quale sopravviene la fuga, e solo la disciplina può avere il potere di «mantenere un po' più a lungo i nemici a faccia a faccia» prima che l'istinto di conservazione finisca per prevalere, e con esso la paura. La maggior parte degli uomini combatte solo perché costretta dalla disciplina, la quale ha appunto lo scopo di farne, loro malgrado, dei combattenti: se l'uomo teme normalmente la morte, la disciplina militare si propone perciò di bloccare l'istinto di conservazione e di impedire il meccanismo paura-fuga, per mezzo di un terrore più grande, sia minacciando pesanti castighi sia additando i fuggitivi alla pubblica vergogna. Avere a disposizione schiere numerose ma non debitamente ordinate - osservava ancora Teodoro di Monferrato - è meno utile che averne una sola in perfetto ordine, poiché «quando gli uomini sono schierati insieme a un compagno provano vergogna nell'abbandonarlo». Teodoro anticipava dunque di cinquecento anni certe osservazioni di Ardant Du Picq, ma la vergogna, egli aggiunge, da sola non basta e perciò bisogna punire i disertori, specialmente «quando abbandonano in battaglia il loro signore naturale»: «i vili e i codardi che fuggono dal campo e laidamente disertano, se possono essere presi, devono essere puniti sul campo come il diritto vuole e richiede». Non meno duro è il linguaggio degli statuti comunali i quali minacciano, per chi fugge in presenza del nemico, pene di esemplare gravità: le multe sono in genere di 100 lire per un cavaliere e di 50 per un fante; a Bologna e a Tortona, inoltre, il nome dei disertori doveva essere scritto, e le loro rattezze dipinte, nel palazzo comunale, e ciò comportava l'infamia e 1 esclusione perpetua da ogni pubblico ufficio; in altre città, come a Mantova, l'entità della punizione negli averi e nella persona era invece affidata all'arbitrio del podestà, e per frate Giordano da Pisa, come si è visto, «chie della sua ischiera esce si è bando il piede», veniva cioè punito con l'amputazione di un piede. -Rispetto a quelle dei semplici fanti e cavalieri, le pene pecuniarie sono in genere raddoppiate per i portatori di insegne e, in l^A r l m a n c a t o pagamento, è per loro prescritta la pena capitae. A Mantova e a Modena si veniva però senz'altro condannati a
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morte, cavalli e armi bruciati, eredi e discendenti non avrebbero mai più potuto ricoprire cariche pubbliche; e se il colpevole sfuggiva alla giustizia, erano previsti per lui il bando perpetuo e la confisca dei beni. La pena di morte per chi usciva di schiera veniva minacciata, nei primi decenni del Trecento, anche da Uguccione della Faggiola e da Cangrande della Scala10. Simili drastiche prescrizioni presupponevano evidentemente che il numero dei disertori fosse limitato; solo così, infatti, era possibile osservarne la condotta e rilevarne il nome documentando per scritto la loro colpa. I Gesta Federici in Lombardia registrano appunto nel maggio del 1155 che a Tortona, di fronte a un attacco pavese, «molti Milanesi fuggirono in chiesa, i cui nomi furono scritti a loro ignomia». Ecco dunque, probabilmente, la prova di un'usanza che dovette essere generalmente diffusa benché gli archivi non abbiano conservato alcun elenco del genere. La stessa fonte non teme di ammettere che cavalieri e fanti delle «porte» Ticinese e Vercellina cercarono allora di dissuadere i commilitoni delle altre due porte ivi impegnate dall'attaccare il nemico, ritenuto troppo forte, negando il loro appoggio: «Ma ciò dicevano - osserva il cronista - per timore delle ferite e della strage che avevano subito», cioè dopo e non prima di aver provato il trauma psicofisico della battaglia. Oltre che con la minaccia di morte, di gravi pene pecuniarie e della perpetua infamia, sembra inoltre evidente che l'esercito venisse tenuto in riga facendo ampio ricorso alle percosse: si è visto che a Parma come ad Alessandria il podestà e i suoi ufficiali potevano battere i cittadini che, negli eserciti e nelle cavalcate, riluttavano a schierarsi o tendevano a uscire dalla schiera. Giovanni da Viterbo nel suo Liber de regimine ammette senz'altro che gli ufficiali abbiano piena facoltà di «avvertire, punire e colpire» mentre il podestà stesso deve essere sempre presente davanti, dietro, ai fianchi dell'esercito schierato «ammonendo, animando e confortando», ma se del caso anche «spaventando, minacciando, percuotendo i disobbedienti e coloro che commettono mancanze». E si è visto come il grosso della compagnia di San Giorgio di Chieri veniva tenuto fermo e con «il volto e le armi rivolti verso i nemici». Oltre al podestà e ai suoi ufficiali (uomini, secondo Giovanni da Viterbo, «prudenti, provvidi e discreti») anche «distringitori»
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e «euardaschiera», per essere in grado di assolvere il loro compito erano verisimilmente muniti di bastone il quale diventava quindi'uno strumento di comando tutt'altro che metaforico. Gli statuti alessandrini del 1297 vietano, nel corso di eserciti e cavalcate di portare e tenere in mano bastone o bacchetta; non si dice di oiù ma si ha motivo di sospettare che la disposizione sia diretta contro certi cavalieri che si arrogavano funzioni e diritti di comando loro non spettanti. Oggetto delle imposizioni violente potevano essere tanto cavalieri quanto fanti, ma è verisimile credere che esse si rivolgessero in primo luogo alle reclute di fanteria non ancora abituate allo stress di uno schieramento di fronte al nemico: uomini armati di sola lancia, che per il combattimento si dovevano stringere a massa, «formazione tipica di una folla che, numerosa ma poco esercitata nelle armi, si trovi a dover affrontare in campo aperto schiere meno numerose, ma meglio armate e addestrate, di guerrieri di professione». Ci si può domandare a che cosa servisse in pratica mantenere inquadrati con tali mezzi uomini spaventati e inesperti: non va dimenticato che essi servivano comunque a «fare numero» contribuendo con la loro presenza ad accrescere agli occhi dei nemici la visibilità e quindi la temibilità dell'esercito che avevano di fronte. Procopio racconta che nel 537, al momento di affrontare i Goti fuori Roma, alcuni cittadini vollero prendere le armi e partecipare alla lotta con i Bizantini, ma Belisario non volle che si schierassero a battaglia con i regolari: si trattava infatti di operai senza alcuna esperienza di guerra e c'era ragione di temere che, alla prova dei fatti, s'impaurissero scompigliando tutto l'esercito. Essi costituirono perciò una falange propria al di là di porta San Pancrazio e Trastevere, e là restarono in attesa di ordini. I Goti, vedendoli da lontano, pensarono che si trattasse di soldati regolari e, non osando attaccarli per il loro numero, rimasero mattivi: importanti forze furono così sottratte ai combattimenti che intanto si andavano sviluppando in altre zone11. imporre, se necessario, alle reclute di stare in riga a colpi di baSt °AA C C ° n ^ m i n a c c i a di gravissime punizioni, al di là del valore «addestrativo» che ciò assumeva, poteva dunque avere un senso anche sul piano tattico, proprio in funzione della necessità che l'esercito aveva di «apparire», fatto talora sufficiente, come si è visto, per avere ragione del nemico.
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4.2. Cavalieri e fanti. I mezzi di coercizione adottati erano certamente utili per evitare che singoli individui, o tutt'al più piccoli reparti composti da persone facilmente identificabili, abbandonassero il loro posto nello schieramento, ma quei mezzi risultavano scarsamente efficaci di fronte a fughe in massa nelle quali era evidentemente molto difficile, o senz'altro impossibile, riconoscere e registrare i colpevoli, che diventavano così di fatto non punibili; e questo sembra fosse un avvenimento tutt'altro che raro. I primi a fuggire erano normalmente i cavalieri: il cavallo, mezzo eccellente per l'attacco, serve altrettanto bene per sottrarsi al pericolo con rapide e vergognose fughe. Il cavaliere, infantilmente fiero della sua armatura luccicante e dei suoi pennoncelli colorati, non era sempre propenso a rischiare la vita, così che nei momenti più delicati spesso lasciava il fante a morire da solo sul campo di battaglia. Nell'estate del 1118, quando l'esercito milanese viene sorpreso e battuto dai Comaschi davanti alla loro città, ecco che «abbandonati / alla morte, i pedoni in fuga vanno seguendo i cavalieri. Catturati / sono molti, ma furon più di mille gli uccisi». Nel 1155 sono i Pavesi ad essere sorpresi dai Milanesi e subito «i cavalieri, abbandonati i fanti, fuggirono». L'anno dopo a Palosco i cavalieri bergamaschi lasciarono sul campo i fanti: il numero dei morti e dei prigionieri fu anche là ingente. Nel maggio del 1167, nella seconda fase della battaglia di Tuscolo fra l'esercito del comune di Roma e Federico I, di fronte al contrattacco tedesco «i cavalieri romani - ricorda Ottone Morena - cominciarono a scappare abbandonando sul campo i fanti. Questi, quando videro i cavalieri lasciarli e fuggire per quanto potevano lontano da loro», volsero anch'essi le spalle e furono così in gran parte massacrati dai mercenari brabanzoni che militavano con l'imperatore. Il cronista non può fare a meno di paragonare quel poco onorevole comportamento con il valore mostrato invece, a suo tempo, dai Romani antichi, loro lontani antenati. La tensione accumulata nel corso di uno scontro può provocare riflessi di irragionevole panico anche dopo la sua conclusione. Nell'agosto del 1154 la battaglia tra Pavesi e Milanesi sul fiume Vernavola, a est di Pavia, durò per un intero giorno con morti, reriti e prigionieri da entrambe le parti, e fu interrotta solo dal sopravvenire della notte. I Milanesi tornarono al loro accampamen-
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to e là si verificò, dice Ottone Morena, «un miracolo divino su di essi e su tutto il loro esercito». Accade infatti che un Milanese ferito voleva farsi portare a Milano dai suoi compagni; questi smontarono la loro tenda, che era in testa all'accampamento verso Pavia e la gettarono a terra. Cavalieri e fanti, non sapendo che cosa in realtà stesse avvenendo, pensarono subito che i Pavesi avessero attaccato e che la tenda fosse stata spiantata per paura della loro irruzione. Immediatamente «tutti furono colpiti da grandissima paura e volsero in fuga portando quasi nulla se non le sole armi, ma molti anche senza armi, se ne andarono fuggendo sino a Milano», prima di rendersi conto che si trattava di un falso allarme. Va detto che talora la fuga poteva essere un ripiegamento temporaneo per tornare in seguito alla riscossa: nella prima fase della battaglia di Legnano gran parte dei migliori cavalieri lombardi fuggì fino a Milano, ma poi «riprese le forze, insieme con gli altri appena arrivati, ritornarono animosamente alla battaglia e, facendo impeto con i fanti contro l'esercito dell'imperatore, unanimemente lo volsero in fuga». Un'azione molto simile si svolse a Rudiano nel 1191 quando, di fronte a un attacco cremonese, i cavalieri bresciani in un primo momento «fuggirono turpemente abbandonando i loro concittadini che combattevano con valore», ma poi, presi dalla vergogna, si ripresentarono in campo assicurando la vittoria. Non tutti, in verità, ebbero il coraggio di ritornare, e il cantore dell'impresa riserva ad essi parole che ricordano da vicino le prescrizioni di certi statuti: «Quelli che ebbero paura di ritornare siano sempre disprezzati e ritenuti vili e abietti come tavernieri, non godano di alcuna carica, e siano sempre considerati uomini infami, vergognosi, tristi e vilissimi. O come potranno mai guardarti in faccia, o buona Brescia, coloro che rifiutarono di combattere per una così dolce patria, che abbandonarono se stessi e tutti i loro beni: ad essi non rimane che la vergogna». È possibile quindi che, come pare sia avvenuto in questo caso, la condanna, meno draconianamente, colpisse di fatto non tutti i fuggitivi ma soltanto coloro che, dopo la fuga, non ritornavano più a combattere. Ciò naturalmente non poteva valere per i portatori di insegna che, con la loro diserzione, compromettevano in ogni caso definitivamente l'esito di uno scontro. , ,, afrto a Legnano quanto vent'anni dopo a Rudiano, le sorti della battaglia furono salvate dalla tenace combattività dei fanti:
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nel primo caso, «opposti gli scudi e sporgendo le lance», essi resistettero contro la cavalleria nemica permettendo ai propri cavalieri di ricomporsi, e poi sferrarono insieme con essi il contrattacco decisivo; a Rudiano solo grazie all'impegno «dei buoni fanti» la lotta si risolse infine in un disastro per gli aggressori12. Ma la resistenza dei combattenti a piedi, spesso rimasti coraggiosamente sul campo a sostenere da soli la lotta, si mostra sempre insufficiente a conseguire infine la vittoria. A Palosco nel 1156 i fanti di Bergamo, disposti in formazione a cuneo, attaccano e mettono in fuga la fanteria bresciana subito soccorsa dai suoi cavalieri; i Bergamaschi allora, presi tra due fuochi, «non volendo volgere le terga - dice il poeta - si agglomerano in mezzo al campo e respingono parimenti gli attacchi dei fanti e dei cavalieri lottando in pochi contro tante migliaia», ma l'esito è scontato: un centinaio di essi vengono catturati e più del doppio rimangono morti sul terreno. Non molto diverso fu nel 1260 lo svolgimento della battaglia di Montaperti: i cavalieri tedeschi che combattevano con i Senesi ebbero la meglio al primo urto sulla cavalleria fiorentina e questa fuggì abbandonando i suoi fanti e il carroccio; «in parte essi si sbandarono, in parte si difesero eroicamente per qualche tempo, ma alla fine cedettero, e allora la cavalleria potè fare strage di quella massa di pedoni in fuga». Analogamente accadde nel giugno del 1275 a San Procolo, presso Faenza, dove l'esercito bolognese si scontrò con i fuorusciti, e con coloro che li sostenevano, al comando di Guido di Montefeltro: anche qui la cavalleria ebbe la peggio al primo urto e in gran parte fuggì. Delle numerose relazioni sull'avvenimento forse meglio di altre mette in evidenza il comportamento dei fanti bolognesi quella lasciata dal veneziano Marin Sanudo Torsello: «Il popolo, cioè li pedoni - egli scrive - non volsero fuggire ma, ristretti ad uno, aspettarono li nemici animosamente». Guido di Montefeltro si avvicinò con i suoi cavalieri e intimò loro la resa; essi non accettarono e risposero «non aver paura di lui, e che venissero avanti». I fanti in realtà credevano che la loro cavalleria si «fosse discostata per fare qualche stratagema, e non pensava che fosse fuggita. Il conte vedendo questa fanteria stretta ad uno, e disposta a combattere, dubitando che volendosi romper, o li costeria la morte di molti cavalieri, o forse ne avrebbe qualche vergogna, non volse far questa esperienza, ma per la più sicura mandò a Faenza a tor le
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balestre grosse da torno e da pesarola e con dette fece saettar in questa fanteria talmente che, cadendone molti, perché non si poteva fallir li colpi, la si divise, e slargò in qua e in là per schifar li colpi, e allora il conte fece investirli alla sua gente e così li ruppe e si resero in gran parte»13. Qui si mostra a un tempo la grande efficacia delle «balestre grosse» (armi da posizione solo eccezionalmente utilizzate sul campo di battaglia) e l'incapacità della fanteria comunale italiana di reagire dinamicamente da sola contro la cavalleria. Ma le sue innovative esperienze non andarono perdute poiché certo contribuirono allo sviluppo di altre fanterie europee: i Fiamminghi nel 1302 a Courtrai si mostrarono in grado di battere in campo aperto i cavalieri francesi reputati i migliori del mondo, e gli Svizzeri, sul finire dell'età medievale, restituirono definitivamente ai combattenti a piedi quella preminenza che già avevano avuto nell'antichità.
IV TEMPI DI GUERRA
1. Stagionalità e ciclo agrario 1.1. Guerre di primavera. Per quanto un buon guerriero dovesse, in linea di principio, essere disposto ad affrontare i disagi della temperatura e delle intemperie in qualunque stagione dell'anno, le necessità pratiche che presiedevano all'organizzazione di una campagna militare consigliavano di escludere, sinché possibile, ogni condizione estrema: la temperatura doveva consentire di vivere all'addiaccio o sotto le tende, era opportuno muoversi su strade sgombre da neve e da fango, era bene che gli animali da trasporto disponessero di foraggio fresco, che i mari e i fiumi fossero navigabili con sicurezza e che le giornate fossero sufficientemente lunghe, tutte condizioni che non si verificavano prima dell'avanzata primavera. Nel corso di un cinquantennio, a cavallo fra XII e XIII secolo, il cronista piacentino Giovanni Codagnello registra una settantina di spedizioni militari: di esse una sola ebbe inizio in febbraio, due in marzo e altrettante in aprile, ed ecco il numero spiccare un balzo nel mese di maggio nel quale ne presero il via ben tredici; tale numero rimane pressoché costante nei tre mesi successivi (dodici ebbero luogo in giugno, altre dodici in luglio, undici in agosto), diminuisce a otto in settembre e in ottobre per cadere poi di botto: una sola spedizione ha luogo in novembre e nessuna nei mesi di dicembre e di gennaio. Ma un conto è l'inizio e altro lo svolgimento effettivo di una campagna. In Toscana la guerra che contrappose Siena e Firenze ira 1229 e 1235 fu un classico conflitto comunale «a lunghe pau-
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se e a riprese annuali»; dei suoi quattordici episodi meglio documentati cinque furono condotti fra marzo e maggio, almeno sei si verificarono fra giugno e ottobre, ma non mancarono le azioni invernali. Tali periodi operativi non appaiono molto diversi da quelli osservabili a nord delle Alpi: le campagne dell'esercito carolingio, avviate di solito nella tarda primavera, si svolsero prevalentemente da agosto a ottobre, e per il basso Medioevo si è notata un'attività bellica di norma concentrata fra aprile e settembre, con un massimo in luglio e un minimo da dicembre a febbraio. Le stesse regole possono quindi ritenersi valide per buona parte dell'Europa occidentale pur considerando le ovvie variazioni dovute alla latitudine e agli usi locali, e le eccezioni che, come vedremo, inducono non solo a proseguire ma a intraprendere ex novo azioni militari anche in pieno inverno1. Almeno il 70 per cento delle imprese, di cui le fonti hanno conservato memoria, appare dunque concentrata da maggio ad agosto; si tratta naturalmente di dati indicativi poiché i cronisti si occupano in genere di aree ristrette e non hanno certo registrato tutti i conflitti in realtà avvenuti. In tale quadro la primavera risulta la stagione preferita per mobilitare un esercito e mettersi in campagna, e i cronisti si compiacciono spesso di sottolinearlo ripetendo, attraverso i secoli, i medesimi concetti e parole secondo uno schema divenuto presto anche un consolidato stereotipo letterario. Negli ultimi decenni del X secolo il francese Richero colloca l'impresa compiuta da re Lotario contro la città di Laon nel periodo in cui «si era usciti dai rigori dell'inverno e la temperatura si era fatta più dolce, la primavera sorrideva alla natura e faceva rinverdire i prati e i campi». Ottone di Frisinga, verso la metà del XII secolo, inquadra la partenza della seconda crociata nel momento in cui era «scomparsa l'austerità dei rigori invernali, mentre la benigna umidità della primavera faceva sbocciare dal suolo erbe e fiori, il verde dei campi sorrideva mostrando al mondo il suo volto lieto». Nel 1229 Simone di Monfort, a capo della crociata combattuta nella Francia meridionale contro gli eretici albigesi, riprese le operazioni «al sopravvenire della bella stagione, quando l'inverno perde la sua forza, il tempo ridiventa dolce e il calore rinasce»; e contro di lui, qualche anno dopo, il re d'Aragona ordina di provvedere carri e animali nel periodo in cui «si av-
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vicina la bella stagione e si troveranno campi e prati verdeggianti, alberi e vigne che si coprono a poco a poco di foglie»2. Il frequente prevalere della «guerra di primavera» a un certo punto si trasfigura letterariamente in «sogno di una vita più bella» perseguito, si noti bene, non già da una massa di diseredati, ma da un ristretto gruppo di persone, aristocratiche o no, appartenenti alle classi colte e benestanti, che di fatto già vivono una vita più bella di tutti gli altri. Simbolo di quell'aspirazione è una cavalcata di guerrieri dalle armi forbite, adorni di stemmi multicolori e accompagnati dallo sventolio delle bandiere, gaiamente incedenti tra prati in fiore e cinguettìi di uccelli risvegliati dal tepore primaverile. Essa palesemente si richiama a suggestioni ludiche di un passato assai remoto nel quale, sotto lo stimolo erotico della nuova stagione, i giovani maschi anelavano a rapire le donne del nemico. Testimonianza notissima di tale vagheggiamento è la canzone del trovatore Bertran de Born il quale dichiara appunto di provare grande piacere, «nel tempo gioioso della nuova stagione che fa spuntare foglie e fiori», ad ascoltare il gaio canto degli uccelli nel boschetto, a veder «alzare nei prati tende e padiglioni» e scorgere «allineati nei campi i cavalieri armati sui loro cavalli». Dopo l'iniziale e insistito accostamento della primavera con la guerra, egli prosegue tuttavia ancora a lungo nella contemplazione di scene belliche che non hanno più alcuna connessione con la stagione in cui avvengono, mostrando così un piacere per la guerra tout court del quale, volendo, si potrebbero ritrovare lontani antecedenti già nella cultura germanica tardo-antica. Un fenomeno complesso come il fatto bellico non può in ogni caso essere ridotto a un semplice gioco intellettualistico ed estetizzante, come se si trattasse di una festa che obbedisce a inconsci e atavici impulsi, o di un sogno lontano da ogni effettiva realtà; di tale tendenza - si è scritto con ragione - lo storico militare deve diffidare, così come deve prendere le distanze, più in generale, dalla tentazione di vedere le guerre medievali sotto una luce esclusivamente o prevalentemente ludica3. La primavera, infatti, non risveglia solo la guerra, ma segna in generale la ripresa della vita ali aperto; il luogo comune letterario che insiste sul ritorno del bel tempo può d'altronde essere applicato a ogni altra attività umana. Nel XII secolo il poeta del Carriaggio di Nìmes fa entrare in azio-
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ne il suo protagonista «in maggio, verso la novella stagione», quando «fogliano i boschi, rinverdiscono i prati, gli uccelli cantano in modo gentile e soave»; e un paio di secoli dopo ecco il solito cliché sotto la penna di Geoffrey Chaucer: «Quando aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di marzo», spuntano i fiori, spirano dolci zefiri e «cantano melodiosi gli uccelletti». Né in un caso né nell'altro è alle porte una guerra di primavera: Guglielmo, protagonista del Carriaggio, torna semplicemente da una fruttuosa partita di caccia, e nei Racconti di Canterbury la buona stagione risveglia il «desiderio di mettersi in pellegrinaggio e di andare per contrade forestiere alla ricerca di lontani santuari». La primavera, insieme con gli eserciti, muove i pellegrini, i mercanti diretti alle fiere, giudici e ufficiali avviati a rendere la giustizia itinerante e gli ecclesiastici chiamati ai loro sinodi. La partenza per la guerra è, del resto, anch'essa un viaggio: non a caso i documenti di età carolingia parlano di «iter exercitale» o di «iter hostile», espressione nella quale iter, «viaggio», tende ad assumere il pieno significato di «spedizione militare»; e lo stesso avviene per il verbo ambulare, «viaggiare a lunga distanza», che nel latino altomedievale indica spesso l'obbligo del servizio militare. Un viaggio speciale, certo, cui inevitabilmente si aggiungono necessità che una partenza normale non richiede. I condottieri operanti nell'Italia del Quattrocento, in vista di far uscire gli uomini dai quartieri invernali, avevano bisogno di un anticipo sui futuri contratti di ferma annuale per finanziare la rimessa a punto e il trasferimento delle loro compagnie: venne così in uso quella che fu detta la «prestanza di primavera». Ma non mancano altre ragioni più specifiche, anch'esse essenzialmente pratiche, che inducono ad avviare una campagna militare nella primavera inoltrata4. 1.2. Uerba di maggio. Si è già visto che nelle registrazioni di Giovanni Codagnello, tra i mesi indicati come inizio di spedizioni militari prevale nettamente maggio: si tratta di un primato del quale è facile trovare altre conferme. «Si era nel mese di maggio, favorevole alla guerra, e durante il quale i re sogliono mettersi in campagna», scrive sul finire dell'XI secolo Guglielmo di Puglia. In una pausa del conflitto che dal 1118 al 1127 oppose tra loro Como e Milano, ecco i contendenti decidere che esso «sarà ripreso
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nel futuro maggio»; l'anno dopo, di nuovo, i cittadini di Como attendono «la promessa della guerra che si farà a maggio». Non diversamente i loro avversari «fissano la data per il futuro maggio», e nella stretta finale cercano alleati disposti a intervenire «nella guerra indetta per il tempo di maggio». La seconda crociata prese il via da Ratisbona il 29 maggio 1147, e circa quarant'anni dopo, il 10 maggio 1189, sempre da Ratisbona, partì l'analoga spedizione capeggiata da Federico I. Nei primi giorni di maggio del 1218, «quando il tempo si mise al bello» riprendono sotto Tolosa le operazioni della crociata albigese5. Sin da quando, nel XVII secolo a.C, nel vicino Oriente fu introdotto negli eserciti l'impiego del cavallo, la difficoltà di portare al seguito sufficienti quantità di foraggio indusse a far coincidere il grosso delle operazioni militari con il periodo in cui vi era la possibilità di mantenere gli animali sul territorio; tale necessità condizionò da allora in poi tutte le spedizioni a lunga distanza basate sulla presenza di un'importante cavalleria, necessariamente legata da un lato alla produzione agricola e dall'altro alla necessità di muoversi su terreno che non fosse reso impraticabile dalle piogge. La stagione più favorevole per intraprendere una campagna venne quindi a coincidere con il principio dell'estate: quello doveva essere «il tempo in cui i re muovono di solito alla guerra» che vide - come dice la Bibbia - re Davide inviare «Gioab e i suoi servi e tutto Israele a devastare il paese dei figlioli di Ammon e ad aggredire Rabba». Almeno dall'età carolingia in poi tale passo biblico appare spesso riecheggiato negli autori mediolatini anche se, probabilmente, esso non viene sempre applicato alla stessa realtà: per YHistoria Silensis, che ci presenta il re delle Asturie Alfonso III (866910) muovere contro Toledo, «quei giorni in cui i re sogliono andare in guerra» si riferiscono, come allora era d'uso nella penisola iberica, al principio dell'estate. Non molto tempo prima Incmaro di Reims, rievocando nella Vita di san Remigio l'episodio del vaso di Soissons in cui re Clodoveo passa in rassegna l'esercito «nel Campo Marzio», spiega che esso così si chiamava dal dio Marte, ma che in seguito i Franchi, «quando i re sogliono procedere in guerra», stabilirono di chiamarlo campo di maggio. Nella seconda metà del XIII secolo, sotto la penna di Salimbene da Parma, troviamo la stessa espressione biblica, ormai indissolubilmente fu-
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sa con lo stereotipo letterario della guerra di primavera: «Il tempo in cui i re sogliono procedere alle guerre si chiama maggio, che è tempo tranquillo, giocondo e temperato, nel quale canta l'usignolo»; ma poi espressamente aggiunge, come dato scontato, «e l'erba è abbondante per i buoi e per i cavalli». Ecco una ragione, pratica quant'altre mai, che induce a scegliere proprio quel mese come il più adatto per dare inizio a una campagna di guerra6. La notazione è tanto più interessante in quanto oggetto di recenti discussioni sulla crescente importanza assunta dalla cavalleria in Occidente, soprattutto durante l'età carolingia, legandosi oppure no con l'adozione della staffa. Secondo alcuni, infatti, lo spostamento del «campo di marzo» (cioè del raduno annuale dell'esercito franco) al mese di maggio sarebbe avvenuto in seguito a una decisione presa nel 755 da Carlo Martello, in quanto il suo esercito, ormai prevalentemente costituito da cavalieri, necessitava del foraggio sufficiente a mantenerlo, non disponibile prima di quel mese. Tale ipotesi è però stata ribattuta notando che un «campo di maggio» risulta documentato sin dal 612, e soprattutto - fatto ben più significativo - che l'espressione «campus Martius» non allude affatto al mese di tale nome ma è un antico riferimento a Marte, il dio romano della guerra; essa prescinderebbe dunque dal tempo in cui il «campo» avviene perché si tratta di una indicazione di luogo, senza contare che dopo il 755 (anno in cui Carlo Martello avrebbe stabilito la costituzione del suo esercito di cavalieri), le campagne di guerra organizzate dai Franchi cominciano in genere molto presto e si prolungano talvolta sino al sopravvenire dell'inverno. Si è inoltre messo in rilievo che nel 596, e poi più volte nei tempi successivi, il raduno annuale dei Franchi non viene affatto indicato come «campo di Marte», ma con l'espressione «kalendas Martias» che allude senza alcun dubbio al mese di marzo. D'altra parte i dati archeologici attestano che Alamanni e Longobardi, pur attribuendo grande importanza ai cavalieri sin dalla metà del VII secolo, continuarono a radunare le loro assemblee il 1° marzo senza mostrare troppa preoccupazione per il foraggio necessario alle cavalcature. Presso i Longobardi, in specie, re Agilulfo convocò, è vero, l'esercito nel maggio del 591, ma Adaloaldo lo fece in luglio, Rotari nel novembre del 643 e Grimoaldo ancora in luglio; Liutprando, che regnò dal 712 al 744, riunì invece regolar-
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mente, quasi ogni anno, le assemblee ai primi di marzo, proprio come accadeva nei «campi di marzo» merovingi, uso che continuò sotto i suoi successori Rachi e Astolfo e quindi nel ducato di Benevento. L'esistenza di un esercito costituito prevalentemente da cavalieri non avrebbe dunque provocato né la necessità di distribuire terre, innescando così l'origine del vassallaggio (come si vuole sia avvenuto per i Franchi al tempo di Carlo Martello), né un definitivo spostamento delle assemblee al mese di maggio. Tale mancata «rivoluzione» è stata spiegata con l'esistenza in Italia di numerosi mercati cittadini che potevano garantire all'esercito la sussistenza senza gravosi aumenti di prezzi. Aggiungiamo che il toponimo «Campo Marzio» si è conservato anche in un certo numero di città italiane: in genere (come a Bergamo nel XII secolo) esso non risulta più in rapporto con l'organizzazione militare, ma il Campo Marzio di Verona rimase sino all'inizio del Trecento il luogo in cui si addestravano i balestrieri e, quando l'esercito comunale veniva mobilitato, ospitava buoi e altri animali. Nel 1194, poi, il comune di Verona, fondando il nuovo villaggio di Palù, ebbe cura di destinare una superficie di terreno a «Campo Marzio» con la funzione specifica di pascolo per i cavalli. Sarebbe certo arbitrario voler ricavare deduzioni generali da un indizio dopo tutto tardo e isolato, non si può però escludere che nel Veronese esso si collegasse a tradizioni risalenti al tempo in cui il nome di Campo Marzio era forse effettivamente connesso con la necessità di nutrire i cavalli dell'esercito. L'erba doveva necessariamente essere integrata da una adeguata razione di avena o di orzo se non si voleva che l'efficienza in combattimento ne fosse seriamente menomata: senza avena ricorda nel XII secolo Orderico Vitale - «nel clima occidentale il vigore dei cavalli si sostiene a stento»7, e si tratta di un'esigenza che non si risolve certo mediante il solo spostamento di data del1 assemblea da marzo a maggio. Alcuni testi poetici di età carolingia insistono nondimeno sulla connessione fra il mese di maggio e la guerra. Vandalberto di Prùm in un suo poemetto dedicato ai mesi dell'anno indica maggio come il mese in cui «la recluta scelta fa le sue prove negli accampamenti e nelle schiere assalendo orgoglioso nemico», un'attività guerriera che non trova alcun riscontro nei modelli classici cui l'autore abbondantemente attinge,
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e che costituisce pertanto un'innovazione riflettente la situazione dei suoi tempi. Anche per l'autore degli Officia duodecim mensium, maggio «crescendo con le erbe produce luttuose guerre»; non stupisce quindi che, nell'iconografia occidentale del XII e XIII secolo, questo mese sia frequentemente raffigurato da un cavaliere armato di lancia e scudo. Anche nei Carmina de mensibus di Bonvesin de la Riva, maggio con il suo fieno «pasce i cavalli», «attende alla milizia», «difende la patria con cavalli e armi», ed è impersonato da un cavaliere intento ad approntare le tende sul campo. Un'allusione alla disponibilità di erba è certamente da scorgere nel nome di Winnemanoth - da intendersi come «mese del pascolo» - che Carlo Magno stesso propose di dare al mese di maggio; una precisa connessione fra la necessità di foraggio e le spedizioni militari affiora inoltre negli Annali franchi almeno in corrispondenza del 798, anno in cui appunto «non si potè far uscire le truppe dagli accampamenti invernali a causa della scarsità di foraggio». Il fatto che questa e altre notizie simili riportate negli Annali siano calcate sulla Guerra gallica di Giulio Cesare non dovrebbe togliere loro validità documentaria dal momento che le leggi carolinge si preoccupano davvero, in più casi, di regolamentare la requisizione di foraggio da parte dell'esercito8. Fuori del mondo franco la connessione diretta della guerra con la disponibilità del pascolo per i cavalli appare esplicita in certe fonti arabe; nella prima metà del X secolo le grandi scorrerie verso la Cilicia bizantina si svolgono secondo un calendario fisso rigidamente stagionale: vi sono, è vero, le spedizioni dette «d'inverno» che possono avvenire in febbraio e durano al massimo tre settimane senza penetrare in profondità nel territorio nemico, ma l'incursione «di primavera» parte proprio l'I 1 maggio, «dopo che i cavalli sono stati messi all'erba in primavera e si sono ben nutriti», e dura un mese, periodo nel quale «nel paese dei Romani si trova pascolo abbondante». Viene in seguito la spedizione estiva che ha inizio l'I 1 luglio e si prolunga per due mesi. Può essere utile, infine, richiamare quanto scriveva nel 1641 Raimondo Montecuccoli nel suo Trattato della guerra non sospettabile di attingere a modelli carolingi: «Si conduce fuori l'esercito - egli dice - quando l'erbe sono fuori et i frumenti vicini a maturarsi, ch'è ordinariamente al principio di maggio, o più tardi,
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conforme alla qualità del paese dove si guerreggia, perché la cavalleria deve trovare in campagna di che pascersi, sendo difficile ch'ella possa essere intrattenuta da magazzini». Poco più avanti però Montecuccoli accenna appunto alla necessità di avere magazzini che forniscano orzo, segale, avena e fieno. Certo in ogni tempo una corretta organizzazione doveva innanzitutto tener conto, oltre che del numero complessivo degli animali da mantenere, anche delle loro qualità, abitudini e delle prestazioni che si intendeva ad essi richiedere. Mentre i cavalli allevati nelle stalle dell'Occidente esigevano cereali, quelli montati da popoli cavalieri delle steppe potevano essere nutriti di sola erba; di simili cavalcature si servirono gli Ungari nelle incursioni che, per oltre un cinquantennio, compirono in tutta l'Europa dagli ultimi anni del IX secolo in poi, distribuite appunto con una periodicità e una durata che risentivano da un lato dei tracciati stradali, grandi e piccoli, velocemente percorribili, e dall'altro di ritmi stagionali ben precisi. Ancora nel Trecento Filippo Villani notava che gli Ungheresi dei suoi tempi avevano cavalli il cui «nudrimento è l'erba, e fieno e strame con poca biada»9. 1.3. Mietiture e vendemmie «militari». Le fonti permettono di osservare che le campagne di guerra dell'età carolingia, di solito preparate da assemblee tenute nella tarda primavera, potevano svolgersi in ogni stagione dell'anno, ma di preferenza nel periodo che va da agosto a ottobre, cioè dopo il nuovo raccolto e prima che sopravvenisse l'inverno. Anche i condottieri italiani del basso Medioevo preferivano operare, oltre che in primavera, all'inizio dell'estate e in autunno, sia per la mitezza della temperatura sia perché, proprio in quei periodi dell'anno, potevano da un lato profittare dei raccolti e impedire, dall'altro, che se ne giovasse il nemico. Jean Froissart ci mostra Bertrand du Guesclin riprendere nel 1375 l'attività bellica non appena «la dolce stagione d'estate fu tornata ed è bello andare in guerra e alloggiare nei campi», dove , stef eotipo primaverile viene applicato all'estate. In alternativa al solito mese di maggio i Comaschi all'inizio del secolo XII usavano predisporre spedizioni militari «per il futuro agosto», e i loo avversari milanesi, in perfetto accordo, convocavano anch'essi e milizie per quella stessa data; l'abitudine di riprendere la lotta
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«subito dopo il raccolto» è del resto data come corrente nel mondo comunale. Se si prevedeva di assediare una fortezza, l'estate era senz'altro la stagione più adatta avendo però cura - consiglia Egidio Colonna - di porre il blocco prima del raccolto quando il nemico non ha ancora potuto rinnovare il suo vettovagliamento. Nel pieno dell'estate, poi, le scorte d'acqua degli assediati si esauriscono più velocemente senza essere reintegrate da piogge, i fossati difensivi rimangono secchi e le intemperie non molestano gli assediami acquartierati all'aperto. Non a caso Rainaldo di Dassel nel 1173 pose l'assedio ad Ancona «alla fine di maggio, quando le provviste fanno difetto»10. L'impostazione stagionale della guerra, dunque, e il ciclo dei lavori agricoli tendevano a interferire e a condizionarsi a vicenda in diversi modi. Durante i frequenti periodi di insicurezza che travagliarono in Italia l'intera età comunale, i cittadini in armi si impegnavano a proteggere i contadini durante i lavori agricoli più importanti dai quali città e contado traevano i mezzi indispensabili per la loro sussistenza. Nell'autunno del 1159 - racconta con una certa sorpresa il cronista regio di Colonia - un drappello dell'esercito tedesco impegnato allora nell'assedio di Crema, sorprese in territorio milanese agricoltori intenti all'aratura sotto la protezione di uomini armati, e nelle mani degli incursori rimase un distinto cavaliere elegantemente vestito ed equipaggiato. Nel corso delle guerre che funestarono l'Italia settentrionale intorno alla metà del XIII secolo - narra a sua volta Salimbene da Parma - «i cavalieri cittadini armati montavano la guardia tutto il giorno per consentire ai contadini di lavorare i campi». Nel giugno del 1281 Guido di Montefeltro «faceva uscire i cavalieri da Forlì e ogni giorno stavano di guardia presso San Bartolomeo così che uomini e donne potessero con sicurezza lavorare e raccogliere i frutti». Una protezione costante non fu più possibile assicurare quando in ciascuna città i conflitti divennero endemici. Nel 1329 - registra il Chronicon Parmense - «molti potenti della città, tanto intrinseci quanto extrinseci, per la loro potenza e malizia avevano a disposizione una moltitudine di lavoratori e facevano mietere le biade e falciare i fieni contro la volontà dei proprietari, e lo stesso avveniva per la legna e per gli utensili, senza alcun timore di Dio, e chi era impotente poteva piangere ma non aveva nessun altro conforto». La fazione esterna dei da Correggio agiva
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nella stessa violenta maniera: gli uomini abitanti oltre il corso dell'Enza erano infatti «costretti a trasportare la loro biada e le loro cose a Castelnuovo e negli altri domini dei signori di Correggio, e così, volenti o nolenti, tutte le biade affluivano in quelle terre». Non diversamente avveniva per il raccolto delle uve. Sempre nel 1329 si ebbe in tutto il distretto di Parma grande abbondanza di uve bianche e nere; il tempo era buono ma la vendemmia fu affrettata e piena di affanni a causa della guerra in atto: ogni giorno, infatti, «fanti e cavalieri fuorusciti correvano depredando persone e animali alla maniera dei malandrini»11. Già in età carolingia gli Officia duodecim mensium affidavano a settembre il compito di «difendere le uve dai nemici»: si poteva, è vero, anche trattare di nemici in parte simbolici come le intemperie, gli uccelli o i ladruncoli vagabondi, ma certo in tempo di guerra il raccolto dell'uva diveniva un obiettivo delle offese e la sua protezione fu in ogni tempo una preoccupazione costante. A Ripa d'Adda, presso Bergamo, la difesa venne affidata in età viscontea a un apposito drappello di balestrieri a cavallo, che però non riuscì nel 1398 a evitare i guasti di un'incursione contro le vigne operata dai Guelfi. Nel 1423 un importante contingente di cavalieri viscontei scortò «molte carrette e uomeni» che da Forlì andavano a vendemmiare presso Forlimpopoli, impresa che sfociò poi in uno scontro di grandi proporzioni con le truppe fiorentine. Nel giugno del 1309 nelle campagne torinesi fu necessario proteggere a mano armata anche il taglio del fieno. Non a caso, dunque, Teodoro Paleologo, nei primi decenni del Trecento, poneva nel suo trattato come «primo modo di condurre la guerra» proprio quello di «spaventare e impedire i lavori catturando gli uomini che coltivano i campi» così che «paesi e città stano più poveri e bisognosi» poiché senza lavorare la terra - egli continua - «l'umana natura non può vivere a lungo in questo mondo in nessuna maniera»12. D'altronde i momenti giudicati militarmente più propizi, e quindi la mobilitazione degli uomini nell'esercito, venivano spesso a coincidere con i lavori più importanti e impegnativi dell'annata agraria creando così gravi interferenze con la condotta delle operazioni. Nel 1016 il vescovo di Vercelli Leone, longa manus in Italia dell'imperatore Enrico II, confessava di aver assediato per quindici giorni il castello di Orba, nel Piemonte sudorientale, sen-
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za poterlo prendere perché gli uomini ai suoi ordini «minacciavano continuamente di andarsene a causa della vendemmia». Nel settembre del 1252 il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, legato pontificio in Lombardia, chiedeva al papa di assoldare nuove milizie dal momento che i Parmigiani «per la vendemmia e la seminagione imminenti» non potevano dargli il sostegno convenuto. Per ovviare a tali inconvenienti uno statuto fiorentino disponeva che, al posto degli uomini chiamati sotto le armi, i lavori dei campi e delle vigne richiesti dalla stagione fossero eseguiti da quelli rimasti a casa, della stessa parrocchia o dello stesso villaggio. E la coincidenza con i lavori agricoli sarà uno dei motivi che, in età comunale, indurrà ad affiancare agli uomini obbligati al servizio militare un certo numero di mercenari destinati, in prosieguo di tempo, a divenire sempre più numerosi sino a sostituirli integralmente. Ogni anno «specialmente al tempo delle messi e delle vendemmie» - scriveva il cronista milanese Galvano Fiamma intorno al 1340 - «la gente del popolo era costretta ad abbandonare i propri interessi, con molto fastidio e spesa, per essere impegnata nell'assedio di città ricevendone innumerevoli danni»; egli considerava perciò da ascrivere a onore dei Visconti, signori della città, l'aver stabilito «che il popolo non partecipi più alle guerre». Se esse sottraevano braccia all'agricoltura, le truppe mobilitate dovevano talora fare i conti direttamente con il raccolto costringendo di fatto i soldati a trasformarsi provvisoriamente in agricoltori. Nel giugno del 1053, poco prima della battaglia di Civitate - scrive Guglielmo di Puglia - «si avvicinava il tempo delle messi, ma prima che i contadini le avessero raccolte, quando erano ancora verdi» già i Normanni, mancando di pane, «le riscaldavano sul fuoco e le mangiavano tostate». Orderico Vitale ricorda più di una mietitura «militare» resasi necessaria per vettovagliare urgentemente eserciti in difficoltà. Nel 1098 i Normanni che assediavano Le Mans furono nell'impossibilità di nutrire uomini e cavalli poiché «correva il tempo fra il vecchio e il nuovo raccolto e il prezzo di uno staio di avena era salito sino a 10 soldi; il re ordinò quindi ai suoi uomini di condurre le messi nei granai e di tornare all'assedio solo dopo la mietitura». Non molti anni dopo, nella necessità di soccorrere il presidio di Tinchebray, il conte Guglielmo di Mortain non esitò a far ta-
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aliare le messi ancora verdi per pascere i suoi cavalli. Nell'agosto 1119 sempre in Normandia, Enrico d'Inghilterra provvide a far mietere dai foraggiatoti le messi intorno a Etrepagny e a trasportarle al sicuro sul dorso dei cavalli da guerra. Non diversamente, nel giugno del 1275 gli Astigiani «raccolte le messi dei nemici» le portano a Fossano temperando cosi la fame dei suoi abitanti. In difetto di un'efficiente organizzazione dei rifornimenti, e specialmente quando si operava in territorio nemico nei mesi cruciali fra un raccolto e l'altro, situazioni simili dovettero certo essere consuete in tutti i teatri di operazioni dell'Europa occidentale: si trattava, dopotutto, di sfruttare a proprio vantaggio beni destinati comunque alla distruzione dal momento che, in ogni caso, era opportuno sottrarne l'uso al nemico. Il condottiero Donato del Conte guidò nel 1476 un colpo di mano sforzesco contro le terre piemontesi dell'abate di Fruttuaria che portò alla facile conquista del centro murato di Montanaro; il 21 giugno egli scriveva quindi al duca Galeazzo Sforza: «et perché intendo che gli è poca vittuaglia de la vecchia, retenirò homini ad vivere con noi et farò che raccoglierano li grani che sono per le campagne e tutti redurrano in la terra, ad ciò habiamo da viverli per parecchi dì». Poco dopo era nondimeno costretto a chiedere l'invio di provviste «perché ad questi tempi del grano li soldati non se possono tenere in campo che ogni dì non vadano ad battere»: le messi raccolte dagli abitanti venivano quindi trebbiate dai soldati stessi i quali non mancavano peraltro di appropriarsene per loro personale tornaconto. Analogo interessamento avveniva per il raccolto dell'uva che abbiamo già visto oggetto di particolari cure. Nell'autunno del 1423, mentre Braccio da Montone assediava l'Aquila, l'uva venne a maturazione e i cittadini disperati «chiamavanu el Patre, el Fillio, el Spirtu Santu / dicenno: «Dio, non ci abannonare!: / Tolto li ha el grano e tolleli el vino». Ma le invocazioni furono inutili: Braccio ordinò senz'altro ai suoi di procedere alla vendemmia e raccomandò: «Faite che dello vino repunate, / onneunu se fornisca prestamente, / sci che .nne agiate de vernu e de estate». I fieri soldati bracceschi, molti dei quali dovevano provenire dal mondo rurale, furono allora costretti a tornare - forse senza troppo entusiasmo - alle loro passate esperienze per una vendemmia che aveva assunto la stessa importanza di una vera e propria operazione di guerra.
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Non sempre gli eserciti erano nella necessità di dover per forza sfruttare direttamente le risorse agricole del paese in cui stazionavano, e ciò poteva suggerire lucrose combinazioni. Nel 1388 il conte di Armagnac e il conte d'Albret con cinquecento uomini d'arme - narra Froissart - giunsero davanti a Pamier all'inizio di agosto quando «si devono raccogliere i beni nei campi e le uve maturano», in quell'anno gli uni e le altre particolarmente abbondanti. I venturieri, dopo aver dato una prima dimostrazione di forza, mandarono a dire ai cittadini di Pamier che se non erano disposti a riscattare i loro grani e le loro vigne tutto sarebbe stato bruciato e distrutto. Gli abitanti offrirono 6.000 franchi, ma chiesero quindici giorni di tempo durante i quali poterono avvertire il conte di Foix, loro signore, il quale si precipitò con numerose truppe in soccorso dei suoi sudditi. I nemici non osarono raccogliere la sfida e si allontanarono, così che la mietitura e la vendemmia poterono avvenire regolarmente; ma ai cittadini di Pamier non fu risparmiata la sovrattassa di 6.000 franchi che andò alle genti del conte di Foix13. 1.4. Uestate molesta. Una gran parte dell'attività militare iniziata in primavera aveva la sua naturale prosecuzione nell'estate, una stagione buona certo per definizione, ma non necessariamente sempre propizia. La calura dell'estate italiana, in particolare, veniva facilmente sentita come opprimente e nociva dai combattenti provenienti dalle regioni a nord delle Alpi. I Franchi che assalirono il regno longobardo nell'estate del 590, raggiunta la pianura padana - narra Paolo Diacono - «cominciarono ad ammalarsi gravemente di dissenteria per colpa del clima inconsueto, e di questa malattia molti morirono». L'esercito di Lotario II che nell'866 intervenne nell'Italia meridionale fu decimato dall'«inconsueto calore e dall'intemperanza dell'aria» che provocarono anche allora una grave forma di dissenteria. Qualche secolo dopo, nel giugno del 1037, Corrado II dovette interrompere le operazioni contro i Milanesi, disperdere i suoi uomini per il paese e rifugiarsi «in luoghi montuosi in cerca di refrigerio a causa del grande caldo di quell'estate»; l'imperatore non ebbe poi difficoltà a intervenire contro Parma in pieno dicembre, ma nel luglio successivo, sempre per il troppo caldo, l'esercito tedesco fu nuovamente colpito da malattie contagiose. Si poteva
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trattare di estati particolarmente afose e malsane e non di fenomeni abituali. Del resto anche gli Italiani stessi, per quanto abituati al clima mediterraneo, devono talora fare i conti con il caldo eccessivo, con gli effetti della siccità prolungata e con infestazioni di parassiti che non mancano di turbare l'ordinato svolgimento delle operazioni militari. Nel giugno 1114 i Pisani in missione alle Baleari attaccano le fortificazioni di Ibiza non appena «il giorno risorge», ma con il passare delle ore «il sole rovente li costringe, arsi dal caldo, a ritirarsi nei loro accampamenti»: la stagione estiva e l'ambiente meridionale impongono qui un'inevitabile pausa meridiana. Nel 1198 i Piacentini non poterono intervenire, come avrebbero voluto, contro Borgo San Donnino a causa della grave siccità: durante l'intera estate non si vide una goccia d'acqua tanto che tutti i pozzi disseccarono. Nell'agosto del 1216 molti Cremonesi, sorpresi dal nemico durante una scorreria in territorio piacentino, rimasero sul terreno, non tanto per i colpi ricevuti quanto «per il caldo e per l'eccessiva fatica». Nel settembre del 1243, durante uno scontro sul Mincio, molti cavalli morirono soffocati dal calore, e la spedizione compiuta dai Milanesi a Lodi nel luglio del 1250 passò addirittura alla storia come «l'esercito della Caldana» poiché durante il ritorno, sia per la polvere, sia per la calura, più di duecento fanti vi lasciarono la vita; e morti per il caldo vi furono anche nel giugno del 1266 tra i Bresciani e i Mantovani che assediavano il castello cremonese di Covo14. Insieme con la polvere, la sete e al pericolo di insolazione, un elemento consueto della guerra estiva era certamente la presenza di insetti fastidiosi attratti, oltre che dall'assembramento di uomini, dal cospicuo numero di animali che di necessità li accompagnava. Nell'866 l'esercito di Lotario II intervenuto in Italia meridionale, già colpito, come si è visto, da dissenteria, fu anche tormentato da certi ragni velenosi del cui morso molti soldati morirono. L'assedio posto a Brescia da Federico II nell'estate del 1238 subì le conseguenze di un'epidemia provocata - secondo quanto tramanda un cronista cremonese - dall'immenso numero di mosche: a malapena «si riusciva a mangiare senza ingoiarne o insieme al cibo o perché volavano direttamente in bocca», e «la sommità dei padiglioni e delle altre tende sembrava tinta del nero colore della notte per la quantità di insetti che vi stavano posati».
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Se è puerile voler giustificare l'insuccesso dell'impresa con quell'eccezionale presenza di parassiti, essa potrebbe nondimeno aver contribuito a invalidare i molti cavalli e buoi lasciati perciò sul posto quando l'assedio dovette essere abbandonato. Secondo Salimbene da Parma, del resto, anche i Bolognesi, impegnati nel 1268 a Primaro contro Venezia, furono decimati innanzitutto «a causa dell'intemperanza dell'aria marina» alla quale non erano abituati, e poi «a causa del gran numero di zanzare, pulci, mosche e tafani» che infestavano quella zona palustre. Di fronte a tali situazioni acquista importanza l'eccezione opposta: durante la campagna avviata dai Piacentini sul territorio cremonese nel luglio del 1217 si segnalò come fatto prodigioso e degno di ricordo che non si vedesse «nessuna mosca, tafano né zanzara». Caldo e mosche tormentarono anche i Francesi di Filippo l'Ardito nel corso della sua catastrofica spedizione in Catalogna. Dall'inizio dell'impresa, verso la fine di aprile del 1285, il conte di Fiandra fece ben presente che la stagione dei calori si avvicinava e che era necessario prevenirla, ma l'esercito giunse di fronte a Girona soltanto il 28 giugno e, durante l'assedio, nei due mesi e mezzo che seguirono, l'eccesso di calore mietè centinaia di vittime fra gli assedianti abituati a climi più temperati; come se non bastasse, il campo venne poi infestato da una nube di velenose mosche multicolori di specie sconosciuta e di dimensioni mostruose. La loro puntura, o anche il semplice contatto, provocava la morte di uomini e cavalli. Anche là esse si infilavano nelle narici e in bocca e niente riusciva a staccarle: morirono così migliaia di cavalcature e di altri animali, e dalle loro carogne si sprigionarono ben presto germi pestilenziali che aumentarono le vittime. I cronisti aragonesi pretendono che i micidiali insetti fossero usciti dalla tomba di san Narciso profanata dai Francesi, a danno dei quali si sarebbe così ripetuta una delle piaghe d'Egitto. Fenomeni analoghi si manifestarono nel 1209 a Carcassonne assediata durante la crociata antialbigese: la sua resistenza dovette cessare «poiché il calore era grande e si era nel forte dell'estate»; la città - ricorda Guglielmo di Tudela nella sua Canzone - rimasta priva di acqua, era ingombra di bestiame ivi raccolto da tutto il territorio, le alte grida innalzate dalle donne e dai bambini di cui erano piene le case, e nugoli di mosche che tormentavano tutti erano motivo di insopportabile sofferenza. E quello di Carcas-
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sonne non fu che uno dei numerosi casi simili verificatisi in quella torrida estate. Gli inconvenienti estivi non erano peraltro limitati alle zone mediterranee. Sul finire dell'XI secolo in Normandia - segnala in più casi Orderico Vitale - l'eccezionale siccità estiva annullò la capacità di resistenza di castelli e città rendendoli inaspettatamente vulnerabili agli aggressori; così accadde nel giugno del 1090 al castello di Brionne che in altre occasioni aveva resistito per anni: non appena la sua copertura fu colpita da proiettili incendiari arse immediatamente costringendo il presidio ad arrendersi dopo un solo giorno di assedio. La stessa sorte toccò l'anno dopo al monastero fortificato di Santa Maria di Ivry attaccato «sotto gli ardori estivi intomo a Pentecoste»; nel giugno del 1100, poi, per lo stesso motivo, anche la città di Le Mans fu rapidamente ridotta in cenere. Non mancano, nemmeno in Inghilterra, le invasioni di insetti: durante l'assedio posto a Rochester nel 1088 innumerevoli mosche nate dai rifiuti di uomini e di cavalli, sollecitate dal calore estivo e dal fiato degli uomini rinchiusi in uno spazio ristretto, si rivolsero «per disegno divino» contro i ribelli assediati dal re: esse penetravano negli occhi e nelle narici, e venivano orribilmente deglutite con il cibo e con le bevande così che, giorno e notte, era impossibile per loro assumere nutrimento a meno che non provvedessero a proteggersi vicendevolmente mediante flabelli, e in tali condizioni furono ben presto costretti alla resa. I disagi di una guerra estiva erano vivamente sentiti anche nella Francia centrale. La corporatura pesante e massiccia di re Luigi VI (non a caso detto il Grosso) avrebbe sconsigliato a chiunque altro - dice il suo biografo - di salire a cavallo; nel 1126 egli volle nondimeno partecipare alla campagna contro il ribelle conte di Alvernia, per quanto costretto, nei passaggi difficili e nell'attraversamento delle paludi, ad affidarsi alle robuste braccia del suo seguito. Preso dall'entusiasmo egli «sopportava i calori estivi di giugno e di agosto, che facevano orrore anche ai giovani, da lui derisi per la loro mancanza di sopportazione». Il suo successore Filippo Augusto mostra per il caldo un'insofferenza ben maggiore. Neil' estate del 1188 egli doveva incontrarsi con il re d'Inghilterra per parlare di pace, ma fu costretto ad aspettare in aperta campagna «sotto l'ardore di un sole che era difficile sopportare», men-
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tre il suo antagonista se ne stava presso Gisors all'ombra densissima di un olmo godendosi, insieme con quella confortevole frescura, anche una piacevole vista sul paesaggio circostante. Filippo, infastidito dal sole, oltre che dalla durata e dall'inconcludenza delle trattative, perse la pazienza e mosse verso gli Inglesi con le armi alla mano, li costrinse alla fuga e per ripicca fece abbattere il loro grande olmo frondoso. Più a nord, nel territorio belga, una campagna condotta dalle truppe di Liegi nell'agosto del 1367 venne registrata nelle cronache come la «calda cavalcata»; si ha poi circostanziata notizia che il 26 giugno 1464 numerosi soldati liegesi, colpiti da insolazione mentre discendevano la Mosa in battello, dovettero abbandonare la spedizione cui partecipavano. Dalla penisola italica all'Inghilterra, a nord e a sud delle Alpi e dei Pirenei, l'estate poteva dunque riservare drammatiche sorprese a tutti coloro che erano impegnati nell'attività militare. La calura era certo più sopportabile al di sopra di una certa altitudine: le truppe del re di Francia, che nell'estate del 1390 bloccarono il re dei razziatori Aymerigot Marchès nella rocca di Vendeix, in Alvernia, a più di mille metri di altitudine, trovarono, secondo Froissart, «un tempo bello e secco e l'aria calma e calda, come è al mese di agosto», così che gli assediami «si tenevano volentieri sotto le foglie e i rami quando erano verdi o tagliati di fresco»15. Il disagio dell'uomo di guerra era aumentato durante la stagione estiva dalla necessità di portare la corazza che nell'età medievale, non meno che nell'antichità greca, costituiva un problema molto serio sia per il peso sia per la mancanza di ventilazione: «le piastre di metallo compatte e senza aperture, non proteggevano né dal caldo né dal freddo» e d'estate, in specie, gli abiti portati sotto la corazza «si inzuppavano rapidamente di sudore rendendola insopportabile». Il conte Roberto che nell'estate dell'867, nella Francia nordoccidentale, assediava la chiesa di Brissarte occupata dai predoni normanni, «mentre già calava il sole all'orizzonte, oppresso dall'eccessivo caldo, depose l'elmo e la corazza per rinfrescarsi un poco al vento»; i pirati proprio allora tentarono una sortita e il conte, tornato incautamente a combattere senza alcuna protezione, cadde ucciso proprio all'ingresso della chiesa. Non molto diversa fu la sorte toccata nel giugno del 999 al principe bretone Conan: pur essendo incalzato dal conte d'Angiò, volle ap-
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profittare di un momento di pausa per «deporre le armi e per rinfrescare all'aria il suo corpo accaldato», ma, proprio mentre era indifeso, un avversario lo sorprese e lo trapassò con la spada. Quale terribile nemico fosse la calura per uomini costretti a indossare la corazza sotto il sole estivo lo si rileva anche da un episodio avvenuto durante la battaglia di San Procolo, combattuta presso Faenza il 13 luglio 1275: in quell'occasione - scrisse Marin Sanudo Torsello - «molti crepporno sotto l'armi poiché era il mese di luio, dal gran caldo, e molti si spogliarono l'armi volendo più tosto star scoperti ed esporsi a colpi de nemici che patir l'ardore che pativano». Si capisce così anche meglio l'ammirazione professata nel XII secolo da Niceforo Gregora per gli uomini della flotta veneziana i quali, insieme con altre qualità, mostravano la loro disciplina rimanendo, se necessario, impassibili sotto il sole. Il progresso metallurgico consentì, nel corso del Quattrocento, di apportare importanti perfezionamenti all'armatura aumentando sia la sua capacità protettiva sia la libertà dei movimenti, ma non si ottenne mai una soddisfacente aerazione del corpo. La necessità di rivestire la corazza continuò perciò a provocare sino alla fine, e non soltanto in Italia, gravi difficoltà durante la stagione estiva. Nel 1391 scese in Italia un buon nerbo di venturieri francesi agli ordini del conte di Armagnac, convinti di poter facilmente approfittare dei «Lombardi» ritenuti «di loro natura ricchi e codardi». I Francesi furono intercettati dalle milizie viscontee presso Alessandria in una torrida giornata di luglio e ne seguì un duro combattimento. «Era il giorno di san Giacomo e san Cristoforo - scrive Froissart - e discendeva dal cielo un calore così grande che propriamente sembrava a coloro che vestivano le armature di essere in un forno tanto l'aria era calda e senza vento». «La polvere e il fumo che saliva da terra e gli stessi respiri molestavano grandemente i combattenti, ma più che i loro avversari ne risentivano gli uomini del conte di Armagnac», i quali forse anche per questo, rimasero alla fine clamorosamente sbaragliati16. 1.5. Il crudo inverno. La guerra è sempre limitata, non tanto per scelta dell'uomo quanto perché così è stabilito dalla natura, e a limitarla sono innanzitutto i rigori invernali anche se non esiste mai, in realtà, una data astrattamente stabilita per la cessazione del1 attività militare. In tempi normali essa poteva essere definita di
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fatto dall'abbassarsi della temperatura al di sotto di un certo limite: nel 1215 i Cremonesi avevano allestito un ponte sul fiume Oglio per agevolare i loro interventi nel contiguo territorio dell'alleata Brescia; il 7 ottobre i consoli delle due città convennero che «se in quest'inverno verrà un tale freddo per il quale le cavalcate dovranno cessare e non si faranno più», il ponte sia distrutto. Il tempo era comunque poco propizio per la condotta delle operazioni sin dall'autunno avanzato, e particolarmente vulnerabili erano i combattenti a piedi tanto che a Liegi si evitava talora di mobilitare i fanti cittadini già dalla metà di settembre giudicando inopportuno «andare a piedi in guerra nel tempo invernale». Nel febbraio del 1236, infatti, il ghiaccio impedì ai fanti di manovrare e li costrinse ad abbandonare la lotta. Il freddo e la pioggia potevano però mettere fuori combattimento anche i cavalieri meglio equipaggiati, costretti in più casi a venire a patti con un nemico che consideravano già battuto. Difficoltà particolari si ponevano, in specie, alla conduzione di un assedio invernale. Nel 1211, durante la crociata contro gli Albigesi, si volle assediare Saint-Marcel proprio il giorno dell'Epifania nel più forte dell'inverno, ma - commenta il poeta - «fu una grande follia perché non poterono combinare niente» e forse proprio per questo, nell'inverno successivo, i belligeranti decisero di rimanere in riposo. Nel 1217-18 i crociati si ostinarono di nuovo a tenere assediata Tolosa durante la stagione fredda: «L'inverno è cocente, duro, glaciale, oscuro», fa dire l'autore della Canzone a uno di loro che immagina gli abitanti della città al sicuro entro le mura, nei letti con le loro donne, mentre «noi - aggiunge - rischiamo le nostre persone e i nostri cavalli». All'alba del giorno successivo viene tentato un colpo di mano; i difensori lo respingono e molti uomini e cavalli rimangono sommersi nell'acqua e sotto il ghiaccio del fossato. Parimenti i cavalieri francesi che tentarono di porre l'assedio a Cherbourg nell'inverno 1378-79, di fronte al freddo terribile, allo sprofondare dei cavalli e alla scarsità di viveri conclusero che «non era né la stagione né il tempo adatto per porre assedi» e senz'altro rinunciarono all'impresa. Ben a ragione dunque Filippo di Clève nel suo Tratte du mestier de la guerre sconsiglia vivamente, ormai all'inizio del Cinquecento, di intraprendere assedi e di mantenere truppe in campo nei mesi invernali. Gli uomini - egli spiega - e specialmente i
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fanti non sufficientemente equipaggiati, ben difficilmente sono in grado di resistere ai turni di guardia loro richiesti; essi tendono perciò ad ammutinarsi chiedendo prima il raddoppio della paga e poi di svernare al riparo. Ma anche i gentiluomini, pur meglio vestiti, mormorano fortemente «per il tempo freddo e pieno di pioggia e per altre intemperie, tanto per se stessi quanto per i loro cavalli, molti dei quali si rovinano». È meglio dunque togliere senz'altro l'assedio e ritirare l'esercito nelle guarnigioni invernali. Solo se in campo è presente il principe in persona si troverà chi, per amore o per paura, è disposto a rimanere: i nobili, in specie, potranno farlo per salvaguardare l'onore. Si tratterà però sempre di impresa sconsigliabile poiché «tutte le cose sono buone nella loro stagione e fuori di essa rischiano di finire male». L'opinione del duca di Clève trova riscontro nell'opera del suo contemporaneo Machiavelli il quale neWArte della guerra fa dire a Fabrizio Colonna che «non è cosa più imprudente o più pericolosa a uno capitano, che fare la guerra il verno», soprattutto perché il freddo e la pioggia costringono a suddividere le forze in alloggi separati impedendo così «gli ordini, le discipline e la virtù» possibili solo in un esercito unito; vanno dunque imitati i Romani antichi i quali non a caso «fuggivano non altrimenti le vernate, che l'alpi aspre e i luoghi difficili e qualunque altra cosa gli impedisse a potere mostrare l'arte e la virtù loro». Ancora qualche secolo dopo gli dava ragione, riprendendo talora alla lettera le sue parole, un altro sperimentato comandante di eserciti quale fu Raimondo Montecuccoli: «Di verno tempo non si possono mantenere gli ordini - egli scrive - sì che tutta la fatica che s'è messa in disciplinar bene un essercito riesce frustratoria; l'armata sta sempre in pericolo e si consuma senza poter fare gran danno al nemico perché assedi d'importanza non si possono intraprendere, non potendosi travagliar in terra et essendo suggetto a molte altre incommodità». Tutto ciò vale, s'intende, a meno che «una forte necessità costringa al contrario». Un comandante può comunque trovarsi, al di la di ogni opportunità stagionale, a condurre il suo esercito per luoghi malagevoli e per tempo inclemente; egli dovrà allora scendere da cavallo e «marciare a piedi per la neve e per i ghiacci» che romperà egli stesso con la scure per aprirsi il cammino dando cosi esempio ai suoi soldati come, secondo Svetonio, in una famo-
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sa occasione, aveva fatto Giulio Cesare. «È ben noto - osservava Guglielmo di Poitiers - che l'inverno è meno adatto a condurre una guerra di quanto lo sia l'estate», eppure i Normanni di Guglielmo il Conquistatore compirono in Inghilterra più imprese nel tempo invernale di quanto i Romani ne avevano compiuto nella stagione estiva. L'inverno è dunque solo «meno adatto», ma non blocca affatto l'attività bellica17. Siamo, infatti, ben lontani dal poter affermare che non si combattesse mai durante l'inverno, poiché le «forti necessità» di carattere politico e militare inducono non di rado a sfidare in ogni caso i rigori del gelo: le truppe di Liegi nel XIV e XV secolo operarono tra novembre e marzo in almeno una quarantina di occasioni; le fonti, anzi, che non sempre notano le condizioni di tempo in cui l'attività militare si svolge, tendono spesso a mettere in particolare evidenza proprio quelle azioni che si sottraggono alla regola. UHistoria di Orderico Vitale si dilunga volentieri sui particolari disagi incontrati dalle imprese invernali: più volte, nel corso di un secolo, il giorno di Natale viene indicato come termine o come inizio di una mobilitazione o come riferimento per spedizioni compiute perciò in pieno inverno. «In ibernis mensibus», subito dopo il Natale del 1078, in Normandia viene assediato per sette settimane il castello di Gerberois; nella prima settimana di gennaio del 1090 Roberto di Bellème tenta per quattro giorni di prendere il castello di Exmes «in mezzo al gelo e alle piogge invernali». In Inghilterra re Guglielmo non esita a sottoporre più volte se stesso e i propri cavalieri a gravosi impegni invernali contro gruppi di ribelli e di Danesi sbarcati dal mare: spedizioni rischiose svoltesi in terreno particolarmente aspro in cui la durezza dei percorsi si somma ai disagi delle basse temperature, alla mancanza di vettovaglie e alla terribilità del nemico da affrontare. Nel rigido gennaio del 1070 Guglielmo dovette intraprendere una marcia di ritorno verso York attraverso un'impervia zona montana innevata e con un gelo rigidissimo che provocò la rovina di un gran numero di cavalli; il re stesso, con uno sparuto seguito, si smarrì e fu costretto a passare un'intera notte all'addiaccio mostrando in tali frangenti una costanza che l'autore ritiene senz'altro paragonabile a quella di Giulio Cesare. Nonostante le difficoltà che si frapponevano, come si è visto, alla conduzione di un assedio nella stagione fredda, il forte valo-
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re politico strettamente legato al mantenimento del prestigio imperiale nell'Italia padana, indusse a continuare sin nel cuore dell'inverno assedi già avviati nei mesi precedenti: così avvenne per quello di Crema intrapreso da Federico I nell'ottobre del 1159 e prolungato sino al 25 gennaio 1160; così il blocco posto nel 1240 a Faenza da Federico II si protrasse per otto mesi «sub gelu et giade» con la partecipazione dello stesso imperatore. Significato analogo assunsero sul piano politico gli assedi di Calais (1347) e di Orléans (1428-29) durante la guerra dei cento anni con i quali gli Inglesi posero in gioco la loro preminenza in terra di Francia. Essi furono condotti perciò a oltranza: sino alla vittoria il primo e fino alla sconfitta il secondo. Naturalmente gli assediati, che erano riusciti a resistere sino alle soglie dell'inverno, speravano senz'altro che, con la brutta stagione, il nemico abbandonasse il campo proprio per sfuggire ai disagi che lo attendevano; ogni speranza cadeva però se gli assedianti cominciavano invece ad allestire baracche dando così indubbio segno della volontà di proseguire l'impresa sino alla fine. Nell'801 i difensori di Barcellona assediata da Ludovico il Pio, già stremati dalla fame, resistevano calcolando che, con il sopravvenire della cattiva stagione ormai imminente, i Franchi si sarebbero ritirati; e tale era davvero la loro intenzione, se non che essi, come ultimo tentativo, fecero mostra di costruire alloggiamenti invernali e ciò bastò per togliere ai Barcellonesi ogni speranza e per indurli alla resa. Nel 1081 i cittadini di Durazzo vedendo che Roberto il Guiscardo costruiva case in previsione del freddo invernale, dovettero a poco a poco rinunciare alla previsione di un suo ritiro e compresero che il duca voleva rimanere sino alla sottomissione della città. Sotto Crema nell'inverno del 1159 Federico I ordina di «preparare tetti e case che possano superare il freddo» e lo stesso fece Federico II a Faenza nel 1240. La necessità del momento può indurre, in Italia come altrove, a operare in campo aperto anche nel cuore dell'inverno: i Senesi nel 1230 assediarono il vescovo di Volterra in Gambassi dal 24 al 26 gennaio; sempre in quel mese, con azione a sorpresa, distrussero il castello fiorentino di Stiella, e non ebbero riguardo di attaccare Chianciano. Non si indietreggia nemmeno di fronte alìmpedimento posto da abbondanti nevicate. Nel febbraio del
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1251, per reprimere la ribellione del castello di Montaia, fanti e cavalieri fiorentini - racconta Giovanni Villani - «non lasciarono per lo forte tempo e grandissime nevi ch'erano allora, che non tenessono l'assedio intorno intorno al castello» impedendovi ogni possibilità di accedervi e di uscirne e mantenendolo sotto il tiro di più macchine da getto. Senesi e Pisani vennero in soccorso degli assediati; lasciata perciò sul posto una buona guardia, «la cavalleria di Firenze con certi pedoni eletti» decisamente mosse loro contro nonostante la neve e la «salita del poggio», così che i nemici «si fuggirono vilmente in isconfitta con grande danno di loro e di loro arnesi»18. Nel febbraio del 1226 Ezzelino da Romano con un reparto scelto di cavalieri intraprese un'audace marcia attraverso una valle alpina, mossa che gli permise di giungere del tutto inatteso in Verona e di impadronirsene senza colpo ferire. La strada - precisa la fonte - era «sassosa, inconsueta, aspra, fredda e innevata» tanto che il cammino dovette essere aperto da appositi spalatori incaricati di rimuovere le nevi «raccolte in quei monti per diversi anni». La scelta deliberata di muoversi in tempi e luoghi freddi e disagevoli giovò grandemente, in quel caso, al conseguimento della sorpresa e del successo. Così dovette accadere anche per le azioni che indussero nel 1236 i Mantovani a sorprendere il presidio cremonese di Marcarla proprio la notte di Natale, e nel 1242 i Bresciani a muovere alla conquista del castello di Palazzolo sull'Oglio il 23 dicembre. Sempre alla vigilia di Natale agirono i Pisani sotto il comando di Guido di Montefeltro nel 1291, nella presa di Pontedera, sapendo che molti fanti del presidio fiorentino avevano abbandonato il loro posto per trascorrere la festa in famiglia. I Pisani occuparono una torre esterna, superarono in barca il largo fossato e «per difalta di mala guardia» ebbero agio di scalare le mura con scale di corda. 150 fanti rimasti di guardia, su 150 che dovevano essere, colti di sorpresa, furono uccisi insieme con i castellani. Il primo di gennaio del 1314 Tommaso di Squillace, siniscalco angioino di Provenza, insieme con cinquanta cavalieri astigiani, pose l'assedio al borgo di Dronero (Cuneo); intervenne in suo aiuto il marchese di Saluzzo, ma nulla potè conseguire perché gli assediati si rafforzarono con palizzate di legname e con una muraglia di neve, che era caduta in grande abbondanza. Il blocco durò, pur senza ottenere il suo scopo, sino al mese di aprile. Ben più
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drammatica la vicenda che si svolse tra Legnano e Parabiago nel febbraio del 1339, in cui Azzone Visconti, signore di Milano, finì per prevalere contro i mercenari di suo cugino Lodrisio. La cruenta battaglia si svolse in mezzo a un'eccezionale nevicata in cui, al dire di numerosi cronisti, gli uomini sprofondavano sino alla cintura. Molti degli alleati in cammino per recare aiuto ad Azzone giunsero in ritardo proprio perché il loro spostamento fu impedito dalla neve che, continuando a cadere, coperse anche le tracce del nemico trasferitosi intanto da Legnano a Parabiago: «Lo riempo era de vierno - scrive efficacemente l'Anonimo Romano - e era sì esmesuratamente granne la neve che non lassava fare vattaglia ordinata. Fi allo iunuocchio omo se affannava nella neve. Granne era lo infango. Le arme e le soprainsegne stavano imbrattate», e in simili condizioni «quarantaquattro centinaia de uomini fuoro occisi, senza li affocati in fiume e nelli gorghi della neve» che impedì anche la fuga degli sconfitti. Il 20 dicembre 1371 Amedeo VI di Savoia prendeva al suo soldo il condottiero tedesco Giovanni Baumgarten per quattro mesi con decorrenza dal 1° gennaio successivo: soltanto se la neve fosse caduta in quantità tale da impedire al condottiero e alle sue genti di rimanere in campo, o per la necessità di far fronte a nemici soverchiami, si prevedeva l'acquartieramento in luoghi fortificati dove avrebbe avuto a debito prezzo le vettovaglie sufficienti. Nella particolare situazione del momento, il conte di Savoia dava dunque avvio a un ciclo operativo che era evidentemente destinato a svolgersi in pieno inverno19. I transalpini, pur lamentandosi per il caldo eccessivo che l'estate italiana loro riservava, tendono, in generale, a considerare la guerra stagionale praticata nella Penisola come troppo «comoda», come se al di là delle Alpi si usasse sempre virilmente guerreggiare senza badare alle stagioni. I Francesi del XII secolo, così ben disposti a guerreggiare in primavera, «quando la stretta del freddo si fa sentire», senz'altro - si è scritto - odiano la guerra e tutt'al più accettano di affrontarsi nei tornei per i quali nutrono una inesausta passione. Nel 1452 si sa di un contingente francese operante in Lombardia che evitò di combattere in inverno, come Francesco Sforza pretese invece dai suoi. Non sembra, d'altronde, che la limitazione dei periodi operativi obbedisse in Italia a una stagionalità molto diversa da quella
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che vigeva in altre parti d'Europa. In Francia negli ultimi decenni del Quattrocento le truppe lasciavano normalmente le guarnigioni invernali in febbraio, marzo o aprile; il periodo di maggiore impegno si concentrava nei mesi di luglio e di agosto e le operazioni si interrompevano in ottobre o in novembre. Il calendario operativo era quindi soltanto lievemente sfalsato rispetto a quanto avveniva di norma nell'Italia del Nord. Ciò nonostante al di là delle Alpi si tende a generalizzare l'opinione espressa da Filippo di Clève il quale non esitò a scrivere, all'inizio del Cinquecento, che, addirittura, «in Spagna, in Italia e in altri paesi caldi le guerre si conducono più agevolmente d'inverno che d'estate». Il duca di Clève (che era stato comandante marittimo nel Mediterraneo orientale, nel regno di Napoli e governatore di Genova) aveva probabilmente presenti le condizioni dell'Italia meridionale; anche là tuttavia, nei primi decenni del Quattrocento era invalsa l'abitudine di limitare le operazioni militari alla primavera, all'inizio dell'estate e all'autunno. Il Carmagnola, al soldo della repubblica veneta fra 1426 e 1432, cercò anzi di imporre la medesima usanza anche alle guerre di Lombardia scontrandosi però nella vivace opposizione della Serenissima. L'uso della sospensione estiva venne comunque diminuendo dopo la metà del Quattrocento, ma la questione dei tempi di acquartieramento e della durata delle campagne rimase sempre aperta: i potentati che pagavano il soldo tendevano ovviamente ad ampliarla e i condottieri a ridurla. Negli anni 1431-1432 Micheletto degli Attendoli, allora al soldo di Firenze, uscì dagli accampamenti invernali alla fine di marzo e vi ritornò soltanto a metà dicembre, e questi erano allora normalmente i tempi rispettati anche dagli altri condottieri. Né mancano attestazioni, anche per quest'epoca, di operazioni condotte in pieno inverno: l'autore della Guerra dell'Aquila narra epicamente la cattura di tre conestabili bracceschi «delli più pregiati» avvenuta il 28 gennaio, mentre Braccio da Montone teneva assediata la città nel gelido inverno dal 1423 al 1424. Bartolomeo Colleoni, trovatosi a operare nel Tortonese il 14 gennaio 1453 al soldo di Francesco Sforza, scrisse per lamentare la scarsità dei mezzi a sua disposizione, ma chiuse la lettera affermando che non avrebbe desistito dall'impresa «né per manchamenti de strami, né per desasi alcuni, né per freddo né per pioza, né per neve, né per
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mal tempo». E si può ricordare, infine, che il 28 dicembre 1478, ner ragioni meramente politiche e contro la volontà dei responsabili militari, le milizie sforzesche furono indotte ad affrontare gli Svizzeri a Giornico, fra la neve e il ghiaccio di una valle alpina, dove furono inevitabilmente sconfitte. La guerra d'inverno appare fortemente limitata anche nei paesi del Mediterraneo orientale. Roberto il Guiscardo nel 1084 volle stabilire i suoi quartieri invernali in Grecia, ma l'esercito soffrì di un freddo di eccezionale intensità: molti morirono per la bassa temperatura, per la fame e per le malattie sopravvenute. In Palestina le piogge stagionali rendevano impossibile il movimento, e le operazioni inevitabilmente ristagnavano. Gli attacchi contro Damasco tentati nel 1129 e nel 1170 fallirono a causa del maltempo, e l'inverno siriano fece soffrire i crociati in più occasioni: anche là esso si presentava come «stagione in cui non era conveniente convocare eserciti», e del resto gli stessi Turchi smobilitavano abitualmente una parte dei loro20.
2. Le avversità atmosferiche In una notte di settembre del 1098 - narra Orderico Vitale proprio mentre Guglielmo d'Inghilterra radunava un grande esercito contro il re di Francia, «si manifestò al mondo un terribile segno: in quasi tutte le regioni occidentali il cielo apparve come se ardesse di una luce rossa come il sangue», e si seppe poi che in quel giorno era avvenuta in Oriente la grande battaglia di Antiochia in cui i crociati erano rimasti vittoriosi. Non parleremo qui, tuttavia, di simili misteriosi e inquietanti segni del cielo, spesso interpretati come annunciatori di sanguinosi avvenimenti militari, ma delle conseguenze che l'improvviso scatenarsi di fenomeni atmosferici poteva avere sull'esito di un'azione in corso, anche solo per l'effetto deprimente che esso suscitava nei combattenti. Il 21 luglio 882 un contingente franco assediava una banda di pirati normanni che si erano rifugiati in una loro fortezza, quando il cielo improvvisamente si oscurò e fra tuoni e fulmini cadde sui contendenti una grandine mai vista che raggiungeva l'insolita dimensione di una grossa pietra informe: i cavalli imbizzarriti si
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slegarono e si dispersero mentre la fortezza stessa rimase in gran parte demolita dall'impeto del vento; in entrambi i campi la quantità dei morti e dei feriti fu tale da provocare l'immediato scoppio di malattie, così che gli avversari furono costretti a venire rapidamente a patti fra loro. Il 29 maggio 1037, giorno di Pentecoste, mentre l'esercito di Corrado II assediava il castello milanese di Corbetta, si verificarono manifestazioni ritenute miracolose: nel cielo perfettamente sereno esplosero fulmini e scoppi di tuono tanto forti e improvvisi che nell'accampamento imperiale molti uomini e cavalli ne morirono e altri rimasero inebetiti per alcuni mesi; tra le vittime vi fu anche la nuora dell'imperatore, il quale ritenne pertanto opportuno desistere dall'impresa. Simile è quanto accadde nel 1102 mentre Luigi VI di Francia assediava il castello di Chanibly: un uragano improvviso, scoppiato di notte con grandi tuoni e terribili scrosci d'acqua, uccise cavalli e turbò gravemente gli uomini che, presi dal panico, si diedero alla fuga prima dell'alba e non ci fu modo di trattenerli. Una tempesta di vento danneggiò le fortificazioni di Brescia durante l'assedio postovi da Federico II nel settembre del 1238, ma gli attaccanti non furono in grado di approfittarne. La vigilia di san Giovanni Battista del 1288 - ricorda Giovanni Villani - l'esercito senese intento a guastare vigne e giardini intorno alle mura di Arezzo, fu colpito dal «maggior turbico di vento e d'acqua che si ricordi»: esso abbatté trabacche e padiglioni, li stracciò e li sollevò in aria, avvenimento premonitore che fu per i Senesi «segno del loro futuro danno». Nel 1083 a Larissa l'esercito bizantino si ritirò di fronte all'attacco dei Normanni di Boemondo da Taranto, ma entrambi gli avversari furono avviluppati da una polvere così spessa che nessuno potè vedere dove l'altro si dirigeva. A Cipro, davanti a Nicosia, si combatté nel luglio del 1229 mentre spirava un forte vento di ponente e «il polverone era così fitto che non si vedeva nulla»; solo «quando il polverone cadde» i combattenti poterono riconoscersi, ma gli uomini dell'imperatore Federico II ne uscirono comunque sconfitti21. U Epitoma rei militaris di Vegezio si riferisce al tempo meteoroogico o stagionale solo quando tratta della salute del combattente lasciando intendere che l'attività militare può continuare, con le dovute cautele, anche in condizioni di tempo sfavorevole: così
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come d'estate occorre evitare di marciare sotto il sole e di accamparsi senza tende e in zone prive d'ombra, d'inverno sono sconsieliabili le marce di notte e in mezzo alla neve e al gelo: un soldato che soffre il freddo non può essere considerato idoneo a una spedizione, e anche il quotidiano addestramento, in caso di pioggia o di neve, deve essere svolto al coperto. Al momento di schierare l'esercito in battaglia si consiglia però di tenere adeguato conto del sole, della polvere e del vento. Il sole in faccia toglie la visuale, il vento contrario svia e rallenta la forza delle armi da getto e giova a quelle nemiche; la polvere dinanzi riempie gli occhi e li fa tenere chiusi. Se anche i meno esperti sanno evitare tali inconvenienti al momento di disporre le schiere, un comandante provvido deve pensare che, con l'avanzare del giorno, non gli nuoccia il giro del sole e che all'ora solita, nel corso della battaglia, si levi il vento contrario. Si deve quindi ordinare le schiere in modo che gli impedimenti rimangano alle nostre spalle e, se possibile, colgano nel viso il nemico. Si tratta di accorgimenti che, pur senza conoscere l'opera del trattatista latino, potevano essere imparati, per esperienza, direttamente sul campo di battaglia, e che finiscono per essere considerati un luogo comune della tattica medievale: nella zona di Liegi, dove non è percepibile alcuna influenza del testo di Vegezio, la prima preoccupazione dell'esercito, quando giungeva sul prevedibile campo di battaglia, consisteva appunto nel procurarsi «il vantaggio di luogo, vento e sole». Quando tali consigli si trovano ripetuti quasi alla lettera in trattati del XIV e XV secolo, pur senza alcuna citazione di fonte, è senz'altro verisimile che siano ispirati dal testo di Vegezio. Più difficile dire se esso sia servito da modello diretto quando li vediamo messi in pratica in famose battaglie. La domenica 13 ottobre 1213 nella valle di Steppes, in Belgio, il duca di Brabante ebbe cura di disporre i suoi su un'altura con il sole alle spalle, ma la giornata era nuvolosa e l'esercito liegese che gli stava di fronte non risentì un disagio tale da impedirne la vittoria. Era domenica anche il 27 luglio 1214 allorché l'imperatore Ottone IV fu fermato a Bouvines in posizione sfavorevole che gli dava «direttamente sugli occhi la luce del sole in quel giorno più caldo e ardente di quanto fosse stato prima», mentre il suo avversario Filippo Augusto di Francia potè ordinare l'esercito «in
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modo che i Francesi avessero il sole alle spalle»; non pare comunque che quel particolare avesse poi un peso determinante nella vittoria che questi riuscì faticosamente a ottenere. Anche Enrico Tudor a Bosworth nel 1483, nel momento decisivo della guerra delle Due rose, dispose la sua avanguardia costringendo Riccardo III d'Inghilterra a ricevere il vento e il sole in faccia, ma in realtà, anche in quel caso, la vittoria ottenuta dal Tudor fu dovuta a ben altre ragioni22. Da parte sua il condottiero Orso Orsini, nel Memoriale composto a Napoli nel 1476, ritiene che non si possano dare consigli troppo precisi sul modo di combattere essendo necessario provvedere di volta in volta a seconda della «occorrentia de li casi, quantità et qualità del nemico che tu hai, disposizione et sito del terreno», ma in generale un buon comandante dovrà procurarsi ogni possibile vantaggio del sito e delle fortificazioni nonché «de luoco o de sole o de vento, secondo le occorrentie de le hore et de li tempi». E si tratta, qui come in altri casi, dell'unico elemento relativo al tempo del quale si tiene conto. Per Filippo di Clève l'importanza di tali fattori era già venuta meno con la comparsa delle bombarde sul campo di battaglia: va sempre bene - egli scrive prendere il vento e il sole che si possono avere, ma è inutile creare disordine per ottenerli a tutti i costi; una volta, quando le battaglie duravano a lungo, il vento di fronte giovava ad avere frescura, e costringere il nemico a combattere con il sole in faccia contribuiva a opprimerlo anche con il calore, ma ormai le battaglie si risolvono molto più rapidamente e perdere tempo per simili ragioni è in realtà più di impedimento che di aiuto. Le piogge autunnali, rendendo rapidamente impercorribili le strade in terra battuta, mettevano in grave difficoltà qualunque esercito medievale; bastava anzi un breve e intenso acquazzone per provocare disagi tali da impedire il proseguimento delle operazioni anche in mesi ritenuti ideali per l'attività militare, i quali potevano presentare anomalie meteorologiche tali da essere considerate come segno della volontà divina direttamente intervenuta nelle cose umane. Nell'inverno dell'896 in Tuscia l'eccessiva instabilità del tempo, le immoderate piogge e le conseguenti inondazioni, provocarono gravi impedimenti alla marcia dell'esercito tedesco sceso in Italia con Arnolfo di Carinzia; quasi tutti i cavalli morirono e i ca-
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valieri dovettero accontentarsi di buoi sellati al modo equestre. Nell'agosto del 1160 gli eserciti di Milano e di Federico I si scontrarono nell'alta Lombardia attorno a Carcano; il primo - narra il cronista - aveva circondato a largo raggio l'accampamento imperiale e tuttavia i Milanesi non poterono giungere sino ad esso tanto per la natura del luogo, tutto rupi e valli scoscese, che facevano da impedimento, quanto per una pioggia fortissima. Dopo aver atteso a lungo, a causa del freddo eccessivo, ritornarono infine nei loro alloggiamenti rinunciando a consolidare quella che, sul piano tattico, era già una vittoria. Nel maggio del 1155 una improvvisa «pluvia maxima» inzuppò rapidamente il terreno e rese impossibile ai Pavesi prevalere sui Milanesi schierati a difesa di Tortona, pioggia accolta invece da questi ultimi come una grazia divina. Nell'estate del 1218 Tolosa, assediata dai crociati di Simone di Monfort, fu colpita da una tempesta che durò senza interruzione per tre giorni e tre notti e le acque della Garonna crebbero a tal punto da mettere in serio disagio tanto i difensori quanto gli assedianti. Ma è specialmente l'insistenza delle precipitazioni, seguita spesso dalla crescita di fiumi e lagune, che può compromettere i risultati di un'intera campagna e provocare veri e propri disastri militari. Una pioggia continua di qualche giorno, soprattutto nella bassa pianura, paralizza un esercito e lo induce facilmente ad abbandonare la sua missione. Nel 1215 «piogge inaudite» innalzano il livello della laguna veneta mettendo in rotta i Padovani che si erano spinti sino ai suoi margini. Cinque giorni di pioggia nell'ottobre del 1238 provocano la piena del Po e costringono Federico II a rinunciare alla sua offensiva contro Milanesi e Piacentini. I Bolognesi nell'ottobre del 1298 sono indotti a ritirarsi da Massalombarda «per l'inondazione e le molte piogge». I Fiorentini in guerra contro Pisa si accamparono nel 1291 a Castel del Bosco, ma «venne in Vili dì continui tanta pioggia - racconta Giovanni Villani - che per necessità si ritornò la detta oste addietro, e appena si poterono ricogliere e stendere». Le imprese militari fallite «per la gravità del tempo e delle acque» non si contano, tanto che, talora, le medesime ragioni servono da pretesto - nota Giovanni Codagnello - per giustificare insuccessi dovuti invece alla mancanza di coraggio e determinazione. Si può nondimeno marciare sotto la pioggia, così come si opera d'inver-
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no, per scelta tattica con lo scopo di sorprendere un nemico che non se lo aspetta. Nell'876 Carlo il Calvo, in guerra contro il nipote Luigi di Sassonia - narrano gli Annali di San Bertin - si mosse di notte a bandiere spiegate per strade ardue e strette affaticando uomini e cavalli in una estenuante marcia «sotto la pioggia che cadde su di loro per tutta la notte». Il nemico venne affrontato l'8 ottobre ad Andernach, ma il vantaggio ottenuto a costo di così gravi sacrifici fu infine compromesso dal ritorno offensivo degli avversari. La costanza con la quale nel 1278 gli uomini di Maghinardo di Susinana marciano fra montagne, rupi e boschi verso Piancaldoli mentre «senza interruzione continuava a piovere forte su di loro» è vista dal cronista come fuori della norma, e così la presa dei castelli reggiani di Montevecchio e Montezane, riuscita nel 1296 ai cavalieri di Parma nonostante che la pioggia continuasse a battere per tutta la notte e il giorno dell'azione. Sensibili alle contrarietà meteorologiche sono anche gli eserciti transalpini. Gli agguerriti uomini di Liegi vengono a patti con un nemico, considerato già battuto, per evitare le precipitazioni diluviali dell'aprile 1333; interrompono nel 1379 una cavalcata in Lussemburgo e in altri casi rimandano la partenza per una spedizione già programmata sinché non cessino le intemperie23. Il fastidio di indossare la corazza, gravoso tanto d'estate quanto d'inverno, non lo era meno sotto la pioggia battente: esperienze moderne hanno dimostrato che «le vesti bagnate diventavano in breve spiacevolmente gelide e si appiccicavano alla pelle» provocando una rapida diminuzione della temperatura corporea, senza contare che i preziosi usberghi di maglia metallica in uso prima del XIV secolo, esposti all'umidità arrugginivano facilmente rischiando così di deteriorarsi in modo irreparabile. E altrettanto delicata, se non di più, era la salute delle costosissime cavalcature per le quali valeva certo, anche allora, quanto osservava ai suoi tempi Raimondo Montecuccoli: «Una notte cattiva, fredda e piovosa è bastante da sola a rovinar un cavallo che non abbia coperto». Non andrà nemmeno trascurato che temperatura e agenti atmosferici influenzavano fortemente l'efficienza delle armi da lancio: come l'esperienza insegna - osservava con indubbia competenza Marin Sanudo Torsello all'inizio del Trecento - le balestre
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Hi corno «servono meglio in regione secca che umida, e hanno maggiore gittata quando fa freddo rispetto a quando fa caldo», e l'esperto sa bene che tutte le balestre, «sia di corno sia di legno, vanno tenute costantemente al riparo dal sole, dalla pioggia, dal vento e finanche dalla rugiada». L'entrata in uso della polvere da sparo non fece che aggravare la vulnerabilità degli eserciti di fronte a precipitazioni improvvise. Basterà, per darne un esempio, quanto accadde nel luglio del 1495 a Fornovo sul Taro dove le truppe della lega italica attendevano al varco i Francesi di Carlo Vili, convinti di poterne avere facilmente ragione. L'abbondante pioggia caduta poco prima della battaglia ebbe due importanti conseguenze: la polvere inumidita ridusse le possibilità di intervento delle opposte artiglierie, e il fiume Taro in piena non consentì l'attraversamento nel punto che gli Italiani avevano scelto. Se il primo inconveniente colpì entrambi i contendenti, il secondo ebbe grande peso nel provocare il fallimento dell'elaborato piano d'azione preparato da Rodolfo Gonzaga, e i Francesi poterono così sfuggire a una sconfitta che pareva certa. Tra le avversità atmosferiche che interferiscono nell'attività militare va naturalmente inclusa la nebbia. A Giannina nel maggio del 1082 il comandante bizantino Alessio Comneno aveva chiuso le vie d'accesso al suo accampamento mediante carri e triboli di ferro, ma la nebbia permise a Boemondo di Taranto di avvicinarsi di nascosto attraverso le vigne e i campi di carici e di mettere in fuga l'avversario. Dieci anni dopo, nel mese di ottobre, Enrico IV fu costretto a ritirarsi di fronte a Canossa «poiché a causa della nebbia fittissima nessuno riusciva a vedere la rocca», fenomeno provvidenziale per i difensori che lo attribuirono alle efficaci preghiere dell'abate Giovanni. Durante la guerra contro Como, i Milanesi assediano una fortezza sul lago, ma «nebbia e pioggia rendono vano il lungo faticare»; egualmente negativo riuscì il fenomeno verso la fine di giugno del 1155 ai cavalieri di Pavia che, teso un agguato ai Milanesi poco a ovest di Tortona, catturano qualche centinaio di uomini: ne avrebbero presi di più - precisa il cronista - se non fossero stati impediti da una certa nebbia che favorì la fuga di molti nemici. Nell'ottobre del 1447 Bartolomeo Colleoni affrontò i Francesi nella piana di Bosco Marengo tra una nebbia fittissima tanto
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che gli opposti schieramenti si scorgevano a malapena. Solo più tardi, quando la caligine si stava alzando e cominciava a mostrarsi il sole (raccontò lo stesso condottiero al suo biografo Antonio Cornazzano) egli intuì dall'ondeggiare incerto delle aste che il nemico stava per cedere, e così ottenne una delle sue più significative vittorie24.
3. Dal tramonto all'aurora 3.1. Il breve riposo del guerriero. Negli eserciti medievali, dagli effettivi ridotti, il dispendio fisico richiesto a tutti i combattenti impegnati in uno scontro prolungato, rendeva la sospensione serale del combattimento necessaria e accettata da entrambe le parti in lotta; oltre che dalla stanchezza il rinvio è imposto dal buio che impedisce di riconoscere gli amici dai nemici con il pericolo evidente di ferirsi vicendevolmente. Anche qui la guerra greco-gotica vede da un lato gli ultimi riflessi della tecnica bellica tardo-antica e anticipa dall'altro situazioni e procedimenti già pienamente medievali: durante la battaglia dei Monti Lattari, combattuta fra Goti e Bizantini nel 552 - scrive Procopio di Cesarea - al sopravvenire della notte i contendenti «si separarono gli uni dagli altri e bivaccarono in tenuta di guerra. Il giorno dopo si alzarono presto schierandosi allo stesso modo e di nuovo combatterono sino a notte». Durante la fase finale della battaglia di Tagina - dice ancora Procopio - i fanti goti ormai in rotta di fronte al prevalere dei Bizantini, «si uccidevano anche a vicenda come in una battaglia di notte»; soltanto il giorno chiaro, infatti, è «adatto alle genti che combattono», e tale consuetudine è ampiamente documentata. Nel luglio del 1081 i Veneziani vennero in aiuto ai Bizantini contro i Normanni di Roberto il Guiscardo che assediavano Durazzo: «Già cadeva la sera, la flotta del duca avanzò, ma poiché la notte si avvicinava», le due flotte rimandarono lo scontro. L'indomani «quando l'aurora ebbe dissipato le ombre», esse si apprestarono al combattimento, ma i Normanni fuggirono spaventati; per tre volte, al ritorno del giorno, la flotta veneziana attaccò il porto e provocò a battaglia le navi di Roberto, che continuarono a rimanere sulla difensiva. In autunno i Bizantini stessi tentano di toglie-
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re l'assedio: anch'essi però giungono davanti a Durazzo di sera così che «né gli uni né gli altri vollero iniziare il combattimento e abbandonarono le loro membra al riposo»; solo al sorgere del giorno Roberto «condusse per primo il suo esercito in battaglia». Il 7 marzo 1098 sotto Antiochia i crociati si oppongono valorosamente ai Turchi usciti dalla città - narra l'anonimo autore che fu presente ai fatti - e «soltanto la notte giunse a separarci tutti, noi e loro; fu la notte che impedì alle due parti di continuare a combattere a colpi di lancia, di spada e di freccia». Le navi pisane - racconta il Liber Maiolichinus - giunsero davanti all'isola di Ibiza nel giugno del 1114 al calar della notte; il mattino successivo «dopo che il sole si fu levato dall'onda marina e il giorno si fece chiaro, adatto alle genti che combattono», le schiere si disposero attorno alle mura della città ed ebbe inizio l'attacco che fu sospeso quando «la notte divise i combattenti». In luglio, allorché, superata la prima cerchia, si combatte ormai dentro la città stessa, sul far della sera, constatando che «la battaglia non offre più alcun vantaggio», i Pisani si ritirano dentro le case cadute nelle loro mani e riprendono l'azione quando «il giorno seguente sorge». Ritroviamo il medesimo modo di procedere a Rebbio nell'estate del 1118 allorché Comaschi e Milanesi, dopo aver lottato per l'intero giorno, quando ormai - dice il relatore dei fatti - «il sole volgeva il suo corso verso la fine, intimato il silenzio da entrambe le parti, i combattenti, deposte le armi, siedono a terra: la scura notte stende il suo velo e, mentre per tutto il cielo rifulgono le stelle, i guerreggianti si allontanano dal campo. Le schiere si ritirano e, giunte infine ai padiglioni, indulgono al vino» sinché «i corpi cedono al silenzioso sonno». Il 12 agosto 1154 i Milanesi e i Pavesi si scontrano duramente sul fiume Vernavola sinché, a sera, ciascuno torna al proprio accampamento per cenare e per dedicarsi alla cura dei feriti. Due anni dopo, non diversamente, i Pavesi depredano il campo milanese presso Tortona e quindi, «essendosi fatto tardi [...] discesero e vennero alle loro tende e si rifocillarono». Fedele a questo basilare principio rimane, nei primi decenni del Trecento, Teodoro di Monferrato il quale nei suoi Insegnamenti di guerra «non consiglia in nessuna maniera» la battaglia di notte perché «è cosa impossibile ordinare le proprie schiere né, con il favore delle tenebre, vi è convenienza a radunarsi contro nemici e ribelli, come pure sarebbe necessario»25.
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3.2. La lunga notte. Ciò non significa affatto che la notte militare fosse sempre e soltanto riservata al riposo: se la battaglia fra uomini schierati in campo (fatto già di per sé alquanto raro anche di giorno) era resa impossibile dal buio, rimaneva una gamma molteplice di attività militari che potevano invece aver luogo di notte e che anzi venivano preferibilmente compiute proprio con il favore delle tenebre. Esse sono ben esemplificate nei Cronica scritti nel 1260 da Rolandino da Padova: Gorzia, comandante delle truppe di Ezzelino da Romano a Piove di Sacco, «in una certa notte» (sotto mentite spoglie) va furtivamente a raccogliere informazioni negli accampamenti della parte avversa e poi approfitta della notte per sabotare gli impianti posti in territorio nemico. Sempre di notte i saccheggiatori trevigiani, costantemente appostati nei castelli di confine, escono a far preda nelle terre soggette a Ezzelino, prontamente imitati dai Padovani non appena se ne presenta l'occasione. Nelle ore notturne, «allorché gli accampamenti sono immersi nel silenzio», Ezzelino chiama a rapporto i suoi consiglieri e discute il piano d'azione per il giorno dopo, come avevano già fatto nel marzo del 1156 a Palosco i Bresciani allorché esplorarono «di notte, nascostamente, le turme bergamasche» preparando l'attacco per l'indomani. Quando il nemico è vicino e si teme un suo colpo di mano è di rigore vegliare in armi senza interruzione: sotto Beaucaire nel giugno del 1216 gli uomini di Simone di Monfort e i loro avversari rimasero pronti per tutta la notte con i cavalli sellati in modo che nessuno dei due eserciti potesse prendere vantaggio sull'altro, sinché «all'alba del giorno, quando il tempo si rischiara», da entrambe le parti ci si mise in condizioni di combattere. Nel settembre del 1236 fanti e cavalieri dei comuni fedeli a Federico II giungono sul fiume Chiese a non più di due miglia dall'esercito della Lega lombarda, e ivi «rimasero tutta la notte armati e schierati» aspettando l'arrivo dell'imperatore. Vent'anni dopo, di fronte a Ezzelino che tenta di riprendere Padova, il legato pontificio e il podestà fecero rimanere per tutta la notte i loro uomini svegli e in armi nel timore che il nemico potesse attraversare il Bacchigliene e prenderli alle spalle; lo stesso fece nel contempo Ezzelino che temeva a sua volta di essere attaccato. La notte è poi particolarmente adatta per ogni genere di azione di sorpresa: si possono vettovagliare fortezze assediate o intro-
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durvi almeno propri agenti; il buio favorisce l'evasione sia di prigionieri sia di guarnigioni assediate che, invece di arrendersi, eludono all'ultimo momento il nemico con la fuga. Nel gennaio del 1090 - narra Orderico Vitale - mentre Roberto di Belléme assediava il castello di Exmes, in Normandia, Gilberto di Laigle con ottanta cavalieri riuscì a entrarvi di notte rafforzando la guarnigione con uomini, armi e vettovaglie così che gli attaccanti dovettero rinunciare al loro proposito. La notte del 25 marzo 1124 uno squadrone armato ruppe il blocco che rinserrava il castello di Vateville non solo introducendovi vettovaglie, ma assaltando il mattino dopo gli assedianti. Non diversamente, nel 1228, i Modenesi soccorrono in piena notte il castello di Bazzano rifornendolo di viveri e allontanando i bambini ivi rinchiusi; nel giugno del 1231 il marchese di Monferrato inviava durante la notte suoi messi in Chivasso assediata promettendo soccorsi26. Le tenebre favoriscono gli spostamenti di truppe; è di norma, infatti, che si marci di notte (pur con le difficoltà che ciò comporta) per essere sul luogo dell'azione all'alba del giorno successivo. Alla fine di giugno del 1097, dopo la presa di Nicea e prima della battaglia di Dorileo, i crociati si misero in viaggio nelle ore precedenti l'aurora, «e siccome era ancora notte - narra l'Anonimo non ci videro abbastanza per tenere la stessa strada»; finirono così, senza volere, per dividersi in due corpi che rimasero separati per giorni. Circa un anno dopo i crociati, prima di penetrare in Antiochia, «viaggiarono e cavalcarono per tutta la notte fino all'aurora», quando fu il momento di prendere possesso delle torri destinate a cadere nelle loro mani. Nell'agosto del 1106 il re d'Inghilterra si sposta di notte con 700 uomini per presentarsi sotto il castello di Dives e prenderne possesso appunto all'aurora. Ed è solo una delle numerose marce notturne alle quali segue, in Orderico Vitale, un attacco sferrato contro un castello prima dell'alba. Federico I nel giugno del 1159, giunto da Crema a Lodi al tramonto con 300 cavalieri, cavalca la notte seguente per tendere un riuscito agguato ai Milanesi. Lodigiani e Cremonesi, che dovevano soccorrere l'imperatore a Carcano, il 10 agosto 1160 partono verso sera, viaggiano tutta la notte e il giorno seguente, ma solo per essere infine intercettati e dispersi dal nemico. Cavalieri piacentini e lodigiani, all'insaputa gli uni degli altri, la notte precedente il 12 marzo 1161 cavalcano verso il bosco di Bolchignano e
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vi si nascondono scoprendosi vicendevolmente solo alle prime luci del giorno successivo. Anche il cronista di Faenza ci presenta spesso i suoi concittadini intenti a cavalcare di notte: nel 1151 da Faenza a Imola, nel 1170 verso Castiglione «con grande gioia e silenzio»; nel 1235 marciano prima verso Bazzano e poi in soccorso dei Bolognesi sempre «die noctuque properantes». I Pavesi nel 1212 accompagnano il giovane Federico II sino al Lambro «cavalcando per tutta la notte», e nel 1268, sempre operando «nella notte silenziosa», giungono di sorpresa sino alle porte di Piacenza. L'esercito lombardo impegnato nel 1231 nell'assedio di Chivasso si mette in marcia di notte e traversa il Po sul ponte di Torino incendiando i luoghi monferrini sulla destra del fiume, ma commenta il cronista - se non avessero appiccato fuochi, lo stesso marchese di Monferrato e i suoi, che stazionavano di fronte a Chivasso, potevano essere catturati27. Gli spostamenti avvengono talora con marce forzate che proseguono senza interruzione giorno e notte: nel giugno del 1216 Simone di Monfort cavalcò «di giorno e di notte senza badare a disagi e a intemperie» per giungere a sbloccare dall'assedio la città di Beaucaire; Ezzelino da Romano, partito da Vicenza in una notte del 1237, giunse a Cattura pronto all'azione per l'alba, e «in una certa notte» del 1241 si sposta da Verona a Lonigo e poi a Montagnana; in un'altra notte del 1258 «furtivamente» l'intero suo esercito attraversa d'improvviso il fiume Oglio diretto verso Brescia; l'anno dopo, sempre «di notte, d'improvviso e di nascosto», parte per quell'impresa di Lombardia destinata ad essere l'ultima della sua carriera. Qualche decennio più tardi lo stesso Teodoro di Monferrato, che pure, come si è visto, dichiara la sua diffidenza per le azioni notturne, non solo ammette la convenienza della cavalcata di notte, ma ritiene anzi utile impartire consigli per un suo corretto svolgimento, specialmente nel caso in cui debba avvenire in luoghi dubbi e pericolosi. Bisogna innanzitutto marciare uniti e con indosso le armature, riconoscendosi mediante parole d'ordine convenute, preceduti e seguiti da guide che conoscano perfettamente le strade. Se ci si imbattesse nel nemico si dovrà levare un grido all'unisono e assalirlo con decisione facendo risuonare i propri strumenti musicali. Tali espedienti sono utili per armeno due ragioni: gli avversari avranno così l'impressione di essere di fronte a
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una formazione numerosa e potente, e poi perché in mancanza della vista, impedita dal buio, è giocoforza tenersi uniti e ordinati mediante l'udito. Se, come si spera, il nemico spaventato si dà alla fuga, occorre evitare di inseguirlo: non conoscendo bene le strade, specialmente in terra straniera, si rischia infatti di finire senza avvedersene in villaggi e in fortezze nemiche e di essere così catturati dai contadini come bestie selvatiche. Classica azione notturna condotta in segreto è l'occupazione di località fortificate nelle quali si può talora contare sulla complicità di uomini disposti ad aprire le porte dall'interno. Durante la guerra greco-gotica la conquista di Napoli da parte di Belisario nell'estate del 536 iniziò per opera di un drappello che si introdusse con le torce in pugno nella stretta galleria dell'acquedotto prosciugato all'inizio dell'assedio, «sull'ora in cui si accendono i lumi», così che due torri della cerchia furono prese prima che la notte fosse trascorsa. Alcuni anni dopo a Rimini i Bizantini, lavorando di notte senza farsi sentire dai nemici immersi nel sonno, riescono a scavare una fossa che rende inutile la torre d'assalto di cui gli attaccanti disponevano. Corrotta una sentinella, in piena notte, i Bizantini entrano in Verona, ma senza poter prendere definitivamente la città. Alla vigilia della battaglia di Tagina un reparto di fanti occupa di sorpresa a notte fonda una collina in posizione strategica mantenendola poi valorosamente contro gli attacchi della cavalleria gota che tenta inutilmente di riconquistarla. Azioni simili avvengono del resto in ogni epoca: un colpo di mano contro il castello di Mons, in Belgio, venne accuratamente organizzato nel X secolo dal padre del cronista Richero dopo aver preso nota, con accorta missione informativa, della topografia del luogo e delle abitudini dei difensori. Quando nel 1066 re Aroldo, informato dai suoi esploratori, conobbe la dislocazione dell'esercito di Guglielmo di Normandia (sbarcato in Inghilterra per togliergli il regno), pensò in un primo momento di travolgerlo con un improvviso attacco notturno che poi non attuò. Durante la prima crociata Antiochia venne presa per tradimento nel giugno del 1098: «Era notte - racconta un protagonista dell'azione - ma palpando e cercando nel buio trovammo infine la porta, tutti corremmo ad essa e, dopo averla forzata, entrammo». Nella primavera del 1175, quando gli imperiali assediavano Alessandria, un buon numero di Tedeschi entrò nascostamente in
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città nel corso della notte, ma la sorpresa non riuscì. Nel Vicentino «una notte» del 1199, mentre le truppe cittadine erano a Schio, in tutta segretezza, il conte Uguccione si introdusse nel castello di Torrebelvicino. Nell'aprile del 1236 la rocca di Garda - dice Parisio di Cerea - fu presa dai nemici di Ezzelino da Romano «occulte, de nocte». Pavesi e Lodigiani nel 1246 «di notte e di nascosto» si impadronirono del castello di Ponte Nuovo sul Po che i Piacentini tentarono inutilmente di recuperare in circostanze analoghe alcuni anni dopo. La notte di san Matteo, cioè il 21 settembre 1250 - scrive Giovanni Villani -, i Guelfi partiti da Montevarchi entrarono nel borgo di Figline presidiato dall'esercito fiorentino e «subitamente assalendo la detta gente, per la notte ch'era e subito assalto, sanza nulla difensa furono sconfitti, e la maggior parte morti e presi per le case»28. Di gran lunga più spettacolare l'impresa portata a termine nel giugno del 1285 dall'esercito francese di Filippo III che, durante la spedizione di Catalogna, superò con una marcia notturna gli ardui colli pirenaici di Massana e Banyus. «Quando fu notte alta e scura - scrive il cronista Bernardo d'Esclot - il re di Francia uscì dal campo con circa ottomila cavalieri, e ciascuno portò con sé cibo già pronto per quattro giorni; il re ordinò alle schiere che passassero per quel luogo e che si disponessero qua e là esploratori e scolte, e che se vedessero di non poter passare tornassero silenziosamente indietro». Il forzamento dei passi avvenne però senza incontrare ostacoli. A Ibiza nel 1114 gli attacchi pisani sono all'inizio esclusivamente diurni, ma nella fase più acuta l'azione non conosce più soste né di giorno né di notte: la seconda cerchia cadde quando per l'ottava volta «già volgeva al suo termine la notte al dì seguente prossima» dal momento in cui «s'aprirono le porte dell'aurora e sorse il sole», «né di giorno né di notte vien data alcuna tregua»: le macchine da lancio continuano a colpire sinché finalmente il 10 agosto, giorno di san Lorenzo, i difensori sono costretti ad arrendersi. Altrettanto avviene nel 1112 durante l'assedio del castello di Toury dove Luigi VI di Francia «si sforzò di tormentare i nemici notte e giorno»; nel 1126, per converso, i difensori di Clermont-Ferrand «durante tutta la notte non desistono dal molestare gli assedianti con attacchi reiterati e con il getto continuo di frecce e giavellotti». Per quanto, dunque, si evitino le battaglie in
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campo aperto, non si escludono affatto, quando è ritenuto necessario, altre forme di combattimento notturno29. Diffusi senza interruzione nel corso dei secoli, i colpi di mano notturni sembrano tuttavia farsi più frequenti nei primi decenni del Trecento. Ecco, nel Memoriale del cronista astigiano Guglielmo Ventura, il conte Emanuele di Biandrate invadere di notte nel 1290 il villaggio di Buttigliera appartenente al comune di Asti; con un'azione notturna alcuni fuorusciti nel luglio del 1303 occupano il castello di Castelcebro; due anni dopo gli Astigiani «entrano di notte in Cossombrato volendo prendere il villaggio con la forza»; poco dopo fanno lo stesso a Montiglio, e i marchesi di Rocchetta, da parte loro, «entrarono violentemente di notte» in Montegrosso nel marzo del 1317. Di numerosi fatti analoghi sono intessute, nel medesimo periodo, anche le guerre di Lombardia: in notti del maggio 1312 falliscono un agguato teso dai fuorusciti pavesi a Filippone di Langosco e un attacco dei Bresciani contro Casalmaggiore. Riuscì in pieno, invece, la clamorosa e fortunata azione notturna che nell'ottobre del 1315 portò alla conquista di Pavia da parte di Matteo Visconti: oltre che delle solite complicità interne l'impresa si giovò di una classica mossa diversiva con spiegamento di torce brillanti nell'oscurità e un coro di voci che attirarono i difensori lontano dal luogo in cui intanto si verificavano i fatti decisivi. E interessante rilevare che di espedienti notturni del tutto simili si serve anche Teodoro di Monferrato: «in una certa notte» dell'ottobre 1306 egli tenta di entrare in Moncalvo, e se quel colpo fallisce, avrà successo due mesi dopo quando, sempre «di notte e furtivamente», riesce a occupare il castello di Chivasso che rimarrà poi saldamente nelle sue mani. Difatti, nonostante le riserve dapprima avanzate dai suoi Insegnamenti nei confronti delle attivita militari notturne, egli ammette poi esplicitamente l'opportunità e la convenienza di azioni da condurre nottetempo, per esempio per sbloccare piazzeforti assediate cogliendo di sorpresa il nemico sul fare dell'alba. «Se vi hanno invaso una terra o una fortezza e sono attendati nei campi e voi non avete genti sufficienti per assalirli e sconfiggerli di giorno, in questo caso approvo un assal° m n e m ici di notte, purché esso sia fatto ordinatamente dal moirto che tutte le cose devono avere ordine e regola». L'attacco °vra dunque essere preparato dividendo i propri uomini in due
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scaglioni: uno attaccherà nel cuore della notte, al momento del cambio delle sentinelle, contando di trovare il luogo privo di sorveglianza; il secondo, intanto, agirà dal lato opposto e faciliterà l'azione «impaurendo il nemico con il suono dei suoi strumenti». Non diversamente si svolgevano le operazioni anfibie: l'ammiraglio genovese Filippo Doria nel giugno del 1355 sbarcò di notte di sorpresa nel porto di Tripoli «e innanzi che 1 giorno venisse, all'aurora tutti armati e ordinati» i suoi uomini ebbero in mano la città da cui trassero un ingente bottino. Qualche decennio dopo Alfonso d'Aragona ai suoi collaboratori che gli consigliavano di impadronirsi di Tangeri con il favore della notte, rispondeva che approfittare dell'oscurità sarebbe stato indegno di lui poiché «ai re si addice guerreggiare apertamente, le insidie e gli espedienti notturni vanno lasciati ai minori». Alfonso passò alla storia con il soprannome di «Magnanimo», ma dovette fare a meno di prendere Tangeri. Del resto una risposta analoga aveva dato a suo tempo anche Alessandro il Grande30. Gli Italiani non ebbero pertanto bisogno che i mercenari inglesi della «compagnia bianca», entrati in Italia nel 1360, insegnassero loro a «cavalcare anche di notte» e a «combattere anche in pieno inverno», pur recando in tali azioni il contributo di utili attrezzature e di procedimenti innovatori. Il colpo di mano notturno fece parte delle tattiche correnti fra i condottieri italiani del Quattrocento: Bartolomeo Colleoni agli inizi della sua carriera - narra Antonio Cornazzano - era il primo nelle incursioni notturne sotto le mura per rintuzzare le sortite degli assediati; quando militò agli ordini del Carmagnola si segnalò scalando di notte le mura della rocca di Cremona, e lo vediamo in seguito progettare ed eseguire numerose imprese notturne. «Noi capitani - dice Braccio da Montone nelle pagine del Campano - dormiamo meno di quanto l'età e la natura vorrebbero perché, svegli al segnale di un soldato semiaddormentato, siamo gli ultimi a coricarci e i primi ad alzarci». Egli appare infatti nel 1424 all'Aquila «in armi di giorno come di notte», ma anche gli Aquilani non sono da meno e organizzano una cavalcata notturna che, con un agguato teso il 19 ottobre a Rocca di Cagno, si procura prigionieri e un cospicuo bottino di bestiame. Del resto già i combattenti pisani del XII secolo, secondo un topos di origine classica, «avevano appreso a chiuder gli occhi a brevi sonni».'
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la retorica dell'«insonnia militare» non è dunque - come si è ritenuto - una scoperta dell'età moderna. Nessuna norma etico-cavalleresca autorizza o condanna l'intrapresa di operazioni militari notturne, così come, del resto, non vi è regola scritta che stabilisca una discriminazione esplicita fra la bella e la brutta stagione, lasciata come si è visto, alla possibilità, convenienza e usanza proprie di ogni epoca e paese. Il fatto che le artiglierie milanesi e cremonesi a Lodi il 10 agosto 1251 non cessassero di scambiarsi colpi «insine a la oscura nocte» fu, è vero, considerato «contro il consueto de buona guerra», ma probabilmente solo perché le condizioni di luogo e di tempo in quello scontro non parvero giustificare tanto accanimento, e non certo per ragioni di etichetta cavalleresca. A sua volta Teodoro di Monferrato afferma che le azioni notturne sono da sconsigliare, non solo per le ragioni pratiche già dette, ma per motivi religiosi: il diavolo suole tentare la natura umana la notte - egli scrive -, cosa non concessa da Dio agli uomini, e se lo fanno non si tratta di cosa naturale, ma appunto di opera diabolica perché i peccati si commettono di notte e non di giorno. A parte l'estemporaneità di una simile dichiarazione, i suoi scrupoli non hanno alcun rapporto con la slealtà cavalleresca, senza contare che essi risultano smentiti sia da quanto scrive poco dopo sia da ciò che Teodoro stesso operò nella realtà31. 3.3. Attacco all'alba. Nell'arco di una giornata operativa i momenti critici coincidono di massima con la comparsa e la scomparsa della luce del giorno, ore che richiedono dunque ai combattenti particolare impegno e attenzione. Quando l'esercito è in campagna - raccomanda Giovanni da Viterbo - il podestà a capo delle milizie comunali deve badare che la sorveglianza sia attenta appunto «nel momento in cui finiscono il giorno e la notte» e «specialmente al mattino sul far del giorno, cioè all'aurora». Bisogna vigilare - ribadisce un altro trattatista - stabilendo due turni, uno sino a mezzanotte e l'altro da mezzanotte al sorgere del sole, «poiché il nemico suole attaccare sul far del giorno, proprio allora bisogna avere la massima cautela». L'attacco sferrato «summo dilucido», cioè di primissimo mattino, consente di sfruttare le condizioni di luce non appena esse si presentano con la probabilità di cogliere di sorpresa un nemico
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non ancora pronto a difendersi. È di solito nelle prime ore del giorno, infatti, che si tendono agguati, si irrompe sul nemico o, al contrario, ci si disimpegna dopo uno scontro andato male. Nel corso della prima crociata tanto i Turchi quanto gli occidentali si attengono alla medesima regola: alla fine di dicembre del 1097 presso Antiochia molti Turchi «summo diluculo» si preparano a scontrarsi con i crociati, ma sono poi messi in fuga. Nel febbraio del 1098, «summo diluculo» Boemondo di Taranto distacca gli esploratori, e il 9 agosto 1099 i crociati dispongono in una valle presso Ascalona le loro schiere per l'imminente, vittoriosa battaglia. Durante le operazioni che si svolgevano intorno a Tortona nel giugno del 1155, i Milanesi sorprendono i Pavesi a Siziano «prima della luce» e poco tempo dopo, sempre «prima che il sole sorga» viene loro resa la pariglia a Pozzol Groppo. L'esercito milanese si pone in marcia nel marzo 1160 calcolando di assalire i Lodigiani «sul primissimo far del giorno», e ancora «summo diluculo», il 24 agosto di quello stesso anno, Federico I attacca con successo un ponte di barche costruito dai Piacentini sul Po. Questi ultimi, nel marzo del 1161, entrati nel Lodigiano «al primo sorgere del giorno», colgono i cavalieri avversari ancora disarmati e separati dalle loro cavalcature; nel settembre del 1198 i Vicentini sbaragliano i Padovani a Carmignano sulla Brenta «al mattino allo spuntar dell'aurora». Farsi trovare pronti ad agire «al primo spuntare del giorno» è perciò una prerogativa di tutti i buoni guerrieri, quali certo erano quei Francesi che - secondo il Tolosano - sopraggiunsero nel 1080 a dare man forte ai Faentini. Luigi VI di Francia nel 1126, appunto, all'assedio di Clermont-Ferrand, ordina «summo mane», cioè di primo mattino, un'azione che coglie il nemico di sorpresa e lo riempie di sgomento32. Ben attestata nell'XI e XII secolo, tale pratica si estende ampiamente nel successivo: ecco «di mattino, tempestivamente» i cittadini di Vicenza sconfiggere nel 1213 i loro fuorusciti a Sandrigo. All'«arbor del dia», nell'inverno del 1218, i crociati di Simone di Monfort preparano un'imboscata ai cittadini di Tolosa puntualmente messa in atto «alle prime luci del giorno», sia pure con esito pesantemente negativo per gli attaccanti. In azioni intraprese allo spuntare dell'alba si distinguono sia Federico II sia suo figlio Enzio: nel novembre 1237, durante i movimenti che porteranno alla battaglia di Cortenuova, l'imperatore «di primis-
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simo mattino» ordinò ai fanti di varcare l'Oglio; il 27, sempre summo mane», un cavaliere fu inviato a sfidare il nemico che sta„« a sua volta attraversando quel fiume. Nell'ottobre 1239 «sumV a <*
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mo mane» Federico e invece costretto a togliere il campo per porre così fine alla sfortunata campagna condotta contro i Milanesi. Di nuovo all'offensiva il 4 novembre 1245 ecco re Enzio «summo mane» passare l'Adda a guado per muovere un'altra volta contro Milano. Il primo movimento di ribellione dei Parmigiani contro l'imperatore avviene anch'esso «summo mane» e, nel corso del lungo assedio che ne seguì, «un mattino allo spuntare dell'aurora» un reparto si avvicina «d'improvviso e furtivamente» a una porta della città, lancia una catena munita di uncini contro lo steccato difensivo svellendolo per la lunghezza di tre pertiche, ma nonostante l'ora, la sorpresa non riesce. Anche Ezzelino da Romano nel febbraio del 1237 sconfisse i Padovani a Cartura attaccando «summo mane» o, come dicono altri, «nelle ore mattutine prima dell'alba». I Bresciani nel 1242, in pieno inverno, muovono vittoriosamente all'assalto delle fortificazioni di Palazzolo sull'Oglio «all'avvicinarsi del giorno»; altrettanto riuscita fu l'azione con la quale «summo mane» i Pavesi, nel 1265, riuscirono a penetrare in Vercelli nascosti entro carri di paglia. E infine «de nocte circa diem» nell'Oltrepò pavese, nel giugno del 1283, uomini di Zavattarello penetrano nel castello di Monte Piogio impadronendosi di una grande preda. L'attacco all'alba rimane una pratica costante e costantemente efficace nel corso del tempo. Jean de Bueil racconta una tipica «corsa» fatta nella prima metà del Quattrocento da un reparto di cavalleria francese destinata a colpire sul far del giorno una città occupata dal nemico. I cavalieri, che hanno marciato di notte, rimangono fermi in vista dell'obiettivo alla giusta distanza per impedire che le sentinelle sentano nitrire i loro cavalli. Ecco l'alba: le porte della città vengono aperte e la guarnigione, ignara del pericolo, manda fuori i cavalli all'abbeverata. Gli aggressori scattano e facilmente se ne impadroniscono: subito si scatenano le grida degli assaliti, dalle mura risuona l'allarme e accorre un drappello di cavalieri; ma la mossa era prevista: essi in parte vengono catturati, in parte respinti mentre il grosso degli attaccanti, prima che il sole sia alto, è già lontano con la preda. Il colpo, organizzato con un perfetto calcolo dei tempi, è pienamente riuscito33.
V IL CORPO DEL SOLDATO
1. Il cibo
1.1. La sobrietà militare. Dopo un intero giorno di combattimenti ininterrotti contro i Goti che avevano assediato Roma, «a notte alta Belisario era ancora digiuno, e la moglie e gli intimi che gli stavano intorno lo forzarono a stento a mangiare un pezzo di pane». L'esemplare sobrietà del grande comandante in capo dell'esercito bizantino, segnalata da Procopio, ha riscontro attraverso i secoli nel comportamento di altri prestigiosi capi militari: Ottone Morena ci ha lasciato l'immagine di Federico I che il 26 settembre 1167, nella necessità di spostare rapidamente un'azione in corso dal Milanese al Piacentino, si intrattiene brevemente fuori di Pavia presso San Pietro in Ciel d'oro dove consuma qualcosa senza nemmeno scendere da cavallo, per proseguire subito verso iTponte che era stato appositamente allestito sul Po. Rolandino da Padova ci mostra nel 1236 Federico II, in mezzo ai suoi cavalieri in assetto di guerra, sostare presso San Bonifacio il tempo necessario per addentare un panino e continuare la marcia verso Vicenza. Ed ecco Francesco Sforza ritratto nel 1449 da Bernardino Corio mentre sta per ottenere la resa di Milano, «così a cavallo, perché per la moltitudine non potevano scendere», sfamarsi con «alquanto pane di miglio» dopo il quale «modestissimamente bevette»1. Sono altrettanti medaglioni esemplari di sobrietà militare richiesta dalla necessità del momento che impone di non interrompere 1 azione per consumare un pasto normale, anche quando le nsorse alimentàri disponibili lo permetterebbero (e non è sempre
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il caso); un comportamento del resto coerente con un'educazione che tradizionalmente vuole il guerriero pronto a soffrire la fame e la sete, insieme con le avversità atmosferiche e gli eccessi di temperatura. Un efficace addestramento, intrapreso sin dalla più tenera età, doveva infatti abituare il futuro combattente a ogni disagio imposto dalla guerra. Presso i Franchi - scriveva Rabano Mauro alla metà del secolo rX~-~si educano i cavalieri abituandoli già dall'adolescenza «a sopportare le durezze e le avversità, a soffrire la fame, iTfrèddo e il calore del sole»; la stèssa usanza corre in seguito" nelle città italiane: ai ragazzi di Bergamo, nei primi decenni del XII secolo, viene imposto di sostenere il peso delle armi, la sete e la fame tanto sotto il sole d'estate quanto durante i rigori dell'inverno, e i cittadini pisani che nel 1113 intraprendono la conquista delle Baleari sono descritti come uomini «che tutta quanta trassero la vita / nell'armi e a sopportare erano avvezzi / fatiche, gelo e ardore. Fiera grandine / o neve o pioggia mai smovea colui che assaliva con impeto i nemici / e le muraglie. Gioventù ammiranda per la forza dell'animo e per l'armi. / L'ingordigia del ventre in odio aveva / e la troppa quiete». Tale ideale di combattente, certo influenzato da tradizioni classicheggianti, fu integralmente ripreso durante l'età umanistica: all'inizio del Quattrocento Pier Paolo Vergerio si proponeva, sull'esempio degli antichi, di formare giovani «educati nella caccia, nella corsa, nel salto, a soffrire la fame e la sete, a tollerare^ freddo e il caldo, perché così esercitati si potessero facilmente preparare alle cose di guerra». E nelle corti di Mantova e di Ferrara, fra i giovani di condizione elevata, fu effettivamente diffuso un tipo di educazione che perseguiva l'intento di abituare <
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so il quale erano passati molti degli uomini poi assurti ai vertici del comando nell'Italia del Quattrocento: «Al soldo yannpcoji. eterna fame, / imparan l'arte, e col sbatter de' denti»j dormono JéTTerba e nello strame sotto i cavalli scaldandosi al fumo del letame, si nutrono di pane, acqua e aglio con l'«appetito per sapo= re» rompendo senza attendere di tagliare; si alzano avanti il giorno" camminano scalzi anche d'inverno, con i capelli imbiancati dal ghiaccio e dalla brina, in tempo per ritrovarsi davanti al nemico sul far dell'alba. Del resto già negli anni 1376-78 si era decantata la bravura dei mercenari italiani in quanto uomini «abituati a patire il calore del sole e i rigori dell'inverno, a sopportare lungamente la fame, temprati a tutte le altre durezze, esperti in battaglia e nell'esercizio delle armi». Se un tale ritratto non è pura retorica, possiamo concludere che la realtà della vita militare produceva risultati non diversi da quelli che si ottenevano attraverso l'educazione umanistica più raffinata. Il cliché di una dura vita condotta dal soldato di professione trova consonanza, certo non casuale, con quanto Carlo il Temerario diceva di se stesso come uomo di guerra: quando i borghesi dormono egli veglia, quando essi stanno al caldo egli è esposto alla pioggia e al vento, e mentre bevono e mangiano egli è costretto digiunare 2 . Gli fa eco, all'inizio del Cinquecento, il poeta francese Pierre Gringoire, cantore di soldati che «patendo fame,jete, caldo, freddo e la polvere / la pioggia e anche la hever la folgore crudele; / le membra madide, i corpi gelati», vengono talvolta «appesi e flagellati / dai governatori e dal loro capitano». Disagi reali che, al di là della retorica e dei luoghi comuni sempre in agguato, assumevano dunque un valore formativo non inferiore al1 addestramento riesumato per via colta dal pensiero umanistico. 1.2. La carne e il pane. Pur in mancanza di un'organizzazione logistica che provvedesse in modo continuativo e soddisfacente alla sussistenza delle truppe operanti, non sempre questa era lasciata alle requisizioni e ai saccheggi a danno dei civili. I jsoldati 5sLssercito; carolingio dovevano presentarsi alla chiamata con viverj_per tre mesi e ogni mobilitazione era accompagnata da carri c é£ichijdi farina, vino e altre derrate alimentari La tappezzeria di —^_UX ci m o s t r a nel 1066 l'esercito di Guglielmo il Conquistato-
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re prepararsi alla spedizione d'Inghilterra imbarcando botti di vino, ciò che non escludeva affatto la necessità di vettovaglìarsTirr territorio nemico: poco dopo lo sbarco infatti, informa la stessa fonte, la cavalleria «si affrettò verso Hastings per razziare cibo». Si tratta di una regola che vediamo applicata anche nel mondo precomunale italiano: in quello stesso anno 1066 il capopopolo Erlembaldo, chiamando alle armi i Milanesi, sottolineava la necessità di portare con sé il necessario per vivere: «I messi corrano perciò velocemente tutto intorno ed esortino a radunarsi armati coloro che sono atti alla guerra; i rustici siano avvertiti di venire qui con i carri in modo che gli uni combattano e gli altri trasportino le armi e le vettovaglie». Nei secoli XII e XIII nell'Italia centrosettentrionale non sono rare le notizie, per lo più incidentali, di carri con i quali gli eserciti cittadini si portavano al seguito «cibi e armi», «pane, vino e altre cose». I crociati antiezzeliniani procedono nel 1256 contro Padova dopo aver caricato i loro carri con armi e vettovaglie, e poco più tardi essi stessi catturano «circa quaranta carri di vino con bifolchi e buoi» che il capitano di Bassano destinava al loro avversario Ezzelino. I Bolognesi appartenenti al partito dei Geremei si sbandano nel 1278 presso Imola abbandonando i loro carriaggi pieni di «pane, vino, tende e trabacche»; anche l'esercito fiorentino nel XIII secolo portava con sé sacchi di pane alla cui fornitura e trasporto provvedeva una speciale commissione; ogni uomo mobilitato, con il soldo che percepiva, era tenuto a procurarsi a pagamento viveri al «mercato» dell'accampamento organizzato appunto dai «signori del mercato dell'esercito»3. E su un analogo «mercato», cioè sulla fornitura di viveri in congrua quantità e a prezzo contenuto, potevano contare, entro un raggio più ampio e sulla base di accordi preventivi, le forze impegnate fuori del proprio territorio, anche se non sempre l'organizzazione funzionava nel modo voluto e prevalevano talora l'impreparazione e l'imprevidenza. Nel 1305 duemila fanti dell'esercito comunale astigiano in missione a poca distanza dalla città, in territorio appartenente al marchesato di Monferrato, si trovarono sul far della notte nei pressi di Pontestura i cui abitanti accettarono di farli entrare a patto che non nuocessero loro in nulla. «Sentito ciò - scrive il cronista Guglielmo Ventura, che per l'occasione fungeva da capitano - il popolo astigiano fu pieno di furore
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non trovando altro da mangiare che rape», e si sfogò coprendo l'improvvisato comandante di bestemmie e di improperi: era più affar suo, gli fu detto, vendere pepe che far morire il popolo di fame- né avevano tutti i torti poiché Guglielmo Ventura era appunto un negoziante che aveva dovuto ingegnarsi a capeggiare un esercito. Anche le forze del principato di Liegi, quando agivano in spedizioni a breve raggio e all'interno del loro territorio, si portavano al seguito le vettovaglie necessarie, mentre fuori dei confini contavano di vivere sfruttando le risorse altrui. Se è difficile provvedere al mantenimento di forze, pur non numerose, che agiscono a breve distanza" dalle: loro basi, i problemi diventano gravi quando il numero degli uomini mobilitati aumenta ed essi sono costretti a spostarsi per territori sconosciuti e potenzialmente ostili: tale era la condizione degli eserciti tedeschi che scendevano periodicamente in Italia. Federico I, diretto nel \ 1154 dalla piana di Roncaglia (abituale luogo di raccolta delle forIze imperiali) verso occidente doveva, secondo gli accordi, essere vettovagliato dai Milanesi. La prima tappa era fissata a Landriano, ma «in quella notte i cavalli non ebbero quasi nulla da mangiare» così che l'imperatore indispettito rimandò indietro nudi i panettieri e i negozianti che gli avevano portato le vettovaglie. Nella tappa successiva i viveri mancarono quasi del tutto tanto per i cavalli quanto per gli uomini, e allora Federico ordinò di sgombrare il vicino castello di Rosate per far posto a lui e ai suoi cavalieri, i quali «non potendo sfuggire alla fame», volevano tutto ciò che vi era da mangiare: l'intera popolazione fu così costretta ad ^abbandonare le case sotto la pioggia battente e il centro abitato venne depredato, arso e distrutto. La necessità di viveri, come spesso accade, offre qui dunque il pretesto per un saccheggio che assume anche il valore di una rappresaglia contro la malizia dei Milanesi preannunciando l'imminente collisione fra essi e l'impero4. ^ I problemi di vettovagliamento e il superamento di gravi crisi alimentari pesarono su tutte le spedizioni che gli Occidentali compirono in Terrasanta, a cominciare dalla straordinaria vicenda della prima crociata, i cui protagonisti erano del resto stati preavvisati dal papa che li aveva sollecitati a intraprendere l'impresa: «Fratelli, dovrete soffrire molto nel nome di Cristo: miseria, povertà, nudità, persecuzioni, infermità, fame, sete e altri mali di questo genere». Soffrirono infatti, e non da soli, poiché le popò-
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lazioni locali lungo il percorso furono spesso costrette a fornire controvoglia i mezzi di sussistenza. La marcia verso il lontano obiettivo, nella relazione che ce ne ha lasciato l'Anonimo, è tutta scandita fra momenti di relativa^bjbgndanza, corrispondenti alla possibilità drvettovagliarsi, in modo quasi sempre imprevedibile" " e aleatorio, e prolungate carestie che misero continuamente inTFor-" se la stessa sopravvivenza della spedizione. Fame e abbondanza si alternano del resto in modo assai simile anche nel racconto delle crociate successive. In un mondo in cui il pericolo della fame era costante, il passaggio di un esercito numeroso era sufficiente a provocare carestie «artificiali» di cui i suoi componenti erano nello stesso tempo la causa e le vittime, e che inevitabilmente coinvolgevano l'intera /"popolazione. Una regione per quanto ricca, che avesse sopportala to una protratta attività militare, rischiava infatti di esaurire le ^ proprie risorse: l'Italia settentrionale, dopo aver subito le campagne condotte da Federico I negli anni fra 1158 e 1160, appariva «gravemente compromessa da due anni di continue operazioni durante le quali l'esercito, nelle frequenti rapine e scontri con il nemico, non aveva potuto risparmiare neanche gli amici»; l'imperatore giudicò pertanto ragionevole «lasciare riposare e respirare alquanto quella terra», non per ragioni umanitarie ma perché essa, «rimessa a coltura, l'anno dopo potesse di nuovo sostenere disgrazie e ricevere e nutrire più facilmente un altro esercito». • Nell'Europa altomedievale si era imposto, in generale, un modello alimentare che faceva della carne e del pane i cibi primari e Indispensabili; a tale modello, rimasto costante nel corso dei secoli, pur attraverso inevitabili variazioni dovute alla cultura e alle differenze sociali, si uniforma anche l'alimentazione «militare», ammesso che sia davvero possibile distinguere un modo di nutrirsi speciale per coloro che erano occasionalmente o professionalmente sotto le armi. Picche cosa si cibavano (quando potevano farlo, s'intende) gli uomini che conclusero vittoriosamente la prima spedizione d'Oriente? Nell'apprezzamento che l'Anonimo mette in bocca all'emiro Kerboga, essi «mangiano in un solo pastoduemlla[vacche e quattromila porci»: il contesto, per quanto non deltutto chiaro, è sufficiènte a indicare la preferenza data alI la carne bovina e suina accanto alla quale, oltre al pane, non è pos\ sibile scorgere molto altro.
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Le provviste di cui i crociati lombardi e tedeschi si impadroniscono nel 1096 a Xerigordo sono costituite da «frumento, vino, carne e ogni altra sorta di beni in abbondanza»; duranteTintero 'svolgiménto della spedizione 'occasioni simili a questa sono documentate per una dozzina di volte: in esse grano, farina e pane sono espressamente nominatijtredici volte, sette volte il vino, quattro volte là carne (o le bestie da cui ricavarla); l'orzo (probabiF mente destinato ai cavalli) è menzionato tre volte, e così l'olio; una volta sola compaiono il formaggio e i frutti degli alberi. Fra i crociati assediati nel 1098 dai Turchi in Antiochia circolavano (per chi aveva modo di comprarli a prezzi maggiorati) pane, vino, polli, uova e noci; nel marzo del 1099, ormai sulla strada di Gerusalemme, essi furono costretti a nutrirsi ditole fave novelle;,il consiglio dei grandi decise perciò, con avvedutezza, di completare la marcia verso l'obiettivo finale solo quando sarebbe stato disponibile il nuovo raccolto. Nei drammatici momenti di carestia si ricorrre naturalmente a cibfdl emergenza: durante la penosa marcia in Asia minore nell'estate del 1097 i componenti della spedizione si adattano a cibarsi di piante spinose strappate e sfregate tra le mani, ma il colmo viene toccato nel gennaio del 1099: dopo aver preso d'assalto la città di Marra, i cadaveri dei Turchi vennero sezionati, innanzitutto per trovare i bisanti d'oro che essi avevano inghiottito, ma con l'occasione taluni «tagliarono le loro carni a pezzi e le fecero cuocere per mangiare», a conferma che, come in altri casi, le condizioni alimentari di assediami e assediati finivano non di rado per coincidere. Ancora più gravi, naturalmente, furono i disagi e i patimenti provocati dalla scarsità di acqua5. La crociata «lombarda», partita da Milano nell'anno 1100 con l'intenzione di conquistare Bagdad, aveva ottenuto il permesso di comprare e vendere vettovaglie sulle terre dell'impero bizantino: in Bulgaria l'esercito potè così avere grande disponibilità di pane, vino e carne; ma la facoltà di commerciare rimaneva un'arma nelle mani dell'imperatore che, sospendendola a sua scelta, in seguito ridusse rapidamente i crociati alla fame. A Nicomedia, prima di avventurarsi in territorio nemico, chi potè fece provvista di farina, pane, carne secca e bacones, cioè prosciutti. Non appena fu costretta e procedere per luoghi solitari e desolati, la massa «dell' esercito fu però ben presto a corto di viveri: soltanto di rado
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era possibile procurarseli mediante razzie, e normalmente si dovette sostentare con frutti selvatici, bacche e spighe di orzo non ancora maturo; chi si avventurava lontano dal grosso per cercare cibo veniva immancabilmente ucciso dai Turchi in continuo agguato. La penuria raggiunse un punto tale che una pelle di bue fu pagata 20 soldi, un panino grande quanto una mano venne valutato 3 soldi lucchesi, e le carogne di cavalli, muli e asini furono vendute sino a 6 marchi. La spedizione si avviò così verso il suo completo fallimento. A Federico I, in marcia per la Terrasanta nel maggio del 1189, re Bela di Ungheria fa omaggio di battelli e di carri «carichi di pane, vino e orzo per il nutrimento dei cavalli, nonché di buoi e di pecore», provvedendo inoltre a distribuire farina e avena ai pellegrini poveri. Andando avanti i crociati trovano però ben altra accoglienza: salvatisi a malapena dal vino intossicato che viene loro insidiosamente offerto, devono fare i conti con i ladri di bestiame, e poi ecco la fame in agguato, contrassegnata, anche qui, dall'aumento di prezzo della carne e del pane; solo raggiungendo la città di Iconio «l'esercito si rifece in pane e carne oltre che in burro e in formaggio». I problemi non cambiano di molto per coloro che si muovono per mare. Dalle navi pisane sbarcate a Ibiza nel marzo del 1114 scendono «uomini del volgo / di predare bramosi e di fornirsi / di cibo» che, entrati nelle capanne, «si saziano di vino saraceno / e con gusto divorano uva passa / e fichi»: il bisogno di cibi freschi dopo lunghi giorni passati a bordo li porta a esercitare le loro prepotenze sui malcapitati abitanti mentre altri assaltano l'isola di Formentera «e vi trovano viveri, conforto / di una facile preda e grassi bovi / di cui saziarsi avrebbero potuto» se non fosse stato tempo di Quaresima. A Maiorca nell'agosto fecero incetta di vino «assai più presto del consueto», e mentre i «forti eroi» sono impegnati nell'assedio della città, l'«ignavo volgo» - sottolinea con non celato disprezzo il poeta - si occupa invece dei forni: «Con quanto zelo si vendono pani / e tutto ciò che riempie la scarsella!». Ma presto il vino venne a mancare, e dopo che «le schiere non più il vino / bevevano, ma l'acqua, erano incorse in malattie. / Per i mutati cibi / del ventre i flussi avevano recato / molto danno». I capi di quella che doveva poi essere nota come la quarta cro-
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ciata concordarono nell'anno 1200 con i Veneziani di imbarcare viveri per nove mesi. Per ogni uomo erano previsti «stara VI infra pane et farina et biave et legumi; et meza amphora de vino. Et per zaschaduno cavallo moza trenta alla mesura venitiana, et aqua quanto bisogna». Nel consiglio tenuto appena sbarcati a Costantinopoli il doge Enrico Dandolo lapalissianamente sentenziò: «Colui che ha viveri combatte con più sicurezza di chi non ne ha». Voleva essere un invito a provvedersi di abbondanti vettovaglie, ma in realtà per tutta la durata dell'impresa - rivelano le pagine di Goffredo di Villehardouin - a provvisorie abbondanze alternarono periodi di grave penuria: il pane e la carne erano forniti da occasionali razzie non sempre riuscite, così che in un momento cruciale quale fu l'assedio di Costantinopoli, i crociati «non avevano la possibilità di andare a procurarsi viveri a quattro tiri di balestra dal campo, e ne avevano molto pochi, eccetto la farina e i salumi; e di questi ne avevano pochi, e di carne fresca non ne avevano affatto, eccetto quella dei cavalli che rimanevano uccisi, e sappiate che in tutto l'esercito avevano viveri per non più di tre settimane»6. Nei primi decenni del Duecento per i crociati antialbigesi e per i loro avversari sembra invece prevalere l'abbondanza, soprattutto attraverso la ricchezza e la varietà delle carni disponibili. Sotto Carcassonne i viveri non mancano, e per quanto 30 pani costino un denaro, i crociati si rifanno sul prezzo del sale fornito dalle vicine saline; all'arrivo del re d'Aragona si festeggia con carni arrostite, e un altro ospite viene accolto «con abbondanza di bue e di maiale». Non è raro anzi che risuonino toni da paese di Bengodi: all'assedio di Moissac, grazie alla generosità del conte Baldovino, «si mangiano oche e molti capponi arrosto» e vi è profusione di vino e di ogni sorta di viveri. Anche gli abitanti di Terme, sottoposti ad assedio nel 1210, dispongono di «carne fresca, lardo salato (bacon), vino e acqua per bere e pane in quantità». Il conte di Foix non perde occasione per vantare al papa le risorse del suo castello ben fortificato e ricco di pane, vino, carne, biade, insieme con «l'acqua limpida e gradevole che esce dalla roccia». Quando poi, nell'aprile del 1216, Simone di Monfort viene in soccorso di Beaucaire assediata, raduna con facilità buoi, vacche, porci, montoni, oche, polli, pernici, capponi e altra selvaggina, grano, farina e vino di Genestret «in tale abbondanza che si sarebbe creduto di essere nella terra promessa». I consoli di Tolosa,
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bloccata per la seconda volta dai crociati nel 1219, promettono che tutti i partecipanti alla difesa riceveranno con larghezza e gratuitamente «pane, carne, buon vino di cantina, avena e orzo per moggia e staia, pepe, cannella e frutta di frutteto»; essi non avranno che da dire: «Bocca, che vuoi?». La situazione di disagio si ripete, in compenso, durante la crociata egiziana di Luigi IX di Francia: quando le navi musulmane, dopo la Pasqua del 1250, riuscirono a bloccare i rifornimenti che giungevano per via fluviale, l'esercito piombò nella carestia: Joinville lamenta il rincaro di buoi, montoni, maiali e vino, ma tace sul grano probabilmente perché, per il livello sociale a cui egli apparteneva, l'approvvigionamento non costituiva un problema. Più austero, naturalmente, il quadro alimentare offerto dai consigli di Egidio Romano per il vettovagliamento di una fortezza che si propone di resistere a un assedio; essi risentono, è vero, della trattatistica tardo-antica, ma non senza apporti originali di valore generale. Ci si deve provvedere innanzitutto di frumento, avena e orzo; fra i cereali si raccomanda però in modo speciale il miglio che ha la proprietà di conservarsi più a lungo. SeryoryxpoL™-. sale e carni salate; le bestie non indispensabili possono essere macellate e consumate o messe a loro volta sotto sale tenendo tuttavia presente che, in caso di prevedibile necessità, sarà giocoforza nutrirsi anche di cibi solitamente ritenuti non commestibili. È necessario disporre di acqua di fonte, di pozzo o di cisterna, certo, ma anche di grandi quantità di aceto e di vino «perché con il bere solo acqua i guerrieri non si debilitino». Oltre ai cereali panificabili e alla carne, il combattente non può dunque fare a meno del vino, e ogni cosa, è ovvio, deve essere giudiziosamente razionata sin dall'inizio. Raimondo Muntaner, responsabile nel luglio del 1305 della difesa di Gallipoli, nel momento in cui venne attaccato dai Genovesi fece disporre lungo le vie «botticelli di vino ben annacquato, aceto e pane in quantità perché chi voleva mangiare mangiasse»: niente carne, come si vede, e se il cuoco cucina polli, lo fa solo per i feriti. La dieta alimentare cui questi ultimi dovevano attenersi fu oggetto di discussione fra i medici del Duecento, e Lanfranco di Milano ne fece il punto nel 1296 nella sua Chirurgia magna: fra quelli che somministrano indistintamente «buon vino e buone carni di cappone, galline e anitre», e gli altri che li trattano invece
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a pane, acqua e mele cotte almeno per dieci giorni, egli ritiene necessario distinguere. All'inizio è bene che il ferito si astenga dal vino, specialmente se la lesione è al capo o in una parte ricca di nervi; bevande e decotti vanno bene per tutti, ma vi è poi differenza fra le persone «di calda e umida complessione» che, salvo in particolari casi, è meglio si astengano da carne, pesce, uova e latte Coloro che sono invece «di complessione fredda e secca» e di stomaco debole potranno assumere carne e, dopo tre giorni, anche vino7. 1.3. Razioni alimentari. È possibile parlare di razioni alimentari militari in senso proprio e del loro valore nutritivo? Alla proverbiale sobrietà degli Almugavari catalani, dice Raimondo Muntaner, poteva bastare un pane per ogni giorno di cavalcata, e anzi «di quel pane, acqua e poche erbe hanno anche troppo per il loro bisogno». Quando essi si risolvono a partire per la Grecia, nondimeno, il re d'Aragona assegna per ogni uomo, donna e bambino «un cantaro di biscotto a testa e dieci libbre di cacio, e per ogni quattro persone un porco salato, agli e cipolle»: si trattava però di provviste di bordo per il periodo della traversata e non di razioni di guerra. Più tardi lo stesso re approvvigionava il presidio di Girona con «montoni salati, porci vivi e galline pei malati». Un cenno alle razioni militari è contenuto nel trattato sul diritto di guerra composto a Siena nel 1445 dal giurista Martino Gagati: aTsóTdàto spettano pane, biscotto (bucellatum), vino, aceto, lardo; e se per due giorni ha avuto biscotto, al terzo gli deve essere dato pane integro; un giorno vino l'altro aceto; un giorno lardo jTaTtri due carne. In realtà si tratta di un ricalco fedele del codice di Giustiniano che riflette dunque, non la situazione del XV secolo, ma gli usi dell'esercito romano tardo-antico. Soltanto negli ultimi due secoli del Medioevo è possibile, in base alla documentazione e in modo meno vago, parlare del regime alimentare dei militari in servizio. In Francia le differenze fra il vitto in tempo di pace, in tempo di guerra e in una fortezza assediata non cambia di molto, né si registrano mutamenti significativi dovuti all'epoca e alla regione. Come nei secoli precedenti continuano in generale a predominare la carne e il pane, quest'ultimo prodotto con «grano», intendendo per tale i cereali superiori: soprattutto frumento, seguito da mistura, segala e miglio. Il pane
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può essere sostituito da biscotto; i cereali inferiori, i piselli e le fa{ ve sono assunti come pappe o potages. La carne, fresca, salata o affumicata, è soprattutto bovina, ma non mancano gli ovini e i maiali. Prevale il pane bianco e la carne abbondante; tra i condimenti, oltre al lardo, si può trovare il burro. La convinzione di origine «barbarica» che il guerriero debba nutrirsi di buona carne, se possibile arrostita, e di vino fortificante, venuta in auge nell'alto Medioevo, perdura a lungo nel tempo: il cronista senese che nei primi decenni del Quattrocento rievoca la vittoria ottenuta dai suoi concittadini a Montaperti nel 1260, tiene a precisare che l'esercito senese in campagna riceveva allora le vettovaglie direttamente dalla città, e si trattava di «buoni e perfetti vini che si trovavano in Siena co' molti arrosti di carne, di polli e pipioni di tutte le migliori cose si poteva avere. Così si portava in campo tutte arroste, la cagione perché fero tutte le carni arroste fu perché fanno l'uomo forte, acende la sete e fa l'uomo vigoroso e non agrava la persona». ' Dovendo rispettare l'astinenza imposta d'ufficio (il digiuno sembra, al contrario, fosse poco osservato), alla carne subentrano pesce affumicato o salato oppure uova e formaggio. Ricorrono i spesso il sale, l'aceto, l'aglio e la cipolla, ma rare sono le spezie e i dolcificanti, riservati ai malati. Il vino, bevuto quotidianamente dai capi e dai cavalieri, spetta alla truppa solo nei giorni festivi e di combattimento, mentre in Francia essa deve normalmente accontentarsi al Nord di birra e all'Ovest di sidro. Si è parlato di un regime alimentare militare «monotono, abbondante e squilibrato», ma le razioni giornaliere per persona risultano fornire un numero di calorie più che soddisfacente: regime ricco, dunque, anche se «più robusto che raffinato». Il vino, come si è visto, viene normalmente considerato bevanda indispensabile per i combattenti, sia per il valore nutritivo sia per le sue qualità igieniche rispetto all'acqua; il fatto che esso venga distribuito alla truppa nei giorni di combattimento potrebbe far pensare alla ricerca di una funzione eccitante: l'alcool è stato infatti considerato tra i fattori «propri, in generale, delle battaglie» essendo probabile che molti soldati «si gettassero nella mischia nient'affatto lucidi, anzi completamente ubriachi». Ma nelle fonti a noi note non si accenna mai esplicitamente a tale eventualità; il vino anzi, al contrario, viene semmai distribuito alla se-
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per riconfortare e conciliare ai combattenti il sonno dopo una giornata trascorsa in battaglia. Anche negli ultimi secoli del Medioevo la realtà non era sempre e soltanto costituita da ricche e nutrienti razioni: il Governo et exercitio de la militici scritto nel 1476 da Orso Orsini raccomanda l'importanza di pagare per tempo i soldati, ma rileva anche che, prima ancora del soldo, occorre non far loro mancare il pane. Il principe e i suoi ufficiali devono perciò, secondo il bisogno, mettere in atto «omne opera possibile dar più tosto lo pane o biscocti», specialmente ai fanti che hanno minori possibilità di provvedersene da soli; e il pane non deve essere di bassa qualità «perché è una pestifera cosa et grande sbigottimento d'uno exercito riavere tristo pane». Insieme con esso ci vogliono poi «bone acque» poiché «quisti dui mancamenti repugniano a la natura, et sono insupportabili». Una volta che l'esercito avrà buon pane e buona acqua, «facilmente se possono menare dirieto a li campi carni vive per lo uso et bisogno occorrente». Assicurate «queste tre cose, ogni altro mancamento de victuaglie non pò nocere, et sensa pericolo et damno de lo exercito se ce pò fare provisione». Siamo piuttosto lontani dai sostanziosi menù occorrenti altrove, e più vicini alla quotidiana realtà di rinunce cui l'uomo d'armi, secondo la tradizione, doveva comunque essere preparato8. 1.4. La tattica del pasto. L'ineliminabile necessità dell'uomo di assumere cibo non manca in guerra di avere le sue implicazioni tattiche. Alla battaglia di Tagina nel 553 Goti e Bizantini, prima dello scontro, rimasero a lungo schierati gli uni di fronte agli altri e Narsete vietò a tutti «di prendere il rancio, di fare un pisolino e persino di togliersi la corazza o di liberare il cavallo dal morso. Non li lasciò tuttavia completamente digiuni: ordinò di fare uno spuntino restando nei ranghi e armati». Egli temeva evidentemente che l'avversario potesse coglierlo di sorpresa mentre i suoi consumavano il pasto, espediente peraltro già previsto dai trattatisti antichi e al quale si fa costantemente ricorso durante i secoli. Gli stessi Goti a Roma «aspettarono il momento del rancio e, portando scale e fuoco, mentre i nemici meno se l'aspettavano» tentarono di superare le mura della città; la sorpresa fallì solo grazie ali efficiente servizio di guardia. L'accorgimento risulta praticato nel IX e X secolo tanto dai Saraceni quanto dagli Ungari. È
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l'agosto dell'846 quando un corpo di spedizione arabo sbarca a Ostia e occupa la città; la vicina Porto è presidiata da Sassoni e da Frisoni accorsi da Roma ma, mentre le guardie si stanno rifocillando, i Saraceni «irrompono fulmineamente su di loro, le circondano e le uccidono». Erano trascorsi poco più di 50 anni quando il 20 settembre 899 l'esercito italico di Berengario I deve fronteggiare gli Ungari, giunti questa volta per via di terra da Oriente: essi vengono volti in fuga e inseguiti sino alla Brenta; la vittoria pare già certa allorché i nemici, pur inferiori di numero, «disposte imboscate in tre parti», passato il fiume, piombano sui nostri - colti anche qui nel momento critico del pasto - e li colpiscono con tanta celerità da «trapassare ad alcuni il cibo in gola». Degli Italici pochi si salvano e gli Ungari, rimasti padroni del campo, sono così liberi di esercitare le loro violenze per un anno intero in tutta l'Italia settentrionale. Pochi decenni dopo, il 15 giugno 923, il re di Francia Carlo il Semplice attaccò a Soissons Roberto I di domenica, verso mezzogiorno, proprio mentre molti dei suoi erano intenti al pasto, ma senza che ciò risultasse determinante per la vittoria. In Normandia nel 1098 Guglielmo il Rufo sorprese invece con successo gli uomini del conte di Ballon a tavola e senza armi; Simone di Monfort arrivò addosso a coloro che assediavano Muret il 12 settembre 1293 mentre «stavano pranzando e i cavalieri erano disarmati» avendone facilmente ragione, premessa alla grande vittoria conseguita poi in quello stesso giorno9. L'espediente è ben noto anche nell'Italia comunale: il 20 giugno 1270 gli uomini della vai di Taro, in tutto quaranta cavalieri e cinquecento fanti «probi e forti», sbaragliano forze piacentine e dei Fieschi molto superiori approfittando proprio del momento in cui «quelli dell'esercito andavano a pranzo». Molto più clamoroso fu il successo riportato, dodici anni dopo, da Guido di Montefeltro contro i mercenari francesi entrati proditoriamente in Forlì, i quali vennero sorpresi il 1° maggio 1282 «mentre erano a pranzo» e sterminati. Sempre all'ora del pasto certi mercenari tedeschi al soldo dei Genovesi, che pretendevano paga doppia in seguito a una vittoria, irruppero su di loro nel giugno del 1316 e ne uccisero più di cinquecento. Si tratta sempre di imprevidenza da parte dell'aggredito oppure il momento del pasto era talora considerato di tregua e quin-
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di normalmente, per tacita convenzione, si evitava ogni attacco? Quest'ultima eventualità parrebbe suggerita da quanto accadde a Lodi il 18 luglio 1160. Quel giorno i Milanesi tentarono un ennesimo assalto contro la città e per tutta la mattina cercarono con ogni mezzo di forzarne le difese, sempre fieramente ostacolati dagli abitanti; le ostilità vennero però sospese da entrambe le parti per il pranzo e poi, «avendo i Milanesi mangiato», le operazioni ripresero regolarmente nel pomeriggio con eguale accanimento. In modo non diverso, in certi periodi, ci si comportava per la guerra notturna: si doveva peraltro trattare di consuetudini locali non generalizzate, variabili nel tempo e nello spazio e che quindi potevano dar luogo a violazioni senza alcun bisogno di preavviso. Secondo Giovanni Villani, prima che nel 1302 il re di Francia affrontasse i Fiamminghi a Courtrai, alcuni «capitani di soldati e balestrieri forestieri, molto savii e costumati di guerra», fra i quali vi erano Simone di Piemonte e Bonifacio di Mantova, proposero al conestabile di Francia una tattica basata sulle abitudini alimentari per vincere la «disperata gente e popolo de' Fiamminghi» senza mettere a repentaglio «il fiore della cavalleria del mondo». Dal momento che i nemici si erano accampati fuori della città lasciando al suo interno bagagli e provviste, i Francesi avrebbero dovuto rimanere schierati con i loro cavalieri mentre i «Lombardi» avrebbero tenuto impegnati i Fiamminghi per gran parte del giorno, e siccome costoro - dicevano - «sono di gran pasto, e tutto dì son usi di mangiare e di bére; tenendogli noi in bistento e digiuni, si straccheranno e non potranrio durare, e perché non si potranno rinfrescare, si partiranno dal campo a rotta da loro schiere»: sarà quello il momento di spronare loro addosso e avere sicura vittoria. Ma il conte di Artois disprezzò come sleali quei «consigli di Lombardi» e così il «fiore della cavalleria del mondo» andò incontro a una delle sue peggiori disfatte10.
2. Il sangue E previsto, anzi atteso, che in guerra ci si ferisca e ci si uccida vicendevolmente. Può certo essere motivo di soddisfazione il conseguimento di un buon risultato con poche perdite, ma una guer-
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ra in cui non scorra il sangue viene senz'altro considerata poco seria: Machiavelli, com'è noto, irrise alle «battaglie senza sangue» proprio per gettare nel discredito le milizie mercenarie dei suoi tempi, e la storiografia moderna, smentendolo, ha inteso restituire ai condottieri del Rinascimento una serietà e credibilità degne di veri professionisti della guerra. In combattimento - si è scritto - «il soldato deve accettare non soltanto l'idea di morire, ma anche quella di uccidere»; si ritiene però, in generale, che l'uomo medievale, costantemente circondato dalla violenza in ogni fase della sua vita, abbia avuto minori difficoltà nell'accettare l'una e l'altra circostanza: in un mondo in cui il diritto era imposto con la spada, le dispute tra vicini erano risolte con le armi e non era sorprendente rimanere quotidianamente vittime di aggressioni armate, ad ogni uomo verisimilmente, per tutta la sua educazione ed esperienza, l'idea di uccidere e di essere ucciso non doveva perciò ripugnare troppo. Si tratta in verità di una deduzione sillogistica e sbrigativa che avrebbe bisogno di qualche conferma. Ad ogni buon conto uccidere ed essere ucciso non era tutto poiché occorreva contemplare anche la possibilità, tutt'altro che remota, di dover soffrire a causa di ferite non letali e di uscirne con mutilazioni che portavano all'invalidità permanente, disgrazie occorre aggiungere - che potevano toccare ogni uomo anche nelle attività più pacifiche, come nel lavoro e nel gioco (o meglio in «altri» giochi e in «altri» lavori poiché la guerra sostituiva ora l'uno e ora l'altro), eventualità che ciascuno, senza essere né incosciente né temerario, cerca spontaneamente di rimuovere dalla mente. Non intendiamo qui occuparci degli aspetti morali che pone la necessità di uccidere, né addentrarci nelle reazioni che può comportare il pericolo di essere uccisi, vorremmo cioè accennare, in modo necessariamente episodico, al problema limitandoci ai suoi aspetti «corporei» e umani, ma evitando di ridurlo a puro fatto psicologico da un lato e tecnico traumatologico dall'altro. Si può uccidere, ferire ed essere uccisi e feriti in molti modi diversi a seconda dell'arma, del modo di usarla e della protezione, maggiore o minore, di cui i combattenti usufruiscono; tutti elementi non solo variabili nel tempo, ma diversificati nella contemporaneità a seconda dei fattori economici e sociali, e perciò non riducibili a precise tipologie valide in generale.
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L'epica trabocca di belle e spettacolari uccisioni tra le quali non ci sarebbe che da scegliere: ecco Orlando cavalcare a briglia sciolta contro un avversario: «Lo scudo gli spezza, gli fende la corazza, / gli trancia il petto e gli spezza le ossa / gli fende tutta la schiena: / con il suo spiedo l'anima gli strappa fuori; / affonda il ferro, gli sbrana il corpo / con tutta l'asta morto l'abbatte dal cavallo: / in due metà gli ha spezzato il collo». Né mancano i massacri collettivi in cui il sangue scorre a fiumi: «Il conte Orlando lungo tutto il campo cavalca, / tiene Durendal che bene tronca e taglia. / Dei Saraceni compie immenso massacro. / Se l'aveste visto gettare un morto sull'altro / e il sangue chiaro spandersi in pozzanghere! / Ha l'usbergo e le braccia insanguinate, / e il collo e il garrese del suo cavallo». E normale che il campo di battaglia sia disseminato di membra umane: a Ibiza, dopo lo sterminio degli abitanti, «una testa qui, una mano / là sono gambe e piedi: membra umane / amputate dai corpi avresti visto / sparse, dovunque il passo avessi mosso. / Calpestano migliaia di morenti le bellicose schiere». E dopo gli scontri presso Beaucaire «avreste visto rimanere sul terreno, cadere a brani gambe, piedi, braccia, interiora e polmoni, teste e mascelle, capigliature e cervella». Basterà pensare, per avere una conferma visiva, al suolo cosparso di guerrieri caduti e mutilati dopo la battaglia di Hastings mostrato da una sequenza famosa della tappezzeria di Bayeux11. 2.1. Il cavaliere ferito. Ma l'epica è il mondo della dismisura e in essa la morte stessa tende a farsi spettacolo per un pubblico che non disdegna affatto i particolari da grand guignol; assai più difficile, se non del tutto impossibile, assistere a ciò che normalmente viene dopo la battaglia e che, appartenendo agli aspetti più tristi e sporchi della guerra, si trascura spesso di mettere in evidenza. Le fonti scritte dei secoli XII e XIII consentono nondimeno di abbozzare una traumatologia del combattente a cavallo ben al di fuori della dismisura offerta dai racconti epici. Nel breve momento in cui due cavalieri scagliati l'uno contro 1 altro si scontrano, la lancia può raggiungere soprattutto il torso trapassandolo talora completamente, mentre è più raro che l'arma si spezzi e rimanga infitta nella ferita. L'effetto risulta meno grave se viene toccato il fianco; urtando poi lo scudo nella parte superio-
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re, la lancia può facilmente lesionare il braccio e la spalla e, in misura minore, il ventre, le estremità inferiori e la testa. L'impiego della spada che, al contrario della rapidità del colpo di lancia, può essere più volte reiterato, comporta una prevalenza di ferite alla testa. La protezione offerta dall'elmo e dallo scudo serve certo ad attenuare gli effetti dei fendenti, che comunque riescono spesso a raggiungere il viso, la fronte o la mascella dell'avversario. La spada, vibrata dall'alto in basso, può colpire con una certa facilità, dopo la testa, le spalle, le anche, le braccia e, più specialmente, il braccio destro. A parte la frattura del cranio, tutte le ferite infette, pur comportando effusione di sangue, solo raramente risultano mortali. Non sempre tuttavia le armi venivano usate come ci si aspetterebbe. Durante un duello fra due cavalieri disputato a Cipro nel 1227, uno di essi - racconta Filippo da Novara -, rotta la lancia senza essere riuscito a scavalcare l'avversario, la impugnò a metà dell'asta e vibrò tre colpi contro la visiera dell'elmo del suo nemico, «e ogni volta gli feriva la faccia con la punta»; ciò nonostante quegli riuscì ad afferrare, in prossimità del ferro, la lancia che lo colpiva con tanta forza da disarcionare l'avversario, e quando esso, nonostante la pesante corazza, riuscì a sollevarsi da terra, venne a sua volta colpito sull'elmo con la lancia in modo così grave che a quel punto il duello dovette essere interrotto. Era d'altronde possibile riprendersi rapidamente da ferite apparentemente letali: lo stesso Filippo da Novara nel 1229, sempre a Cipro, «ricevette parecchie ferite pericolose di lancia, di quadrelli e di pietre. In particolare fu ferito da un colpo di lancia che gli trapassò completamente il braccio con tutta la manica dell'usbergo e la carne, tanto che l'arma gli si spezzò sul fianco, e lo spezzone restò con tutto il ferro nel braccio». Quelli del castello gridarono: «È morto il nostro poeta, è spacciato», ma si sbagliavano: la sera seguente egli compose due strofe di canzone e «si fece portare davanti al castello, sulle rocce, e le cantò e recitò ad alta voce. Così quelli del castello seppero bene che egli non era morto». Talora, al contrario, basta un nonnulla perché una lesione considerata leggera riesca invece letale. Nell'agosto del 1337 a Monselice - racconta Giovanni Villani - il parmigiano Piero de Rossi, «per dare più vigore di combattere alle sue genti, smontò da cavallo a pie con più altri cavalieri», e mentre attaccava un'antiporta «gli fu lanciata una corta lancia manesca la quale il percosse al-
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la giuntura della corazza e ficcoglisi per lo fianco». L'ardito capitano senza perdersi d'animo, «si trasse il troncone dal fianco e gittossi nel fosso per passare alla terra, credendola aver vinta. Per la qual cosa l'acqua gli entrò per la piaga, e quella incrudelita per lo molto sangue perduto, il valente e virtuoso duca spasimò». I suoi lo trassero dal fosso e lo condussero a Padova dove però venne rapidamente a morte con grave danno per tutta la Lega. Solo raramente vi è notizia di cavalieri feriti a colpi di mazza e di altre armi da botta, ma negli scontri collettivi si doveva fare i conti con l'abbondante lancio di pietre. Alla battaglia del Rio Salado, combattuta in Spagna nel 1355, secondo il resoconto dell'Anonimo Romano, oltre alle lance, alle spade e alle frecce «le prete (cioè «pietre») vrecce de fiume, de piena mano fioccavano come neve. Là erano la maiure parte Turchi li quali aitro non aveano se non fionne e prete». Qualche anno dopo l'autore stesso, a Roma, interrogò su quella battaglia un pellegrino spagnolo: «Quello disse ca nce fu, e trassese sio capiello de capo e scoperze la fronte e mustrao una sanice [cicatrice] rotonna in mieso della fronte, e disse ca quello fu colpo de preta. Un aitro, lo quale similemente adimannai, scoperze lo capo de sio cappuccio e mustraome tre sanici de colpo de spada e una nella fronte de preta». Per quanto la possibilità di studiare il combattente medievale attraverso i dati archeologici e antropologici soffra ancora di molti limiti, l'esame delle ossa scoperte su certi campi di battaglia permette di estendere quanto sin qui detto anche agli ultimi due secoli del Medioevo: di tutte le ferite rilevate sugli scheletri di coloro che caddero nel 1369 alla battaglia di Wisby (nell'isola svedese di Gotland) il 44 per cento riguarda il cranio, segnato da oggetti taglienti usati dall'alto al basso (verisimilmente spade), mentre non si notano lesioni dovute a lance; certi crani, inoltre, risultano perforati da cinque o sei quadrelli di balestra i quali ebbero dunque la forza di trapassare tanto l'eventuale protezione offerta dall elmo quanto l'osso cranico. Sui duecentocinquanta uomini inumati nel 1410 dopo la battaglia di Grunwald si sono parimenti riscontrati segni, oltre che di armi bianche taglienti, anche di frecce di balestra12. ^.2 L insidia delle frecce. Procopio ci ha lasciato memoria di cere lente, a loro modo curiose e spettacolari, toccate a corazzieri e
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scudieri di Belisario durante la guerra greco-gotica. Gli arcieri goti colpirono Cutila e Arze l'uno in mezzo al capo e l'altro fra il naso e l'occhio destro, ma non per questo essi interruppero la loro azione; infine entrambi tornarono con la freccia infitta nella ferita che tremolava sulla testa, e i loro compagni «erano stupiti dal fatto che seguitassero a cavalcare senza curarsi del male». Nello stesso giorno il massageta Boca, già ferito in un'azione precedente, si trovò circondato da una dozzina di nemici con le lance puntate che lo colpivano tutti insieme: «La corazza resisteva e le altre ferite non gli facevano troppo male», sinché uno di essi lo aggredì da tergo «indovinando un punto scoperto del corpo sopra l'ascella destra vicino all'omero», e un altro «ficcandogli la punta nella coscia sinistra, recise il muscolo» con un colpo obliquo, ma Boca fu subito soccorso e portato in salvo. Appena tornati, tutti e tre i feriti furono sottoposti a cura: i medici esitarono a intervenire su Arze «per timore di perforare le membrane e i nervi» e procurarne così senz'altro la morte, sinché il medico Teocnisto «facendo pressione da dietro sul collo, gli chiese se dolesse. Quello rispose di sì, e l'altro: 'Benissimo, ti salverai e non sarà lesa neppure la vista'. Tagliò la parte dello strale che sporgeva e la buttò via, poi, divaricando la massa muscolare nel punto più dolente, ne estrasse senza sforzo la cuspide che sporse con tre punte aguzze e si portò dietro la parte restante del dardo. Così Arze fu completamente guarito; non gli rimase neppure sul viso la cicatrice». I suoi compagni non se la cavarono altrettanto bene; quando a Cutila fu estratta l'asticciola, penetrata più profondamente, egli svenne; in seguito gli si infiammarono le meningi e in breve morì. Anche Boca, colto da una forte emorragia, morì tre giorni dopo. Singolare fu, in seguito, la vicenda del corazziere Traiano, a sua volta colpito in azione da una freccia: «Tutto il ferro si conficcò dentro e non si vedeva affatto di fuori, sebbene avesse una cuspide grande e lunghissima, la parte restante del dardo cadde subito a terra senza che nessuno la spezzasse, forse perché il ferro non vi era attaccato bene. Traiano tuttavia non si accorse di nulla e seguitò a uccidere e a inseguire i nemici come se niente fosse». Solo cinque anni dopo «l'estremità del ferro cominciò a sporgere sul volto da sé, e da tre anni viene sempre un po' più fuori. È verisimile - conclude Procopio - che fra un bel pezzo
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tutta quanta la cuspide uscirà fuori. A lui comunque non è venuto nessun fastidio». Gli episodi riportati, sia pure solo per la loro curiosità, mettono in evidenza l'efficacia e la pericolosità degli arcieri goti, lasciano intendere che i cavalieri bizantini agivano probabilmente senza un'adeguata protezione del capo e mostrano l'importanza e i limiti della corazza nel proteggere il corpo contro le ferite di lancia. Il servizio sanitario è in condizione di intervenire rapidamente ma i chirurghi, per quanto abili, si mostrano impotenti davanti al sopravvenire di complicazioni. Le fonti scritte del pieno Medioevo occidentale, al contrario di Procopio, sono piuttosto riluttanti a parlare delle ferite inferte ai cavalieri dalle armi da getto, caso che doveva essere invece frequentissimo soprattutto negli scontri collettivi e durante gli assedi. Almeno dall'XI secolo in poi, quando venne incrementandosi l'uso della balestra, gli effetti delle frecce dovevano essere spesso letali nonostante la protezione della corazza, e non troppo diversi erano quelli dell'arco composito che gli Occidentali sperimentarono su di sé durante la prima crociata. Alberto di Aquisgrana ci mostra uno di essi ucciso nel 1096 presso Nicea da sette frecce che gli avevano attraversato la corazza; così successe ad altri nel 1097 al ponte di Damasco e nel 1102 all'assedio di Ramnes. L'anonimo poeta comasco nei primi decenni del XII secolo riferisce numerosi casi di cavalieri uccisi da frecce, e nel 1159 a Crema, secondo Ottone Morena, gli assedianti erano in grado di ferire a colpi di balestra tutti i nemici che si mostravano «nulla giovando la loro corazza». È noto poi - per limitarci a grandi personaggi - che il re d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone morì nel 1199 colpito da un proiettile di balestra; nel settembre del 1259 un analogo colpo al malleolo riuscì fatale, nel giro di pochi giorni, ad Ezzelino da Romano e nel 1311, all'assedio di Brescia, «fu morto a un assalto, d' uno quadrello di balestra grossa, messer Gallerano di Lussemburgo», fratello dell'imperatore Enrico VII. Non si deve peraltro ritenere che ogni colpo giunto al bersaglio riuscisse senz'altro mortale poiché l'esito dipendeva, oltre che dalla protezione di cui si era muniti, anche dalla distanza e dalla posizione da cui il dardo era stato scoccato. Secondo il racconto del cronista catalano Raimondo Muntaner, la fortezza di Gallipoli, difesa da pochi uomini e donne protetti da solide armature, re-
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sistette vittoriosamente nel 1305 contro un attacco in forze dei famosi balestrieri genovesi che - scrive con riprovazione il protagonista dell'impresa - «andavano sempre ben forniti di frecce e ne facevano un grande sperpero, essendo usanza loro di tirare sempre e di usare più quadrelli in una battaglia che i Catalani in dieci». Nel contrastare il loro sbarco - prosegue il cronista - «tra il cavallo caduto e me riportammo tredici ferite; nulladimeno, appena ebbi inforcato l'altro cavarlo, presi in groppa il mio scudiero e rientrai al castello con cinque ferite per parte mia, le quali però mi dettero poca noia, fuorché una di un colpo di spada in un piede». Gli attaccanti, una volta sbarcati, «fecero piovere su di noi un nembo di dardi che coprivano il cielo, e durarono fino a nona sicché tutto il castello n'era pieno. Che vi dirò? Quanti osarono mostrarsi fuori tanti furono feriti». Persino il cuoco, intento ai fornelli, «fu colto da un dardo che passò attraverso il camino e gli si infisse due buone dita nei muscoli». Una delle donne che gettava sassi dalle mura «sfregiata nel viso da cinque dardi, continuò a combattere come se non fosse stata toccata». Ma dopo mezzogiorno gli attaccanti avevano esaurito le munizioni e uomini e donne, rimasti indenni, poterono finalmente slacciarsi le armature che, per il caldo di luglio, riuscivano insopportabili. Nelle parole di Muntaner tutto sembra dunque risolversi per il meglio e senza conseguenze significative per coloro che erano stati colpiti; in realtà se i proiettili non sempre uccidevano, non mancavano di provocare ferite gravi e complicate simili a quelle già osservate al tempo della guerra greco-gotica. I Miracoli di nostra signora di Rocamadour accennano a un cavaliere colpito accanto a un occhio da una freccia la cui punta potè essere estratta solo con grandi difficoltà; un altro si tenne per tre anni una punta nel petto, e a un terzo, colpito sotto l'ombelico, la punta non uscì mai dalla ferita13. 2.3. Chirurgie di guerra. Chirurghi famosi si impegnarono per mettere a punto metodi appropriati per l'estrazione delle frecce e per la cura dei loro effetti lasciandone ampia traccia nella trattatistica dei secoli XII e XIII, segno sicuro, questo, se altri non vi fossero, dell'importanza assunta da tali ferite, specialmente quando riguardavano il volto. «Se qualcuno è colpito da un dardo sulla
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faccia - dice la Practica chirurgiae di Ruggero de Frugardo, composta fra 1170 e 1180 - attraverso le narici o presso l'occhio o nella guancia o in altra parte, sì che il ferro si trova entrato in profondità o è penetrato in angusti, sottili e tortuosi meati, sebbene l'estrazione sia difficile cosa, tuttavia ciascuno solleciti il proprio ingegno e pensi a fondo in qual modo possa estrarlo; e se il ferro avrà del legno, si metta una fascia presso il legno fino al ferro attraverso la ferita medesima; e se risulta che il legno è ben congiunto al ferro, si smuova un pochino a brevi tratti, e anche stringendo piano piano, si smuovano legno e ferro, e così con cautela si estraggano. Se il ferro non avrà legno, saputo dal paziente come e in qual modo si trovava quando fu colpito, cioè se da sopra o da sotto, di fronte o di fianco, si introduca una 'lista' attraverso la ferita e, conosciuto il tragitto del ferro, se si può lo si estragga e se non si potrà estrarre senza molestia è meglio che si lasci: molti infatti vissero con un ferro in corpo». Ancora maggiore cautela occorre se si tratta di dardi muniti di «barbe», e gravi risultano in ogni caso le perforazioni del cranio ritenute tuttavia curabili, a meno che non compaiano nel ferito segni mortali e se entro sei o sette giorni si manifestano «buoni segni». Dalla faccia e dal capo i trattati di chirurgia passano a esaminare le ferite da freccia nelle altre parti del corpo via via scendendo sino ai piedi: mortale è giudicata di solito la ferita alla gola. Consigli simili espongono nella seconda metà del XIII secolo i trattati chirurgici di Rolando da Parma, Teodorico da Lucca e Guglielmo da Saliceto, né manca al riguardo l'iconografia: la tappezzeria di Bayeux ci mostra Aroldo d'Inghilterra nel momento in cui a Hastings riceve la freccia mortale in un occhio; il Liber in honorem Augusti di Pietro da Eboli raffigura il ferimento del conte Riccardo di Acerra avvenuto nel 1191 durante l'assedio di Napoli: mentre si sporgeva dalle mura egli ebbe appunto la faccia trapassata da una guancia all'altra; segue la scena in cui un chirurgo, assistito da due donne che reggono piatti e ampolle, impugna la freccia per estrarla dalla ferita. Lo stesso autore mostra in seguito il momento in cui a Salerno proiettili di balestra scagliati dal basso si infiggono negli elmi dei difensori corazzati affacciati alle mura. La Chirurgia di Rolando da Parma presenta una miniatura in cui un chirurgo munito di pinze estrae una freccia dal capo di un paziente.
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Teodorico da Lucca distingue l'estrazione delle frecce a seconda del tipo e della forma: punta grande o piccola, concava o smussata, biangolare, triangolare o quadrangolare, e a seconda che colpiscano cervello, cuore, fegato, polmoni, reni, stomaco, vescica, intestino e schiena, con i relativi effetti avvertendo che, se si scorgono sintomi di morte, «dovrete guardarvi dall'estrarre la freccia dato che di solito, dopo l'estrazione, il ferito muore immediatamente». L'estrazione può porre gravi problemi, si usi o no un apposito speciale forcipe, specialmente se il proiettile è infitto in un osso: «Ho visto spesso due uomini forti faticare per estrarre una freccia senza peraltro riuscirci»; in questo caso sarà opportuno lasciarla sinché si decida a uscire da sola. Tal altra volta - aggiunge il chirurgo, domenicano e poi vescovo - è consigliabile inginocchiarsi, recitare tre volte il Pater noster e poi afferrare la freccia dicendo: «Nicodemo estrasse i chiodi dalle mani e dai piedi di nostro Signore e perciò così questa freccia fuoriesca». Ed essa uscirà, si garantisce. Largo spazio alle ferite da freccia è dedicato anche nella Chirurgia di Guglielmo da Saliceto che tratta a lungo e analiticamente dell'estrazione e della cura riferendo inoltre alcuni precisi casi clinici. Per il fratello di Enrico Cinzano di Cremona, colpito da una freccia nel collo con paralisi totale di tutto il corpo al di sotto della lesione, aveva già espresso ai parenti una prognosi mortale, ma il ferito si ristabilì e potè poi camminare con due bastoni per altri dieci anni. Gabriele di Prolo, sempre di Cremona, cui una freccia di arco aveva perforato una gamba sino all'osso, rimase «quasi morto» per un mese e poi anch'egli guarì. Al contrario Bonifacio, nipote del marchese Uberto Pelavicino, colpito da una piccola freccia alla gola da cui uscì appena una goccia di sangue - racconta Guglielmo - «morì in un'ora in mia presenza», non per veleno, come aveva creduto in un primo momento, ma per sopraggiunte complicazioni ai polmoni. A un soldato di Bergamo, colpito alla gola da una grossa freccia che lo perforò fino alla scapola sinistra, Guglielmo stesso, allora molto giovane e partecipante all'esercito, estrasse di sua mano il proiettile «con i soliti mezzi»; il ferito guarì perfettamente e visse a lungo. Il medesimo felice risultato ottenne infine su un «uomo piemontese» che ebbe lo stomaco trapassato sino alla schiena da una grande freccia e venne curato «per mezzo di abluzioni di solo vino fatte assiduamente».
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In generale le trattazioni non fanno troppa differenza tra le lesioni provocate da freccia, da spada o «da altra arma simile» distinguendo piuttosto tra ferite curabili e no: le lesioni al cranio per freccia, spada, percossa o caduta, anche senza apparente frattura, possono provocare il delirio sicché - scrive Ruggero de Frugarlo _ il paziente «immagina di combattere col nemico, e così dormendo si alza, prende le armi adoperandole come se fosse sveglio». Le ferite al collo sono certamente incurabili quando «il midollo fuoriesce dall'osso», e in generale se la ferita è rotonda è più difficile e lenta da guarire, ma Teodorico da Lucca, basandosi sull'esperienza fatta dal suo maestro Ugo, propone di curare tutte le ferite soltanto con il vino e con le bende: «Il vino è la migliore medicina e penetra in esse»; né esita a riattaccare un naso da poco «tagliato da una spada o da altra arma simile, così che esso penzoli»: procedendo con cautela e circospezione si dovrà «rimetterlo nella sua posizione corretta e poi ricucirlo immettendo nelle narici rotolini di garza imbevuti di vino caldissimo». Le ferite che raggiungono gli intestini con fuoruscita della materia nella cavità addominale quasi inevitabilmente provocavano la peritonite, ma Guglielmo da Saliceto afferma di aver curato felicemente un soldato di Pavia, di nome Giovanni Bredella, feritosi al ventre con un coltello così che «gli intestini uscirono feriti secondo la lunghezza e la larghezza». Dopo averli bagnati nel vino caldo, li lavò e quindi - racconta - «ho avvicinato e cucito le parti di intestino con la sutura dei pellettieri» spargendovi in quantità la polvere fina, conservativa; quando la ferita si chiuse vi applicò «giallo d'uovo, olio rosato e un po' di zafferano». L'uomo non solo guarì, ma visse a lungo, si sposò ed ebbe figli. Alle ferite consuete nello scontro tra cavalieri, armati di lancia e spada, occorre aggiungere le conseguenze dei frequenti disarcionamenti: la caduta da un cavallo lanciato al galoppo comportava facilmente nel cavaliere rivestito di armatura fratture o lussazioni delle spalle, degli arti superiori e inferiori, della clavicola e delle costole, tutte lesioni assai gravi che potevano tuttavia essere curate con un certo successo. Poche speranze lasciavano invece le lesioni alla colonna vertebrale: «Se le vertebre del collo e del petto si lussano - avverte Guglielmo da Saliceto - è da temere quasi sicuramente la morte immediata»; al contrario, quando la lussazione riguarda solo le vertebre corrispondenti alle costole e ai re-
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ni, un abile medico può utilmente intervenire purché con immediatezza; se tutto va bene dopo cinque giorni, sciolti i bendaggi, il ferito potrà addirittura ritornare lentamente alla vita normale14. 2.4. Medici e no. L'esercito bizantino operante in Italia nel VI secolo era seguito, come si è visto, da abili medici in grado di prendersi cura dei feriti, anche se non sempre di guarirli, ma la presenza di medici presso gli eserciti non è sempre un dato costante: nell'inverno del 1084, quando Boemondo da Taranto si ammalò in Grecia, chiese al padre di potersi trasferire in Italia «abbondante di medici e di medicamenti», che evidentemente non erano a disposizione sul luogo. Non ne furono privi, invece, i Pisani che nel 1114 combattevano a Maiorca: a un alfiere colpito da un sasso «sovvennero dei medici le cure, poiché di Bono i figli, Ugo, Gherardo e Pietro lo curarono con succhi di erbe peonie». Negli stessi anni Luigi VI di Francia, in previsione di una guerra con l'imperatore, poi scongiurata, fece preparare nei luoghi adatti carri e carrette disposti a corona, provvisti di acqua e di vino per i combattenti stanchi e feriti così che, «se le ferite obbligavano qualcuno a lasciare la battaglia, vi si potessero riconfortare bevendo e stringendo le bende delle piaghe, per poi tornare a combattere per la vittoria»: un posto dunque di ristoro e di pronto soccorso benché, in verità, non si faccia alcuna menzione di medici. Quando nel 1217 i Tolosani respingono l'assalto di Simone di Monfort, questi, al contrario, «convoca i medici sapienti per fare empiastri e anche unguenti per ricondurre a vita i feriti gementi». In occasione analoga sono anzi gli stessi feriti che, perdendo sangue, invocano l'intervento «a causa delle piaghe cocenti». Tutti gli eserciti cittadini italiani intorno alla metà del XIII secolo dispongono generalmente di uno o più medici: il comune di Cremona nel 1240 prescrive che in guerra vi sia con il carroccio un solo medico «di piaghe e di ossa» pagato due soldi al giorno per prestare gratuitamente la sua opera in favore di tutti gli uomini della città e del contado. Non è da escludere che uno di essi sia stato Guglielmo da Saliceto il quale - come si è visto - nella sua Chirurgia, pubblicata nel 1276, dichiara di aver assistito un «soldato di Bergamo» in «un certo esercito nel quale ero anch'io ed ero assai giovane»; in seguito al successo della sua cura - confessa - «io ebbi buona paga e proscioglimento»15.
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L'esercito fiorentino diretto nel 1260 contro Siena poteva contare sull'opera di tre medici dei quali il Libro di Mon(aperti ci ha conservato i nomi: fra essi solo «magister Rogerius», che percepiva una paga di tre lire, era tenuto a «curare e visitare gli ammalati di febbri o di altra malattia», mentre gli altri due, pagati un po' meno, dovevano limitarsi a curare le ferite. Un medico seguiva l'esercitò perugino operante nel 1282 contro Foligno; gli statuti di Ferrara del 1287 esentano i medici della città dagli oneri consueti prescrivendo però che, se vengono mobilitati duecento cavalieri e mille fanti o più, al servizio del comune o del marchese d'Este, due medici - uno fisico e l'altro chirurgo - siano tenuti a seguirli; ciascuno di essi dovrà essere retribuito al massimo con venti soldi al giorno per tre cavalli e con quindici per due cavalli. Venezia il 28 marzo 1300 risarcisce con tre lire il medico Pietro da Pavia per i libri e le altre cose «perdute nell'esercito». A Siena nei primi decenni del Trecento i cittadini, durante le prestazioni militari, non solo godevano di servizio medico gratuito, ma coloro che rimanevano menomati a causa di ferite di guerra e non erano in grado di provvedere a se stessi, venivano mantenuti a vita dall'ospedale di Santa Maria della Scala16. Chirurghi («maestros de las llagas») e medici ifisicos) prestavano assistenza alla stessa epoca anche negli eserciti spagnoli, venendo ricompensati a seconda della gravità delle ferite da curare, e così, all'incirca, doveva avvenire nel resto d'Europa. Il presidio di Gallipoli nel 1305 aveva i suoi medici pronti a «fasciare coloro che rimanevano feriti», sicché potessero tosto tornare a combattere; l'esercito inglese che vinse nel 1415 ad Azincourt aveva al suo servizio non meno di venti chirurghi, e di personale analogo disponeva anche l'esercito francese. Le fonti si limitano nondimeno a segnalare l'esistenza del servizio sanitario senza dire molto di più; solo i medici trevigiani presenti nel 1245 all'assedio di Montebelluna hanno lasciato un elenco di coloro che si sottoposero alle loro cure: 46 in tutto, fra i quali molti balestrieri. Sappiamo che nel 1327 some di medicinali venivano inviate da Firenze all'esercito impegnato nell'assedio di oanta Maria a Monte, ma, a parte tali rarissime notizie nulla sappiamo sul reale funzionamento e sull'efficienza di un servizio evidentemente concepito per fornire un primo sommario aiuto in mipegni di breve durata e non certo per fare fronte ai gravi prò-
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blemi posti dagli esiti di uno scontro campale di grandi proporzioni: che cosa poterono fare, per esempio, nel 1260 i tre medici fiorentini durante e dopo la battaglia di Montaperti? Neppure sarebbero stati sufficienti, nel corso di spedizioni di lunga durata, per far fronte in modo adeguato alle inevitabili malattie contagiose di varia natura (spesso indicate semplicemente come «malattie dell'esercito») che falciavano più vite di qualunque battaglia. A Maiorca, dopo un anno di campagna, i Pisani furono decimati da un morbo che provocava flusso di ventre, attribuito al mutamento di alimentazione e, in specie, alla necessità di bere acqua dovuta alla mancanza di vino. Nel 1250 in Egitto infierì tra i crociati francesi una «maladie de l'host» in conseguenza della quale la carne delle gambe diventava «di color nero e di terra come una vecchia uosa», e lo stesso succedeva alle gengive; se poi il naso sanguinava la morte era certa: caratteristiche che permettono oggi di riconoscere lo scorbuto. Fu quindi necessario - scrive Joinville - che i chirurghi provvedessero a togliere dalla bocca la carne morta perché i malati fossero almeno in grado di inghiottire il cibo, «ed era una gran pietà sentir gridare entro l'esercito la gente alla quale si tagliava la carne morta, poiché urlavano come donne che avessero le doglie del parto»17. Per l'Italia abbiamo una preziosa testimonianza nel Governo et exercitio de la militia scritto nel 1476 dal condottiero Orso Orsini, frutto dell'esperienza di un'intera vita passata in guerra, e che mostra una ben scarsa fiducia nelle capacità dei medici del suo tempo. Non è vero - egli dichiara innanzitutto - che «la abundantia de li medici et le cose dilicate sono necessarie per li infirmi, tanto de ferite come in altri accidenti». Per chi ha la febbre ma è giovane, come in genere succede negli eserciti, basta stare nove giorni senza pane, vino, carne e zucchero, e con il semplice aiuto di qualche lassativo, nove uomini su dieci di regola guariscono nel giro di otto giorni; mentre «chi non fa regula non li iova né medici né medicine». Per le ferite, poi, i migliori rimedi sono buon olio, lana, pezze bianche e buona dieta: l'opera di un medico risulta quindi indispensabile solo quando siano intervenute fratture di ossa. Ma poiché «ad onne infirmo iuva assai la bona opinione che abbia ne li rimedii che se li fanno et nel medico», sarebbe utile avere negli eserciti alcuni uomini «de honorata vita» che, oltre a
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usare i suddetti rimedi, «con lo segno de la croce dicessero alcune parole», incomprensibili a chi le pronuncia come a chi le ascolta, «che se dicessero, acciò che li infirmi credessero che miraculose per incanto guarissero». Non gli sfugge quindi la grande importanza psicologica che ha per il paziente la fiducia nella cura e in chi la impartisce, e ritiene opportuno assecondare la credulità popolare nell'efficacia delle formule magiche. Gli «huomini de honorata vita» incaricati delle cure non è detto che debbano essere né medici patentati, né religiosi: conta solo la loro capacità di ottenere l'effetto sperato. Si tratta di cose che Orsini ha direttamente visto e sperimentato di persona: negli eserciti di Francesco Sforza - ricorda - vi erano sempre non meno di ventimila uomini e non c'era nessun medico, tutti i feriti «si medicavano nel modo antedicto, pochissimi ne moreano, et occorreanonce diverse e gran ferite et malattie». Fra le persone facoltose, che potevano ricorrere ai medici dei luoghi vicini a quelli in cui l'esercito operava, inoltre, «chi se morea et chi longamente stava infirmo». Se ne deve concludere che di fatto le grandi compagnie del Quattrocento non disponevano di un'organizzazione sanitaria, felicemente supplita dalla capacità di provvedere empiricamente in proprio o con la mutua assistenza fra commilitoni; solo chi ne aveva i mezzi ricorreva (ma con poco frutto) ai medici «civili». Del resto lo stesso Orsini ebbe modo di sperimentare più volte su di sé gli effetti delle cure. Nel 1447 durante l'assedio di Piacenza, essendo stato gravemente ferito a un braccio da un colpo di schioppetto, rimase «con spasmo quattro dì, et con una vena rotta, et toccata la vena artesia et nervi»; impossibilitato a trovare un medico nella confusione successiva alla presa e al saccheggio della città, e non potendo dormire, si tolse le fasciature (tasti) che un medico gli aveva fatto «et misi suso a le piaghe pecze bianche e oglio»; subito «io me adormii che mai havea dormito prima, et in una nocte hebbi tanto miglioramento che poi sempre me medecai senza tasti, et facili remedii et de pochissima expensa in breve dì fui sano». Un'altra volta a Pignano nella Marca, quando un verrettone gli trapassò la corazza e una coscia, «con oglio et lana, senza alcuno incanto, perché mai ce hebbi fede, fui guarito in sei >• Uall età di quindici anni in poi non si rivolse mai a medici se on una volta a Padova in cui rischiarono di ucciderlo, e tutte le
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volte che provvide da solo secondo i loro consigli sempre ne ebbe danno. Prima di possedere redditi sufficienti - continua - «medicava io stesso li mei famigli et ragaczi; mai ne morio niuno, se no alcuni de peste, che non se poteano medicare, et poco ce iuvava li medici. Tucti li guariea con dieta et regola et sensa expesa; solo a la fine li dava un poco de cassia o qualche pinola, secundo la infirmità, et in nove dì guareano, et quando prima». Allorché potè disporre di redditi, sia per non essere considerato avaro, sia per mancanza di tempo, non potè più occuparsi direttamente dei suoi famigli e ragazzi e li fece curare da medici, ma da allora «so stati più longamente infirmi e con più expesa che quando li medicava io». La testimonianza di Orso Orsini conferma che nell'Italia del Quattrocento le cure per un soldato «erano certamente rudimentali ma, bene o male, c'erano sempre»; va semmai accentuata la rudimentalità, e se è vero che quasi tutti i condottieri di sperimentata fama avevano nelle loro compagnie un barbiere chirurgo, costui - si direbbe - assai spesso limitava la sua opera ai personaggi più in vista. La scarsa affidabilità dei medici militari trova peraltro conferma in riscontri letterari: il Bandello racconta la carriera di un imbroglione che, venuto per caso in possesso di una valigetta da medico, si improvvisa con successo chirurgo militare, mentre il buffone Bruschetto, confidente del maresciallo di Francia Piero Strozzi, praticava la medicina negli eserciti solo perché non aveva trovato alcun'altra professione più adatta al suo temperamento. Il Quattrocento è peraltro un periodo in cui l'esperienza dei medici militari dovette adattarsi agli effetti delle armi da fuoco che si andavano solo allora diffondendo. Molti condottieri - come si è visto per l'Orsini - durante la loro carriera ne vennero colpiti; essi tuttavia non rischiavano la vita solo in combattimento: si poteva morire tanto a causa di attentati o di condanne motivate da ragioni politiche, quanto perché coinvolti in una delle frequenti risse, né va sottovalutato il pericolo costituito, durante i frequenti spostamenti, dall'attraversamento dei corsi d'acqua: Muzio Attendolo Sforza morì nel superare il fiume Pescara, e Roberto di San Severino cadendo nell'Adige, entrambi con indosso la corazza. La necessità di rimanere a lungo a cavallo coperti dall'armatura poteva poi provocare l'ernia al disco, vera malattia professio-
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naie che molti condottieri curarono soggiornando periodicamente in stazioni termali. Per quanto avvenisse raramente, non era comunque impossibile che un condottiero di fama potesse morire a causa delle ferite riportate in combattimento, come accadde nel 1428 a Braccio da Montone il quale, mortalmente colpito - narra il cantare della Guerra dell'Aquila - fu raccolto da terra, adagiato su un grande scudo e portato nella sua tenda: «E '1 medico li fé prestu venire, / felli tentare ciascuna ferita / iusta sua poscia lo voleva guarire / e ritornarlu da morte a vita». Ci sarebbe forse riuscito se (a dare ascolto a una tradizione che, per quanto insistente, è probabilmente inattendibile) durante la delicata operazione il giovane Francesco Sforza, figlio del suo nemico Attendolo, non avesse spinto il ferro del chirurgo fin dentro il cervello provocandone così la fine. Era normale vedere sul corpo del soldato il segno delle ferite; Antonio Cornazzano, anzi, tracciando nel 1476 un suo ideale ritratto di uomo di guerra, ammette che «una cicatrice non è per dispiacerg/z». «Il corpo militare, anzi - si è scritto - si distingue dal corpo 'civile' proprio attraverso quegli ambigui marchi che sono le cicatrici». Tradizionalmente considerate come segni di valore, esse, nell'età dell'«umanesimo militare» assumono nondimeno «il carattere problematico di una guerra che mescola strettamente bruttezza ed eroismo» così che la cicatrice, se può apparire come «una medaglia appuntata sulla stessa carne», è, nel contempo, il segno di una guerra che «abbruttisce, guasta e sfigura». Certe registrazioni degli ultimi due secoli del Medioevo si ingegnavano di descrivere i soldati attraverso le loro caratteristiche fisiche più evidenti quali barba, colore degli occhi, statura, denti e altri segni distintivi evidenti, e fra questi la presenza di cicatrici sia al viso sia alle mani, occupa un posto di riguardo. Dei duecentouno componenti di un esercito provenzale, descritti ad Aixen-Provence nell'autunno del 1374, ben cinquantasei hanno almeno una cicatrice. Quando essa compare alle mani, molto spesso si trova in corrispondenza del dito indice destro o sinistro: può quindi essere dovuta tanto al maneggio delle armi quanto al lavoro della terra o all'attività artigianale poiché ne sono provvisti sia 1 imbattenti occasionali, tenuti alla prestazione militare per dovere di cavalcata, sia i soldati di mestiere.
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Dei diciotto mercenari che nel luglio del 1396 sono al servizio del comune di Rieti sotto il conestabile Francesco da Bazzano, solo il perugino Monte della Fina e Paolo di Nicola da Montereale hanno rispettivamente una cicatrice «in barba» e «in fronte». Dei sessantadue mercenari spagnoli, tedeschi e italiani che formavano nel 1464 la guarnigione di Castel Sant'Angelo in Roma, ben trentadue presentano cicatrici; la parte del corpo più interessata è la testa: almeno quattordici ne hanno segnata la faccia, la fronte, gli occhi; seguono la mano sinistra (sei) e la destra (quattro), il ginocchio destro, il braccio sinistro e il collo (due ciascuno), la spalla, il braccio e il piede destro (uno); almeno due uomini hanno più cicatrici: il loro contemporaneo Antonio Cornazzano avrebbe avuto di che essere contento18.
3. La morte «E voi che avete avuto la vittoria - scrive Teodoro di Monferrato rivolgendosi a un ideale principe comandante - se cercate sul campo vi troverete i vostri nemici, tanto morti quanto vivi; fate in modo che tutti i morti siano sepolti, specialmente se si tratta di cristiani, più presto che si potrà e per il meglio, e non sopportate che le bestie li mangino». Se poi succedesse di trovare morto sul campo di battaglia il comandante nemico, è opportuno che i migliori della compagnia scendano da cavallo, lo raccolgano e lo mettano su un buono e forte destriero, e se è nudo lo si copra come meglio si può, con opportuni drappi. «E altrettanto, dico, si faccia di ogni altro, chiunque sia, trovato così morto e nudo, tanto amico quanto nemico, e che siano seppelliti con onore». Gli Insegnamenti di Teodoro riflettono sicuramente certe usanze e tendenze correnti presso i signori dell'Italia settentrionale nei primi decenni del XIV secolo, ispirate da un lato ai precetti di carità cristiana e dall'altro alla cortesia cavalleresca, ma è difficile credere che fossero universalmente diffuse. Egli distingue tuttavia fra amici e nemici, fra cristiani e non cristiani e soprattutto, implicitamente, si limita a considerare gli appartenenti all'alto ceto sociale, cioè, in definitiva, i nobili e i ricchi: solo per questi ultimi, infatti, sono raccomandati onori e cortesie. Per quanto le
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fonti siano in genere piuttosto reticenti al riguardo, si tratta di differenze antiche e durevoli nel tempo, ma ulteriori distinzioni sono necessarie: il trattamento riservato ai propri caduti può variare a seconda che essi siano morti vicino o lontano dal luogo d'origine, in conseguenza di un avvenimento rapido come una battaglia campale, o lentamente, nel corso di una spedizione o di un assedio prolungato, e infine la sorte cambia in base all'esito favorevole o sfavorevole delle operazioni per l'una o per l'altra parte. Durante l'impresa pisana di Maiorca, dice l'autore del Liber Maiolichinus, «un gran numero / morirono dei potenti, che per gesta luminose portavano alto il capo, / e molti che ugual fama ebbero morti. Le tombe già coprivano la via / e la campagna: eretti sulla spiaggia / e in altri luoghi si potevan vedere / dei nobili i sepolcri». Si era dunque formata una vera e propria necropoli di guerra che si ingrandiva con il continuo stillicidio dei decessi provocati sia dai combattimenti sia dall'infierire delle malattie; essa doveva comprendere anche le tombe degli umili, per quanto meno appariscenti rispetto a quelle dei potenti. Conclusa vittoriosamente la spedizione, la flotta salpò portando con sé i corpi dei caduti; per evitare però di turbare con cerimonie luttuose le trionfali accoglienze attese in patria, le navi pisane fecero tappa a Marsiglia dove i morti furono cumulativamente sepolti nell'abbazia di San Vittore. È verisimile che tale trattamento riguardasse soltanto i corpi dei grandi, anche se risulta poco spiegabile che essi siano stati comunque tumulati in terra straniera. Il fatto venne poi ricordato a Pisa da un'epigrafe collocata sulla porta Aurea dalla quale uscivano e rientravano le truppe partecipanti alle spedizioni navali19. Nei primi decenni del XII secolo, durante la decennale contrapposizione tra Como e Milano, numerosi sono i Comaschi, distinti per nascita e valore, che, caduti nella difesa diretta delle mura urbane o nel corso di spedizioni a breve raggio, vengono senz'altro raccolti e trasportati in città da amici e commilitoni. Dopo aspra lotta cade Gerardo, e «per portar via l'amico insieme giungono / i compagni, ma troppo duramente / lottano gli altri per tenere il campo», così che sono costretti a indietreggiare; i nejmci intanto spogliano il caduto e lo lasciano giacere con le costole divelte; solo più tardi i Comaschi «mandan chi, triste, la sua salma al campo trasporti».
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Bertrando, trafitto da una freccia combattendo sotto le mura dell'Isola Comacina, «intriso di sangue è quindi tosto via portato»; Giovanni Paleari, colpito a Drezzo da un sasso, «morto, ei viene dai compagni / raccolto e tratto fuori della mischia». È ancora una freccia a trafiggere Alderamo de Quadrio, e subito «desolati di sua morte, l'involano / i compagni dalla strage». Oldrado, «cittadin comasco d'alto grado», nello scontro con un cavaliere nemico finisce trapassato da una lancia, ed egli pure «gli amici portan via / già boccheggiante e di favella privo»; viene sepolto in città anche Pagano Beccaria, tolto al mondo da una freccia che lo colpisce all'occhio destro e fuoriesce dalla nuca. Ad, detto anche Ottone, cade accidentalmente trafitto e «la sua gente la salma via trasporta / a San Abbondio per la sepoltura». Gli uomini di Gravedona, alleati dei Comaschi, il mattino successivo a uno scontro avvenuto presso la torre di Lucino, tornano sul posto in cerca dei compagni, ma «dalla torre / una saetta raggiunge d'Azzone il petto e vi restò confitta. Mista col sangue tiepido fuor della bocca / versò la vita. Giunti a Gravedona, nel sepolcro fu subito composto». Per quanto si nominino in questi casi solo personaggi di spicco, si deve intendere che, ogni volta possibile, tutti i corpi dei caduti venissero recuperati: i Valtellinesi sono sconfitti dall'esercito di Milano, ed ecco che «nel lutto mesti danno / i miseri coloni sepoltura ai morti». I Comaschi stessi, dopo aver difeso Vico e Coloniola, «mandano a ritirare l'insanguinate / spoglie, per riportarle alla sua casa / perché sian dagli amici conosciute». E nell'inverno del 1126 i superstiti di coloro che sono stati sorpresi e sterminati dai Milanesi «i corpi dei compagni raccolgono, / al proprio suol ne portano / le spoglie. Addolorati i cittadini / accolgono color che giacciono morti / ed affidano i corpi degli amici a decorosa sepoltura in Como». Non diversamente si comportano i Milanesi: «Tristi si dolgon per le troppe morti. / Nel cuore della notte se ne vanno / le caterve, nei feretri portando / le mutilate spoglie degli uccisi». Di nuovo nell'agosto del 1160, dopo l'incerto esito della battaglia di Carcano - scrive Ottone Morena - «raccolgono i cadaveri dei loro caduti e ne caricano molti carri che inviano a Milano». Al medesimo episodio allude Federico Barbarossa scrivendo al patriarca di Aquileia: egli ammette di aver subito gravi perdite, ma - ag-
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giunge - i suoi avversari «raccolsero i corpi dei loro uccisi trasferendoli alla città di Milano con 75 carri, e non vi fu carro che non contenesse meno di tre o quattro morti». Non è tuttavia sempre possibile raccogliere i propri caduti: i Milanesi sorpresi dai Comaschi mentre saccheggiano la loro città, sono volti in fuga e non possono far altro che abbandonare sul campo «i lor caduti / dalla morte crudele sterminati», così che di essi «giaccion spogliati i corpi, e già fetore mandan i loro visceri». Almeno per ragioni igieniche, dunque, i Comaschi avranno poi provveduto alla loro sepoltura. Dei cavalieri di Cantù, sorpresi e decimati qualche tempo dopo in prossimità di un guado, «più di sessanta abbandonati furono i corpi»20. Solo i caduti di altissimo rango ricevevano un trattamento onorevole anche quando finivano la loro vita lontano da casa. Il conte tedesco Erchemberto, cognato dell'imperatore, e il suo scudiero, che facevano parte dell'esercito imperiale, nel 1158 vennero sorpresi e uccisi dai Milanesi presso l'abbazia di Chiaravalle; i monaci - scrive Vincenzo da Praga - vollero evitare che i corpi di così nobili uomini fossero divorati dalle bestie e li raccolsero: «le carni furono ivi sepolte mentre le ossa, come misero ossequio, vennero trasportate nelle loro terre». Senza il pietoso intervento dei monaci - lascia intendere il cronista - quei morti sarebbero rimasti là insepolti e in balia degli animali da preda. La sepoltura delle parti deperibili del corpo in istituti religiosi vicini al luogo della morte, e il trasporto delle ossa in patria, o almeno in luogo ritenuto più degno, era procedimento consueto per i regnanti. Quando Federico Barbarossa, a capo della spedizione diretta in Terrasanta, morì il 10 giugno 1190 nelle acque del torrente Salef, il corpo fu trattato con aceto e portato al seguito sino a Tarso dove i visceri vennero sepolti nella cattedrale. In seguito «la salma dell'imperatore fu fatta bollire, secondo l'usanza funebre riservata ai sovrani, la carne fu seppellita nella cattedrale di Antiochia». Il figlio Federico di Svevia certo fece trasportare le ossa fino a Tiro, ma non si sa se proseguissero poi sino ad Acri doV uu s t e s s o Federico venne a morte. In ogni caso i loro corpi non ebbero più la ventura di rivedere il suolo natale come invece era avvenuto per il conte Erchemberto. Ricorderemo ancora il caso dell imperatore Enrico VII, morto il 24 settembre 1312 a Buonconvento, presso Siena: la sua carne ebbe sepoltura nella città di
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Pisa, il cuore fu inviato a Genova, nel sepolcro della sposa, e le ossa «furono portate in Germania dal conte di Castiglia e da altri suoi baroni». Il disinteresse dei vincitori per i morti nemici e il pietoso interessamento di religiosi che raccolgono i più distinti in chiese vicine al luogo dell'uccisione, sono elementi durevoli nel tempo tanto in Italia quanto altrove, anche se non sempre le cose appaiono chiare. Non si sa, per esempio, che cosa sia avvenuto dei caduti nella battaglia di Hastings (14 ottobre 1066): secondo Guglielmo di Poitiers il vincitore si comportò in modo magnanimo verso i nemici «benché quelle vittime fossero degli uomini empi»; a sentire Guido di Amiens, al contrario, essi furono abbandonati «ai vermi, ai lupi, agli uccelli e ai cani». Se tuttavia fossero stati sepolti sul luogo dello scontro, si sarebbero dovuti trovare i loro resti, di cui invece sino a oggi non si conosce traccia, come del resto avviene anche per molte altre famose battaglie. Nel 1237, dopo la vittoria di Cortenuova contro la seconda Lega lombarda, Federico II fece scrivere, con la solita magniloquenza, che «in nessun'altra guerra vi furono tanti morti» e che «le sepolture non bastano agli uccisi», ma non si ha alcuna memoria di necropoli, salvo il ritrovamento di qualche sporadico e insignificante frammento di ossa. Il fatto si può in parte spiegare con la dispersione dei corpi: in realtà i caduti di un fatto d'arme «non soltanto si accumulano sul campo di battaglia, ma segnano anche i diversi itinerari scelti dai fuggitivi nella speranza di scampare all'inseguimento»; basti dire che nel 1260, a detta dei vincitori, la fuga e strage dei Fiorentini e dei loro alleati battuti a Montaperti, si sarebbe prolungata per oltre 15 miglia dal luogo della battaglia; e con la sconfitta di Altopascio il 23 settembre 1325, ad opera di Castruccio Castracani - spiega Giovanni Villani - «il dannaggio dei morti all'affrontata prima fu piccolo per lo poco reggere che fece l'oste dei Fiorentini, ma poi alla fuga ne furono morti e presi assai» così che, in conclusione, «ricevettero maggior danno di morti e di prigioni che non fecero nella battaglia»21. Anche nel territorio di Liegi, se lo svolgimento delle operazioni lo permetteva, i caduti, come per i Milanesi a Carcano, venivano ricondotti in patria a cura dei superstiti o dei loro alleati. Nella seconda metà del Quattrocento, peraltro, vigeva anche l'usanza che i parenti delle vittime andassero a cercare i corpi dei con-
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giunti sul campo di battaglia per rendere loro gli onori funebri trasportandoli su carrette in barili di calce. Non doveva peraltro essere semplice riconoscere i propri parenti tra i cadaveri normalmente spogliati e mutilati, e talora nemmeno distinguere gli amici dai nemici. Dopo gli scontri sostenuti nel 1250 dai crociati francesi in Egitto, i cadaveri di entrambe le parti erano stati gettati nel Nilo, e solo dopo nove giorni - racconta Joinville - i corpi vennero a galla a causa, si diceva, della putrefazione del fiele. Tutto il fiume ne era pieno, ma la forza della corrente non era tale da far loro superare un ponte. Cento ribaldi incaricati da re Luigi IX lavorarono per otto giorni alla triste bisogna: essi gettarono i corpi dei Saraceni oltre il ponte in modo che la corrente potesse portarli a valle, e i cristiani vennero sepolti in grandi fosse comuni: «Ho visto - continua il cronista - i ciambellani del conte di Artois e molti altri che cercavano i loro amici tra i morti, ma non ho mai sentito dire che qualcuno di essi sia stato ritrovato». Per tutti coloro che non venivano reclamati e riconosciuti da parenti, amici e commilitoni, il meglio che potesse avvenire era appunto un seppellimento in fosse comuni, spesso in modo rapido e superficiale, ad opera dei «ribaldi» al seguito degli eserciti; costoro erano disposti a eseguire a pagamento i servizi meno graditi, fra i quali vi era l'inumazione dei cadaveri, considerata attività sporca e vile cui attendevano solo miserabili persone. Secondo un anonimo autore del XIV secolo, dopo la sanguinosa rotta di Montaperti, i Senesi vincitori costrinsero gli abitanti di Montalcino, considerati traditori, a recarsi sul campo di battaglia, «e tu loro comandato che tutti que' corpi morti che v'erano gli sepeIiseno; imperoché non erano stati ancora sepeliti» per quanto fossero già trascorsi più giorni: «Or pensate - fu loro detto - se volle farlo e saravi perdonato ogni ingiuria. E tutti a una voce gridare) che '1 volevano fare; e così fecero e stettero tre dì a sotterrare la giente, che v'era morta. Tanta ce n'era ed era sì grande la puzza di questi corpi morti, che tutto quello paese si sarebbe abbandonaci. Per quanto il racconto del cronista non sia necessariamente entiero, esso è pur sempre significativo: i caduti rimanevano sul iner en ° ? S e p o l t i a n c h e m o l t i g i o r n i e la sepoltura era un lavoro grato che si faceva per espiazione e per ragioni igieniche più che Per canta cristiana.
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Appare quindi alquanto eccezionale quanto - secondo il racconto di Froissart - avvenne il 26 agosto 1346 dopo la battaglia di Crécy: il re d'Inghilterra, rimasto vincitore, fece proclamare il divieto di spogliare i morti finché non ne avesse dato il permesso, perché si potesse effettuare il loro riconoscimento; durante la notte il campo venne perciò guardato a vista da sentinelle. Il giorno dopo fu nominata un'apposita commissione composta da due cavalieri, due araldi in grado di riconoscere i distintivi, e due chierici incaricati della registrazione dei nomi. Essa operò per un giorno intero in presenza del re riscontrando tra i caduti francesi 11 principi (fra cui un prelato), 80 cavalieri «banneresi», 200 cavalieri e 6.000 altri corpi fra i quali quelli di molti balestrieri genovesi. Si sarebbero contati solo tre cavalieri e venti arcieri inglesi. In seguito il re di Francia richiese una tregua di tre giorni per seppellire i morti, e i principi, per interessamento di Edoardo III, furono tumulati nel vicino priorato di Mainteny22. Non di rado, come si è già visto, l'inumazione avviene per cura di religiosi: nel novembre del 1217, dopo che i Tolosani ebbero sanguinosamente respinto l'attacco delle truppe di Simone di Monfort, è un cardinale che «convoca i preti per seppellire gli uccisi e quelli che hanno reso l'anima». I Bolognesi caduti nella battaglia di San Procolo, presso Imola, il 13 giugno 1275 (esclusi gli annegati nel fiume Senio) furono sepolti dai Francescani di questa città e da «altre persone religiose». Dopo la vittoria inglese ad Azincourt (25 ottobre 1415) gli oltre seimila caduti furono inumati sul luogo dai contadini della zona per interessamento del vescovo di Arras. 1300 morti della battaglia di Rimini, in cui nel 1469 Federico di Montefeltro sconfisse l'esercito pontificio, vennero raccolti e seppelliti dai frati di San Colca. Ma non è raro che i caduti rimangano semplicemente insepolti: il re di Francia, vincitore nel 1304 a Mont-en-Pévèle, in Fiandra, - ricorda Giovanni Villani «ordinò che' Franceschi morti fossono seppelliti, e così fu fatto in una badia la quale è ivi di costa al piano ove fu la battaglia, e fece decreto e gridare sotto pena del cuore e d'avere, ch'a nullo corpo de' Fiamminghi fosse data sepoltura, ad essemplo e perpetuale memoria. E io scrittore ciò posso testimoniare di vero, che a pochi dì appresso fui in su '1 campo dove fu la battaglia, e vidi tutti i corpi morti e ancora non intamati».
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Nei giorni successivi alla battaglia di Molinella (1467) «per tutta la campagna si sentiva il lezzo dei morti, perché i cadaveri erano stati lasciati marcire nei fossati»; parimenti a Zonhoven, nel 1490, i corpi rimasero a marcire nella brughiera senza ricevere mai sepoltura. In altri casi, come si è già visto, provvedevano gli animali: dopo una mischia avvenuta nel 1216 sotto le mura di Beaucaire - nota cinicamente il poeta - «ciò che restò fu pascolo abbondante per i cani e gli uccelli da preda», eventualità che non doveva essere rara, come lascia intendere l'esortazione di Teodoro di Monferrato a seppellire i morti e a non lasciare «che le bestie li mangino». Dopo la battaglia di Steppes (Belgio, 13 ottobre 1213), coloro che ritornarono sul campo per depredare i cadaveri ebbero il loro da fare nello scacciare i cani a bastonate. In genere, dopo averli spogliati, si tendeva a disinteressarsi dei corpi dei caduti nemici, specialmente se si trattava di infedeli: a Maiorca i Pisani «perché non li contamini il lezzo dei defunti, danno al fuoco crepitante i cadaveri nemici»; e quando, più tardi, «si colmano con celere lavoro i fossati», oltre che di legname appositamente raccolto, essi «s'empiono di morti»: benché non venga detto in modo espresso, si tratta anche qui, verisimilmente, dei caduti nemici23. Prima, e talora persino dopo, la sepoltura, non è raro che i cadaveri vengano mutilati. Durante la prima crociata ciò accadde più volte con motivazioni e modalità di volta in volta diverse. Nel maggio e giugno del 1097, all'assedio di Nicea, i nemici catturati furono decapitati e le loro teste gettate in città con una fionda «perché da ciò i Turchi prendessero più paura». Nel dicembre successivo, fuori di Antiochia, i prigionieri furono condotti davanti alla porta e là decapitati «per aumentare il dolore di quelli che erano in città»; nel febbraio seguente, cento teste di morti furono portate nello stesso luogo in segno di vittoria per essere mostrate agli ambasciatori del califfo del Cairo. il 7 marzo i Turchi, sconfitti il giorno prima in uno scontro, mum arono i loro morti fuori città e «con i corpi seppellirono mantelli, bisanti, pezzi d'oro, archi e frecce»; i crociati, appena ne ebbero sentore, non esitarono a violare le tombe: «Tutti i cadaveri vennero gettati in una fossa e le teste tagliate furono portate alaccampamento perché si potesse conoscere con precisione il loto numero, salvo quelle che vennero caricate su quattro cavalli dagli ambasciatori dell'emiro e inviate verso il mare». A tale spetta-
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colo i Turchi furono presi da vivo dolore tanto che «ogni giorno non facevano altro che piangere e gridare». Nel gennaio del 1098, dopo la presa di Marra, i crociati «sezionarono i cadaveri per scoprire i bisanti nascosti nei loro ventri» e alcuni, come si è già visto, giunsero in quell'occasione sino ad atti di cannibalismo. Secondo il racconto dell'Anonimo Romano, nel 1343 le ossa dei morti nella battaglia di Rio Salado, in massima parte Saraceni, «furono adunate in un campo et de esse fatta grannissima montagna» che durava ancora ai tempi dello scrittore: «anche in questi die - infatti - vao lo aratore e ara lo campo, e aranno trova teste, gamme, vraccia e ossa assai». Né è tutto poiché i viandanti, passando da quelle parti, «per le selve trovano a pede delli arbori ossa iacere in forma de omo lo quale dormissi. Questo era che.lli feruti essivano dallo stormo e posascenose a pede delli arbori per accogliere lena, ca stanchi erano e comò se posavano, lo spirito e.lla vita in un tiempo li abannonava. Così remanevano quelle ossa senza carne». Ma ecco che «infra le gote vedeva omo resplennere aoro», poiché i Mori usano mettersi «le monete e loro doppie d'aoro in vocca. Queste doppie lucevano comò aoro. Allora chi questo trovava percoteva la zucca dello capo con preta o bastone, sì che spartiva le ganghe [mascelle], e.lla coccia volava in terra. Lo viannante alegro la moneta prenneva». L'avidità si traduceva dunque in una vera e propria ricerca archeologica sul campo di battaglia. L'usanza di infierire in segno di disprezzo sul corpo dei nemici morti non riguarda solo gli infedeli. Landolfo Seniore racconta che quando nel 1037, sotto le mura di Milano, il visconte Eriprando sconfisse in un epico duello lo sfidante Baiguerio, «gli troncò il capo, simile a David che virilmente uccise Golia», ma ciò non bastò ai fanti cittadini i quali «a disdoro dell'imperatore, gli estrassero le viscere e le esposero bene in vista sull'arco trionfale». Raevino, continuatore di Ottone di Frisinga, ci mostra con suo raccapriccio gli assediami di Crema che nel 1159 «quasi giocavano a palla, per ludibrio, con le teste troncate dei nemici», mentre per rappresaglia i Cremaschi offrivano sulle mura il miserando spettacolo di prigionieri progressivamente smembrati vivi. Il valoroso cavaliere Bertolfo di Urah che, durante un fallito assalto era balzato per primo tra i nemici, venne circondato e ucciso, dopo lunga resistenza, con un colpo di ascia vibratogli alle
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spalle: e si disse che, caduto l'eroe, uno degli aggressori, «in modo turpe e indecentissimo, gli abbia scuoiato il capo e si sia adornato l'elmo con la sua capigliatura»; atto nefando, commenta il cronista, «che non teneva in alcun conto il valore dell'uomo, né aveva misericordia per la sua umana condizione». Nel 1213 sul campo di Steppes gli uomini di Looz, dopo avere depredato i caduti brabanzoni, li mutilarono lasciando i loro corpi nudi ed evirati in preda ai cani randagi24. Se certe mutilazioni venivano effettivamente inferte in segno di disprezzo, i due ultimi casi dovevano, in realtà, avere un significato antropologico diverso e non più compreso da coloro che riferiscono i fatti: verisimilmente non di disprezzo si trattava, bensì di apprezzamento per eroi dei quali si cercava così di ereditare magicamente il valore; un'ulteriore manifestazione di quel carattere primitivo che, al di sotto di una certa vernice cristiano cavalleresca, continuò a permeare di sé la guerra medievale.
356 Visconti, signori di Milano, 222. Visigoti, 10-11,24,80,85,173. Viterbo, 107,123,134,141,143-45, 162-63, 165-66, 308, 310, 313, 316. Vitige,redeiGoti,85, 111, 174. Vitolo, G., 308. Vitruvio, 89, 91, 97, 99,109. Vittoria, 61-62. Vixiranum, 170. Volterra, 141,233. Voltmer,E.,319,322. Waitz, G., 305, 309, 320, 322, 324, 327. Waley,D.,322. Waquet, H., 307, 310, 319, 323, 329. Westerbergh,U.,311.
Indice dei nomi e dei luoghi Winchester, 39. Winkelmann, E., 303, 310, 313-14, 316,318-19. Wisby,275,328. Xerigordo, 113,263. Yakub ibn Ishaq al Tamimi, 15. York, 232. Yssandon, 32. Zara, 148, 314. Zavattarello, 42,255. Zibello,42,303. Zippel, G., 329. Zolli, P., 300. Zonghi,A.,303,305. Zonhoven,295,330. ZugTucci,H.,306,318,326,329.
INDICE DEL VOLUME I.
La strategia della rapina 1. Il soldato, un gioioso predone, p. 3 2. Razzie di frontiera, p. 10 2.1. Nella Gallia merovingia, p. 10 - 2.2. La Cilicia bizantina, p. 122.3. Il «secondo assalto contro l'Europa»: Vichinghi, Saraceni, Ungari, p. 14 - 2.4. Spagna: una «frontera cariente», p. 17 - 2.5. Le «spoglie trionfali» di Roberto il Guiscardo, p. 19 - 2.6. Scherani e gualdane nell'Italia dei comuni, p. 20 3. Il saccheggio «spontaneo», p. 24 3.1. Gli eserciti «amici», p. 24 - 3.2.1 mercenari, p. 28 4. «Raid»: la distruzione organizzata, p. 31 4.1. Tecniche di conquista e di repressione, p. 31 - 4.2. Le «cavalcate» inglesi in Francia, p. 37 - 4.3. Il dileggio e la sfida, p. 40 - 4.4. Scorrerie «strategiche» e «tattiche», p. 43 - 4.5. Dalla parte delle vittime, p. 46 - 4.6. Un'arma di distruzione: il fuoco, p. 51 - 4.7. Guasti e guastatori, p. 53 5. Il bottino, p. 56 5.1. Lo spoglio sul campo di battaglia, p. 56 - 5.2. Le grandi prede, p. 60 - 5.3. Scenari e inventari del saccheggio, p. 63 - 5.4. La spartizione e la coscienza, p. 67
IL II riflesso ossidionale 1. Proliferazione delle fortezze e ossessione dell'assedio, p. 77 2. Le tecniche ossidionali in Occidente, p. 84 3. «Mirandi artifices»: gli ingegneri militari, p. 97 4. Le vittorie della fame, p. 109 5. Le macchine: efficacia e limiti, p. 119 5.1. Le torri mobili, p. 119-5.2. Le «artiglierie», p. 124-5.3. Gli effetti psicologici, p. 133 6. La terra e il fuoco, p. 138
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Indice del volume 7. La scalata, la forza, il tradimento, p. 146 8. Risorse della difesa, p. 154 8.1. Le deficienze dell'attacco, p. 154 - 8.2. Le contromisure, p. 158 - 8.3. Fuoco «amico», p. 161 - 8.4. Gli artifici incendiari, p. 164 - 8.5. Miti in gestazione: olio bollente e gallerie di fuga, p. 168 9. L'ostinazione del cavaliere, p. 172
III. Uomini contro 1. Battaglie negate e vittorie virtuali, p. 183 2. «Geometria della paura», p. 195 3. «Ordinare le schiere delle battaglie», p. 197 4. A tu per tu con il nemico, p. 200 4.1. Il bastone e la vergogna, p. 202 - 4.2. Cavalieri e fanti, p. 206
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IV. Tempi di guerra 1. Stagionalità e ciclo agrario, p. 211 1.1. Guerre di primavera, p. 211 -1.2. L'erba di maggio, p. 214 -1.3. Mietiture e vendemmie «militari», p. 219 - 1.4. L'estate molesta, p. 224 - 1.5. Il crudo inverno, p. 229 2. Le avversità atmosferiche, p. 237 3. Dal tramonto all'aurora, p. 244 3.1. Il breve riposo del guerriero, p. 244 - 3.2. La lunga notte, p. 246 - 3.3. Attacco all'alba, p. 253
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V. Il corpo del soldato 257 1. Il cibo, p. 257 1.1. La sobrietà militare, p. 257 -1.2. La carne e il pane, p. 259 -1.3. Razioni alimentari, p. 267 - 1.4. La tattica del pasto, p. 269 2. Il sangue, p. 271 2.1. Il cavaliere ferito, p. 273 - 2.2. L'insidia delle frecce, p. 275 - 2.3. Chirurgie di guerra, p. 278 - 2.4. Medici e no, p. 282
Pochi periodi storici hanno avuto un rapporto tanto frequente con la guerra come il Medioevo. Una guerra anzitutto di saccheggio dove non contava tanto il significato politico della vittoria quanto il bottino rimasto nelle mani. Distruggere e depredare i beni del nemico, sottrargli quanto più possibile della sua ricchezza, era infatti in cima ai pensieri di ogni soldato. Dal punto di vista militare, gli strateghi medievali avevano poi una vera e propria ossessione per l'assedio, cioè per l'attacco e la difesa delle numerosissime località fortificate che caratterizzavano il paesaggio. Pochissimo spazio rimaneva per uomini schierati faccia a faccia, rare erano le battaglie in campo aperto, quasi mai decisive per le sorti di eserciti fragili, profondamente legati alle necessità stagionali, alla produzione agraria e alle bizzarrie del tempo meteorologico. Nelle pagine di questo libro, il racconto avvincente dei campi di battaglia tra il terrore della morte e le privazioni dei soldati.
3. La morte, p. 288 Note
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Indice dei nomi e dei luoghi
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333 In sovraccoperta: Bartolo di Fredi, Distruzione dell'esercito di Giobbe. San Gimignano, Collegiata. Foto Archivio Scala.