LINDA DAVIES QUALCOSA DI TRAVOLGENTE (Something Wild, 2001) Ringraziamenti Alcune persone estremamente gentili, generose...
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LINDA DAVIES QUALCOSA DI TRAVOLGENTE (Something Wild, 2001) Ringraziamenti Alcune persone estremamente gentili, generose e preparate mi hanno aiutato a trovare le informazioni utili per la fase di ricerca di questo libro. Mille grazie a tutti quanti. Grazie alle rockstar. Grazie a David Pullman, inventore delle "Obbligazioni David Bowie" e guru della quotazione in Borsa delle star. Jennifer Speck, produttore, vecchia amica, compagna di viaggi e affarista nata. A Tommy Helsby. James Haarman, divertente avvocato specializzato nel settore dello spettacolo e al suo clan: Paddy Grafton Green, Andrew Wilkinson, Paul Charles e Andrea Bartlett. Soprattutto, vorrei ringraziare le mie muse ispiratrici, i miei bimbi, Hughie e Tommy, e mio marito Rupert. Capitolo 1 Il vento portò l'odore della paura alle narici frementi del cavallo, che iniziò ad agitarsi sotto l'amazzone. Lei accorciò un poco le redini, giusto per fargli sentire che era lì, ma non tanto da aumentare il suo nervosismo. In quella distesa selvaggia, l'istinto dell'animale era infinitamente più sensibile del suo. Non era impaurito dalle ombre delle foglie che danzavano sul terreno accidentato, e nemmeno dal boato pulsante del vento che attraversava le betulle argentate. Il fiume in piena lo spaventava di più, ma non vi lanciò che poche caute occhiate. Lei sentiva il suo panico, ora, i fianchi tremanti, e ne fu contagiata. Cercò di reagire, di restare calma, di rassicurarlo, ma non ci riuscì. Nel tentativo di individuare la causa di questo senso di pericolo, si guardò intorno, ma la valle le pareva tranquilla. Poi sentì alle sue spalle un rumore selvaggio e pulsante, e capì che era un cavallo che arrivava al galoppo. "Stai tranquillo, bravo, su, va tutto bene". Ma non era così. Un cavallo apparve all'improvviso, galoppando senza controllo, come inseguito da un branco di diavoli. Il cavaliere si aggrappava disperatamente alla sua schie-
na, le staffe sciolte, le briglie che sbattevano. Il cavallo si era lanciato in una corsa veloce e puntava dritto verso gli alberi a un chilometro di distanza. Là il cavaliere non avrebbe avuto speranze di farcela. Sarebbe stato sbalzato di sella, avrebbe sbattuto contro un albero, si sarebbe rotto la schiena o spezzato l'osso del collo. Cristo. Sarah reagì automaticamente. Strinse forte le ginocchia. "Vai!" Il cavallo non aveva bisogno di sollecitazioni. Balzò in avanti, via dal sentiero accidentato, sull'erba della vallata. Sarah sperava di poter intercettare l'altro cavallo prima del bosco. Se il cavallo fosse arrivato in tempo, se avesse potuto aumentare la velocità, se avesse potuto raggiungere l'altro... Strinse più forte. "Forza, ragazzo. Più veloce!" Ormai eccitato, l'animale reagì. Sarah percepì la sua eccitazione e il suo terrore. Se fosse inciampato, sarebbero entrambi precipitati in un ammasso rovinoso di ossa rotte. Lei conosceva molto bene i cavalli, era un suo dono naturale, ma quello stava arrivando da un angolo obliquo. I cavalli iniziarono a convergere. Adesso riusciva a vedere il viso dell'altro cavaliere. Cereo, con un'espressione di orrore. I cavalli si lanciavano occhiate selvagge. Sentì il suo accelerare sotto di lei e vide l'altro reagire. Cristo... Si stavano sfidando. Se non li avesse fermati entrambi, lei e il suo compagno di cavalcata si sarebbero sfracellati nel bosco. Il cavallo si avvicinò, più veloce, ancora più vicino. Sarah lottò con il suo, dando uno strattone alle redini, tirandolo, cercando di lottare contro il suo istinto di correre. Nove metri, otto, sette, sei. Trattenne il respiro, tirò ancora di più, vide il terrore sul viso dell' altro cavaliere. "Tienti stretto! Fermati!" urlò. Cinque, quattro, tre, due. Ora erano affiancati. Con una mano, tirò le sue redini e il pomo della sella, con l'altra si sbracciò, cercando di afferrare le redini svolazzanti del cavallo in fuga. Guardò il bosco ormai vicino, si inclinò ancora di più, le gambe avvinghiate al cavallo come una morsa. Ancora pochi centimetri e sarebbe scivolata. Per favore, Dio, fammele prendere. La foresta era sempre più vicina. Con un ultimo balzo, ci riuscì. Ora, con le gambe tese in avanti, i piedi incuneati nelle staffe, tirò le redini con tutta la forza che aveva. Sentì il suo cavallo assestarsi sotto di lei, rallentando improvvisamente l'andatura. L'altro cavallo cercava di mantenere la velocità. Cercò di non essere sbalzata di sella. Allungò un po' le redini, e poi diede uno strattone con tutte le sue forze. L'altro cavallo alzò il capo, si assestò, cercò di scuotere la testa. Sarah, gradatamente, allungò
ancora un poco le redini. Strattonò. Entrambi i cavalli cercarono di lottare. Lei resistette. "Bravi, ora, bravi. Bravi, ora, tranquilli". Lentamente cominciarono a ubbidire. Il bosco era ormai vicino. Sarah li tirò verso destra e i cavalli iniziarono a curvare. Li fece andare lentamente, con calma, non troppo violentemente o sarebbero potuti inciampare. Il bosco era più lontano, ora. "Calmi adesso, calmi". E finalmente rallentarono, frenando di loro iniziativa, le zampe tese in avanti, la polvere che si sollevava. Finché si fermarono. Capitolo 2 Sarah se ne andò dal ranch in cui aveva noleggiato il cavallo. Nuvoloni di polvere si sollevavano come per salutarla. Aveva scortato il cavaliere silenzioso al ranch dove lavorava e lo aveva consegnato a un preoccupatissimo stalliere. "Cavallo Pazzo", come lo aveva battezzato, riferendosi non al cavallo ma al cavaliere, non aveva detto una sola parola mentre tornavano al ranch, limitandosi a guardare fisso davanti a sé, gli occhi nascosti dagli occhiali da sole. Era chiaramente sotto shock, il che non era sorprendente. Aveva rischiato di morire. Anche lo shock può uccidere, e Cavallo Pazzo sembrava aver bisogno di qualcosa di più del classico rimedio locale, un doppio bourbon e caffè bollente. Mentre guidava si sentiva turbata, ora che il groviglio di sensazioni negative le si avviluppava intorno al cuore. L'ombra della morte violenta le era piombata addosso ancora una volta. Questa volta ne era fuggita al galoppo, salvando la vita di qualcuno, ma aveva rischiato di perdere la sua. Come al solito, non ci aveva pensato due volte, si era semplicemente tuffata, seguendo l'istinto, i geni o qualche antico condizionamento, le cui radici erano così ben seppellite da risultarle incomprensibili. Quante volte la morte le si doveva ancora avvicinare prima di prenderla? Fino a quel momento era sopravvissuta a una vita disseminata di cadaveri. I suoi genitori uccisi in un incidente automobilistico. L'autista ubriaco che li aveva investiti quando Sarah aveva sette anni assassinato con un colpo a bruciapelo quattordici anni più tardi. La sua migliore amica, Mosami. Il suo amante, Dante Scarpirato. La morte aveva di recente fatto del suo meglio per prendersi anche suo fratello, che ora giaceva in un letto d'ospedale, aspettando la sua visita. Alex Jensen stava scalando il Grand Teton nel Wyoming quando era caduto su una parete rocciosa. Un aggeggio che a-
vrebbe dovuto frenare la sua caduta non aveva funzionato. Era caduto per una trentina di metri prima di sbattere contro una sporgenza rocciosa che gli aveva frantumato le ossa. Sarah sentì le lacrime scorrerle sul viso ripensando alle condizioni di Alex la prima volta che l'aveva visto dopo l'incidente, arrivando al suo capezzale impolverata, stanca e terrorizzata dopo il volo da Londra. I bendaggi che gli avvolgevano la testa trasudavano sangue, le palpebre tremolavano senza aprirsi. Era rimasto privo di conoscenza per quarantatré ore. Sarah guardò le dita appoggiate al volante della sua macchina a quattro ruote motrici. Erano livide e tremavano. Accostò facendo stridere le gomme, spense il motore e restò seduta per qualche minuto con la testa appoggiata al volante, per recuperare la calma, poi lentamente, con cautela, ripartì. Alex stava leggendo. Senz'altro sarà il solito libro di azione, pensò Sarah in uno sprazzo di esasperazione fraterna. Era tanto concentrato da non accorgersi di lei, che si era fermata in piedi sulla porta. Aveva i capelli arruffati e la sua classica espressione di curiosità sul viso. Nonostante metà del suo corpo fosse immobilizzata dal gesso, l'energia che emanava era tangibile. Perfino i medici, usciti per un attimo dalla loro roccaforte di razionalismo scientifico, avevano ammesso che il giovane era eccezionalmente vitale. Se non fosse sopravvissuto, Sarah era certa che non sarebbe riuscita a tirare avanti. Rimasti orfani da bambini, il loro legame fraterno era più stretto del normale. Anche se Alex passava la maggior parte dell'anno all'estero, viaggiando e facendo alpinismo, erano sempre rimasti uniti. Se uno dei due fosse morto, l'altro l'avrebbe seguito? Pensò ancora al cavallo imbizzarrito e rabbrividì. In quell'istante, Alex la vide. "Ciao". "Ciao, Al". Sarah entrò nella stanza e schioccò un bacio sulla guancia del fratello. "Tutto bene?" Alex le rivolse uno sguardo obliquo. Non gli si poteva nascondere niente. Sarah si sedette sul bordo del letto e gli raccontò la sua avventura con il cavallo imbizzarrito. "Cristo! Pensavo di essere io il pazzo di famiglia! E poi cos'è successo?" Sarah fissò con amore il fratello sdraiato sul letto, le gambe in trazione, le braccia ingessate, il taglio livido sulla guancia in via di guarigione. "Quell'uomo non riusciva a parlare. Non è riuscito a rimontare in sella, si limitava a scuotere il capo con violenza, così ho portato il mio cavallo e il suo, e lui ha camminato per tre ore costeggiando il fiume. L'ho lasciato
al ranch con uno stalliere". Sarah alzò le spalle. "Tutto qui. Ho riportato il mio cavallo e sono venuta da te". Alex tacque un attimo. "Avresti potuto morire, Sare". "È buffo, detto da te". Alex sembrava imbarazzato. "Qualcuno deve pur preoccuparsi di quello che resta della famiglia". "Sì, be'..." Sarah guardò lontano, cercando di scacciare il senso di perdita. Si girò di scatto verso Alex. "Ad ogni modo, come stai? Hai saputo qualcosa dai medici?" Alex sembrò improvvisamente compiaciuto. "Oggi il controllo è andato proprio bene. Toglieranno il gesso alle braccia nei prossimi giorni, alle gambe tra una settimana". Sarah graffiò la scultura di gesso. "È meraviglioso. Ti hanno detto altro?" "Penso che vogliano prima capire cosa c'è sotto al gesso. Dovrò fare molta fisioterapia, in ogni caso". Un'espressione imbarazzata gli attraversò il viso. "Che c'è?" "Niente, non ti preoccupare". "E allora?" "Con i soldi va maluccio. C'è un posto a casa, in campagna - una clinica di riabilitazione. Sembra che sia la migliore d'Europa". "Allora ci andrai". "Costa un capitale, Sarah". "Non c'è niente che mi interessi più della tua guarigione". "Pensano che io abbia una possibilità". Fece una pausa, mentre una luce di speranza gli brillava negli occhi. "Due mesi là, poi a casa con sedute regolari di fisioterapia e ginnastica, tutto qui. Dicono che in nove mesi dovrei tornare a camminare. Normalmente". Sarah abbassò la testa per nascondere le lacrime. Mentre si sollevava, sì asciugò rapidamente gli occhi. "È splendido, Alex. È la migliore notizia che abbia mai avuto". Lui sorrise e le prese la mano. "Sare, è troppo. Dieci settimane qui, due mesi in clinica. Non è corretto nei tuoi confronti". Sarah agitò la mano libera. "Il denaro serve a questo". "I tuoi soldi non li hai avuti tanto facilmente, e se ne stanno andando tutti per colpa mia". "Finché è solo denaro, me ne frego. Io e te siamo una cosa sola. Tu sei
tutto quello che mi resta della famiglia. Credi che possa importarmi dei soldi?" Ora non faceva nessuno sforzo per nascondere le lacrime. "Quanto ti è rimasto? Ti sto portando alla rovina. Con tutti questi trattamenti, arriverai a spendere un milione di dollari". "Ce l'ho". "E allora?" "Non è che io non possa lavorare. Cercherò di guadagnare di più". "Avevi smesso di lavorare, prima del mio incidente". "Ricomincerò quando torno a casa". "Lo so quanto valore attribuisci al denaro. Come ti stai costruendo una sicurezza economica. Non riuscirai a riguadagnarti un milione tanto in fretta". "Forse ricomincerò a giocare in Borsa. Comunque non morirò di fame, Al... e, una volta a casa, tu andrai in quel posto, perciò piantala". Sarah tornò a Spring Creek. Viveva là da due mesi e mezzo, dal giorno dopo la telefonata dell'ospedale, e il paesaggio ancora le toglieva il fiato. La sua baracca di tronchi sorgeva su una collina in una riserva turistica a duemilatrecento metri di altezza, a Jackson Hole, nel Wyoming. Sotto, la vallata si avvolgeva intorno a un immenso bacino, verde e rigoglioso, e sopra tutto ciò torreggiava la catena del Teton, scolpita nella pietra e incappucciata di neve, che incorniciava il paesaggio a perdita d'occhio. C'era tanta pace. Là non sentiva il frastuono orribile che la disturbava a Londra. A volte, in città, le sembrava di camminare attraverso le strade di un dipinto di Edvard Munch, accanto a file infinite di case piene di persone che urlavano. La sua pelle era troppo sottile, lo sapeva. Non ci poteva fare niente: la vita avrebbe potuto scorticarla, se glielo avesse permesso. Al suo arrivo, terrorizzata e preoccupata per il fratello ferito, non aveva apprezzato la bellezza del Wyoming, ma, ora che lui stava guarendo, si accorgeva di vivere in un paradiso. Chiudendo la porta della baracca, si versò un bicchiere di whisky e pensò a cosa poteva cucinarsi. Prima di tutto, aveva bisogno di una bella doccia. Puzzava dì sudore e di cavallo e, mentre Alex non se ne sarebbe preoccupato, Sarah non poteva aspettare a togliersi la polvere dalla pelle. Era appena uscita dalla doccia, avvolta in una salvietta, quando sentì bussare alla porta. Probabilmente l'hotel le riportava la biancheria. Ma non aveva appeso il cartello Non disturbare? Si strinse nel telo e aprì. In piedi di fronte a lei c'era un estraneo, il viso parzialmente coperto da un cappello da cowboy. Si limitava a fissarla senza parlare. Sarah avvertì
un lampo di terrore, subito seguito da un moto di rabbia. Appoggiò le mani sui fianchi, in posa aggressiva. "Sì?" chiese, con un tono che in realtà diceva: Sbrigati a spiegarmi che cavolo vuoi, rompipalle. L'uomo sorrise, e per qualche ragione la cosa la fece imbestialire ancora di più. Stava per chiudergli la porta in faccia quando lui parlò. "Sono venuto per ringraziarla". La sua voce era roca, molto controllata. "Per cosa?" "Per aver salvato la vita al mio amico". "Ah, quello" disse Sarah, come fosse una cosa che faceva tutti i giorni. "Be', cos'altro avrei potuto fare?" Una folata di vento gelido la fece rabbrividire. Si avvolse con ostentazione nella salvietta e si sfregò le braccia. Sperava che l'uomo capisse la situazione e si scusasse, lasciandola tornare al tepore del suo residence, ma lui non lo fece. Se ne stava ancora lì, in piedi, guardandola. Anche lei lo guardava e per un po' rimasero lì immobili mentre il vento gelido soffiava intorno a loro. Poi Sarah si girò e tornò dentro, sicura che lui l'avrebbe seguita. Quando sentì la porta sbattere, si fermò in mezzo alla stanza. "Mi metto addosso qualcosa" disse. Lui annuì. Le sue dita armeggiarono con i bottoni del cardigan. Si infilò i jeans, incastrò i piedi negli stivaloni da cowboy, si pettinò e ritornò da lui. Stava in piedi accanto alla finestra panoramica della stanza principale e guardava la notte tempestosa. "Vuole qualcosa da bere?" Si girò con lentezza verso di lei. "Va bene quello che ha". Questa voce bassa e il modo in cui lo disse le fecero ribollire il sangue. Andò in cucina, versò due whisky abbondanti, tornò da lui e gli offrì il bicchiere. Lui lo prese e ne bevve metà in un sorso solo. "Dunque..." disse Sarah rimettendo le mani sui fianchi. "Lei chi è?" Lui rispose con una risata. "Non mi ero accorta di essere tanto spiritosa" disse Sarah gelida. "È così importante sapere chi sono?" Sarah fece spallucce. "In fondo, cos'è un nome?" Bevve una lunga sorsata di whisky. "Sarebbe carino, comunque, se lei si togliesse quel maledetto cappello". Lui seguì il suggerimento, tenendo gli occhi fissi nei suoi per tutto il tempo. Ora lei vedeva il suo viso, i lineamenti forti, gli occhi del colore
della roccia, la bocca sensuale. "Ah". Capitolo 3 Era sdraiata sul letto, inquieta. Doveva aver mangiato qualcosa di pesante, o forse cominciava ad accusare lo shock, perché sentiva l'intestino sottosopra e aveva passato metà della notte a correre avanti e indietro dal bagno. Nei momenti in cui riusciva a stare sdraiata, la sua mente tornava a quell'uomo. Lei conosceva i fatti, come chiunque altro avesse a portata di mano una radio, un giornale o una televisione. John Redford era una delle divinità del pantheon del rock, l'idolo degli uomini, delle donne, del popolo. Incarnava in sé Thor e Pan, e aveva qualcosa della tristezza aurea di un angelo caduto sulla terra. Cantava canzoni polemiche sulla disoccupazione operaia contro città-fantasma fatte di acciaio, canzoni drammatiche al calor bianco che sarebbero riuscite a svuotare un convento, e lamenti strazianti sul senso di vuoto e di solitudine. Nella sua carriera ventennale aveva venduto più di cento milioni di album e aveva solo quarant'anni. Battezzato dalla stampa "l'uomo duro del rock", era fuggito dal mondo ad alto numero di ottani del quale era il leader assoluto per rifugiarsi nel suo ranch nel Wyoming in compagnia dei suoi amati cavalli. Le sue mani ora erano callose, lei l'aveva notato, a causa del lavoro manuale più che dall'uso della chitarra, sebbene facesse anche quello - e Dio sa se lo faceva bene. Le sue canzoni avevano accompagnato la vita di Sarah. Con il loro sottofondo lei aveva riso, pianto, amato. Da maestro qual era, aveva orchestrato le sue emozioni. Suonava sia il piano che la chitarra e si scriveva tutte le canzoni, ascoltando solo il suo cuore. Anche se nei suoi versi sapeva mettere a nudo tutta la gamma dei sentimenti, la stampa insisteva sull'enigma di quell'uomo, che sembrava molto disponibile, ma in realtà era inaccessibile. Non concedeva interviste, a meno che gli servissero come amplificatore per denunciare qualche sopruso nei confronti degli animali. E credeva davvero in quello che faceva. La cosa sconcertante era che in realtà nessuno conosceva le sue opinioni e le sue passioni. John Redford era un conservatore che si batteva perché le fabbriche restassero aperte, mentre, con altrettanta fermezza, si opponeva all'apertura di nuove, se ciò recava danno all'ambiente circostante. Non era però un riformatore che aspirava alla santità. Circolavano storie di orge in
compagnia dei suoi migliori amici, uno dei quali era un famoso attore di Hollywood. Sembrava che fosse del tutto indifferente alla sua immagine pubblica: diceva quello che gli pareva senza piegarsi al politically correct, faceva quello che voleva e la sua popolarità restava intatta. I suoi adulatori, però, mantenevano una certa circospezione, come se temessero che, in qualunque istante, il leone potesse rivoltarsi e sbranarli. Era un uomo pericoloso. L'aveva capito dall'istante in cui se l'era trovato davanti alla porta. Possedeva il fascino più forte che Sarah avesse mai incontrato. Aveva conosciuto persone brillanti, affascinanti, ma Redford era diverso: era un viaggio pericoloso che lei non aveva nessuna intenzione di intraprendere. Aveva incontrato una discreta quantità di uomini pericolosi, alcuni se li era portati a letto e di uno si era addirittura innamorata. Ora era morto, e lei ne era l'unica responsabile. Dante Scarpirato, con il suo sguardo scuro e la morbida pelle olivastra era stato il suo capo nella seconda banca in cui aveva lavorato, nella City di Londra. Era la ragione per cui lei era stata assunta in quella banca. Il suo compito, un complicato incarico svolto dall'M16 e dal governatore della Banca d'Inghilterra, era quello di controllare Scarpirato, sospettato di essere il cervello di una massiccia organizzazione interna operante sui mercati di Borsa esteri. Non aveva alcuna qualifica per quel lavoro, a parte l'abilità di Grader, la bellezza e la voglia di rischiare, caratteristica, quest'ultima, sulla quale sia l'M16 che il governatore facevano affidamento. E, Cristo, non li aveva certo delusi. Era una spia nella casa del denaro, ma aveva commesso l'errore di innamorarsi dell'oggetto delle sue attenzioni professionali. Lei e Dante erano diventati amanti e, così, Sarah aveva scoperto che lui era innocente. Poi un destino beffardo l'aveva messa al posto sbagliato nel momento sbagliato: era stato assassinato da una killer spedita dietro a Sarah. Peccato, infatti, che né l'M16, né il governatore della Banca d'Inghilterra si fossero premurati di farle sapere che in quel traffico interno era coinvolta la mafia e Sarah aveva, senza volerlo, disturbato un nido di vipere. Era riuscita a consegnare i colpevoli ai suoi committenti segreti, ma Dante e la sua migliore amica, Mosami Matsumoto, erano stati assassinati per quello che sapevano o che la mafia sospettava sapessero. Sarah era sopravvissuta solo grazie a un accordo con la mafia e con la killer che le avevano messo alle calcagna. Lo scambio finale: il silenzio in cambio della vita. Aveva conosciuto la sua parte di pericolo, e qualcosa negli occhi di Re-
dford le aveva fatto emergere questi ricordi. Ma cosa importava, in fondo? Non l'avrebbe rivisto mai più. Capitolo 4 Il giorno dopo andò all'ospedale. Con gli occhi arrossati e pompata di caffeina, si appollaiò sul letto del fratello, raccontandogli l'accaduto. "E tu cos'hai fatto, poi?" chiese Alex cautamente. "Non ti preoccupare, fratellino. Il minimo di conversazione educata e gli ho mostrato la porta di casa". "Hm. Dal tuo sguardo, ho qualche dubbio che tu ti sia limitata a fare una conversazione educata". "È quello che ho fatto e che farei anche in futuro. Non ho nessuna intenzione di diventare la fan invasata di una star del rock". "Ma guarda, questo pensiero proprio non mi sfiorava". "Piantala". Sarah accennò a un leggero schiaffetto. Un'ora più tardi si chinò sul fratello e lo baciò sulla guancia. "Sarà bello tornare a casa, vero?" Alex sembrava sorpreso. "Hai fretta di tornare in Inghilterra? Pensavo ti piacesse restare qui". "Certo, ma nel Mago di Oz Dorothy dice: 'Non esiste un posto bello come casa propria'. Ripensando a quel momento, a volte si chiedeva se anche lei, come Dorothy, avesse potuto fare una piroetta, battere i tacchi tre volte e rimaterializzarsi a casa sua., l'avrebbe fatto o no? Ancora impolverata dopo l'ennesima giornata passata a cavallo, Sarah tornò a casa. Fece una doccia e pensò a come vestirsi. Al momento della telefonata dall'ospedale, dieci settimane prima, aveva fatto le valigie in cinque minuti, buttando i vestiti in una borsa. In quel momento rimpiangeva il guardaroba lasciato a Londra, per metà di Harvey Nichols. La maggior parte dei vestiti aveva decisamente bisogno di essere lavata. La biancheria pulita è di scarsa importanza quando si trascorre la giornata a cavallo e la serata in ospedale con il proprio fratello per poi mangiare soli in una baracca di tronchi, con uno splendido pubblico di guanciuti scoiattoli americani, appollaiati sul davanzale della finestra a mendicare cibo. Dannazione, ma chi se ne frega, comunque. Riprendi il controllo di te stessa, pensò seccata, e optò per un paio di je-
ans non troppo luridi. L'unico indumento di sopra più o meno pulito e non intriso di sudore era una canotta. La indossò. Si vedevano le spalline del reggiseno. Tolse il reggiseno. Ora si vedevano i capezzoli. Che disdetta, sogghignò, tornando a piedi nudi nella stanza principale. Gli scoiattoli non si sarebbero formalizzati. Mentre si versava un whisky, si sedette con un giallo di Elizabeth George. Era talmente immersa nel libro che, quando bussarono alla porta, sobbalzò. Posò il libro, fece scivolare le gambe dal divano e, in silenzio, attraversò la stanza con il cuore in subbuglio. Aprì la porta. Come aveva pensato, era lui. Se ne stava lì in jeans, giacca di montone e cappello da cowboy. Un metro e ottanta, viso abbronzato, cosce muscolose, una gamba leggermente piegata, un mezzo sorriso stampato sulle labbra. Lei aspettò, imitandolo, senza parlare. Il silenzio durò tanto da diventare imbarazzante. Il tempo passava, mentre lei guardava l'estraneo sul gradino della porta. Udiva il vento sussurrare tra i pioppi, ne sentiva il freddo soffio sulla guancia, percepiva in modo straordinario ogni sensazione vitale. Le sembrava perfino di sentir scorrere il sangue nelle vene. Infine gli sorrise. "Sarà meglio che entri". Lui fece un cenno di assenso e la seguì. Sarah andò in cucina, accese il bollitore e preparò due camomille. Nessuno dei due parlava. Tornò in salotto, gli porse la tazza e si sedette sulla poltrona. Lui scelse il divano. Si guardavano a distanza, sorridendo. D'improvviso le parole sembravano inadeguate. I pensieri e le emozioni correvano troppo. Fai il tuo gioco, si disse Sarah, cercando rifugio dove poteva. Diamo il via alla farsa delle parole. 'Ti tuo amico ti ha chiesto di tornare?" chiese, la tazza all'altezza delle labbra, guardandolo dal bordo. "Non me l'ha chiesto lui, ieri". "E allora perché sei venuto?" "Semplice curiosità". "Ma non mi dire..." "Sei stata davvero coraggiosa". "È così raro?" "Ti saresti potuta ferire gravemente". Sarah alzò le spalle.
"Non eri spaventata?" "Terrorizzata". "Perché l'hai fatto?" "Non ci ho pensato su. Il tuo amico poteva disintegrarsi contro gli alberi". "Questo era sicuro, senza di te". "Chi è?" "Strone Cawdor, il mio manager. Dunque" proseguì Redford sorseggiando la camomilla "parlami di te. Perché sei qui da sola, in una baracca di tronchi dall'altra parte del mondo?" "E cosa ne sai tu di dove abito?" "Pensi che io non sia in grado di riconoscere quel costosissimo accento inglese?" Sarah rise. "Ma ti prego! Fra un po' mi dirai che sono una Sloane". "No, ne ho incontrate alcune". "E allora?" "Sono creaturine sottomesse e un po' oche. Un'altra specie". "Che cosa sono io, allora?" "È quello che sto cercando di capire". "Lascia perdere". "Non mi hai detto perché sei qui". Sarah esitò prima di rispondere. Guardò fuori, la cima coperta di neve arrossata dal tramonto. "Mio fratello è venuto qui a fare roccia. Ha avuto un incidente". Si bloccò. "Cos'è successo?" La voce di Redford, attraverso la stanza, si fece gentile; i suoi occhi fermi nei suoi erano pieni di comprensione. Sarah andò in cucina e ritornò con due whisky. Bevve metà del suo prima di riuscire a parlare. "Stava scalando il Grand Teton, due mesi e mezzo fa - una scalata con neve e ghiaccio. È caduto". La sua voce si ruppe, ma continuò: "L'hanno trasportato con l'elicottero in ospedale. Fratture multiple: una gamba, sei costole e tutt'e due le braccia rotte. Il viso lacerato. Oh, Cristo". Nascose il volto tra le mani. Redford la guardò, aspettando che si riprendesse. "È rimasto fuori conoscenza per quarantatré ore. In prognosi riservata". Guardò su. "Ma è un osso duro. È sopravvissuto e ora pensano che, con una massiccia fisioterapia, potrebbe addirittura riprendersi completamente". Fece un sorriso stanco e coraggioso. "Quello che vuole è tornare in
forma per ricominciare a fare le sue scalate. Le ha sempre amate, più di qualsiasi altra cosa". "E tu ami lui più di qualsiasi altra cosa" osservò Redford. "È il mio fratellino, mi sono sempre presa cura di lui e sì, lo amo più di qualunque altra cosa". "I vostri genitori?" No, non ne avrebbe parlato; aveva già avuto abbastanza dolore per una sola sera. "Cosa ti ha portato qui?" gli chiese, alzandosi. "Sono nato qui, non nel Jackson, sulle montagne. Appena posso ci tomo". "Scappi". "Esatto. Alla lunga, vivere per strada diventa un po' noioso". "Ah, be', tutta quell'adulazione, adrenalina, dover dare sempre il massimo, folle adoranti, per non parlare dei soldi che si riversano nel tuo conto. Già, una vitaccia". "Sì, un gioco da ragazzi" replicò Redford sarcastico. "Cosa c'è di tanto difficile?" chiese Sarah, punzecchiandolo senza capire perché lo stava facendo. "Lunga storia. Non ho voglia di spiegartela e comunque stasera non saresti recettiva, se ti ho capita bene". Sarah fece lo sforzo di sorridere. "Cosa farai a casa?" chiese Redford, in apparenza sollevato di cambiare argomento. "Dieci settimane sono lunghe. Non c'è un marito, un fidanzato, un lavoro che ti aspettano?" "Nessun marito e nessun fidanzato". "Perché no?" "È una storia lunga". "Non ho fretta". Sarah sospirò. Una parte di lei capiva che le domande di Redford erano dettate da una profonda comprensione, e l'altra era conscia del fatto che, per quanto il suo viso le fosse conosciuto, restava un perfetto estraneo. "Ci sono uomini da amare, uomini con cui fare sesso, uomini con cui giocare e gli amici. Il destino me ne ha fatti incontrare tanti delle ultime tre categorie - e non ne voglio altri - ma è stato avaro con gli uomini da amare". Sorrise. "Comunque, tutti abbiamo bisogno di trovare il grande amore della nostra vita". "E tu non l'hai mai incontrato?"
"No. Forse mi succederà a novant'anni, ma nel frattempo non mi butterò via". "Come, nessun amante da adesso ad allora?" "Ma no! Ci saranno degli amanti, ma nessuno che mi farà rinunciare alla mia vita o ad andarmene per mio conto per dieci settimane se è necessario". Sarah scostò i capelli dal viso per studiare Redford. "E tu?" "Cosa? Se sono sposato, innamorato, cosa?" "Tutto". "Sono single. Ho amato, ma non ho incontrato il grande amore: vorrei poter credere che esiste". "Ma nelle tue canzoni parli di lei". "Sono fantasie: io la sogno. Ma poi mi sveglio". "Non sei così cinico, John Redford". Lui finì il whisky. "Dici?" Sarah gli andò vicino e cercò di prendergli il bicchiere. Lui lo trattenne. Vedeva un'infinità di espressioni scorrere in quello sguardo duro e abbagliante, consapevole del suo potere ma allo stesso tempo incerto. Sarah aveva la sensazione che con lui una donna non avrebbe avuto scampo. "No" disse, guardandolo negli occhi. "Non lo sei". Lui lasciò il bicchiere. Lei lo riempì, fece lo stesso con il suo e lo appoggiò sul tavolo dietro a lei. "Allora, dove stai?" chiese, sentendo il bisogno di tornare su un terreno più sicuro. "Nel mio piccolo ranch. In fondo alla strada". Sarah sorrise ironicamente. "Piccolo, eh? Sì, non ho dubbi!" "Non abbastanza grande per quello che ci voglio fare, comunque". "Cioè?" "Libertà, spazio. Migliaia di acri per farci vivere i grizzly". "Compra più terra". "Non è così facile". "Perché no? Non ne vendono?" "Ne vendono, ma a prezzi folli". "Scusami, ti sembrerò cafona, ma non credo che per te sia un problema". Redford le fece un sorriso ironico. "Già, tutte le rockstar sono ricche sfondate: saresti sorpresa di sapere cosa ci resta dopo aver pagato la casa discografica, l'agente, il manager, gli avvocati e i commercialisti". "Può darsi, ma anche così..."
"Hai un'idea di quanto costi un bel ranch con vista sui Teton?" "Dimmelo tu". "Uno è stato venduto qualche mese fa, duecento acri, proprio nella vallata. Venticinque milioni di dollari". "Cristo! Ma è una follia!" "C'erano più di venti persone all'asta di quella proprietà. Me ne sono dovuto andare. Se lo è aggiudicato un guru tecnologico della Silicon Valley". "Che sorpresa. Ma perché qui la terra è così costosa?" "È una località turistica esclusiva per persone molto ricche; vengono sia d'inverno che d'estate. È incredibilmente bella e solo il tre per cento del terreno è edificabile. Il resto è terreno pubblico, protetto". "Dovresti andare a cercare denaro in Borsa" disse Sarah. "Presenta un catalogo dei tuoi vecchi successi a qualche investitore istituzionale che cerca qualcosa di intrigante da inserire nel portafoglio. Potresti guadagnare molto più di venticinque milioni. Guarda David Bowie". "Sì, ho sentito parlare dell'accordo Bowie". "Tu sei molto più grande di Bowie. Se lui è riuscito a racimolare cinquanta milioni di dollari, tu potresti arrivare a cento". Redford non sembrava impressionato. "Credi?" disse. "A Londra c'è una banca d'affari chiamata Goldstein International. È la migliore finanziaria che esista. Grandi lavoratori, onesti, aggressivi, ottima reputazione. Potrebbero uccidere per i loro clienti" aggiunse. Continuò velocemente: "Se passi da Londra, chiedi un colloquio con il direttore, James Savage". "Ma sì, magari lo farò". Sarah si alzò. L'aver menzionato la Goldstein l'aveva riportata alla realtà, spazzando via le fantasie serali. Lui era una rockstar. Lei era una traderinvestigatrice privata. La Goldstein l'aveva assunta come libera professionista per entrambe le attività: una la perfetta copertura dell'altra. Poi, Dante e Mosami erano stati assassinati. Sarah aveva abbandonato l'ICB ed era fuggita sull'Himalaya con Alex. Aveva vissuto là per un anno, poi avevano viaggiato in Perù per un altro anno, prima di tornare in Inghilterra. Incapace di capire cosa fare di se stessa, a Londra senza Alex che continuava la sua odissea, si era unita alla Kroll Associates, la più grande compagnia di investigazioni private del mondo e aveva imparato una nuova attività. Si era fatta tanti nuovi amici, per un anno aveva avuto una vita sociale sfolgorante, poi si era licenziata per mettersi in proprio. La Goldstein era ora il suo migliore cliente, praticamente l'unico. Pagava bene, abbastanza per la-
vorare solo metà dell' anno, e poter selezionare gli incarichi da accettare. Tutto questo stava per finire, pensò, calcolando l'entità dei conti da pagare per Alex. Quando fossero tornati in Inghilterra, avrebbe dovuto lavorare sodo per parecchio tempo per ricostruirsi il nido e riconquistarsi l'indipendenza economica. C'è un bel po' di differenza tra me e te, rifletté guardando l'uomo dì fronte a lei. Fuori dalla tua portata, le disse una vocina nascosta. "Mi puoi scusare?" disse. "Voglio cenare e andare a nanna. Devo svegliarmi all'alba, domattina". Redford sembrava sorpreso. "Non tornerai in Inghilterra?" "No, me ne vado quando mio fratello verrà dimesso. Vado a fare un giro a cavallo, nella natura incontaminata, tre notti in tenda". "Sola?!" "Io, tre cavalli, tre muli, una guida e il mulattiere". Capitolo 5 "Una chitarra? Ma tu sei pazza scatenata!" Sarah guardò l'uomo in chaps e cappello da cowboy, la sua guida per i prossimi quattro giorni, ammesso e non concesso che riuscissero a partire, cosa di cui dubitava fortemente. "Questo tuo amico strimpellatore cosa pensa di fare con 'sto affare? Usarlo come clava sulla testa di un grizzly, o suonarlo fino a quando lui corre a comperarsi il disco?" Sarah sentì un accesso d'ira assalirla improvvisamente, ma decise di mordersi la lingua e aspettare che il cowboy si stancasse da solo del suo dubbio umorismo. "Era già sufficiente che tu mi abbia chiamato all'ultimo momento per dirmi che c'è una persona in più; adesso salta fuori che questo qui vuole portarsi dietro una chitarra! Cosa cavolo vuole ancora, una band di dieci musicisti?" Sarah sbottò: "Ascolta un po', lo vuoi concludere o no l'affare?" Il cowboy sogghignò. "Ci puoi giurare. Adesso io e te siamo qui. Noi due, almeno ci siamo. E dove sarebbe il nostro concertista?" Sarah ritornò alla jeep. Poteva vedere Redford con il suo cappello da cowboy che parlava al cellulare. "Arriva subito" rispose, bloccandogli la vista di Redford mentre gli faceva un gesto per chiamarlo. Arrivò dopo un minuto, proprio mentre la
guida stava preparandosi a un'altra polemica. "Ciao" disse Redford allungando la mano. "Scusatemi per avervi fatto aspettare". "Hm" replicò il cowboy sconcertato dal fascino di Redford. Girò la testa di lato per studiarlo meglio "Ci siamo già visti? Hai un viso familiare". "Sono nato qui". "E dove?" "Sugli argini dello Snake River, a sud di Moran". "Come, proprio sul fiume?" "Già, letteralmente sull'erba. Il fiume tranquillizzava mia madre, sembra". "Ma non mi dire! E chi era tua madre? Abita ancora qui?" "Ci siamo trasferiti" rispose Redford in tono secco. "Allora, andiamo o no?" La guida sembrò turbata dal cambiamento di umore di Redford. "Sì" disse. "Aspetta che devo caricare la tua chitarra!" Poi il cowboy si soffiò rabbiosamente il naso e si diresse verso i muli. Redford alzò le sopracciglia. Sarah sogghignò. "Non sembra un cavallo anche lui? Capriccioso, permaloso, ma tutto sommato addestrabile". "Sai andare a cavallo, strimpellatore?" urlò il cowboy dal recinto delle bestie. "Stiamo per andare proprio in mezzo alla regione dei grizzly. Non voglio casini". "Mi sembra un punto di vista confortante" disse Redford sottovoce a Sarah "Ti chiedo solo di darmene uno equilibrato!" urlò. "Ho proprio il cavallo adatto a te. Si chiama Tony. Tu andrai sul gemello, Wes" urlò la guida a Sarah. "Sono tutti e due pony; cavalli più docili non esistono". "Suona bene" disse Sarah. "Ma tu hai un nome?" chiese il cowboy avvicinandosi a Redford mentre portava un cavallo pezzato, poco più alto di un metro e mezzo. "John. E tu?" "Dave". Fece un cenno a un uomo più giovane e robusto, sui vent'anni, che stava caricando i muli dei bagagli. "Quello là è Ash". Ash si voltò e fece un timido sorriso. Arrivò strascicando i piedi e strinse loro le mani. "Loro sono Sarah e John" gli disse Dave. "John dice di essere di qui".
Ash sbiancò in volto appena il suo sguardo si posò sul viso di Redford. "Molto lieto" cercò di borbottare prima di ritornarsene dai muli. Passarono accanto agli argini del Buffalo River, turgidi di neve che si stava sciogliendo man mano che la primavera si avvicinava ai lati della montagna. I cavalli procedevano cauti sul terreno ruvido, guardando ogni tanto a destra e a sinistra, come per godersi quello spettacolo meraviglioso. Passarono attraverso boschi di betulle argentate, abeti Douglas e pini Lodgepole, i tronchi costellati di nodi a forma di occhio, ed era come se gli spiriti del bosco li stessero guardando mentre camminavano. Nell'aria danzavano libellule e farfalle, e si sentiva il profumo di pino, puro e potente come incenso. Il vento sibilava attraverso le foglie scintillanti delle betulle. Ovunque andassero, sentivano il rumore dell'acqua che in certi punti zampillava, in altri ruggiva, o formava pozze in cui si potevano dissetare i cavalli. Quando arrivarono su un altopiano che sembrava scolpito in un ghiacciaio, Sarah rimase sbalordita dall'ampiezza del cielo, così enorme sopra di loro da poter quasi vedere, nel suo blu brillante, la curvatura della terra. I prati erano coperti di fiori selvatici blu e dorati. Tutt'intorno stavano spuntando nuovi alberelli. A metà giugno, la natura stava rinascendo. Sarah si voltò verso le cime dei Teton e si chiese se la primavera avrebbe mai potuto raggiungere quegli ammassi nevosi. I lati della strada erano cosparsi di tronchi d'albero, i rami senza corteccia scintillanti come ossa sbiancate. Un lago brillava d'acqua turchese, colmo di neve sciolta; ovunque girasse lo sguardo, Sarah vedeva uno spettacolo potente, pieno di vita, morte e rinnovamento. Redford le si avvicinò. "È meraviglioso, no?" "È il più bel posto del mondo". "Che fortuna nascere qui". "Hm". Tirò le redini e rallentò l'andatura. Si lasciarono alle spalle l'altopiano ed entrarono in un sentiero tortuoso che costeggiava la montagna. All'improvviso la processione si fermò e Dave indicò in silenzio un alce fermo a sei metri da loro. L'animale li guardava con occhi marroni, limpidi e sospettosi ma privi di paura. La sua testa era enorme e sgraziata, le orecchie lunghe e vellutate, e mentre si allontanava lentamente aveva la grazia di un ballerino. "Che essere sorprendente". Sarah disse a Redford. "Brutto e bello insie-
me". "Non siamo tutti così? A parte te, si intende. Tu sei semplicemente stupenda". "Ma fammi il favore. L'avrai detto migliaia di volte". "Forse, ma allora non ne ero convinto". Per un attimo, i loro occhi si incontrarono. Sarah fu la prima a distogliere lo sguardo. Non le sembrava vero di essere lì con Redford. Quando la sera prima gli aveva illustrato il suo programma, lui le aveva chiesto, come fosse la cosa più naturale del mondo "Posso venire?" e lei gli aveva risposto, altrettanto semplicemente "Sì". Si arrampicarono in alto, vicino al margine innevato. La neve scricchiolava sotto gli zoccoli dei cavalli, che camminavano con cautela fra gli abeti alti una quarantina di metri. La giornata trascorse in un sogno di bellezza e calore, cullata dal ritmico rumore di zoccoli e dal canto degli uccelli. Trovarono il posto ideale per accamparsi in una macchia di abeti, sopra la vallata. Dave e Ash legarono i cavalli, li nutrirono e li abbeverarono, poi piantarono le tende. Solo due. Sarah si avvicinò. "Avete bisogno di aiuto per la terza tenda?" "No, perché non c'è" replicò Dave. "Starai con lo strimpellatore, no?" Vedendo la reazione di Sarah sorrise. "Mettila così: o lui, o me, o Ash. Scegli tu". "Cosa devi scegliere?" chiese Redford. "Ho detto che dovrà fare coppia con te, me o Ash" rispose Dave. "Allora, chi scegli?" Redford guardò Sarah. Lei si girò e se ne andò in silenzio. "Ehi! Prima di andartene" urlò Dave, "dammi quello che hai di profumato o commestibile". "Cioè?" "Dentifricio, crema per il viso, mentine, colluttorio. Tutto quello che può emanare profumo da lontano. Gli orsi lo adorano. Dovremo appendere tutto a cinque metri da terra. Meglio farlo subito". "E quando dovremo cucinare?" chiese Sarah. "I grizzly se ne accorgeranno, no?" "Sanno già che siamo qui. Quello che bisogna evitare è di attirarli nel campo mentre dormiamo, e soprattutto di tenere nella tenda cose allettanti". Sarah fece una smorfia. "Giusto". Raccolse tutto quello che secondo lei
poteva tentare un grizzly e lo porse a Dave in una borsa di plastica. "Cosa succede se arriva un grizzly nel campo?" chiese. "Ce ne prenderemo cura io e Ash, non ti preoccupare". "E come?" "Prima cosa, non arriverà. La maggior parte di loro mantiene le distanze. È l'uomo il vero problema, il più delle volte, non gli orsi". "Ma se ne entra uno? Se me lo trovo davanti?" "Prima cosa, non correre. Resta dove sei. Non guardarlo; tieni gli occhi bassi. Ti può caricare, ma il novantacinque per cento delle volte è una carica finta, perciò Stattene immobile e probabilmente caccerà un bell'urlo, si fermerà e poi se ne andrà quando ha perso interesse". "Perfetto, adesso sono proprio tranquilla" disse con una vocina flebile. "E cosa faccio se non se ne va?" "Be', io e Ash abbiamo una calibro venti, un revolver e dello spray al pepe che colpisce a diciotto metri. Cominceremo a sparare un colpo e lo stordiremo, poi probabilmente se ne andrà". Sarah ci mise un attimo a digerire la faccenda. "Hai mai visto un grizzly da vicino?" Dave annuì. "Sì che l'ho visto, e lasciami dire che non esiste una creatura più bella sulla terra". Capitolo 6 Mangiarono la classica cena da cowboy, cucinata sul fornelletto da campo: bistecche, patate arrosto e, come concessione alla dieta moderna, insalata. Annaffiarono il cibo con abbondanti razioni di birra rinfrescata nel ruscello che costeggiava l'accampamento. Poi John Redford tirò fuori la chitarra. "Accetti richieste?" chiese Dave. "Certo" sorrise Redford. "Per esempio?" "Be'" disse Dave, diventato timido nel rivelare le sue preferenze, "visto che è una splendida notte stellata, cosa ne diresti di Starry, starry night? La sai?" Redford annuì, prese la chitarra, se la tenne stretta - come un'amante, pensò Sarah. Lo guardò tamburellare le dita sullo strumento, accarezzandolo come per riscaldarlo con il suo tocco sapiente e infine accordarlo. Poi iniziò a cantare. Quando terminò e le ultime note svanirono nella vallata, guardò Sarah.
Aveva notato il suo rapimento, colto lo sguardo che solo un amante sa cogliere e lì, fra gli animali e i cowboy, in uno sperduto boschetto, l'intimità era più stretta che mai. Un breve applauso ruppe l'incanto ed entrambi guardarono Dave. "Certo che suoni mica male! Bravo". Ash sparì nella sua tenda e tornò con una penna. Si tolse il cappello e si avvicinò a Redford. "Mi fai un autografo sul cappello?" Redford prese penna e cappello. "È un onore". Firmò e li restituì ad Ash, raggiante come se fosse il giorno di Natale. "Aspetta quando lo farò vedere alla mia fidanzata. Non crederà mai che ho sentito un concerto privato di John Redford". "John Redford? Gesù Cristo!" Dave sbiancò in volto. "Tu sei John Redford? Ma andate tutti a farvi fottere! Avreste dovuto dirmelo!" La faccia gli era diventata paonazza. "Togliti quell'accidente di cappello!" urlò. "Non sembri John Redford nascosto lì sotto. Il cantante si tenne il cappello, ma sorrise e fece un elegante inchino. '"Fanculo tutti. Almeno suonaci qualcos'altro, visto che abbiamo trasportato 'sta stramaledetta chitarra fin qui. Gesù, se avessi saputo che eri tu non avrei fatto tutto quel casino. Pensavo che fossi uno di quei cowboy di città che torturano a morte i timpani del mondo intero con le loro chitarre". "Non c'è ragione per cui avresti dovuto saperlo. Che pezzo vuoi?". "Something Wild. Mi fa impazzire". Redford imbracciò la chitarra. Ancora una volta, Sarah fu sconvolta dalla sensualità del suo tocco. Sedeva a gambe incrociate per terra, una tazza di caffè di fianco, la chitarra in grembo, i capelli dorati nel sole al tramonto; il vento e il ruscello erano la sua orchestra, e l'intera vallata, brulicante di ammali visibili e non, il suo pubblico. Arrivi da me come un uragano, con gli occhi tempestosi. Nel tuo tocco sento la terra, il vento e il fuoco, Mi fai volare via. Non hai regole. Tu sei travolgente. Tu costruisci il mondo a tua immagine, rivendichi i tuoi diritti Ai grattacieli e ai canyon, ai fiumi e all'aurora Al mio cuore, Tu sei travolgente.
Cosa ti ha ferito? Quale fornace ti ha temprato? Da dove vieni, amor mio? Hai abbattuto tutte le mie difese, E mi hai lasciato appeso all'amo Tu sei travolgente. Per qualche istante nessuno si mosse, come se non volessero lasciare andar via la canzone. Poi, Ash. Dave e Sarah distolsero gli sguardi da Redford, fingendo di essere tutti e tre enormemente interessati a un anonimo pezzo di terreno; le loro facce erano senza protezione, travolte dalla potente bellezza della canzone, dal quel suo dare voce ai loro sogni. "Questa era per te, Sarah" disse Redford, con una voce così bassa, che lei si chiese se lo aveva davvero sentito. Era uno stregone, e la stava incantando: era in trappola ora, privata della forza di resistere. Era tutto troppo bello, come un sogno troppo desiderato, e non voleva rovinarlo con la razionalità. Un'altra voce salì dall'oscurità, il lungo, crescente ululato di un lupo solitario. Non era lontano da loro. Quando la sua voce svanì, un altro ululato attraversò la vallata, da un punto lontano. "Due maschi alfa" disse Dave, sollevato, come se fosse felice di tornare su un territorio familiare. "Uno è il capo della vallata, e sta facendo sapere all'altro che deve mantenere le distanze". Sarah andò alla loro tenda, seguita dagli ululati, mentre scivolava nel sacco a pelo e lo chiudeva. Stava sdraiata, ascoltando l'urlo selvaggio, il vento che accarezzava le foglie d'argento delle betulle, i muli e i cavalli che si muovevano senza pace e annusavano chissà cosa. Quando Redford entrò nella tenda, poco tempo dopo, era girata su un fianco con il viso rivolto alla tenda, fingendo di dormire. Lo sentì aprire la cerniera del sacco a pelo, poi richiuderla. Sarah cercava di mantenere un respiro regolare fingendo di dormire, chiedendosi se lui riuscisse a sentire il battito del suo cuore. Rimase lì a lungo, cercando di prendere sonno, poi si addormentò davvero, per risvegliarsi di colpo. Un rumore l'aveva fatta sobbalzare, un rumore secco, improvviso, che sparì prima di riuscire a identificarlo. Si tirò su e guardò Redford che aveva gli occhi aperti. Fuori, i muli iniziarono a ragliare e i cavalli a sbuffare. "Cosa sta succedendo?" chiese Sarah. "Non ne sono sicuro". Redford iniziò a districarsi dal sacco a pelo. Fuo-
ri, le bestie raddoppiarono i segnali di allarme. "Rimanete lì!" arrivò la voce di Dave, da vicino. "Andate in mezzo alla tenda e rimaneteci! Subito!" La sua voce era alterata. "Ma cosa cavolo sta succedendo?" chiese Sarah. "C'è un grizzly qui fuori". "Oh, merda". "Va tutto bene. Ci pensiamo noi. Voi restate immobili". "Non ci muoviamo" disse Redford. "Perché?" chiese Sarah, gli occhi che brillavano di paura. "I ragazzi sanno quello che fanno" le disse Redford. "Forza, vieni più vicina". Sarah trascinò il suo sacco a pelo verso il centro della tenda. Poteva sentire il calore di Redford mentre le si avvicinava. I muli continuavano a ragliare. Nell'intervallo di silenzio tra le esplosioni di paura delle bestie, Sarah e Redford distinguevano una voce calma che parlava in tono fermo, vicino a loro. All'improvviso, sentirono dei passi non umani, pesanti e risoluti che si fermarono davanti alla loro tenda. Trattennero il respiro. Sarah sentì la paura scorrerle attraverso il corpo, ogni nervo le suggeriva di fuggire. Come se le stesse leggendo nel pensiero, Redford le prese la mano e gliela strinse. Si sentì un annusare rumoroso, poi una forte vibrazione e la tenda venne squarciata. Guardarono in alto e videro il cielo, le stelle e una silhouette che si stagliava nell'oscurità: la testa gigantesca di un grizzly. Sarah lo guardò; vide il lungo muso e gli occhi neri fissi nei suoi. Gesù Cristo, ma dove cavolo erano Dave e Ashley? "Fai il bravo, ragazzo, su, fai il bravo..." Redford gli stava parlando: "Va tutto bene, puoi tornare a casa adesso. Non ti vogliamo fare del male, non abbiamo cibo da darti. Stai tranquillo, piccolino, puoi andare a casa adesso, puoi andare, va tutto bene, va tutto bene". Mente Redford continuava con il suo dolce mormorio, Sarah cercava senza riuscirci di distogliere lo sguardo dall'orso. Vide come un guizzo negli occhi della bestia. Sembrava indeciso su cosa fare. Udì lo scatto di una pistola, poi ancora la voce di Redford, calma, insinuante, gentile. Mentre lui gli parlava, dalla grande testa marrone salivano sbuffi di vapore del respiro, poi l'orso si mosse lentamente. Udirono i passi pesanti che si allontanavano. Sarah prese fiato sibilando. Guardò il grosso buco nella tenda. "Ma, Cristo!" Esplose. "Avrebbe potuto ucciderci, scotennarci, sbranarci!" "Ma non l'ha fatto, no?" Rispose Redford, ancora calmo. "Era solo cu-
rioso, tutto qui. Non ci voleva fare del male". "Porca puttana! Ci ha fatto a pezzi la tenda!" La voce le tremava. "Voleva guardare cosa c'era dentro. Deve aver..." "Tutto bene, voi due?" Apparve la testa di Dave. "Tutto a posto" rispose Redford. "Tutto a posto un bel niente!" disse Sarah. "Non intendevo dire che qualcuno di noi si è divertito" disse Dave. "Però siamo vivi, nessuno è rimasto ferito e quella splendida creatura se n'è andata per la sua strada sana e salva. Ash farà la guardia. Gli darò il cambio più tardi, ma i muli restano il nostro migliore sistema di allarme. Ci avviseranno se tornerà". "Pensi che lo farà?" "No, ma tutto è possibile. I grizzly sono animali imprevedibili. Sei stato bravo". Guardò Redford. "Bisogna stare calmi e lasciargli spazio". Redford sogghignò. "Non metterò mai fretta a un grizzly, questo è poco ma sicuro!" "Vado a vedere i muli" disse Dave. "Cercate di dormire, voi due. Mi spiace di non potere far niente per la vostra tenda, stanotte. Potete dormire nella nostra, se preferite". "No, va bene così" disse Redford. "Grazie lo stesso". Sarah si stese nel sacco a pelo, sotto un cielo scintillante di stelle. "Sicura di star bene?" chiese Redford. "Mi sento un po' scossa. Non posso credere di avere visto un grizzly, muso a muso, e di essere sopravvissuta. Era fantastico, vero?" "Magnifico". "L'hai affascinato" scherzò lei. "Per un momento ho pensato che volesse entrare per fare la tua conoscenza". Redford rise. "Anch'io". "Non riesco a credere che là dietro ci sia la civiltà, che siamo scivolati da una vita in un'altra". "Tu quale preferisci?" chiese Redford. "La parte selvaggia. Sempre". "E io?" chiese John Redford, prendendole la mano. "Sono abbastanza selvaggio per te?" Sarah lasciò la mano nella sua. La sua pelle rabbrividì al tocco. Lui iniziò a farle carezze leggere come piume, delicate ed eccitanti... "Sei anche troppo selvaggio" disse con voce bassa. "Sei come un grizzly".
"Cioè?" "Senza dubbio sei uno dei più begli animali sulla terra, ma preferisco vederti da una distanza di sicurezza". Redford sorrise. "Vuoi dire che siamo troppo vicini qui, in questa tenda, nella natura, con le stelle che ci guardano e il vento che fa cantare gli alberi?" "Decisamente troppo vicini". "Per una splendida donna che è un'isola". "Sì, sono un'isola. Mi piace essere un'isola. Non voglio che nessuno attracchi alle mie rive". "Tuo fratello può?" "È un dato di fatto. Come il sole che sorge. Non ho scelta". "C'è sempre una scelta". "E tu sei una bella grana, John Redford. Non ho scelto di prendermela". "No, non l'hai fatto. Eravamo su una rotta di collisione". "Stai dicendo che è stato il destino a farci incontrare?" "Tu pensi di no?" "E chi dice che debba ballare alla musica del destino?" "Non è quello che facciamo tutti? Si balla andandogli incontro o allontanandosi da esso, ma bisogna sempre ballare, ragazza mia". Le sue dita le accarezzarono la mano. I loro occhi si incontrarono, e lei si disse Scappa. Mentre se lo ripeteva, silenziosamente, come un mantra, come una preghiera indirizzata a una forza superiore, si sollevò e prese la mano libera dell'uomo. Le sue dita accarezzarono le dita abbronzate, le stesse che aveva visto sfiorare le corde della chitarra. Siamo soli, pensò. È uno di quei momenti perfetti in cui tutto si ferma, tranne il vento che danza tra le foghe delle betulle argentate. Solo una notte, Sarah promise a se stessa. Una notte perfetta, e niente di più. Poteva sentire l'odore della terra sotto di loro, il profumo della sua pelle, pane fresco e miele. Gli baciò il polso, leccò la carne calda, assaporandola. Si mossero lentamente, trovandosi, adattandosi l'uno all'altra, labbra su labbra, le cosce di lui tra le sue gambe; liberi dagli abiti, dalle inibizioni, si mossero uno contro l'altra, la luce delle stelle che brillava nei loro occhi sorridenti. Abbandonarono i problemi, le difese, le battaglie interminabili, la solitudine e fecero l'amore tutta la notte. Si addormentarono mentre l'alba lambiva le cime delle montagne e si svegliarono quando il sole baciò la loro tenda, abbracciati, respirando la stessa dolcissima aria.
Capitolo 7 Sarah affrontò la capoinfermiera dell'ospedale, con la quale aveva stretto un'amicizia durante le lunghe ore di veglia. "È pronto per andarsene, no?" chiese. "Potrebbe andarsene, certo. Ma non è ancora pronto. Sarebbe meglio aspettare altre due settimane, prima di togliere il gesso. Mi sembrava che fossi tranquilla su questo. Cosa ti è successo, ragazza? Corri qui, dopo l'orario di visita, e mi dici che ti vuoi portare tuo fratello in Inghilterra col primo volo disponibile. Abbiamo fatto qualcosa che ti ha infastidito?" "Voi non avete fatto niente. Non è successo niente. Voglio solo tornare a casa con Alex. Se per lui è sicuro viaggiare, partirei domani". "È vero che sei tu che devi pagare il conto, ma lui cosa ne pensa?" "Questo non ha niente a che vedere col conto. È che lui è ormai pronto per partire". La capoinfermiera fece un sospiro. "Va bene, ragazza mia. Fai come vuoi. Tornatene a casa". Adesso che niente si frapponeva tra lei e la partenza, Sarah esitò. Più aveva voglia di restare, più si rendeva conto che se ne doveva andare. Si rifiutava di farsi spezzare il cuore da quell'uomo, e se fosse rimasta sarebbe sicuramente successo. Non era il tipo d'uomo che si dimentica con uno sbadiglio e due bottiglie di Chardonnay. L'aveva già marchiata, con una notte perfetta. Scappa, finché sei in tempo. Era il trader che parlava, era la donna che aveva continuato da sola quando quelli che aveva amato l'avevano abbandonata o, più precisamente, le erano stati strappati con violenza. Redford aveva sicuramente passato migliaia di notti come quella. C'era abituato e se la poteva dimenticare facilmente. Lei era troppo pura per essere usata e buttata via. Non aveva altra scelta. Firmò il conto dell'ospedale, reprimendo un senso di nausea quando scrisse le cifre - settecentoquarantatremila dollari e diciotto cents. Guarire era davvero un lusso in quella terra ricca di opportunità. "Posso restare in ospedale stanotte?" chiese alla capoinfermiera. "Ho tutte le valigie nella macchina a noleggio, parcheggiata qui dietro. Sarà più semplice partire domattina". La donna la guardò dubbiosa. "Farai un salto veloce a Spring Creek?" Sarah rise. Dopo mesi di permanenza in città, gli affari di famiglia non avevano più segreti. "Se ricordo bene, tuo cugino è il ragazzo alla reception. Ho pagato proprio lui. Telefonagli se non ci credi, signorinella dub-
biosa". La capoinfermiera rise con lei. "Va bene, ragazza, ti credo. Puoi restare. Rinuncio ad addebitartela, visto che hai già pagato abbastanza". La guardò pensierosa per un momento. "Non sono affari miei, e puoi anche dirmi di chiudere il becco, ma mi preoccupa vedere una ragazza giovane che deve sborsare una cifra simile. Ce la farai?" Sarah si scostò i capelli dal viso, un tic nervoso sviluppato negli ultimi mesi. "Ho praticamente prosciugato i miei risparmi, ma ho ancora una casa di mia proprietà e alcune abilità equivoche che sarò sempre in grado di usare per fare soldi. I miei clienti mi amano. Sono fedeli". "Cristo! Non sarai mica una prostituta?" Sarah ridacchiò. "No, un agente di Borsa". Il mattino seguente, attraversando un cielo senza nuvole, l'aereo si sollevò, librandosi in volo sui Teton, trasportando Alex e Sarah a casa, portando via Sarah dalla natura incontaminata, via da John Redford, che sedeva solo nel suo ranch, in attesa di una donna che non gli aveva detto che lo stava per lasciare. Sarah fissava fuori dal finestrino, sentendo la paura alleviarsi a ogni metro che metteva tra di loro. Lei non aveva cercato l'amore, non era pronta, non lo voleva, non aveva alcuna intenzione di ballare al suo ritmo... Capitolo 8 Carlyle Square, Londra, diciotto mesi dopo. Quando il sole filtrò attraverso la finestra della sua casa a quattro piani in Carlyle Square, Sarah si svegliò col sorriso sulle labbra. Si accoccolò, godendosi il tepore del letto, ascoltando beata il dolce rumore in sottofondo, prima di scivolare fuori dalle lenzuola, infilarsi un'informe T-shirt e andare in silenzio nell'altra stanza. Guardò in basso e fu salutata da un fuoco di fila di risolini e sorrisi sdentati. "Come va, cuoricino mio? Ma lo sai che sei bellissimo? Ma lo sai?" Si chinò e baciò la pelle setosa, deliziata dal suo profumo, gli occhi fissi in quelli del bimbo. Non esisteva una passione pari a quella. Allungò le braccia verso di lui. "Vieni dalla mamma, amore?" Suo figlio rise ancora e, imitandola, allungò le braccine. Lo prese in braccio e lui le si aggrappò: una manina le afferrò i capelli, l'altra le dava dei colpetti affettuosi. Sarah gli sussurrò sulla pelle morbida del collo.
"Come va, piccinino? Hai dormito bene, amor mio?" Gli cambiò il pannolone e lo portò nella sua camera da letto, dove lo allattò. Poi lo vestì e lo riportò nel lettino a giocare, fece una rapida doccia, fermando spesso l'acqua per sentire se Georgie piangeva. Dopo essersi spalmata la crema sul viso e il seno, si infilò jeans, pullover e scarpe da tennis, afferrò il bambino e scese due piani per andare nella cucina nel seminterrato. Dopo una lunga seduta di coccole, mise il bimbo sul tappeto nuovo con una vasta selezione di giochi e iniziò a preparare la colazione. Amava questa stanza. Il sole entrava attraverso le porte finestre rivolte a est che si affacciavano sul giardino ben curato. Adiacente alla cucina c'era il salotto, con comodi divani, librerie, un grande televisore e un lettore cd Bang and Olufson, pagato un patrimonio cinque anni prima, quando Sarah portava ancora a casa mezzo milione di sterline all'anno come uno dei più quotati trader di Londra. Scelse un disco di Lauryn Hill, una delle cantanti preferite di Georgie. Forse sarebbe stato meglio fargli sentire Mozart o Beethoven, ma lui sembrava più felice con Lauryn. L'allattamento le procurava una fame da lupi, così si tagliò cinque larghe fette di pane nero biologico, lo tostò bene, lo spalmò di burro e di una selezione di marmellate e miele. Cucinò un po' di porridge per Georgie, aggiunse una banana frullata e lo mise a raffreddare. Si versò una grossa tazza di camomilla, guardando con rimpianto la macchina per l'espresso, che stava trascurando da quando aveva scoperto di essere incinta di Georgie, e avrebbe ignorata fino a quando non avesse smesso di allattare, cosa che non aveva intenzione di fare per un bel po'. Prese in braccio Georgie, lo mise a sedere sul seggiolone, e si sedette. Una mandria di animali selvatici in fuga scese le scale, annunciando l'apparizione di Alex. Sarah sorrise. Che potesse far le scale, per non parlare di correre, era un piccolo miracolo. Suo fratello apparì con un tumulto di energia e di salute. "Ciao, Sare". Le diede un bacio, e si voltò verso Georgie. "Come va, mascalzoncello? Hai fatto dormire la mamma?" "È andata benino. Ha chiamato solo una volta. Non c'è bisogno che ti alzi adesso con noi galline". L'orologio sul muro segnava le sei e mezzo. Quando era a Londra, Alex era sempre stato riluttante a fare la sua comparsa prima delle nove. "Ho sentito il profumino dei toast" disse sogghignando. Sarah si sentì riscaldata e insieme rattristata da questa bugia. Alex sarebbe partito la settimana successiva per la prima spedizione dopo l'incidente, e sapeva che
stava cercando di trascorrere il più tempo possibile con lei e Georgie prima di lasciarli soli. Era uno zio meraviglioso, anzi un vero padre. Avrebbe passato volentieri metà della notte con Georgie, se Sarah glielo avesse permesso. I primissimi giorni, devastata dalla stanchezza, lei aveva accettato il suo aiuto, ma poi aveva insistito per fare da sola. Rifiutava tutto quello che assomigliava a un appoggio. Doveva andare avanti come aveva scelto di fare, cioè da madre single. Alex aveva fatto tutto quello che poteva. L'aveva portata all'ospedale quando erano iniziate le contrazioni e, a parte il personale medico dell'ospedale, lui e l'adorato zio Jacob erano stati i primi a vedere Georgie. Entrambi se n'erano innamorati perdutamente. Georgie era un bimbo molto fortunato, si disse. Aveva due zii innamorati persi di lui, e questo avrebbe certo sopperito alla mancanza di un padre. I suoi pensieri involontariamente andarono a Redford. Dov'era? Cosa stava facendo? Aveva mai avuto la sensazione di avere creato qualcosa di profondamente suo, sangue del suo sangue, che portava i suoi geni? Non si era mai sentito pervaso da un'incomprensibile commozione? Sarah sentì arrivare il solito, familiare struggimento, che purtroppo non se n'era mai andato. Stava leggermente sbiadendo, forse, ma bruciava ancora dentro di lei. Dopo aver divorato la colazione, Alex andò nello studio di Sarah, si concentrò sulle sue cartine e prese appunti per il suo viaggio in Pera. Per Sarah e Georgie era l'ora della passeggiata. Sarah preparò il piccino, gli mise il cappello e insieme uscirono nel sole estivo. Spinse il passeggino attraverso strade familiari e nuove. Lei e Alex erano appena tornati a Londra, dopo nove mesi passati in campagna. Giusto il tempo di far nascere Georgie al St Mary's Hospital, dopo di che erano ritornati al cottage affittato nel cuore della campagna del Dorset, dove lo zio Jacob era ospite quasi fisso. Sarah era eccitata di essere di nuovo a Londra, ma anche un po' nervosa. Si guardò intorno. Prima o poi avrebbe incrociato qualcuno che conosceva e il suo segreto sarebbe diventato di dominio pubblico. Fino a quel momento, solo Alex, lo zio Jacob e la donna delle pulizie, signora V, madre di cinque figli, erano al corrente dell'esistenza di Georgie. Guardò il suo bimbo, fermandosi impulsivamente per riempirlo di baci. Lui sorrise e si dimenò, e lei rise gioiosa. "Sei il mio piccolo segreto, amore. Suppongo di doverti dividere presto con il mondo intero, ma per ora ci siamo solo noi, nessun altro". George borbottò qualcosa, come se avesse capito tutto e fosse deliziato dalla prospettiva.
Sarah spinse tutta fiera il passeggino attraverso le strade e il traffico, fino a raggiungere il rifugio sicuro di Battersea Park. Là passeggiò per un'oretta sotto il sole caldo, prima di dirigersi verso casa, visto che per Georgie era già quasi ora di pranzare. Quando arrivarono a casa, Alex era all'allenamento. Si esercitava sei giorni alla settimana, cercando senza posa di ritrovare la forma e la forza di un tempo. Sarah sapeva che stava andando bene, ma sapeva anche che nascondeva il dolore. Ogni tanto, gli sfuggiva una smorfia che non riusciva a trattenere. I medici dicevano che era guarito all'ottanta per cento, ma Alex sosteneva di essere pronto per scalare; gli avevano dato cautamente il loro assenso, sebbene lo avessero avvisato che un'altra caduta sulla gamba malmessa, tenuta ancora insieme dai chiodi, gli avrebbe fatto salutare per sempre il trekking. Alex invece voleva vivere la vita intensamente. La lentezza esasperante del compromesso non era per lui. Come sua sorella, se il rischio stava tra lui e ciò che desiderava, ci si buttava semplicemente in mezzo. Sarah prese uno dei pullover e lo appoggiò sul tavolo della cucina. Si sedette sulla poltrona e attaccò Georgie al seno per la poppata del dopopranzo. L'aveva appena messo nel suo lettino, che suonò il campanello. "Merda, e questo chi è?" sussurrò a se stessa, uscendo in silenzio dalla stanza per non svegliare Georgie. Guardò velocemente giù dalle scale prima che suonassero ancora, e aprì la porta. "Eva Cunningham!" esclamò. "Brutto momento?" Sarah scosse la testa. "Come? Sì, anzi no, scusa". Si scostò i capelli dal viso. "Sono solo stupita di vederti. Pensavo fossi in qualche punto sperduto del Sudest asiatico". "Sarah Jensen stupita? Questa sì che è una novità!" disse Eva con la sua voce carezzevole e insieme glaciale. "Ero nel Pacifico del Sud, ma siamo tornati una settimana fa. Devo raccontarti la storia della mia vita sulla porta di casa, o pensi dì farmi entrare?" Sarah sogghignò, tornando a essere quella di un tempo. "Ti terrò qui fuori tutto il giorno, se ciò significherà sapere la storia della tua vita". Eva le fece una smorfia insolente. "Sogna, sogna, ragazzetta!" Entro in casa e si avviò verso le scale, in direzione della cucina, la loro tana di sempre. "No, non andare lì. C'è un casino incredibile!" disse Sarah velocemente. "Stiamo pure qui".
Eva le rivolse un'occhiata sconcertata, ma non disse niente. "Vuoi qualcosa da bere?" chiese Sarah. "È troppo presto per festeggiare il tuo ritorno con lo champagne". Eva strinse gli occhi. "Sei fuori di testa? Non bevo, ricordi?" "Ah, sì". Per quel poco che le aveva detto, sapeva che Eva Cunningham era stata eroinomane. "Allora un caffè?" "Sarebbe splendido, ma tu bevi, se vuoi". "Non ti preoccupare, non bevo neanch'io". "Questo mi sorprende sul serio. Cos'è successo? Ti sei disintossicata?" "Ma dai, non bevevo tanto, Eva", replicò Sarah stizzosamente. "Mi sto solo prendendo una pausa. Bene, fammi preparare il tuo caffè" disse in fretta, senza lasciare a Eva il tempo di fare domande. Scese le scale per andare in cucina, lasciando l'amica nel salotto libero da giocattoli a pian terreno. Pochi minuti più tardi tornò con un caffè per Eva e una camomilla per sé. Eva studiò sospettosamente la camomilla. "Adesso ti sei messa a bere piscio di cavallo?" "Molto divertente!" "Ma che cavolo hai? Mi sembri un'altra persona". "Dimmi del tuo viaggio, dai" disse Sarah, frugando nella tasca dei jeans per controllare che il baby phone fosse acceso. "Voglio che mi parli del Pacifico. Perché sei tornata?" "Be'..." disse Eva, "Andrew si era licenziato per seguirmi e abbiamo vissuto di qui e di là per due anni. Stava cominciando a dare i numeri, per cui non ho avuto altra scelta che seguirlo io, stavolta. Siamo tornati per aprire una compagnia di investigazioni, controlli su aziende, su persone, quelle robe lì". "Le stesse cose che facevamo per Kroll?" "Esattamente. Lavori ancora lì?" "Uh, uh". Sarah scosse la testa. "L'ho fatto per un anno, ma non sono il tipo da azienda. Mi sono messa in proprio, freelance. Lavoro più che altro per la Goldstein, ma mi sono presa un periodo sabbatico. "E allora cosa fai? Come ti mantieni?" Prima che Sarah potesse rispondere, uno strillo assonnato salì dal baby phone che aveva in tasca. Gli occhi di Eva si allargarono per lo stupore. "Scusami, ma mi sembra che i tuoi jeans stiano piangendo". Sarah si alzò in piedi, senza saper più cosa dire. Salì le scale per andare
da Georgie, lo prese in braccio e se lo strinse forte. Lo portò giù. Eva era in piedi. "Porca puttana, Sarah. Hai fatto un figlio!" Sarah sogghignò. "Chi è questa personcina?" chiese Eva dolcemente. Sarah si girò, così che Georgie e Eva potessero guardarsi negli occhi. "Questo è Georgie. Georgie, ti presento Eva". "Cristo, Sarah. Non ho il minimo istinto materno, come tu ben sai, ma è stupendo!" La sua amica sorrideva radiosa. "Sì, penso anch'io. È quanto di più bello ho visto in vita mia, l'uomo dei miei sogni, il gioiello più prezioso della terra". "Che mamma innamorata!" commentò Eva. "Fra tutti quelli che conosco, non avrei mai pensato a te". Sarah si sedette con Georgie in grembo. "Non ho scelta. Potrei morire per lui. Quando senti dire questa frase ti viene da pensare: che esagerazione. Ma è proprio così. Lascia che ti dica una cosa: l'istinto di protezione materno è la forza più potente del pianeta". "Ci credo" disse Eva, seduta di fronte a loro. "Allora, dov'è il paparino? Non sapevo ti fossi sistemata". "Non l'ho fatto, infatti". "Ah. Abbiamo molto da raccontarci". "Non c'è granché da dire". "Cosa? Sei rimasta incinta e ti ha lasciato?" "No. L'ho lasciato io ancora prima di sapere che ero incinta". "Gliel'hai detto dopo?" Sarah scosse la testa. "Chi lo sa?" "Praticamente nessuno". "Adesso ho capito perché eri così misteriosa quando sono arrivata! Pensavo avessi un amante nascosto al piano di sotto". Sarah sorrise triste. "Non ho amanti da un sacco di tempo. Mi sono praticamente scordata cosa si prova". "Si sta proprio benino, devo dire". "Huh, non ti preoccupare, è all'ultimo posto nelle mie fantasie. Se dovessi scegliere tra fare sesso e dormire, sicuramente sceglierei dormire". "Posso farti una domanda?" "Cosa?" Sarah chiese timorosa.
"Be', quando hai saputo di essere incinta avevi una carriera, una vita tua, sembrava che tutto ti andasse bene, giusto? Oltretutto, avere un figlio da sola è un vero casino, anche nel nuovo millennio, specialmente per donne come noi, donne in carriera. Cosa ti ha fatto decidere di tenerlo?" Sarah baciò la testolina soffice del bimbo e se lo strinse forte. "Cosa posso dirti? Ho seguito il cuore e non la testa. Quando ho saputo di essere incinta, ero terrorizzata, addirittura pietrificata, ma ho cercato di calmarmi. Mi sono presa qualche giorno per far decantare la sorpresa e il terrore e, vedi, era come se questo piccino mi stesse parlando. Sentivo la sua presenza, stava vivendo dentro di me e sentivo di dovergli dare la possibilità di crescere. Dopo tutto quello che è successo alla mia famiglia, dopo tante morti, avevo l'opportunità di creare una famiglia mia. Come avrei potuto scegliere diversamente? Ma c'è dell'altro. Sono pazza di lui da subito, da quando era un fagiolino, invisibile a occhio nudo". Eva annuì. "È stato difficile?" Le lacrime salirono spontaneamente agli occhi di Sarah. "La cosa più difficile che mi è mai capitato di fare. Lasciami dire, alzarsi tre volte per notte per allattare, e sei volte per confortarlo è un milione di volte più duro di passare tutte le notti in ufficio a lavorare. La depressione è una cosa alla quale non vuoi credere, ma non puoi sfuggirle. La vita di questa cosina dipende proprio solo da te". "Una responsabilità simile mi farebbe impazzire". "Cento per cento di responsabilità. Per tutta la vita. Mi terrorizza ancora. Ho sempre pensato, se mai avessi avuto un bambino, che avrei subordinato tutto alle mie condizioni, e sarei stata in grado di controllare la situazione, gestendo il tutto a compartimenti stagni: madre e donna in carriera insieme. Ma non è possibile. Sei proprio un' altra persona. Forse è un po' come una conversione religiosa, ma infinitamente più potente. Quando nasce tuo figlio, rinasci anche tu. Non c'è modo di tornare alla vecchia vita". "Non provi mai nostalgia?" "A volte". "Riscriveresti la storia della tua vita, se potessi? Eviteresti di rimanere incinta?" Sarah scosse la testa con violenza. "Non cambierei una virgola. Non c'è niente come lo sguardo innamorato in questi occhietti, quando mi vede entrare nella stanza; non c'è niente come il tenermelo stretto e allattarlo. E il momento in cui è nato, quando io ero sdraiata là e me l'hanno messo in braccio... guarda, Eva, non riesco a rendere l'idea. Passiamo la vita ad a-
spettare che ci capiti qualcosa di importante, vogliamo vedere qualcosa di magico, essere testimoni di un miracolo. Questa è una cosa ancora più grande. Non potrò mai dimenticarlo". Sfregò le labbra contro il viso di Georgie. "Non è paragonabile a nient'altro". Eva rimase silenziosa. Era un linguaggio che non conosceva, ma ne comprendeva la potenza. La forza dell'amore di Sarah per il suo bimbo la commuoveva fino alle lacrime. Si chiese se le sarebbe mai capitato di provare un sentimento così intenso. "Sei fortunata" disse lentamente. Sarah le fece un sorriso radioso, felice che l'amica avesse compreso così a fondo quello che provava. "Sono fortunata quanto è possibile esserlo". "Un'altra domanda" disse Eva. "Com'è che sei rimasta incinta? Mi spiego non è che tu fossi una che non ci stava attenta, no?" "Stavo prendendo la pillola" disse Sarah. "Ero tranquilla. Poi ho avuto un po' di diarrea. Non ci ho più pensato, ma evidentemente la pillola non ha fatto il suo dovere". "Ah. Ultima domanda". Sarah si chiese cosa potesse essere, provando un po' di paura. "Sono autorizzata a chiederti chi è il padre?" Sarah sorrise e scosse il capo. "Dimmi solo com'è". Sarah fece un sospirone. "È... è un uomo sorprendente, il più affascinante, totalmente sexy, strafigo sul quale mi è mai capitato di mettere gli occhi addosso. Ti basta?" "E perché cavolo l'hai lasciato?" "Proprio per quello. Mi sono detta che non volevo diventare una schiava d'amore". Sarah rise. "E guarda come sono ridotta!" "Pensi che lo rivedrai, prima o poi?" chiese Eva. Sarah scosse il capo. "Ne dubito. Le nostre strade si sono incrociate una volta. Sarebbe troppo aspettarsi che succeda ancora". Capitolo 9 Il telefono suonò nel momento in cui Eva stava uscendo. Sarah corse a rispondere, cullando Georgie. "Sarah, sono James Savage". "Oddio, ciao James, come stai?" Georgie borbottò.
"Cos'era?" chiese Savage. "La radio" rispose Sarah. "Resta in linea un secondo, vado a spegnerla". Portò Georgie nella stanza accanto, lo mise sul pavimento e prevenne l'incombente esplosione di pianto con il suo gioco preferito, un coniglietto giallo. Corse al telefono. "Scusa, James". "Hm. Non sapevo ci volesse tanto per spegnere una radio". "Be', adesso sono qui". "Eccoti qui, più tagliente che mai, a quanto pare. Sei ancora interessata a lavorare? Credo che il tuo periodo sabbatico sia agli sgoccioli, no? Ti sei divertita?" "Non puoi nemmeno immaginare quanto". "Ah, questa sì che è vita: giovane, libera e single!" Sarah trattenne a fatica uno sbadiglio. "Dimmi pure". "Allora, vuoi un po' di lavoro?" Gesù. Sarah sentì tutto il corpo irrigidirsi dal panico. Non era pronta a lavorare, a rientrare in quel mondo che le era diventato estraneo. Si sentiva profondamente terrorizzata da quello che una volta era stato il suo dominio. Non voleva abbandonare Georgie. Non voleva assumere una baby sitter e lasciarlo nelle sue mani. D'altronde aveva sempre saputo che, prima o poi, questo momento sarebbe arrivato. Aveva bisogno di soldi. Dopo aver tirato Alex fuori dai guai era al verde, e in più ora aveva un bambino da mantenere. Come milioni di donne, non aveva altra scelta che tornare al lavoro. Comunque, era fortunata. Se non altro, il suo lavoro era molto ben pagato: poteva lavorare per qualche mese e poi prendersi una pausa. Fece un respiro profondo e prese la sua decisione definitiva. "Va bene. Quando ci vediamo?" "Non vuoi neanche sapere di cosa si tratta?" chiese Savage, sorpreso. "Dimmi solo dove e quando". Che differenza faceva? Il lavoro è lavoro. Pagava, questa era la sostanza. Non si poteva più permettere il lusso di scegliere solo lavori interessanti, abbandonando quelli che non la intrigavano. "Nel mio ufficio. Domani alle undici". "Ok. A domani". È sconcertante vedere la velocità con la quale le prospettive di vita possono cambiare, rifletté Sarah. Il lavoro era sempre stato una specie di passione per lei, lo aveva amato e odiato, considerato una terapia necessaria e una distrazione. Ora era lo strumento per pagare i conti e niente di più. Aveva sempre incoraggiato Alex. Lui cercava di guadagnare: aveva scritto
un articolo divertente sugli sport di montagna, ma col ricavato si sarebbe potuto comperare al massimo un paio di stivali. Era un sognatore, un esploratore e scalatore nato e Sarah era sempre stata felice di finanziare le sue scelte, ma ora c'era anche Georgie. Aveva una ragione di esistere, ora non aveva più bisogno di giustificare la sua esistenza con la competizione sul posto di lavoro. Era stata una delle migliori trader dei mercati esteri della City, il denaro che aveva guadagnato lo dimostrava ma, mentre si sentiva fiera di quanto aveva ottenuto, non riconosceva più in lei la forma mentis di quei tempi. Si chiese che razza di impegno Savage le avesse programmato, trading o investigazioni private? Sarebbe stata in grado di fare qualcosa di buono col suo cervello spappolato e la sua mancanza di entusiasmo? Aveva imparato i trucchi da investigatore privato da Kroll con Eva Cunningham come mentore. Eva lavorava da sette anni come agente sotto copertura per l'M16, infiltrandosi così profondamente in campo nemico da aver avuto bisogno di assumere eroina per rendersi più credibile, e se n'era poi ritrovata dipendente. Gli anni della droga erano ormai lontani, come pure i suoi giorni all'M16, ma aveva usato quello che sapeva per insegnare a Sarah un'infinità di trucchi impensabili in un sano corso di addestramento per investigatore privato. Sarah cercò invano di richiamarli alla memoria, domandandosi per quale strana ragione si stesse impelagando di nuovo con Savage. La porta si aprì lentamente. Georgie, dalla sua culla di cuscini sul pavimento, sbirciò con interesse Alex che entrava con i capelli sudati appiccicati alla testa. "Ciao". Prese in braccio Georgie e lo coccolò rumorosamente. "Sono stanco morto! Penso che farò una doccia e andrò dritto a nanna". Si soffermò a guardare Sarah e il suo sorriso sereno svanì. "Che c'è?" Sarah si scostò i capelli dal viso. "James Savage mi ha appena chiamato. Vuole che vada domani alla Goldstein. Ha una specie di lavoro da propormi". "Ah". Diventò subito serio. "Non mi sento pronta, ancora" disse Sarah, curvando le spalle. "Sto allattando. Non mi sono mai allontanata da Georgie per più di due ore. Come posso essere all'altezza di quelle stramaledette riunioni nella City? Come farà Georgie senza di me? Cosa cavolo vado a raccontare? Negli ultimi otto mesi, il pensiero più squisitamente finanziario che mi è venuto riguardava la marca di pannolini più conveniente.
Alex sorrise. "Dai, non esagerare". "Be', guarda, più o meno è così. E poi, chi mi tiene Georgie? Tu devi andare in palestra". "Posso perdere un allenamento, per una volta, porca miseria". Sarah scosse la testa. "Posso telefonare a Jacob". "Lo sai che sarebbe deliziato all'idea di aiutarti, no?" disse Alex. Sarah sorrise. Georgie e Jacob si adoravano. "Sì. Lo chiamo. Probabilmente sarà solo per una volta. Quando Savage andrà a cozzare contro il mio cervello atrofizzato sarà costretto a cacciarmi via a pedate". Capitolo 10 Sarah si svegliò il mattino dopo in preda a un attacco di panico. Cosa indossare? Era ancora nove chili sopra il suo peso forma. Cosa avrebbe detto? Si sentiva il cervello in acqua: aveva perso interesse per tutto quello che non ruotava attorno a Georgie, ed era completamente disinteressata al resto. Non aveva la più pallida idea di quello che stava succedendo nel mondo, per non parlare dei mercati esteri. Non guardava più i notiziari e non leggeva mai un quotidiano. Ai vecchi tempi avrebbe bluffato da par suo, ma l'autostima era svanita, non sapeva dove, come o quando: fatto sta che non c'era più. Iniziò a percorrere la stanza a grandi passi, cantilenando: "Sei intelligente, sei una donna di successo, ti sei laureata a Cambridge, nella tua vita hai già guadagnato milioni di sterline, ti sei confrontata con personaggi dubbi e scorretti e sei riuscita a batterli con l'astuzia. Puoi fare tutto quello che vuoi!" Non funzionò. Aveva perso perfino la capacità di autoconvincersi. Quando alle nove arrivò Jacob, Sarah era ancora in camicia da notte, spettinata e con gli occhi sbarrati. Georgie aveva assorbito la tensione della madre e urlava come un pazzo. Sarah baciò Jacob mentre lui iniziava a borbottare al bimbo. "Ciao, Georgie. Ciaaaao piccolino! Ma chi c'è qui?" Gli faceva ampi sorrisi, subito ricambiati da Georgie che gli dedicò la sua piena approvazione scostandosi dalle braccia della mamma per farsi prendere in braccio. "Vieni dallo zio Jacob, vieni topolino". Sarah glielo porse. Jacob lo strinse forte parlando a Sarah da sopra la spalla. "Vai a prepararti, tesoro". Sua nipote si spostò da un piede all'altro. "Non credo di potercela fare. Non posso tornare a lavorare. È troppo presto... Non sono pronta. Non vo-
glio andare, Jacob. Perché dovrei? Non è corretto, non..." "Calmati, tesoro, va tutto bene. Andrai e sarai perfetta. Sei passata attraverso sfide ben peggiori di questa". "Davvero? Non riesco a ricordarmelo. Comunque, non sono più quella persona. Quella era la vecchia Sarah che non esiste più". "Non è vero. È ancora qui, solo che sta aspettando che tu la tiri fuori. Vai a quella riunione e fagli vedere i sorci verdi. Ascolta, cerca di tenere bene a mente il mio trucco preferito. Quando mi sentivo nervoso e intimidito, cercavo sempre di immaginarmi la persona che mi stava mettendo a disagio seduta sul water, nuda". Sarah scoppiò in una risata isterica. "Tu prova, vedrai che funziona". A salutarla fu un trio irresistibile, composto da Jacob che faceva il risoluto, Alex mezzo addormentato ancora in pigiama e Georgie sconcertato dalla situazione anomala. Si accasciò sul sedile posteriore di un taxi nero, osservando come cambiavano le strade durante l'interminabile viaggio verso la City. Se si fosse concentrata a guardare con attenzione i corpi vestiti con eleganza che si affrettavano di qua e di là, forse sarebbe stata in grado di assorbire per osmosi una piccola parte dei suoi vecchi trucchi. Stavano tutti aspettando lei, le facce girate nella sua direzione, osservandola mentre passava in mezzo a loro. A capotavola era seduto James Savage, amministratore delegato della Goldstein e responsabile del suo reclutamento. Si inclinò all'indietro, le braccia piegate dietro la bella testa di capelli color argento, splendente nel suo impeccabile completo gessato blu metallico. I suoi occhi erano due fessure. Sorrideva, non con affetto, ma di piacere. A lui piaceva Sarah perché produceva risultati, e ancora di più perché apprezzava la sua pericolosa imprevedibilità. Conosceva la sua reputazione. Il governatore della Banca d'Inghilterra gliel'aveva raccomandata, con l'ammonimento che era una pericolosissima mina vagante. Savage, che amava pensarsi come un rinnegato tra i colletti bianchi aveva avvertito un'immediata affinità. Aveva sentito molto più di questo, se voleva essere onesto. La studiò rapidamente. Aveva messo su peso, indossava pantaloni sportivi con grosse tasche laterali, una morbida tunichetta e scarponi bassi. La pelle aveva un bel colore ambrato, le guance risplendevano. Era voluttuo-
sa, la curva dei suoi splendidi seni era ben visibile attraverso il tessuto leggero. Sarah Jensen era incredibilmente sensuale. Oggi sembrava stanca, preoccupata, ma sorrideva con determinazione. Come riuscisse ad avere quella leggerezza, quel tocco di grazia, Savage non riusciva a capirlo. Conosceva solo una piccola parte della sua storia, e già quello bastava a rabbuiare l'anima più serena. Sapeva che era rimasta orfana da bambina, che era stata circondata da assassinii durante il breve periodo in cui aveva lavorato presso l'InterContinental Bank, trovandosi in grave pericolo di vita lei stessa. In qualche modo ne era poi uscita, fuggendo sulla catena dell'Himalaya. Le ombre l'avevano avvolta, ma eccola qui, in apparenza determinata e noncurante, spensierata. Poteva soltanto cercare di indovinare il coraggio e la fede che l'avevano sorretta nella vita. L'unico marchio lasciato dalle tragedie vissute, dalle battaglie combattute, erano le rughe intorno ai suoi occhi, troppo profonde per una ragazza così giovane. Non poteva avere più di trent'anni. A tratti Savage aveva avuto occasione di vedere uno strano lampo di dolore in lei, ma solo durante i rari momenti in cui abbassava le difese. Dick Breden, un investigatore privato usato da Savage per investigazioni più ampie di quelle condotte da Sarah, la salutò con troppe smancerie e con un sorriso ambiguo. Vedeva Sarah come una rivale, ma non avrebbe mai potuto farle la guerra. Da un lato, il lavoro con la Goldstein era troppo redditizio per rischiare di perderlo, e dall'altro il suo lavoro e quello di Sarah erano più complementari che in competizione. Inoltre, la sua indole sconsiderata, allegra e strafottente impediva che gli altri provassero nei suoi confronti una vera rivalità. Dick sapeva che si sarebbe potuta alzare e uscire in qualunque istante, che trattava la maggior parte delle cose con noncuranza. Per quella ragione, l'aveva sempre considerata un peso mosca contro il suo peso massimo, anche se una persona che meritava la fiducia incondizionata di Savage poteva permettersi di sferrare colpi molto pesanti a prescindere dal suo peso. Breden si alzò con un movimento elegante e rimase in piedi ben diritto, con formalismo quasi militaresco. Dieci anni dopo aver lasciato l'esercito, poteva ancora vantarsi di un corpo potente e muscoloso. Zaha Zamaroh, capo della sala contrattazioni, laureatasi con lode ad Harvard, un cervello simile all'unità centrale di un computer, un corpo che sembrava uscito da un dipinto di Rubens, rimase seduta, gambe incrociate e biancheria intima nera in vista. Scrutò Sarah spudoratamente da capo a piedi, senza vergogna, controllando i suoi vestiti e la sua persona, come faceva tutte le volte che si incontravano, cercando con determinazione una
grinza e, a giudicare dallo sguardo trionfante, trovandola. Zamaroh era perfetta come sempre, il suo corpo fin troppo sinuoso e provocante fasciato in un abito Chanel arancione, i capelli neri come l'ebano lucidi e splendenti. Zamaroh era un predatore, una grande, lustra, agile pantera nera brillante e potente. Considerava Sarah a livello di uno sport, di una bella partita, visto che adorava i combattimenti e sapeva combattere davvero bene. Maledetto branco di squali, pensò Sarah. Ognuno di loro aveva qualcosa da nascondere, glielo leggeva negli occhi. Savage era troppo fiducioso, troppo viscido. Nessuno poteva arrivare nella sua posizione senza accumulare segreti e commettere crimini. La sua corazza era il vestito di alta sartoria, il modo di parlare velocemente, privo di gentilezza per palesare il suo potere e lo status elevato, la pronuncia da scuola privata esclusiva a volte corrotta da un' occasionale intonazione americana e da un vezzo gergale tesi a dimostrare che lui seguiva lo Zeitgeist, una testa dura che lavorava per i soldi, ma aspettava solo di andarsene. Savage aborriva la stampa, più di quanto fosse ragionevole o di moda, con il bel risultato che la stampa perseguitava la Goldstein con una ferocia del tutto speciale. L'anno prima, The Word aveva pubblicato una storia scritta da un aggressivo giornalista anti-City di nome Roddy Clark, che menzionava colpi gobbi e varie azioni scorrette in Goldstein. Quattro settimane più tardi, il giornale aveva pubblicato una smentita e aveva risarcito quelli che erano stati riconosciuti come danni sostanziali, ma stranamente nessuno dei trader implicati nello scandalo lavorava più per l'azienda. Se n'erano andati tutti insieme. Savage era sopravvissuto, e anche Zaha Zamaroh, che era il capo dei trader sospettati. Era diventata più fragile, però, pensò Sarah, come se anche lei avesse rischiato la rovina. Sembrava più ostile, ora, come se il suo senso di ingiustizia o rabbia contro la City e il mondo intero fosse più forte che mai. Sarah la trovava affascinante. Quella donna era riuscita a mandare in frantumi il soffitto di vetro, ma le erano rimaste addosso le schegge e Sarah, perciò, cercava di non avvicinarsi troppo a lei. Per quanto riguardava Breden, era il depositario dei segreti di molte persone, e chi sapeva cosa aveva dovuto fare per ottenerli? Più sai, più vendi. La Goldstein era il suo principale cliente, ma in lui c'era qualcosa del mercenario. Il suo abituale distacco, l'orologio d'oro massiccio, l'Aston Martin. Apparteneva alla categoria di coloro che amano troppo il denaro e corrono il rischio di esserne contaminati.
Ma poi chi diavolo era lei per permettersi di giudicarli? Capitolo 11 Si sedettero attorno a un tavolo da riunioni ben incerato e lucido, mentre una segretaria versava il caffè da una brocca d'argento. Savage bevve l'espresso, poi appoggiò la tazzina nel piattino facendoli tintinnare. Il telefono di fianco a lui emise un ronzio. Tirò su la cornetta e ascoltò impassibile. "Fallo entrare". Sarah bevve l'acqua minerale, guardando incuriosita Evangeline, la segretaria di Savage, che era entrata con gli occhi pieni di eccitazione. Sarah aveva il bicchiere in mano e sorseggiava lentamente il contenuto, quando il padre di suo figlio entrò nella stanza. Voleva sputare. Si sentiva soffocare. Cercò di tenere l'acqua in bocca, poi, finalmente, riuscì a inghiottirla con uno strano verso. Stai buona, stai buona. Non morirai, non è una questione di vita o di morte. Respira, profondamente, lentamente. Stai tranquilla, calmati, non ti sputtanare, non ti puoi sputtanare così. Sentiva le mammelle che perdevano latte nelle coppette assorbilatte di cotone con cui aveva foderato il reggiseno, ma a quel ritmo entro pochi minuti si sarebbe ritrovata bagnata fradicia. Oddio, non riusciva a controllare neppure il proprio corpo. Cercò un frammento di ghiaccio nella sua anima, un pezzettino di ferreo autocontrollo, poi cambiò tattica e provò quella di Jacob, immaginandosi tutti i presenti nudi e seduti sul water. Lo sforzo di non emettere singhiozzi isterici la fece rinsavire e le conferì abbastanza autocontrollo da guardarsi intorno con sicurezza, come se non avesse mai incontrato quell'uomo, non ci avesse passato insieme la notte d'amore più appassionata e dolce della sua vita, come se non avesse creato una vita insieme a lui. No, non doveva pensare a quello. Georgie stava seduto davanti a lei, nel pieno della sua bellezza adulta. La faccia di suo figlio era disegnata in modo così evidente in quella di John Redford che guardarlo divenne insopportabile. Riuscì a malapena ad ascoltare Savage che proseguiva con le presentazioni. "Questa è Zaha Zamaroh, il capo della sala contrattazioni, e questo è Dick Breden, che l'aiuterà nel lavoro". Redford prese una sedia con un'espressione gelida, come se anche lui fosse sotto shock. Non strinse la mano a nessuno, si limitò a guardarli man mano che gli venivano presentati. "E questa è Sarah Jensen, un'altra trader che fa parte della squadra".
Quando Redford si girò verso di lei, le sembrò che le desse solo una rapida occhiata ricca di emozioni che erano rimaste nascoste fino a quel momento, troppe, per capire quali fossero. Lei gli fece un cenno asciutto del capo. Redford indurì di nuovo lo sguardo, come dire: Eccoci qui, ed ecco il modo in cui dovrà essere. Parlò per la prima volta. "Buongiorno Sarah. È un vero piacere vederti". Lei annuì, incapace di emettere un suono. Tenne il bicchiere di fronte al viso, come per raffreddare le guance in fiamme. Evangeline si ritirò, riluttante. Sarah si guardò intorno. Savage era stranamente insicuro, Zamaroh cercava disperatamente di sembrare blasé e Breden, nonostante il suo understatement molto inglese, sembrava mediamente interessato. "Lei è in orario, ed è solo" disse Savage, facendo un buffo sorrisetto. "Perché non dovrei? Possiamo smetterla con questa storia della rockstar?" disse Redford irritato. "Sono un normalissimo uomo d'affari come tutti gli altri vostri clienti. Sembra che il mio lavoro si porti dietro un sacco di cose, ma solo nella testa della gente. Lasciamole perdere e semplifichiamoci la vita da subito". "Consideri la tua musica solo un prodotto?" chiese sorpresa Zamaroh. "Certo che no" replicò Redford sdegnato. "La musica è la parte più importante della mia vita, ma questo non mi rende un artista con la testa tra le nuvole che non è in grado di vedere la vita da una prospettiva affaristica. Posso partecipare anch'io al vostro gioco". "Ma non quando ti metti a comporre le tue canzoni, no?" "No, allora no" ammise. "In quei momenti non mi interessa né il business, né quante copie venderò. L'unica cosa che mi interessa è cosa sto cercando di dire, passando attraverso le emozioni che sento, dividendole con gli altri". Come un incantatore di serpenti, pensò Sarah, o il pifferaio magico, che si portava via i bambini. Era un'immagine orrenda, e si rimproverò da sola mentre osservava le caratteristiche del viso del padre di Georgie. Quando la passione lo accendeva, per un attimo si intravedeva la vulnerabilità nascosta al di sotto. "Possiamo offrirti un caffè?" chiese Sarah, sollevata e deliziata di aver ritrovato la voce, ma allo stesso tempo terrorizzata. Si sentiva come se stesse agendo al di fuori di se stessa, del suo autocontrollo, dei limiti e delle convenzioni sociali. Non era d'aiuto il fatto che la riunione avesse assunto un'aria bizzarra, quando Zamaroh si era lanciata dai fogli di bilancio alla filosofia.
Redford sembrò stupito sentendo la voce di Sarah e la sua domanda, e per un orribile momento lei si chiese quale sarebbe stata la sua reazione se gli avesse chiesto qualcosa di completamente diverso. "Ah sì, certo. Scusa le mie brutte maniere" stava dicendo Savage, con enorme sollievo di Sarah. "Caffè, tè, acqua minerale?" Qui fece uno ghigno sarcastico "Whisky, gin, vodka, quello che vuoi". "Un'acqua minerale sarebbe l'ideale. Non gassata, a temperatura ambiente, senza ghiaccio, con una fettina di limone". Savage lo guardò di sottecchi, premette un pulsante inserito su un galletto ornamentale e comparve Fred il maggiordomo, splendente nel suo frac. Prese gli ordini, fermandosi un istante davanti a Redford, poi sparì come un fantasma, le suole spesse in silenzioso movimento sul tappeto lussuoso. Tutto in questa stanza sussurra denaro, posizione, privilegi, pensò Sarah. Savage, Zamaroh e Breden, e lei stessa, supponeva, erano raffinati e sobri. L'ufficio fresco dell'aria condizionata, con i suoi doppi vetri sigillati ermeticamente, sembrava milioni di chilometri lontano dal maledetto business di fare soldi, dai sogni, dai sacrifici, dalle vittorie e dalle perdite che stavano dietro a ogni fortuna. Forse era proprio per questo che la gente pensava che chi faceva denaro nella City non meritava mai le sue grasse ricompense. L'eleganza gessata e raffinata dei maggiordomi era un travestimento, una traccia dei tempi in cui fare soldi era come fare sesso illecito, qualcosa di nascosto da fare dietro a porte sbarrate. Ancora adesso, pochi piani sotto, la sala contrattazioni pulsava, si dimenava e sputava soldi. "Vuoi guardarti un po' intorno?" si trovò a dire Sarah a Redford. "Vedere come siamo davvero, qui?" Gli occhi di Redford si ingrandirono. "La sala contrattazioni" spiegò lei. "Il cuore di questo posto. Sei curioso di vedere affari portati a termine, soldi persi e guadagnati, emozioni a ruota libera, il tutto immerso in un baccano infernale?" "Oh sì, mi piacerebbe..." rispose Redford, indugiando con lo sguardo su Sarah. Savage la guardò preoccupato, lo sguardo di Zamaroh lampeggiò. Sarah aveva appena infranto pubblicamente un codice non scritto: non mostrare mai ai clienti il mattatoio, con le carcasse delle quali si nutrono i trader. Zamaroh non vedeva in Redford quello che vi vedeva Sarah: la pura ambizione, ancora forte in un uomo al massimo della sua professione. I tappeti di lusso e il maggiordomo non lo intrigavano. L'unico modo di averlo come cliente sarebbe stato mostrargli che anche loro potevano essere primiti-
vi, che anche loro erano famelici, anche se all'apparenza erano ben pasciuti e soddisfatti di se stessi. Lasciando il silenzioso sepolcro della sala riunioni, si diressero verso l'ascensore. Redford aspettò che prima di lui entrassero Sarah e Zamaroh. Mentre scendevano tre piani rimase in piedi di fianco a Savage, voltando le spalle a Sarah. Redford indossava calzoni neri di lana e una maglia di lana leggera che gli disegnava il fisico perfetto. Sarah riusciva a vedere l'incavo della sua spina dorsale e il gonfiore dei muscoli. Si ricordava di quando aveva tracciato quei contorni prima con le dita, e poi con la lingua. Ricordava il suo odore, il suo sapore. Le porte dell'ascensore si aprirono e Savage uscì. Redford si girò, permettendo a Sarah e Zamaroh di uscire prima di lui. Sarah tenne gli occhi fissi in avanti e lo superò, così vicina da sfiorarlo. Passò attraverso l'entrata della sala contrattazioni, conscia del fatto che lui la stava osservando. Zamaroh agitò il pass elettronico davanti alle porte della sala contrattazioni che a comando si spalancarono. Il boato fu la prima cosa che li colpì, le voci alterate di cinquecento trader, i sibili dei loro terminali, il cicaleccio elettronico dei telefoni, le grida di rabbia e di trionfo. Frammenti di conversazioni si accavallavano le une alle altre. "La do a 49 e 20". "Tu, bastardo, mi hai fottuto sull'accordo con la Entox. Ti frego io, appena posso". "Sminuì!!!! Sto navigando al largo. Sono il massimo o cosa?" "Dammele tutte, bimba, l'intero pacchetto!" Redford si girò verso Sarah. "Così è qui che lavoravi?" "Per sette lunghi anni" rispose lei. Vide la domanda nei suoi occhi. "Con qualche riposino ogni tanto". "E sei brava?" "Cosa ne dici?" Scorse la fiammella divertita nei suoi occhi prima che lui riuscisse a nasconderla e a riprendere l'espressione da giocatore di poker. Tornati nella sala riunioni, Redford prese l'iniziativa. "Allora..." disse. "Quotazione ed emissione di obbligazioni. Ditemi come funziona". "Per prima cosa..." disse Zamaroh. "Dicci tu esattamente cosa vuoi. Come sei venuto a sapere della Goldstein?" Sarah e Redford si guardarono. Lei temeva che, in quell'istante, tutto sarebbe stato spiegato dallo sguardo che si scambiarono. "Prendo io il comando, ora". Una voce ruvida, proveniente dall'entrata,
attirò istantaneamente l'attenzione di tutti. Un uomo di circa cinquant'anni era appoggiato contro lo stipite della porta, un fianco sporto in avanti, in una posa per metà casuale e per metà aggressiva. L'uomo era magro, in jeans, una giacca di pelle buttata sulle spalle. Aveva capelli grigi corti e fitti che gli coprivano solo i lati della testa: il centro era un deserto scintillante. Il suo naso era lungo e carnoso, le labbra piene. Le palpebre pesanti gli davano un' aria stanca. Era l'uomo che cavalcava il cavallo impazzito, ritornato ora, come sembrava, alla sua abituale arroganza. Sarah benedisse il suo tempismo, ma allo stesso tempo temette il suo arrivo. Ora la recita sarebbe andata a rotoli. "Posso aiutarla?" Savage si alzò in piedi. "Sono Strone Cawdor, il manager di John Redford" annunciò al mondo intero con un sorrisetto compiaciuto. Sarah si chiese per una frazione di secondo, vergognandosene subito dopo, se salvargli la vita era stata tutto sommato una buona idea. Evangeline stava in piedi muta davanti a lui. "È in ritardo" disse Savage. Cawdor sembrava sorpreso. "In ritardo?" chiese, come se il concetto gli suonasse sconosciuto e comunque irrilevante. "Ora sono qui, no? Possiamo cominciare. Come vi ho detto, da adesso prendo io il comando della nave". Sarah controllò Redford per capire come stava reagendo. La rock-star guardava Cawdor con aria paziente e leggermente divertita. Savage ripeté le presentazioni con ferrea correttezza. Cawdor, da parte sua, annuiva. Quando arrivò il turno di Sarah, lei si aspettò una qualsiasi reazione, almeno un cenno di riconoscimento, ma sembrò che lui non si ricordasse di lei. In effetti, era successo un anno e mezzo prima: allora lui era in grave stato di shock, lei indossava un cappello da cowboy su una faccia marrone tutta impastata di polvere, era nove chili in meno e, comunque, era stata parte di un episodio che lui aveva probabilmente cercato in tutti i modi di cancellare. Un uomo perfettamente padrone di sé in una situazione sfuggita al suo controllo. Certo, non era stato uno dei suoi momenti più brillanti. Così lei ora era la trader, un viso anonimo, e questo le andava alla perfezione. Lasciò andare un lungo sospiro di sollievo. "Abbiamo passato al setaccio le vostre credenziali" dichiarò solenne Cawdor, prendendosi una sedia di fianco alla sua star "e, per quanto mi riguarda, avete un'ottima reputazione". Zamaroh sbuffò. Cawdor continuava a guardarla. Zamaroh lo fissò con aria di sfida. "Fate parte, però, di un'accolita piuttosto numerosa" continuò Cawdor con piacere, chiaramente gustandosi il modo di dire della City.
"Abbiamo intenzione di contattare altre banche come voi, per cui..." estrasse l'orologio d'oro e lo appoggiò sul tavolo "... ditemi perché dovremmo scegliere voi". Prima che qualcuno potesse avere una minima reazione a questa bomba ad orologeria ticchettante, parlò Redford. "Siamo già arrivati" disse, guardando Sarah. "Scusa?" chiese Cawdor. "La Goldstein ha l'affare" disse Redford pacatamente. "Ma sei appena entrato da questo cazzo di porta..." Savage trasalì. Redford alzò le spalle e non disse altro. Mostrando elegantemente chi deteneva il potere, era impassibile. Zamaroh sogghignò. Sarah lo guardò, sforzandosi di rimanere inespressiva. Breden sembrava annoiato, un atteggiamento che, come Sarah sapeva bene, celava un profondo interesse. Cawdor respirò a fondo. Voltò le spalle a Redford come se non esistesse. "Perfetto. Avete un caffè?"' "Come lo preferisce?" gli chiese Savage vivacemente. "Come esce dal chicco. Nero come la pece". Savage premette il galletto ornamentale. Fred arrivò dopo pochi istanti, incapace di resistere alla tentazione di lanciare occhiate di nascosto a Redford. Il gossip in cucina sarebbe stato rigoglioso, pensò Sarah. Cawdor trangugiò il caffè e sembrò ritrovare una certa compostezza. "Bene, allora. Bowie lo fa. Gli Iron Maiden lo fanno". Il suo accento intrigò Sarah. Era americano, ma aveva un'inflessione particolare, sembrava quasi un inglese che fingesse di essere americano. Sarah si accorse che lui modellava la voce come quella di Mick Jagger. Non che lei gli avesse mai parlato, però aveva sentito delle sue interviste. "Andare in Borsa ci interessa. Abbiamo venti album di platino, il che significa che ognuno ha venduto oltre un milione di copie" aggiunse, con aria di infinita superiorità. "Ma ogni album ha venduto considerevolmente più di un milione di copie. Le vendite totali sono più o meno superiori a cento milioni. John è stato sette volte consecutivamente primo in classifica negli States, per quattro volte in simultanea con il Regno Unito. È stato calcolato che lui incassa il tre per cento di tutti i singoli, album e audiocassette venduti ogni anno in tutto il mondo. Lui è tutto questo. È all'apice della carriera, ed è intenzionato a restarci per parecchi anni. Vuole i benefici di questa situazione subito. Un'organizzazione che lavori duramente
per noi, la quotazione, un'emissione obbligazionaria, tutto, tutto quello che serve". Si appoggiò all'indietro, avendo esaurito il suo vocabolario di alta finanza. Interessante, pensò Sarah. Non aveva mai menzionato la parola denaro, l'unico filo conduttore della riunione. Il suo modo di fare aggressivo, da sbruffone, era solo un travestimento. Sarah avrebbe scommesso che, nei suoi incontri con la casa discografica, gli avvocati e i commercialisti era solito mantenere il pieno controllo di sé, accentrando tutto il potere nelle sue mani; se invece questo accordo avesse avuto successo, sarebbe stato alle condizioni della Goldstein. Savage aspettò a parlare quando il silenzio divenne sgradevole. "Ora vi spiegheremo quello che sarà lo svolgimento dell'operazione, cosa possiamo fare per voi e di cosa avremo bisogno. Poi potremo vedere se siamo compatibili". Lanciò a Cawdor un breve, gelido sorriso. Cawdor scoppiò a ridere incredulo. "Compatibili?" disse deridendolo. "E cosa sareste voi? Un'agenzia matrimoniale? Guardate che non dobbiamo andare a letto insieme..." Redford guardò Sarah. Rimasero a guardarsi fino a quando Savage rispose. "Al contrario" disse l'amministratore delegato. "In termini finanziari, è esattamente quello che stiamo per fare. Se decidiamo di entrare in affari insieme, diventiamo partner, e anche molto intimi. Voi vi legate strettamente a noi, noi ci appiccichiamo a voi. Dobbiamo scoprire la maggior parte delle informazioni gli uni sugli altri e cercare di capire se può funzionare o meno. Nell'interesse di entrambi" sottolineò Savage quando Cawdor cercò di interromperlo. "Non posso credere che voi scegliereste una banca che accetta i clienti senza intraprendere una profonda revisione su di loro, no? Non sarebbe nell'interesse degli investitori". Redford distolse lo sguardo da Sarah. "Vi dispiacerebbe andare avanti?" chiese dolcemente. "Fateci la vostra proposta e chiedeteci quello che vi serve sapere. Cercheremo di aiutarvi il più possibile". Lanciò un'occhiata a Cawdor. "Posso?" chiese Zamaroh. Savage annuì impercettibilmente. "Quello che faremmo è questo. Raccogliere i dati relativi alle vendite dal giorno in cui avete iniziato, e fare le proiezioni sulle vendite possibili del catalogo dei successi di Redford nei prossimi sette-dieci anni. Dobbiamo sapere quale percentuale del prezzo di copertina va alla casa discografica, quale ai grossisti e ai dettaglianti, e quanto resta per voi. Dobbiamo gioca-
re con il denaro che arriva nelle vostre tasche. Questo è il punto dal quale partiremo. Da qui stabiliremo che livello di tasso di interesse può sopportare il vostro introito, su una gamma di tassi differenti, poi, da qui, calcoleremo il prestito che potreste ottenere sulle diverse presunzioni di tasso. Come parte del processo dobbiamo decidere le modalità di restituzione del prestito in, diciamo, dieci anni. Potreste pagarne una quota annualmente o farlo in un colpo solo al decimo anno. Per verificare cosa sarebbe meglio fare, dobbiamo avere una panoramica completa della qualità dei vostri introiti". Zamaroh fece una breve pausa. "Qui nascono i problemi. Dobbiamo essere assolutamente sicuri durante il periodo dell'emissione obbligazionaria che non farete niente che danneggi la vostra reputazione e i vostri introiti". "Cioè?" chiese Redford. "Oh, non so" rispose Zamaroh evasivamente. "Qualunque tipo di reato oltraggioso per l'opinione pubblica, in particolare per quelli che comprano dischi" completò Sarah, voltandosi verso Redford. "Il pubblico che compera i tuoi dischi, per la precisione. E questo non implica un giudizio di valore" continuò. "Non pensare nemmeno di citarmi al di fuori di questa stanza perché negherei tutto, ma le droghe potrebbero anche essere d'aiuto, a patto che siano solo per uso personale e non interferiscano sulla qualità del tuo lavoro di musicista e artista. Lo stesso vale per l'alcool, ma per quanto riguarda i reati verso le persone, be', questo è tutto un altro paio di maniche. Vedila dall'esterno. Guarda cosa è successo alle vendite di Michael Jackson dopo le accuse lanciate contro di lui". "Stai suggerendo..." Cawdor cominciava a dare in escandescenze. "Piantala con le sceneggiate e fai un favore a tutti" scattò Sarah. "Non sto suggerendo proprio niente. Sto cercando di spiegarvi qualcosa nel modo più esplicito che conosco. Nessuno è qui per fregare il tuo cliente o per prenderselo in esclusiva, per cui piantala di comportarti come un rottweiler con la rabbia. So che stai cercando di fare il tuo lavoro, ma è quello che stiamo facendo tutti". Redford guardò Sarah cercando evidentemente di nascondere un sorriso. Cawdor la guardò a lungo e intensamente, mentre l'espressione offesa svaniva piano piano. "Sei un bel fenomeno" le disse. Sembrò soppesare qualcosa prima di riportare la sua attenzione su Zamaroh. "Va bene" disse, un po' più tranquillo. "Si dà il caso che il mio cliente giochi a carte scoperte, perciò perché dovete essere così formali su queste fesserie?"
"Diciamo che temiamo che possa succedere qualcosa che faccia smettere al pubblico di acquistare i dischi di Redford" replicò Zamaroh. "Non ci sarebbero abbastanza introiti per ripagare gli obbligazionisti e le possibilità di tirar su altro denaro attraverso un'altra emissione di titoli sarebbe pari a zero. Entrereste in mora, e se avete dato garanzie personali di alcuni o di tutti gli investitori istituzionali, cosa non consigliabile in ogni caso, potreste finire addirittura in bancarotta". "Non succederà mai" disse Cawdor. "Forse no" replicò Zamaroh. "Ma potrebbe succedere, questo è il punto. Quello che bisogna stabilire sono le probabilità che ciò succeda, il rischio che succeda, poi noi struttureremo l'emissione in base a questo rischio. Più alto è il rischio, più alto sarà il tasso di interesse e più bassa la somma che riuscirete a contrattare. A un certo livello di rischio, l'accordo non è fattibile. Più basso è il rischio, più basso il tasso d'interesse, più alto sarà il capitale che raccoglierete e vi terrete. I finanziatori, coloro che acquisterebbero le obbligazioni, sono istituzioni sofisticate e pignole. Fanno minuziosi calcoli di rischio e ritorno, ma mettono un bel po' della loro fiducia nel nome e nella reputazione della Goldstein. Sanno che, se noi rappresentiamo un cliente, a meno che non ci capiti di fare un casino colossale, l'affare è buono". Savage intervenne. "Questo è quello che ottenete con il nome della Goldstein, ma prima dobbiamo essere assolutamente certi che la nostra reputazione non sia in pericolo. Come vi ho detto, e come vi ha spiegato la signora Zamaroh, la nostra reputazione è il nostro capitale di maggior valore. Così, se deciderete di continuare con noi, dobbiamo lavorare con quella che si chiama 'dovuta considerazione'. Dobbiamo controllarvi a fondo, come facciamo con tutti i nostri clienti. Se ci sceglierete, perciò, dovrete prepararvi a camminare per quella strada". Savage lasciò l'eco delle sue parole sospeso nell'aria. "Non abbiamo niente da nascondere" disse Cawdor. Guardò intorno al tavolo, poi si alzò in piedi. "Non c'è nient'altro che vuoi sapere, John, visto il modo in cui hai dato loro l'incarico?" chiese. Sarah guardò Redford. Lui la stava fissando spudoratamente. Le sorrise, fece un cenno del capo in direzione di Savage, Zamaroh e Breden, e se ne andò dalla stanza. Cawdor lo seguì, ma si fermò un attimo sulla porta. "Ci rivediamo tra una settimana". Capitolo 12
"Perché cazzo l'hai portato giù di sotto?" urlò Zamaroh come impazzita. "Cosa?" le chiese Sarah, che si stava lentamente rimettendo dallo shock. "Piantala, Zana" disse Savage. "L'ha fatto decidere, ce ne siamo accorti tutti". "Adesso tutti sanno che è stato qui, e capiranno che era qui per la quotazione" ribatté lei. "Se Redford è di parola, abbiamo l'accordo in mano". "Ah, e tu credi alla parola di una rockstar?" "Non è necessario che io gli creda. Sono convinto che abbia le sue buone ragioni per darci l'accordo e non penso che le cambierà". "E allora?" chiese Zamaroh, guardando furiosa Sarah. "Non so quali possano essere" replicò Savage, e sembrò a Sarah che evitasse di proposito di guardarla. "E poi a noi non interessa, no? Il dato di fatto è che ha dato l'affare a noi". "Ma ce la faremo?" chiese Zamaroh. "Adesso come posso controllare la faccenda, dopo lo spettacolino di Sarah?" "Ma per l'amor di Dio, piantala di dire cazzate e di fare la stronza!" esplose Sarah, emergendo all'improvviso dalle sue fantasticherie. "L'ho fatto andare giù in sala contrattazioni perché qui si stava rimbecillendo dalla noia. Ti dice qualcosa il fatto che questa la chiamino sala conferenze? Pensavo semplicemente che la sala contrattazioni l'avrebbe colpito. È un tipo viscerale, e gli è piaciuta moltissimo". "È stata una buona idea" disse Breden, con raro apprezzamento. "Già" contribuì Savage. "Grazie" replicò Sarah. "Abbiamo una settimana per diventare esperti di quotazione in Borsa delle star" disse Savage, tornato l'uomo d'affari di sempre. "Per noi è un prodotto nuovo e non possiamo permetterci di essere fuori dal mercato. Abbiamo perso l'accordo Bowie e quello degli Iron Maiden. Si suppone che siamo la prima banca d'affari in tutto il mondo, un leader del mercato, non quelli che arrivano per ultimi. Sarà un affare ad altissimo livello. È intrigante, è diverso dagli altri. Entreremo in un settore scoperto. Il nostro nome si diffonderà in tutto il globo. Otterremo questo accordo con la firma di Redford, del quale abbiamo già la parola, e ce lo terremo ben stretto". "Pensavo fosse scontato" disse Sarah, sconcertata dalla diatriba di Savage.
"Anch'io" rispose Savage. "Quello che non sai, e che devi tenere assolutamente per te, è che nelle ultime sei settimane abbiamo perso quattro grossi affari che pensavamo di avere già in pugno, e parliamo di quindici milioni di parcella. Solo quelli che erano in questa stanza erano al corrente, ma qualche bastardo di questa banca sta spostando i nostri migliori affari a quegli stronzi della concorrenza. Abbiamo un buco che sta minacciando di trasformarsi lentamente in una voragine. Se riusciremo a iniziare questo accordo, solo per farcelo fregare da sotto il naso all'ultimo momento, saremo conosciuti come la banca colabrodo. Nessuna mossa sbagliata. Non lasceremo che succeda ancora una volta". Savage fece una pausa, lasciando che le sue parole, nel silenzio, si facessero pesanti e minacciose. "Supponendo che ci sia un accordo da stringere, le sole persone che ne saranno al corrente prima che sia firmato e concluso saranno quelle in questa stanza. Così, se c'è una fuga di notizie, saprò che è stato uno di voi tre. Sarah, voglio che tu ci lavori da casa. Hai una settimana di tempo per diventare un'esperta di questo genere di operazioni. Cerca di stabilire se l'opera di Redford può andare in Borsa e, se è così, fammi una bozza di accordo preliminare, con una proposta valida". Sarah sentì come se avesse preso un colpo nello stomaco. Zamaroh intervenne. "E perché dovrebbe farlo lei?" chiese. "Ho ben dieci persone giù in sala contrattazioni che potrebbero farlo a occhi chiusi. Quelli lavorano a tempo pieno sui mercati e sono infinitamente meglio inseriti di una freelance". Zamaroh diede un'occhiata a Sarah, poi si girò a guardare Savage. "La scelta è tu o Sarah" replicò Savage. "Non ho nessuna intenzione di dare fiducia a uno di quei bastardi giù nel nido di vipere, fino a quando non acchiapperemo la talpa. Non sono disposto a perdere questo accordo, che sia chiaro, e, se una freelance che mi prepara il terreno è quello che mi serve, mi sta bene, anzi, ne sarò felice. Questo è un problema tuo, Zamaroh. Uno dei tuoi è un Giuda, e ti sto offrendo una soluzione temporanea". "Stai dando per scontato che io sia felice di accettare il lavoro", disse Sarah, ritrovando finalmente la voce. "Perché non dovresti?" Cristo, non puoi nemmeno immaginartelo. "Come diceva con tanta cortesia Zana, io sono una freelance. E lei ha a disposizione tutti questi dipendenti a tempo pieno..." "Te li lasci tutti indietro in mezza giornata, se vuoi". Zamaroh smise per un attimo di respirare.
"Allora fai in modo che io lo voglia" disse Sarah. Savage si alzò in piedi. Guardò Breden e Zamaroh. "Scusateci". Portò Sarah nel suo bagno privato. Lei si sedette sul lavandino di marmo, rinfrescandosi le mani sulla pietra gelida. Savage chiuse la porta dietro di sé con un colpo all'indietro, poi vi si appoggiò. "Mille al giorno più le spése". "Non è abbastanza, James. A quel prezzo i tuoi dipendenti a tempo pieno sarebbero pagati quarantamila sterline al mese e sia tu che io sappiamo bene che è pochissimo. Quelli che ti danno i risultati migliori sono pagati almeno dieci volte di più, per cui non abusare della mia infinita pazienza. I freelance vengono pagati meglio". "Allora quale somma astronomica potresti trovare accettabile?" "Tre e mezzo, più le spese". "Ma è assurdo. Ti stai sopravvalutando. Sei fuori mercato. Non ti interessa questo lavoro?" "No" aveva voglia di urlare. Non voglio il tuo stramaledetto lavoro. Le mie mammelle stanno per scoppiare, voglio scappare a casa per allattare il mio piccolino e non vedere mai più la tua faccia, non voglio mai più mettere un piede in questo posto dimenticato da Dio. Non disse niente, si limitò a guardare rabbiosa il pavimento. "Mi stai prendendo per la gola, Sarah. Non ti perdonerò mai". "È un affare come un altro, James. Prendere o lasciare". "Cristo santo, come ti sei indurita. Non riesco a capire cosa ti possa essere successo, Sarah. Sei diversa". Lei sorrise. "Ok. Tre e mezzo più le spese". Merda, merda, merda, merda, merda. Non avrebbe mai pensato di potercela fare. "Non fare quel visino dispiaciuto" disse Savage sarcastico. "Chi ti vedesse in questo momento penserebbe che ti ho appena detto che sarai la mia schiava a vita". "No, mi hai solo sbattuto in prigione". Savage le lanciò un'occhiata di totale incomprensione e si avviò verso la sala riunioni. Zamaroh stava parlando al telefono, da brava manager, con tono dittatoriale come al solito, con urgenza, ma prendendosi il tempo di puntualizzare. Breden sfoggiava il suo sguardo di leggero divertimento. Zaha riagganciò con un elenco di istruzioni al suo servo invisibile, finendo con un cortese fallo e piantala. Savage si sedette, seccato per l'invasione al
suo territorio. "La sala contrattazioni non dorme mai, James". "Questa Borsa insonne... Che pensiero spaventevole. Bene, ecco il mio piano di battaglia. Sarah ci aiuterà. Elaborerà il piano iniziale e svolgerà il lavoro di ricerca. Ce li sottoporrà in una presentazione accurata. Redford e il suo manager saranno qui tra una settimana. Li voglio conquistare dando un'ottima impressione di noi e della proposta preliminare, per farli firmare appena possibile una lettera d'incarico. Una volta che la lettera è nelle nostre mani, firmata, oppure quando avremo trovato la talpa, chiunque sia" si girò verso Zamaroh "possiamo mettere al lavoro il nostro personale sull'accordo". Sarah si sentì afferrare dal panico. Sarebbe stata una mole di lavoro a dir poco terrificante, da affrontare in una sola settimana, senza supporti, con Savage pronto a impiccarla sulla pubblica piazza se avesse sbagliato qualcosa. Avrebbe dovuto lavorare giorno e notte ininterrottamente, smettere di colpo di allattare Georgie durante il giorno, trovare qualcuno che lo accudisse, cercare e trovare le riserve di energia nel suo corpo esausto. Sentì le lacrime bruciarle gli occhi, ma le strofinò via. "Zaha, tu dirigerai Sarah" continuò Savage. "Ma mai per telefono. Incontratevi di persona in ufficio o fuori. Decidete voi. Assicuratevi che non ci sia un solo foglietto qui in Goldstein che menzioni l'accordo, e che nessuno venga a sapere qualcosa, anche una sola parola". "Muta come una tomba" disse Zamaroh. "E cosa succede quando si diffonderà la notizia della visita di Redford?" "La talpa probabilmente lo sa già" disse Savage cupo. "Esatto" disse Zamaroh. "Portarlo giù è stata un'idiozia". "Ma che palle. E piantala!" esplose finalmente Sarah. "Non credi che la notizia della sua visita sarebbe stata sparsa ai quattro venti comunque? Quante persone lo avranno visto venire qui? Portinai, chiunque passasse per la reception, le persone nell'ascensore, tutti quelli che transitavano per la sala contrattazioni, Fred. Mentre entrava e usciva sarà stato visto da una trentina di persone. Credi che non lo diranno a nessuno?" Sarah si sporse sulla tavola verso Zamaroh, sempre più furiosa. "Ma lo sai qual è il tuo problema? È che sei abituata a tiranneggiare la gente che deve sottostare ai tuoi capricci per avere i bonus. Con me questo non funziona, tesoro. Posso uscire da qui senza neanche voltarmi indietro, per cui, se vuoi che io ti aiuti in questo lavoro, sarà meglio che impari a controllarti. È chiaro?" Savage e Breden osservavano la scena trepidanti.
"Allora, fammi un favore. Alzati ed esci. Vattene" sibilò Zamaroh con disprezzo. "Ok, ragazze" si inserì Savage. "Ho visto abbastanza. Zitte tutte e due. Possiamo cercare di lavorare in modo costruttivo per un attimo? Stavamo cercando di capire cosa fare per la talpa. Possiamo concentrarci su quello?" Sarah e Zamaroh si guardarono in silenzio con astio. "Cerchiamo di usare il gossip a nostro vantaggio" suggerì Breden. "Come?" chiese con interesse Savage. "Piazziamo una trappola per acchiappare il ladro. Questo affare sarà come la gallina dalle uova d'oro. La più grande operazione finanziaria del momento. Ogni banca d'affari della City ammazzerebbe qualcuno per metterci le mani sopra. Se la nostra talpa viene pagata alla consegna, il prezzo del nostro amico per questo lavoro salirà alle stelle". "Il prezzo del nostro amico?" chiese Zamaroh, gli occhi stretti mentre cercava di mettere a fuoco un immaginario traditore. "Hai un'idea di chi possa essere?" "Nessuna. Per ora. Possiamo usare questo accordo per farlo uscire allo scoperto". Breden si girò verso Savage. "Cosa ne pensi?" "Penso che se ci aggiudichiamo un altro accordo, solo per farcelo rubare all'ultimo momento rischieremo di perdere la credibilità. Saremo rovinati". Paura e cupidigia, pensò tristemente Sarah. Non era cambiato proprio niente. "Allora, acchiappiamolo" disse Breden. "Come?" "Sistemiamo Sarah in un ufficio giù e usiamola come esca. Nascondiamo nel suo ufficio una telecamera che si attiva col movimento, istalliamo cimici nei telefoni, registratori che si attivano con la voce, e prepariamoci per mettere sotto controllo i telefoni di casa di tutti quelli che suggerirò. Scateniamogli dietro la guerra nucleare, a quel bastardo". Savage sorrise. "Ottima idea". "Non mi convince" disse Sarah. "Sarò già abbastanza impegnata anche senza quest'altro da fare". "Puoi lavorare su Redford da qui, chiudendo sempre a chiave i tuoi documenti quando lasci l'ufficio. Mi sembra un'idea brillante" disse Savage. Sarah si sentì travolta da un'ondata di disperazione. Tutto si stava muovendo troppo in fretta e fuori dal suo controllo. "Non mi piace" insistette. "Dio Onnipotente. Ma cosa devo fare per convincerti?" chiese Savage.
"Non credo che tu possa. Dovrei lavorare virtualmente ventiquattr'ore al giorno, e quei tempi sono lontani, oramai. Non mi interessa più farlo. Ho la mia vita, adesso". "Be', mettila in pausa un attimo". Savage le passò un bigliettino. C'era scritto: 5.000 sterline al giorno. Ultima offerta. Sarah gli rispose: Più cinquanta di bonus se trovo la talpa. Savage lesse la nota, i lineamenti deformati dalla furia. "Sei terribile... E pensare che ho sempre sostenuto che i periodi sabbatici fossero un'ottima idea". Appallottolò il foglietto, se lo mise in tasca e si girò verso Breden. "Dick, lavorerai con Sarah sulla gestione della faccenda". Sarah si sentì riscaldare momentaneamente al pensiero di tutto il denaro che si sarebbe presto riversato sul suo conto corrente, per poi tornare isterica all'idea dell'ondata mostruosa di lavoro che stava per sommergerla. Breden inclinò il capo con grazia. "Zaha, se hai dei sospetti ti unisci a loro" aggiunse Savage. "Sospetto di tutti" replicò lei. "Trovo ripugnante e impensabile che qualcuno del mio staff mi possa tradire, perciò li sospetto tutti in blocco". È sempre un problema personale, con lei, pensò Sarah. Nella vita come in guerra. "Restringi il cerchio" suggerì Savage. "Dai a Sarah e Dick qualcosa su cui cominciare a lavorare. Controlla la tua gente come un falco, appena salta fuori la novità della visita di Redford". Zaha sorrise. "Non temere". Sarah ebbe la sensazione che avessero lanciato un'enorme rete sulla sala contrattazioni e i suoi cinquecento occupanti. Come loro, lei era stata intrappolata. Doveva essere cacciatore e preda. "Non voglio saperne niente. Fate quello che dovete fare" disse Savage vivacemente. Sarah guardò il suo orologio e sospirò. Voleva disperatamente andarsene a casa. Georgie avrebbe dovuto fare la merenda prepisolino almeno da mezz'ora. Non aveva idea che la riunione sarebbe durata tanto a lungo: un'ora e quarantacinque minuti. Si era aspettata un mordi e fuggi, una proposta di mezz'oretta. Lo stile usuale di Savage. Quella talpa maledetta aveva amplificato la riunione e le aveva dato molto più lavoro di quello che era in grado di gestire. Non resistette. Si alzò in piedi. "Devo andare" disse a tutti e uscì in fretta dalla stanza sbattendo la porta dietro di lei. Savage, Zamaroh e Breden la guardarono uscire sconcertati. Zamaroh espulse il fiato sibilando lenta-
mente. "Ma dove cavolo va, quella donna? Se viene a zonzo qui e poi scappa via come se fosse in ritardo a un appuntamento con il Padreterno! E chi cazzo è poi questa? In fin dei conti è solo una trader fuori di testa che dà via il sedere per lavoro!" "La miglior trader che ci fosse" disse Savage, con inconsueta dolcezza. "Bravo, 'fosse'. Passato" sibilò Zamaroh. Savage le indirizzò un sorriso sarcastico. "È il negoziatore più duro che ho mai incontrato nella mia vita, e sembra essersi ulteriormente indurita. Se io fossi in te, cercherei di non inimicarmela". "So prendermi cura di me. Non ho paura di nessuno, io". Zamaroh si era offesa. Savage sorrise. Zamaroh era di un'arroganza insopportabile. La dote che la salvava era che la maggior parte delle persone si sentiva sfidata da lei sul piano intellettuale, e c'era qualcosa di magnifico nella sua tracotanza. Il suo portamento era maestoso, da principessa iraniana qual era per diritto di nascita, e che sarebbe stata attualmente se lo scià non fosse stato mandato in esilio, con le tragedie che avevano travolto la sua famiglia. Savage poteva perdonarle un sacco di cose, e lo faceva. "Lo vuoi l'affare?" le chiese. "Lo sai già". "Allora, collabora con Sarah. A parte il fatto che è un trader eccezionale, passato o presente che sia, è anche una delle più profonde conoscitrici della natura umana che avrai occasione di incontrare nella vita". Bevve il secondo espresso e guardò fuori dalla finestra. "Strano, però. Deve esserle successo qualcosa". Capitolo 13 Sarah fuggì a casa in taxi. Un Jacob sull'orlo di una crisi di nervi teneva in braccio Georgie, facendogli ballare un rock frenetico sulle melodie di Lauryn Hill. "Come va, tesoro?" chiese lui, urlando come un forsennato per farsi sentire. "Com'è andata?" "È stato un incubo" rispose Sarah prendendosi Georgie in braccio e attaccandolo al seno. Si sedette con lui sulla sedia a dondolo e iniziò ad allattarlo. E. silenzio cadde su di loro come una benedizione divina. Per cinque minuti, Sarah
non parlò. Rimase seduta con Georgie, accarezzandogli i capelli con dolcezza, mentre entrambi si riprendevano dallo shock del distacco. Jacob trovò qualcosa da fare: caricò la lavastoviglie, mise il bollitore sul fuoco, preparò il pranzo. Quando Sarah ebbe allattato, fatto digerire e messo a dormire Georgie, Jacob le presentò un'appetitosa pasta condita con salsa al pomodoro fresco e basilico. Sarah si sedette stanca morta, appoggiando il baby phone di fianco al piatto. Si riprese quando iniziò a concentrarsi sul piatto fumante. "Allora?" chiese Jacob impaziente. "Cos'è successo? Quando sei tornata sembravi in stato di shock". Sarah bevve un po' d'acqua. "Vogliono che lavori non su uno, ma su due incarichi". Quando le tornò in mente Redford, si sentì vacillare. Perché stava nascondendo a Jacob il ruolo di quell'uomo nella sua vita? Solo Alex ne era al corrente. Nessun altro l'avrebbe mai saputo, se solo fosse riuscita a mantenersi padrona di sé di fronte all'uomo che, dopo suo fratello, la conosceva meglio di tutti. "E allora?" Jacob attendeva paziente, la testa inclinata da una parte, studiando la nipote con un'espressione sconcertata. "Hanno scoperto di avere una talpa, qualcuno che si alimenta goccia a goccia dei dettagli degli incarichi che loro hanno praticamente già acquisito, per poi sfilarglieli da sotto il sedere. Savage rischia un colpo apoplettico. Zamaroh vuole la testa di qualcuno. Io sono quella che in teoria dovrebbe acchiappare il colpevole". "Un bel casino, ma non impossibile, per te. C'è altro?" Sarah firn con studiata lentezza di mangiare, poi si alzò per mettere il piatto nella lavastoviglie, porgendo vigliaccamente la schiena a Jacob mentre gli parlava. "C'è una rockstar, un tipo che si chiama John Redford..." Ecco, aveva pronunciato il suo nome. "Vuol entrare in Borsa per ottenere un finanziamento mobiliare sul suo catalogo di vecchi successi. Siccome Savage non si fida più di nessuno giù in sala contrattazioni, per non rischiare di perdere l'affare ha deciso che io devo fare tutto il lavoro di ricerca, uscirmene con una proposta preliminare convincente e presentarla in una settimana". Si girò verso di lui. "Questo, ovviamente, quando non devo lavorare per cercare di acchiappare la talpa". "Oh, bimba" disse Jacob. "È un sacco di lavoro". Si mise di fronte a Sarah, con il viso preoccupato. Lei tornò al tavolo e si accasciò sulla sua sedia.
"Lo so. Come faccio? Non posso, non posso con Georgie. Dovrei smettere di allattarlo. Non avrei il tempo di curarlo, di stare con lui. Non lo vedrei mai". Le lacrime le scendevano lungo il viso. "Mi hanno intrappolato. Savage mi ha intrappolato. Ho chiesto tanti di quei soldi che pensavo mi cacciasse fuori a pedate, invece mi ha dato l'incarico". "Puoi sempre recedere". Sarah lo guardò con occhi tristi. "No, Jacob, non posso. Ho bisogno di soldi. Prima o poi dovrò ricominciare a lavorare, e qui sarò pagata talmente bene che potrò starmene a casa per sei mesi. Mi darà cinquemila sterline al giorno più le spese, più cinquantamila se trovo la talpa. Se lavoro, diciamo, due settimane, tre al massimo, e trovo la talpa, sono centoventicinquemila. Non posso crollare adesso". Si alzò. "No, lascia perdere: non ce la farò mai". Decise all'improvviso. "Non posso abbandonare Georgie e, comunque, non ho nessuno che possa prendersi cura di lui". Jacob si schiarì la voce. "Non è esattamente così". "Cosa non è esattamente così?" Alex fece capolino dalla porta. Buttò la sua borsa da ginnastica sul pavimento e si diresse verso la pasta che si stava raffreddando nella casseruola. "Dio, sto morendo dalla fame" disse, tirando su una manciata di pasta con le dita. Jacob sorrise "Sai che novità!" Alex si girò e fece una smorfia, con la bocca piena di cibo. "Ottima osservazione" mugugnò. "Cosa stavate dicendo?" "Che non è vero che Sarah non ha nessuno che le possa tenere Georgie se lei lavora". "È vero. Ci possiamo pensare noi, no?" disse a Jacob. "Ne saremmo felicissimi, lo sai" disse alla sorella. Lei sorrise. Alex inghiottì di colpo. "Mi sto rincoglionendo. Com'è andata con la Goldstein? Hai avuto l'incarico?" chiese. Lei lo guardò con tristezza. Alex fece un'espressione preoccupata. "È andata male?" "È andata bene. Troppo bene" rispose cupa. "Savage vuole che io lavori su ben due incarichi". "Con una rockstar" disse Jacob, impressionato. "Quale?" chiese Alex casualmente, guardando Sarah. "Boh. Io non l'ho mai sentito nominare, naturalmente" disse Jacob. "Redburn. John Redburn, no?" "Più o meno" rispose Sarah, piegandosi per grattarsi una caviglia. Quan-
do si tirò su, gli occhi del fratello erano sbarrati su di lei con una preoccupazione che finse di non vedere. "E allora?" chiese Alex. "Sembra un bravo ragazzo, per essere una rockstar" rispose lei. Quando Jacob se ne andò, un quarto d'ora dopo, Alex andò a sedersi sul divano di fianco a Sarah. "Allora, cosa sta succedendo?" "A proposito di cosa?" chiese lei con noncuranza. "Lo sai". Sarah fece un sospirone. "Me ne stavo seduta là in Goldstein con Savage e gli altri, e lui entra. Così. A momenti muoio d'infarto". "Madonna, Sare. Adesso stai bene?" Guardò tetra il fratello. "No. Sono ancora sotto shock". "Ma non sapevi che lo avresti incontrato?" "Proprio no". "Cosa hanno capito Savage e gli altri?" "Nulla" rispose Sarah. "Almeno spero. Abbiamo fatto finta di niente. Di non conoscerci". Alex fece un'espressione di totale incredulità. "Allora perché è qui?" "Vuole fare come Bowie: diventare una finanziaria". "Perché adesso? Perché la Goldstein? Perché tu?" "Cristo, Alex, non lo so. Di tutte le banche del mondo..." disse. "...doveva proprio trovare la tua" terminò Alex. "Pura coincidenza?" Sarah spostò i capelli dal viso. "Non lo so. Gliel'avevo suggerito io, là nel Wyoming, di fare questa operazione. Gli ho anche detto che la Goldstein era la miglior banca del mondo e gli ho fatto il nome di Savage. Dio mio. Non ci ho più pensato. Era stata solo una battuta, un modo di riempire di silenzio. Non avrei mai pensato che mi tornasse indietro come un boomerang". "E lui? "Cosa?" "Ti è tornato indietro come un boomerang?" "No, Alex" si strofinò gli occhi. "Credi che lui sappia qualcosa di Georgie?" gli domandò all'improvviso. "Come potrebbe?" rispose Alex con dolcezza. "Non lo so. È il mio incubo. In qualche modo lo scopre, arriva e me lo strappa via". "Non potrebbe farlo comunque, Sarah, nemmeno se lo venisse a sapere,
cosa che non succederà mai". Una smorfia di disappunto gli deformò il viso. "Che c'è?" chiese Sarah preoccupata. "Be', lavorare su questo incarico potrebbe portarti troppo vicino a lui". Sarah scosse il capo. "Farò questo lavoro per Savage, tutto qui. Costruirò il più alto di tutti i muri di Berlino tra me e Redford. Non mi acchiapperà più. Quello che è accaduto tra noi ormai appartiene al passato". Capitolo 14 Vera Vernon tentava da anni di mettere ordine in casa di Sarah, pulendo, stirando, facendo la spesa, portando le giacche in lavanderia, dispensando consigli quando le sembrava ce ne fosse bisogno. Come madre di cinque figli ormai adulti, era diventata una grande esperta nel preparare i biberon. "Ok, bene, guarda come devi fare, adesso concentrati. Guardami". Vera, alias signora V, versò con estrema attenzione duecentotrenta millilitri di acqua Evian appena bollita e fatta raffreddare in un biberon sterile, poi vi fece scendere accuratamente i misurini necessari di latte in polvere. Chiuse bene il coperchio, scosse il biberon con violenza e lo mise in frigo. "Forza, tocca a te preparare il prossimo". Porse un biberon a Jacob. "Dai". Sarah stava a guardare, tenendosi Georgie in braccio. Sembrava che il bambino trovasse il rito di preparare i biberon particolarmente divertente, scoppiando nei suoi abituali risolini, dimenandosi nelle braccia della mamma e cercando di acchiappare quello che gli arrivava a portata di mano. La signora V si girò verso Sarah, con le mani ben piantate sui fianchi. "Non dirai che è il modo più indicato di iniziare a staccarlo dal seno, vero? Un sacco di pasti via, così, in un colpo. Starete malissimo, tutti e due, lui perché si sentirà rifiutato, tu con tutti quegli ormoni frizzanti in circolo. Per non parlare, poi, delle tue mammelle, che ti sembreranno due dirigibili". I suoi occhi assunsero uno sguardo distante. "Me lo ricordo. Pazzesco. Tremendo". Sorrise. "Meraviglioso, però". Si riconcentrò su Sarah. "Non ti preoccupare, cocca. Sarò qui tutto il giorno. Sopravviverete tutti e due. Vatti a preparare. Dammi il tuo giovanotto". Sarah esitò. La signora V allungò le braccia. "Dai, forza. Più tentenni, peggio è. Preparati ed esci senza guardarti indietro".
"È quello che hai fatto tu?" La donna rise. "Fai quello che ti sto dicendo, non quello che ho fatto. Dai, forza, cocca. So quello che stai passando, ma tirarla per le lunghe non ti aiuterà, ti farà solo sentire peggio. Vale per te e per Georgie". Sarah invece era molto indecisa: se lo strinse addosso fino all'ultimo, per poi cedere, con una fitta di dolore lacerante, un Georgie furibondo e capriccioso che urlava a squarciagola, e correre su per le scale. Non aveva il tempo di farsi una doccia. Scivolò fuori dalla camicia da notte, si spruzzò acqua gelida sul viso, si spalmò la crema idratante, si spazzolò i capelli a testa in giù e indossò un vestito azzurro di lana. La cerniera della gonna si rifiutava di chiudersi. La aprì e la coprì con la giacca. Indossò le scarpe scollate col cinturino alla caviglia e si infilò l'anello con un enorme rubino che le era stato regalato da Jacob, il suo portafortuna. Le ci vollero in tutto cinque minuti per prepararsi. Passò di fianco alla camera di Georgie e, nonostante le raccomandazioni che lei stessa si dava, si fermò. Jacob se ne stava sdraiato sul pavimento, lasciando che Georgie giocasse con i suoi baffoni bianchi. L'uomo e il bimbo stavano ridacchiando, ignari del suo sguardo, dei suoi desideri, del suo dolore. Sospirò con profonda tristezza e corse fuori. Arrivò da Tatsuyo, un ristorante giapponese in Broadgate Circle, con un quarto d'ora di ritardo, ma fu comunque la prima. Aveva caldo, si sentiva sudata, sciatta e scarmigliata. Controllati, si disse. Cammina come una regina e lo sembrerai. Le fu assegnato un tavolo per due al piano inferiore. Quando vide gli sguardi che la seguivano, si sentì gratificata. Tutto sommato, valeva ancora qualcosa. Alle dodici e un quarto il ristorante era già tutto occupato. Sarah ordinò un tè verde e cercò di ricomporsi in un atteggiamento da donna in carriera. Il vecchio ruolo che, prima di Georgie, faceva parte di lei e assumeva senza sforzi, ora le era totalmente estraneo, come se non appartenesse più a lei, ma a qualche sua vecchia conoscenza. Si guardò intorno, cercando altri impostori. Tutti, in quel ristorante, potevano essere classificati come compratori e venditori. Il venditore sembra sempre parlare ad alta voce e velocemente, senza tempo da perdere: vendi o muori. Tutti loro si comportavano allo stesso modo. Se solo fossero riusciti a fingere per un'ora di non aver bisogno di concludere l'affare; se solo avessero potuto giocarsela tutta con loro stessi e le loro offerte; se solo avessero potuto permettersi di parlare lentamente, con voce morbida, avrebbero decretato la morte dei loro sogni. Gioca, Sarah ricordò a se stessa. Punta alla sostanza, ma non dimentica-
re mai il tuo stile. Sembrava così facile, guardando gli altri. Medico, cura te stesso! Zaha Zamaroh arrivò con ventitré minuti di ritardo, sebbene la Goldstein distasse solo tre minuti a piedi attraverso il Circle. Appena il cameriere la fece sedere, gli snocciolò il suo ordine senza consultare il menù. Solo allora diede segno di riconoscere Sarah. "Ho molta fretta. Sai cosa prendere?" Sarah si inclinò all'indietro sulla sedia con un sorriso divertito. "Ciao, Zaha". Puntò gli occhi sul cameriere. "Potrei avere un menu, per cortesia?" Il cameriere tornò due minuti dopo col menu in mano. Sarah si prese altri due minuti per studiarlo e ordinare, calma e perfettamente padrona di sé nonostante i fulmini infuocati che dardeggiavano dagli occhi di Zaha. "Sei in ritardo" disse, rompendo il silenzio. "Che non succeda mai più". Zamaroh la guardò per un momento come se stesse per esplodere in un accesso di rabbia, ma, conscia del fatto che, in quel frangente non era lei a detenere il comando, cercò di controllarsi. Per un attimo rimase a osservare Sarah in silenzio, come per cercare un'arma appropriata, ma sembrò arrivare a un punto morto, dal momento che si limitò a richiamare il cameriere e chiedere dell'altro tè. "Visto che la Goldstein mi paga a giornata, sarebbe meglio cominciare" disse Sarah. "Perché no?" replicò Zamaroh, come se stesse raccogliendo una sfida. Il cameriere portò il cibo su un vassoio: zuppa di riso, sashimi e un'insalata di alghe per entrambe. "Preferirei un ufficio poco appariscente" disse Sarah, sorseggiando la zuppa. "Ma non troppo poco appariscente: facciamo finta che voi stiate cercando di nascondermi, ma bluffando. Dovrò fare da preda, ma non troppo. Il nostro amico è un bastardo che ama i trabocchetti, suppongo, ed è ferrato nei giochi di testa". "Come mai hai questa idea?" "Tu stessa l'hai detto, ieri. Quello che lui, o lei - non voglio precludermi nessuna possibilità - sta portando avanti è un vero e proprio tradimento, e giurerei che sì sta divertendo moltissimo. Sta cercando di carpire tutti i nostri segreti, così, giochiamo al suo gioco. Pensa di essere molto furbo, facciamo in modo che diventi abbastanza difficile da blandire il suo ego. Voglio farlo partire in quarta su una falsa pista. Inventiamoci un accordo fantasma e chiamiamolo 'Gravadlax'. Penseranno che si tratti di una fusione o di un'acquisizione della Volvo. I nomi in codice sono sempre indizi forniti
involontariamente. In genere si sceglie un nome che il subconscio collega a quello che si sta cercando di nascondere, per cui Gravadlax va bene; lo porterà nella direzione che vogliamo noi e ci renderà più facile seguirne le tracce se qualcun altro inizia a fare qualcosa di inusuale con un'azienda svedese". Sarah iniziava a intravedere negli occhi di Zamaroh lo sguardo da predatore. "Costruirò una falsa traccia" continuò. "Voglio prendere possesso del mio ufficio al più presto. Questo vuol dire che Breden dovrà mettere in pista il suo personale già da domani: dovranno fingere di essere un'impresa di pulizie, per controllare che non ci siano cimici nel mio ufficio, nel tuo e nella sala riunioni. Se ne trovano, voglio che le lascino lì; le useremo a nostro favore per parlare della Gravadlax. Voglio un buon pc, grosso, potente e veloce, ventuno pollici". "Parli degli uomini o della macchina?" la interruppe Zamaroh. Sarah scoppiò a ridere all'inaspettata battuta di Zaha. "Questo è quello di cui ho bisogno: uno schermo da ventun pollici, un protettore dello schermo; voglio una Isdn, e voglio Nexus. Il mio computer non dialogherà con nessun altro nella Goldstein. Non voglio che nessun altro pc si possa insinuare nel mio. Tu e io dovremo trovarci fuori dall'ufficio a parlare di Redford, al quale daremo lo pseudonimo di Tatsuyo". "Il nome di un ristorante?" "È perfetto. Quale collegamento ci può essere tra un ristorante giapponese e una megastar?" "Giusto" riconobbe Zana con un fiacco sorriso. "Come ti devo descrivere se mi chiedono chi sei?" "Dì solo che sono una freelance. Questo dovrebbe tenere sulle spine la nostra talpa. Voglio far istallare nel mio ufficio e nel tuo delle telecamere, in modo da poter controllare se qualcuno entra a curiosare nei nostri documenti dopo l'orario d'ufficio". "I miei telefoni?" "Saranno sotto controllo. Potremo sentire sia le telefonate sia le conversazioni che avrai in ufficio". "Ma è una violazione inaccettabile della mia privacy" esclamò Zaha offesissima. "Ma credi di averla, una privacy, in sala contrattazioni? Se ci riesci, vuol dire che sei molto più brava di me. Guarda, è solo per una o due settimane, finché non acchiapperemo la talpa".
Zamaroh fece una smorfia. "Non abbiamo scelta. Non ti puoi permettere di perdere altri accordi, Zaha". "Taci, non farmici pensare". "Hai bisogno di tenertelo bene in mente, invece". "C'è altro?" chiese Zamaroh a denti stretti. "Sì. Chi pensi possa essere?" Capitolo 15 Sarah aveva dimenticato quanto fosse viscerale e coinvolgente la sala contrattazioni; i guadagni e le perdite, la valutazione delle persone in termini puramente economici, la competizione, la gioia maligna per le disgrazie altrui. E, soprattutto, l'invidia. Andando nel suo ufficio le sembrò di attraversare una passerella. Sapeva che non era solo il suo look ad attirare l'attenzione. Ogni nuovo arrivato era soggetto a un malcelato scrutinio, come una iena estranea che gironzola intorno a un branco. Sarah aveva già una certa notorietà. Conosciuta come uno dei più quotati trader della City negli ultimi anni, era anche famosa per essere la donna che era uscita con le sue gambe dal mattatoio dell'ICB, scomparendo poi per due anni. Persino per i veterani emanava un'aura di pericolo ed esotismo. Lasciamoli pure parlare, pensò lei, osservando uomini e donne che bisbigliavano attraverso le pareti di vetro. Stanno parlando di qualcuno che pensano di conoscere. La sua mente andò a Georgie, come succedeva circa ogni novanta secondi. Forse stava facendo il pisolino o forse si sentiva abbandonato da lei, rifiutando il latte in polvere che gli era stato appioppato senza preavviso. Guardò il telefono disperata. La sua chiamata, come tutte le altee della sala contrattazioni, sarebbe stata registrata e, successivamente, ascoltata. E se l'ufficio era sotto controllo, non aveva nemmeno senso usare il cellulare. Jacob aveva il suo numero di telefono. Se c'erano problemi, l'avrebbe chiamata. Ora doveva organizzarsi la giornata per non pensare più a casa. Karen, la segretaria di Zamaroh, bussò alla porta. Sarah alzò lo sguardo. "Sì?" "Zaha vuole farti avere queste". Fascicoli riservati sul personale, i sospettati di Zamaroh. Sarah si impossessò di una pila di fogli alta dieci centimetri. "Grazie".
Ci si buttò sopra, e dopo un'ora e mezzo finì di leggere quel monumento cartaceo. Andò all'ufficio di Zaha, oltrepassò la porta aperta e si sedette di fronte all'iraniana. "Grazie per le pratiche" disse Sarah. "Dimmi perché sospetti questi tre". Zamaroh fece un sospiro enfatico. "Cosa ti posso dire? Non ho prove evidenti, o li avrei già licenziati. Non ho neppure degli indizi, solo una sensazione, lo sguardo nei loro occhi quando parlo con loro. Dovresti capirmi" aggiunse con inaspettato rispetto. "Tu e il tuo leggendario istinto". Sarah sorrise. "Vorrei vederli. Me li puoi indicare discretamente, per favore?" Zamaroh la studiò in silenzio per qualche istante prima di alzarsi in piedi. "Seguimi". Zamaroh attraversò il piano a grandi passi, con Sarah al suo fianco. Schiene rigide, voci stridule, i calcolatori azionari che frusciavano. Tra esortazioni, ammonizioni, facce corrucciate e qualche rarissimo saluto ai suoi preferiti, Zamaroh le indicò discretamente i sospettati. C'era Petra Johnson, venditore di obbligazioni governative, che vendeva Titoli di Stato e Buoni del Tesoro in Europa, il lavoro più noioso del mondo, per quello che riguardava Sarah. Le obbligazioni del governo erano sicure come case e intriganti come un seminterrato a Deptford. Non c'era margine, la volatilità era irrisoria, bisognava spremere a fondo per ricavare un misero profitto da quel tipo di affare. PJ, com'era conosciuta sul lavoro, doveva essere ostinata come il diavolo, una vera sgobbona. Mentre studiava la donna, Sarah richiamò alla mente la sua pratica. Trentaquattro anni, laurea in storia a Bristol, collegio di second'ordine, reddito dell'anno precedente 75.000 sterline, bonus 100.000 sterline. Parente prossimo segnalato suo padre, Julian. L'anno prima si era presa un periodo di malattia che andava molto al di fuori degli standard della sala contrattazioni, dodici giorni a casa. PJ era bionda, di un biondo costoso, ben truccata, vestiti eleganti con un tocco di volgarità. Il colore brillante dei capelli faceva a pugni con i toni rossi del viso, enfatizzando la sua naturale aria collerica. Era una donna che aveva sempre fretta. Parlava velocemente, quando si alzava per consultare un altro trader si muoveva velocemente, e se non le andava bene la quotazione si incazzava altrettanto velocemente. Sarah avrebbe giurato che spendeva con altrettanta rapidità. Era single, niente fidanzato, per quello che ne sapeva Zamaroh, ma Sarah dubitava che qualcuno in sala contrattazioni si fidasse di Zamaroh, e non diede molto peso a questa informazione.
Poi c'era Miles Churchward, settore obbligazioni estere, che vendeva obbligazioni a compratori istituzionali inglesi. Il suo fascicolo rivelava che aveva trentasei anni, istruzione effettuata in una scuola nel Jersey, poi Università di Exeter. Reddito dell'anno precedente 80.000 sterline, bonus 120.000 sterline. Parente più stretto la sorella, Claire. Nessuna assenza l'anno precedente. Sarah non capiva cosa avesse da obiettare Zamaroh su di lui. Sulla base dell'esame di Sarah, e della fede che riponeva nella fisiognomica, sembrava un bravo ragazzo. Un metro e ottantatré, maturo, elegante, anche troppo raffinato per la sala contrattazioni, sembrava gentile, sensibile, amabile, tutte qualità che lo distinguevano come una rarità. Forse era proprio per questa ragione che valeva la pena di esaminarlo più attentamente. Churchward rientrava in pieno nella classica categoria dell'ultima persona al mondo della quale avreste mai potuto dubitare, il che costituiva un'altra nota di biasimo. Al contrario, Jeremy St James, alias Jezza, come colpevole era fin troppo ovvio, il che, sulla base di un doppio bluff, lo rendeva un ottimo candidato. Trentun anni, Eton e Oxford. Reddito dell'anno precedente 200.000 sterline, bonus un milione di sterline. Parente prossimo: nessuno. Otto giorni di malattia. Era rapido come una saetta, ambizioso, chiassoso e troppo ben vestito. Era un etoniano maturato in sala contrattazioni. Mentre saltava da un telefono all'altro, alternava parole forbite a frasi da carrettiere. Sarah era convinta che riuscisse a cambiare a seconda di chi voleva essere e di chi lo interessasse. Era dotato di una mimica naturale, un incantatore di folle, ma Sarah dubitava che qualcuno in sala contrattazioni avrebbe mai potuto sceglierlo come amico o confidente. Non era esattamente una di quelle persone che hanno scritto a caratteri cubitali sulla fronte "FIDATI DI ME". Se possedesse o meno un'integrità morale molto ben nascosta che teneva al riparo dallo sguardo delle iene trader, questo non lo si capiva, ma stranamente Sarah sospettava che l'avesse. Poteva essere insita nel suo carattere, dato che la personalità di Borsa era spesso uno schermo per proteggere qualcosa di più profondo. Altrettanto spesso, però, nascondeva il nulla totale. Sarah tornò in ufficio e valutò i sospettati. Tutti scelti da Zamaroh con un unico metro di misura: il suo istinto, una latente insoddisfazione, o forse pura e semplice antipatia. Zaha era troppo immersa nella rabbia e nel dolore per mostrare qualche sensibilità nei confronti degli altri esseri umani. La sua valutazione si basava solo sui profitti che portavano a lei e alla Goldstein, e sul rispetto più o meno assoluto che le portavano. I dati mar-
ginali come personalità, vita privata, speranze, traumi o dolori, lei proprio non li vedeva. Gli appunti presi da Zamaroh potevano, per Sarah, essere semplicemente un punto di partenza. Era il momento di fare delle chiacchiere. Jezza era l'elemento migliore da cui iniziare. Trattava cambi esteri utilizzando il capitale della Goldstein. Sarah aveva fatto esattamente quel tipo di lavoro alla Findlays e alla ICB, per cui, parlando di lavoro con lui, avrebbe avuto un'aria perfettamente naturale. Pensò di prenderla alla larga, iniziando con una chiacchierata casuale sui mercati, ma Jezza la anticipò. "Sarah Jensen, la regina dei mercati esteri! Non mi dire che ti sei unita a noi, umili schiavi..." Se ne stava in piedi nel corridoio, il corpo allampanato puntellato contro lo stipite della porta, gli occhi colmi di malizia e sarcasmo. Sarah lo guardò con attenzione. "Diciamo che sono un prestito del mondo reale..." "Ma per favore...." Si chinò in avanti e le tese la mano. "Sono Jeremy St James". Sarah strinse la mano. In contrasto col viso sorridente, la stretta di St James era fredda. "Tratto cambi esteri" disse lui, borioso. I broker come lui erano sulla punta della piramide della sala contrattazioni. Sembrava le stesse comunicando di avere un pene di trenta centimetri. Sarah continuava a non parlare. "Segui ancora i mercati?" chiese St James. "A modo mio". "E sarebbe?" "Sporadicamente". "Segui i cambi a pronti?" "Un po'" "Vuoi una puntata?" "Dipende da qual è". "Ce n'è una a sessantaquattro sessantacinque adesso. Chiuderà in aumento o in ribasso di cinque, stasera?" "Ci scommettiamo su?" Jezza ci pensò su, sorridendo lentamente. "Ma sì, dai. Una bottiglia di Krug d'annata. Stasera, da Corney e Barrow". Era una cosa deliziosamente priva di senso. Sarah non si era mai interessata ai movimenti giornalieri degli indici. Preferiva rischiare sulle tendenze
mensili, nelle quali entrava in gioco una logica più evidente. Oltretutto questo giochetto idiota avrebbe anche ritardato il ritorno a casa, per passare due ore con un egotico, bevendo champagne balordo che le avrebbe sicuramente fatto diventare acido e frizzante il latte e le avrebbe provocato una delle sbornie più travolgenti della sua vita. "Chiuderà in ribasso" disse, con sublime indifferenza. Jezza tornò alle cinque in punto. "Caccia fuori il portafoglio". Sarah alzò la testa dalle carte che stava studiando. "Aspetta un secondo". Richiamò la schermata, controllò i prezzi in chiusura e scoppiò a ridere. "Brutto bugiardo bastardo. Ma credevi veramente di riuscire a fregarmi?" Lui fece una smorfia. "Valeva la pena di provarci, comunque". "Pensavi davvero che non controllassi?" "Mi sembravi terribilmente annoiata dalla scommessa". "Questo è vero, ma non abbastanza annoiata da crederti". Alzò le spalle. "Di solito i miei bluff funzionano". "Non con me, sbruffone". Andò nella toilette, e chiamò velocemente Jacob dal cellulare. "Come sta andando?" chiese in fretta. "Bene, tesoro, non ti preoccupare". "E con i biberon?" "Ha bevuto fino all'ultima goccia". "È andato tutto bene?" "È stato fantastico". "Non ha pianto?" "Be', sì, ogni tanto, ma niente di allarmante". "Bene". Sarah sentì un'ondata di sollievo mischiato a un altro sentimento meno chiaro sul quale preferiva non indagare troppo. Aggrottò la fronte. "Mi stai dicendo che non gli manco?" "Ma certo che gli manchi, amore. Ci soffre, ma non troppo". Sarah sospirò. "Ascolta, tornerò fra qualche ora. Ce la farai?" "Ce la farò benissimo. Fai quello che devi fare. Noi siamo qui". "Va bene. Terrò acceso il cellulare. Ce l'hai il numero? Ricordati che è attaccato con una puntina nel mio studio". "Ce l'ho attaccato in testa: adesso piantala e torna al lavoro". Sarah diede un'occhiata alla pompetta tiralatte che teneva sempre in borsa e si chiese se valeva la pena di togliere un po' di latte dalle sue agonizzanti e turgide mammelle. Se lo faccio, me ne uscirà una quantità tale da
inondare il bagno, pensò, e oltre a tutto, se qualcuno entrerà in bagno e sentirà il ronzio, penserà che io stia usando un vibratore. Cristo, una mamma a rischio di esplosione, da sublime a ridicola per colpa di un ronzio. Rimise la pompetta in borsa e corse fuori a incontrare Jezza. Passarono attraverso la folla frettolosa da Corney e Barrow per prendersi una buona postazione all'angolo. Jezza entrò nel bar, dove rimase in piedi, la testa e le spalle seppellite in mezzo alla ressa, con occhi dardeggianti che cercavano di acchiappare lo sguardo del barman. Sarah si studiò il locale. Trader irritabili che uscivano da una giornataccia, bevendo pesantemente e fumando come turchi. Cristo, che razza di vita. Quattro anni prima, sarebbe stata con loro, cercando di dimenticarsi la giornata appena passata con l'ausilio delle droghe legali. Adesso era lì, a contare i minuti che mancavano al suo ritorno a casa. Cinquantamila se acchiappi la talpa, ricordò a se stessa, guardando tristemente l'uscita. I suoi seni stavano per esplodere. Aveva già finito un pacchetto intero di coppette assorbilatte. Iniziò a ridacchiare, a metà strada tra l'isteria e il senso di assurdo che tutta questa faccenda le provocava. "Cosa c'è da ridere?" chiese Jezza, appoggiando una magnum di Bollinger d'annata sul tavolo. "Madonna santa, non ti aspetterai che io lo beva, spero..." "E perché devi restare sobria? Non stai lavorando per noi, no?" Sarah sorrise. "Ricerca". "Oh, piantala. Mi prendi per scemo?" Iniziò ad armeggiare con il tappo. "Pensavo che ci pensasse il cameriere" osservò Sarah. "Faccio sempre di persona quello che mi interessa, tesoro". Il tappo decollò dalle sue mani e urtò il soffitto, atterrando infine su un tavolo di fianco a loro. Occhi invidiosi saettarono alla magnum. Sarah si chiese per l'ennesima volta cosa diavolo stava facendo lì. St James riempì due bicchieri fino all'orlo, soddisfatto come se avesse appena domato un cavallo selvaggio. "Alle vittorie" disse, alzando il suo bicchiere e facendolo tintinnare con quello di Sarah. "Alle vittorie" lo imitò lei, facendo finta di berne un sorso. "Mi piace il tuo anello" disse St James, dando un'occhiata al rubino di Sarah. "Grazie". "Regalo di un amante?" "Veramente di mio zio. Non che questo ti debba interessare, comunque".
Non era un vero zio, Jacob, ma a tutti gli effetti uno zio onorario. "Ce l'hai un amante?" "E tu?" "Fino a che numero arrivi a contare, tesoro?" "Wow, un harem di donnine vogliose. Capisco". "Un harem di donne". Jezza si riscaldò all'idea. Tu sei gay. Disse una vocina nella testa di Sarah. Perché non lo dichiari? Perché la tua vita in sala contrattazioni, dove conformarsi è fondamentale e dove appartenere a una minoranza è un handicap, diventerebbe un vero inferno. "Jezza, mi ordini una bottiglia di Evian per cortesia? C'è un caldo insopportabile, qui". "Certo". Si alzò in piedi, desideroso di compiacerla, e sparì. Sarah si guardò intorno, poi svuotò lo champagne in una bottiglia mezza piena di Evian che teneva nella borsa. Andando alla toilette per due volte, svuotando il bicchiere nel lavandino ogni volta, Sarah riuscì a sistemare tre bicchieri, mentre Jezza se ne bevve quattro. Sembrava che non gli facesse alcun effetto. Lo raggiunse con un sorriso. In sua assenza, lui si era spazzolato un altro bicchiere. "Allora, raccontami un po' di pettegolezzi di Borsa". Jezza sorrise. "Be', il migliore dei migliori... c'est moi". "Perché?" "Sai quanto ho fatto per la Goldstein l'anno scorso?" "Dimmi". "Quindici milioni". Brindò a se stesso, buttò indietro la testa e si scolò un bicchiere. Sarah osservò il suo pomo d'Adamo che si muoveva, attraversato dal torrente di champagne. Sembrava molto vulnerabile, con la gola nuda. "Però, mica male. E quest'anno?" chiese Sarah, affondando il coltello a tradimento. La sua testa si abbassò di colpo. "E chennesò? Siamo solo a settembre, tesoro". Zamaroh aveva raccontato a Sarah che St James era al di sotto del suo budget di otto milioni, praticamente sull'orlo del licenziamento. Zamaroh gli stava concedendo un ultimo mese per mettersi a posto, ma Sarah dubitava che ce la potesse fare. Il suo sguardo era disperato, gli occhi colmi di paura. Quando un trader crolla a livello nervoso, diventa cibo per gli squa-
li. "Ho capito" disse gentilmente Sarah. "E chi è il secondo più in gamba?" Jezza iniziò a fare un appello, passando attraverso la gerarchia sociale della sala contrattazioni. Se avesse rivolto la stessa domanda a una dozzina di trader della Goldstein, era convinta che, su cinquecento persone, tutti avrebbero sciorinato la stessa identica Usta. Non a caso la chiamavano la giungla, ma Jezza, nonostante i suoi rumorosi sforzi, non ne sarebbe mai diventato il maschio alfa. Dopo pochi minuti, Jezza arrivò a Miles Churchward. Il suo verdetto era dannatamente personale, ma non dava motivo di pensare a una personalità criminale. "È di una noia mortale" sbottò Jezza. "D'altronde, cosa ci si può aspettare da uno che viene dal Jersey? Nato e cresciuto là, parla francese come un ranocchio, fidanzatina francese che ci ha fatto conoscere all'ammucchiata di Natale dell'anno scorso. Lei è la sua qualità migliore". "Non ci hai provato?" "E se l'avessi fatto? Poco dopo si è messa con un giocatore". Sarah rise. "Pensavo che anche lui lo fosse". "È una specie di giocatore, suppongo, ma assomiglia di più all'Uomo Invisibile. Viene al lavoro, fa il suo lavoro, se ne sbatte di tutto e di tutti, non si fa mai vedere in giro, non si ferma mai a bere qualcosa, non beve mai, punto e basta". "Un astemio in sala contrattazioni: questo per me è un concetto del tutto nuovo". "Un concetto di una noia mortale, appunto" disse Jezza. "Buona però per la tenuta". "Mister Regolarità, ecco cos'è. Ha fatto per l'azienda un milione e mezzo tutti gli anni, anno dopo anno. Una volta ne ha fatti due, l'anno scorso, penso, ed è corso a stappare lo champagne". Altri nomi. L'appello continuava, Jezza cavalcava l'ondata del pettegolezzo e Sarah si contorceva esausta sulla seggiola. Poi uscì il nome di Petra Johnson. "Anche lei è in ribasso" disse Jezza, acidamente. "Era brava, ma tutto quello che ha in testa, adesso, è trovare il modo di acchiappare un ricco idiota e appendere il cappello al chiodo". Sarah si agitò ancora di più, nascondendogli il fatto che era d'accordo con lui. "Ma piantala. Non pensare che tutte le donne sopra i trent'anni siano zitelle disperate, non è più così da un secolo almeno".
"Non sto dicendo che vale per tutte le donne, solo per lei". "Non credi che possa smettere di lavorare vivendo con i suoi risparmi? Hai detto che era brava". "Vive troppo in fretta. Brucia tutto quello che ha. Le piacciono le cose belle e costose". "Cioè?" "Cioè quello che piacerebbe a tutti noi". "Cristo, Jezza. Non ho la più pallida idea di quello che piace a te, e tanto meno so cosa piace a lei". "Bella casa all'indirizzo giusto, gioielli veri, amici giusti, vacanze lunghe in posti esclusivi, buona..." "Hai reso l'idea". "Dove vivi?" "Carlyle Square". "Appartamento" azzardò St James. "Casa indipendente" corresse Sarah. "Cristo! Il paparino?" "Io". "Dovevi essere una vera campionessa". "Lo ero. So cosa vuol dire essere sempre sotto pressione. Mi dispiace per PJ". "Non devi dispiacerti. Sa quello che sta facendo. Appartamento, abiti, stile di vita, amici orribili, tutto è un investimento, no? Non potrebbe certo trovare il signor Cinquantamilionidisterline da Tesco, dove vendono cibi pronti da asporto". "Non ho mai pensato che fosse tanto complicato" rifletté Sarah. "Per quelle come te non lo è". Questa frase venne detta con una punta di amarezza che la sua espressione non riuscì a nascondere. "Cosa dici?" "Puledre di razza, che arrivano a grandi passi nella vita e se ne appropriano, come fai tu e come fa Zamaroh. Tutto vi arriva facilmente, no?" Eccolo qui. In vino veritas, finalmente. "Sì, certo, e per te la vita è tanto difficile?"' Gli occhi gli si restrinsero e si avvicinò a dieci centimetri dal suo viso. "Non ne hai un'idea". "Allora dimmi". Un veloce lampo di ostilità e Jezza scattò in piedi. "Ma vaffanculo, va'!" Salutò mentre attraversava la calca, con un'espressione scocciata e di suffi-
cienza. Sarah cercò un taxi per London Wall, sconcertata dal repentino mutamento di umore di Jezza. Una volta al sicuro sulla vettura, avrebbe voluto piazzare una sirena con un lampeggiante sul tetto per arrivare più velocemente a casa. Cercò di restare calma, ma le sembrava di non vedere Georgie da un mese. Lei e il suo corpo, che le aveva già dato prova, negli ultimi giorni, di operare in modo indipendente dalla sua mente, desideravano disperatamente il piccolo. Quando fu da Georgie allontanò Alex con ripetuti ringraziamenti, nutrì e coccolò il suo bimbo, lo mise a letto e fece una veloce telefonata. "Freddie? Ciao, sono Sarah Jensen. Già, è davvero un sacco di tempo. Sembra una vita. Ascolta, ho un'urgenza. Ci possiamo vedere domani? Guarda, è davvero urgentissimo, temo. Non dirmi che sei impegnato. Ok. Bravo. A che ora?" Emise un lamento. "Ok. Ci vediamo là alle dieci". Riattaccò, mangiò e andò a letto, prima che la stanchezza invadesse anche l'ultima cellula del suo corpo. Capitolo 16 Jacob arrivò alle nove della mattina dopo con una grossa pentola tra le braccia. "Pranzo e cena. Non ce la faccio a correre dietro a un bambino e a cucinare qualcosa di decente, non finché sono un baby sitter principiante. Per quanto riguarda il modo di cucinare di tuo fratello, diciamo che spero solo di non vedere mai più un fagiolo in scatola per tutta la vita". "Huh" disse Alex. "Lascia che ti dica che quando sei a settemila metri di altezza sono semplicemente deliziosi". "Anche pane e acqua, suppongo" polemizzò Jacob. Sarah sorrise e annusò il coq au vin. "Oh, Jacob, sei un mito". "Scommetto che ieri sera non hai mangiato quasi niente". "Già, ma mi rifarò". "Guarda che il sistema digerente non funziona così. Dovresti saperlo". Sarah fece un sorrisino di scusa, come se avesse offeso Jacob e non il suo sistema digerente. "Ti sistemo io" disse. "Fai la brava, metti in frigo e vai a prepararli". Sarah li baciò prima di andarsene, chiedendosi se il distacco da Georgie sarebbe stato un po' meno doloroso. Arrivò in ufficio alle dieci e un quarto, proprio mentre Zamaroh stava entrando. Gli occhi dell'iraniana lampeggia-
rono come quelli di un predatore. "Ah, eccoci qui. Buon pomeriggio. Mi sembrava che tu fossi preoccupata perché la Goldstein ti paga a giornata, no? Nessun istante da perdere, vero?" Fece sibilare la s, come un serpente. Un anaconda, pensò Sarah. "Fossi in te non mi stresserei troppo, Zana, ma, visto che lo fai, ti dirò che sono in piedi dalle cinque e mezza, ora in cui penso che tu stessi ronfando beatamente nella tua tana". Sarah le fece un sorriso dolce. "Adesso, se mi scusi..." Riprese decisa l'esame delle pratiche aperte sulla scrivania. Si sentì gli occhi dell'iraniana addosso ancora a lungo, anche dopo che l'altra era tornata nel suo feudo personale. Sentiva che aveva notato il vestito azzurro, indossato per la seconda volta consecutiva. Oltre a tutto quello che doveva fare, sarebbe dovuta andare a fare acquisti, avrebbe dovuto sperperare tempo e denaro per comperarsi vestiti di due taglie più grandi della sua, che sperava di cacciare in fondo al guardaroba nel giro di due mesi al massimo. E tutto perché doveva sembrare qualcun altro, sentirsi sicura nella sua divisa. Questa era una delle cose che la disturbavano di più, sentirsi presa in ostaggio dal suo look, dall'immagine che si era cucita addosso. Aveva sempre dato per scontato di essere bella, di avere un fisico perfetto. Adesso che la sua bellezza e il suo corpo stavano lottando contro gli effetti deleteri della gravidanza e della stanchezza, si rendeva conto di quanto ci tenesse. Ingurgitò un cappuccino acquoso, scremato e decaffeinato, accese il computer e iniziò a navigare su Internet, cercando tutte le informazioni sulla quotazione delle rockstar, poi passò su Nexus e lesse più di cento ritagli di giornali. Savage aveva ragione. Rock e finanza creavano un giro di affari molto intrigante. La stampa non si stancava mai di parlarne. Il vero prezzo della fama. Le obbligazioni delle celebrità sono designate a trasformare il talento in un investimento mastodontico, ma Wall Street abboccherà? Un investimento solido nel rock? Dimenticati i Footsie, invece consulta le riviste pop. Siamo lieti dì vendere un pezzo di rock. I banchieri di Bowie compongono una nuova canzone. I successi della Motown sono ancora dorati. Pullman si butta con la sua banda sulle stelle eterne del rock. I banchieri di Bowie riusciranno a evitare di cadere sulla terra? Le stelle tirano fuori il rock d'oro. Le obbligazioni di Brown. Gli Heavy Metal diventano denaro contante. Gli Iron Maiden corrono alla cassa. I guadagni degli I-
ron Maiden con l'emissione obbligazionaria. I giornalisti avevano dato il peggio di sé. I commenti attraversavano l'intero spettro a partire dall'alta finanza, attraverso le notizie appena attendibili, fino alla stampa dì intrattenimento: Time, il Wall Street Journal, il Financial Times, Business Week, il New York Times, Usa Today, The Times, Rolling Stone, Variety, Billboard, il South China Morning Post. L'interesse era forte. Sarah riusciva a capire la visione di Savage; il nome della Goldstein scritto a caratteri cubitali dove non era mai comparso, e ancora più cubitali dove era già conosciuto. Se avessero concluso l'accordo. Se la talpa non l'avesse fatto naufragare. Erano le dodici e un quarto quando si prese una pausa. Si strofinò gli occhi e guardò fuori. La sala contrattazioni stava risuonando dell'abituale cacofonia di voci umane, sibili di computer e squilli di telefoni, ribollendo delle solite vecchie emozioni, eccitazione, dolore, avidità, invidia, terrore. Era così facile venirne sedotti, rimanere agganciati dal ronzio, continuare a cercare il colpaccio finale, ma la talpa le sembrava sempre di più una persona motivata da un senso di vendetta, non tesa solo a un guadagno personale, sebbene senz'altro anche quest'ultimo giocasse un ruolo fondamentale. Pianificò il passo successivo con attenzione. Quando vide PJ attraversare la sala contrattazioni, passando attraverso le doppie porte, Sarah la seguì a debita distanza. PJ sparì nel bagno delle donne. Sarah entrò dopo di lei, fece la pipì più veloce della sua vita ed emerse dalla porta della toilette nello stesso momento di PJ. Mentre si stavano lavando le mani in due lavelli vicini, Sarah catturò gli occhi di PJ nello specchio e attese che la donna parlasse per prima. "Sei arrivata qui da poco?" chiese PJ. "Sì" rispose Sarah, asciugandosi le mani. "Ieri". "Come sta andando?" "Boh, i primi giorni sono sempre fatti di tentativi, in più direzioni". PJ fece una pausa, le mani sui fianchi. "Cioè?" "Ma sì, sai, le solite balle, si cerca di capire com'è configurato il terreno, i buoni, i cattivi, di chi fidarsi, chi evitare, chi è gentile e chi è psicotico". PJ rise. "La risposta all'ultimo punto è: la metà della sala contrattazioni, più o meno. Hai un ufficio tuo, o hai solo una scrivania?" "Faccio ricerca". "Ah. Che area?"
"Nuovi prodotti". "Qualcuno in particolare? Voglio dire, dovrai pur avere un'area di specializzazione". Hm, la prima stilettata. "Qual è la tua?" chiese Sarah. "Titoli di Stato". "Ah". E che cazzo poteva dire, adesso? "Ti piace?" PJ ululò una risata incredula. "Già, li adoro!" "E allora perché lo fai?" "Prova a indovinare..." "Ci sono tanti modi di pagare l'affitto". "Sì, bene, se me ne trovi uno migliore, fammelo sapere". PJ si girò sui tacchi alti e se ne andò. Il prossimo bersaglio di Sarah era Miles Churchward. Fece in modo di trovarsi in coda di fianco a lui da Birley per un tramezzino. Lui si girò e le sorrise. "Sei nuova alla Goldstein?" "Già". "E nessuno ti porta fuori a pranzo?" "No, ma va bene così. Ho un sacco di cose da fare, così risparmio tempo. Preferisco lavorare nell'orario di colazione e tornare a casa a un'ora ragionevole la sera". "Anch'io faccio così, e adoro venire qui da Birley. Fanno i migliori tramezzini della City". "Ma sì, non sono male". La coda si stava avvicinando al banco. "Allora, cosa fai?" chiese Churchward. "Ricerca". "Ah. In cosa?" "Nuovi prodotti. E tu?" "Vecchie e noiose obbligazioni estere in sterline. Sono un venditore". Aggiunse, quasi scusandosene. Nella gerarchia sociale della sala contrattazioni i venditori erano dei poveracci in confronto ai trader, ma, ciononostante, Churchward sembrava scusarsi anche troppo. Arrivò il loro turno. Curchward prese la borsa e sparì con un sorriso amichevole. "Ci vediamo". "Sì, ciao". D'impulso, Sarah entrò in un negozio d'abbigliamento maschile. Guardò i vestiti fino a quando non ne trovò tre che le piacevano. Poi scelse sei maglie, due bianche, due azzurre e due rosa, e le impilò sui vestiti. Arrivò un
venditore, sorridente. Era raro vedere una donna che comprava vestiti per il suo uomo e lui chiaramente approvava. Sarah indicò la torre di vestiti. "Vorrei provarli, per favore". Ci fu un colpo di tosse sorpreso. "Scusi, signora?" "Mi ha sentito. Non sono un travestito al contrario. Sono una madre che allatta, con un fisico sfasciato, e questi vestiti mi possono aiutare. Posso provarli?" Se gli occhi dell'uomo si fossero ingranditi ulteriormente, sarebbero scivolati fuori dalle orbite, pensò Sarah, trattenendo una smorfia. Uscì con tre vestiti e sei maghe, tutte cose che le stavano benissimo, grazie agli uomini con vita e petto ampi. Jezza fece la sua apparizione mentre Sarah, tornata in ufficio, si stava buttando sui tramezzini. Stava cercando altre informazioni, quando lui fece capolino con la testa dalla porta. Schiacciò un tasto e sul monitor apparvero bellissimi pesciolini colorati. "Ciao" si spostava da un piede all'altro, guardandola per cercare qualche indizio, per capire come conquistarla. Lei rimase impassibile. Fallo sudare. "Ragazzi, che sberla" disse, schizzando nell'ufficio e sedendosi su una sedia di fronte a Sarah. "Normalmente non bevo tanto". "Davvero?" "Già, a stomaco vuoto e così via. Sono stato noioso? Non riesco a ricordare niente". Da ammazzarti, pensò Sarah. "Cosa ne dici di uscire a cena?" "Hm?" mugolò Sarah, sperando di avere capito male. "Stasera, da Justine. Hanno sempre un posto per me, lì". "Mi dispiace, Jezza. Ho un impegno". "Domani, allora". "Idem". Jezza si sporse sulla scrivania. "Dopodomani, allora?" Ma questo qui non si dava mai per vinto? "Possiamo sentirci?" "Suppongo di sì. Attenta, perché poi sarò impegnatissimo". "Allora vuol dire che correrò il rischio di sentirmi dire di no". Sarah scaricò alcune informazioni sulle rockstar che non era riuscita a leggere sul suo pc e chiuse a chiave la scrivania. Lasciò l'ufficio alle sei, passando attraverso il labirinto di scrivanie, consapevole, mentre passava, degli occhi di Jezza che la seguirono fino a quando uscì dalla porta. Quando arrivò, Georgie dormiva già, e la casa era immersa nel silenzio.
Sarah diede a Jacob un veloce bacio su una guancia, poi corse di sopra per dare un'occhiata al suo piccolino. Si era addormentato a pancia in su, le braccia allargate, la bocca rilassata, il respiro regolare. Fece un sospiro beato mentre Sarah stava lì a guardarselo e ad ascoltare il suo respiro. Le sue labbra rosate formavano un arco di Cupido perfetto. Le lunghe ciglia scure tremolavano sulla pelle setosa. Era l'essere più meravigliosamente bello che Sarah avesse mai visto. Sentiva il suo cuore scoppiare di gioia. Se ne rimase lì per cinque minuti buoni, godendosi lo spettacolo. Pensò a suo padre, richiamando alla mente la sensuale bellezza del suo viso. Era lì a Londra? Cosa stava facendo in quel preciso istante? Non sentiva mai che c'era da qualche parte un pezzettino della sua anima che dormiva pacifico, custodito con amore? Georgie era anche suo, pensò Sarah con una fitta di gelosia. Tornò giù da Jacob in punta di piedi. Alex era uscito per incontrare dei compagni di scalate. "Com'è stato?" chiese, versandogli un bicchiere di vino rosso. Lui prese il bicchiere con un sorriso. "Bravo. Un angioletto. È proprio un bravo ragazzo. Sei una mamma fortunata". "Lo so". "Ti dirò, comunque, che non so come facciano quelle mamme che hanno tre figli da crescere e nessuno che le aiuti. La signora V è venuta per qualche ora e le sono praticamente saltato addosso per baciarla". "Maniaco. A parte gli scherzi, non sei troppo stanco, vero?" "Sarei un bugiardo se negassi di essermi sentito esausto, tesoro, ma ti devo anche dire che non stavo così bene da un sacco di tempo. Io e Georgie siamo una gran bella coppia, ci capiamo al volo. Tu sai che adoro quel ragazzo. Passare il mio tempo con lui è un privilegio". "Oh, Jacob. Non so proprio come ringraziarti". "L'hai appena fatto" sogghignò l'uomo. Quando Georgie si svegliò, affamato e urlante, Sarah lo allattò, poi fece un lungo e voluttuoso bagno insieme a lui. Lo asciugò, gli mise un pigiamino, indossò un paio di jeans e una maglietta bianca e lo fece sedere sul pavimento della cucina, circondato da un nido di morbidi cuscini. Jacob servì due piatti fumanti di coq au vin e Sarah si buttò sul cibo come se fosse a digiuno da una settimana. Fece le fusa dal piacere. "È delizioso". Finì velocemente, si alzò in piedi e si chinò per prendere in braccio Georgie. Lo strinse forte al seno. "Sarò di ritorno tra meno di due ore" disse a
Jacob. "Georgie si addormenterà tra poco. Quando vai a letto anche tu, metti il baby phone nel corridoio. Lo prendo io quando torno". Avevano deciso che sarebbe stato più comodo per tutti se Jacob fosse rimasto a dormire lì da loro, nella stanza degli ospiti. "Con chi esci, adesso?" "Con un segugio". "Ah, ecco, uno di quelli là. Come sta andando?" "Abbiamo tre sospetti. Uno parla per enigmi ed è avvelenato con la vita, una è una donna arrabbiata e molto padrona di sé, uno è carino e gentile, e deve per forza essere lui". Jacob rise. "Come sta la tua rockstar?" Sarah si bloccò. "Chi? John Redford?" chiese in tono vago. "Sto lavorando come una matta su tutto il materiale finanziario. Dio solo sa quando riuscirò a finire". Guardò l'orologio. "Oops, Jacob, scusami ma devo proprio scappare". Baciò dolcemente Georgie e lo porse al prozio. Corse di sopra, aprì la cassaforte e tirò fuori una larga busta di plastica rigonfia di banconote. Estrasse 1500 sterline, arrotolò il denaro in due salsicciotti, li fissò con un elastico e li pigiò nelle calze. Prese un fascicolo dalla valigetta, lo infilò in una busta di plastica, indossò un giubbotto di jeans, scarpe da tennis e uscì. Erano le nove e mezza: le strade estive erano affollate di gente che beveva e cenava nei caffè all'aperto in King's Road. Sarah prese un taxi nella Camden, che era ancora più congestionata di King's Road, ma di una folla più povera e dimessa. Fu felice di essersi vestita in modo semplice. Si diresse verso il Rat and Parrot e attraversò una folla di bevitori: erano più tranquilli della brigata della sera prima nella City. Andavano lì per rilassarsi, non per convincere se stessi e chiunque fosse a portata d'orecchio che si stavano divertendo in maniera esagerata. Freddie era già seduto al suo tavolo preferito, all'angolo, con una pinta di birra. Anche lui era vestito in modo sportivo. Sarah andò a ordinare un Virgin Mary, poi si unì all'amico. Lui le sorrise. "Ciao, bellezza. Che bello vederti dopo tutto questo tempo". Anche lei sorrise. "È bello anche per me, Freddie". "Cos'hai combinato? Non ti vedo da un'eternità". "Ma, un sacco di cose..." rispose lei. "Sei proprio in forma, qualunque cosa tu abbia fatto". "Grazie. Sei un gentiluomo". Il fascinoso. Era proprio carino, con quella voce affettata e vellutata, i capelli lisci ben curati, tutti scuri, pettinati al-
l'indietro. Perfino i suoi jeans sembravano sempre nuovi. "Mi dispiace di averti trascinato qui" aggiunse lei. "Se qualcuno mi deve trascinare da qualche parte, sono felice che sia tu. Tra l'altro, non stavo facendo niente di nuovo, stasera, avrei potuto tranquillamente mettere per iscritto quello che sarebbe successo... Non ho perso niente, credimi". "Questo mette a posto la mia coscienza". "Dimmi cosa posso fare per te". Sarah prese la pratica dalla borsa di plastica. "Tre nomi. Lavorano tutti alla Goldstein. Questi sono dati che arrivano dalle loro cartelle riservate. Voglio che ci lavori su appena possibile. Carte di credito, banca, tabulati telefonici". "Ti costerà parecchio, se lo vuoi per ieri..." "Lo voglio per ieri l'altro". "E quando mai non è così?" "Mai". Sarah si chinò ed estrasse i salsicciotti di denaro dalle calze. Li allungò a Freddie sotto il tavolo. "Sono millecinquecento. Fammi sapere se ti bastano". "Ok. Ti telefono domani, tesoro. Contaci". "Grazie, Freddie". Sarah bevve il succo di pomodoro e uscì in strada. Freddie Skelton, senior partner della Spinnacres, lo studio legale più importante della City, la guardò andarsene con un sorriso. Capitolo 17 Sarah arrivò in ufficio alle nove e mezzo. Stava per divorare la seconda colazione della giornata quando la segretaria di Savage bussò alla porta. "Federai Express per te". "Grazie, Evangeline". Sarah tagliò il pacchetto. Conteneva informazioni finanziarie su John Redford mischiate a tonnellate di paroloni. Sarah si buttò direttamente sui numeri. Redford aveva inciso ventidue album e più di cinquecento canzoni. L'album che aveva venduto di più era l'ultimo, Fire Walk. Ogni album vendeva più del precedente. Il suo primo album aveva venduto un milione e centonovantamila copie, l'ultimo cinque milioni. In tutto, aveva venduto centonove milioni di copie. I suoi dieci tour mondiali avevano registrato il tutto esaurito, con un guadagno lordo di centoventi milioni di dollari. Il fattu-
rato totale del merchandising ammontava a ottanta milioni di dollari. Ogni anno guadagnava più di un milione di dollari in diritti d'autore, per la trasmissione delle sue canzoni alla radio. Negli ultimi tre anni, aveva guadagnato un totale di otto milioni di dollari solo concedendo l'autorizzazione per usare le sue canzoni per annunci pubblicitari alla televisione. Il suo singolo Something Wild era stato concesso alla Ford per essere utilizzato per novanta giorni in pubblicità televisive, alla modica cifra di cinque milioni di dollari. "Cristo santo!" commentò Sarah fra sé. I numeri erano a dir poco fenomenali. Era un profeta dei giorni nostri, che cantava per milioni di persone che ascoltavano le sue parole e fuggivano dai loro mondi attraverso la sua splendida voce. Era lo stesso uomo che aveva suonato la chitarra e cantato per lei fra le montagne, oltre, naturalmente, ad averle donato un figlio del quale non conosceva nemmeno l'esistenza. Sarah si alzò in piedi di scatto, improvvisamente stordita. Girò le spalle alla scrivania e guardò il profilo della City fuori dalla finestra. La pioggerellina del primo autunno scivolava orizzontale contro i vetri con una strana violenza. Si spostò i capelli dal viso. Non si poteva nascondere dietro ai numeri. Era impossibile, per lei, gestire questo affare come fosse uno dei soliti incarichi impersonali. Per quanto ci provasse, Redford continuava a intrufolarsi, suo figlio continuava a intrufolarsi. Ogni cosa si mischiò, annebbiandole la vista: l'amore, i segreti, il desiderio, il rimpianto. Sperare di mantenersi obiettiva era un'utopia. Se fosse dipeso da lei, si sarebbe licenziata immediatamente. Savage l'avrebbe fatto subito, se avesse sospettato la verità. Cosa avrebbe fatto la Sarah vecchia maniera? Fai finta di essere lei per due settimane, tentò di autoconvincersi in silenzio. Tornò a sedersi, cercando di rituffarsi nelle cifre, ma fu assalita ancora dai conflitti e dalla confusione. Le sembrava di essere un voyeur, che ficcava il naso nella vita finanziaria del padre di suo figlio. L'introito effettivo di Redford era molto difficile da stabilire. A ogni passaggio sembrava pagare delle trattenute a manager, agenti, promotori, commercialisti, avvocati, alla casa discografica. Era al culmine di un'infinita catena alimentare, e sostentava una quantità impressionante di persone. Tolte tutte le parcelle e deduzioni, il suo reddito lordo era in ragione di dodici milioni di dollari all'anno. Cristo, questo affare sarebbe potuto diventare una bomba nelle mani di
un altro tipo di donna, che magari avesse preteso il mantenimento del bambino. Una combinazione di orgoglio, possessività e la sua abituale discrezione facevano sì che Sarah non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Lei poteva e voleva mantenere Georgie da sola. Non aveva bisogno dei milioni di Redford, sparsi davanti ai suoi occhi. Nonostante tutto, sentì un colpo improvviso allo stomaco quando si rese conto delle implicazioni relative alle potenzialità economiche di Redford. Qualche milione da lui, e non avrebbe mai più dovuto lavorare. Qual era la tariffa attuale? Quanto sembrava avesse pagato Mick Jagger a quella donna brasiliana, la madre del suo presunto figlio naturale? Dieci milioni di dollari, le sembrava di aver letto da qualche parte. Si fermò un attimo, gustando la tentazione di fare un colpaccio, per poi rimproverarsi e scacciare l'idea. Lavorò ancora un po' prima di riporre gli incartamenti nella scrivania e chiuderla a chiave, poi andò in bagno, al distributore dell'acqua. Lasciò la falsa pratica Gravadlax sulla scrivania nascondendola appena, con un capello appoggiato sopra per vedere se qualcuno la toccava. Quando tornò in ufficio, il capello era ancora lì e le carte erano intatte. Dopo tre ore i numeri si agitavano come serpenti davanti ai suoi occhi stanchi, ma cercò ugualmente di metterli in ordine. Fece una breve pausa da Birley per un tramezzino, poi aprì il portatile e iniziò a costruire un'idea della Redford Inc., storia passata e futuro. Giocare coi numeri in quel modo le dava una grande carica. Costruire strutture finanziarie voleva dire praticare l'arte del possibile, facendo previsioni con un computer e l'intelligenza e, come i migliori chiromanti, con l'aggiunta di una straordinaria abilità di viaggiare nel tempo, per vedere e sapere cosa era possibile e cosa non lo era. Tutti i migliori cervelli finanziari sapevano farlo, Nicola Horlick, Warren Buffet, George Soros, tutti straordinari manager finanziari. Per la maggior parte della gente, approntare valutazioni di Borsa era solo una passeggiata casuale che anche una scimmia sarebbe stata in grado di fare. L'eccitazione di Sarah cresceva mentre riempiva pagine e pagine di numeri e calcoli. I risultati dell'opera di Redford erano più o meno a prova di recessione. Quando la crisi si era fatta sentire, e la gente aveva cercato di limitare le spese futili, nessuno aveva smesso di comprare i suoi dischi. Sembrava che tutti considerassero i sogni e i dispiaceri di John Redford beni di prima necessità, e non superflui. Suonò il telefono. "Sarah, Evangeline. Fai un salto qui da Savage, per favore?"
Per un momento si sentì mancare il fiato, aggredita dalla paura irrazionale che Savage fosse venuto a sapere tutto. Si chiese se questa paura che la scoprissero, che scoprissero la vera Sarah, le sarebbe mai passata. Salì le scale che portavano al sesto piano, i tacchi che picchiettavano sui gradini di marmo. Trovò Zamaroh e Breden che l'aspettavano nell'ufficio di Savage. Breden stava spiegando agli altri due il controllo degli uffici. "Tutti gli uffici che abbiamo controllato sono puliti" rivelò. "Il tuo, James, quello di Zaha, quello temporaneo di Sarah. Quello che io vorrei fare adesso è mettere in discussione il metodo del controllo mensile. È meglio, per ora, farlo con una cadenza irregolare, casualmente". "Mi sta bene" disse Savage. "Sei sorpreso di non aver trovato cimici negli uffici?" "Non esattamente" replicò Breden. "Credo che abbiamo a che fare con una persona sofisticata, qualcuno che sa che stiamo passando a pulire gli uffici. È un modo così ovvio di ottenere informazioni. Troppo ovvio". "Non è neanche tanto divertente" osservò Sarah. "Divertente?" chiese Breden. "Sì, divertente. La nostra talpa sta facendo tutto questo casino principalmente perché si diverte. Ci sto a scommettere una cassa di buon vino rosso, una scatola di Avana, qualunque sia il tuo vizio personale, che questa è la sua motivazione. Le cimici sono un metodo troppo poco coinvolgente. Non sono né un vero furto, né un vero tradimento". "E cosa cavolo ti rende così dannatamente sicura, se posso chiederlo?" la sfidò Zamaroh. "Il suo profilo" rispose Sarah. "E il mio istinto". "Non hai niente di concreto?" si informò Savage. "Non ancora". "Non hai fatto niente?" "Non direi proprio. Solo che non ho niente da riferire". "E che diavolo hai fatto finora?" chiese l'altra donna. "Ti ho fatto risparmiare tempo. Potrei coinvolgerti in tutto quello che faccio, ma sprecherei il mio tempo e il tuo. So che per te è fondamentale esibirti in sala contrattazioni, mi perdonerai se non faccio altrettanto..." "Dicci di Redford" disse Savage, cercando, senza successo, di nascondere un ghigno di divertimento. "QRS" disse Sarah. "Prego?"
"QRS" ripeté lei lentamente. "'Quotazione delle rockstar'. Le obbligazioni sono conosciute come obbligazioni Bowie, la prima rockstar a essere stata finanziata in questo modo da quel geniaccio americano di nome David Pullman. La tipologia normale dell'emissione va da dieci a quindici anni, su una valutazione di una A, ma pagando da un uno a un due per cento in più delle obbligazioni societarie a una A a esse paragonabili. Spesso c'è anche una forma di aumento del credito, una garanzia del proprietario della casa discografica, ma, se la qualità degli introiti della rockstar è già elevata, non c'è bisogno di ulteriori garanzie. Bowie ha venduto circa un milione di cd all'anno, ogni anno. L'operazione effettuata con lui, che ha rastrellato cinquantacinque milioni di dollari, è stata avallata dalle royalty sui primi venticinque album. Quello che ha dato a Bowie il maggior vantaggio è stato il fatto che gli appartenevano tutti i diritti della sua musica, di modo che riceveva fiumi di denaro da tutti e tre i fronti. Spesso gli artisti possiedono solo i diritti di registrazione. Credo che John Redford detenga torti e tre questi diritti, e questo lo rende un ottimo candidato. Ha pubblicato ventidue album, e ha venduto mediamente più di quattro milioni di cd all'anno, così abbiamo un altro punto a suo favore. C'è un mare di lavoro tecnico da fare, adesso, come provare che lui possieda effettivamente il copyright sul suo lavoro, ma presumo che possiamo riuscirci, anche perché squadre di avvocati faranno la fila per seguire questo affare, vista la qualità dei guadagni, e del suo impegno nello scrivere i suoi prodotti trattenendosi il maggior numero di diritti possibile". "Tu quanto lo valuteresti?" chiese Savage. "Una A". "Utili?" latrò Zamaroh. "Più o meno quattrocentocinquanta punti supplementari alla valutazione, per dare una rendita corrente di lungo periodo di circa il nove per cento. Su questa valutazione, dato l'apparente introito annuale di Redford di circa dodici milioni di dollari, può essere in grado di rastrellarsi un centinaio di milioni o giù di lì, con una percentuale di copertura di uno punto tre tre. Stretto, ma fattibile". Savage, Zamaroh e Breden erano piombati in un silenzio di tomba. Persino Sarah era rimasta impressionata da se stessa. Forse la sua mente non era poi così atrofizzata, pensò. "Commissioni?" chiese Zamaroh,. riprendendosi. Sarah uscì dalle sue fantasticherie. "Potremmo probabilmente considerare una commissione del cinque per cento circa, cioè cinque bei milioni,
buttarci in una nuova area di mercato, gestire il più grosso affare del momento in campo musicale ed emergere come leader del mercato". "Mi suona deliziosamente bene" disse Savage, sorridendo a Sarah. "Mi sembri proprio ben preparata sul signor Redford". "È un buon affare" rispose Sarah, temendo di arrossire. "Perché vuole farlo?" chiese Zamaroh salvandola senza volere. "Vorrei proprio saperlo. Qual è la logica in tutto ciò? Che valore possiamo dare noi?" Sarah rise. "E quando mai ti sei interessata alla logica delle cose? Dov'è andata a finire la tua teoria del 'prendi i soldi e scappa'?" Zamaroh guardò Sarah come se si fosse appena sollevata la gonna. "Ah, capisco" disse Sarah. "Un nuovo spirito di correttezza politica. Guarda che sei tra amici, qui, Zaha, o piuttosto compagni di cospirazione. Non hai bisogno di fare finta di essere diversa da come sei". "Risparmiami la predica e rispondi alla mia domanda, se sei capace". Sarah sorrise. "Una QRS significa essenzialmente che la rock-star prende in prestito del denaro, pagandolo in seguito con i proventi delle royalty future. È infinitamente meglio che farsi anticipare le royalty dalla casa discografica, perché, per prima cosa, la casa discografica le sconterebbe a un interesse più elevato delle banche investitrici che fanno la QRS, così la rockstar ottiene più denaro in anticipo se fa la QRS, in più riceve una royalty più alta dalla casa discografica che non deve pagarlo in anticipo. Secondo, mentre un anticipo della casa discografica viene considerato dal fisco come guadagno e tassato di conseguenza, il denaro che gli viene anticipato dalla QRS è considerato un prestito, cioè un mutuo. L'interesse sul prestito è deducibile, così la rockstar, facendo questa operazione, riduce il suo carico fiscale. Terzo, una volta che le obbligazioni arrivano alla scadenza, la rockstar trattiene la proprietà del catalogo di canzoni che produceva le royalty. Se le royalty sono maggiori di quello che ci si aspettava, le obbligazioni verranno pagate più in fretta, così la rockstar si tratterrà la differenza in rialzo". Sarah terminò la sua performance, grata alla serie di articoli ben scritti che aveva letto il giorno prima, sottolineando i pro e i contro della QRS. "Chi sono gli acquirenti?" chiese Zamaroh. "Normalmente delle assicurazioni. La Pru ha acquistato tutte le obbligazioni Bowie, l'intera emissione. Si può capire che attrattiva ha tutto questo per uno come lui; vuol dire che a studiarsi attentamente una mole incredibile di informazioni riservate su di lui è un solo un investitore istituzionale,
non una cordata di venti acquirenti. Penso che dovremmo anche noi prendere in considerazione seriamente questa possibilità". "Cosa, berci cento milioni di dollari in obbligazioni di Redford?" chiese Zamaroh. "Se vogliamo aggiudicarci l'accordo, forse dovremmo farlo davvero" replicò Sarah, guardando Savage per studiare le sue reazioni. "È un accidente di responsabilità da assumersi" rispose Savage. "Ma se i numeri ci sono amici e se dobbiamo comprare l'affare per aggiudicarcelo, lo faremo". "La posta mi sembra un po' troppo alta" disse Zamaroh. "Se ci sbagliamo, faremo un buco da cento milioni". Guardò lentamente Sarah. "Sarebbe un errore letale". Lei è Salomè, pensò Sarah guardandola, e, per qualche inspiegabile ragione, vuole la mia testa. Capitolo 18 Jacob era al Golders Green per una nottata di poker con i suoi compari, Alex nello studio di Sarah con le mappe e Georgie in grembo a sua madre, giocando con i suoi riccioli, quando suonarono alla porta. Sarah si alzò di scatto e Georgie fece un urletto di sorpresa. "Va tutto bene, piccolo". Sarah lo depose su una coperta sul pavimento, dove lui esplose in una crisi di rabbia e abbandono. Sarah chiuse la porta del salotto dietro di sé e andò alla porta principale, chiedendosi chi potesse essere, sperando che Jezza non avesse seguito le sue tracce. Sapeva che viveva in Carlyle Square. Non ci voleva molto per restringere il cerchio e arrivare alla casa giusta. Guardò dallo spioncino e si rilassò quando vide un corriere in motocicletta. Apri la porta. "Jensen?" chiese lui, la voce alterata dal casco. "Sono io" rispose Sarah, guardando la piazza vuota. "Firmi qui, per favore". Lei firmò, prese il pacchetto e si chiuse la porta alle spalle, seccata dalla sua stessa eccitabilità. Tra le sue braccia, le lacrime dì Georgie si arrestarono. Apri la busta spessa e vide gli estratti dei conti correnti e delle carte di credito e tabulati telefonici. Freddie si era mosso alla svelta, come promesso. Non c'erano messaggi di riconoscimento da parte del senior partner di Spinnacres. Freddie Skelton possedeva uno dei migliori libri neri di fur-
fanti, personaggi dubbi e corruttibili; meglio ancora, dopo la legge sulla privacy, quando gli investigatori e gli avvocati diventavano nervosetti all'idea di ottenere questo genere di informazioni, aveva un grossista che poteva fare il lavoro sporco al posto suo. Chiunque fosse questo uomo del mistero, aveva fatto un ottimo lavoro, e la firma di Freddie Skelton era una nota scritta a macchina che diceva: mi devi altre cinquecento sterline. Sarah si sedette con un Georgie insonnolito sulla sedia a dondolo e iniziò con PJ. Petra aveva una Visa Oro che succhiava il denaro del suo conto corrente. Negli ultimi quattro mesi, aveva oltrepassato il limite che cresceva di mese in mese, arrivando a essere sotto di dodicimila sterline. La spesa mensile della sua carta era stata mediamente di quattromila per tutto l'anno precedente. Sarah scorse le spese, facendosi un'immagine della donna. Faceva acquisti da Harvey Nichols almeno una volta al mese, a volte una volta alla settimana, poi beveva, spendendo parecchio, al bar del quinto piano di Harvey Nick, un posto per rimorchiare, se ce ne sono, pensò Sarah. PJ mangiava da Vong, Momo e Alberto, un locale italiano a giudicare dal nome, in South Kensington, vicino a dove viveva lei, a Little Boltons. Probabilmente erano pranzi di single, dove lei si pagava la sua parte, forse riunioni dove tutte si ubriacavano. La cosa più bizzarra, in questo vivere al di sopra delle sue possibilità, era che prelevava millecinquecento sterline al mese in contanti, sempre all'inizio del mese, e sempre dallo stesso Bancomat in Old Brompton Road. Churchward normalmente spendeva meno di millecinquecento sterline al mese, suddivise tra Visa e American Express, apparentemente senza una logica nella distribuzione tra le due carte. Era abbonato a Country Life, The Week, allo Spectator, all'Economist, al Traveller della Condé Nast, iscritto al National Trust, al fondo per i marinai in pensione e al Red Hot Dutch. Coscienza e desideri, aspirazioni, sogni di beatitudine bucolica, intellettuale, viaggiatore in poltrona, viaggiatore effettivo. L'unica nota stonata in questa sua esistenza conservatrice erano le vacanze, assolutamente esagerate; novemila per noleggiare uno yacht da venti metri per una settimana. Seimila per andare a sciare due settimane in Canada, ottomila per fare immersioni due settimane a Tortola; tutte vacanze d'azione, nessun weekend romantico a Parigi, pochissime cene in ristoranti esclusivi. Churchward, con le sue contraddizioni, era più interessante sulla carta che di persona. Sarah passò alle carte di credito di Jezza. Ottomila sterline al mese suddivise tra Visa e American Express. Scarpe John Lobb, duemila sterline,
abiti Oswald Boateng, tremila, lunghi weekend a Venezia e al Cairo, settemila, cene da Ivy, trecento sterline, bevande al Met Bar, cinquecento sterline, l'uomo era davvero un amante dei divertimenti. Elemento stravagante: la sera cene regolari al ristorante indiano sulla Brompton Road. Sarah sobbalzò al suono del telefono. Fece cadere le carte e, imprecando, strinse Georgie con un braccio e prese il telefono con l'altro. "Pronto?" "Buonasera Sarah, sono Dick Breden". Sarah guardò il telefono con orrore, pregando silenziosamente che Georgie se ne stesse tranquillo. Se l'avesse appoggiato a terra per andare in un'altra stanza, avrebbe urlato fino a frantumare i vetri delle finestre. Se l'avesse tenuto in braccio avrebbe potuto parlottare, ridacchiare o fare uno dei suoi potenti ruggiti di gioia. Attaccò il viva voce e accese la televisione per distrarlo. "Ciao, Dick, come ti va?" "Ho delle informazioni sui nostri. Mi chiedevo se potevo venire lì a discuterle con te". "Adesso?" "È un brutto momento?" "Non possiamo aspettare domani?" Georgie gorgogliò di gioia alla vista del suo annuncio pubblicitario preferito. Sarah tossì in modo esagerato, cercando di coprire il rumore. "Stai bene?" chiese Breden. "Mi sembra un po' strano, lì da te. Ho sentito una cosa buffa, come un gor..." "Tutto a posto, grazie. Dove vuoi che ci troviamo? In ufficio?" "Sto cercando di stare lontano dall'ufficio per qualche giorno. Non possiamo fare a casa? Posso venire lì". "Troviamoci da Oriel. Lo conosci, no, in Sloane Square?" "Prima colazione?" "A che ora?" "Sette e mezza". Proprio no, pensò Sarah. A quell'ora starò allattando. "Sono impegnata fino alle nove e mezza". Breden, per fortuna, ebbe il tatto di non chiedere spiegazioni. "Ci vediamo là". Capitolo 19 Sarah passò una nottataccia. Georgie non si era svegliato una volta, co-
me faceva di solito, ma tre. Arrivò da Oriel con dodici minuti di ritardo, sentendosi stanca e smarrita. In compenso, si era messa uno dei suoi vestiti nuovi, completando il tutto con alti sabot azzurri, pieni di lustrini, che, sperava, avrebbero distolto l'attenzione dalla sua faccia. "Ciao, Dick. Scusa il ritardo". Lui annuì con la solita grazia. "Vuoi un caffè?" "Una camomilla, per favore, e quattro fette di pane con il miele". Quando arrivò il cibo, Sarah se lo divorò in un attimo, quasi senza prender fiato. "Non hai cenato?" chiese Breden. "Hm?" chiese Sarah, togliendosi le briciole dal viso con un tovagliolo. "No, sono solo affamata". Ordinò altra camomilla, aspettò che gliela portassero, prese la borsa e tirò fuori le pratiche sui sospetti. Breden scorse le pagine e guardò su, gli occhi sul viso di Sarah. "Hai lavorato parecchio". "Proprio così". "Qualche idea?" Sarah bevve la camomilla e si accomodò sulla sedia. "Jeremy St James, alias Jezza. Gusti costosi, amante della bella vita, un'immagine da mantenere, ha sempre volato alto, ma ora sta cadendo a pezzi. Capisce che tutto sta per finire ed è disperato. Possibili problemi con l'alcool, mediamente misogino, omosessuale latente, negandolo anche a se stesso, e questo lo rende particolarmente vulnerabile. Pochi legami familiari, rabbia repressa, passa da questa a rimorso e senso di colpa". Disse a Breden del loro appuntamento al bar, a bere champagne. "Come mi aspettavo, ieri mattina mi ha evitato, poi ha trovato il coraggio di piombare nel mio ufficio e sminuire l'accaduto, aspettandosi che io facessi spallucce e gli concedessi l'assoluzione. Poi mi ha chiesto di uscire con lui. Non è il tipo di uomo che incassa tranquillamente un rifiuto, in questo caso sa diventare davvero sgradevole. Quello che volevo, in realtà, era mandarlo bellamente al diavolo, ma ho pensato che mi potrebbe essere utile, così l'ho depistato, dicendogli che mi farò sentire io: un semplice no e me ne sarei fatto un nemico giurato". Breden annuì, guardandola da vicino. Sarah continuò. "Problemi nella vita privata, impegni... Gli piace vivere come una mosca, bzz di qui, bzz di là, senza mai fermarsi. Come la maggior parte dei trader, ha una bassissima soglia di sopportazione della noia". "Ce lo vedi?"
"Come talpa? Sì, rientra bene nel profilo. Ha bisogno di soldi, teme di essere licenziato, per cui vendere le informazioni, ferendo a morte la Goldstein, può essere una vendetta anticipata, cosa che lo potrebbe soddisfare. Passare le informazioni alla concorrenza è una carognata, fa sentire la talpa molto furba e importante. Jezza è grande in questo, un vero arrampicatore sociale. Gli piace pensare di essere il numero uno della City". Breden fece un risolino soffocato. "Mi immagino che la Regina Zana avrebbe da dire la sua, su questo". "Dici? Ma lei si sente un'imperatrice, per cui a Jezza è permesso di fingersi un principino". "Come valuti gli altri?" "Churchward mi pare troppo bravo per essere vero: noioso, concreto, tiene molto a se stesso. Prudente dal punto di vista finanziario, vive secondo i suoi mezzi; l'unica stramberia sono le vacanze. Consumatore di materiale pornografico. Tra l'altro, sono convinta abbia un piano ben preciso. Fa bene il suo lavoro, tiene la testa bassa, ma tutti hanno sogni di gloria e sicuramente lui non ne è immune. Può darsi che voglia iniziare un'attività in proprio, lavorando duro per mettere insieme il capitale iniziale. Forse vuole ritirarsi tra pochi anni e fare il giro del mondo in barca a vela. Viene dal Jersey, ha messo 'vela' come hobby sul suo curriculum. Dubito, però, che vendere informazioni riservate della Goldstein lo farebbe guadagnare abbastanza da compensare il rischio. Per quello che penso io, non ha altri motivi. Non c'è vendetta, senso di ingiustizia, sebbene, pensandoci meglio, forse ritiene di essere sottopagato, forse soffre del fatto che essere un bravo ragazzo lo frega; se fosse stronzo e arrogante andrebbe più avanti, il che è senz'altro vero. È il classico uomo incolore. Sarà sul punto di ribellarsi? Chi lo sa". "E PJ?" chiese Breden, chiamando la cameriera. "Un altro caffè scuro, per cortesia. Vuoi qualcos'altro?" "Sì, Evian, per favore. Senza ghiaccio. Lei è acida, incazzata, a corto di tempo e di denaro. Spende troppo, è in rosso, usa un sacco di contante. Preleva millecinquecento sterline al mese, può essere interessante scoprirne la ragione, potrebbe essere droga. Potrebbe avere un motivo e ho la sensazione che sia una bella carogna. Potrebbe divertirsi a tradire la fiducia dell'azienda. Il problema è che, analizzando tutto l'ambiente borsistico, sarei in grado di tirarti fuori almeno cento persone motivate e con il giusto profilo. Le sale contrattazioni attirano persone egoiste, avare, rissose e che amano mettersi in competizione. Se non sei così quando entri, sarai così
quando te ne vai. E spesso nutrono anche sentimenti di ingiustizia. Sanno, o pensano di sapere quanto guadagnano gli altri e, ovviamente, nessuno vuole riconoscere che quelli che guadagnano più degli altri se lo meritano. Paragonandosi agli altri, tutti pensano di essere sottopagati. È come in prigione, tutti questi detenuti obbligati a stare insieme ammucchiati per dodici o quattordici ore, col testosterone alle stelle, donne incluse, tagliati fuori dal mondo esterno. È come una pentola a pressione, e prima o poi qualcuno è destinato a scoppiare. Trovare la talpa sarà come cercare il proverbiale ago nel pagliaio". Sospirò e si strofinò gli occhi. "Vuoi che qualcuno dei miei controlli le registrazioni delle telefonate?" chiese Breden. Sarah colse l'occasione al volo. Studiare attentamente le registrazioni, fare telefonate, identificare le persone che il trio di sospettati avevano chiamato sarebbe stata una perdita infinita di tempo, un lavoro terribilmente noioso, ma molto utile. "Sì, ti prego. Te ne sarei grata". Breden sorrise. "Dammi qui. Ci sono speranze di entrare in possesso di copie degli estratti conto della banca e delle carte di credito?" "Ho delle copie in più che ho ricevuto stamattina. Prendile". Breden le guardò velocemente e le mise nella valigetta. "Grazie. Come le hai avute?" chiese casualmente. Sarah sorrise. "Non ti aspetterai che ti risponda, no?" La nuova e rigorosa legge sulla privacy rendeva tutti molto cauti sul rivelare le fonti di informazione. "No, ma mi potresti dare un indizio. Grossista o dettagliante?" "Una persona con un libro nero straordinariamente ben fornito". "Un grossista. Quanto lo paghi?" "Lui, nulla. Per lui sarebbero noccioline". "E allora?" "Gli ho fatto risparmiare un sacco di soldi nella causa di divorzio". "Ah". "Ah, davvero. Allora cosa dici? Comunque, potresti toglierti la giacca, direi. Non c'è bisogno dì essere formali alle dieci di mattina, qui a Chelsea". "Davvero?" Breden scivolò agile fuori dalla giacca. Indossava una Tshirt nera a maniche lunghe che aderiva perfettamente al corpo muscoloso. Gli occhi di Sarah indugiarono un momento e, sorpresa, sollevata e allo
stesso tempo orripilata, avvertì una scossa di desiderio sessuale. "Per prima cosa, la sala contrattazioni è pulita. Abbiamo controllato attentamente. Nessuna cimice da nessuna parte, neanche nell'ufficio di Zamaroh". "Hm. Per cui dev'essere qualcuno che entra liberamente". "Sembra di sì". "Stiamo parlando di sole cinquecento persone" disse Sarah. "Sì, ma stiamo controllando. L'ufficio di Zamaroh è collegato con registrazioni visive e sonore, come il tuo". "Oh, che meraviglia. Non potrò neanche mettermi le dita nel naso in pace. Compiango quel poveraccio che dovrà visionare le cassette". "Direi che ci sarà da divertirsi, invece". Sarah rise. "Niente sui nostri tre?" "Un po' di background. Jezza vive in una casa orrenda nella parte brutta di Fullham Road. Ama l'antiquariato e gli antiquari. Ha avuto un incontro notturno, la notte scorsa, una giovane brunetta, carina, lavora per Sotheby, sembra una brava ragazza. Ah. Guida un'Aston Martin". Un'espressione di disagio gli attraversò il volto. "Ahi, ahi... Un modello più recente della tua? Più grossa, più veloce?" chiese Sarah. Breden la guardò in un modo che le fece capire che l'avrebbe volentieri sculacciata. Sarah ridacchiò fra sé. "Così il tipo ha una bella macchina, e cos'altro?" Breden le sorrise acido. "PJ non è più fidanzata da circa sette settimane, e ci sta ancora malissimo. Giovanni di Castiglio. Aristocratico minore, ricco sfondato. Sono stati insieme tre anni, probabilmente lei puntava al matrimonio e ora le sembra di aver buttato via un investimento. Ha trentacinque anni, zitella, un po' inacidita". "Ha bisogno di una nuova strategia" scherzò Sarah. Metà di lei era spaventata dal suo modo di valutare la donna, l'altra metà simpatizzava con un investigatore politicamente molto scorretto, ma razionale e calcolatore, senza rimorsi. "Come vive?" "Casa a pianterreno nel Little Boltons, si affaccia su un giardino con belle piante". "Buffo, non avrei mai creduto che avesse il pollice verde". "Neanch'io. Guida una BMW blu decappottabile. Ti dirò di più domani. Stanotte faccio io il turno di notte per controllarla". "Ecco la ragione del caffè forte. Devi tirarti su. Churchward?"
"Churchward vive in un appartamento signorile dalle parti di Kensington Church Street. Guida una macchina aziendale, a differenza degli altri due. Una Nissan Micra". "Una Nissan Micra? Ma cos'ha 'sto ragazzo? Credo proprio che stia risparmiando per fare qualcosa di grosso. Nessun uomo guiderebbe una Nissan Micra a meno che non ne fosse obbligato. La maggior parte degli uomini che conosco guidano auto grosse, potenti, tecnologicamente avanzate, che..." Breden la interruppe. "Per cambiare discorso, il ragazzo ha passato la serata leggendo e guardando la tv. Sembra davvero troppo bravo per essere vero". "Oddio, siamo rovinati" disse Sarah. Breden la guardò con interesse. "Ti disturba quello che stiamo facendo?" "Certo che mi disturba. Scavare nella vita privata della gente per trovare le loro debolezze. Se sono innocenti mi disturba, e anche molto. Se sono colpevoli, tutto va bene. D'altronde, come sai, in qualche modo bisogna pagare l'affitto, e una parte di questo lavoro mi appassiona. Sono affascinata dalle vite nascoste delle persone. A te disturba?" "È lavoro. Non mi lascio coinvolgere". "Ne sono sicura. Quando ti fai coinvolgere, Dick Breden? Che cosa ti turba? Perché lo fai? Non è solo per i soldi, vero?" Breden si limitò a sorridere silenziosamente. Capitolo 20 Tornata a casa, Sarah passò quasi tutta la giornata a lavorare sulla proposta di quotazione. L'incontro con Redford era fissato per il giorno dopo ed era ancora lontana dalla fine. Lavorare da casa era infinitamente meglio che lanciarsi nella City. Poteva vedere Georgie ogni ora, ma solo cinque minuti e anche quella era una tortura. Si interruppe per allattarlo per il pasto della notte e per mangiare lei stessa, poi si richiuse nel suo ufficio. Lasciò Georgie in compagnia di Alex e Jacob, che avevano noleggiato una cassetta in bianco e nero sulle prime scalate dell'Everest. Il telefono suonò alle otto. "Sarah. Sono Zaha". "Ciao, Zaha". "Perché non sei venuta, oggi?" "Mi devi dire qualcosa di importante?" chiese Sarah. "Se sì, arriva al
dunque. Se no, ti saluto". "Hai fatto la proposta?" "Ci sto lavorando su in questo momento". "Non l'hai finita?" "Sarà pronta quando dovrà esserlo". "Ne ho bisogno adesso. Devo controllarla". "Non ci sarà il tempo di controllarla, Zaha. A meno che tu non abbia voglia di passare a prenderla qui, nel bel mezzo della notte, il che sarebbe una bella perdita di tempo, dato che io propongo di non cambiare proprio niente". Sarah riusciva quasi a sentire Zaha che lanciava silenziose imprecazioni in farsi. "Ho capito bene? No, dico, non ci posso credere. Non posso credere..." "Buona notte, Zaha. Che tu ci creda o no, non me ne può fregare di meno, tesoro". Sarah riagganciò con un sentimento di euforia. Dio, avere l'ultima parola era delizioso. L'euforia si esaurì quando si ributtò nel lavoro, determinata a non dare a Zamaroh neanche un appiglio per criticarla. Terminò alle tre del mattino e crollò sul letto esausta. Per telepatia o empatia, Georgie la lasciò dormire indisturbata fino alle sette. Alle otto Jacob lo portò via dalla stanza, e Sarah rimase sola con il pensiero dell'incombente incontro. Non poteva prendersi in giro. L'idea di incontrare ancora John Redford la eccitava e la disturbava. Cercò di convincersi che quel languore allo stomaco veniva dall'agitazione di dover presentare la proposta. Ma l'agitazione influiva forse per la decima parte. Rimase nuda di fronte all'armadio e tirò fuori il suo nuovo abito gessato grigio scuro e una maglia rosa chiaro. Dopo aver calzato un paio di morbidi mocassini di pelle neri, si spruzzò due generose dosi di Fracas dietro alle orecchie. Un paio di orecchini di diamanti a bottone e l'anello portafortuna col rubino di Jacob completarono l'opera. Gettò un'occhiata nello specchio, si truccò con lip gloss e mascara, si pettinò i capelli con le dita, si chiese cosa avrebbe pensato di lei John Redford, e si diede della scema per averlo pensato. Alex si era alzato e stava scendendo le scale mezzo addormentato quando lei uscì dalla sua stanza. Le diede un'occhiata di approvazione. "Sei proprio bella". Lei sorrise. "Grazie". "La grande riunione?" "Già".
"Buona fortuna, Sare". "Sì". Respirò a fondo. "Stai attenta" disse suo fratello, e lei sapeva che non stava parlando della presentazione. Arrivò alla riunione con cinque minuti di ritardo. Savage, Breden e Zamaroh stavano aspettandola nella sala riunioni. "Sono felice che tu ce l'abbia fatta" le disse Savage guardando i mocassini da uomo. "Sei in ritardo"' notò Zamaroh, acida e pungente come al solito. "Lo so. Stavo scopando col mio ragazzo e dopo mi c'è voluto un po' per rimettermi in ordine". Sarah lanciò un sorriso. "Ti ricordi com'è, no?" Savage e Breden risero sguaiatamente. Zamaroh fuori dalla banca si sarebbe unita allo scherzo, ma qui ogni frase era un colpo basso, e non voleva riconoscere la vittoria di Sarah. Risuonò un discreto colpo dì tosse. "Posso entrare?" John Redford era in piedi nel corridoio, di fianco alla segretaria di Savage, Evangeline. Sembrava stanco, ma in forma. Gli occhi di Sarah furono attirati dalle labbra sensuali, ora incurvate in un dolce sorriso divertito. Evangeline indietreggiò. Savage si alzò in piedi. "Signor Redford, sono felice di vederla". Redford gli strinse la mano. "John". "John" disse Savage come per abituarcisi. "Ti ricordi Zana Zamaroh, Dick Breden e Sarah Jensen?" Redford li salutò tutti con un sorriso educato. Lo sguardo che lanciò a Sarah suggeriva che non solo si ricordava molto bene di lei, ma che aveva sentito la sua battuta d'alta classe. Sarah sentì le guance imporporarsi. Cristo, che tempismo perfetto. Proprio una bella partenza, la garanzia di iniziare con il piede giusto. Giocherellò con i risvolti della giacca. "Bel vestito" disse Redford, con uno sguardo ironico. Sarah gli fece un sorrisetto idiota, timorosa di dare il via a un battibecco che sarebbe stato scrutinato minuziosamente più tardi da Savage, Zamaroh e Breden. Fingere di non conoscere quell'uomo era un'agonia. Poteva solo sperare che lui continuasse a fare finta di niente, ma la sua ironia suggeriva altrimenti. Oh, Gesù, se solo avesse potuto alzarsi in piedi e comunicare a tutti quanti che lei e Redford erano stati amanti per una notte meravigliosa e fatale.
"Sarah?" la voce di Savage la riportò alla dura realtà. Si impose di prestare attenzione. "Presenta la tua proposta al sign... a John". Sarah si passò le mani sulle cosce e si guardò intorno con aria professionale. "Certo. Vuoi che cominci adesso o aspettiamo il signor Cawdor?" "Non viene". "Cosa? Non sei rappresentato da nessuno?" chiese Sarah incredula. Redford scosse la testa. "No". "Ma, un avvocato almeno? Voglio dire, io veramente ti consiglierei..." "Sarah, non ti preoccupare. Sono un ragazzo cresciuto. Non credo che verrò adescato e imbrogliato da voi. Comunque, tutto il tuo materiale verrà consegnato ai miei avvocati. Ti fa sentire meglio?" I suoi occhi le sorridevano, la sua voce era languida. Splendido e indisponente in egual misura. Avvertiva che Savage, Breden e Zamaroh erano tutti concentrati sullo strano scambio di battute. Poteva solo sperare che considerassero il modo di fare strafottente di Redford come la noncuranza delle rockstar nei confronti delle leggi della vita sociale. Prese il documento su cui aveva faticosamente lavorato tutta la notte e lo fece scivolare verso Redford. Si chiese per un attimo cosa stesse facendo lui alle tre della mattina e fu colpita da una fitta di gelosia per il suo stile di vita, per il suo denaro, per la sua libertà, per tutte le amanti senza nome che stavano al suo posto. Cristo, donna, dacci un taglio. Lei non aveva un posto nella sua vita. "Bene" disse con fermezza, indicando il documento. "Quello che vedi qui è una sfilza di paroloni tecnici e di numeri. Per dirla in breve: dalle nostre valutazioni potresti sostenere un'emissione di circa cento milioni di dollari. È probabile che, sottoponendo i tuoi numeri a società come Moody's, Fitch o Duff and Phelps otterresti una sola A di rating. Questo significa che il prestito avrebbe un costo di circa quattro punti e mezzo sul tasso di riferimento, in tutto circa il nove e mezzo per cento. Il nostro ricarico è una commissione di circa il cinque per cento e..." "Cristo" la interruppe Redford "cosa diavolo fate per meritarvelo?" Sarah sorrise. "Per prima cosa, è un ricarico che il mercato è in grado di sopportare. Non ti sto imbrogliando. Le altre banche più o meno applicherebbero la stessa aliquota. Banche d'affari di seconda scelta potrebbero abbassare le loro commissioni, ma il tuo accordo potrebbe risentirne negativamente e, comunque, sono sicura che i tuoi consulenti non troverebbero positiva per la tua immagine un'associazione con banche minori. Adesso ti
spiego quello che faremo. Iniziamo con il darti una lettera di impegno firmata da entrambi. In essa, la Goldstein International si impegna, per prima cosa a sottoscrivere una parte ben specificata del tuo catalogo, cioè a emettere obbligazioni supportate dal flusso di proventi futuri di quella parte della tua produzione, poi otteniamo una valutazione, e, infine, facciamo l'emissione. La Goldstein manterrà l'opzione di acquistare tutte o una parte delle obbligazioni, a sua discrezione. "Quanto ci vorrà?" chiese Redford con un'occhiata di traverso. "Normalmente, circa centocinquanta giorni, sebbene il tempo possa variare enormemente a seconda della complessità dell'operazione in oggetto. In genere, ci vogliono trenta giorni per operare con la dovuta diligenza, verificare i tuoi flussi in entrata, riclassificandoli per estrarre le statistiche di nostro interesse e per convincerci che sono appropriate. Poi ci sono trenta giorni per dimensionare, valutare e strutturare l'accordo, diciamo una specie di ammucchiata di numeri. Poi, altri trenta giorni per scrivere il documento, questa è un'ammucchiata legale e descrittiva, e per scrivere il libro degli investitori, un documento di vendita che spiega come sono incredibilmente fortunati tutti quelli che riescono a mettere le mani su un'obbligazione Redford. Aggiungi altri trenta giorni per la chiusura, che è quando tutti diventano isterici e si urlano dietro e minacciano di piantare lì tutto. Poi normalmente dobbiamo considerare altri trenta giorni per le contingenze o quello che può andare storto. Nel frattempo, le agenzie di valutazione staranno lavorando sulla tua quotazione, gli avvocati staranno perfezionando la loro documentazione, e noi dovremo fare una ricerca approfondita sui diritti d'autore, per controllare che i dischi che hai registrato siano davvero tuoi, controlleremo su Lexus Nexus che tu non sia un criminale. Starà a noi fare una verifica fiscale e costruire uno scenario di mercato per i tuoi titoli, garantendo che, in caso di un tuo fallimento, il flusso di redditi relativi al tuo catalogo sarà in grado di onorare il prestito. Se sopravvivi a tutto ciò, lanciamo l'emissione facendo un gran casino e stimolando l'appetito istituzionale, così te ne puoi tornare a casa nel Wyoming più ricco di cento milioni di dollari, ovviamente al netto di tutte le spese". Redford sorrise, e Sarah gli lesse negli occhi che stava anche lui pensando alla loro tenda fra le montagne. "Davvero impressionante" disse lui, gli occhi fissi in quelli di Sarah. "Questa è la macchina della Goldstein" disse Zamaroh, come se fosse stata lei, e non Sarah, a presentare la proposta. "Ecco quello che la Gol-
dstein International può fare per te". Continuò con tono da venditrice, nel tentativo anche di ricordare a Redford, notò Sarah, che tutto questo riguardava il team Goldstein, non solo Sarah Jensen, alla quale Redford stava ancora sorridendo. Sarah gli ricambiava il sorriso. Aveva fatto un ottimo lavoro, poteva sentire che Savage, al suo fianco, era entusiasta, e questo era già un premio; cinque secondi di Sarah donna, che rispondeva a Redford uomo. E, nel frattempo, sovrapposto al viso del suo amante c'era il visino di suo figlio che la guardava con amore. "Allora" disse Savage, spezzando inavvertitamente l'incanto. "'Hai altre domande?" Lo sguardo di Redford ritornò distante. "No, non a questo punto". Si alzò, infilandosi la pratica sotto il braccio. "Corro subito dai miei avvocati..." guardò ancora Sarah "prima di fare qualcosa di sconsiderato". "Dove sarai, se avremo bisogno di contattarti?" chiese Savage, guardando Sarah sconcertato. "Torno in America" rispose Redford. "Ma dove di preciso?" chiese Zamaroh, seccata da quella vaghezza. "Dappertutto. Sono in tour". "Hai interrotto il tour per venire qui?" chiese Breden. "Avevo un paio di giorni liberi. In più, mi sembra che valga la pena di volare a Londra per cento milioni di dollari, no?" "Sì, io lo farei. Scusa se ti sembro impertinente, ma perché tu in persona? Avresti potuto mandarci qui una squadra di professionisti". Sarah si mosse imbarazzata sulla sedia. La faccenda stava diventando pericolosa. "È proprio così che quelli come me si mettono nei guai" disse Redford, lentamente, con enfasi. "Lasciano i loro affari in mano a squadre di professionisti, poi si chiedono come mai sono rimasti fottuti". Breden annuì, concedendogli la vittoria. "Ma perché Londra? Potevi andare in uno dei nostri uffici di New York. Sarebbe stato molto più semplice". Redford piegò leggermente il capo e studiò attentamente Dick Breden. "Dove vuoi arrivare? Non ti seguo". Breden fece spallucce. "Sono curioso. Mi piace capire perché la gente fa determinate cose". "Cristo. Vai a chiederlo al mio psicanalista". Redford uscì dalla porta. "Mi terrò in contatto". "Ma che cazzo fai?" urlò Zamaroh a Breden, nel momento in cui la porta
si chiuse. "Lo interroghi come se fosse sospettato di omicidio?" "È il mio lavoro". "Sei stato un po' troppo insistente" Savage parlò lentamente. "Sembravi un terrier mentre si sgranocchia un osso". "C'è qualcosa che non mi quadra" rispose Breden. "Non riesco a capire cos'è, ma dev'essere una cosa importante". "Cioè?" chiese Zamaroh sdegnosamente. "Sarà di ritorno a New York tra poche ore. Per una rockstar prendere un aereo è una cosa normalissima. Per l'amor di Dio, non essere così provinciale!" Breden si girò a guardare Zamaroh, osservandola come se fosse un esperimento da laboratorio. Sarah assisteva alla scena senza parlare, nascosta dietro al suo silenzio. Poi Breden la guardò fisso, strappandole il paravento. "Cosa ne pensi?" chiese educatamente. "È una rockstar" replicò lei. "E ti dirò che secondo me loro agiscono in modo differente da noi, su altre basi. Dobbiamo tenerlo ben presente, prima di giudicare gli altri bizzarri secondo il nostro metro di misura". Breden la guardò un attimo, ponderando la sua risposta, poi emise un meditabondo hmmm e si girò. "Mi sembra che sia andata abbastanza bene" disse Savage, concentrato sulla sua traiettoria personale. "Non trovate?" chiese rivolto a tutti i presenti. "Sei stata proprio brava, Sarah. Penso che l'accordo sia nostro". "Hai delle copie del documento che gli hai dato?" chiese Zamaroh. Sarah aprì la valigetta e distribuì tre copie. Zamaroh si tuffò sulle sue. "Mi sembrava che andasse tutto bene, ma preferisco controllare". Mio Dio, pensò Sarah, approvazione da Savage e una specie di premio da Zamaroh. Doveva aver fatto davvero un ottimo lavoro. "Mi sembra che siamo pronti per andare avanti" disse Savage. "In che modo?" chiese Zamaroh. "La prossima mossa spetta a lui, ora". "Cerchiamo di ragionare come se l'accordo fosse già nelle nostre mani" replicò Savage. "Prima di lasciarci trasportare dall'entusiasmo, dobbiamo stabilire se esistono ragioni per cui non vogliamo aggiungere Redford al nostro elenco di illustri clienti. So che sul nostro elenco annoveriamo anche autentiche teste di cazzo, ma sono teste di cazzo discrete, sono teste di cazzo dell'establishment, oppure noiose, attraenti per la stampa come un sacchetto di carta riciclata. Redford è una rockstar, per la miseria. Si suppone che sia un balordo. Voglio solo sapere fino a che punto. C'è una balordaggine accettabile e una balordaggine che fa puzzare il tuo nome di
bruciato e sputtana la tua reputazione. Dick, a te sembra che ci sia qualcosa che non va. Segui l'istinto". Oh, Cristo. Il miglior investigatore privato di Londra sguinzagliato dietro agli scheletri nell'armadio di Redford. Sarah stava ancora riprendendosi dal colpo quando Savage si girò verso di lei. "Tu ti affiancherai a Dick". "Come?" finse disperatamente di non capire quello che Savage le stava chiedendo. "Di cosa stiamo parlando? Buon Dio, donna, sembra che ti abbia appena chiesto di buttarti nel fuoco". Sarah lo guardò senza parlare, in stato di shock, cercando di ricomporsi. "Questa è una parte del lavoro, andare avanti. Tu vai avanti con questo, se vuoi mantenerti l'incarico e se vuoi che il tuo onorario, per così dire, si sviluppi. Non ti sognare nemmeno di chiedermi di più. Non ti darò una sterlina in più, che sia chiaro. Non ci provare nemmeno". Si girò verso Breden, ignorando Sarah che lo guardava furiosa, in silenzio, sull'orlo delle lacrime. "Tu farai il lavoraccio della scrematura" disse a Breden. "Il suo passato, dove e come è cresciuto, cosa ha fatto da quando è nato, con chi, accordi finanziari, cazzate, hobby, case, lavori". Si girò verso Sarah. "Hai una settimana di tempo. Se in una settimana sono soddisfatto dei preliminari, abbiamo l'accordo e si dà inizio alle danze. Devi tuffarti nell'anima di quell'uomo, guardare cosa c'è, scoprire cosa ama, cosa detesta, cosa gli è indispensabile per vivere, per cosa sarebbe capace di uccidere. Scuoti per bene il suo armadio fino a quando gli scheletri usciranno trotterellando e tu devi essere lì, pronta ad acchiapparli". "Ma come cavolo faccio?" "Troverai il modo". Capitolo 21 Sarah passò un weekend magico e doloroso con Georgie, Jacob e Alex. Suo fratello sarebbe partito la domenica per il Pera, e cercarono di approfittare il più possibile delle ultime ore che avrebbe passato a Londra prima del viaggio, che sarebbe durato più di due mesi. Portarono il bimbo al parco di Carlyle Square, sdraiandosi con lui sotto il tiepido sole autunnale. Sarah si mise a leggere e Georgie a stropicciarle le pagine del libro. Eva Cunningham li raggiunse la domenica a pranzo, carica di leccornie. Sushi
da asporto per gli adulti, regali per Georgie. Eva giocò con Georgie e intanto spettegolava con Sarah. Alex fece gli ultimi controlli al bagaglio e salutò tutto emozionato la sorella, il nipotino e lo zio. Sarah gli prese il viso tra le mani e lo baciò sulla fronte. "Buona fortuna, Al. Non metterti in pericolo, eh? Promettimelo". Lui fece lo stesso con lei. "Ma dai, non preoccuparti, farò il bravo". Gli occhi gli diventarono seri. "Fai la brava anche tu, in tutti i sensi". Lei capì al volo da cosa la stava mettendo in guardia e sorrise, con una sicurezza che non sentiva per niente. "Certo. Non ti preoccupare per me". Sarah tenne stretto Georgie, che aveva un'espressione sconcertata. Mentre guardava il taxi che portava via Alex per un'avventura che entrambi avevano dubitato potesse affrontare di nuovo, provava dispiacere misto a orgoglio. Sarah aveva ancora dubbi e paure, ma Alex aveva lottato con ogni fibra per riparare il suo corpo e, anche se non aveva ancora recuperato la forza e l'agilità di prima, era tornato abbastanza in forma da affrontare con sicurezza quella che sarebbe stata una vacanza di trekking e non di scalate. A Heathrow si sarebbe unito a Eddie, suo vecchio compagno di viaggi ed ex fidanzato di Sarah. La presenza di Eddie la tranquillizzava molto. Dopo la nascita di Georgie, Alex aveva smesso di comportarsi con lei come un figlio de facto e il loro rapporto aveva subito una svolta fondamentale. Alex era sempre stato protettivo nei confronti di Sarah, ma ora lei gli riconosceva un nuovo senso di responsabilità, che lo portava a ridurre i rischi che era disposto a correre. A ciò, andava aggiunto che non era più noncurante come prima riguardo al denaro. Aveva iniziato, molto tranquillamente, a guadagnare qualche soldo, scrivendo articoli e interviste su famosi scalatori e, nonostante le proteste di Sarah, aveva intrapreso il tortuoso e lungo cammino di restituirle i settecentoquarantatremila dollari che le era costato il ricovero ospedaliero di Alex senza assicurazione. Ora se n'era andato e lei non aveva più nessuno con cui sfogarsi su Redford. Doveva sigillare i suoi segreti. Se era fortunata, per il ritorno di Alex, avrebbe portato a termine l'incarico e Redford sarebbe uscito dalla sua esistenza. Cercò di fare del suo meglio per tenere Redford fuori dai suoi pensieri. Quella domenica sera, dopo aver messo a letto Georgie, Jacob partì per Golders Green e una notte di indipendenza. Sarah divorò il polpettone che le aveva lasciato, poi cercò di trovare rifugio nel sonno. Georgie ora dormiva di più. Venerdì notte si era svegliato solo una volta, e nei giorni successivi aveva dormito per tutta la notte lasciandola indisturbata con i sogni
e le paure che sembravano tenderle un'imboscata al calare delle tenebre. Lunedì mattina Jacob tornò al suo duro lavoro di babysitter e Sarah alla Goldstein a lavorare sulla talpa. Forse, se fosse riuscita a trovare il colpevole, si sarebbe guadagnata il bonus da cinquantamila sterline e avrebbe potuto rifiutare il lavoro su Redford. Sognando, entrò dietro a PJ nel bagno delle donne, stavolta per caso. Quando Sarah entrò, PJ si stava ritoccando il mascara e catturò il suo sguardo nello specchio. "Ciao" disse Sarah allegramente. "Come va?" PJ la studiò per un momento prima di rispondere. "Di merda, devo dire" replicò lei con sorprendente candore. "Il mio fidanzato mi ha mollato poche settimane fa". "Ah" disse Sarah. "Che disastro". "Forse lo conosci" disse PJ, girando le spalle allo specchio e guardando Sarah in faccia. "Come si chiama?" chiese Sarah, come se non lo sapesse. "Giovanni di Castiglio". PJ pronunciò il nome con disprezzo e rimpianto. Sarah scosse la testa. "Perché pensavi che lo conoscessi?" "Tu vivi in Carlyle Square, no?" "Sì". Caspita, come viaggiano veloci le notizie, qui. "Anche lui. Al diciotto". "È dalla parte opposta della piazza" rispose Sarah. "Pazzesco come si viva uno di fianco all'altro senza conoscersi". "No, se tieni gli occhi ben aperti" rispose PJ, accennando un sorriso. Sarah piegò il capo. "Cosa vuoi dire?" "Bene, capita che io viva in fondo alla strada del nostro nobile amministratore delegato". "Ah, sì?" chiese Sarah interessata. "E allora?" "Diciamo solo che ho notato che la signora Savage ha una predilezione per il tè del pomeriggio. In particolare il mercoledì". Sarah rimase senza parole un attimo, poi tentò di indovinare. "Stai dicendo che ha un amante?" PJ sorrise furbescamente. "Tu l'hai detto, non io..." Rimise il mascara nel beauty case e chiuse il fermaglio con uno scatto. "Scusa se mi interesso, ma come lo sai?" PJ le diede una occhiata maliziosa. "Non ti dai mai malata?" Sarah sorrise. "Ho perso il conto delle volte". I giorni passarono e Sarah dimenticò le insinuazioni di PJ. Lavorava du-
ramente alla ricerca della talpa, ma senza risultati. Martedì e mercoledì passarono, e né lei né le cineprese scoprirono la talpa. Savage e Zamaroh erano sempre più irritabili e nervosi. Entrambi dittatori a loro modo, facevano sputare la bile a quelli che stavano loro intorno. Martedì, a corto di ispirazione e stufa di politica aziendale, Sarah decise di starsene a casa. Il sole splendeva, la piazza verdeggiante era radiosa e le venne voglia di passare una giornata sdraiata pigramente sull'erba con Georgie. Dirottò le chiamate sul cellulare, pregando che non suonasse. Rimase silenzioso fino all'ora di pranzo. Quando si mise a squillare, lo acchiappò prima che potesse svegliare Georgie, addormentato su una coperta ai piedi di una vecchia quercia, e si spostò di qualche metro. "Sì?" "Sarah, sono James. Grandi notizie. John Redford ha firmato". "Che meraviglia" disse Sarah che provava tutta una gamma di sentimenti contrastanti. "Abbiamo ottenuto l'accordo che volevi. La più imponente operazione finanziaria borsistica nel campo musicale. Abbiamo fregato la talpa". "Lo spero. È stato come un'ombra. Mi sentivo seguito, me lo immaginavo dappertutto, come pure Zamaroh. Mi auguro che non si farà più vedere". "Le telecamere di Breden hanno scoperto qualcosa?" "Un bel niente". "Forse si è stancato, ed è andato a torturare qualcun altro" suggerì Sarah, per niente convinta. "Hai ottenuto un buon contratto con Redford?" "Abbastanza. Quattordici pagine di linguaggio legale, che sta per tornare da noi per strutturarlo, monetizzarlo e organizzare l'emissione obbligazionaria. Da parte sua, lui ha garantito che non è al corrente di incidenti, ostacoli o reclami che potrebbero minacciare il passaggio dell'accordo dall'esecuzione al rimborso delle obbligazioni" recitò Savage. "Ha garantito?" "Pensi che abbia qualcosa da nascondere?" "Chi non ce l'ha?" "Sai cosa voglio dire". "È un artista. Ci riuscirebbe bene, no?" "Siamo tutti dei maledetti artisti. Te lo prendi l'incarico?" Sarah non disse nulla, incapace di decidersi a fare quello che Savage le stava proponendo. "So che hai dei dubbi" continuò Savage. "Mi vuoi dire qual è il proble-
ma?" Oh, Cristo. "Il mio problema è che questo è un casino colossale e sicuramente fallirò. Gli scheletri peggiori sono sempre nascosti benissimo". "Tipo?" "Non lo so. Quest'uomo deve essere un professionista nel tenere protetta la sua vita privata. Sono vent'anni che sta al top e ha visto violare la sua privacy tante di quelle volte che sarà un esperto nel nascondere le cose. Non deve necessariamente essere niente di sinistro, magari solo lo stile di vita". "Forse, ma sinceramente dubito che ci sia qualcosa di bratto che ci tiene nascosto". "Breden non è arrivato a nulla?" "Tutto a posto finora". "Avete deciso che è pulito?" "Abbastanza da firmare una lettera di mandato e un certificato di assunzione dell'incarico. Se noi, o tu, troviamo qualcosa per strada che non ci piace, e che diventa una condizione avversa, recediamo dal contratto. Sarebbe imbarazzante, ma non disastroso. Quello che potrebbe diventare un disastro è perdere di vista qualcosa che salta fuori al momento del lancio dell'emissione o nei mesi successivi. Specialmente se decidessimo di tenercele tutte noi". "Lo farai?" "Dipende anche da quello che troverai tu". "Ecco cosa mi preoccupa, James. Trovo che sia troppo impegnativo. Le rockstar non sono esattamente il mio campo". "Il tuo campo è decifrare le persone?". "Non so, James. È un tale casino. Sarebbe così facile sbagliare, e sulla linea del fuoco ci sono io". "Ma dai, Sarah. Sarà un grande affare. Il primo per la Goldstein e per te. Hai sempre detto che volevi lavori interessanti e intriganti". "Sì, ma questo scotta. Non vorrei ustionarmi". "Non ti è mai importato, in passato. Più rischiosi erano gli incarichi più ti ci buttavi in mezzo, se ricordo bene". "Forse mi sono stancata di correre dei rischi". Savage rise. "Ci crederò quando lo vedrò". "Non voglio questo lavoro, James. Non riesci ad accettarlo? Dick lo farebbe altrettanto bene. Non hai bisogno che lo faccia proprio io". "Dick non riuscirebbe ad avvicinarlo come potresti fare tu".
"Non vedo perché debba essere così. Troverà il modo. Lo trova sempre". "Non sarebbe efficace allo stesso modo. Ho in mente qualcosa per te". "Di cosa stai parlando?" Savage rimase zitto. Sarah sentì una scossa. "Te ne vai in tour con lui per due settimane". "Cos'hai detto?" "Ho detto a lui e al suo manager che, prima che firmiamo, hai bisogno di passare un sacco di tempo scorrendo i suoi contratti, per assicurare alla Goldstein che non ci sono diritti di terzi dove non devono esserci, accordi collaterali che possono inficiare le sue entrate, altri creditori. Ne hai già parlato abbastanza chiaramente nella presentazione. Hanno detto che a loro può andar bene, ma dove troverebbero il tempo per farlo? Sono nel bel mezzo di un tour mondiale. Gli ho riproposto il problema e ho chiesto di trovarlo, il tempo. Cawdor mi ha richiamato, e mi ha detto che sei invitata a raggiungerli per le ultime due settimane". Sarah era senza parole. "New York, Londra, Parigi e Venezia con uno degli uomini più affascinanti del pianeta, o così mi è stato detto, a cinquemila sterline al giorno. Cosa vuoi di più dalla vita?" Capitolo 22 Un'ora più tardi, Sarah e Georgie arrivarono a Golders Green. Sarah fece scendere dall'auto un Georgie insonnolito, e lo portò attraverso il cancello che Jacob lasciava deliberatamente cigolante, come parte iniziale del suo sistema di allarme. Il giardino diede loro il benvenuto con profumi di caprifoglio e gelsomino. Jacob era sulla porta. Sarah lo guardò con amore. Quell'uomo era stato un surrogato di un padre per lei e suo fratello, rimasti orfani da piccoli. Quando i genitori di Sarah e Alex erano rimasti uccisi in un incidente automobilistico a New Orleans, la sorella del padre di Sarah, Isla. li aveva portati a Londra. Arrivarono in quel posto, in Rotherwick Road, a North London, e Jacob era il loro vicino di casa. Isla era professore di chimica all'Università di Londra. Era una brava persona, ma troppo cerebrale e impegnata nel suo lavoro per dare ai bimbi l'attenzione di cui avevano bisogno. Jacob aveva fornito pranzi caldi e mani delicate per medicare le ginocchia sbucciate e i cuoricini feriti. Sua moglie era morta l'anno prima che Sarah e Alex arrivassero in Rotherwick Road. I bambini gli avevano dato qualcosa per cui valesse la pena
vivere. Le ferite nei cuori dei bimbi non si cicatrizzarono mai - non si supera mai quel profondo dolore, quel senso di perdita, si impara soltanto a conviverci - ma se non altro impararono ad amare ancora. Jacob era il loro amore, il loro amico, il loro mentore, la loro sicurezza. Si sedeva con Alex, sfogliando atlanti assieme a lui, gli leggeva storie che parlavano di spedizioni in montagna, accendendo nel bambino un amore per l'avventura che non lo abbandonò mai più. Aveva cercato di proteggere Sarah dal suo carattere anarchico e dalla sua moralità anticonvenzionale. Jacob era uno scassinatore di casseforti in pensione. Aveva lavorato per trent'anni e, alle insistenze di Sarah, si era ritirato prima che lo acciuffassero. Sarah lo aveva anche tormentato per farsi insegnare qualcuna delle sue abilità e, sebbene fosse ormai un po' arrugginita, giudicava di essere ancora in grado di aprire i modelli più semplici di casseforti. Sarah guardò il viso segnato di Jacob e pensò alle persone che aveva amato e perso per morte violenta. I suoi genitori, la sua migliore amica, il suo amante. Jacob era stato la sua salvezza. Non riusciva a immaginare come sarebbe potuta essere la sua vita senza di lui. Quando Sarah era cresciuta, Isla si era trasferita negli States, e Sarah si era abituata abbastanza facilmente a vivere senza di lei, ma la perdita di Jacob la terrorizzava più della perdita della sua stessa vita. Aveva settantotto anni, era brioso e di bell'aspetto, ma la sua età la preoccupava, e ogni nuova ruga di Jacob la faceva star male. Gli accarezzò la nuca e lo baciò sulla guancia. "Ciao, tesoro". L'uomo scrutò l'espressione del suo viso, osservando con sospetto quella strana affettuosità. Si girò verso Georgie, che si stava svegliando rapidamente, pieno di entusiasmo per la presenza di Jacob e per il posto che non conosceva. "Ciao, bellissimo". Jacob baciò il bimbo sulla fronte, e lui si contorse e ridacchiò, solleticato dai baffi. "Vieni qui. Non so tu, ma io sto veramente morendo di fame". Condusse Sarah e Georgie in casa e lei si sentì al sicuro come quando era bambina. La gatta, Ruby, si accoccolò in grembo a Sarah e iniziò a fare le fusa mentre lei la accarezzava. Sul tavolo della cucina, c'erano delle rose in un vaso dalla linea semplice, c'era un pollo nel forno che stava diventando dorato e croccante, e sul piano di lavoro una bottiglia di Borgogna messa a respirare. Jacob tirò fuori due bicchieri da degustazione. "Ne vuoi?" "Sì, magari". Jacob le aveva insegnato tutto sui vini e sulla cucina. Sapeva che in quel
momento la stava studiando attentamente. Appoggiò Georgie su un materassino sul pavimento con un'ampia scelta di giochi e prese una sedia. "Allora, dove vai?" chiese Jacob porgendole il bicchiere. Sarah si mise a sedere e bevve un sorso di vino. "È tanto evidente?" "Mi telefoni e annunci che stai arrivando. Sei frizzante di eccitazione e di trepidazione, ma di fuori vuoi mostrarti calma, come se sapessi quello che fai. Praticamente vedo già la sagoma di una valigia al tuo fianco. Cos'è? Un viaggio con un nuovo fidanzato?" "No, nessun fidanzato nuovo" disse Sarah inghiottendo il vino. "E neanche vecchio. Vado a New York. Con la rockstar". "Cosa? Quel Redfern?" Jacob era seduto di fronte a Sarah e si allungò sul tavolo per avvicinarsi. "Redford". "Questo nome mi dovrebbe ricordare qualcosa? Chi diavolo è e cos'ha a che fare con te?" "È un cliente, Jacob". "Lo so". "Scrive e canta musica rock e ballate. È una musica meravigliosa, travolgente, intensa. Ha venduto centinaia di milioni di dischi in tutto il mondo, e ha firmato un accordo con la Goldstein". "E cosa andresti a fare con lui?" "Vado a controllarlo. Lo scuoterò fino a quando salteranno fuori gli scheletri dal suo armadio. Se non ce ne sono di cattivi, la Goldstein porterà avanti l'affare; se ce ne sono, ci tiriamo fuori". "È una rockstar. Sono tutti pazzi scatenati". "Spero proprio di no. Mi ha chiamato Savage un'ora fa e mi ha detto di andare in tour con lui per due settimane". Jacob si alzò e trafficò con i fornelli. Pochi minuti dopo, distribuì il pollo e le patate arrosto. Non disse una parola fino a quando entrambi si trovarono davanti il piatto fumante. "E Georgie?" Sarah si rattristò. "Non lo so. Voglio andare e sto da cani all'idea di abbandonarlo. Mi sento lacerata e non so cosa devo fare". "Cosa hai detto a Savage?" "Che gli farò sapere". "Due settimane sono lunghe". "Lo so. Cercherei di tornare per qualche notte, ma sarebbe orribile ugualmente".
"Allora perché vuoi andare?" Oddio. Perché una parte di lei amava John Redford, lo aveva amato fin dalla notte appassionata tra le montagne, lo amava ancora di più perché era il padre, anche se inconsapevole, del suo adorato bimbo; una parte di lei lo desiderava appassionatamente, l'altra sentiva che stava seguendo il cammino che il destino le aveva riservato. "Perché sento di doverlo fare, Jacob". L'uomo anziano la guardò con attenzione. "So che non posso dirti cosa devi fare. Nessuno ci è mai riuscito, neanche quando eri bambina, così non ti dirò di non andare, ma per me e per tuo figlio devi avere cura di te. A New York con uno sconosciuto..." Jacob guardò nel vuoto, preoccupato. Sarah sentì una fastidiosa sensazione di esaltazione e angoscia. Aveva passato i dadi a Jacob e lui aveva scelto per lei. Avrebbe lasciato solo il suo bambino per due settimane, per stare con un uomo. Per lavorare, disse a se stessa; per guadagnare. L'amante e la madre si ribellarono dentro di lei, in lotta tra loro. "Starò attenta" disse Sarah. "Non ti preoccupare. Ci sarà anche il suo manager e senz'altro anche tutto il suo entourage. Non sono sola..." "Com'è?" Era un'agonia. Dover continuare a mentire ripetutamente all'unico uomo del pianeta, oltre a suo figlio e suo fratello, al quale doveva la verità. "Sembra carino, sensibile, premuroso, intelligente, senz'altro tranquillo". Sapeva che Jacob aveva sulla punta della lingua: E cosa avrebbe detto tua madre dei ragazzi tranquilli? Lui però si trattenne, e tacque. "Abbi cura di te, tesoro. Fai la brava, io mi prenderò cura del piccolino". Fece una pausa, guardando il suo piatto senza più appetito. "Quando devi partire?" Sarah spinse via il suo piatto ancora colmo. "Domani". Capitolo 23 Il mattino seguente, Sarah allattò Georgie per l'ultima volta. Le conseguenze della sua decisione la riempivano di angoscia. Era uno strappo improvviso, un primo passo sul cammino della separazione dal figlio. Temeva che lui non sarebbe più stato il suo bambino allo stesso modo. Era qualcosa che solo lei poteva fare per lui, era il loro legame più profondo e ora lo stava perdendo. Dopo averlo allattato, lo portò al piano di sotto da Jacob e lo lasciò tra le
sue braccia. Poi tornò nella sua stanza, si buttò sul letto e pianse per cinque minuti. Più tardi, si tirò su e iniziò a preparare la valigia, muovendosi come un automa. Accese il lettore cd, alzò il volume al massimo. La voce di John Redford riempì la stanza, fermando tutto il resto, come se loro due fossero insieme, da soli. Sapeva giocare con le emozioni in maniera perfetta, come suonava la chitarra, ma ispirava più dolore che gioia. Da dove gli usciva tutto quel dolore? Stava cantando una ballata, un lamento per l'amore perduto: Scappa via, scappa via, scappa via, scappa via. Le parole non riescono a trattenerti, le carezze non riescono a trattenerti, gli occhi non riescono a trattenerti, l'amore non riesce a trattenerti. Sei prigioniera del mio cuore. Scappa via, scappa via, scappa via, scappa via. Vattene ora, prima di uccidermi, Uccidermi con le tue parole, Uccidermi con le tue carezze, Uccidermi con i tuoi occhi, Uccidermi perché non mi ami. Scappa via, scappa via, scappa via, scappa via. Smettila di fingere, amore mio, smettila di fingere, Riesco a vedere che il tuo amore se n'è andato, Le tue inani sono gelide, i tuoi occhi sono assenti, Sei qualcun altro con qualcun altro, E io mi sento morire senza di te. Scappa via, scappa via, scappa via, scappa via. Sarah spense la musica e tornò giù da Jacob e Georgie. Prese suo figlio tra le braccia, gli posò le labbra sul capo, godendosi la sua presenza. "Devo andare via, amore. Ma torno presto, tesoro. Ti penserò tanto, per tutto il tempo. Ti spedirò tanto amore. Ti..." Esitò, perché le lacrime minacciavano di sopraffarla. Non avrebbe voluto piangere davanti a lui, spaventarlo con il suo dolore. Cercò di calmarsi, e quando ci riuscì lo tenne un po' lontano in modo che non vedesse i suoi occhi. "Ti amo, piccolino. La mamma ti adora". Jacob la guardò, piangendo anche lui. Si asciugò le lacrime, sperando
che Sarah non le vedesse, e prese in braccio Georgie. Sentirono una portiera sbattere, rumore di passi e il suono del citofono. Jacob rispose. "Arriva subito" si girò verso Sarah. "C'è il taxi, bimba". Lei baciò Georgie per l'ultima volta e si diresse verso la porta. Il telefono suonò, raggelandola. Lo tirò su rabbiosamente dal tavolino nell'entrata. "Sì?" "Sarah, sono James. Ho appena parlato con l'avvocato specializzato nel mondo dello spettacolo alla Theodore Gottard" annunciò con enfasi. "Dice di cercare delle donne. Potrebbe essere il suo punto debole. Madri di figli naturali, che aspettano dietro le quinte con le loro richieste di alimenti e cause di paternità, che possono affermare che hanno scritto con lui le sue canzoni, o che il copyright non è veramente suo. Sarah, ci sei? Sarah? Sarah????" Capitolo 24 Mentre l'aereo attraversava l'Atlantico, Sarah giocherellò con la selezione musicale. Non impiegò molto a trovare John Redford. Stava cantando una cover di Van Morrison, Queen of the Slipstream. Cantava nelle cuffie e sembrava che le stesse sussurrando all'orecchio. Si addormentò sognando un mare di bugie, e un sogno diventato realtà nel viso di un bimbo. Il suo volo atterrò al JFK alle dodici. Attraversò l'aeroporto affollato: immigrazione, dogana, ritiro bagagli e arrivò fuori nel piazzale gelido dove i taxi partivano rumorosamente e si allontanavano a tutta velocità. Stringendosi nel soprabito, attese il suo turno, lanciando occhiate di sfuggita agli altri compagni di viaggio. Il sole splendeva, facendole strizzare gli occhi. Sembrava che il sole splendesse sempre, a New York. Ogni volta era stata accolta da un sole radioso, estate o inverno che fosse. C'era anche una debole ombra in cielo, un quarto di luna, messa a guardia dello splendore della giornata. Arrivò il turno di Sarah. Mise la valigia nel baule, si sedette sui sedili screpolati del taxi e, per la prima volta nella sua vita, obbedì all'ordine di Eartha Kitt: non fare il cattivo e allacciati le cinture di sicurezza. Sorrise ironicamente a se stessa. Georgie il burattinaio, che gestiva ormai tutta la sua vita anche quando non era presente. Il taxi decollò come lo Space Shuttle, portandola verso Manhattan. Il Soho Grand era un edificio strano, costruito in mattoni rossi, molto moderno, simile a un complesso sperimentale di appartamenti a Marylebo-
ne. La sua impressione venne scacciata quando entrò nel foyer del piano terreno. Con i suoi mattoni, il metallo industriale e il vetro delle scale, guardato a vista da due cani di bronzo che sembravano tranquillizzanti o spaventosi, a seconda del lato da cui si guardavano, la fece pensare al nascondiglio sotterraneo di Batman. Salì i gradini che portavano alla reception del primo piano e si guardò intorno mentre attendeva di essere registrata. Gli altri ospiti erano, perlopiù, alla moda come l'hotel. Erano vestiti casual, in sintonia con il quartiere di SoHo. C'era una profusione di maglioncini beige incollati ai pettorali ben disegnati degli uomini, mentre le donne prediligevano vestiti maculati. Pouf deliziosamente vissuti e divani ben imbottiti segnavano l'area per il relax a destra della reception. Palme ricche di foglie creavano un'atmosfera da lontano oriente. L'effetto generale a dispetto della trendiness era tranquillizzante e insieme glamourous. A Sarah sembrò di essersi tuffata nell'età del Jazz. La receptionist si alzò di scatto quando Sarah disse il suo nome e le porse il passaporto. Ci fu un po' di trambusto e Sarah fu accompagnata immediatamente alla sua stanza. In ascensore l'addetta alle relazioni con i clienti, Deborah, a giudicare dalla targhetta di riconoscimento, schiacciò il pulsante 'attico' e restò in attesa, come se si aspettasse che Sarah le dicesse qualcosa. L'ascensore schizzò su e si aprì su un corridoio dai morbidi toni del marrone bruciato. Sarah girò a sinistra, seguendo la donna. Si fermarono di fronte a una porta di metallo camuffata nel muro, che Deborah spalancò con un gesto enfatico. Sarah oltrepassò la soglia ed entrò nella stanza, anzi nella suite. "Spero che si troverà bene" le disse Deborah. "Ci chiami se ha bisogno di qualsiasi cosa". Sarah annuì, chiedendosi cosa era compreso in quel 'qualsiasi'. Lasciò cadere la valigia e camminò eccitata attraverso un immenso salotto inondato di luce, e, uscendo da una portafinestra, si trovò sul terrazzo più grande che aveva mai visto. Il freddo vento autunnale e il panorama le mozzarono il fiato. Manhattan si stava stiracchiando davanti a lei, la Midtown dritta di fronte, l'East River alla sua destra. Aveva una vista a trecentosessanta gradi. Un lettino di legno affiancava un'originale composizione di piccole pigne e cavoli violar Avrebbe potuto prendere il sole nuda, se avesse voluto, ed essere vista solo dagli elicotteri. Guardando l'attività febbrile e il trambusto di Canal Street, Sarah si sentì rarefatta, coccolata. Nella lista delle compensazioni, questa situazione me-
ritava un posto molto elevato. Si sentiva una privilegiata. Rientrò nella suite. La camera da letto era deliziosamente intima e confortevole, ripiegata sul letto c'era una coperta arancione bruciato, i muri erano color cioccolato e le ampie vetrate panoramiche erano inondate dal sole. C'erano tende di taffettà, croccanti al tocco come il vestito da ballo di una debuttante. Una gerbera giallo dorato galleggiava in una boccia di vetro, e fotografie in bianco e nero adornavano le pareti. Sarebbe stato meraviglioso se non avesse dovuto lavorare! Quel pensiero la depresse di colpo. Niente di meglio di un pranzo in totale libertà, si disse, poi si accorse della lucina lampeggiante della segreteria telefonica. C'erano quattro messaggi, tutti di Strone Cawdor, che le chiedevano di chiamarlo. Prenditi una purga, pensò crudelmente. Acchiappò velocemente la borsetta e il soprabito e lasciò la quiete dell'hotel per gironzolare un po' per New York. Adorava quella città. L'energia, l'anonimato, le possibilità eccitanti che si celavano dietro un sorriso o un finestrino sfumato. Non era pronta per incontrare Redford. Voleva starsene qualche ora da sola con i suoi sogni e le sue illusioni, prima di distruggere tutto. Iniziò a camminare senza sapere dove andava, ma non era importante. Aveva le sue Tod's nere, gli stivali da commando urbano, come le definiva Jacob, ed era in grado di camminare per chilometri e chilometri. A Broadway, fu assalita da violentissime folate di vento. Nonostante tutte le comodità che la vita concedeva, la natura non poteva essere domata. Si fermò di fronte a un segnale stradale, Worth Street. Scritto sotto, lesse: La Strada Dei più Duri. Ridacchiò da sola. Era vicina a Wall Street. Gli abitanti di Wall Street erano i più forti, o avevano qualche dote nascosta della quale lei non era al corrente? Tornò in albergo in tempo per pranzare esageratamente in ritardo. Tornata su, usò la sua chiave elettronica ed entrò nella suite. Si fermò sulla soglia, con una sgradevole sensazione. C'era qualcosa che non andava. Sentiva una presenza, una strana vibrazione. I suoi occhi catturarono un movimento. "Sei arrivata, finalmente, porca puttana. Dove cazzo sei stata?" Strone Cawdor uscì dal bagno, scuotendosi via l'acqua dalle mani. La superò camminando con passo pesante e si sedette voltandole le spalle. "Non hai ricevuto i miei messaggi? Ne ho lasciati quattro". Si sporse, prese un pugno di noccioline da un vassoio d'argento e se le buttò in bocca una per una. Finalmente, si girò a guardare Sarah. "Esci dalla mia stanza" disse lei, a bassa voce. Era glaciale, il viso inespressivo. Qualcosa nel suo tono fece alzare in piedi Strone. Poi, come ri-
cordandosi che lui era un duro, si girò bruscamente verso di lei. "Cos'hai detto?" Sarah fece un passo avanti. "Esci. Subito". Strone fece una risata forzata. "Scusa, hai detto la tua stanza? Duemila dollari a notte, con la mia firma sulla fattura, e tu dici la tua stanza?" Sarah si avvicinò a un tavolino e prese il telefono. Digitò tre cifre. "Sicurezza? Sì, potete aiutarmi. C'è un uomo nella. "Chiudi il tuo fottutissimo becco!" urlò Strone. Si buttò oltre il divano e calò il pugno sul telefono, interrompendo la conversazione. "Brutta troia! Se la stampa viene a sapere una cosa del genere... Telefona immediatamente, dì che ti sei sbagliata. Saranno qui in pochi secondi, faranno..." "Allora è meglio che tu corra via". Strone minacciò Sarah con l'indice e scappò dalla stanza. Lei sbatté la porta dietro di lui, poi vi si appoggiò, respirando a fatica, tremando. Guardò la sua valigia appoggiata alla parete ancora chiusa, e prese in considerazione l'idea di uscire e tornarsene a casa. Suonarono alla porta e si sentirono dei walkie talkie gracchiare. Guardò dallo spioncino: Sicurezza. Aprì la porta e due uomini corsero dentro. "C'era un intruso, signora?" chiese uno dei due, con gli occhi che esaminavano in fretta la stanza, mentre l'altro controllava l'appartamento. "Se n'è andato" disse Sarah. Pensò di fare il nome di Cawdor, ma per il bene della Goldstein decise di evitare casini. "Cosa è successo, signora?" chiese uno mentre l'altro prese il walkie talkie "Me lo descrive, per favore?" "È stato un malinteso" riuscì a dire Sarah. "Era una persona che conosco. Mi ha fatto uno stupido scherzo". Cercò di convincere i due, evidentemente scettici, che stava bene, che era stata solo vittima di un errore di valutazione. Appena chiuse la porta, ringraziandoli e rassicurandoli ancora una volta, il telefono squillò. "Sarah?" Il suo cuore sobbalzò. "Sì?" "Sono John. Mi dispiace tantissimo per quello che è successo. Posso venire da te?" Capitolo 25 Redford indossava i calzoni scoloriti di una tuta da ginnastica e una Tshirt bianca. I capelli erano sudati, ravviati solo con le dita. Un velo di su-
dore gli scintillava sul viso. "Scusami. Sono impresentabile". Indicò il suo abbigliamento, entrando nella suite. "Sono corso qui direttamente dalla palestra". "Avrai creato molto scompiglio". Lui ridacchiò. "Ho fatto mettere una palestra privata nella mia suite". "Oh. Chissà come ti sentirai solo". Redford sembrò sorpreso. "Proprio così" disse, semplicemente. "Si va in palestra anche per fare colpo sulle ragazze e fare invidia ai ragazzi, no?" Sarah ricordava ogni centimetro del suo corpo, e sapeva che era cesellato alla perfezione. Cercò di pensare ad altro. "Ascolta Sarah, sono veramente, ma veramente dispiaciuto per l'intrusione di Cawdor. Lui pensa, dato che firma gli assegni, che la stanza sia sua, e di..." "No" disse Sarah. "Lui ha pensato che io fossi sua, che, dato che voi pagherete una commissione alla Goldstein, lui possieda tutti quelli che ci lavorano. Ma lascia che ti dica una cosa..." fece una pausa. "No aspetta, lo dirò direttamente a quella testa di cazzo". Redford fece spallucce. "Fai come preferisci. Puoi anche dargli fuoco, se vuoi". Sarah si sedette lentamente, il suo nervosismo stava aumentando, ma ora riusciva a tenerlo sotto controllo. "È una testa calda" disse quietamente Redford "ma ha un buon cuore. Il problema è che, nel modo in cui viviamo, è facile perdere il contatto con la realtà. Succede a tutti. Ormai è un anno che siamo in tour e la pressione si fa sentire. Non lo sto giustificando, voglio solo calmare le acque, se è possibile". Vide che Sarah guardava la valigia. "Non starai pensando di scappare via, no?" "Certo. Se questo ti sembra un bel modo di cominciare..." "Ma dai, Sarah. Concedigli una seconda opportunità, ti prego". "E perché?" chiese risolutamente. "Perché tutti commettiamo degli errori". "E allora? Non vedo perché dovrebbe interessarmi. Per quanto mi riguarda, sarebbe stato meglio lasciare che si sfracellasse contro gli alberi". Redford sorrise involontariamente. "Immagino. A volte lo penso anch'io". "Si comporta da presuntuoso e da cazzone arrogante, ma io l'ho visto, com'è quando ha paura. Un ragazzetto pisciasotto". "È il suo lato umano, quello".
"Voglio dire, quello stronzo bastardo non mi ha neanche riconosciuto, ti rendi conto?" "Era sotto shock quando lo hai portato al ranch. E tutto sommato, l'intera faccenda è per lui un episodio da dimenticare. Ha preso il primo volo disponibile, è tornato a New York, alla salvezza della città, e non ne ha mai più voluto parlare. Diniego, lo chiamano. Lascia che ti dica che non c'è niente di peggio per un uomo che tiene all'autocontrollo che perderlo su un cavallo imbizzarrito". Sarah scoppiò a ridere. "Forse gli ha fatto bene". "Gli avrebbe fatto bene se ci si fosse confrontato". "Ma come fai a sopportarlo?" "È un bravo ragazzo, davvero, sotto il travestimento da sbruffone. Non è facile fare il suo lavoro. C'è un sacco di gente che cerca di fregarmi, lui deve fare la parte del duro. Vive perennemente in tensione". "Però non vedo perché devo sorbirmelo io". "Va bene. E se ti dicessi che questo accordo per me è fondamentale?" "Perché?" "Lo sai perché". Si guardarono, cercandosi gli occhi, e in quell'istante il tempo si fermò. La domanda di Redford si poteva leggere con chiarezza: Perché sei scappata da me? Sarah si voltò e si avvicinò alla finestra. Guardò giù e vide una limousine interminabile che si avvicinava al marciapiede. Redford l'affiancò. "Cosa vuoi? Cosa posso fare?" Sarah si girò per guardarlo. I loro visi erano vicinissimi. Si mosse per allontanarsi da lui, si rifugiò dietro una sedia e ne abbracciò lo schienale. "Ci penso io. Mi riprendo la mia chiave elettronica che ha quel bastardo e mi pago io la suite. Se cerca ancora di entrare, evito di chiamare la sicurezza e telefono io stessa alla stampa, spiegando con dovizia di particolari che lui in realtà è uno stronzettino fifone che se la fa addosso quando vede un cavallo". Redford sorrise. "Ok. Siamo d'accordo. Ma guarda, non c'è assolutamente bisogno che tu paghi l'albergo. Questa stanza costa una vagonata di soldi. Perfino io non sono così fuori dal mondo da non rendermene conto. Come accidenti ti puoi permettere..." "Non sono una trader povera, John, ammesso che ne esistano. Lavoro alla Goldstein come freelance sugli accordi speciali. Lavoro per scelta, e non per necessità" mentì. "Mi sono guadagnata già da parecchio tempo il lusso di poter scegliere quando lavorare. Tu pensi che le rockstar abbiano un ego
spropositato, che i loro manager abbiano un ego spropositato... be', i trader li battono di parecchie lunghezze. Strone farebbe meglio a trattarmi con i guanti bianchi, d'ora in poi, e se non lo fa se ne pentirà amaramente, perché resterà schiacciato. Non appartengo a nessuno, è chiaro? Se resto, è per la Goldstein, perché Savage ci tiene, e perché è importante per te". "Allora resti?" "Per ora". Sarah si spostò i capelli dal viso e camminò a grandi passi. Redford la guardava, in attesa. Si fermò vicino al divano, aggrappandovisi, usandolo come barriera tra loro. "Posso farti una domanda?" "Certo". "Strone lo sa che ci conosciamo, conoscevamo!" arrossì. Redford scosse la testa. "No. Non lo sa". "Non gli hai detto che eri venuto da me per ringraziarmi per avergli salvato la vita? Voglio dire, stava ancora da te, appena è successo". "Era già scappato via quando sono venuto da te. Lo stalliere del ranch, Earl, mi spiegò che tu gli avevi detto che alloggiavi a Spring Creek. Strone non lo sapeva. Earl seppe da Strone che tu gli avevi salvato la vita; a me lui non l'ha mai detto. Tutto quello che mi ha detto è stato che odiava i cavalli e che non ci avrebbe mai più appoggiato il sedere: poi si è alzato ed è partito per tornare in città. Non c'è stato il tempo di parlargli di te. Oltretutto, certe cose devono restare private". Sarah aveva bisogno di quella spiegazione, e si sentiva sollevata dalla sua delicatezza. Gli lanciò un'occhiata. La stava guardando come per cercare un indizio. Si girò. "Suppongo che in Goldstein nessuno sappia che ci conosciamo". "No. Nessuno". "Bene. Non mi sembra nemmeno il caso di dirlo, no?" Sarah lo guardò, grata. "Giusto". "Bene, sono contento che abbiamo chiarito". Sarah si sentiva a disagio. L'intuito di Redford per quello di cui lei aveva bisogno, e l'averglielo dato così elegantemente l'aveva spiazzata. Non c'era stato bisogno di dire niente. Si sentiva disarmata. Non voleva che lui fosse così accomodante, così generoso. "Ascolta, devo chiarirmi le idee, bere una tazza di tè, calmarmi un po'". Lui capì al volo e alzò un braccio in segno di resa. "Ok. Vado". Sarah guardò la porta che si chiudeva dietro di lui. Perché lui doveva es-
sere così maledettamente sensibile? Era una rockstar, porca miseria. Si supponeva fosse un megalomane egoista. Per essere così gentile con lei doveva avere un bisogno estremo di portare a termine l'accordo, concluse di cattivo umore. Il campanello suonò cinque minuti dopo. Un fattorino le consegnò una chiave della stanza e una busta. Sarah prese la chiave di plastica e la buttò nel cestino. Aprì la busta con il coltello della frutta. Cara Sarah, ti andrebbe di iniziare a lavorare sulle informazioni? Se ti va bene, ci possiamo vedere alle cinque e mezza nella mia suite. Strone. Nessuna scusa esplicita, ma un inconsueto tono conciliante che era probabilmente la cosa più vicina alle scuse alla quale Strone poteva arrivare. Sarah prese il telefono. Il manager rispose con voce annoiata. "Sì?" "Ci vediamo tra venti minuti". Riattaccò e andò vicino alla parete. Ci si appoggiò con la pancia, il naso contro il vetro, e guardò Manhattan. Amava quella città di sogni, di reinvenzioni, di fantasia sfrenata. Le persone erano pronte a credere a qualsiasi illusione che creavi per loro, se tu per primo ci credevi, e la portavi avanti con sufficiente impegno e intuito. Allora, chi era John Redford? E lei, chi era? Capitolo 26 Si sedettero attorno a un tavolo di cristallo e acciaio. John Redford si era fatto una doccia e cambiato, e indossava jeans neri sbiaditi e una polo nera. Strone Cawdor indossava dei jeans e una camicia bianca stirata alla perfezione, che aveva tutta l'aria di essere stata confezionata su misura. Sarah indossava degli anfibi, un paio di calzoni neri che facevano parte del suo nuovo guardaroba maschile, una T-shirt azzurro cielo a maniche lunghe e un cardigan nero attillato. Portava il suo anello con rubino e uno Swatch waterproof. Strone la guardò. Nel momento in cui era entrata, era passato dal sollievo alla preoccupazione. Sarah si chiese cosa gli avesse detto Redford. "Vuoi qualcosa da bere?" le chiese.
"Va bene un espresso e una bottiglia di acqua minerale naturale". Lui chiamò il servizio in camera ed elencò le ordinazioni. Redford scelse acqua minerale naturale a temperatura ambiente, con una fetta di limone. "Ma quanto sei poco americano!" osservò Sarah. Ricordava che aveva ordinato la stessa cosa in Goldstein. "Perché, se è lecito?" chiese Redford sardonico. "Gli americani, in genere, chiedono quintali di cubetti di ghiaccio". "Blocca la digestione". "Sei un salutista?" "Tu no? Si direbbe il contrario". "Mi piace mischiare un po' le cose" disse Sarah. "Per evitare di diventare ossessiva". "Sei ossessiva?" chiese Redford con interesse. "Di natura". "A proposito di cosa?" "Dettagli" disse Sarah sorridendo. "Possiamo iniziare?" Redford si appoggiò allo schienale, guardando Sarah come per dirle che aveva vinto il primo round. "Come funziona?" chiese Strone. "È come un tango" disse Sarah. "Solo che io faccio la parte dell'uomo". "Cioè?" "Io conduco e voi mi seguite". Strone non reagì, segnando un punto a suo favore. "Conduci". Le fece un pigro sorriso, con la testa piegata di lato, studiandola. Ma poi, prima che lei potesse iniziare, alzò una mano per bloccarla. "Sai? C'è una cosa che mi sta facendo impazzire. Giurerei che ti ho già visto da qualche parte". Sarah si sentì arrossire. Strone la stava guardando, e anche Redford. Non era preparata per affrontare questa situazione. Cercò di immaginare il suo viso immerso nei cubetti di ghiaccio. "Davvero?" la sua voce uscì leggera e divertita. "Dove? A me invece sembra di non conoscerti". Lui scosse il capo. "Già. Che io sia dannato se riesco a ricordarmelo". "Sono andata avanti e indietro da New York un sacco di volte" rispose Sarah tranquillamente. "Forse ci siamo incrociati per strada, o forse ci siamo trovati seduti di fianco in aereo". "Già, probabile che sia così". Cawdor fece spallucce, come se non ci pensasse già più, ma Sarah riusciva a cogliere la curiosità negli occhi ta-
glienti. "Allora, continuiamo?" chiese Sarah. I due uomini annuirono. Sarah si voltò verso Redford. Si fermò un attimo prima di parlare, riprendendo il controllo, adottando un atteggiamento professionale. "Devo sapere chi sei, chi sei stato, chi sarai, chi compra i tuoi dischi, quanto paga e dove. Ho bisogno di chiarire le tue cifre, le vendite, le royalty, tutte le deduzioni, fino al punto in cui il denaro arriva a te. Qualcosa ho già visto, ma ho bisogno di spiegazioni approfondite. Dovrò sapere tutto quello che riguarda le tue relazioni professionali, i tuoi contratti, i tuoi conti bancari, i dettagli delle tue proprietà, case, automobili, compartecipazioni in società, perché hai bisogno dei soldi, perché vuoi un'emissione obbligazionaria. Devo sapere cosa pensi di fare nei prossimi dieci anni, professionalmente, e se è rilevante, anche personalmente. Farò delle proiezioni della situazione peggiore, di una soddisfacente e poi lo scenario ideale per l'accordo. Cosa può andare storto, cosa può andare bene e perché. Devo sapere se c'è qualcuno che può fare causa a te o bloccare il tuo catalogo, reclamando di aver scritto o contribuito a scrivere le tue canzoni. Infine, devo essere sicura che non ci sia nessuno, ma proprio nessuno, che possa avanzare qualunque tipo di diritto sulla Redford Inc.". "Cristo". Redford si passò le dita tra i capelli. Sarah si chiese se non avesse un po' esagerato, mescolando le domande dell'esperta di finanza con quelle dell'investigatrice privata. "Dovrai abituarti alle intrusioni" disse pacatamente. "So che non è piacevole, ma non lo sto facendo per divertimento o per curiosità morbosa. Lo sto facendo perché è quello che chiedono gli investitori, e perché la Goldstein ha il dovere di fornire tutte le informazioni necessarie. Se non lo facciamo e se qualcosa va storto, potremmo essere perseguiti legalmente, e per la nostra reputazione sarebbe una tragedia. Scusa se ti sembro pomposa. Voglio solo che tu capisca che non è una faccenda personale". "È personale per me" disse Redford. "Lo so, e cercherò di essere sensibile e discreta". "Sei sicura che questo sia veramente necessario?" chiese Strone. "Non c'è un altro modo, meno intrusivo?" "No, non se vuoi che l'operazione vada a buon fine" replicò Sarah. "Qualunque banca decente chiederebbe le stesse informazioni. Chiunque non lo facesse non sarebbe in grado di gestire questo lavoro e lo porterebbe a un sicuro fallimento. Ricordati che gli investitori chiederanno queste informazioni e le passeranno al setaccio fino a quando saranno convinti e soddi-
sfatti. Credimi, non abbiamo alternative": "Va bene. Non mi piace, ma ci sto" disse Strone. Si girò verso Redford. "Va bene?" "Sì". Poi si girò verso Sarah. "John Redford ha iniziato a scrivere canzoni quando aveva quattordici anni. Sua nonna gli insegnò a suonare il pianoforte: lui cantava e si accompagnava da solo". Sarah si immaginò improvvisamente un ragazzino tutto solo che si sfogava mettendo in musica i propri sogni. "Ah, ma vedo che il lato nostalgico non ti interessa" disse Strone, fraintendendo lo sguardo distante di Sarah. "Passiamo ai numeri, allora. Nell'arco di questi anni, John Redford ha concluso una serie di accordi con varie case discografiche, ottenendo condizioni sempre migliori. Ma, che tu mi creda o no, è difficile per un artista fare soldi nel nostro ambiente". Strone si bloccò. "Mi sembri sorpresa, ma lascia che ti dica dove va il denaro prima che le briciole arrivino all'artista". Si piegò e prese un cd e una calcolatrice dalla sua valigetta. Sbatté il bordo del cd sul tavolo. "Cassandra Wilson. Si dà il caso che a me piaccia il jazz, ma diciamo che è John Redford, e che vende in Inghilterra". Prese la calcolatrice e inserì dei numeri. "Cominciamo con il prezzo che paghi per entrare, diciamo, W.H. Smith, 14,99 sterline. Togli 2,62 di Iva, il che ti lascia con 12,37 sterline" disse rapidamente, facendo i calcoli. Il trenta per cento di questo, cioè circa 3,71 sterline, va a Smith. E ne restano 8,65. Il dieci per cento, cioè 86 pence, va al compositore e al paroliere, fortunatamente lo stesso John in entrambi i casi, lasciando 7,79. Questa è la base per la royalty. John, essendo al massimo della fama, guadagna una royalty del venti per cento, cioè 1,56. Se ci fai caso, salta fuori circa il dieci per cento del costo al dettaglio del cd. Se pensi che arrivi nelle sue tasche, ti sbagli. Facciamo che lui ne venda un milione di copie, guarda che ne vende molte di più, ma usiamo delle cifre semplici. Su un milione di vendite, abbiamo una royalty totale di, diciamo, un milione e mezzo di sterline che vanno a John. Con questo dobbiamo anche coprire i cd omaggio, quelli che la casa discografica regala per promuovere l'album. Parte di questo se ne va per quella strada, ma il resto è fondamentalmente un'altra trattenuta che l'artista deve pagare. Parliamo del quindici per cento, o 234.000 sterline, che lasciano a John 1.326.000. Poi c'è un'altra deduzione per la casa discografica. Questa è chiamata riserva, che dovrebbe cautelarli se hanno fatto dei conti sbagliati e hanno dato alla
rockstar più di quello che gli dovevano. Questa riserva si prende un altro venti per cento, diciamo 265.200, lasciando al nostro John 1.060.800, più le royalty per i testi, 860.000. Siamo a un totale di 1.920.800 di sterline. "Passiamo agli altri problemi: il suo agente si prende il cinque per cento, cioè 96.040 sterline, lasciandogli 1.824.760. Io mi prendo, come suo manager e business manager, il dieci per cento, cioè 182.476 e a lui restano 1.642.284 di sterline. Adesso torniamo alla casa discografica, che si prende il cento per cento dei costi di registrazione, più o meno 200.000, e il cinquanta per cento dei costi per la produzione del video, 50.000. Avvocati, commercialisti, e altri costi d'esercizio si portano via 200.000. Tutto questo lascia John Redford, la superstar, con la bellezza di 1.192.284 nette, su un lordo di 14.990.000 di sterline". Sarah fece un lungo sospiro. "No, scusa, fammi capire. Un milione di copie, per quasi quindici milioni di sterline in totale, e a John rimangono..." Prese la sua calcolatrice e fece i conti. "... 1.192.284 di sterline, che ammontano solo al 7,9 per cento. Ma è vergognoso!" Strone sorrise. "Aspetta, non abbiamo ancora parlato di tasse. Oltretutto, devi tenere presente che è inusuale che un artista scriva testi e musica. Senza queste royalty, la percentuale del guadagno per il totale dei cd sarebbe intorno al cinque per cento". "La rockstar povera in canna" disse Sarah ironicamente. "È più comune di quello che pensi" disse Strone. "Ovviamente, John vende in tutto il mondo. Solo in Inghilterra, il suo volume di vendite è di un milione, quindi anche se le percentuali sono basse, vengono compensate dal volume delle vendite". Sarah annuì. "Suppongo che con il tour guadagni un mare di soldi". "Adesso sì" replicò Strone. "Lo sponsor principale è la Coca Cola il che significa che sostiene tutti i costi, e questo fa la differenza. Quando finiremo il tour, possiamo calcolare che tre milioni e quattrocentomila persone saranno venute a vedere cinquantanove concerti di Redford. Con una media di quaranta sterline a biglietto, arriviamo a centotrentasei milioni di sterline lordi. Da questo punto, partiamo con le deduzioni". Strone sciorinò tutti i punti a memoria. "Come ti organizzi per il lato amministrativo?" chiese Sarah. "Tutte le ricevute arrivano alle diverse sussidiarie, tutte gestite da un'unica holding?" "Certo, diverse aziende per diverse giurisdizioni finanziarie". "Mi puoi fare avere le copie delle informazioni di supporto, le fonti di
quelle cifre che mi hai citato, per spedirle alla Goldstein di Londra?" "E cosa ci faranno?" "Le useranno come punto di riferimento per scrivere il nostro libro interno con tutti i dettagli dei dati finanziari, e serviranno a formare le basi per le proiezioni future". Strone sembrava a disagio. "Hai qualche problema?" "Ci sono quaranta sussidiarie". "Siamo abituati alle montagne di carta" disse Sarah allegramente. "Se tu potessi trovare qualcuno in grado di fornirmi tutti i dettagli delle informazioni che mi hai dato, dati di vendita, royalty e così via, potrei cominciare a giocherellare con la strutturazione". "La fai tu 'sta roba?" "Cosa pensi che faccia, io?" "Domande difficili". "Anche. Questo è il primo stadio. Il secondo è la riclassificazione". "Pensavo che lo facessero i maghi della finanza" disse Strone. Sarah rise. "È così che sono chiamati, no?" chiese il manager. "È così che li chiamano" replicò Sarah. "Allora, sei tu che lo fai?" "Già". "Non giudicarmi male" disse Redford. "Sono solo terribilmente curioso. Come hai fatto a entrare in tutto questo? Che qualifica hai?" "Un Phd ottenuto a Cambridge in matematica pura; otto anni nella City. Ti basta?" "Non mi sembri un matematico" disse Strone. "Cristo" disse Sarah. "E pensare che ero convinta che la City fosse sessista. Diciamo che le cellule del mio cervello mi fanno ragionare da matematica, e questo è quello che conta". Redford guardava Strone. "Cosa pensate che sia venuta a fare?" chiese Sarah. "Pensate che io sia una pivellina innocente con gli occhi sgranati venuta qui per fare un po' di pubbliche relazioni? Di potermi sbattere in faccia una bella suite, darmi un pass per il backstage e un paio di cene decenti perché io me torni a casa dicendo 'Ehi, ragazzi, mi sono divertita un casino, dobbiamo proprio fare questo accordo?' Ragazzi miei, mi dispiace, ma nella City non funziona esattamente così, e soprattutto non funziona così con me". Sarah si alzò in
piedi. Anche Redford si alzò. "Ehi, calmati. Non ti sembra di reagire in modo spropositato?" "Sei così abituato a scopare con delle groupie da non poter concepire l'idea di una donna con un cervello?" chiese Sarah gelidamente. Redford la guardò furioso. "È il solito stereotipo di merda". "Esattamente" disse Sarah. "E guarda un po' come piacciono anche a te gli stereotipi". Si incamminò verso la porta. "Ho visto abbastanza merda, oggi. Datemi le vostre cazzo di cifre, se volete farmi il favore, fatemi avere le vostre sciocche rassegne stampa, le vostre agiografie e tutto il materiale inutile, e magari domani riusciremo anche a fare qualcosa di utile". Di ritorno nella sua suite, Sarah si maledì per l'ennesima volta. Si buttò pesantemente sul letto, tenendosi la testa con le mani. Ma come cazzo faceva a perdere la testa così facilmente? Il suo autocontrollo era completamente sparito, lasciandola nuda e senza difese. Dov'era nascosto il suo sangue freddo da giocatrice di poker? Si alzò e arrancò verso il bagno, dove si spruzzò abbondantemente il viso di acqua gelida, poi tornò a letto, si avvolse nelle coperte e telefonò a Jacob. "Come va?" "Ciao, tesoro. Va tutto bene, davvero. Il piccolino sente la tua mancanza, continua a cercarti, ma cerco di farlo divertire. Per ora tutto a posto". "Mi manca tanto. Sto da cani" disse lei. "Abbraccialo forte forte e dagli un bacio per me, va bene?" "Va bene. Dorme come un angioletto, saresti felice di vederlo". "Oh, bene, beato lui". "Dimmi, ora: come va, lì da te?" "Orrendamente. Voglio tornare a casa". "Oh, tesoro". "Ho appena fatto una litigata pazzesca con il cliente. Lo so che dovrei controllarmi, ma non ce la faccio". "Mi sembra che tu stia cercando una scusa per tornartene a casa". "È così". "Ascolta, non sei obbligata a restare. Puoi venir via quando vuoi, lo sai". "Certo, in teoria". "In pratica. Vuoi che estraiamo a sorte?" Sarah ridacchiò. Jacob riusciva sempre a tirarla su di morale. "Stai scherzando!" "Mai stato così serio. Ho una sterlina in mano. Testa, resti, taci e cerchi
di fare buon viso a cattiva sorte. Croce, parti. Occhio che sto per tirare". "Come faccio a fidarmi?" Jacob ridacchiò. "Pronta?" "Come sempre". Sarah sentì che Jacob appoggiava la cornetta da qualche parte, poi una moneta rotolò su una superficie dura. "Testa". Annunciò Jacob tristemente. "Resta lì". Sarah sentì bussare alla porta. "Aspetta un secondo, Jacob". Si tirò su a fatica dal letto e andò seccata alla porta. John Redford stava sulla soglia. "Disturbo?" Sarah si guardò intorno. "Entra" gli disse. Sollevò la cornetta in salotto. "Scusa Jacob, devo andare. La prossima volta lancio io". Riagganciò e rimase in piedi dietro al divano, osservando Redford con occhio critico. "Lanci tu?" chiese Redford. "Una moneta". "Per cosa?" "Per decidere se restare o partire" rispose con nonchalance. "Restare qui?" "Certo". "Prendi sempre decisioni a seconda di come cade una moneta?" "Sempre. Sono una giocatrice. Non prenderlo come un fatto personale". "Porca puttana, Sarah, certo che lo prendo come un fatto personale. Per me non è un gioco". "Bene, cerca di rassegnarti". Redford ficcò le mani in tasca. Attraversò la stanza, guardando il tappeto. "Qual è il tuo problema?" Sarah alzò le sopracciglia come un'attrice consumata. "Da dove vuoi che cominci?" "Allora, te ne vai?" "No, resto, in effetti. Devo vederti domani al concerto". "Guarda, non devi venire per farmi un cazzo di favore, chiaro?" "Non ho nessuna intenzione di fartene". Redford si fermò e respirò profondamente, cercando di trattenere la rabbia. "Quello che ero venuto a dirti era: proviamo a ripartire dall'inizio. Usciresti a cena con me, stasera?"
Capitolo 27 La Range Rover nera di Redford li portò da qualche parte nell'Upper West Side; Sarah era troppo frastornata per capire dove. Quando entrarono assieme nel ristorante, Sarah si sentiva nervosa, temendo un'altra scena come quella della mattina. All'inizio non fece caso alla reazione dei presenti. Perfino le voci dei più blasonati newyorkesi si bloccarono, i visi si girarono, decine di occhi li seguirono come radar. Cercavano di darsi un contegno, ma l'invidia colpiva Sarah come un missile. Presero posto su un divanetto in fondo alla stanza. Potevano guardarsi intorno, ma erano ragionevolmente nascosti dalla folla di curiosi da una composizione di piante. "Cristo" sussurrò Sarah. "Ma ti succede sempre?" Redford annuì. "Come fai a sopportarlo?" "Non lo sopporto, ma è così. È più difficile da sopportare per quelli che stanno con me". Sarah scosse la testa. "Se gli sguardi potessero uccidere, sarei già morta e sepolta. Non avrei mai creduto di poter essere oggetto di tanta invidia". "Ti piace?" "Cosa? Ma sei matto? Lo detesto". "Certe donne lo adorano". "Io non sono certe donne. Non te la prendere, ma la gloria riflessa non è il mio stile". Redford scoppiò a ridere. "Ne sono felice. Vorrei solo che ci fossero più donne che la pensano come te". In quel momento, una donna si avvicinò sculettando, facendo scivolare con ostentazione un biglietto da visita sul loro tavolo. Redford lo ignorò. Sarah lo raccolse e lesse a voce alta il messaggio che c'era scritto sopra. "Chiamami per la scopata del secolo". "Cosa???" Redford lo strappò e lo buttò nel posacenere. "Ti capita spesso?" chiese lei. "Non puoi neanche immaginare". "Allora puoi capire come le donne a volte si sentono". "Una splendida donna, forse, con più proposte di quante ne potrebbe gestire nell'arco di cento vite".
"È così, per te?" chiese Sarah. "Per te non è così?" "Non proprio". Giocherellò con l'orologio, mettendosi in guardia. "Non ti offendere" disse Redford teneramente. "È solo che tu sei una delle donne più belle che abbia conosciuto in vita mia. Penso che tu venga abbordata almeno dieci volte al giorno, quando cammini per la strada". Sarah lo guardò incredula. "Ho un mucchio di chili di troppo, non dormo bene, ho delle schifosissime occhiaie scure sotto gli occhi e la mia pelle ha l'aspetto della carta d'alluminio di seconda mano". Le luci erano soffuse, una candela tremolava sul loro tavolo. La pelle di Sarah aveva il colore delle pesche e della crema. I suoi occhi da gatta splendevano, la curva degli zigomi e le labbra carnose le donavano una voluttuosità che minacciava di esplodere da un momento all'altro. Indossava ancora i calzoni neri, il cardigan e gli anfibi da uomo Lobbs. I capelli arruffati le scendevano sulle spalle. Profumava di guai e di tuberosa. "Ci dev'essere qualcosa che non va nel tuo specchio" disse Redford con tenerezza. Sarah sorrise. "A proposito di specchi, devo andare in bagno". Passò attraverso il ristorante, attirandosi addosso molti più sguardi di quelli a cui era abituata. La toilette delle signore era arredata come un boudoir, con ampi specchi dorati lavorati a stucco e una chaise longue di velluto rosso, sulla quale una bionda anoressica stava sdraiata su un fianco, discutendo al cellulare con un'amica che probabilmente si trovava nella stessa posizione. "Voglio dire, non dovrei? si lagnava la bionda. "Insomma, dai, è il secondo appuntamento, dopo tutto". Ma ti meriti davvero una medaglia, pensò Sarah, entrando in bagno. Quando uscì, la bionda se n'era andata, senza dubbio decisa a passare una notte di passione. La porta venne aperta con violenza. Per qualche ragione, Sarah sobbalzò. Vide entrare una donna alta, provocante, con capelli rossi lunghi fino ai fianchi. Apparentemente era sui trent'anni, un'adolescente semplicemente carina maturata in una bellezza dagli spigoli taglienti. I suoi occhi si illuminarono quando vide Sarah. Sarah la guardò, aspettando che lei si girasse, ma l'altra continuava a fissarla. La oltrepassò velocemente, colpendo la borsetta di Sarah che era appoggiata sul lavandino. Si chinò immediatamente a raccoglierla e si girò lentamente verso Sarah,
tenendo la borsa tra le braccia. "Che goffa sono!" disse, con un sorriso sicuro e falso. Sarah riprese la borsa in silenzio, sbalordita dall'animosità che proveniva dall'estranea. Sembrava quasi che la stesse sfidando. Lascia perdere, pensò. Non ne vale la pena. "Ma perché Cristo vieni fuori, se devi attirare tutta questa attenzione?" chiese a Redford, cercando di scacciare la rossa dalla mente. "Dovrei cenare in camera per tutto il resto della mia vita? Pensavo che tu avessi voglia di uscire in una sorta di territorio neutrale, dove avremmo potuto parlare come due persone normali. Non come una rockstar e una trader". "Mi suona bene" replicò Sarah, deliziata dall'idea. "Cosa prendi da bere?" "Del vino rosso andrebbe benissimo". Redford si studiò la lista. Suggerì un St Julien del 1983. "Ti piace il Borgogna?" "Lo adoro, e questo in particolare". Grazie all'istruzione ricevuta da Jacob e alla notevole pratica accumulata negli anni, Sarah sapeva che quel vino era strepitoso. Il cameriere portò la bottiglia, la stappò e iniziò il rituale dell'assaggio. Quando sparì, Sarah e Redford lo sorseggiarono per un po' in silenzio, per riprendere il controllo della situazione. "Mi dispiace per oggi" disse Redford. "Perché è successo?" chiese Sarah. Redford sembrava sconcertato. "Strone è stato uno stronzo a venire nella tua camera, comportandosi come se fosse sua, ma per quanto riguarda il resto non sono d'accordo. Credo che tu sia un po' troppo sensibile". "Certo che sono maledettamente sensibile, ma questo non vi giustifica di sicuro. Non potete parlare alla gente in quel modo". "Ci siamo davvero comportati tanto male?" "No, forse no" disse Sarah. "Ma quello che mi ha scocciato è il principio. Entrambi avete agito come se foste autorizzati a dire esattamente quello che vi passa per la testa, senza considerare i sentimenti degli altri. Stavo cercando di dirvi che non sopporterò sicuramente due settimane di questo trattamento". Redford annuì pensieroso. "Ascolta, non c'è niente di profondo o misterioso in questo" disse Sarah, sconcertata.
Redford sembrò sopraffatto da una profonda stanchezza. "Cosa c'è che non va?" chiese Sarah. "Cos'ho detto?" Redford le fece un debole sorriso. "Qualcosa che nessuno mi dice da un sacco di tempo". "Cioè?" "Cioè nessuno mi parla mai chiaramente, nessuno mi dice quando devo piantarla, perché tutti da me vogliono qualcosa. Accettano tutto perché vogliono prendersi quello che interessa loro. Così, per fartela pagare, prendono tutto quello che possono. Tu, da parte tua, li tratti sempre peggio, perché tanto sai che loro ti sfruttano, ti prendono per il culo e comunque sai che è normale che sia così, e che tutte le relazioni debbano finire così. Inizi a dimenticare com'è la vita vera". "Gli altri devono parlarti come faccio io". "Vorrei che lo facessero. Tu sei una terribile rompicoglioni, ma se non altro sei una rompicoglioni utile e molto carina". Sarah scoppiò a ridere. "Come fai a essere così?" "Boh? Forse è come dici tu. Io non voglio niente da te". "Proprio niente?" chiese Redford molto lentamente, con dolcezza. "Cosa potrei volere?" domandò Sarah, diffidente, ma al contempo eccitata. "Caspita, non lo so. Gioielli, denaro, un appartamento, un contratto per registrare un disco, il mio scalpo". Sarah ridacchiò. "I gioielli li ho già, voglio dire gioielli che per me hanno un significato. Senza quello, è solo carbonio cristallizzato. Ho una casa splendida, ho denaro abbastanza per vivere bene, ma non tanto da non avere più uno scopo nella vita. Non canterei nemmeno se servisse a salvarmi la vita, per cui un contratto per incidere un disco sarebbe oltremodo bizzarro e, per quanto riguarda il tuo scalpo..." "Sì?" "Non scherzarci troppo su. Mia madre, ti devo avvisare, aveva un po' di sangue indiano. Era per un quinto una Cheyenne". "Mi prendi in giro?" "È la verità". Redford la stava guardando, il capo piegato da una parte. "Adesso capisco: il tuo colorito, gli zigomi alti, questi capelli lunghi e splendenti... Mmm. Farei meglio a stare attento, no?" Sarah tacque.
"Come mai si trasferì in Inghilterra?" "Non ci andò. Era americana". "Di dove?" "New Orleans". "Quella sì che è una grande città". "Già". "Hai vissuto là?" "Fino agli otto anni". "E poi?" "Mi sono trasferita a Londra". Redford sembrò stupito. "Da sola?" "Con mio fratello". "E tua madre? Tuo padre?" Sarah guardò nel bicchiere del vino. "Erano morti". "Oh, Sarah, mi dispiace". Bevve un sorso d'acqua. "Come?" "Incidente d'auto". Diventò pallido, come se avesse visto un fantasma. "Cosa c'è?" chiese Sarah allarmata. Non le sembrava possibile che il suo dolore potesse coinvolgerlo tanto. "Mia madre è morta in un incidente automobilistico. Quando avevo dodici anni". "Oh, John". "Anche mio padre è morto. È sopravvissuto tirando avanti stancamente per quattro anni, e poi si è ammazzato con il fucile per le lepri selvatiche". Sarah gli strinse la mano. Lui la guardò. Il dolore che vedeva nei suoi occhi la fece stare male, uno specchio del suo stesso tormento. Per un po' nessuno dei due ebbe il coraggio di parlare. Capitolo 28 Dick Breden si sedette di fronte a Savage e Zamaroh. Aveva un aspetto trionfante. "Forza, dicci tutto" lo esortò Savage, con un interesse che traspariva attraverso la sua solita aria annoiata. "Droga" disse Breden. "Cocaina. Ha passato tre mesi in una clinica di disintossicazione in Arizona, tre anni fa". "E allora?" lo interrogò Savage.
"C'era dentro fino al collo, sembra". "Non voglio demoralizzarti, Dick, e nemmeno voglio prendere con leggerezza i tuoi sforzi, ma sarei stato sorpreso se non fosse passato attraverso eccessi di droga o di alcool o di qualcos'altro. Cristo Santo, è una rockstar, in fin dei conti". "Una rockstar con un'abitudine che probabilmente lo ha reso instabile. La maggior parte dei tossicodipendenti quando si disintossica deve abbandonare anche l'alcool, ma lui beve ancora. A questo punto, mi viene da mettere un bel punto di domanda". "Aveva un vizio" disse Zamaroh. "E probabilmente riesce a gestire perfettamente l'alcool senza ricadere nella droga. Inoltre, nella peggiore delle ipotesi, la maggior parte dei drogati può dare ottime prestazioni, ammesso che riesca a procurarsi la dose". Savage si girò. "Non abbiamo qualche cocainomane in sala contrattazioni, vero?" Zamaroh lo studiò a lungo, incapace di nascondere la sua incredulità. "Certo che non ne abbiamo". "Sarà davvero meglio che non ce ne siano e che non ce ne siano mai stati. Me li immagino, arroccati in una posizione che ritengono invincibile, vivere nel loro mondo immaginario". "Non c'è un posto così, da noi, James, lo sai. Ogni giorno da noi è il Giorno del Giudizio Universale". Savage sorrise. "E tu sei Dio. Lo so". Si girò verso Breden. "Non sarebbe diventato di dominio pubblico se John Redford fosse stato cocainomane? Per una rockstar è praticamente obbligatorio". "C'erano sospetti, pettegolezzi. Ho avuto la conferma". "E adesso?" "Non ho trovato prove che stia assumendo droghe". "E i sospetti, i pettegolezzi?" "Dicono che è pulito". "Bene" disse Savage. "Finora. Niente sulla talpa?" Breden scosse il capo. "Un sacco di materiale, ma niente degno di nota". "Forse si è stancato" disse Zamaroh. "Nel qual caso, forse, potete rimuovere le telecamere e i dispositivi di registrazione sonora nel mio ufficio. Non posso tollerare oltre una violazione così imponente della mia privacy". Breden si girò verso Savage. "Cosa dici, smettiamo?" Savage scosse la testa. "Non se ne parla nemmeno. No, fino a quando
non troviamo quel bastardo. Abbiamo perso quattro contratti che valevano oltre quindici milioni di sterline grazie allo stronzo. Deve pagarla cara". Guardò Zamaroh. "Perdonami, Zaha, lo spettacolo continua". Zamaroh sospirò rabbiosamente. "Forse le potremmo mettere nel tuo ufficio, così capiresti cosa si prova". "Non è necessario" tagliò corto Savage bruscamente. "E si può sapere perché?" chiese Zamaroh, alzando la testa, interessata alla giustificazione di Savage. "Perché sì. Ho detto che è così e basta. La gente non viene a zonzo nel mio ufficio come fa nel tuo". Savage si girò verso Breden. "C'è altro?" Breden si guardò le mani. "Ho trovato qualcos'altro, dal controllo del passato di Redford". "Spara". "Sua madre è morta in un incidente automobilistico quando aveva dodici anni. Suo padre si è suicidato quattro anni più tardi. Si è fatto saltare le cervella. È stato Redford a trovarlo". "Cristo". Zamaroh aveva un'aria sconvolta. Savage le lanciò un'occhiata sorprendentemente compassionevole. "Tutto bene, Zaha?" Lei aspettò qualche istante a rispondere, e replicò con una voce quieta, dignitosa. "Sto bene, grazie". Si alzò e uscì. Savage e Breden la guardarono. "Cosa le è successo?" chiese Breden incredulo. Era la prima volta che Zaha mostrava una parvenza di vulnerabilità. "Gli ayatollah hanno impiccato suo padre" rispose Savage. Zamaroh tornò dieci minuti dopo. "Cosa mi sono persa?" chiese. La voce era stridula, ma il rossore era sparito. "Stavamo discutendo se questi sono problemi che ci riguardano. Cosa ne pensi?" "Penso di no" rispose tranquillamente. "Il ragazzo ha avuto un problema di tossicodipendenza, ora è a posto. Meglio per lui. È passato attraverso un trauma di tipo personale ed è riuscito ad arrivare al top della sua professione. È un esperto di sopravvivenza ed è diventato una star. No, non ne farei un problema. Voi?" "Sarà interessante vedere con cosa torna a casa Sarah Jensen" disse Savage. Vide, con piacere, lo sguardo di competizione negli occhi di Breden. "Con un bel niente" disse Zamaroh con scarsa considerazione. "Questo accordo lo vuoi, no?" osservò Savage.
"Come te. Siamo corsi dietro a un affare del genere per anni". "Io lo voglio" disse Savage. "Ma non a qualunque prezzo". "Non ti preoccupare. Manterrò un prezzo facile da pagare" reagì Zamaroh. "La Goldstein non insabbierà informazioni, per quanto sgradevoli possano essere" disse Savage. "Tornano sempre indietro a morsicarti le chiappe". È così? si chiese Zamaroh insicura, pensando alla sua esperienza. Viveva sotto una spada di Damocle. E Sarah Jensen poteva arrivare in qualunque momento, con il suo scrutinio gelido, e troncare il filo. Anche se non l'avrebbe ammesso di fronte a nessun essere vivente, e tantomeno con se stessa, Zaha viveva nel terrore della Jensen. Aveva disperatamente bisogno di qualcosa su Sarah per tenere in equilibrio i piatti della bilancia, per avere un margine di trattativa. Capitolo 29 Sarah si svegliò tardi, con la sensazione di aver avuto un incubo. Non ricordava niente, ma gli echi di qualcosa di sgradevole si facevano ancora sentire. Restò un po' a letto, tornando con la mente alla sera prima. Era sconvolta dalla storia di Redford, per lui e perché questo li univa ancora di più. Si costrinse a uscire dal letto con un grugnito. Aveva ovviamente saltato la poppata notturna e quella mattina i suoi seni erano duri come la pietra e ingorgati. Fisicamente si sentiva esplodere e mentalmente le sembrava di scoppiare di nostalgia. Pensò al suo piccolino, si chiese come avesse passato la notte e cosa stesse facendo in quel momento. Scrollò la testa e cercò di non pensarci più. Fece una lunga doccia, si vestì e si concentrò sugli affari. Telefonò a Strone alle dieci. Sembrava distratto. "Quando ci vediamo?" chiese Sarah. "Oggi sicuramente no, scusami". "Oh" si meravigliò Sarah. "Perché?" "È il giorno del concerto, Sarah. Hai idea di ciò che comporta?" "Proprio nessuna. Ma mi piacerebbe scoprirlo" disse con sincero entusiasmo. "Potrei seguirti come un'ombra per tutto il giorno. Ti giuro che farò la brava. Non ti accorgerai nemmeno della mia esistenza". Strone scoppiò a ridere. "Sì, proprio. Per la maggior parte della giornata ho un sacco di cose da sbrigare che non posso dividere con nessuno, ma forse potremmo vederci al Beacon, guardare il palco e la sua installazione,
il sound check e tutto il resto. Ti passo a prendere alle sei. Come ti suona?" "Come un accordo preso". Sarah riagganciò e si guardò intorno, ancora alla deriva senza niente da fare. Doveva uscire, decise, farsi un brunch nel Village, dimenticare il lavoro per un po'. Prese la borsetta e cercò il portafogli per prendere un po' di contanti da infilarsi in tasca. Il portafogli non c'era più. Porca puttana, dove l'aveva lasciato? Si guardò intorno nella suite. Cercò di ricordarsi quando era stata l'ultima volta che l'aveva visto. La notte precedente, al ristorante, l'aveva. Aveva portato con sé i contanti nel caso in cui avesse deciso di mollare Redford. Devi sempre avere il denaro per la fuga. Osservò nervosamente la stanza. Niente portafogli. Niente soldi, niente carte di credito, niente patente. Merda. Dove cazzo era? Dopo un'ora di ricerca frenetica, i suoi vestiti erano sparsi dappertutto e non c'erano più dubbi che il portafogli fosse sparito. Sentì un impulso rabbioso di ammazzare con le sue stesse mani quello che glielo aveva rubato. Poteva essere stata una cameriera? No, ogni volta che aveva lasciato la stanza aveva preso con sé la borsetta. La donna che aveva portato la colazione mentre lei era nell'altra stanza? Possibile, ma molto improbabile. Poi ci arrivò di colpo. La troia nel ristorante, la testa di cazzo rossa che aveva dato un colpo alla sua borsa. Si era piegata per raccoglierla dando le spalle a Sarah. Era stato facile, per lei, sfilare il portafogli e metterselo in tasca prima di girarsi e ridarle la borsa. "Che goffa sono!" e quello sguardo strano. Che stronza! Sarah cercò di calmarsi. Non avevano attentato alla sua incolumità, si erano solo appropriati di qualcosa di suo. Ma la calma non arrivava. Il suo portafogli era troppo personale, il suo rapporto con il denaro ancora troppo precario per fregarsene della perdita. Si sentì sola, privata del suo potere, della sua indipendenza. Odiava sentirsi così. Avrebbe dovuto chiamare la banca, farsi spedire dell' altro denaro. Si rammentò della sua infantile insistenza a pagarsi da sola la suite. Oh Cristo! Le fotografie di Georgie, c'erano anche quelle nel portafogli. Senza di esse si sentiva nuda e assolutamente disperata, come se suo figlio le fosse stato strappato. Le lacrime le bruciarono gli occhi. Se li strofinò rabbiosamente. Adesso la troia aveva le sue foto. Georgie tra le sue braccia, Georgie che faceva il bagnetto, Georgie nei suoi primi attimi di vita in ospedale. Quelle immagini erano parte della sua vita. Che un estraneo potesse guardarle le sembrava un atto di inaudita violenza. Si impose di respirare lentamente e regolarmente. Focalizzati sul tuo
senso pratico. Si svuotò le tasche, prese il denaro che teneva da parte per le mance. Accumulò ben venticinque dollari, abbastanza per un pasto frugale. Di colpo scoppiò in un riso isterico: alla deriva, in un hotel a cinque stelle, sotto l'ala protettiva di uno degli uomini più ricchi del mondo. Soldi, soldi tutt'intorno a lei... Telefonò all'operatore e chiese i numeri della Visa e dell'American Express. Chiamò avvisando del furto, riagganciò e uscì. Capitolo 30 Alle sei e mezza Sarah e Strone arrivarono al Beacon Theatre sull'Upper West Side. Un poster di Redford, un ritratto in bianco e nero con uno sguardo enigmatico, li scrutò mentre entravano nell'edificio. Strone fece un cenno a un uomo vestito di nero dallo sguardo tagliente, munito di un piccolissimo microfono e un auricolare. "Tutto bene?" "Sì. Nessuno stronzo". "Perfetto". Strone se ne andò. Sarah rallentò e si guardò intorno. Il Beacon era un paradiso del rococò, pieno di arabeschi, dorature, con un affresco di un'utopia neoclassica, una balaustra e una vetrata a mosaico più imponente di quelle delle cattedrali. Strone si stava allontanando. Sarah aumentò il passo per raggiungerlo mentre entrava nel backstage. L'aria odorava di cibo fritto e birra. Circa quaranta persone si muovevano avanti e indietro sul palcoscenico, lavorando attorno a una serie di cavi e scatole elettriche, svolgendo operazioni misteriose, in alcuni casi quasi invisibili, ma indubbiamente essenziali. Indossavano jeans e calzoni militari, avevano i capelli lunghi, code di cavallo, stivaloni pesanti. Uomini e donne erano vestiti allo stesso modo. Alcuni erano dotati di cuffie con piccoli microfoni nei quali sussurravano costantemente, come se stessero conversando con l'amante. All'apparire di Strone, l'attività divenne frenetica. Strone sembrava un centurione che guardava le sue falangi prepararsi per la battaglia. Tutti gli si avvicinavano e gli parlavano in fretta. "Questa è la messa a punto dell'impianto". Strone spiegò a Sarah. "Lo spettacolo di stanotte si avvarrà di una miniatura del set normale degli spettacoli di Redford. Ha tenuto cinque show al Madison Square Garden nelle ultime due settimane. Ventimila spettatori ogni volta. Quello di stanotte sarà l'addio a New York per questo tour. Sarà una cosa intima, duemila persone e basta. È..." Strone si interruppe. Sarah vide arrivare una donna con capelli lunghi
biondi e stivaloni neri alti che si avvicinava a loro con determinazione. "Ciao, Zena" disse stancamente Strone. "Non mi dire ciao, Zena. Non devi neanche rivolgermi la parola". Strone le voltò le spalle. "Va bene, va bene, non ti parlerò". "Aspetta, deficiente fuori di testa". La donna calò la mano sulla spalla di Strone. Sarah si aspettava che lui reagisse con violenza, lei lo avrebbe fatto, ma il manager, invece, sospirò, spostando gentilmente la mano e si girò per affrontare la polemica. "Mi avevi promesso che Ray avrebbe avuto un aumento già da tre settimane, e cosa c'è in più nella sua busta paga? Unbelcazzodiniente, ecco cosa c'è. Tu lo sai che suona il basso come un angelo. È lui che tiene su lo spettacolo. Jake ha avuto un aumento e sa a malapena strimpellare". Strone si intromise nella raffica di parole. "Zena, Zena. Nessuno mette in dubbio la bravura di Ray. Lo sappiamo tutti che è un genio. Ecco perché ha l'onore di suonare per un genio". Zena aprì la bocca e guardò Strone come se volesse cavargli gli occhi. Il manager alzò la mano in segno di pace. "Ora calmati. Faccio quello che posso. Ho tanti di quei casini che tu non puoi nemmeno immaginare. Io..." "Oh, non prendermi in giro! Tu fai sempre quel cazzo che vuoi, il potere ce l'hai tu, caro Strone". La sua voce trasudava sarcasmo. "Sei l'Onnipotente, lo sappiamo tutti". La voce di Strone si alzò di un'ottava. "Stai oltrepassando il limite. Sono impegnato. Per cortesia, vattene". Sarah guardava con interesse. Zena non era il tipo da farsi cacciar via tanto facilmente. "Non provare a minacciarmi". "Lo sapresti subito se io ti minacciassi. Sei solo una piccola e triste groupie che ha fatto fortuna. Adesso sparisci e vai a fare quello che ti riesce meglio. Piantala di rompermi i coglioni". Gli occhi della bionda si riempirono di lacrime di rabbia. "Sei un bastardo!" sbraitò a Strone, prima di girarsi sui tacchi alti e scappar via. Sarah si guardò intorno. Qualcuno dei roadie si era fermato per assistere alla scena. Strone li guardò e loro ricominciarono a darsi da fare. "Stupida troietta" disse Strone. "Se potessi evitare i contatti con i dipendenti starei meglio". "Succede spesso?" chiese Sarah, che stava ancora riprendendosi dalla cattiveria dello scambio di battute. "Tutte le volte. Non ci crederesti. Jake, il chitarrista, ha ottenuto un au-
mento. Da bravo idiota qual è, se n'è andato in giro a vantarsene. Adesso lo vuole anche Ray, e, se glielo concedo, tutti gli altri musicisti e le loro groupie correranno qui a rompermi i coglioni". "Non sembri avere un'alta opinione della gente che lavora qui" osservò Sarah. Strone la studiò un attimo. "Per la maggior parte, sono o stronzi o bastardi". "E tu cosa sei?" Un uomo snello sui quarant'anni, completamente calvo, prese in disparte Strone prima che potesse risponderle. Sarah si chiese chi fosse. Strone tornò dopo qualche minuto, bianco in faccia. "Cosa è successo?" chiese Sarah casualmente. "Eh?" Strone si mantenne sul vago. "Scusami un secondo, tesoro. Vado a pisciare'". Elegante ed eloquente, pensò lei, guardando la figura in jeans che si allontanava. Fermò con un largo sorriso una roadie che stava passando di lì. "Scusami un secondo, ma chi è quel signore?" indicò l'uomo calvo. La roadie la guardò stupita, come se Sarah provenisse da un altro pianeta. "Jim O'Cleary. Il capo del servizio sicurezza". Sarah piegò la testa, simulando sorpresa. "Buffo. Avrei giurato di conoscerlo". A quel punto, la roadie le lanciò un'occhiata circospetta e curiosa prima di allontanarsi in tutta fretta. Sarah si chiese la ragione per cui le sue parole avevano provocato una tale reazione. Bighellonò un po' in giro, con le mani in tasca, cercando di guardarsi intorno con sicurezza, come se anche lei appartenesse a quel mondo. Guidata dai crampi allo stomaco, prese il menu del catering e, in mancanza di meglio, ordinò un hot dog. Si appoggiò a una grande colonna di metallo e iniziò a mangiare. "E tu chi sei?" chiese una voce amichevole. Sarah si girò, con la bocca piena, e studiò l'estraneo. Era un uomo sui quarant'anni, con lunghi capelli ondulati e occhi marroni sorridenti. Sarah inghiottì il boccone. "Chi sei tu" replicò. L'uomo sembrò per un attimo sconcertato, poi ricominciò a sorridere. "Sono Ray Waters". "Ah". Sarah capì al volo. "Il bassista di John Redford". "L'unico e il solo. E tu sei la sua ultima troietta". Il tono era ancora amichevole, e Sarah sperò di avere capito male.
"Scusa?" "Troietta. Tro-iet-ta". "Oddio" disse Sarah, fermandosi a guardare Waters dalla testa ai piedi. "Sei sorprendentemente istruito per essere una testa di cazzo!" Strone riapparve silenziosamente alle spalle di Sarah. "Vedo che stai già facendoti delle amicizie". Sarah fece un salto e si girò con rabbia verso Strone. "Non farlo mai più. A momenti mi fai venire un attacco di cuore". "È il suo stile" disse Ray sempre in tono estremamente amichevole. "Si chiama in-ti-mi-da-zio-ne. Lo fa sentire importante". Si girò verso Strone. "Zena mi ha detto del vostro incontro. Non mi piace che tu offenda la mia donna". "Forse anche tu dovresti stare attento a quello che dici" disse Sarah, nello stesso tono benevolo e falso di Ray. "E che gusto ci sarebbe, troietta?" sogghignò, e se ne andò. "A volte certe persone sembrano essere idiote e bastarde allo stesso tempo, in questo ambiente" commentò Sarah. Strone le lanciò uno sguardo di compatimento. "Ignoralo. Adora provocare". "È così che mi giudicano, la troietta di John Redford?" chiese Sarah, incredula. "Pensaci" disse Strane. "Dividete lo stesso hotel, sei sullo stesso piano dello stesso hotel. E per quello che ne sanno loro non hai altre ragioni di essere lì. Voglio dire, non è che noi abbiamo annunciato al mondo che sei un agente che sta controllando i suoi bilanci. E, per favore, non ti offendere, ma comunque non incarni esattamente l'idea che questa gente ha di un agente di Borsa. Visto che l'accordo è da tenere assolutamente riservato, fare finta di essere la troietta mi sembra un' ottima copertura per te. Non ti incazzare". "Sì che mi incazzo" disse lei irritata. "Molte donne sarebbero più che felici di essere al tuo posto". "Ce ne devono essere state parecchie, direi". Strane la guardò seriamente. "Penso siano affari di John, no?" Sarah fece spallucce. "Perché è una cosa così strana alloggiare nello stesso albergo di John, e per di più sullo stesso piano?" "Perché me lo chiedi?" "Per il modo in cui me lo hai detto, come se fosse degno di nota". "Nessuno della band o dell'entourage è autorizzato a restare nello stesso
albergo. Sono l'unico". "E la troietta". Riprovò a gettare l'amo, ma Strane non abboccò. "Perché la band alloggia in un altro albergo?" chiese lei. "Privacy. Per evitare di essere John Redford ventiquattr'ore al giorno, sette giorni su sette. Hai incontrato Ray Waters. Alcuni della band sono migliori di lui, altri persino peggiori, ma sono comunque tutti dei rompicoglioni incredibili. Tutti tranne uno, il tastierista, Steve Charlton. Lui vive per suonare. È una persona meravigliosa". Strane fece un grugnito di apprezzamento. "Non gli interessa quanto viene pagato, o chi sta nella suite più grande o tutta quella merda. Ma il resto del gruppo rompe i coglioni in continuazione. John non vuole essere tormentato dalla sua band o dalle loro fidanzate deficienti". "Non sono suoi amici?" "No, non sono amici. Loro fanno il loro lavoro, lui fa il suo. Si trovano insieme a lavorare e funziona. Fuori dal palcoscenico la chimica è diversa. A lui giustamente non va di sentirli far casino nel suo stesso corridoio all'una di notte". Sarah sorrise. "Dopo aver incontrato di persona Zena e Ray posso capirlo. Ma perché infrangere la tradizione e portarmi nel suo hotel?" Strone alzò le spalle. "Boh. Non ne ho idea". I suoi occhi si volsero al palcoscenico dove Ray Waters e altri membri della band, riconoscibili dalla deferenza con cui i roadie li trattavano, prendevano le loro posizioni. "Sound check" spiegò Strone. "I tecnici del suono sono i re, in questo momento. Ogni strumento ha il suo amplificatore, e il tecnico del suono può fare sì che i bassi ti facciano praticamente saltare via dalla seggiola, o diminuirne il tono fino ad annullarli. È una vera arte, quella di trovare l'equilibrio tra gli strumenti. È anche politica. I poveri tecnici devono sopportare Waters e compagnia. Tutti insistono per dare più potenza al proprio strumento. Se potesse, Ray coprirebbe lo stesso John". "E John dov'è?" chiese Sarah. "Quando fa la prova del suono?" Strone studiò Sarah per un attimo. "E chi lo sa? È l'uomo dei misteri, il nostro John, no?" La stava sfottendo? Sapeva qualcosa, o stava solo scherzando? Sarah doveva sottrarsi allo sguardo indagatore di Strone. Si scusò e andò in bagno. Dopo la sala dei motori della Redford Inc., il bagno era un paradiso di freschezza. Smise di pensare a Strone e pensò a chi era Redford. Tutte quelle persone sul libro paga, tutto l'ingranaggio da far girare, tutta la
preparazione. Come faceva a convivere con quelle responsabilità? Dietro all'atmosfera circense, agli apparentemente liberi roadie c'erano mogli, figli e ipoteche. Sotto la polvere di stelle e la vernice facevano capolino conti da pagare e lo spettro della disoccupazione. La Redford Inc. ruotava attorno a un solo uomo. Se lui si ammalava, o non se la sentiva di continuare, non poteva farsi sostituire da nessuno. Era intrappolato in qualcosa di molto più grande di lui, lo show, ed era obbligato ad andare avanti. Questo era un carnevale, era un circo, e aveva il pathos del suona oggi, paga domani, l'effimero godimento della performance, il montare e lo smontare, il prima e il dopo, ripetuto in centinaia di città in diciotto mesi di tour mondiale. Una maratona. Tutto quell'arrivare e partire, lo sradicamento, l'entourage in un hotel e la star in un altro. Non c'era da meravigliarsi che l'atmosfera fosse d'isolamento, nichilistica. Niente rapporti a lungo termine: entra in città, colpisci e vattene subito. Come una scorreria di pirati. Sarah si scosse e cercò di liberarsi da qualcosa che le suonava vagamente sinistro. Capitolo 31 Le luci stroboscopiche colpivano l'auditorium come missili. Evaporati con l'eccitazione i profumi artificiali, dalla folla emanava ormai solo il puzzo animale del sudore. Gli occhi saettavano da una parte all'altra del palcoscenico cercando Redford, mentre l'ora dell'inizio si avvicinava. Sarah sentiva la loro eccitazione, la loro fame. Era un desiderio, in parte sessuale, ma anche per l'uomo stesso. Studiò la gente che le stava intorno. Una donna in jeans attillati, stivali alti neri di renna e un top rosa. Trucco pesante, desiderio negli occhi, pronta per una notte con il suo amante. Una ragazza, non più di quattordici anni, lunghi capelli lisci, jeans scoloriti, occhi colmi di speranza e interrogativi, che faceva la noncurante per proteggere le sue emozioni dalla stanca artificiosità della madre. Quando entrarono tre coriste nere in abiti corti ricoperti di lustrini e si misero ai loro posti, la folla si zittì per un attimo, e poi esplose in un boato assordante. Sarah sobbalzò quando Redford salì sul palco. La folla attorno a lei si alzò in piedi, ruggendo e urlando. L'adrenalina le scorreva dentro, come se lei e la folla fossero attaccate alla stessa sorgente di energia elettrica. Re-
dford era in jeans, aveva una maglietta bianca e stivali da cowboy. Aveva un'espressione radiosa, selvaggia. Alzò una mano e un accordo musicale si levò dal backstage. La band fece il suo ingresso e prese posizione: batteria, tastiere, chitarra, basso, sax alto, sax tenore, tromba e violino. Diversi faretti illuminavano singolarmente ogni musicista. Quando il boato del pubblico si esaurì, una roadie corse fuori e porse a Redford la sua chitarra. Redford tornò sotto il suo faretto ancora una volta, e iniziò a cantare Come to me, un inno rock beat, eccitando il pubblico. Redford cantò, ruggì, attraversò di corsa il palcoscenico. C'era qualcosa di intensamente sensuale nel modo in cui suonava la chitarra. La teneva al livello dell'inguine, e i movimenti delle dita che pizzicavano le corde evocavano a Sarah ricordi e fantasie. Il sudore gli faceva brillare le braccia, gli scorreva sul viso. Sarah, dalla sua posizione in prima fila, lo vedeva luccicare. Ne ricordava ancora il sapore. Per la prima volta, Redford guardò il pubblico. I suoi occhi spaziarono sul mare di volti. Lei sperava che lui la vedesse. Era così vicina a lui, tre metri forse, ma per caso o di proposito, i suoi occhi non si soffermarono su di lei. "Buona sera!" disse, con un sorriso complice, e in tono basso, quasi confidenziale. La folla gli rispose con un boato. "È bellissimo essere qui, in un posto così intimo. Vuol dire che voi mi vedete, ma, sapete una cosa?" La folla gli rispose ancora, come un cucciolo preso dal gioco. "Questo vuol dire che anch'io riesco finalmente a vedere voi" terminò Redford, accolto da altri boati. "Non solo, ragazzi, riesco perfino a sentire quello che dite". Sorrise dolcemente, scherzando. "'Sta bene, sembra più giovane. Ma cosa ha fatto?' Oppure 'Guarda che muscoli. È davvero l'uomo duro del rock. Mi chiedo se sia duro dappertutto...' Oppure, 'Può davvero farlo per sette ore filate?' Bene ragazzi, lasciate che vi spieghi una cosa: ho smesso di fare sesso tannico" annunciò. "Ora faccio shopping tannico. Vado a fare acquisti per sette ore e non compero mai nulla". La folla esplose in una risata. In quel momento la passione incontrava il business del rock. Redford era il performer, l'artista. Tutti quei titoli vagamente obsoleti, con John Redford riacquistavano all'improvviso un significato. Stava a gambe divaricate sul palcoscenico come un colosso, e dava al pubblico quello di cui il pubblico aveva bisogno. Una volta iniziata una performance, c'è un momento in cui possono succedere due cose. Il pubblico guarda, col fiato so-
speso, aspettando di vedere se l'artista è bravo. Sono i cristiani con i leoni dell'Antica Roma, in quel momento. Se il performer li alletta e li seduce, può vivere. Una volta sedotti, li rende suoi schiavi. Se non ci riesce, il pubblico lo farà a pezzi, deridendolo. La fama di Redford era tale che non si era mai trovato in quel frangente, neppure per pochi, tesi secondi. Ma era l'uomo, e non la sua fama, a portare la folla dall'iniziale rispetto a un'adorante devozione. Sarah lo guardò camminare a grandi passi verso un angolo del palcoscenico e bere a lungo da un bicchierone pieno di quella che sembrava acqua con fette di limone. Le mancò il fiato, vedendolo fare qualcosa di così prosaico. Ritornò al centro e cantò altre tre canzoni rock, camminando veloce e furioso. Il palco era un campo magnetico. Quello che Sarah non si era aspettata era di riuscire a sentire perfettamente ogni singolo strumento. Su un cd, per quanto possa essere elevato il livello qualitativo, la musica sembra sempre inscatolata, insapore. Dal vivo, ogni strumento trovava la sua voce e tutti insieme producevano un'alchimia di suoni. Sul palcoscenico, tutti gli artisti, perfino Ray Waters, acquistavano un'aura nobile, ma Redford torreggiava su di loro, sovrano indiscusso. Sarah si domandò quale fosse stato il suo lungo cammino per arrivare al livello di superstar, i giorni in cui si costruiva il carattere, la sua autostima e i suoi dubbi, e si chiedeva come un ragazzo con un passato così doloroso fosse riuscito a costruirsi un'armatura tanto robusta da poter padroneggiare un palcoscenico. Lei non sarebbe mai stata in grado di farlo. In lei c'erano troppe ambiguità e troppe ombre. Improvvisamente, il palco piombò nel buio. Quando si accese un faretto al centro, Redford era lì sotto, solo, con la chitarra acustica. Si lanciò nella prima delle sue ballate, How. Si muoveva con lentezza, ballando da solo, la voce bassa e quasi arrochita dal dolore, mentre cantava: Come ho potuto fare quello che ho fatto? Come ho potuto dire quello che ho detto? Come ho potuto distruggere il tuo amore? Sarah guardava il suo tormento, sentiva il suo dolore, e si chiese per chi stesse cantando. Guardò le persone di fianco a lei e le vide spogliate delle loro difese. I visi rivolti verso il palcoscenico erano schermi dove le emozioni venivano amplificate, messe in evidenza. La loro nuda vulnerabilità era stranamente contagiosa. Come posso farti ritornare indietro? Come posso amarti? Stavolta, ti prego, aiutami. Era pura seduzione, lenta, magistrale e sapiente. Ogni accordo era una
carezza, ogni parola un bacio, e l'insieme delle parole, della musica e dei movimenti diventava il coronamento dei loro sogni. Sarah andava raramente ai concerti, se ne era sempre mantenuta alla larga. Era sospettosa nei confronti di tutti i gruppi, che fossero chiese o classi di aerobica. Forse perché c'era qualcosa in lei che era anche troppo sensibile alla seduzione di massa. Ma anche lei, come tutti, aveva bisogno di lasciarsi andare, di essere presa tra le braccia da qualcuno che la capiva, che riusciva a vedere il suo dolore e glielo tirava fuori, trasformandolo in qualcosa di meraviglioso. Era quello che in quel momento le stava capitando. Ora vedeva che il pubblico era affamato dei significati e delle parole che Redford riusciva a creare, e si accorgeva dell'importanza che lui dava a loro. Redford mostrava loro le loro anime, i loro cuori, rendeva nobili le loro emozioni, diceva le parole che non riuscivano a dire. Viveva una vita che la maggior parte di loro si limitava a sognare. Era il loro principe, il loro messia, ma anche un uomo del popolo. Aveva vissuto la loro vita, sognato i loro stessi sogni, provato i loro stessi dolori. Il dolore non risparmia i privilegiati. Il suo denaro, il suo successo, il suo talento, niente lo separava da loro. Li avrebbe potuti condurre ovunque. Sarah sentì una scossa di eccitazione pensando che lei conosceva quell'uomo, che una parte di lui sarebbe sempre stata sua, loro figlio. In quell'istante, Redford la guardò. Lei cercò di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. I suoi occhi le trasmisero una corrente di energia sessuale così pura ed elettrizzante da farle pensare di raggiungere un orgasmo lì per lì. Gli occhi nei suoi, iniziò a cantare One perfect night. Una notte perfetta sei capitata sul mio cammino; Col tuo sorriso incerto, Ti sei riposata un attimo dal tuo volo selvaggio, E ti sei fermata con me. Solo io, tu e il vento che cantava, I lupi come guardie, Le stelle illuminavano il nostro cammino, E mi hai distrutto il cuore, Mi hai sorriso, hai baciato il mio viso, Hai lasciato che la natura andasse per la sua strada, E te ne sei fuggita senza lasciare tracce di te, Lasciandomi solo con i ricordi, Di una notte perfetta.
Sarah doveva aver sentito questa canzone dozzine di volte senza averne mai ascoltato le parole, ma quella notte le capì una per una, come se fossero state pronunciate solo per le sue orecchie. Le guance le scottavano. Doveva aver cantato della loro notte perfetta. Voleva crederlo e allo stesso tempo rifiutava l'idea. Ogni sfumatura delle sue parole le riportava alla mente il ricordo di quella notte insieme. Quando l'ultimo accordo svanì, era persa nei ricordi. Fece un salto quando qualcuno le diede un colpetto sulla spalla. Strone stava di fronte a lei e le diceva: "Vieni con me". Le afferrò il braccio e la tirò. Sarah gli fu grata per l'impulso. Sentiva che senza Strone, immersa nei suoi splendidi sogni, sarebbe stata incapace perfino di muoversi. Gli uomini della sicurezza li fecero passare. Strone la portò su un lato dell'arena, poi aggirarono il palcoscenico, salirono degli scalini e si trovarono proprio sul palco. Sentiva l'odore della polvere che bruciava sulle lampade. Sentiva l'odore del velluto, da dietro le pesanti tende alte una ventina di metri. Guardò Redford mentre faceva il bis di Run Away. Da dietro il palco, vedeva il mare di visi del pubblico e per la prima volta si rese conto di quello che Redford doveva aver visto un migliaio di volte o più. Un enorme palco, uno spazio vasto e vuoto. Migliaia di persone, lì solo per te. La fame e l'amore della folla erano focalizzati lì, su una piccola persona che riempiva di se stessa il teatro. Nutriva la folla, alimentava la sua devozione. Sarah si spostò i capelli dal viso. Come diavolo faceva a mantenere l'equilibrio, a non impazzire? Strone la stava osservando. "Capisci, adesso, vero?" le chiese. "Cos'è lui". Sarah annuì. Le pareva di essere in un sogno, quando si cerca di scappare da un pericolo, ma si hanno i piedi intrappolati. Non voleva sentirsi nuda, come il pubblico. Non voleva che Strone vedesse le sue emozioni. Cercò di intervenire su se stessa, per passare dall'abbandono alla freddezza. Rimasero a guardare Redford finché ebbe fatto altri due bis. Finalmente, uscì dal palco dopo una performance eroica di due ore e mezza. Sarah guardò lo spazio che lui aveva riempito, sentendosi come se avesse faticato al suo fianco. Era una specie di catarsi, profonda come quella alla quale aspiravano i filosofi antichi. Si sentì sovreccitata e prosciugata. Strone le toccò dolcemente una spalla con la mano. "Va tutto bene. Ci siamo passati tutti. La prima volta che ho visto John suonare mi sentivo come se non potessi più parlare per una settimana.
Qualcosa, però, devo avere detto, dato che l'ho ingaggiato quella notte stessa". Sarah si voltò verso di lui, gli occhi scintillanti. "Davvero? E quanto tempo fa?" "È una lunga storia. Andiamo. Ti porto fuori a cena e te lo spiego". Capitolo 32 Poco dopo stavano percorrendo il ponte di Brooklyn. "Ti porto da Pierre. Fa le migliori bistecche con patatine della città, e ha una cantina meravigliosa". Un'espressione disgustata gli attraversò all'improvviso il volto. "Non sarai vegetariana, vero?" "Carnivora, sempre e comunque". "Grazie a Dio". Sarah si sedette di fronte a lui. Bevve uno squisito vino rosso per la seconda notte di fila. Quella notte si gustò anche il fatto di essere una persona qualunque. Nessuno le dedicò più attenzione di quella a cui era abituata. "Cosa mi dici di Redford?" chiese a Strone. "Non devi andare da lui? Non può stare da solo, stasera, no?" Si interruppe con un breve e goffo sorriso. "Suppongo che non sia solo. Probabilmente ha cinquantamila amanti fra cui scegliere, una per città". Strone rise. "Non continuare a pensare a quel vecchio e banale cliché. La rockstar e le groupie". "Perché no? I cliché hanno sempre qualche ragione di esistere, guarda Mick Jagger, per esempio..." "Sì, d'accordo, John però è già passato attraverso questa fase". "Cosa sta facendo, allora?" "Di solito incontra un sacco di persone. Dirigenti di case discografiche, amici, giornalisti, ma non stanotte. Questo show lui l'ha voluto fare per se stesso, per il gusto di suonare in un posto raccolto invece che in uno zoo. Così, stasera, rimarrà da solo. Farà meditazione, yoga ed esercizi di respirazione, si berrà due litri di succo di carota, e poi se ne andrà a letto". "Solo?" "Non ha una ragazza, al momento, per cui, sì, se ne andrà a letto da solo" rispose Strone paziente, lanciando a Sarah uno sguardo curioso. "Sembra così solo" disse Sarah, col cuore in subbuglio. "Dopo uno spettacolo come quello di stasera, l'amore di tutta quella gente, tirar fuori il cuore e l'anima per loro, e poi tornare in un hotel anonimo, tutto solo".
"Ma lui è solo. Perché pensi che io lo adori? Perché pensi che io sia qui, solo, anche dal punto di vista delle relazioni, quando potrei vivere in una casa confortevole, con una moglie e dei figli?" "Tu lo ami?" "Certo. L'ho incontrato che era un ragazzino, diciassette anni" sorrise. "Io stesso ero praticamente un ragazzo, avevo ventisei anni. Comunque, era là, che cantava i suoi sentimenti in un bar di Jackson Hole, nel Wyoming, e io sentii improvvisamente i brividi scorrermi lungo la spina dorsale. Sapevo che era lui. Da allora, ho vissuto tutto con lui. I suoi momenti di gioia e quelli di disperazione, le sue ambizioni, il suo coraggio. Ho visto il suo talento, grezzo e selvaggio, e l'ho visto dirottarlo nella magia che hai vissuto stasera. Tu non hai mai visto niente del genere, o sbaglio?" Sarah scosse la testa. "Ero senza parole". "Siamo sempre stati vicini" continuò Strone. "Ho visto tutto di lui. Ho visto la gloria e l'adorazione, ma anche il dolore, la solitudine e il sacrificio". "Quale sacrificio?" "Andare fuori di testa, Sarah" disse Strone impaziente, come se la risposta fosse fin troppo ovvia. "La vita di merda chiamata rock and roll". "Perché fuori di testa?" "Perché è pericolosa. Si appropria della tua sanità mentale e, a volte, ti fa impazzire". "Tu e John?" "Io e John". "Come si riconosce?" Strone la guardò e poi distolse lo sguardo, nascondendosi dietro agli occhi velati di lacrime. "Allora perché lo fate?" chiese Sarah. "Perché John non si ritira?" Strone rise. "L'hai visto, lassù. Hai visto quello che vede lui, hai sentito il pubblico. Puoi immaginare cosa si prova a essere un artista al suo livello? Il potere immenso, la scossa, l'eccitazione. È la droga più dolce che si può prendere, l'amore più grande che potrai mai provare". Non ci siete nemmeno vicini, pensò lei, il pensiero rivolto a Georgie. "Dimmi esattamente come lo hai incontrato" chiese, prendendo una forchettata di carne sanguinolenta. Strone bevve un sorso di vino e i suoi occhi diventarono malinconici. Sarah si meravigliò della trasformazione che stava avvenendo in lui. Lo spettacolo di Redford aveva tirato fuori un altro lato di Strone; forse si sen-
tiva libero di mostrarlo perché aveva visto la risposta emotiva di Sarah. Era come se lei avesse passato con successo una sorta di cerimonia di iniziazione e facesse ora parte della tribù. "Tutto ha avuto inizio ventidue anni fa. Facevo il ragioniere da cinque anni e non ne potevo veramente più". Notò lo sguardo sorpreso di Sarah. "Lo so. lo so, non sembro un ragioniere, del resto chi assomiglia a quello che è? Adesso, per favore, non mi sputare il vino addosso" disse con cautela. "Ma come ho osato dirti già una volta, neanche tu hai l'aspetto dell'agente di Borsa". Sarah sorrise. "Un punto per te". "Comunque, non sopportavo la mia professione, e ho deciso di usarla per fare qualcosa di mio, che mi assomigliasse di più. Ho sempre amato la musica, e mi sarebbe piaciuto molto fare da manager a una star. Un giorno, mi sono alzato, sono uscito e mi sono licenziato dal lavoro nel New Jersey. Sono andato nel selvaggio West. Ho pensato: se c'è un posto dove i sogni diventano realtà, non può essere che lì. Così ho viaggiato, sono andato dove mi portava la fantasia, senza pianificare niente, vagabondando da solo. Comunque, dopo un anno sono approdato nel Wyoming, a Jackson. Ormai ero rimasto senza soldi, così dormivo nei fienili, vivendo di colazioni nei caffè dei camionisti, e di noccioline nei bar. Una notte arrivo in quello schifo di posto. C'era segatura sparsa per terra, attaccabrighe al banco e, attraversando la stanza con lo sguardo, vedo questo ragazzo che ondeggia tra i tavoli, reggendo la chitarra, come su un palcoscenico. Avevo trovato quello che cercavo. Lo capii ancora prima che aprisse bocca o suonasse un accordo. Aveva qualcosa. Era giovane e bellissimo e aveva un'aura selvaggia, ma un grande pathos negli occhi, come se, all'età di sedici anni, sapesse già tutto del mondo. Poi aprì bocca". Strone sorrise e si strinse nelle spalle, come se non ci fosse più bisogno di parlare. "L'ho avvicinato più tardi, mi sono presentato, ho usato quello che praticamente era il mio ultimo dollaro e gli ho offerto da bere". "E poi?" "Gli ho detto che l'avrei fatto diventare una star. Lui mi ha chiesto chi diavolo ero e da dove venivo. Cosa facevo a Jackson, e dove stavo. Ho corso il rischio e gli ho detto che dormivo nei fienili. Scoppiò a ridere come un matto e disse che andava bene. Comunque deve avere visto anche lui qualcosa di buono in me, perché quando ho scarabocchiato una specie di contratto su un tovagliolo lui l'ha firmato". "Impulsivo" rifletté Sarah.
"Sì. lo è stato, ma devi capire che nessun altro gli aveva mai detto che era bravo a fare qualcosa, e a Jackson lui non aveva nessuna ragione per restare, a parte suo fratello, che ci seguì". "I suoi genitori erano morti" disse Sarah. "Te l'ha detto?" Sarah annuì. Strone la guardò attentamente. "Strano, non ne parla, di solito". "D'accordo; non è entrato nei dettagli, e io non gli ho nemmeno chiesto di farlo. Quanti anni aveva suo fratello, allora?" "Quattordici". Strone la guardava ancora con sospetto, come se lei avesse aperto una breccia in una sua forma di difesa personale. "Allora, dove siete andati?" Strone sorrise. "A casa di mia madre, a Jersey City. Avevamo tutti bisogno di cibo e di un po' di coccole. Mia madre era molto brava, in questo". "Era?" chiese dolcemente Sarah. "Cancro. L'anno scorso". "Oddio, Strone, mi dispiace". Alzò la mano, strinse gli occhi, ma non parlò. Sarah lo aiutò. "Allora, siete partiti verso la melodia, la musica, lo spettacolo..." Annuì. "John cantò e suonò la chitarra per una casa discografica. Io insistetti perché suonasse di persona, non tramite un video di dimostrazione. Volevo che lo vedessero suonare". "Ma come hai fatto? Tu eri un ragioniere sconosciuto con un ragazzino altrettanto sconosciuto". "Sono stato molto persuasivo" Strone sorrise. "Riesco sempre a ottenere quello che voglio". "Davvero?" scherzò Sarah. "Non sto parlando delle cazzate. Quando voglio ottenere qualcosa di veramente importante, so come riuscirci. Sempre". "D'accordo. Non dirmi che sei anche immortale". "C'è solo una dea, a questo tavolo" rispose lui. "Non sono io. Ho perso le mie illusioni di immortalità un sacco di anni fa". Strone sorrise. "Chi sentirebbe la tua mancanza, se tu te ne andassi? Ecco quello che ci chiediamo tutti noi". Sarah pensò a Georgie e, con sua grande costernazione, le si riempirono gli occhi di lacrime. Strone le prese la mano, e gliela strinse con dolcezza. "Ehi, perdonami" disse, sgomento.
Sarah ritrasse la mano e si asciugò le lacrime. "Va tutto bene, sono solo ipersensibile. Tu non c'entri, non devi preoccuparti". Strone le sorrise dolcemente. "Non sembri più la virago di ieri, ora. Chiunque sia l'oggetto del tuo amore, è veramente un uomo molto fortunato". Sarah si girò. Si stava aprendo troppo. Redford, con il suo concerto, aveva frantumato le sue difese, cosa che nessun altro era in grado di fare, e lei aveva il terrore di quello che poteva uscirle. Capitolo 33 Un cameriere la svegliò alle sei del mattino con la colazione. Con gli occhi cisposi e la vista annebbiata, si avvolse in un asciugamano, lo fece entrare e firmò la ricevuta. Era esausta e si sentiva una schifezza. Le facevano male i seni e riusciva a sentire l'inizio di una tempesta ormonale. La signora V era stata anche troppo precisa sull'interrompere l'allattamento troppo in fretta. E brava signora V, pensò Sarah. Guardò il piatto pieno di dolci, ma, prima di tuffarcisi, si impose di telefonare alla banca a Londra per organizzare un trasferimento di emergenza di quindicimila dollari. Con la suite da duemila dollari a notte, non voleva correre il rischio di restare senza soldi lì o a Parigi, la tappa successiva. Si strofinò gli occhi, bevve il caffè e telefonò a Jacob. Era tutto a posto. Georgie fece perfino dei risolini al telefono. Sarah parlò per cinque minuti, poi riattaccò. Si morse un labbro, si alzò in piedi, camminò a grandi passi avanti e indietro, guardando attraverso le vetrate il panorama di Manhattan. Poi si impose di sedersi, si versò un altro caffè, diede un morso a un croissant e iniziò a studiare i dati di Redford. Lavorò per un'ora, poi telefonò a Savage. "Cos'hai, lì?" "Dal lato brutto, nulla. Da quello buono, è un performer incredibile. Il concerto di ieri sera è stato a dire poco sorprendente. Duemila persone letteralmente incantate". "Ti sei convertita?" "Sono un'atea, James, lo sono sempre stata e lo sarò sempre. Cos'hai tu per me, invece?" "Droga" disse Savage, con una pausa a effetto mirata a monitorare la reazione di Sarah. Quando vide che non parlava, dovette continuare. "Un'abitudine mantenuta a lungo, sembra. Ha smesso da tre anni e sembra non ci sia più ricascato. Background instabile. La madre è morta in un inciden-
te automobilistico, il padre si è suicidato qualche anno dopo. Si è spappolato le cervella. È stato Redford a trovarlo". "Oh, no". Per un istante, Sarah fu accecata dall'immagine dei suoi genitori morti, accasciati sulla parte anteriore dell' auto, mentre lei e Alex erano feriti e intrappolati nella parte posteriore. Sarah conosceva il dolore di Redford, e sapeva che non sarebbe mai e poi mai riuscito a superarlo. Non c'era droga, adulazione o adrenalina che avrebbero potuto aiutarlo. "Pensi sia pulito?" Savage chiese, fornendole inconsapevolmente un appiglio per distrarsi. "Sembra incredibilmente sano. Sarei davvero sorpresa se si drogasse. Terrò gli occhi aperti. Per te è un problema?" "Non penso, spero di no, almeno. È una rockstar, le droghe sono un percorso naturale, e comunque sembra che ne sia uscito bene. Se scopriamo che le prende ancora, dovremo cercare di capire se può vivere senza". "Zamaroh è tranquilla?" "È ottimista". Sarah pensò al padre dell'iraniana, morto impiccato. Eccoci qui tutti assieme, uniti dal vincolo della morte. "È stato Breden a tirar fuori la storia della droga?" "Sì". "È lì, adesso?" Dick Breden usufruiva del raro privilegio di avere un ufficio allo stesso piano del presidente. "Sì. Vuoi parlargli?" "Sì, grazie". "Permettimi di passartelo" disse Savage, sarcastico. Per essere uno che si serviva della segretaria anche solo per chiamare la moglie, le stava facendo, supponeva Sarah, un grande favore. "Sì, Sarah, come stai?" chiese Breden energicamente. "Esausta, a differenza di te. Guarda, non so bene cosa sono venuta a fare qui, ma c'è un tipo dell'entourage di Redford, tale Jim O'Cleary, capo della sicurezza. C'è qualcosa che non mi piace in lui, non riesco a essere più precisa. È solo una sensazione, ma dovresti chiamare uno dei tuoi innumerevoli contatti e fare un controllo, puoi?" "Per te e per le tue sensazioni, questo e altro". Qualcuno bussò alla porta, disturbandola mentre cercava di formulare una risposta abbastanza caustica. "Be', guarda, scusami ma stanno bussando alla porta. Devo andare. Ciao, Dick" riattaccò e corse attraverso la stanza. C'era un fattorino con una bu-
sta. "Per Sarah Jensen. Urgente" disse, porgendogliela. Sarah gli allungò quello che le restava dei suoi contanti e chiuse la porta. Tagliò il bordo della busta. Un unico pezzo di carta ne svolazzò fuori. Conteneva sette semplici parole, battute a macchina: A Sarah Jensen Continua così e ti ammazzo. Si lasciò cadere sul divano, con il biglietto tra le mani. Il suo cuore batteva velocissimo e la sua pelle crepitava per l'adrenalina, al punto che sentì un attacco di nausea. Avrebbe voluto stritolare il biglietto e sbatterlo nel cestino della spazzatura. Ignoralo con un vaffanculo, pensò. Ma in quel momento non riusciva a fare appello al suo spirito ribelle. Era semplicemente troppo spaventata. Aspettò che svanisse la paura, lasciando il posto alla rabbia per il fatto che uno stupidissimo pezzo di carta, e un qualunque vigliacco che ci si nascondeva dietro, potessero ridurla in quello stato. Chi poteva essere il responsabile? La sua mente cercò di valutare diverse possibilità. Qualche pazzo scatenato, con una mattinata libera; qualche pazzo, però, che conosceva il suo nome, che la avvertiva di smettere. Cosa? Le sue ricerche? Ma nessuno al di fuori' della Goldstein lo sapeva, solo Jacob, e comunque lui non avrebbe parlato con nessuno della sua missione. All'interno della Goldstein, solo Savage, Zamaroh e Breden ne erano al corrente, e nessuno di loro aveva una buona ragione per smascherarla. Ma qualcuno l'aveva messa in pericolo e la stava minacciando, e perché? Non poteva essere Redford. Il biglietto era strano, quasi infantile. Se Redford stava cercando di coprire qualcosa, questo avvertimento sarebbe stato, per Sarah, un incitamento a scavare ancor più a fondo. Tra l'altro, un biglietto come quello non era sicuramente nel suo stile. Lui voleva l'accordo, ne aveva bisogno, e aveva bisogno di trattare con Sarah. Se stava nascondendo qualcosa, avrebbe provato a nasconderlo, non certo a fare intimidazioni. Non riusciva neanche a immaginare Redford che inviava messaggi anonimi. Buttò via il biglietto e si strofinò gli occhi. Cristo, e poi parlavano di forme mentali... Il problema, con il suo lavoro, era l'assurda varietà e imprevedibilità degli esseri umani: analizzarla poteva farti uscire di cervello. A volte si cercavano interpretazioni complesse, demoni, vedendo sempre il
peggio nelle persone e i loro demoni, quando a volte le risposte giuste erano quelle più semplici. Guardò il biglietto nel cestino. Forse proveniva da un'ammiratrice offesa che li aveva visti insieme. Pensò a Ray Waters. Lui aveva dato per scontato che lei fosse la troietta di turno di Redford. Chi altro poteva pensarlo? Tutti quelli che facevano parte del codazzo di John l'avevano vista al Beacon con Strone. I pettegolezzi sicuramente si erano già diffusi come un virus. Poteva essere stato chiunque facesse parte della compagnia, anche una groupie gelosa. Non poteva essere stato Cawdor, che cercava di tenerla lontana dalla sua star? Estremamente improbabile. Prima di tutto perché un atteggiamento del genere era lontano dall'immagine che lei si era fatta di lui, poi perché era il manager di Redford. Strone avrebbe guadagnato il dieci per cento degli utili dell'emissione obbligazionaria. Potenzialmente, una decina di milioni. Poi, un pensiero bizzarro la colpì. Forse si trattava della talpa. Dopotutto, parecchi componenti della squadra dei trader volavano molto spesso da e per New York. Forse la loro strategia era nota alla talpa. Merda, poteva essere veramente chiunque. Pensò alle parole di Strone, Chi sentirebbe la tua mancanza, se tu te ne andassi? E a quel punto, cercò di reprimere un brivido. Capitolo 34 Sarah contò quattromilatrecentotrentacinque dollari in contanti, mentre il cassiere la guardava con disgusto. Il denaro era in banconote da venti prelevate da Sarah per saldare il conto, un'ora prima, alla Citibank dietro l'isolato. John Redford si materializzò in silenzio dietro di lei e le sussurrò: "Sei uno spacciatore?" Girandosi di scatto, lei lo guardò. In piedi al suo fianco, con le mani ficcate nelle tasche di una logora giacca di pelle, era tornato un essere umano. "Non farlo più!" sibilò tra i denti Sarah. "A momenti mi facevi venire un infarto! Ma che cosa avete tu e Strone? Mi ha fatto lo stesso identico scherzetto ieri..." Redford sorrise. "Perché hai tanti soldi in contanti?" "Mi hanno rubato il portafogli" esplose lei. Redford tornò subito serio. "Quando? Dove?" "Una ladruncola d'alto bordo. Ha dato un colpo alla mia borsetta, in ba-
gno, la sera che siamo usciti a cena". "Come fai a sapere che è stata lei?" "Non lo so. Non ne sono sicura. È una sensazione. Non lascio mai la borsa in giro, e sono sicura che non è stato nessuno dell'hotel". Sussurrò cercando di non mettere nei guai le povere cameriere, sicuramente innocenti. Il cassiere altezzoso ora le stava concedendo uno sguardo decisamente molto più amichevole, e allungava il collo per cercare di intercettare la conversazione tra lei e Redford. "Quanto hai perso?" Sarah studiò Redford, sconcertata dall'intensità del suo tono. "Più o meno cinquecento sterline in contanti, mille dollari, la patente e le carte di credito. E, quello che è peggio, ho perso le foto di..." Cristo. Si fermò appena in tempo. "Le foto di... chi?" chiese Redford con una smorfia. "Le foto di tutti i miei amanti nudi" replicò Sarah con un lampo di ispirazione. "Ah, capisco". "Comunque. È stato un colpo duro, ma sono già riuscita a farmi trasferire il denaro, sono solvente, per cui non ti preoccupare". Una piccola folla curiosa di clienti dell'hotel stava assistendo allo scambio di idee, e sembrava che tutti avessero ragioni molto importanti per avvicinarsi alla reception. Sarah fece un cenno nella loro direzione. "Possiamo?" "Possiamo cosa?" chiese Redford dispettoso. "Andarcene di qui" disse Sarah bruscamente. La limousine li attendeva fuori dall'albergo. Strone era già comodamente seduto, e parlava al cellulare. Fece un cenno a Sarah, guardò Redford, e continuò a parlare. "Davanti o dietro?" chiese Redford, indicando i sedili. "Perché me lo chiedi, ovviamente davanti..." rispose Sarah, maliziosamente. "Stai male in macchina?" "No, sai, però odio viaggiare al contrario". "Ah". "Ah, cosa?" "Vuoi sempre controllare le situazioni". "E chi lo dice?" "Ogni psichiatra sano di mente".
"Come mai conosci così bene gli psichiatri?" "Be', devo mettere le mani avanti, no?" Sarah sorrise e archiviò anche questa informazione. Una parte di lei era ancora sconvolta dall'assurdità della situazione: lei seduta nella limousine con il padre di suo figlio, mentre cercava di conoscerlo meglio. Lo studiò. Redford sembrava esausto ma euforico, come se fosse contento di andarsene. Si sporse verso di lui. "Sono sicura che l'hai già sentito dire, ma ieri notte sei stato sorprendente". "Grazie". Sembrava sinceramente gratificato dal suo complimento. "Ho provato sensazioni incredibili guardandoti, quasi entrando nelle tue canzoni". "È così che ti sei sentita, dentro le mie canzoni?" "Assolutamente: io e tutti quelli che si trovavano lì. Sembrava che la tua musica ci avvolgesse e ci facesse fluttuare. Mi è sembrato di volare. Mi sentivo sospesa in un mare di suoni e sensazioni". Redford annuì pensieroso. "Come ci si sente, al centro di tutto questo?" Redford sorrise e il suo sguardo divenne sensuale e contemplativo. "È la cosa più bella che ti può capitare". Lo sguardo si indurì. "Ed è forse la cosa che ti può fare andare fuori di testa". "Come mai?" "Faresti di tutto perché non finisse mai. Scendere a terra è un inferno". "E come fai a scendere a terra?" Gli occhi di lui si fissarono in quelli di lei per un attimo per poi guardare altrove, e questa fu la sua risposta. Quando lui si sporse verso un mobiletto e prese una bottiglia di Evian, Sarah notò la fasciatura sulla mano destra. "Cosa ti è successo?" chiese, indicando la mano. Redford sembrava vagamente imbarazzato e parve soppesare la risposta. "Ho colpito un muro" disse sussurrando. "Cos'hai fatto?" esclamò Sarah. "Mi hai sentito". "Perché diavolo lo hai fatto?" Strone spense il cellulare e si introdusse nella conversazione. "Ehi, calmati, ok?" le disse scocciato. "Stavo solo chiedendo" disse Sarah, passando con lo sguardo da Strone a Redford. "Non mi sembra che ci siano dei segreti di stato da proteggere, qui, e scusa se te lo dico, ma a casa mia dare un pugno contro il muro non
è una cosa poi così normale". Strone le si avvicinò. "Senti un po': tu non sei mai stata una rockstar, o sbaglio? Non hai mai provato cosa vuol dire fare un concerto, e non conosci quella corrente di adrenalina pura che ti attraversa il corpo senza trovare uno sfogo. Per cui, per l'amor di Dio, taci". Sarah alzò le braccia in segno di resa. "Mi dispiace. Fate finta che non abbia detto niente". Redford la scrutava con occhi preoccupati. Sarah si girò a guardare fuori dal finestrino, cercando di immaginarsi Redford che colpiva una parete con tutte le sue forze, e quello che implicava a proposito della sua stabilità mentale. Capitolo 35 Redford si sedette vicino a Sarah sull'aereo per Parigi. Strone si mise due sedili dietro di loro, immerso nel milione di dettagli relativi all'appendice europea del tour. Sarah si guardò intorno. Gli altri passeggeri avevano sicuramente viaggiato in prima classe un sacco di volte. Sembravano tutti annoiati. Sarah pensò che era per questa forma mentale, più che per rispetto della privacy, che limitavano la curiosità nei confronti di John Redford a occhiate oblique. Quando l'aereo decollò, Sarah si sentì più leggera. Il biglietto minaccioso le sembrava ora piccolo e triviale, sicuramente lo scherzo di un burlone. L'hostess arrivò appena raggiunsero l'altitudine di diecimila metri. Servì a Redford caviale, uva nera e acqua minerale. Sarah ordinò le stesse cose e iniziò a masticare di gusto. Redford parlò poco, e passò la maggior parte del tempo immerso nella lettura di un libro sui lupi. Sembrava disperatamente stanco, ma allo stesso tempo eccitato. La sorprese quando finalmente parlò. "Rispiegami della tua borsetta". "Il mio portafoglio" lo corresse Sarah, scuotendosi dai suoi pensieri. "E non c'è altro da dire". "Non hai sporto denuncia?" "Probabilmente avrei dovuto, ma non avevo voglia di perdere tempo. Avevo poche ore da passare tranquilla per conto mio, e non volevo rimanere bloccata in un' orrenda stazione di polizia a riempire cinquemila moduli. Ascolta, mi fa piacere che tu ti preoccupi, e non pensare che non te ne sia grata, ma cosa te ne importa? Sembri un cane che ha perso l'osso". "Non c'è una ragione. Ce ne deve sempre essere una?"
"Sempre". "Ho i nervi tesi, suppongo". "Perché?" chiese Sarah in tono tagliente, drizzando le antenne. Redford si passò le dita tra i capelli, guardando il soffitto e sospirò lentamente. "Jim O'Cleary, il capo della sicurezza, è sparito". "Sparito?" "Non si è fatto vedere al volo per Parigi un'ora fa". "Forse non ha sentito la sveglia". Redford scosse il capo. "Non è da lui". "Tutti facciamo errori. Si sarà dimenticato di caricarla". "Boh". "Non credevo che ti facessi coinvolgere nei dettagli pratici" disse Sarah. "Il capo della sicurezza non è un dettaglio. Le nostre vite sono nelle sue mani". Sarah guardò Redford sorpresa. "Cosa intendi?" "Non hai mai sentito parlare di ammiratori impazziti, assalti di massa o rapimenti?" Sarah pensò al suo biglietto e riuscì a visualizzare tutto con chiarezza. "Sì, capisco il tuo punto di vista. Ma sono tutti rischi teorici, no? Voglio dire, credo non ci siano rischi veri per nessuno in particolare, o sbaglio?" "No" disse Redford quasi seccato. "Il lavoro di O'Cleary consiste nell'evitare che la teoria diventi pratica. Ecco perché mi disturba profondamente la sua assenza". Si girò di scatto e si rituffò nella lettura. Sarah chiese una tazza di tè. Ne bevve una lunga, calda sorsata. "Ti piace essere in tour?" gli chiese all'improvviso. La guardò con interesse. "Perché me lo chiedi?" "Perché vorrei saperlo. Sembra un modo di vivere impossibile". "È così. Lo detesto". "Davvero? Non ti piace fare spettacoli?" "Adoro fare spettacoli, ma, come ti ho detto, è una droga molto pericolosa. Chiunque se ne stia là in piedi e senta quella pura adulazione, quel collegamento intimo con così tante persone a cui stai mettendo a nudo l'anima, alla fin fine ne ha una paura folle. È qualcosa che corrompe. Lo senti nell'anima". "Perché corrompe?" "Perché hai un potere pazzesco di cui puoi abusare, se non stai attento.
Devi cercare di mantenerlo puro". Sarah lo guardò, cercando di capire. "Puoi portare il pubblico dove vuoi, a livello emozionale. È come un lavaggio del cervello. Se lo fai in malafede, puoi riempire le loro menti di veleno, di odio, di terrore e di rabbia". "Tu hai riempito la mia mente di gioia e malinconia. E di passione" aggiunse con dolcezza. Redford la guardò a lungo e intensamente. Sotto il suo sguardo scrutatore Sarah cercò di stare calma. Vedeva i suoi stessi ricordi rispecchiati negli occhi dell'uomo. "È per questo che canto" rispose lui lentamente. "Ecco quello che cerco di fare. Ma capisci che potrebbe diventare qualcosa di negativo?" "Sì, capisco. Ma perché dovresti?" Sarah voleva arrivare vicina a quello che si nascondeva nell'anima di Redford. "Perché potrei". "Potrei arrampicarmi in cima a una montagna e buttarmi di sotto, certo che potrei, ma non lo voglio fare e non lo faccio" disse Sarah. "Sì, ma ogni tanto ti può venire in mente di farlo, il pensiero ti può entrare in testa, e una volta che è lì, cosa fai?" "Scendo con calma" replicò Sarah. Si fermò un attimo, prima di chiedergli nel modo più diplomatico possibile. "È questa la causa della mano fasciata?" Redford distolse lo sguardo. "Mi sento in trappola". "Vorresti smettere, vero?" disse Sarah che cominciava a capire. Redford sembrava sgomento, come se Sarah avesse pronunciato una terribile bestemmia. "Non mi sembra un'eresia" disse lei, in risposta ai suoi pensieri. "L'hai fatto, sei stato al top della carriera per vent'anni. Perché non smettere?" "Non è semplice come la fai tu. Adoro cantare. Adoro fare concerti. Adoro scrivere canzoni'". "Odio-amore" commentò Sarah. "Esatto". "Prima o poi uno dei due vincerà, altrimenti la tensione potrebbe farti esplodere". Un'ombra passò sul viso di Redford. "È per questo che vuoi l'emissione obbligazionaria? Vuoi smettere adesso prima che ti succeda qualcosa?" Sarah sapeva che stava rischiando di metterlo troppo sotto pressione. Sentiva che stava arrivando a una specie di
rivelazione, e voleva evitare che Redford si chiudesse a riccio. "Che succeda qualcosa? E cosa dovrebbe succedere?" chiese Redford nervoso. "Dimmi tu". "No, tu devi dirmelo. Sei tu che stai facendo supposizioni". "Non lo so. Esaurimento?" "Ho già dato. Se ne esce" disse bruscamente. "Tossicodipendenza?' ' "Già passata anche questa. Ero talmente fatto da non sapere nemmeno quello che stavo facendo. Ma quei giorni sono lontani, adesso. Ne sono uscito". "Sessodipendenza?" lo stuzzicò Sarah sorridendo. "Conduco una vita monacale. Sono single... in questi giorni". "Davvero?" "Ascolta, ho già sfruttato la faccenda delle groupie. Ho smesso un sacco di tempo fa". I suoi occhi la sfidavano rabbiosamente. "Esiste anche il sesso senza groupie" osservò Sarah, in preda alla più totale confusione, lacerata tra l'interesse professionale e quello personale. "Sì, be', incontrare la donna giusta e tenermela stretta sembra sia un problema, per me". Lanciò a Sarah uno sguardo acido. "Sei dipendente dal denaro?" Adesso era diventato un gioco, e lo sapevano tutti e due. "Perché fai quello che fai? Anche tu mi sembri un tantino in conflitto con te stessa". "Lo sono. Ma è quello che so fare. È quello che conosco, e sono brava a farlo. È bello essere bravi a fare qualcosa, essere apprezzati, e oltretutto essere anche pagati per farlo". "Ma mi hai detto che puoi sceglierti gli incarichi, che non sei una trader a corto di soldi". "Non sono povera, ma ho ancora bisogno di soldi". "Perché? Per cosa? A volte ti guardo e mi sembra che tu sia in missione". Perché voglio dare a tuo figlio tutto il meglio, pensò, affrontando pericolosamente la verità. Sarah sorrise. "Si chiama libertà dal denaro". "Sì. sì. Conosco il concetto. Non c'è ambizione, dietro a questo?" Sarah ponderò la domanda. "Sì, una volta. Più del denaro, volevo il successo".
"E cosa è accaduto?" "Ho avuto quello che pensavo di volere". "E non era abbastanza?" "Era bello, decisamente meglio che il fallimento e la povertà. Sono già arrivata abbastanza vicina a entrambi per sapere che non voglio un altro round". "Allora qual è il problema?" "Ci deve essere un problema?" "Ce l'hai negli occhi, Sarah". "Si parlava di te" disse lei cercando di riprendere il controllo. "Abbiamo parlato abbastanza. Sono distrutto" disse Redford, e un lampo della rockstar gli attraversò gli occhi, prima di chiuderli e reclinare il sedile. Capitolo 36 Una Mercedes nera li accompagnò all'Hotel Costes in rue St Honoré, dietro a Place Vendôme. Mentre attraversavano il foyer scuro, riccamente ornato, furono avvolti da musica rock. Le palme, il profumo dell'incenso, le lampade infiocchettate, i broccati rossi e il cortile illuminato dalla luce abbagliante del sole popolato da statue greche, fecero pensare a Sarah alla sua infanzia a New Orleans. Quasi svenne per l'emozione. Redford si guardava intorno con curiosità, evitando gli sguardi dei clienti abituali, che lo stavano discretamente osservando. "Mi piace". Strone era alla reception, e sembrava stesse conducendo una trattativa sulle tariffe delle loro stanze in perfetto francese. Con esagerate cerimonie, Sarah e Redford vennero condotti alle loro stanze. Oltrepassarono composizioni di rose rosa, gialle e bianche, poltroncine, ombrelloni. Salirono utilizzando un piccolo e intimo ascensore, respirarono il profumo di incenso e videro dipinti raffiguranti bellezze mollemente abbandonate, che sprofondavano sotto il peso della loro stessa tristezza. La suite di Sarah aveva un balcone ornato di fiori con rose, clematidi e glicine. Rimase in piedi guardando i tetti, deliziata. Il suo letto era immenso, coperto da uno splendido copriletto. Il bagno era foderato di piastrelle ornamentali vagamente arabeggianti e sembrava la stanza del trono di un pascià, con rubinetti d'oro e una vasca da bagno lunghissima e profonda, grande abbastanza da starci comodamente in due. Aleggiava un profumo
intenso di incenso, esotico e suggestivo, che faceva sognare lunghe notti negli harem. Sono l'unica favorita, in questo harem, pensò divertita. Fece una lunga e pigra doccia, si asciugò e si spalmò sulla pelle la lozione idratante dell'albergo. Indossò un vestito di seta lavorata all'uncinetto. Il tessuto era una carezza sulla sua pelle nuda. Si sentì un rumore delicato alla porta. Stava per aprire senza controllare quando pensò al biglietto minatorio. Sicuramente la deficiente che l'aveva scritto era rimasta a New York, ma meglio non fidarsi. La porta era priva di spioncino. "Sì?" "Servizio in camera" disse una voce melodiosa. "Siamo venuti a chiederle se gradirebbe cenare". "Ma che servizio perfetto..." disse Sarah, aprendo la porta con un sorriso. Redford stava di fronte a lei in jeans, maglietta bianca e piedi nudi. Sentì una stretta al cuore. Cristo, l'avrebbe preso e scopato lì, proprio sulla moquette. "Cosa consiglia il servizio?" disse invece. "La mia suite, appena in fondo al corridoio. C'è un piccolo tavolo sul balcone". Sarah doveva essergli sembrata dubbiosa, dato che Redford sogghignò e la rassicurò. "Stai tranquilla: se urlerai ti sentirà tutta Parigi". "Vuoi dire che sarei in pericolo?" "Solo se lo vuoi tu". Sarah si voltò. "Dammi un secondo". Lasciò Redford ad aspettare sulla soglia. In bagno, si spazzolò i capelli, se li sistemò dietro le orecchie e si spruzzò del profumo. Si guardò allo specchio. Gli occhi tradivano la sua eccitazione. Stava respirando profondamente, il suo petto saliva e scendeva velocemente, il solco dei suoi seni era visibile dalla scollatura a V. Si diede un'ultima occhiata allo specchio e lo raggiunse. "Fammi strada". Si misero uno di fianco all'altro sul terrazzo, guardando il tramonto sui tetti. "Non male, vero?" "Davvero mozzafiato, direi". "Per un ragazzino che viene dal Wyoming". "Per una ragazzina che viene da New Orleans". "È molto più intrigante, New Orleans" disse Redford. "Depressa, sporchissima ed esotica".
"Sì, ma il Wyoming in compenso è puro e meraviglioso". Redford si girò per guardarla. In quell'istante vide un lampo vicino. Sarah guardò in direzione della luce, poi si rigirò verso Redford, che non sembrava averla notata. Stava studiandosi Sarah, apparentemente perso nei suoi pensieri. Sarah si strofinò le braccia. "Ho fame". Lui le sorrise. "Allora, dobbiamo mangiare". La tavola era apparecchiata con argenteria e cristalli. Il tovagliolo era più lungo della maggior parte delle gonne di Sarah. Mangiarono asparagi accompagnati da un vino bianco così leggero che Sarah andò in estasi. Nel momento in cui il tramonto arrivò all'apice, le luci su Parigi si accesero. Poco dopo comparve la luna. Era una di quelle serate che rimangono nei ricordi tutta la vita come perfette, come un dono degli dei. "Dimmi di te, Sarah Jensen". "Non c'è niente da dire. La tua vita è molto più interessante". "Ne dubito". "Non sono brava nelle rivelazioni personali". "Ci avrei giurato". "E questo cosa significa?" "Nessuno che sia abituato a nascondere le cose ama rivelarle". "E io sono una che nasconde le cose?" chiese Sarah. "Sappiamo entrambi che lo fai". "Anche tu". "Non lo nego". "Allora, che si fa?" "Cosa ne dici di stringere un accordo?" "Di che tipo?" "Non innervosirti. Sei una trader, no? Come tu stessa mi hai detto, sei una scommettitrice". "E allora?" "Una domanda a testa. Io chiedo a te, tu chiedi a me. L'unica condizione è dirci solo la verità". "Nessun limite?" "Nessun limite". "Come faccio a sapere che dici la verità? Sarebbe facile dire delle bugie". "Tu lo faresti? Sei brava a mentire?" "Quello è il tuo campo, no?"
"Mmm. Bene, Sarah. Iniziamo?" È una pazzia, pensò lei, è come una roulette russa. Tutti e due avevano troppi segreti. La sua unica speranza era che i suoi fossero talmente ben nascosti da impedirgli perfino di fare delle domande mirate. "Quante domande?" "Una a testa finché ci stanchiamo". "No" disse Sarah. "Tre domande, non una di più. Contate". Redford allungò la mano. "D'accordo". Sarah gliela strinse. "Comincio io. Perché avresti bisogno del denaro dell'emissione?" "Così posso smettere, se ne ho voglia. Almeno così avrei la possibilità di scegliere". Bevve un po' d'acqua. "Qual è la cosa peggiore che hai fatto?" Sarah si passò le dita tra i capelli. "Oh, Cristo". "Rispondi, Sarah. Devi dire la verità". "Mi sono vendicata" disse quietamente. Evitò ulteriori approfondimenti alzando una mano. "Qual è la cosa peggiore che hai fatto?" Doveva essersi preparato in anticipo alla domanda, perché sparò la risposta senza esitazioni. "Ho abusato del mio potere". Poi: "Cosa ti ha fatto stare peggio?" chiese. "Questa purtroppo è facile. La morte dei miei genitori. E a te?" "Lo stesso. Di cosa hai paura?" chiese lui velocemente, come per dare un ritmo al gioco. "Ah". Sarah rallentò. "La violenza nei confronti delle persone che amo". "Non nei tuoi confronti?" "Non imbrogliare. Tocca a me" disse Sarah, ignorando il limite delle tre domande. "Di cosa hai paura tu?" "Di un pazzo che colpisce a caso. Domattina esci dal tuo hotel per fare una passeggiata in pieno sole, ti dirigi verso un qualunque bistrot per berti in pace un café au lait e arriva un pazzo scatenato da una laterale e, improvvisamente, bang, bang, fa sparire tutto. Il mio terrore è diventare un altro John Lennon". Cristo. La sua visione era così potente. Sarah sentì le paure di lui come se fossero sue. "Ti aspetti qualcosa del genere?" "Tocca a me" disse lui tranquillamente. "Cosa ti eccita?" "La velocità. Scivolare a tutta birra su una difficilissima e pericolosissima pista da sci, le automobili potenti, le barche veloci, i cavalli al galoppo,
fare body surf su onde enormi. Essere un po' fuori controllo". Lui sorrise, pensando a qualcosa. "Cosa ti rende felice?" chiese Sarah. "Cavalcare i miei cavalli nel Wyoming. Fare escursioni sui Teton, accamparmi sotto le stelle". I suoi occhi si fermarono in quelli di Sarah. "Cosa ti rende felice?" "Vivere". La studiò. "Sei arrivata così vicina alla morte, hai perso tante persone che ti erano vicine?" "Sono due domande, e poi tocca a me. Cosa ti eccita?" "Esibirmi. Dare tutto me stesso". Guardò Sarah con un sorriso ambiguo. Sarah aveva la sensazione che fosse arrivato il momento di fermarsi. Erano andati ben oltre le tre domande sulle quali si erano accordati. Non aveva dovuto mentirgli. Aveva sempre avuto paura che lui le chiedesse la vera ragione per cui lei era lì, e lei era sorpresa di essere riuscita a salvarsi così facilmente. "Va bene" disse lei. "ultima domanda". Lui bevve un lungo sorso d'acqua, si allungò sul tavolo verso di lei e la guardò dritta negli occhi, senza lasciarle possibilità di fuga. "Perché sei scappata?" Capitolo 37 La luce del sole splendeva nel cortile quando Sarah scese a fare colazione. Cercò un rifugio nella sala rococò, tra divani di velluto e angoli bui. Un cameriere le portò il caffè americano mentre lei si studiava il menu. Scelse uova fritte e bacon, poi si mise comoda a guardarsi intorno, sintonizzandosi sulle conversazioni frammentarie dei tavoli accanto. Tutti i vicini di tavolo sembravano cercare di compensare gli eccessi della notte precedente. L'opulenza sensuale del luogo e la bellezza dei camerieri richiamava l'idea del bordello di lusso, ma allo stesso tempo l'hotel aveva un'aria seria, che non contrastava con la profonda pulsazione sessuale che si avvertiva ovunque. Non era il classico hotel da prezzi alti e servizi a buon mercato. E. posto era sofisticato, ma non troppo banale. Aveva un'anima e in qualche modo riusciva ad attrarre una clientela sofisticata, ma sensibile. Quando arrivò la colazione, Sarah si scosse dai suoi pensieri, notando per la prima volta che stava attirando un'attenzione maggiore del solito, un misto di interesse, ammirazione e invidia. Poteva immaginarsi i pettego-
lezzi. John Redford era alloggiato lì, e quella donna con capelli neri lucidissimi e lunghi, calzoni larghi e neri, T-shirt attillata e occhi acuti era la compagna della rockstar. Voleva sedersi e fare una colazione anonima, ma attirava l'attenzione di tutti, e non lo sopportava. Finì velocemente di mangiare e sì diresse verso la sua stanza. Mentre entrava, il telefono stava suonando. "Pronto?" "Sarah, sono James". Savage sembrava arrabbiato. "Cosa c'è?" "Svegliati" le disse. "Mi sembri ancora rincoglionita". Lei respirò profondamente. "Ti ha morsicato una tarantola, stanotte?" "No, qualcuno chiamato Roddy Clark, un deficiente di giornalista che scrive sul Word". "Ah, ecco". Savage era noto per odiare la stampa in generale. "L'hai incontrato? Mi sembra di ricordare di avere letto una ritrattazione o qualcosa del genere su un articolo che scrisse sulla Goldstein l'anno scorso. Qualcosa su Helen Jenks, una trader dei derivati". "Una cara ragazza, ti piacerebbe sicuramente. Insieme, ci hanno diffamato raccontando un sacco di balle. Li abbiamo perseguiti in tribunale e abbiamo vinto, ma adesso Roddy stronzo Clark ha una spina nel fianco per tutto quello che riguarda la City e, in particolare, per quello che riguarda noi. Si dice che nel suo club farnetichi e vaneggi parlando di distruggere un'azienda della City, preferibilmente la Goldstein". "Ma ti prego. E sarebbe un giornalista serio?" "Abbastanza serio da lavorare per il Word e mantenersi il posto dopo che l'abbiamo sputtanato. Dio solo sa come abbia fatto". "Allora, cosa dice?" "Che stiamo lavorando su Redford, cartolarizzando il suo catalogo, e che l'accordo è imminente. Sono perfino sorpreso che non abbia citato le condizioni e fornito una Usta degli investitori". "Merda!" "Direi". "Mi fai un fax, per cortesia?" "Subito". "Come cazzo l'ha saputo?" "Questa è la domanda, no? Non lo so. Tu non hai parlato, vero?" Savage sentì solo il più totale silenzio. Poi: "Non riesco a credere alle mie orecchie!"
"E dai, Sarah, non essere sempre così suscettibile, Cristo! Non ho detto che penso che tu abbia det..." "Allora risparmiami le tue seghe mentali". "Sarah, ho sempre avuto pazienza per quanto riguarda il tuo carattere di merda, ma altri probabilmente non ne avrebbero altrettanta". "Cazzi loro". "Questo non ti aiuta, tesoro". "Sicuro. Ma ci devo convivere. E anche tu, per cui non mi provocare". "Ormai ho perso le tracce di quello che ti può dare fastidio. Non credi che sarebbe meglio iniziare a essere un po' più diplomatica?" "Diplomatica io? Come?" "Prova a farti aiutare". "Di cosa stai parlando?" "Terapia, Sarah". "Terapia?" "Perché no?" "Non è possibile che io stia sentendo questo. Sei fuori di testa?" Cristo, pensò Sarah. Che ridere, Machiavelli in terapia. "Mi sembra un buon suggerimento". "Preferisco non sapere cosa succede nel mio subconscio". "Allora, ne sarai schiava per tutta la vita". "Oh, Madonna. Ti sei trasformato in un fanatico della terapia. Pensavo che odiassi questo genere di cose". "Invecchiando si rinsavisce". "Forse, ma certo non si diventa comprensivi. Tu detesti ancora la stampa e mi sembra di ricordare che quello era il succo della conversazione e, cercando di risponderti tranquillamente e razionalmente, posso dirti che io non ho parlato con la stampa. Mi piace rimanere dietro le quinte, come dovresti sapere, per cui non ci parlerei mai". "Pensi che Strone o Redford possano averlo fatto?" "Redford non ha tempo da perdere, ma potrebbe essersi fatto scappare qualcosa inavvertitamente. Strone invece è proprio il tipo da fare una cosa del genere. Lasciamici parlare". "Appena possibile. Se è stato lui, fagli una bella lavata di testa delle tue. Anzi, no. Cerca di essere diplomatica". "Non potrebbe essere stata la talpa?" chiese Sarah. "Tutto è possibile. Però non è il suo stile, parlare con la stampa". "Mai dire mai. Breden sta facendo ancora funzionare le telecamere?"
"Sì. Zamaroh è un po' al limite, con la faccenda dell'invasione della privacy e così via". "Lasciate tutto com'è. Dobbiamo arrivarci in fondo". "Faremo così. Hai niente per me?" "Sto arrivando a qualcosa, ma non è ancora tangibile. Solo accenni, ombre, fantasmi nella nebbia. Aspetterò fino a quando trovo qualcosa di reale, prima di coinvolgerti".. "Niente di brutto, spero". "No, James, non credo". "Niente che quello stronzo di Roddy Clark potrebbe acchiappare e rigirare a modo suo?" "No". "Niente che possa pregiudicare l'accordo?" "Non per ora". "Cos'è che non mi dici?" "Ascolta, James, fammi lavorare, ok? Non ti posso proprio dare una garanzia assoluta e non potrò mai farlo, ma per ora non ho le prove di niente di orripilante, va bene? Sto conoscendo meglio il ragazzo. Quello che ho trovato fino a ora sono i classici disturbi che abbiamo tutti, le speranze, le paure e le debolezze. Nessuno di noi gradirebbe vedere i suoi tormenti privati e i suoi sogni scritti a lettere cubitali sul Word. Il problema con il nostro cliente è che niente è inviolabile quando c'è di mezzo la stampa". "Non hai bisogno di convincere me, Sarah, ma la sua privacy è nostra finché non arriviamo all'accordo". "No, James, le uniche cose che ci interessano sono quelle che possono pregiudicare l'accordo. Un sacco di altri particolari sono assolutamente privati e non sono rilevanti. Non intendo dividerli con nessuno". "Non starai diventando un po' troppo sensibile?" "Credimi, James. So come fare il mio lavoro". "Non devi sentirti onnipotente. Se trovi qualcosa che non va. diccelo". "Se minaccia l'accordo, lo farò". "Io sono quello che decide se c'è qualcosa che può minacciare l'accordo, non tu. Voglio che torni a casa domani, Sarah". E prima che lei potesse ribattere, lui riagganciò. Sarah sbatté la cornetta e attraversò la stanza. Sotto la porta era incastrato un bigliettino. Si fermò a disagio e lo guardò per un attimo prima di raccoglierlo. Non c'era la busta, solo il suo nome all'esterno, battuto a macchina. Aprì il biglietto e lesse:
Non imparerai mai? Il tempo passa, troia. Vattene o ti ammazzo. Non voglio reagire, pensò. Adesso seguirò il mio solito rituale del mattino. Non voglio che la mia vita venga rovinata da una deficiente che non sa che cazzo fare. Fece un balzo indietro quando le venne in mente quello che le aveva detto Redford sottolineando le sue paure. Arriva un pazzo scatenato in pieno sole, appostato fuori... Cristo, proprio come in quell'istante. Cercò il telefono e chiamò Redford. L'operatore le disse che la chiamata era stata passata alla camera, ma che nessuno rispondeva. Chiamò Strone. "Sì?" "Strone, sono Sarah. Devo assolutamente parlare con John". "Impossibile. È giorno di concerto". "È importantissimo". "Niente è più importante del concerto". Sarah sospirò, frustrata. "Prova a dirlo a me" disse Strone. "Non posso. Posso parlarne solo con lui, perdonami". Strone si fece tutto orecchie. "Non c'è niente che riguardi solo lui. Siamo una squadra, Redford e Strone. Quello che so io, sa lui". "Oh. per l'amor di Dio, piantala. È personale". Questa frase procurò un silenzio di tomba. "Quanto personale?" "Cazzo, Strone, ci sono sfumature di personale? Cosa deve fare tutto il giorno? È possibile che non abbia cinque, dico, cinque minuti da dedicarmi? Devo dirgli una cosa". Sarah si rese conto che stava facendo la figura del mendicante noioso e invadente, e si ribellò all'idea. "Fa yoga per ore. Fa respirazione, si concentra. La tua invasione, qualunque sia la cosa che gli devi dire, gli toglierebbe la concentrazione, per cui non ti farò andare da lui. Oggi non gli parlerai". Strone parlava con un tono aggressivo che in un' altra situazione avrebbe mandato Sarah fuori dai gangheri, ma, memore dei suggerimenti di Savage a proposito della psicoterapia, cercò di mantenere il controllo, solo per provare a se stessa se ne era capace. Così successe una cosa strana: si accorse che Strone aveva perfettamente ragione. L'ultima cosa di cui aveva bisogno Redford era sapere che la sua paura più grande si stava avverando; un pazzo scatenato gli si stava avvicinando, anche se non stava minaccian-
do lui, ma Sarah. Esitò. Savage avrebbe detto, nel suo nuovo gergo, che era in fase di diniego. "Giusto" disse Sarah. "Comunque, ho bisogno di parlare anche con te. Quando ci possiamo vedere?" "Dai, Sarah. Sei lenta di comprendonio o cosa? È il giorno del concerto. Sono leggermente occupato". "Cinque fottuti minuti. E subito". Sarah sbatté giù il telefono. Non imparerai mai? Sei lenta di comprendonio? "Chi cazzo ti credi di essere?" Strone piombò nella sua stanza. Non può essere lui, pensò, guardandolo entrare. È troppo furbo per fare un errore del genere, tradirsi usando le stesse parole, anche se forse poteva avere le sue ragioni, che Sarah comunque non riusciva a capire, dato che dall'accordo avrebbe guadagnato dieci milioni di dollari. Si girò per fronteggiarlo. "Scusami. Ho un carattere di merda. È contagioso. Mi sono appena presa una scenata da James Savage". Si mise di fianco al fax e sventolò un foglio che gli buttò. "Ne sai qualcosa?" Lui lesse l'articolo sul Word, poi esaminò il viso di Sarah come se la vedesse per la prima volta. "Cosa c'è da sapere?" "Non è che, per caso, tu abbia parlato con qualche giornalista, vero?" "Palio tutti i giorni con i giornalisti, Sarah". "Hai parlate a questo giornalista del nostro accordo?" Strone cominciava ad avere un'espressione strana. "L'hai fatto" disse Sarah. "Che problema c'è?" "Riservatezza, Strone. Il metodo di creare un accordo. Tutto deve avvenire secondo un programma studiato alla perfezione. Non ci deve essere pubblicità, non si deve assolutamente parlare, nemmeno casualmente, con la stampa o con persone diverse da quelle designate in precedenza, e siamo io, Savage, Breden, Zamaroh, tu, Redford e forse altre due persone dei vostri che devono assolutamente sapere cosa sta succedendo. Di solito, i vostri avvocati". "E dai, Sarah. Non stiamo parlando di segreti di stato, mi sembra". "Sarà meglio che cambi atteggiamento, altrimenti il tuo accordo se ne andrà a gambe all'aria. E la sai una cosa? Il responsabile sarai tu. Per prima cosa, c'è una quantità pazzesca di regole che governano il mondo dell'alta finanza e noi come Goldstein, e tu, come nostro cliente, siamo obbligati a
rispettarle. Secondo, ci sono due modi di presentare questo accordo agli investitori potenziali: quello giusto e quello sbagliato. Gli investitori sono creaturine timide e diffidenti. Vogliono che tutto scorra tranquillamente, seguendo un tracciato prestabilito e noto. Ogni divergenza dalla normalità è causa di preoccupazione. Se qualcosa va storto durante il tragitto, vogliono potersi girare indietro e dire ai loro superiori 'Ma sai, guarda, non c'era nessun segno, niente di strano, niente di anormale, assolutamente niente che potesse far pensare che tutto ciò si trasformasse in questo schifo'. Hanno bisogno di un accordo gestito alla perfezione, ed è ciò che devono avere. Un accordo ben gestito genera fiducia, non è un optional. C'è una coreografia precisa che dobbiamo rispettare tutti insieme. Non puoi intrometterti, non devi improvvisare; sarebbe come se io, Savage, Zamaroh e Breden salissimo stasera sul palco con Redford e volessimo fare un quartetto con lui". Strone ascoltò in silenzio. "Ho capito" disse altezzosamente. "Non parlerò mai più con la stampa. Soddisfatta?" "Soddisfatta" disse Sarah. "Spiegami però cosa hai detto di preciso al giornalista, e chi ha preso i contatti con lui". "Mi ha chiamato lui all'improvviso, dicendo che aveva sentito che stavamo quotando in Borsa il catalogo di John, e che la Goldstein gestiva l'affare". "E poi?" "Io ho detto che era vero, che stava per nascere il più mastodontico accordo che una rockstar avesse mai fatto..." "Merda!" ruggì Sarah. "Cosa c'è che non va?" "C'è che neanche noi sappiamo di preciso i termini dell'accordo, ci stiamo lavorando, Strone. È assolutamente fuori luogo e prematuro andare in giro a sparare delle cifre. Non è il caso del mio che è più grosso del tuo. Se esageri, rischi il più totale fallimento". Strone sorrise furbescamente. "Non è un gioco quando succede a te" disse Sarah. "A te non succede mai? Mi sembri una che terrorizza la maggior parte degli uomini". Sarah avanzò fino a guardarlo dritto in faccia. "Ascolta un po', sbruffone, se succede, sarà a te e alla tua star. Non sarà per niente divertente, per cui cerca di collegare i due neuroni che ti rimangono e di mandare affanculo il tuo ego".
Strone si diresse verso la porta. "Lo sai, vero, che hai un carattere assurdo? Credo che dovresti proprio..." "Ti prego, non mi suggerire di andare in terapia". Lo interruppe Sarah. "Come fai a saperlo? Ti stavo giusto giusto. "Perché oggi sei la seconda persona che me lo dice". "Forse questo dovrebbe dirti qualcosa". "Infatti. Che sono nel posto sbagliato". Strone rise. "Vieni al concerto, stasera?" "Non lo perderei per niente al mondo". Capitolo 38 Sarah si cambiò d'abito, indossando dei calzoni e una T-shirt bianca di cotone. Si appoggiò sulle spalle una pashmina color lavanda e stava per uscire quando notò una busta incastrata sotto la porta. Aprì di scatto la porta, esaminando attenta il corridoio, ma non c'era nessuno. Il SUO nome era battuto a macchina, la busta chiusa. La aprì. Ne uscì una fotografia. Sarah e Redford vicini sul balcone, i visi illuminati dalla luce del tramonto, lui girato a guardarla, lei che lo fronteggiava con un'espressione inquisitrice. Le venne in mente il bagliore, ricordò un movimento veloce, come l'azione di un cecchino. Il suo viso era deturpato da una riga rossa, vischiosa al tocco, sangue o rossetto. Le vennero i brividi, terrorizzata e furiosa in ugual misura. Il biglietto, nel carattere di stampa ormai tristemente familiare, diceva: Se non giri alla larga da Redford, la pagherai. Preparati a morire. Guardò il biglietto e la foto come se avesse il potere di distruggerli con lo sguardo, ma il messaggio ostile rimase inalterato. Non poteva continuare a fare finta di niente. Odiava le cose in sospeso, odiava essere controllata da altre persone, soprattutto se erano senza volto, ma dal punto di vista razionale non aveva scelta. Non era pronta ad abbandonare Redford, sarebbe stato un lavoro interrotto a metà, ma l'amore che provava per Georgie la spingeva verso casa. Prima di Georgie, rischiare la vita era un giochetto egoista. Non l'aveva mai fatto di proposito, ma se succedeva durante il cammino, non si tirava certo indietro. Ora, tutte le strade la portavano dal suo bimbo. Abbandonarlo era impensabile. Doveva prendere sul serio le minacce.
Pensò alla notte appena trascorsa e alla domanda finale di Redford. Aveva soppesato la risposta a lungo, gli occhi che passavano sullo splendido corpo di Redford, ricordando il piacere più intenso che le era mai capitato di provare. Poi aveva sorriso e aveva detto, con semplicità: "Perché dovevo farlo". Prima di diventare fragile, si era alzata dal divano e se n'era andata. Più tardi, a letto, aveva sognato a occhi aperti come sarebbe stato rifare l'amore con quell'uomo, il padre del suo bambino, scivolare nella sua mente, gustare il sapore della sua pelle dorata, restare sdraiata con gli occhi nei suoi, sentendo il suo potere e la sua eccitazione. Guardò il biglietto, cercando di entrare nella mente di chi l'aveva scritto. Tu pensi che sia tuo, capì. Sei piena di odio, di rabbia, e mi vorresti distruggere. Lo posò su un tavolo e camminò per la stanza. Ti vedrò stasera, John Redford, decise, in tutto il tuo splendore, e domani ti lascerò alle tue ammiratrici pazze. Sarah sedeva in un palco privato in Parc des Princes ad ascoltare il boato della folla. Strone l'aveva accompagnata lì, poi se n'era andato. Ne era felice. Non voleva i suoi occhi su di lei mentre guardava Redford per l'ultima volta. Mentre lo guardava correre sul palco, riusciva a vedere il suo sorriso, lo scintillio dei suoi occhi, poteva sentire l'eccitazione che lui amava e temeva allo stesso tempo, quando riusciva a entrare nei sentimenti del pubblico. Fuori di lì, da qualche parte, c'era l'odio, ma in quel momento lei non se ne sentiva minacciata. Guardò John che si muoveva, snodato e sinuoso, accarezzando il microfono, e lo ascoltò cantare Come to me. Vai via, adesso, o vieni da me, Gira la faccia, o baciami, Abbottonati il cappotto, o lascialo scivolare a terra, Vieni da me e lascia che io ti ami, Lascia che la nostra storia cominci, Lascia che io ti guardi, E ti veda, lascia che io ti baci, E ti assapori, lascia che ti ami, Con tutto me stesso, con ogni nervo, ogni respiro, Ogni battito del cuore.
Voglio parlare con te, Voglio camminare con te, Voglio conoscerti, Voglio poterti amare. Lui cantava, ed entrava sempre di più nella mente di Sarah, nel suo sangue. Voleva ascoltare la sua voce che parlava solo per lei. Voleva vederlo aprirsi, voleva che lui si mostrasse a lei, voleva provocarlo e sentire il suo desiderio. Voleva che lui la toccasse consapevolmente, non per caso, aiutandola a mettersi la giacca. Desiderava essere stretta, accarezzata, vederlo allungare la mano per avere la risposta che lei avrebbe voluto disperatamente dargli. Odiava rendersi conto che stava perdendo il controllo di se stessa, ma si sentiva legata a lui da un desiderio potentissimo. Doveva averlo ancora una volta. Lo desiderava con una ferocia che la spaventava. Giurò a se stessa che lo avrebbe avuto ancora, per amarlo, per possederlo per una notte, e per essere posseduta da lui. Un'altra notte perfetta, ma non adesso, in queste condizioni, con lei nei panni di Giuda, spedita a studiare i suoi sentimenti e la sua vita privata, la sua anima e i suoi scheletri nell'armadio. Se fosse dovuto succedere, sarebbe stato in futuro, decise. Il fato li aveva già fatti incontrare per due volte. Se doveva succedere, si sarebbero incontrati la terza. Lo guardò, sognante, mentre lui cantava Breathe No More: Mi porti il profumo di posti lontani, I tuoi sguardi sono inscrutabili, Stringi a te le tue paure e le tue speranze, Come se fossero ballerini a pagamento, Avvinghiati nell'oscurità. Non fai mai vedere cosa ti commuove o ti porta alle lacrime, Ma, tesoro, io riesco a vedere la tua disperazione. Le carezze dei tuoi amanti aleggiano sulla tua pelle, Non ti avranno mai, e io non ti avrò mai, E non ti potrò mai tenere stretta. Ma la cosa più triste, amore, È che non sarai mai nemmeno tua.
Sei il mistero delle mie preghiere, Sei il sogno dei miei quattordici anni, Ti ho visto quando mangiavo la polvere, Quando non riuscivo a dormire, Quando le notti d'estate erano così calde, Sei arrivata, come un piccolo genio della lampada, E mi hai toccato le tempie, Con la tua mano fresca. Ora la tua mano sta bruciando, E nemmeno tutte le mie lacrime riescono a spegnerla. Non posso soffocare il tuo dolore, Non posso essere il tuo respiro, Ma quello che posso fare, tesoro, è amarti, Finche io non respirerò più. Capitolo 39 Sarah era seduta su una sdraio di legno sul terrazzo, osservando i tetti. Non era riuscita a dormire, e non ci aveva nemmeno provato. Aveva deciso di starsene seduta fuori al buio, con il profumo di incenso diffuso sulla pelle come una carezza, a guardare la notte che lasciava il posto all'alba. Adorava questa sensazione di essere sveglia mentre gli altri dormono. Si sentiva protetta dall'oscurità. L'odio che traspariva dai messaggi anonimi, in quel momento non la stava raggiungendo; se il dolore la stava aspettando, non riusciva a sentirlo, se c'era tristezza al di là dell'alba, nessun'ombra la stava avvolgendo. Si sentiva purificata. Redford aveva tirato fuori le sue paure e il suo dolore, il dolore che provavano tutti e due. L'aveva toccata con la purezza della sua anima, lei e altri cinquantamila e, nonostante le paure di John, tutti erano tornati a casa sollevati, più tranquilli. Se lui aveva il potere di avvelenarli, non l'aveva certo usato. Sarah guardò l'orologio. Erano le tre. Buio pesto, presto per l'alba. Cercò il suo bicchiere di whisky e si fermò a metà strada. Si sentì bussare. In silenzio, si alzò e camminò in punta di piedi attraverso la stanza. Toc, toc, il ticchettio si fece risentire. "Chi è?" sussurrò. "Sono John". Il cuore di Sarah fece un balzo, e riprese a battere velocemente. Le si bloccò la salivazione. Lentamente aprì la porta. Lui era lì, di fronte a lei, in jeans e maglietta
bianca, ancora una volta scalzo. Sembrava esausto, praticamente in estasi, come se avesse rivissuto tutto il suo dolore e il senso di perdita di cui parlava in ogni canzone, come se ogni accordo accompagnasse i suoi ricordi e lo strappasse da qualunque posto sicuro in cui avesse cercato di rifugiarsi. La guardò, e lei si spostò per farlo entrare. "Ero seduta in terrazza, a guardare la notte" disse. "Vuoi farmi compagnia?" Lui sorrise, annuì e la seguì attraverso la stanza e sul terrazzo. Si prese una sedia e si sedette di fianco a lei. "Hai sete?" chiese Sarah. "Potrei bermi un fiume intero. Mi sono scolato tutta la riserva di Evian in camera mia". "Aspetta, fammi vedere se ne ho". Si alzò e tornò con quattro bottiglie da mezzo litro. Lo guardò berne tre. "Il tuo spettacolo" disse lei, allungandosi per toccargli un polso "è stata una delle cose più belle che mi è mai capitato di vedere. È stato troppo bello per dormirci su. Avevo solo voglia di starmene seduta qui ad aspettare l'alba". "Posso farti compagnia? Tutta la notte, fino a domattina". "Ne sarei felice". Lo guardò, a lungo, indugiando sul suo viso. Non riusciva a distogliere lo sguardo. Tenendo gli occhi fissi nei suoi, lui passò oltre la linea di demarcazione e le sfiorò il viso. Le accarezzò le palpebre, le guance, le labbra. Tutto il suo programma, così ben organizzato, e le sue grandi decisioni, vennero accantonati. Gli baciò le dita, si avvicinò a lui e lo baciò sulle labbra. Sembrava un sogno, un ricordo rivissuto, con ogni senso più acuto che mai. Il suo sapore era quello che lei ricordava, anche meglio. Il modo di baciarla era ancora più dolce di quanto ricordasse. Lui la fece alzare, la strinse forte a sé, e il sogno diventò realtà. La accompagnò delicatamente a letto, osservandola mentre si sdraiava. Si mise di fianco a lei, le sue dita si muovevano sul suo corpo con una passione incontrollabile. La spogliò, si mise sopra di lei, le separò dolcemente le gambe fino a quando lei lo sentì premere su di sé. Sarah gli aprì la lampo dei jeans e glieli sfilò. Quando fecero l'amore, lei gli si diede totalmente, in completo abbandono. Dopo, rimasero sdraiati l'uno nelle braccia dell'altra, immersi nel silenzio e nel loro amore. Ci sarebbero state troppe cose da dire per sapere da che parte iniziare, così restarono in silenzio, poiché nessuno dei due voleva rompere quell'incantesimo perfetto. Sarah doveva essersi addormentata,
perché quando si svegliò trovò Redford in piedi di fronte a lei, con una smorfia che gli deformava i lineamenti. Gli occhi di lui passavano dalla foto al bigliettino che stringeva tra le mani. "Ah". "È tutto quello che hai da dire?" la voce di Redford era alterata dal tentativo di rimanere sotto controllo. "Cosa dovrei dire?" "Me ne avresti parlato?" Lei uscì dal letto e si avvolse in un asciugamano. Se lo strinse forte intorno al corpo e andò a rifugiarsi in una poltrona, con le gambe rannicchiate contro al petto. "Ci ho provato stamattina. Strone mi ha detto che non volevi essere disturbato". "Gli hai spiegato qualcosa?" "Assolutamente no. Volevo prima parlarne con te. Cosa sta succedendo, John? Sta succedendo anche a te, per caso?" Lui si accasciò sul letto. "Va avanti dalle ultime sei settimane. Ricevo un biglietto più o meno una volta al giorno, parole sempre diverse, ma che hanno sempre lo stesso significato: Divertiti finché puoi, cenere alla cenere, polvere alla polvere". "Nessuna idea su chi possa essere?" Redford scosse la testa. "Potrebbe essere chiunque, no? Qualunque bastardo deficiente che pensa che il suo destino sia farmi fuori. Una scorciatoia per diventare qualcuno". "John, è una donna gelosa, mi sembra evidente". "È un campo tutto da verificare". "Posso immaginarlo". "Quanti biglietti hai ricevuto?" "Tre. Uno a New York, il giorno dopo la cena insieme, poi uno stamattina, poi questo con la foto, appena prima di venire al concerto". "Ne hai parlato con la Goldstein?" "Non ancora". "Lo farai?" "Devo farlo". "Che reazione avranno?" "Mi chiederanno di ritirarmi con grazia dall'affare". "E lo farai?" "Non voglio. Non lo so" rispose impacciata. "Cosa succede all'affare se tu ne parli con loro?"
"Non lo so, semplicemente". Cercò di calmare il tumulto che aveva nella mente. Si alzò e si servì una dose molto abbondante di whisky. Ne bevve tre sorsate, sentendo una parvenza di chiarezza esplodere dentro di lei. "Forse possiamo persuaderli che le minacce non hanno niente a che fare con l'accordo, ma sarà molto difficile. Non sarà una cosa che farà loro piacere. Detestano il genere di pubblicità che può portare un intimidatore, se salta fuori. Forse si preoccuperanno che questo possa attirare l'attenzione su di loro". Si fermò un attimo. "Suppongo che tu non sia andato alla polizia, vero?" Lui scosse la testa, come se l'idea gli risultasse assolutamente estranea. "Perché no?" "Perché, se salta fuori, la stampa e la televisione impazzirebbero per questa storia, e il risultato sarebbe che diventerei ancora più attraente per i patiti delle lettere minatorie". "Ci sarebbe il modo di investigare più discretamente" disse Sarah. "Dimmelo". Stava per spiegarglielo, ma si fermò in tempo. "Non so, sai, in realtà non è il mio campo d'azione. Dovresti consultare un esperto. Ascolta, io devo tornare a Londra domani. Devo parlare con la Goldstein, devo chiedere a loro, loro conoscono un sacco di gente. Ti aiuteranno, ne sono sicura". "Non è il mio stile, Sarah. Ascolta, non credi che esista un modo per non coinvolgere la Goldstein?" "Perché?" "Non voglio suscitare un vespaio. Preferirei decisamente tornarmene a casa, nel Wyoming". "Vuoi dire accettare di essere cacciato via?" Redford alzò le spalle. "Ma, porca miseria, non puoi accettare che questa persona gestisca la tua vita". "Non è quello che sto dicendo. Semplicemente è ora di smettere, credo". "Perché?" "Smettere quando sono al massimo della carriera". "Potresti passare ancora tanti anni all'apice della carriera". "Forse". "Le minacce sono l'unica ragione, vero?" disse Sarah, che cominciava a capire. "Ecco perché vuoi l'emissione obbligazionaria, per scappare da lei. È la stessa ragione per cui non vuoi che io ne parli alla Goldstein, perché hai
paura che si tirino indietro dall'accordo e blocchino la tua via di fuga". Vide la conferma negli occhi di lui. "Ma perché hai bisogno dell'emissione per fuggire?" chiese lei, disorientata. "Devi avere già risparmiato abbastanza, più che a sufficienza per ritirarti. So che ne abbiamo già parlato, ma non riesco a credere che tu non abbia abbastanza capitali per smettere di lavorare". "Ne saresti sorpresa. I miei dischi hanno incassato centinaia di milioni di dollari, i miei tour altrettanto, ma ci sono tante trattenute, tante spese, tanti parassiti". Al pensiero, si intristì. "Anch'io in parte ho commesso degli errori. In questi vent'anni ho sputtanato un sacco di soldi". "Come?" "Be', sai... Il classico cliché 'sesso, droga e rock and roll', eccessi di ogni genere. Yacht, feste dove trovi ogni cosa. Ho avuto tutto e ho fatto tutto". "E adesso ti vuoi punire". Redford sembrò stupito. "Come?" "Stai lasciando che una pazza prenda per te una delle più importanti decisioni della tua carriera. Cos'è, una sorta di autopunizione? Sono colpevole di eccessi e adesso devo pagare?" "Sarah, non è così facile. Sono stanco di essere la rockstar e, sì, lo ammetto, sono terrorizzato da tutto questo odio". "Per quanto mi riguarda, credo che mi seguirà ancora per poco". Bevve un'altra sorsata di whisky. "Perché quella stronza non se ne esce allo scoperto e combatte alla luce del sole?" "A quanto pare sei sicura che sia una donna, vero?" "È scaltra, stronza e perfida. Anche possessiva. Non credi che possa essere una tua ex fidanzata?" Redford, per un attimo, sembrò allarmato. "Nessuna di loro mi odia, per quanto ne so. Possono detestarmi, ma non abbastanza da seguirmi intorno al mondo per sei settimane scrivendomi bigliettini minatori". "Deve essere ricca per andare in giro come fa. Non lavora, o ha un lavoro che le permette di prendersi sei settimane di ferie. Forse è una libera professionista. Qualunque cosa sia, è ossessiva, determinata e fuori di testa". Redford si alzò e prese la mano di Sarah nelle sue. "Mi dispiace. Dimenticavo che sei coinvolta anche tu. Hai paura?" "Certo, e non mi piace. Odio l'idea di essere minacciata. Come il tuo incubo, cammini sotto la luce del sole, e arrivi proprio nei paraggi di qualche pazzo con la pistola. Bang, bang. Sei morto".
Capitolo 40 Sarah prese il primo volo per Londra e andò dritta a Carlyle Square. Quando arrivò il taxi, Jacob stava aspettando sulle scale con Georgie in braccio. Lei corse da loro. "Oh, Georgie, Jacob. Le mie passioni. Come state?" Jacob sorrise. Quando vide sua madre, il bimbo emise laceranti gridolini di gioia, sporgendo le braccia verso di lei. Lei lo prese, gli nascose il viso nel collo, se lo strinse forte, lo baciò tutto e lo portò in casa, in cucina. Si accomodò nella sua poltrona preferita e lo tenne in grembo mentre chiacchierava con Jacob. "Com'è andata?" "Bene, tesoro. È stato proprio un bravo ragazzo, tranquillo e adorabile. Ci siamo divertiti, io e lui". "Oh, Jacob. Grazie mille. Senza dì te, non avrei mai potuto farlo". Lui sorrise timidamente, gli occhi che brillavano dal piacere, e Sarah si rese conto che il bimbo gli aveva portato una ventata di giovinezza. "In qualunque momento. Credimi. Allora, com'è finita? Ti trovo bene" osservò lui sospettoso, o così sembrò a Sarah. "Dici?" disse lei civettuola. "Non ci posso credere. Ho dormito pochissimo". "Un volo orrendo". Aggiunse velocemente. "Ma è andata bene. In effetti, spero di non dovere ripartire. Questo lato dell'incarico dovrebbe essersi quasi concluso". "Va bene, no?" "Sì, direi di sì. Tutto dipende da quello che diranno oggi alla Goldstein; se sono soddisfatti o meno dall'accuratezza delle mie indagini su Redford". "Cosa è saltato fuori?" "In pratica un bel niente. Il ragazzo sembra immacolato. Nessuno scheletro, per quello che ho potuto constatare". "Tutti hanno degli scheletri, lo sai". "Sì, è vero, ma suppongo che fino a quando gli altri non li trovano, qualunque cosa possano essere, l'accordo non ne sarà pregiudicato, per cui si toma al discorso di prima". "Cioè?" "Che porto a termine il mio incarico e la Goldstein conclude l'affare". "Perché ho la strana sensazione che non sarà così semplice?" Sarah rimase con loro per un'ora, poi scappò in Kings Road e prese un
taxi. "Alla City" disse. "Broadgate Circle, il più veloce possibile. Sono in ritardo". "E chi crede che sia?" chiese allegramente il tassista. "Un mago?" Sarah sogghignò, estrasse i documenti dalla sua valigetta e vi nascose la testa, prima che il tassista iniziasse a fare conversazione. La portò alla Goldstein appena in tempo per la riunione. Gli diede la mancia e andò nel suo ufficio provvisorio per vedere se c'erano dei messaggi. Jezza era già là. Sarah si fermò sulla soglia, sorpresa e irritata. Si obbligò a sorridergli. "Ciao, Jezza. Cosa è successo?" "Mi stavo solo chiedendo dove sei sparita. Non ti vedo da un sacco di tempo". "Sì, vedi, anche a me sembra di non vedermi da un sacco di tempo. Ricerca, vola qui, vola là, lo sai com'è, no?" "No. Non ne ho la più pallida idea" disse lui, prendendosi una sedia. "Spiegami tu". "Mi piacerebbe, ma non mi è possibile. Ho una riunione con Savage e sono già in ritardo di otto minuti". Jezza si alzò pigramente in piedi. "Dio mio, che non succeda mai di dovere fare innervosire il grand'uomo, vero?" Si grattò il naso, pensieroso. "Non è che tutti qui, in sala contrattazioni, abbiano libero accesso alle emozioni del grande vecchio, sai? Stai attenta". Sarah si irrigidì. "Cosa vuoi dire?" chiese bruscamente. "Ehi, calmati. Lo sto dicendo nel tuo interesse, ambasciator non porta pena". "Ascolta, Jezza, per l'amor di Dio, piantala di farmi questi indovinelli del cazzo! Non ho neanche un minuto da perdere". Jezza si guardò intorno e le si avvicinò con aria misteriosa. "Anche i muri hanno le orecchie" disse. Sarah lo archiviò per dopo. "Cosa?" Le fece cenno di avvicinarsi di più. Con un sospirone, Sarah gli andò più vicino. "Mettila così" disse lui, con un tono di voce volutamente drammatico. "Non mi sembra che gli vada tutto bene sul fronte domestico". "Cioè?" "Penso che la signora Savage stia giocando fuori casa". "Cosa te lo fa pensare?"
"Perché un giorno l'ho vista. Non ero venuto a lavorare perché non stavo bene, e l'ho vista con un bello stallone. Credevo di avere le allucinazioni". A Sarah vennero in mente istantaneamente i commenti di PJ su Fiona Savage, il suo suggerimento riguardante i pomeriggi della signora. Sentì che doveva difenderla, per il bene del marito, se non altro. "E piantala. Sarà stato suo figlio". "In quel caso, ti posso dire che ha una relazione molto malsana con suo figlio, visto che lo stava baciando". Sarah si sentì avvolgere da un'ondata di disgusto. "Ascolta, Jezza, mi sembra comunque che non siano cazzi tuoi, e neppure miei. Perché me lo stai raccontando?" Jezza interruppe l'interpretazione drammatica ed ebbe un gesto di irritazione. "Per grazia di Dio, Sarah, svegliati! Savage sta probabilmente cercandosi una ragazza carina che lo consoli. E chi può andar meglio di qualche bimba nuova sul suo libro paga?" Sarah si allontanò da lui, guardandolo urtata. "Levati dalle palle, pezzo d'idiota. Mi hai già fatto perdere abbastanza tempo". Si precipitò fuori dall'ufficio. Nella tromba delle scale si fermò un attimo, cercando di calmarsi, cercando di scrollarsi di dosso la sensazione di essere infangata che la colpiva quando Jezza le si avvicinava e comunque sentiva sempre, latente, appena sotto la superficie della sala contrattazioni. Capitolo 41 "Dimmi" disse Zana Zamaroh scivolando furtivamente attorno alla sala riunioni, fino a chinarsi sulla sedia di Dick Breden, con aria mezza inquisitrice, mezza seduttrice. "Cosa sai di Sarah Jensen?" Breden le fece un sorriso cospiratore. "Perché?" "Semplice curiosità". Zamaroh si alzò in piedi e si stiracchiò voluttuosamente, i seni che si sollevavano sotto la camicetta di seta rossa. "Anche tu sei curioso, ammettilo". Breden alzò le spalle, facendo l'indifferente. "Sono curioso per quello che riguarda quello che fa sul lavoro". "Non per quella che è la sua storia personale?" "Che storia?" "Be'..." Zamaroh si avvicinò a lui. "Come saprai di sicuro, ha lavorato
nella City per quattro anni, per la Finlays, diventando il loro top producer, sottopagata perché tutte queste banche inglesi sono molto avare, e lei è una donna, e quello non è mai di aiuto. Poi è saltata, all'improvviso, nel bastardissimo mondo della InterContinental Bank. Nel giro di quattro settimane, il capo del trading è stato assassinato, l'amministratore delegato è stato assassinato, e lei è sparita. Ha mollato la ICB, ha mollato la City ed è scomparsa per un sacco di tempo.,Dopo tre anni è riapparsa, come investigatore speciale di Savage. Una vita ricca di eventi, ti pare?" Breden sorrise. "Cosa vuoi da me, Zaha?" Zamaroh strinse gli occhi. Perché doveva essere così banale, grossolano e ovvio? Non sapeva niente dei rituali di Borsa, della danza di seduzione che invariabilmente ne derivava, anche per il volo delle farfalle, il battito d'ali dei trader che in un sol giorno riuscivano a ottenere e a perdere il successo. "Voglio sapere cosa è davvero successo e a che cosa era collegata. Mi sembra evidente, e dovrebbe esserlo anche per te". "E perché dovrei prendermi la briga di cercare queste informazioni, e di passartele?" "Le cercherai, se non l'hai già fatto, perché anche a te piacerebbe vedere Sarah Jensen cadere in disgrazia. È un cane sciolto nel tuo campo di lavoro, ha un accesso indipendente a Savage, ed è insopportabilmente rivoluzionaria in un settore dove le donne dovrebbero farsi guardare senza parlare. Tu mi darai queste informazioni perché, guarda caso, sono quella che ti dà il pane per vivere. È un concetto semplice, Dick. Si chiama scambio". Breden meditò in silenzio. "Perché vuoi saperne di più?" "Sapere è potere". La porta si spalancò, facendoli sobbalzare. "Sarah, che bello vederti" modulò Zamaroh con voce soave. Sarah la guardò sospettosa, e a Zamaroh venne il dubbio che avesse sentito un frammento di conversazione attraverso le pesanti porte di mogano. "Sei in ritardo" aggiunse, incapace di resistere. "Trovi?" Zaha pensò, suo malgrado, che Sarah era splendida. Vestiva quella che sembrava essere diventata la sua nuova uniforme, pantaloni da uomo, tacchi alti e una semplice maglietta bianca con un filo di perle, luminescenti, bitorzolute, ovviamente vere, al collo, e un altro paio di perle alle orecchie. "Adoro le tue perle". Zamaroh non riuscì a frenarsi. "Mari del Sud?" Sarah annuì, conscia del fatto che Zamaroh stava valutando sia il loro
cartellino del prezzo, sia il loro innato splendore. Costavano un capitale, ma Sarah non aveva idea del prezzo esatto. Erano un regalo di Jacob per festeggiare la nascita di Georgie. Era possibile che lui le avesse comperate, ma era anche possibile che fossero un ricordo degli anni da scassinatore. Sarah preferiva non chiederglielo, non voleva saperlo, ma il pensiero che provenissero da fonti poco lecite non sminuiva la loro bellezza. Zaha era evidentemente una grande appassionata di gioielli veri. Indossava un anello con un enorme diamante sul dito medio della mano sinistra, e un paio di orecchini scintillanti, ma a Sarah sembrava che li indossasse quasi con rabbia, come se li avesse comperati per se stessa e che il loro valore emozionale e monetario ne venisse ridotto. L'aria tremò quando entrò Savage. "Sarah, Dick, Zaha" fece loro un cenno con il mento, re indiscusso della sua corte. Ricevette da Fred, che lo seguiva in silenzio, una tazzina di porcellana colma di caffè espresso e se lo bevve di colpo. "Questa stanza è pulita?" ringhiò a Breden. "Sì". "Ancora niente sulla talpa?" Breden scosse la testa. "È molto elusivo. Le ricerche non arrivano da nessuna parte, non ha senso. Ho la sensazione che stiamo ignorando qualcosa, qualche chiave di lettura, e se solo capissimo cosa, potremmo avere qualche speranza di farcela". Savage alzò le sopracciglia dispiaciuto e si girò verso Sarah. "Hai qualcosa?" "Sì" sentì che l'aria intorno a lei diventava elettrica. "Per cominciare, è stato Strone Cawdor a parlare con Roddy Clark". "Idiota" esclamò disgustata Zamaroh. "Chiacchierone di merda" esplose Savage. "È quello che gli ho detto io, se vi fa sentire meglio" replicò Sarah, provocando un sogghigno di Savage. "Se ti sei espressa con la tua solita mancanza di diplomazia, mi sento in effetti consolato". "Chi ha preso contatti?" "Strone mi ha detto che Clark lo ha chiamato, e non c'è ragione di non credergli, così la domanda chiave da farci è: chi cazzo ha messo Clark sulla scena?" "Tu" rispose Zamaroh compiaciuta. Sarah la guardò con l'occhiata di incredula diffidenza che si darebbe a un
psicopatico che si avvicina per strada urlando oscenità. "Scusa?" "Tu e la tua bella sbruffonata, portando Redford giù in sala contrattazioni. Avresti ottenuto lo stesso risultato mettendo un annuncio sul Times". Sarah sorrise dolcemente. "Il punto è, Zana, che parlare ai giornalisti è una cosa da non fare assolutamente, senza eccezioni. Spero che tu l'abbia chiarito ai tuoi del piano di sotto. Il problema è che tu devi avere sbagliato, perché l'unica cosa sicura è che uno di loro ha chiamato Roddy Clark. Voglio dire, non è che quello passeggi tutte le notti davanti alla Goldstein chiedendo ai nostri dipendenti chi è venuto quel giorno, no?" "E allora?" chiese Zamaroh. "Pensi di fare qualcosa di minimamente costruttivo, con questo, a parte, ovviamente, cercare di sputtanarmi?" "Lascia che ti spieghi in parole povere" replicò Sarah. "Chiunque abbia tirato in mezzo Roddy Clark dev'essere per forza la nostra talpa". Zamaroh guardò ostentatamente il soffitto come aspettando che Sarah finisse il suo show. Poi la guardò con una strana luce negli occhi. "Adesso che hai fatto questa scoperta fondamentale, come proponi di scoprire chi è questa persona? Pedinerai Roddy Clark ventiquattr'ore al giorno per sette giorni? Certo che sarebbe un modo efficace di far vedere che ti stai guadagnando i soldi che ti diamo. Pensa che soddisfazione". "Ma piantatela di fare le stronze, tutte e due" esplose Savage. "Che il cielo ci protegga dalle donne". Scosse la testa. "Cosa farai, ora, Sarah?" "Abbiamo una possibilità, adesso. Ci guardiamo intorno finché non troviamo un'altra strada". "Mi sembra un po' vago" si girò verso Breden. "Hai idee, Dick?" Lui fece un'elegante alzata di spalle. "Come dice Sarah, cerchiamo un'altra strada. Almeno, è saltato fuori qualcosa di nuovo". Sarah si girò verso Dick. "Credi che dovremmo fare un profilo di Clark?" Lui si sfregò il mento. "Credo di sì. Non sappiamo cosa può saltare fuori dai suoi tabulati telefonici. Il lavoro sporco è tuo o è mio?" Savage e Zamaroh ascoltavano interessati. "Mio, temo" replicò Sarah con un sorriso. "Va bene, buttatevici sopra tutti e due" rispose Savage, risentito per venire tagliato fuori. "Siete pagati a sufficienza per farlo". Si alzò in piedi. "Aspetta un attimo" disse Sarah. Savage la guardò studiandola. "Cosa vuoi? Ho un'altra riunione tra cinque minuti". Sarah si allungò versò la caffettiera in mezzo al tavolo, si versò mezza
tazzina di espresso e se la bevve. "Hai altro?" Il pubblico era in attesa. Riappoggiò la tazza sul piattino con un tintinnio e alzò gli occhi per incontrare quelli di Savage. "Stanno minacciando Redford". Tutti, contemporaneamente, trattennero il respiro. "Va avanti dalle ultime sei settimane. Ovunque vada, costa orientale, occidentale, le minacce lo seguono, sotto forma di lettere minatorie come 'Divertiti finché puoi. Cenere alla cenere'. La classica storia da fuori di testa. Lui non riesce a capire chi possa essere". "Merda!" disse Zamaroh. Breden si allungò sul tavolo, rabbrividendo. "Maledetto" disse Savage. "Testa di cazzo. E adesso, che si fa?" "Ha paura?" chiese Breden, l'unico che manteneva il controllo. "È terrorizzato. Ha questa paura ricorrente di uscire dal suo albergo una mattina di sole, mentre una perfetta nullità lo aspetta con una pistola e lo ammazza". "E tu" chiese Breden. "Tu ha un'idea di chi possa essere?" "Penso sia una donna gelosa". "Perché? Come fai a saperlo?" "Perché sta minacciando anche me". Capitolo 42 Savage inviò le sue scuse all'altra riunione e iniziò un interrogatorio di un'ora a Sarah. Alla fine, lei si sentiva esausta e non vedeva l'ora di tornare a casa da Georgie. Aveva fornito ogni minimo dettaglio delle minacce, ripetendo sempre le stesse risposte alle stesse domande. "Quello che non riesco a capire e che tu non sei ancora riuscita a spiegarmi..." disse Savage con malcelata impazienza "...è perché stanno minacciando anche te!" "Cristo, non lo so!" esplose Sarah. "Chiedilo a quella maledetta". "Certo che siamo perseguitati da delinquenti: la talpa, l'intimidatrice..." osservò Zamaroh che sembrava godersi lo spettacolo del disagio di Sarah. "Te lo sto chiedendo, Sarah" insistette Savage, lanciando uno sguardo torvo a Zamaroh. "Tira a indovinare. Ti paghiamo abbastanza per provare a indovinare, no?" Sarah fece un sospiro teatrale. "Va bene. Due teorie. La prima è, come
ho detto, quella della donna gelosa. La ragione per cui è gelosa di me è che pensa che tra me e Redford ci sia qualcosa. È chiaro che alcuni della band lo pensano. Ho raggiunto il suo entourage all'improvviso, alloggio negli stessi hotel di Redford, cosa che nessuno della band è autorizzato a fare, tranne Strone Cawdor, non posso spiegare a nessuno la vera ragione per cui mi trovo lì, così loro suppongono, e vi riporto la deduzione di uno di loro, che io sia la sua troietta". Fece una smorfia, pronunciando quella parola. Zamaroh tentò senza successo di sopprimere un sogghigno. Savage ebbe la grazia di far finta di essere molto imbarazzato per Sarah, Breden si limitò a guardarla col suo atteggiamento imperscrutabile. "L'unico difetto in questa teoria è: perché è gelosa di me se odia Redford come sembra?" continuò Sarah. "Odio-amore?" offrì Zamaroh. "La sottile linea di confine e così via?" "Potrebbe essere" disse Sarah. "Qual è la seconda teoria?" chiese Breden. "È qualcuno che sa la vera ragione per cui sono là e non vuole che io scopra niente che possa pregiudicare l'accordo. Ma questo non ha senso, visto che le minacce mi faranno indagare ancora più a fondo. E, comunque, chi conosce la vera ragione? Nessuno vicino all'accordo farebbe una cosa del genere, a meno che non ci sia dietro la nostra talpa". "È come un maledetto labirinto" disse Savage. "C'è qualcuno che potrebbe avere dei vantaggi se ci ritirassimo dall'accordo?" chiese Breden. "Non mi viene in mente nessuno, a parte qualcuno che ci serbi rancore. Noi ci prendiamo un'ottima commissione, Strone, il manager ha per contratto una parte dell'introito di Redford, per cui si tratterrebbe una bella cifra. Forse la band non vuole l'accordo. C'è un uomo, Ray Waters, che sembra il vero deficiente". Sarah si fermò a pensare. "No, le minacce sono troppo veementi, troppo intime. C'è una donna, dietro. Mi orienterei sullo scenario odio-amore-gelosia". Savage strinse gli occhi scrutando Sarah. "Non ti stai avvicinando troppo a Redford, vero?" "Cosa vuoi dire?" "Be', lo sai". Savage si dimenò sulla sedia imbarazzato. "Diciamo che tu possa esserne troppo coinvolta". Sarah lo fissò. "Trascorro tutto il tempo che posso con lui, per scoprire il maggior numero di cose. Questa è la ragione per cui una squilibrata po-
trebbe pensare che tra di noi ci sia una storia". "E c'è?" insistette Savage. "No" disse Sarah lentamente e, sperava, tranquillamente, cercando di non pensare alla notte appena trascorsa e alla notte di un anno e mezzo prima, per paura che Savage leggesse anche solo una minuscola ombra della verità. "Allora, adesso cosa si fa?" chiese lui. "Questo ci mette i bastoni tra le ruote". Sarah si alzò in piedi. "Io me ne vado a casa". "Cosa vuol dire?" Savage la guardava. "Quello che ho detto. Non c'è altro da dire, e devo fare un sacco di cose". "Per esempio, Sarah?" "Cose mie, Savage. Cose private. Ho una vita. Lo so che è fuori moda e obsoleto in questo ambiente, ma è così". Sarah si diresse verso la porta. "Non avrai paura delle minacce, vero?" chiese Savage sorpreso. Sarah si fermò. "Tu non ne avresti?" "Io sì, ovviamente, ma tu sei diversa. Nessuno è mai riuscito a spaventarti, in passato". "Forse è la saggezza data dall'età. E poi, chi ti ha detto che sono spaventata?" "Hai quello sguardo cocciuto e distante negli occhi, come se tu te ne fossi già tirata fuori". "Forse sì, forse no. Non lo so. Ci devo pensare su". Sarah si girò, uscì dalla stanza e tornò a casa. "Strano" disse Breden quando la porta si chiuse. "Non l'ho mai vista così. Impaurita e vulnerabile". Sarah saltò su un taxi sentendosi andare in pezzi. Tutta quella storia la stava logorando. Tentò di concentrarsi sui suoi compiti, cercando rifugio in una lista di attività che poteva creare, spuntare e cancellare. Telefonò a Freddie Skelton dal cellulare. L'avvocato era in riunione, ma Sarah riuscì a contattarlo ugualmente. "Sarah, ciao". "Ciao, Freddie. Scusami se ti faccio questo". "Non è diverso da quello che mi fai sempre, tesoro. Non importa. Che resti tra me, te e i pettegolezzi della stampa: ho qui un cacciatore di teste strafatto di coca che vuole citare in giudizio una banca d'affari in cui ha
piazzato un suo protetto, perché si sono rifiutati di pagargli la sua commissione. Dopo una settimana è saltato fuori che il loro splendente e intelligente neoassunto di marca era un cocainomane anche lui". "Avrei pensato che in certi campi fosse un prerequisito fondamentale, più che un impedimento!" osservò Sarah. "Non quando un trader piscia sulla scrivania del capo della sala contrattazioni solo perché si rifiuta di aumentargli il limite di trading". "Ah, be', mi sembra effettivamente un po' antisociale, anche per gli standard delle sale contrattazioni..." "Cosa c'è di tanto deliziosamente urgente, stavolta?" "Mi servirebbe un brevissimo profilo". "Vuoi che ci incontriamo?" "Mi piacerebbe, ma è troppo urgente. Qual è il tuo numero privato di fax?" Skelton glielo disse. Dopo pochi secondi, gli arrivò un foglio di carta anonimo contenente due sole parole: Roddy Clark. "Ah" disse Skelton. "Sai chi è?" "Lo scribacchino che mi sembra non amarvi molto, se la memoria non mi tradisce". "Bravo, proprio lui". "Senza limiti di prezzo?" "Non andrei tanto in là. Iniziamo con un profilo di base veloce e sporco e partiamo da lì". Skelton sorrise. "Sarà delizioso". La lista delle cose di Sarah da fare si esauriva lì: si appoggiò contro il sedile del taxi e chiuse gli occhi. "Oh, dolcezza... oh, amorino mio". Teneva Georgie in braccio, le labbra schiacciate contro la sua morbida e paffuta guancia color pesca. Allungò le braccia per studiarselo bene. Lui le diede un pizzicotto sulla faccia. Oddio, era assolutamente uguale al padre. Lo strinse più forte. "È così carino" disse Sarah a Jacob. "Pensavo che mi avrebbe ignorato per averlo abbandonato". "Lo fanno, di solito" disse la signora V, che apparve con una pila di biancheria stirata. "Ti è andata bene". "Meglio così" disse Sarah, col naso seppellito nel collo di Georgie, baciandolo e facendogli solletico.
"Allora, com'è andata la riunione?" chiese Jacob. "Non lo so" rispose Sarah. "Tutte quelle cose da decidere. Savage e io dobbiamo risolverne un paio. Adesso non ci voglio pensare". "Perché no? Cosa è successo?" chiese Jacob. "Vogliono indagini più accurate?" "Non lo sanno. Io non lo so. Per non parlare del fatto che non voglio più lasciare Georgie". "Savage uscirà dai gangheri se molli tutto". "Be', senti, mi dispiace per Savage" rispose Sarah. "Porto Georgie a fare una passeggiata" disse, prima che Jacob ricominciasse a interrogarla. "Ha già pranzato, no?" chiese. "Sì. Patate dolci al vapore, salmone e broccoli". "Gnam gnam!" "Hai mangiato, tu?" chiese Jacob. "Mangerò un tramezzino mentre passeggio". "Ci vuole più di un tramezzino per tenerti su". Sarah sorrise. "Ho un sacco di riserve di grasso. Piantala di preoccuparti". Tornò dopo due ore, sfamò Georgie e lo mise a letto. Stava mettendo il bollitore sul fuoco quando suonò il telefono. Rispose Jacob. "C'è qualcuno che si chiama John" disse, con uno sguardo di disapprovazione. Passò il telefono a Sarah, e preparò il tè, con un rituale lento degno di una geisha giapponese. "Come stai, bellissima?" chiese Redford. Sarah sorrise. "Sto bene, signor Redford, e lei?" "Perbacco, come siamo formali oggi! Non puoi parlare?" "Bravo". "Ti ascolta qualcuno?" "Un intero pubblico". "Ah. Facciamo così. Io parlo e tu ascolti. Io ti posso allora dire che sei la donna più bella, più appetitosa e..." "Questo si sapeva già" lo interruppe Sarah, che guardava Jacob. Lui sospese per un attimo il cerimoniale del tè e la guardò con aria innocente. Georgie scelse quel momento per fare un urlo disperato che venne riportato dal baby phone in cucina. "Cos'è successo?" "No, niente, mio zio ha pestato la coda della gattina" disse Sarah, spegnendo il baby phone mentre Jacob correva da Georgie.
"Ascoltami" disse Redford, tornato serio. "Penso che tu debba saperlo. È arrivato un altro biglietto. Un fax, stavolta, spedito da Londra, da Kall Kwick, qualunque cosa sia. Me l'hanno infilato sotto la porta". "Cristo. Cosa dice?" "Dici che devi girarmi alla larga e che, se non lo farai, Georgie e Jacob moriranno". In qualche modo lei riuscì ad articolare due parole. "Devo andare". "Chi sono Georgie e Jacob?" "Scusami. Devo scappare" riagganciò. Non si era mai sentita così furiosa in vita sua. Se l'intimidatrice aveva voluto coinvolgerla, adesso aveva tutta la sua attenzione. Con le sue minacce vigliacche, era riuscita a scatenare in tutta la sua forza l'istinto materno accoppiato con l'amore da orfana per Jacob. Questi, insieme al legame con Alex, erano i sentimenti più puri e potenti che Sarah aveva mai provato, e se in quel momento avesse avuto di fronte quella maledetta, l'avrebbe letteralmente sgozzata. Una citazione da una poesia di Kipling le apparve nella mente. Le femmine, in tutte le specie, sono più feroci del maschio, perché programmate per la sopravvivenza. Troppo giusto. Lei avrebbe potuto uccidere senza battere ciglio, per proteggere coloro che amava. Come diavolo faceva a sapere quella stronza di Jacob e Georgie? Come era possibile che lo sapesse? Con una chiarezza tenibile, Sarah trovò la riposta. Doveva averla seguita, da Parigi a Carlyle Square, osservandola quando era arrivata, sentendola chiamare il figlio e lo zio. Sarah strinse le sbarre della finestra e guardò in strada. Non voleva vivere nel terrore. Non avrebbe lasciato che la sua vita, quella di Georgie e quella di Jacob venissero contaminate. Camminò avanti e indietro in cucina, cercando di respirare regolarmente, di pensare con chiarezza a quello che doveva fare. L'istinto glielo stava già dicendo, ma doveva ascoltare anche il suo lato razionale. Decise: fece un giuramento a se stessa. Quando Jacob ridiscese cinque minuti dopo, con suo figlio sorridente tra le braccia, prese Georgie, lo strinse forte, lo baciò. Dopo un lungo intervallo, lo passò a Jacob, e andò a telefonare a Eva Cunningham. "Eva, sono Sarah. Ho bisogno di discutere una cosa, con estrema urgenza. Puoi venire qui? Ah, Eva, fai finta con Jacob che sia un lavoretto di routine, ok? A dopo". Eva arrivò dopo un quarto d'ora. Sarah la fece entrare. Jacob fece capo-
lino dalla porta del salotto. "Ciao, Eva" disse calorosamente. "Come stai?" "Ciao, Jacob" gli si avvicinò e gli schioccò un bacio sulla guancia. "Sto bene, grazie. E tu?" "Da povero vecchio. Tiro avanti. Vuoi del tè?" "Vorrei, ma devo essere un po' antisociale, temo. La tua nipotina mi deve rompere le palle per qualcosa e, siccome dovrà coprirmi d'oro per questo, sarà meglio che mi chiuda in ufficio con lei e le dia una buona ragione per pagarmi tanto". "Arrivo tra un attimo con il tè" disse lui ridendo. Jacob appoggiò una larga teiera, due tazzone e una selezione di biscotti, accolse con grazia i ringraziamenti delle due ragazze e scomparve con discrezione. Eva bevve il tè bollente apparentemente senza accorgersene e si voltò verso Sarah con uno sguardo di acuto interesse. "Allora, cosa c'è?" Sarah guardò l'amica, concentrata. "Devo partire domani mattina, per due notti. Voglio una protezione ventiquattr'ore al giorno per Georgie e Jacob, e deve essere invisibile". Eva fece un sospiro. "Cristo, Sarah, non mi chiedi molto, eh? Forse sarebbe meglio che mi dicessi cosa succede, no?" Sarah spiegò a Eva delle minacce. Le disse dell'accordo con Redford. Visto che la rockstar e le minacce erano strettamente collegate, lei non aveva scelta. Spiegò che i vari membri dell'entourage di Redford - erroneamente, puntualizzò - pensavano che fosse l'ultima avventuretta di John, per cui, probabilmente, la stava minacciando per gelosia. "Merda. Tuo figlio e tuo zio" disse Eva che, dopo aver ascoltato per mezz'ora, espirò a lungo. "Allora, spiegami perché vuoi andare a Venezia. Spero che non sia per la ragione che mi immagino..." Sarah vide l'espressione grave di Eva e, altrettanto seriamente, le rispose. "Non faresti la stessa identica cosa?" Eva sorrise in modo strano. Per un attimo, sembrò valutare qualcosa, rivivere un'altra vita, poi disse semplicemente. "Per l'amor di Dio, stai attenta". Sarah esitò. "Puoi organizzare la copertura totale a tempo pieno, a partire da domani?" Eva si strinse nelle spalle. "Ho altra scelta?" Si sentì un leggero bussare alla porta. Jacob mise dentro la testa. "Esco a fare la spesa. Devo fare una scorta gigante".
Sarah sorrise. "Oh, Jacob. Pensavo di farlo io". "E nel frattempo con cosa sopravviviamo?" chiese lui allegramente. Lanciò un bacio alle donne e sparì. "Sarà meglio che chiami Savage" disse Sarah. "Prima che tu parli con i tuoi. Devo convincerlo che andare a Venezia non sarà così pericoloso come sembra". Le passarono Savage che stava giusto uscendo da una riunione. "Ci ho pensato su, e ho deciso che rischiamo di dare troppa importanza alla faccenda delle minacce" disse, con voce piatta. "Tutte le rockstar ricevono lettere minatorie. È come un trofeo, più pazzi attiri, più significa che sei famoso. Non credo che dovremmo lasciare che una matta intralci l'accordo. Volo a Venezia domattina". La risposta fu galvanica e iniziò una litigata furibonda. "Non se ne parla nemmeno" disse Savage, ancora furioso, cinque minuti dopo la dichiarazione di Sarah. "Quando sei uscita a passo di danza, stamattina, ho pensato a tutta questa orribile faccenda, discutendone con Dick. Guarda cosa è successo a John Lennon. A George Harrison". "Lo so quello che è capitato loro". "E allora comincia a prendere le minacce seriamente, cazzo!" "Non ti preoccupare, James. Le darò la considerazione che si merita". Savage tacque e fece una pausa sospettosa. "Cosa vuoi dire?" "Agirò in modo appropriato al livello di minaccia che ricevo". "Ti farà saltare via la testa. A te e a Redford. Non hai visto abbastanza morti?" chiese Savage, perdendo il controllo. "Credimi, James, farò tutto quello che è in mio potere per rimanere viva". "Non ne dubito" disse Savage, tranquillizzato dalla veemenza controllata nella voce di lei. "Ma non sei invincibile". "No, ma ho il mio scudo personale". E si chiama amore materno, aggiunse in silenzio. "Va bene, Sarah, non ho né il tempo, né l'energia di lottare con te. Mia moglie è in attesa sull'altra linea. Devo andare, ora. Fai quello che vuoi, non aspettarti però che io venga a disperarmi al tuo funerale". Sarah si spinse tristemente i capelli dietro le orecchie. "Vado" disse a Eva. "Ci avrei giurato. Sarà meglio che cominci ad allertare i miei". Eva si alzò in piedi e il telefono di Sarah squillò in quel momento. La voce di Savage si alzò dalla cornetta, imbronciata, ma tenera. "Sarah, sei lì?"
"Scusa Eva. Posso parlare io?" Sarah prese il ricevitore. "Sono qui". "Ascolta, volevo solo dirti che non volevo dirti quello che... quello che ti ho detto. Mi dispiace... Davvero, non vo..." Sarah gli gettò un'ancora di salvezza mentre luì cercava le parole giuste. "Va tutto bene, James. A volte la gente dice il contrario di quello che pensa. Non parliamone più". Ci fu una pausa poi la sua voce suonò più allegra. "Grazie, Sarah. Adesso sto decisamente meglio". "Non sto per morire. Non dobbiamo fare la pace, io e te. Ci azzanneremo alla gola per parecchi anni ancora". Savage rise. "Sono felice che nella mia vita ci sia qualcosa di costante". "Cosa vuoi dire?" "Scusa, Sarah. Ho Fiona sull'altra linea". "Assoluzione?" chiese Eva. "Già" replicò Sarah. "Ti dispiace se do un'occhiata alla casa?" "Vai pure". Sarah guardò Eva scivolare fuori dalla stanza. Eva non avrebbe controllato l'arredamento, pensò amaramente. Avrebbe studiato gli accessi alla casa, cercandone i punti deboli. Con Georgie addormentato, la casa era silenziosa. Sarah si appoggiò con la schiena alla poltrona. Avrebbe dovuto essere contenta di averla avuta vinta, ma la reazione di Savage l'aveva spaventata. Avrebbe voluto sbarrare le porte per una settimana, dormire nel suo letto con Georgie beatamente vicino a lei. Voleva scappare dall'insania del mondo del rock e dell'alta finanza, da fughe di notizie e minacce. Non voleva più sentire parlare di drammi, paura, passione che la infiammava, voleva solo pace, quiete e libertà dai suoi terrori, voleva Georgie e Jacob. L'ansia le attanagliò lo stomaco. Si alzò e camminò per lo studio, con la mente che lavorava velocemente. Ripercorse la telefonata con Savage. Tè del pomeriggio. La moglie di Savage al telefono, qualcosa, qualcuno che le aveva parlato dei pomeriggi di passione di Fiona. Trattenne un sospiro. Era stata PJ. Col suo tono insinuante e viscido, aveva fatto dei commenti sulla moglie di Savage, sul fatto che passava dei pomeriggi piacevoli. Poi c'era stata l'insinuazione di Jezza sullo stallone. Guardò l'orologio. Le tre e mezza. Il suo leggendario istinto stava urlando. Doveva andare immediatamente a controllare. Cercò Eva e la trovò che stava esaminando le sbarre alle finestre in cuci-
na. Eva si guardò intorno dubbiosa. "Ho bisogno di un favore" disse Sarah velocemente. "Adesso. Per un'ora, puoi guardarmi Georgie? Dovrebbe dormire, comunque, fino a quando arriverà Jacob". Eva alzò le sopracciglia. "Puoi fare le tue telefonate da qui?" continuò Sarah. "Se ti crea problemi, resto qui". "Tranquilla. Il mio piccolo libro nero è sempre con me. Chiamo dallo studio. Non è questo il problema". "È Georgie? Non ti preoccupare, basterà che lo baci e lo coccoli un po' quando si sveglia, gli cambi il pannolone e giochi un po' con lui. Ce la farai". Poi Sarah scappò via assecondando il suo istinto, come un cane da caccia dietro a una preda. Quindici minuti più tardi, se ne stava stravaccata sul sedile del guidatore della sua vecchia Bmw, in una strada tranquilla nei paraggi di Holland Park e controllava i movimenti intorno a lei. Non sapeva quanto avrebbe dovuto aspettare, ma era sicura che l'attesa le avrebbe portato delle risposte. Mezz'ora dopo, arrivò un uomo a piedi che si fermò di fronte al numero quarantatré. Oltrepassò il cancello e corse sulle scale della porta principale. Suonò il campanello, guardandosi intorno nervosamente. Dopo pochi istanti, Sarah vide che la porta si apriva, un'immagine sfocata di capelli biondi, poi la porta si richiuse e l'uomo sparì. Si sentì soffocare dalla repulsione. Rimase seduta in macchina, schifata, fino a che, circa un'ora dopo, l'uomo uscì. Scese lentamente dall'automobile, chiuse la portiera senza sbatterla e lo seguì. Aveva i capelli arruffati, il vestito da City spiegazzato e il suo sogghigno, mentre attendeva di attraversare la strada, guardando a destra e a sinistra, era disgustosamente compiaciuto. Sarah lo seguì come un'ombra mentre scese le scale della metro di Holland Park, facendo un rumore ovattato con le suole delle scarpe costose. Lui acquistò una copia dell'Evening Standard, trovò posto nella metropolitana, e si sedette, nascosto dal giornale. Lei si mise fuori dalla sua vista, controllando i suoi movimenti a ogni fermata. Scese, come lei aveva immaginato secondo le sue previsioni, nella City. Lo seguì ancora e arrivarono in Threadneedle Street, oltre la Banca d'Inghilterra. L'uomo girò in Throgmorton Street. Sarah si affrettò, per avvicinarglisi. Gli era arrivata al-
le spalle, quando lui girò verso il portone di Uriah, una delle banche d'affari più famose della City, rivale storica della Goldstein e vincitrice, ovviamente, dei tre accordi che la Goldstein aveva di recente perso. Sarah gli si affiancò, tutta sorrisi, e gli toccò una spalla. "Sei Mark, vero?" L'uomo si girò. Viso e corpo giovani e magri, sui trenta. Abbastanza giovane per fungere da stallone per la signora Savage, moglie di un cinquantenne. Capelli neri, occhi azzurri, freddi ma divertiti. Guardò Sarah dalla testa ai piedi prima di risponderle. Lei cercò di resistere all'irrefrenabile tentazione di dargli una ginocchiata nei testicoli. "No, non sono Mark" disse lui lentamente, con un'espressione di apprezzamento. "Ma allora devi avere un fratello gemello!" disse Sarah facendo l'oca giuliva. "Non riesco a credere che tu non sia Mark". "Mi dispiace deluderti" disse lui dolcemente. "Ma non ho fratelli e non sono Mark". "E allora chi sei?" chiese lei, civettando. "Sono Richard Deane". E tu, sei...?" Sarah gli andò vicina. "Sta a te scoprirlo. Potremmo incontrarci qui, su queste scale, stasera alle otto in punto". Prima che lui potesse risponderle, lei si girò e si incamminò. Prese il cellulare, fece una telefonata veloce, e quando le sue domande trovarono la risposta fu assalita da un senso di nausea. Capitolo 43 Sarah sedeva nell'ufficio di Savage, aspettando che lui tornasse da una riunione. Quando arrivò, una decina di minuti dopo, sembrò sorpreso di vederla. "Ciao, Sarah! Quale buon vento ti..." Lei indicò col mento la porta. Lui la chiuse. "Breden non ha messo microfoni, qui, vero?" Savage fece cenno di no. "Cosa succede?" "Penso di aver trovato la talpa". "Sei stata veloce". Sarah scosse la testa. "Non ha niente a che fare con Roddy Clark". Savage aggrottò le sopracciglia, confuso dal tono grave di Sarah. "Chi è?" chiese velocemente.
"Savage, sono desolata. Non c'è un modo facile per dirtelo". "E dimmelo, cazzo, fallo!" Sarah guardò Savage con gli occhi abbassati in segno di scusa. "È tua moglie". Lui non protestò. Non fu né offeso, né tentò di rifiutare l'idea. Ci fu solo vergogna, e avvilimento. Savage abbassò il capo. Diede solo una volta la possibilità a Sarah di vedere il dolore nei suoi occhi, per poi velarli per sempre. Per un lungo momento non parlò. Rimase in piedi di fianco alla finestra e guardò fuori. Infine, si girò verso Sarah. "Sei sicura? Non ti stai sbagliando?" "Non ho prove materiali, James, ho solo visto qualcosa. Giudicherai tu". "Va bene. Dimmi". Non avrebbe menzionato Jezza e PJ. Non voleva sottoporre Savage alla vergogna dei pettegolezzi in sala contrattazioni. "Bene, è cominciato tutto con qualcosa che hai detto tu, sull'avere qualcosa di costante nella vita. Sottintendeva che avessi dei problemi con tua moglie, e improvvisamente il profilo divenne: moglie disamorata cerca di ferire il marito e prendersi una rivincita. Sono andata a casa tua, in preda a una strana sensazione, mi sono seduta in macchina sul lato opposto della strada e ho aspettato. Non avrei mai pensato di ottenere dei risultati così velocemente, ma dopo mezz'ora lei ha ricevuto una visita, un uomo. È rimasto per un'ora. L'ho seguito dopo che l'ha lasciata. È venuto qui, nella City, è entrato alla Uriah. L'ho agganciato. Si chiama Richard Deane. Ho telefonato al centralino di Uriah, ho chiesto che mansioni ha. È il responsabile dei capital market. Fa parte della squadra che ha preso tutti gli incarichi che ci hanno rubato". Savage si coprì il viso con le mani. Si strofinò gli occhi con violenza, poi si girò a guardare Sarah. La rabbia iniziava a superare lo shock. "Questa è l'ultima volta che nomino la talpa" disse lei. "Né Breden, né Zamaroh, nessuno lo saprà mai". "Vorrei averlo tra le mani per ammazzarlo, il bastardo" disse Savage sottovoce. "Nel caso ti possa interessare" buttò lì Sarah casualmente "gli ho detto che lo avrei incontrato sulle scale della Uriah stasera alle otto. Non ci andrò, ovviamente, ma se per caso vuoi farci un salto tu per dargli un'occhiata, ti renderai conto che non vale il tuo dolore. È un gigolo e uno stronzetto". Sapeva che Savage voleva vedere il suo rivale, e sapeva anche, dallo sguardo di apprezzamento che le aveva lanciato, che Deane sarebbe stato
là, ad aspettarla. Vedere l'umiliazione di quell'uomo, in piedi sulle scale ad aspettare qualcuno che non sarebbe mai arrivato, sarebbe stata una piccola consolazione per Savage prima di andare ad affrontare la moglie. Sarah tornò a casa alle otto. Si trovò di fronte a una cucina allegramente devastata. Georgie era seduto sul pavimento, circondato da un mucchio di insalatiere, centrifughe per l'insalata, ciotole di legno, per farla breve l'intero contenuto della credenza della cucina. Di fronte a lui sedeva Eva Cunningham, i capelli biondi tirati dietro le orecchie, e un'espressione disperata dipinta sul viso. Quando vide Sarah, si alzò in piedi. "Ah, sei tornata. Bene..." Sarah scoppiò a ridere. Cercò di passare attraverso il campo minato e prese in braccio Georgie. "Cosa c'è di tanto comico?" chiese Eva, le mani sui fianchi. "Tu" rispose Sarah, tra le risate. "È la prima volta che ti vedo diversa dal solito, cioè non controllata al cento per cento". "Ah, sì? Be', carina, nei miei panni saresti anche tu un po' in disordine..." "Dov'è Jacob?" "Ha lasciato un messaggio in segreteria. L'ho sentito per caso" disse Eva con un'espressione innocente. "Diceva che passava a casa di uno dei suoi amici e si faceva un goccetto là". Sarah le sorrise a disagio. "Mi dispiace, Eva. Lui non poteva sapere che tu eri incastrata qui. È andato tutto bene? Hai il numero del mio cellulare. Avresti dovuto chiamarmi". Ora era Eva a sorridere. "Ce l'ho fatta. Non chiedermi come. La tua creaturina si è svegliata un'ora dopo che sei uscita. Abbiamo giocato con delle vagonate di giocattoli. Li ho tirati fuori tutti, dal primo all'ultimo, ma nell'ultima mezz'ora si stava innervosendo, così ho provato con le ciotole". Si strinse nelle spalle, incerta. "Be', direi che hanno funzionato". "Stavano passando di moda anche quelle" replicò Eva. "Credimi, Sarah, sono così felice che tu sia tornata a casa". Fece una pausa. "Gli ho fatto una pappa di banana e riso. Spero che vada bene". "Sei stata un tesoro, Eva". "Ero terrorizzata. Non avevo idea che i bimbi piccoli fossero così spaventosi". Sarah le lanciò un'occhiata. "Non hai tutti i torti. Sto cominciando solo adesso a capire come funziona. Per i primi sei mesi sono stata pietrificata dalla paura di fare qualcosa di sbagliato".
"Sembra che siate sopravvissuti entrambi, comunque, no?" Sarah la baciò sulle guance. "Ascolta, un milione di grazie". Eva sorrise. "Prego. Non ti posso dire 'quando vuoi', ma in caso di emergenza ti aiuterò, se posso". Si fermò un attimo. "Com'è andata, comunque?" "Stavo inseguendo una preda. Sfortunatamente avevo ragione". "Brutte notizie?" "Orrende". Eva si strinse nelle spalle. "A volte capita". Sarah fece un sospiro triste. "Non dovrebbe, però. A che punto sei con i tuoi preparativi?" "Ho quasi finito, il resto lo farò domattina. Stai tranquilla". Sarah diede da mangiare a Georgie, gli fece il bagno e lo mise a letto. Jacob tornò dalla seduta di ricordi con gli amici. Aveva lasciato l'automobile nel parcheggio di Sainsbury. Ordinò una cena da asporto e lui e Sarah si gustarono la festa improvvisata chiacchierando allegramente. La notte passò troppo velocemente. Sarah aveva appena finito la colazione quando suonò il campanello. Era ancora Eva, stavolta con una piccola valigia. Baciò allegramente Sarah. "Puoi essere il mio principe azzurro? per qualche giorno?" chiese, in tono convincente. "Mi si è rotto lo scaldabagno. Andrew non c'è e quel deficiente dell'idraulico non può venire prima di domani". Alzò le spalle. "Tu mi conosci, sai che non posso vivere senza i miei comfort!" Jacob arrivò nel corridoio appena in tempo per ascoltare il nocciolo della storia di Eva. "Ma certo che puoi restare, tesoro" disse deliziato. "Ne saremo felici, io e Georgie". Eva sorrise. "E tua nipote?" "Va via, no? Venezia, nientemeno". "Parto all'ora di pranzo" disse Sarah. "Starò via un paio di giorni". Prese la borsa di Eva. "Vieni, puoi stare nella stanza di Alex. Ehi!" urlò mentre saliva le scale. "Potrai aiutare Jacob a tenere Georgie, no? Che meraviglia!" La sua amica le fece una boccaccia. "Dammi almeno il tempo di riprendermi dall'esperienza di ieri, prima..." Sarah salì al terzo piano, con il viso disteso in un largo sorriso di sollievo. Arrivò il momento di partire e il taxi aspettava fuori, il motore diesel ac-
ceso che rombava senza pietà. Sarah teneva Georgie tra le braccia, cercando di non piangere. Jacob la guardava compassionevole. "Ti amo, piccolino". Baciò le guance paffute di suo figlio e lo consegnò a Jacob. "Amo anche te" disse, facendogli un sorriso timido. "Tornerò presto". Li baciò entrambi ancora una volta e pregò che fosse vero. Si voltò verso Eva, che era rimasta in silenzio, mentre lei salutava le persone più importanti della sua vita. Gli sguardi che si scambiarono dissero tutto. Eva superò Jacob e Georgie e la accompagnò al taxi. "Abbi cura di loro, Eva" disse Sarah, con voce tremante. "Senza di loro..." Eva le strinse forte la mano. "Ho quattro persone, su questa azione, oltre a me. E li proteggerò con la mia stessa vita, se dovesse essere necessario". Sarah sapeva che le stava dicendo la verità. Capitolo 44 Sarah era seduta nel bar Garfunkel, al terminal di Heathrow, bevendo un cappuccino e chiedendosi che diavolo stava facendo lì. Pensava a Georgie a casa con Jacob, sorridente, che giocava e si catapultava dappertutto con il girello, e lei non poteva vederlo. Tutto quello che chiedeva era stare con suo figlio nel ciclo giornaliero della sua esistenza, vederlo mentre si svegliava, giocava, mangiava, dormiva, immerso nella sicurezza e nella felicità. Sarah si scostò i capelli. Certezze che lei non aveva. Non più, almeno da quando quella stronza dei biglietti si era catapultata nella sua vita, minacciando lei, Jacob e Georgie, seguendola a Parigi e da Parigi a Londra, guardando il suo bimbo con i suoi occhi da psicotica. Era ossessionata da Redford, e questa ossessione rendeva reali le folli minacce della donna. Non si poteva difendere negando l'evidenza, non quando era coinvolto Georgie. Non si potevano barricare in casa, ma lei sapeva che ogni uscita con il bambino sarebbe stata inquinata dalla paura di stare correndo un grave rischio. Così, sarebbe andata a Venezia, per far sì che la cosa seguisse il suo sviluppo, cercando di forzare un po' gli eventi. Per fortuna c'era Eva. Eva avrebbe trovato il modo di stare appiccicata a Jacob e Georgie notte e giorno, aveva una squadra di persone posteggiate in strada su furgoni coi vetri oscurati, e a piedi. Insieme, avrebbero fatto tutto il possibile per assicurarsi la salvezza di Georgie e Jacob, senza però allarmare Jacob con la loro presenza. Se Jacob avesse saputo cosa stava succedendo, sareb-
be rimasto traumatizzato, sicuramente non per la propria incolumità, ma per quella del bimbo che anche lui amava più della sua vita. Sorvolarono il massiccio delle Alpi. Catene di montagne che sembravano azzurre, allungate come onde sul mare in tempesta, si univano a un cielo senza fine. Nuvole basse velavano vallate nascoste, laghi ghiacciati color mercurio si allungavano gelidi e sereni sotto lo sguardo cupo di Sarah. Mentre i minuti passavano, lei entrava sempre più nell'ordine di idee del ruolo da interpretare, uscendo da quella che era la sua vita vera. Le sfuggì un sorriso triste. Venezia era, dopo tutto, la città del carnevale. Dalle pagine patinate della guida che aveva acquistato all'aeroporto, la fissavano visi bianchi mascherati, occhi di gatto ritagliati in morbido gesso. Nasi a becco allungati, con un'aria sfottente. Quelle, aveva letto, erano le maschere dei dottori della peste, nate durante la terribile epidemia che sconvolse Venezia nel 1630. I lunghi becchi venivano riempiti con erbe medicinali che i dottori speravano li proteggessero dal contagio. Sarah immaginò il terrore che provavano entrando in contatto con gli ammalati. All'arrivo, Sarah attraversò l'aeroporto e uscì, dirigendosi dove i taxi lagunari aspettavano i clienti, legno di ciliegio splendente sotto il sole. Afferrando la mano tesa di un tassista veneziano, scese agilmente dal pontile nella lancia. Si chinò e attraversò la cabina raggiungendo il piccolo ponte posteriore, dove si fermò appoggiandosi alle porte chiuse. La barca fece inversione, girò su se stessa e accelerò verso la laguna. Sarah si aggrappò alla barra laterale mentre l'imbarcazione ruggiva, solcando l'acqua e formando due solchi di schiuma. Oltrepassarono l'estremità della pista di atterraggio dove luci intense brillavano come giganteschi diamanti. Nel passare fiancheggiarono bricole di legno antichissimo, simili a enormi fiaccole lungo un viale imponente. Sorpassarono rombando una splendida, minuscola isoletta con palazzi color terracotta, cipressi e palme. Sarah era eccitatissima. Non era mai stata a Venezia. L'aveva sempre riservata per l'uomo dei suoi sogni. Ora stava raggiungendo l'uomo che forse poteva diventarlo. John Redford non lo è, si disse, prima che la mente iniziasse a vagabondare: c'è molto lontano, non è neanche divertente. L'uomo dei suoi sogni non era certo una rockstar, non era una proprietà pubblica, sarebbe stato suo e suo soltanto. Non avrebbe incantato milioni di persone. Sarebbe stato un uomo tranquillo, schivo, coraggioso e, soprattutto, solo suo. Certo che quello era veramente il posto ideale. La barca rallentò, e si abbassò sull'acqua attraversando quelli che sembravano gli antichi portali della città. La bellezza dello spettacolo le tolse il fiato. Non c'era niente di
timido e discreto nella fiera bellezza di piazza San Marco vista dalla laguna. La grandiosità, la simmetria, la collocazione dei monumenti, tutto magnificava il potere della Basilica, del Palazzo del Doge. Pensò alle spedizioni per mare che erano partite da lì, al Doge stesso che partiva per le Crociate, alle navi cariche di spezie e tesori dell'Oriente che arrivavano cariche di doni per il capo della Repubblica Serenissima. Si immaginava i dignitari in visita che trattenevano il fiato, proprio come stava facendo lei. Piazza San Marco pretendeva che gli occhi e i cuori le rendessero omaggio. La barca passò attraverso il Canal Grande, sotto lo sguardo dei palazzi che avevano visto tanti supplicanti entrare nel regno sull'acqua. Qui la bellezza e la vita di ogni giorno vivevano fianco a fianco. In un canale laterale Sarah vide fili per la biancheria con enormi mutande da uomo appese nell'aria immobile. Passarono sotto un ponte talmente basso che Sarah dovette chinarsi temendo per la sua testa. Il riflesso della luce sull'acqua colpiva il lato inferiore del ponte, facendolo sembrare vivo come pelle guizzante. Quando approdarono al porticciolo dell'Hotel Principe, si trovarono di fianco a quelli che sembravano pali giganti da barbiere, dipinti a strisce rosse e bianche, che si innalzavano dall'acqua per un'altezza di due metri e mezzo. Sarah pagò una cifra esorbitante per il taxi e si portò la valigetta su per le scale fino alla terrazza dell'hotel, fermandosi per un attimo a guardare la facciata elegante, rosa brillante sotto il sole del pomeriggio. Si registrò alla reception, poi tornò sulla terrazza dove ordinò un whisky sour e si sedette a un tavolo lavorato in ferro battuto dipinto di bianco, gustando il drink e guardando il canale. Passò un vaporetto carico di passeggeri. Un messaggio scritto in inglese sul suo bordo attirò la sua attenzione e la fece ridere. Spera solo che ci sia speranza. Criptico ed esistenzialista, sembrava scritto proprio per lei. Non poteva credere di essere davvero lì. Le sembrava di far parte di un dipinto vivente. Venezia era eccitante ed emozionante in modo viscerale. Forse era l'acqua che lambiva i palazzi con una lingua amorevole. Lei aveva sempre adorato l'acqua, non riusciva a vedere una distesa d'acqua senza provare l'irrefrenabile desiderio di buttarcisi dentro. Si immaginò l'acqua color indaco che l'abbracciava, e lei che si abbandonava, fluendo e rifluendo con essa. L'acqua alimentava lunghe fronde di alghe sui gradini giù nel canale, e se li immaginò come suoi capelli. All'improvviso si sentì osservata e si girò di scatto, ma non c'era nessuno.
Capitolo 45 Era un bell'hotel, pensò Sarah quando un fattorino la portò alla stanza, ma non aveva niente a che fare con quelli in cui in genere stava Redford prima dei concerti. Le quattro stelle del Danieli o le cinque del Cipriani erano più nel suo stile. Stava ponderando la scelta dell'uomo, quando lui comparve. "Come hai saputo che ero qui? Hai delle spie che mi seguono?" chiese. Lui sorrise. "Sempre". I suoi occhi si rattristarono. "Non ero sicuro di poterti rivedere ancora una volta". Lei lo fece entrare in camera, chiuse la porta e andò alla finestra. Aprì le tende e percorse con lo sguardo Lista di Spagna. "Non lo sapevo neanch'io". "Cosa ti ha fatto cambiare idea?" "Mettiamola così: non lascerò che quella puttana governi la mia vita". Redford la guardò preoccupato. "Non puoi lasciar perdere, fare finta che non esista?" "Vuoi dire fare quello che fai tu, no?" disse lei, cercando di mantenere la calma. "Cercare spettri ovunque vai, scendere in alberghi diversi dalla tua ciurma". "Non voglio vivere, dormire, andare al cesso dove lavoro. Lei non c'entra". "Forse, ma è più di una questione di privacy. Tu non ti fidi di quelli che lavorano per te, vero? Uno di loro potrebbe essere il tuo uomo o la tua donna. Dopo tutto, ti seguono sempre per lavoro. Sarebbe una personcina particolarmente gentile a viaggiare a sue spese". "O ricca. Merda. Non lo so. Sarah, non diamole importanza, va bene?" "Perché no?" "Così posso tenermi le mie illusioni. Non voglio che getti un'ombra su di noi". "Diniego". "Ti disturba tanto? Scommetto che anche tu neghi certe cose". "Sempre" fece un sorriso sarcastico. "Ma io non posso certo essere considerata un modello di vita". "Sembra che comunque ci possiamo trovare d'accordo. Dai, neghiamo assieme la stronza o quello che è e usciamo in esplorazione". Uscirono dall'albergo e girarono a destra su Lista di Spagna, dirigendosi verso uno dei ponti sul Canal Grande. Lo attraversarono, insieme a file in-
terminabili di turisti e pochi veneziani frettolosi che tornavano a casa, fermandosi ogni tanto per controllare dov'erano. Le gondole passavano sotto di loro, con le prue illuminate. Le imbarcazioni assomigliavano ai passanti, frettolose e intente a trovare la strada giusta. Sarah notò che i veneziani sembravano indossare un'uniforme fatta di giacche alla cavallerizza rosse, blu o verdi con le spalle imbottite, che non avrebbero sfigurato al concorso equestre delle Home Counties. Sembravano amabili: gondolieri, postini, impiegati, dirigenti, tutti rispondevano al suo sguardo in modo amichevole, curioso e orgoglioso. Passò una coppia persa in una conversazione, le braccia che gesticolavano simili a gabbiani in volo. Sarah sentì un colpo al cuore, invidiando la normalità della coppia. Redford si era infilato un berretto da baseball calato sulla fronte e sembrava che nessuno lo riconoscesse. Per quanto però loro sperassero di condurre un'esistenza normale, non sarebbe mai stato possibile. Scendeva l'oscurità quando lasciarono il Canal Grande e si immersero in un dedalo di strade minuscole. I canali che incrociavano passeggiando sembravano ora viscidi, colore dell'inchiostro, e riflettevano le luci come toccati dal pennello di un impressionista. Erano le sette di sera, e nell'aria risuonarono dei rintocchi di campane, lunghi, ravvicinati e convulsi. Sembrava che li volessero avvertire di qualcosa. L'eco delle campane risuonò a lungo nelle orecchie di Sarah. Il nuovo silenzio non durò molto. Mentre camminavano nelle stradine strette, Sarah udì frammenti di una canzone, e poi, quando si avvicinarono, un lungo, crescente lamento. Si fermarono su un ponte ad ascoltare. Redford fece scivolare il braccio attorno a Sarah e la avvicinò a sé con un sorriso. Sarah rimase rigida per qualche istante, prima che il corpo avesse il sopravvento sulla mente, poi si rilassò e si abbandonò. Videro un gondoliere, che spingeva il lungo remo. Smise di cantare, e improvvisamente la notte ritornò silenziosa. Venne verso di loro. Sulla gondola c'era una donna, sola. Indossava un cappello scuro e aveva la testa abbassata, come se stesse dormendo. Abbracciati, Sarah e Redford continuarono a camminare. D'impulso, Sarah si guardò dietro la spalla e vide che la donna stava guardando in su, direttamente verso di lei, ma la gondola era entrata in una zona poco illuminata che velava i suoi lineamenti, per cui riuscì solo a vederle gli occhi. Il passo di Redford la spinse in avanti ma l'immagine dei lunghi capelli, del cappello a larghe tese e dei lineamenti della donna mascherati dall'oscurità accompagnarono a lungo Sarah. Redford si fermò di colpo, prese una cartina dalla tasca dei jeans, sforzò
gli occhi al buio e sembrò soddisfatto, poi prese sottobraccio Sarah e tirò dritto. Sarah era impressionata dal fatto che fosse così disinvolto in quel labirinto. Si chiese dove stessero andando, ma non parlò. Non era importante. Ovunque c'erano cose bellissime da vedere, segnali di delizie nascoste e misteri dietro l'angolo. Alcune svolte li riportarono sul Canal Grande. Passava una chiatta con un piccolo westie in equilibrio sul ponte. Il cagnolino piegò il collo e abbaiò al cielo, tre latrati acuti e gioiosi, come se stesse salutando un vecchio amico. Sembrava così strano che non ci fossero automobili. La sensazione di essere proiettata indietro nel tempo colpì Sarah. L'unico legame con la modernità era l'odore di gasolio che aleggiava nell'aria pesante. Un pescatore era seduto sulla banchina, guardando speranzoso l'acqua limacciosa. "Non credo che apprezzerei la sua preda, e tu?" "Aspetta a dare giudizi. Potrebbe essere la tua cena". Attraversarono il Ponte di Rialto. C'era un traffico incredibile di barche, come una muta di cani dietro la traccia di una preda. A Sarah venivano in mente le centinaia di biciclette in Vietnam, che corrono velocissime senza mai fermarsi, ma, miracolosamente, senza scontrarsi. Sarah fece scivolare la mano sul marmo bianco della balaustra del ponte. Era incredibilmente liscio al tatto, come pelle fresca, accarezzata e lisciata da secoli. Le fece pensare alla pelle di Redford, seta sulla roccia dura dei suoi muscoli. I suoi occhi incontrarono quelli dell'uomo. Le fece un sorriso consapevole, come se avesse capito a cosa stava pensando. Lei si girò, cercando rifugio nella vista dei palazzi illuminati a giorno, misteriosi e regali nella notte. Vide un candeliere che brillava, un muro rosso rubino, e immaginò di giacere in un letto rivestito di broccati, lei e Redford sdraiati insieme. "Mi chiedo chi viva qui, adesso" rifletté. '"Deve essere stato molto bello far parte della nobiltà che ha fatto costruire questi palazzi". "Ti sarebbe piaciuto vivere a quei tempi?" "Oh, no" disse Sarah scuotendo la testa. "Sto proprio bene dove sono". Non voleva viaggiare nel tempo e neppure nello spazio, se questo significava abbandonare Georgie. Sentì il calore del braccio di John mentre la stringeva a sé. Come sarebbe, si chiese, stare tutti insieme, vedere l'espressione di Redford che guardava suo figlio? Scacciò il sogno, rimproverandosi. Ne sarebbe rimasto atterrito. O, ancora peggio, cosa sarebbe successo se avesse cercato di strapparglielo? Redford doveva aver intuito che stava pensando a qualcosa di brutto, perché si girò verso di lei."Va tutto bene?" "Sì, sì" disse lei, liberandosi dalla sua stretta e scostandosi i capelli dal
viso. "Sto solo pensando a casa". Lo sguardo dolce svanì dagli occhi di Redford. "Ti manca qualcuno?" "A te no?" "Georgie e Jacob" disse lui, un dato di fatto più che una domanda. Sarah si rintanò nel silenzio. Redford non parlò. Si fermò di colpo davanti a un negozio di maschere. Lei gli si accostò. La prese per mano. "Vieni. Entriamo". Il negozio era piccolo. Ogni superficie utile era ricoperta di maschere. Altre scendevano dal soffitto. Sarah sentì come se le maschere la stessero osservando. Un anziano commesso guardò lei e Redford con indulgente distacco. Sarah si girò verso Redford, che aveva preso una maschera da uno scaffale e se l'era appoggiata contro il viso. Il naso era lungo e appuntito. La maschera del medico. Dava una sensazione sgradevole, non certo di guarigione. Sarah pensò a come si dovevano essere sentiti i moribondi vedendo quella maschera di alabastro che si avvicinava loro. Sarah rabbrividì. Redford si era trasformato in qualcosa di sinistro. Si girò, e uscì nella notte. Dopo poco, sentì la mano di lui sulla spalla. "Sei sicura di stare bene? Mi sembri di umore un po' instabile, stasera". Sarah gli guardò il viso nudo. La paura causata dalla maschera se ne andò. "È quella stronza. Non riesco a pensare ad altro". Le prese il braccio. "Vieni con me. Cerchiamo di non pensarci più". Girarono in piazza San Marco e si fermarono di fronte al Palazzo del Doge. Da vicino, la Basilica e il Palazzo del Doge erano ancora più maestosi che visti dall'acqua. La Basilica sembrava un castello delle favole, con i suoi dipinti di scene eroiche e Cristo deposto dalla croce. C'era un guerriero muscoloso in procinto di ammazzare un uomo accovacciato che lo supplicava, un gargoyle che diceva Attaccami se hai il coraggio, e un altro che scacciava gli spiriti maligni con un potere gioioso. Camminarono attraverso la folla verso l'acqua. Redford si fermò e guardò un canale laterale. Fece un gesto verso il ponte che gli passava sopra. "Il Ponte dei Sospiri". Si girò verso Sarah. "Lo sai perché si chiama così?" "Dimmi". "Non perché fosse frequentato da coppiette che guardavano la sua bellezza e sospiravano nell'intimità. Collegava le vecchie prigioni al tribunale del Palazzo del Doge. Veniva usato per portare i prigionieri ai processi". "Così, guardavano quelle piccole finestre dai vetri piombati, guardavano
la Venezia libera, e sospiravano" disse Sarah. "Sei mai stato in prigione?" Redford si scosse dai suoi pensieri. Studiò Sarah attentamente. "Perché me lo chiedi? Tu ci sei stata?" "No". "Io sì, quando ero un adolescente". "Per cosa?" "Ubriachezza. Fuori di testa, hai presente?" "No, non lo so. Fuori di testa in che senso?" "Ho cantato una serenata in Main Street. Erano le quattro della mattina, e lasciami dire che i buoni, vecchi abitanti di Cook County non erano miei ammiratori". Sarah sorrise. "Non sapevano chi eri" si fermò. "È stato brutto?" Redford tacque. Savage vide la tristezza solcare il suo viso. "Soffro di claustrofobia. Come pensi sia stato?" "Non lo sapevo" disse semplicemente Sarah, raggelata dall'amarezza che i decenni non avevano cancellato. "Deve essere stato un inferno". Redford annuì lentamente. "Mettila così. Non ci tornerò mai più". "Niente più ubriacature e disordine pubblico" disse lei, cercando di risollevargli l'umore. "Quello no. Semplicemente, non mi farò più beccare". Regalò a Sarah uno dei suoi sorrisi unici, che danzavano tra la sincerità e l'ironia. La prese per un braccio, e la condusse con sé. Camminarono lungo Riva degli Schiavoni ed entrarono al Danieli. Nel bar, le luci erano soffuse, dalle pareti scendevano broccati rossi, un pianista suonava un jazz lento e sensuale. Ordinarono caipiriña, una bevanda brasiliana praticamente allucinogena, composta di acquavite di canna da zucchero e succo fresco di lime. Sarebbe stato così facile, così meravigliosamente giusto lasciarsi andare, fare sì che succedesse quello che doveva accadere, ma nella mente lei vide i biglietti minatori, con le loro lettere deformate e minacciose. Vide il viso di Georgie, immaginò un assassino incappucciato che lo seguiva, orribile, deformato dalla cattiveria come gli orchi delle favole. Si girò verso i visi illuminati dalla luce delle candele e si augurò che. nella vita reale, le stimmate della perfidia fossero evidenti come nelle favole. Mangiò il ghiaccio e lasciò la bevanda fingendo di sorseggiarla. Redford bevve lentamente, ma la finì. Andarono al ristorante sul terrazzo, godendosi la vista di Venezia di notte. Gli occhi di Sarah si fissarono su una chiesa che brillava sotto la luce della luna. Era ornata di balaustre e statue fine-
mente scolpite che li guardavano attraverso il Canal Grande. "Dio, è magnifico". "Santa Maria della Salute" replicò Redford. "La chiesa preferita dai veneziani. Costruita nel 1631 come ringraziamento alla Madonna per averli salvati dalla peste dopo che, per sbaglio, aveva lasciato che la metà degli abitanti fosse spazzata via". "Sei cinico, John Redford". "Dici?" "Non lo credo davvero. Credo piuttosto che tu sia disperatamente romantico". Lui rise. "Sì, forse. E tu, l'elusiva Sarah Jensen? Chi credi che ti verrà a salvare?" Pensò alle minacce. Pensò a Georgie e Jacob. "Io stessa" disse, con fermezza. "Senza aiuti dal cielo?" "Con tutti gli aiuti che il cielo mi può dare". Capitolo 46 Tornarono in albergo a mezzanotte. Tra di loro l'aria era diventata elettrica. Sarah moriva dalla voglia di stare con lui, di passare la notte tra le sue braccia. Poteva leggere un desiderio potentissimo negli occhi di lui, e sapeva che lo stesso desiderio ardeva nei suoi occhi. Si girò di scatto. "Devo andare". Sembrò sorpreso. Nascose il dolore che gli velava gli occhi. "Devi?" Annuì. Lui la guardò senza parlare, poi si allungò verso di lei e la baciò. "Allora buonanotte". Lei lo baciò, poi si staccò, prima che il desiderio si appropriasse del suo corpo. Respirando velocemente, entrò nella suite. Come aveva sperato e temuto, un bigliettino l'aspettava sotto la porta. La tua vita sta per finire. Poi sarà il turno di tuo figlio. Inizia a contare. Dieci... La rabbia la accecò. Si mise a camminare furiosa avanti e indietro nella stanza, con gli occhi che le bruciavano, non vedendo altro che un volto na-
scosto. Ora il volto era coperto da una maschera bianca veneziana, che lasciava intravedere solo il luccichio di due occhi dementi. Quanto tempo aveva? Dieci giorni? Dieci minuti? Dieci ore? Andò alla finestra e guardò Lista di Spagna. Poi calciò via le scarpe scollate, si strappò via le calze e infilò i calzoni militari, gli anfibi con le suole di gomma e un parka scuro. Prese una bottiglia mignon di whisky dal frigo bar e uscì dalla stanza. Camminò sulle scale vuote, andò nel foyer, dove si guardò intorno. C'erano poche coppie sedute ai tavolini rotondi, le teste vicine o distanti, felici o tristi; un uomo solitario sulla cinquantina giocherellava con un largo bicchiere di brandy. Una donna dalla bellezza provocante, che doveva essere stata una modella, entrò con una donna anziana che sembrava sua madre. Sarah lasciò la chiave alla reception e uscì in strada. Cercando di evitare la folla che passeggiava ancora, girò a destra e imboccò Calle della Misericordia. La strada era così stretta che, tenendo le braccia allargate, si riusciva a toccare entrambi i muri delle case rosso sangue. Il rumore proveniente da Lista di Spagna si attenuò. Ascoltò attentamente, ma udì solo un flebile canto di usignolo, molto lontano. Passò l'hotel a due stelle Atlantide, poi il Casa Hilbert, a una stella. Era un posto di hotel a buon mercato dove nessuno faceva domande, dove il male non sarebbe stato visto, sentito o riconosciuto. Non era più lontana di duecento metri da Lista di Spagna, ma le sembrava di essere in mezzo a un cimitero. Tutto quello che sentiva era il rumore attutito dei suoi scarponi sulle strade immerse nella luce della luna. Voleva fermarsi e guardarsi indietro, controllare se aveva qualcuno alle spalle, ma si obbligò a continuare la recita, vagabondando pigramente come se stesse godendosi il silenzio e l'aria fresca della notte. Fece un salto vedendo la sua stessa ombra che si allungava di fianco a lei, poi si arrestò, fingendo di prendere un fazzoletto dalla tasca e di soffiarsi il naso, aspettando che il rombo che sentiva nelle orecchie si calmasse. Dietro di lei risuonò un debole rumore di passi, poi più niente, come se qualcuno la stesse seguendo e si fosse fermato. Mise via il fazzoletto, continuò a camminare senza nemmeno provare a guardare indietro. Fai movimenti fluidi, si disse, anche se le gambe iniziano a tremare. Il cielo era nero come la pece. Qui e là sbucava la luce dei lampioni, che non faceva che accrescere il buio intorno. Passò di fianco a cancelli chiusi da lucchetti, dietro ai quali si intravedevano giardini scuri. Alla sua sinistra c'era un alto palazzo di appartamenti. C'erano lenzuola stese dai balconi, come fantasmi contro i muri color terracotta. I cancelli di ferro battuto erano come fram-
menti di merletto nella pietra, che la escludevano dalle case e dalla loro sicurezza. Quando Sarah uscì dai confini stretti di queste strade e dall'oscurità quasi totale di Cannaregio, si sentì sollevata di trovare un mondo di luci, gente e spazi aperti, vasti e ariosi. Probabilmente il rumore di passi che aveva sentito era solo qualcuno che se ne tornava a casa sua. Passò di fianco a lanterne rosse, appese fuori da un ristorante cinese. Sembravano confortanti e familiari, e i profumi la riscaldarono. Le luci di Lista di Spagna la allettavano e si avvicinò ad esse in fretta, ma solo per un attimo. Prima di cadere nella tentazione di tornare in albergo, si impose di girare in Calle Vergola. C'era un cartello che indicava l'entrata di un giardino pubblico, e lei lo seguì, allontanandosi dalle luci e dal rumore, finché, ancora una volta, si trovò immersa nell'oscurità e nel silenzio. Trovò il parco. Alti cancelli sbarrati la fermarono. Svoltò a destra in una calle senza nome, e si arrestò davanti a una porta verde. Appena prima della porta c'era una rientranza del muro, e Sarah ci si infilò. Stavolta, fu sicura di sentire dei passi. Si appiattì, raggelata dalla paura, mentre i passi si avvicinavano, lentamente, poi decisamente vicini. Poi vide un'ombra proiettarsi sulla porta verde, alzandosi come un miasma davanti ai suoi occhi, crescendo fino a quando il corpo dietro all'ombra arrivò alla sua vista, con la testa incappucciata che si girava. Il terrore la avvolse. Scattò fuori dal suo nascondiglio urlando. Una voce rispose con un altro urlo feroce. Afferrò coi pugni dei capelli neri: delle unghie la graffiarono. I loro corpi sbatterono sul terreno. Sarah si girò schiacciando l'altra a terra, le diede un violentissimo pugno in faccia, vide il naso esplodere e sanguinare, e ancora la donna urlò e si contorse. Sarah le afferrò i polsi, con una forza moltiplicata dalla furia e dallo stress degli ultimi giorni, e la immobilizzò. Avvicinò il viso a pochi centimetri da quello della donna. "Va bene, puttana. Dammi una buona ragione per non spezzarti il collo". La donna le sputò in faccia. Sarah urlò, le lasciò andare i polsi e si pulì il viso. Poi, con un movimento fluido, tirò il braccio destro della donna, la fece alzare e la sbatté contro il muro. Quando la donna cominciò ad abbandonarsi, Sarah la sostenne e la tenne ferma. "Tu mi hai minacciato, tu, brutta puttana schifosa, e questo sarebbe abbastanza, ma hai fatto l'errore di minacciare mio figlio e mio zio". Sarah respirava a fatica, mentre le sua rabbia aumentava. "Ti dovrei ammazzare, per questo". La sbatté ancora contro al muro.
La donna si afflosciò e cadde sul marciapiede con un gemito. Si raggomitolò in posizione fetale e, con orrore di Sarah, iniziò a piangere. Sarah camminò avanti e indietro, mentre la rabbia si affievoliva lasciando il posto a un inaspettato senso di pena. "Oh Cristo, piantala!"' I deboli singhiozzi continuavano, primitivi, disperati, in essi c'era qualcosa di straziante. Sarah si trovò piegata sulla donna a dirle. "Dai, tirati su". Dopo un altro minuto di singhiozzi deboli, la donna si girò per guardare Sarah. Sui quarant'anni, magrolina, sembrava un passerotto. I ricordi di una bellezza che sfioriva si scorgevano sul viso fragile, deformato dal pianto. Era ridotta a un animaletto tremante. Merda, e ora? Pensò Sarah. Non poteva lasciarla lì. Passò il braccio sotto quello di lei e la tirò su. "Vieni con me. Ti porto al mio albergo. Voglio capire che cazzo sta succedendo". La donna la guardò con uno sguardo da leprotto terrorizzato, ma non parlò e si limitò a farsi aiutare da Sarah. All'albergo, Sarah diede al portiere di notte una breve spiegazione di un incidente, seguita da assicurazioni che non c'era bisogno né della polizia, né dell'ospedale. Quando la donna barcollò verso di lei, tenendosi schiacciato il naso che sanguinava copiosamente, Sarah pregò di avere ragione a proposito dell'ospedale. Fece sedere la donna in una poltrona e andò in bagno a prendere acqua gelata e due salviette. Dopo averla ripulita dal sangue, le porse una salvietta pulita, impregnata d'acqua. "Tieni, schiacciati il naso con questa" disse rudemente. "Tra un po' smetterà di sanguinare". La donna la prese, dando un'occhiata veloce a Sarah. Paura, tristezza e una specie di follia le velavano lo sguardo. Si strinse la salvietta al naso, le nocche le diventarono bianche, e ricominciò a singhiozzare. Oddio. Sarah si appoggiò al letto e iniziò a tremare dallo shock. Non era come avrebbe dovuto essere. Nella sua mente si era prefigurata una situazione ben precisa: lei avrebbe catturato l'autrice dei biglietti, sfogato la sua furia su di lei lasciandola quasi priva di sensi, e... poi? Non era mai arrivata oltre, tanto era logorata nella sua furia materna. Ora, seduta davanti a lei, questa donna che aveva immaginato tanto pericolosa le sembrava patetica, e sicuramente innocua. Probabilmente era uguale alla metà degli assassini che venivano catturati, tigri di carta, ma non per questo meno pericolosi e letali. Si irrigidì. Prese un whisky dal frigo bar, lo buttò giù e iniziò a cammi-
nare per la stanza, con gli occhi fissi sulla donna. "Come ti chiami?" Smise di singhiozzare. "Carla. Carla Parton". L'accento era americano, con l'inflessione morbida e melodiosa del Sud. Gli occhi spaventati, che guardavano i suoi con l'espressione di un animale selvatico intrappolato, erano intelligenti. Sarah si fermò di fronte alla donna e si chinò su di lei. "Perché mi hai seguito? Perché hai minacciato me e la mia famiglia?" Un guizzo di rabbia pura la infiammò di nuovo. Sapeva di cosa era capace. Per un certo periodo di tempo Sarah aveva pensato, o meglio, sperato, che la sua capacità di vendicarsi con estrema violenza fosse svanita. Ora sapeva che non era così. L'aver avuto un bambino aveva aggiunto nuovi istinti, ancora più feroci, alle sue precedenti motivazioni, e sapeva che il cocktail era diventato letale. Allo stesso modo, a giudicare dagli sguardi che le lanciava, lo sapeva Carla. Era muta e terrorizzata. Sarah andò a prendere il bigliettino sulla mensola del camino. Lo porse a Carla. "L'hai scritto tu, stronza. Voglio sapere perché". "Cosa mi farai?" La voce della donna era tremula. "Non lo so. Non ho deciso, ma nel frattempo voglio le risposte che mi servono, per cui inizia a spiegarmi". Il viso di Carla si deformò nuovamente, e ricominciò a singhiozzare. Non era un pianto tranquillo come quello di prima. Questo era terribile, con convulsioni che sembravano dar vita a un insopportabile dolore. Sarah guardò, piena di orrore. I singhiozzi si protrassero tanto a lungo, con una tale disperazione, che Sarah si sentì terribilmente in colpa. Infine, il pianto smise, e iniziò una serie di singulti senza lacrime. "Parlami" le disse Sarah, porgendole un bicchiere di brandy, e un boccale d'acqua. La donna prese l'acqua, ne bevve un lungo sorso, si passò le mani sul viso e iniziò a raccontare. Capitolo 47 "Tutto è iniziato trent'anni fa, quando la mia famiglia e io ci trasferimmo dalla Georgia al Wyoming. È là che ho incontrato per la prima volta John Redford. Gesù, era splendido, e così ferito da non riuscire a nasconderlo.
Gli era appena morta la madre. Ci innamorammo tutte di lui, io e tutte le ragazze, compresa mia madre, direi. Comunque, non lasciava che nessuna si avvicinasse troppo a lui, andava per la sua strada, in sella al suo cavallo e suonando la chitarra". Gli occhi di Carla iniziarono a velarsi e la sua voce diventò distante, quasi da bambina, come se fosse stata proiettata indietro nel tempo. "Frequentavamo la stessa scuola, la stessa classe. Gli regalavo dei dolcetti, e poi il mio cestino della merenda, perché lui non l'aveva. Suo padre non si curava di lui, doveva pensare al suo dolore. John non veniva molto a scuola, così dovette ripetere un anno, e l'ho perso di vista per quindici anni. A quel punto avevo venticinque anni e vivevo a New York, ero un'attrice che cercava di fare carriera". Fece un sorriso triste. "Lavoravo come cameriera nell'Upper West Side. Una sera, mentre andavo a lavorare, vedo un poster. John Redford in città, che si esibisce dal vivo al Madison Square Garden. Dovevo lavorare, ovviamente, ma pensai che, se mi fossi sbrigata, avrei forse potuto vedere la fine dello spettacolo e così smisi un po' prima e, senza neanche avere il tempo di cambiarmi l'uniforme, corsi là. Purtroppo il concerto era già finito. Ero così disperata che sono scoppiata a piangere. Dissi agli uomini della sicurezza che ero una vecchia amica di John e devono avermi creduto, visto che mi hanno fatto passare nel backstage. Ero così felice ed eccitata che pensavo di svenire" disse, con amarezza. "Comunque, mi indicarono il suo camerino, dissero che dovevo bussare e dire chi ero. Così camminai, trovai la stanza e bussai. Lui disse di entrare, ma quando lo feci, era dietro a una specie di paravento. Potevo sentirlo muoversi, lì dietro. Così mi sono seduta, ho aspettato. Sentivo degli occhi su di me, sai? A quel punto, ho cominciato ad avere una paura folle. C'era qualcosa che non andava. Stavo per alzarmi e uscire quando le luci si spensero. Prima che potessi anche solo urlare e chiedere aiuto, mi afferrò, mi sollevò su dalla sedia e mi venne sopra". La sua voce si ruppe, si strofinò via le lacrime dagli occhi e il labbro inferiore iniziò a tremarle. "Cercai di cacciarlo via. Di colpirlo. Lo graffiai. Mi afferrò le mani e mi immobilizzò". I suoi occhi si alzarono dal pavimento e si fissarono in quelli di Sarah. "Mi disse che, se avessi emesso anche un solo suono, mi avrebbe ammazzato. Gli credetti. Poi, mi violentò". Sarah distolse lo sguardo, cercando di restare calma. "Finalmente, se ne andò. Sentii delle voci fuori, come una discussione concitata, poi entrò qualcuno. Non era lui, questo era un altro uomo. Mi af-
ferrò, mi tirò su, mi mise qualcosa sugli occhi, forse una sciarpa, e mi imbavagliò. Ricordo di essere rimasta seduta nell'oscurità per quelle che mi sono sembrate ore, fino a quando tutto ritornò tranquillo. Poi l'uomo mi trasportò letteralmente giù per una scala, e mi buttò in una macchina. Chiuse gli sportelli, e mi mollò un pugno in faccia talmente forte che svenni. L'unica cosa che percepii è che l'automobile accelerava, poi sentii una portiera aprirsi e mi sbatterono fuori". Gli occhi esaminarono ancora Sarah, poi saettarono via. "Un muratore mi trovò il mattino dopo, accartocciata in una strada chiusa ad Harlem. Mi portarono in ospedale. Avevo dieci costole rotte, il naso spappolato, la mandibola frantumata, e mi è venuta la polmonite. Ci sono rimasta per sei settimane. Dopo altre tre, ho scoperto di essere incinta. Comunque, ho abortito". La sua voce morì. "Mio Dio". Sarah si sforzò di non crollare. Si impose di trovare una domanda, un'ancora di salvezza per indurre Carla a smettere di piangere. "Sei andata alla polizia?" "Loro sono venuti da me. Non ho aperto bocca. Hanno cercato di convincermi in tutti i modi. Non ho detto una parola, nemmeno buongiorno"'. "Perché no?" "Volevo che l'incubo finisse lì. Volevo uscirne". "E poi?" "Be', mi sono dovuta sottoporre a operazioni di plastica ricostruttiva. Ero sfigurata. Ho subito quattro operazioni in diciotto mesi. Ho dovuto archiviare i miei sogni di fare l'attrice. Fortunatamente, la mia assicurazione ha pagato gli interventi e un risarcimento, perché avevo assicurato il viso. La mia faccia valeva quattro milioni di dollari, non male, no?" Tentò di fare un sorriso che spezzò il cuore di Sarah, che si alzò in piedi e tornò con la bottiglia di brandy. Riempì i bicchieri, buttò giù il suo e si strofinò gli occhi. "Questo è successo quindici anni fa. Cos'hai fatto in tutto questo tempo?" "Terapia per tre anni. Mi ha aiutato parecchio, sai? Ho trovato un uomo e l'ho sposato. Siamo stati felici per sei anni. Poi, abbiamo cercato di avere un bimbo". Ricominciò a piangere. "Abbiamo provato per anni. Non succedeva niente. Alla fine sono andata a fare un controllo. Vedi..." La sua voce si ruppe. Si fermò per riprendere il controllo e continuò. "L'aborto aveva avuto degli strascichi negativi. Sono sterile. Non diventerò mai madre". Sarah non riuscì a trattenersi e iniziò a piangere.
Carla continuò. "Quando me l'hanno detto, in questa clinica per la sterilità, sono crollata. Ho detto a mio marito della violenza. Non gli ho voluto dire chi era stato, gli ho detto che era uno sconosciuto". I suoi occhi fissarono quelli di Sarah. "Lo sai cos'ha fatto?" Sarah scosse la testa. "Mi ha lasciata". Sarah annuì, perché adesso tutto le diventava chiaro. "Così, hai deciso che era ora di farla pagare a Redford e a tutti quelli che avevano una relazione con lui" disse, amaramente. "Tu non l'avresti fatto?" Sarah rinchiuse la sua rabbia in un compartimento stagno del suo cuore. Lei, più di ogni altro, conosceva il potere della vendetta, come faceva sentire onnipotente, la più coinvolgente delle droghe, e, come tutte le droghe, prometteva chissà cosa e consegnava il nulla totale. La vendetta non era una cura. Non c'era nessun rimedio per il dolore, solo l'accettazione, amara come il veleno. Alza la coppa del tuo dolore e bevi. Tremava ancora al ricordo. Quando aveva ventidue anni, armata di una pistola, aveva ammazzato l'uomo che, tredici anni prima, aveva ucciso i suoi genitori, lo stesso uomo che aveva riso in faccia a lei e al suo fratellino di sette anni mentre usciva, libero, dal tribunale. Nonostante la vendetta non le avesse dato il conforto che sperava, l'avrebbe rifatto, anche con la razionalità che ora possedeva. Era nelle grinfie della sua rabbia, come Carla. Prese la mano della donna. "Vai a letto. Dormi nel mio". Carla la seguì sottomessa, la rabbia del tutto svanita. "Cosa farai?" "Cercherò di chiarirmi le idee. Non ti preoccupare per me, pensa a riposarti". Sarah si sedette e guardò Carla finché vide che si era addormentata. Il suo viso, nel sonno, assumeva un'espressione di abbandono, tradita solo dalle palpebre che ogni tanto tremolavano, o dalle labbra strettamente serrate. Sarah riconobbe la donna della toilette nel ristorante, che aveva fatto cadere la sua borsetta e le aveva rubato il portafogli. Evidentemente indossava una parrucca rossa per nascondere i capelli neri, comunque tinti perché erano assolutamente in contrasto con l'incarnato pallido di Carla. Aveva nascosto il suo accento per coprirlo con un altro, metropolitano, elegante. Era la stessa donna, anche se diversa. La forma addormentata sul letto sembrava un bimbo violato, oppresso dal peggiore incubo di una donna adulta.
Sarah rimase a guardarla per un'ora, conscia del fatto che quello era il modo in cui si guardano i bambini, un'estasi che John Redford aveva negato per sempre a Carla Parton. Come aveva potuto fare una cosa del genere l'uomo che aveva regalato la vita a suo figlio, l'uomo che riusciva a essere così tenero, così appassionato, che cantava canzoni così strazianti? Tutto era stato perfetto. John, l'amante ideale che, senza saperlo, le aveva regalato il figlio ideale. Georgie sarebbe sempre rimasto quello che era. Niente avrebbe mai potuto insudiciare la sua perfezione, ma i ricordi di Sarah erano stati distrutti in un attimo. Aveva pensato di conoscerlo. Si era sbagliata. Le tornarono in mente le paure di Redford di corrompere il pubblico. La mano bendata con cui aveva colpito il muro con rabbia incontrollabile. Non c'era da meravigliarsi se lui stesso aveva paura di quello che era in grado di fare. Prese la chiave e andò alla stanza di lui. Incurante degli altri ospiti, si fermò di colpo e bussò più forte che poteva con i pugni, fino a escoriarsi le nocche. Quando Redford apparve, arruffato ed allarmato, Sarah lo spinse da parte ed entrò nella sua stanza. "Che cazzo succede?" la seguì, furioso e incapace di capire. Sarah si girò verso di lui. "Non osare nemmeno parlarmi, bastardo. Adesso ti siedi e mi ascolti". Gli porse una sedia. Lui si sedette, poi scattò di nuovo in piedi. Fece due passi verso Sarah, prima che le sue parole lo bloccassero. "Mi vuoi picchiare? O forse il tuo stile è rimasto di violentare le donne, anche dopo tutti questi anni?" Fu come se lei gli avesse sferrato una bastonata. "Di cosa stai parlando?" "Ti prego, non fare la verginella con me". "Non voglio fare niente. Non so di che cazzo stai parlando". "Lascia che ti spieghi, allora" disse Sarah, attraversando la stanza, con gli occhi sempre fissi in quelli di Redford. "Perché non ti siedi? Mettiti pure comodo. È una storia lunga". Lei guardò mentre Redford prendeva una sedia e si accomodava con cautela, come se il suo corpo fosse ammaccato. Vide il dolore nei suoi occhi, la confusione, ma anche una profonda amarezza, e lo strano guizzo di quello che sembrava paura. Ma tutte le sue emozioni erano false come una recita di Natale, se paragonate al dolore straziante di Carla. "Violenza. Stupro" disse Sarah, con la voce stravolta. "Uno che l'ha commesso. Tu. Una vittima, ma giurerei che ce ne siano parecchie altre.
Stuprare una donna non è una cosa da fare una volta sola, vero? È una forma mentale che ti autorizza a farlo. So da chi venivano le minacce, stronzo. Si chiama Carla Parton. Veniva nella tua scuola, ha diviso i suoi cestini della merenda con te. ha cercato di darti conforto quando avevi nove anni e tua madre era appena morta. Poi è cresciuta, snella e splendida, con un futuro radioso davanti a sé. È andata a New York, ha provato a fare l'attrice e intanto lavorava come cameriera. Capita che una sera abbia visto che in città c'era il mito John Redford, il suo amichetto d'infanzia, così corre da te alla fine del tuo concerto, e il fascino o la bellezza le aprono la strada fino al tuo camerino. Le viene indicato dagli uomini della sicurezza, cosa che avranno fatto sicuramente per centinaia di altre ragazze carine, in decine di città. Così entra. Sei dietro a un paravento, e lei si siede ad aspettare. A quel punto spegni le luci e la stupri. Poi la pianti lì, e spedisci uno dei tuoi a mettere in ordine. Lui la benda, la imbavaglia, la carica in macchina, le molla un pugno in faccia e come degna conclusione la butta fuori dalla macchina in corsa in una strada chiusa di Harlem come fosse un sacco della spazzatura". Redford abbassò lo sguardo. "Guardami, bastardo. Tu mi guarderai e ascolterai ogni parola. Un muratore l'ha vista, l'ha soccorsa e l'ha portata in ospedale. Aveva dieci costole rotte, il naso spappolato e la mandibola in frantumi. Ah, tanto perché non c'è limite alla sfiga, era anche incinta di tuo figlio. Ha abortito e, anni dopo, quando ha provato ad avere dei bambini dal marito, quando pensava che il trauma fosse sparito, scopre che l'aborto l'aveva mutilata per sempre. È sterile, non potrà mai più avere figli. Così crolla e racconta tutto al marito. E la sai una cosa carina? Lui l'ha lasciata". Si avvicinò lentamente verso Redford. "Come hai potuto fare una cosa del genere? Chi cazzo sei, davvero?" sussurrò. Lui non addusse scusanti. Non parlava. Si limitava a guardare fisso davanti a sé, gli occhi colmi della desolazione più totale. Capitolo 48 Arrivò l'alba e Sarah tornò nella sua stanza. Entrò e chiuse la porta. Mentre Carla si stiracchiava, Sarah si sedette sul letto di fianco a lei e le prese la mano. "Vuoi che questa faccenda finisca?" le chiese. "Non vuoi vedermi mai più?"
Carla la guardò con gli occhi spenti, speranzosa e allo stesso tempo timorosa. "Come?" "Ho detto tutto a Redford. Vai da lui, ora''. Le mani di Carla salirono alla gola. "Va tutto bene. Puoi non farlo, se non te la senti". Carla si sforzò di alzarsi in piedi. Sarah si vergognò vedendo che il suo naso era gonfio e tumefatto. "Mi sistemo un po', dammi cinque minuti" rispose quieta la donna. Poco dopo, Sarah bussò alla porta di Redford. Lui aprì. Il suo viso era del colore della cenere. "La vuoi vedere? Glielo devi, direi". Redford guardò Sarah disperato. "Falla entrare, allora. Facciamola finita". Sarah andò a prendere Carla. "Se hai bisogno di me, sarò qui fuori". Carla entrò con estrema diffidenza, come se temesse un'imboscata, poi chiuse la porta dietro di sé. Sarah percorse il corridoio, allontanandosi dal brusio di voci. Si appoggiò alla parete e aspettò. Mezz'ora dopo Carla aprì la porta e la fece entrare. Redford era accasciato su una poltrona. Sembrava spaventosamente solo e sperduto. Appoggiata a un fianco del tavolo, Carla sorrideva sollevata. "Torno a casa oggi" disse a Sarah. "Non ci saranno più minacce. Non ne valeva nemmeno la pena". "Come ci sei arrivata?" "Una parte di me lo odierà per sempre. Una parte di me vorrà sempre ammazzarlo, negargli la pace e la felicità, distruggere le cose che lui ama. Ma se io lo guardo adesso, lui è il ragazzino che conoscevo io. Non è il mostro che mi ha stuprata, mi ha bruciato l'esistenza, che ha assassinato i miei sogni. Se tu mi dessi una pistola, non la userei su di lui. Non potrei". Carla si girò verso Redford. "Sapere quello che hai fatto è la punizione migliore. Non sentirai mai più parlare di me. Non ti tormenterò più, ma diventerò il tuo incubo peggiore". Carla uscì dalla stanza con uno sguardo di sfida, rigida nel suo autocontrollo, fiera della sua vittoria di Pirro. Redford la guardò andare, poi si prese la testa tra le mani. Quando guardò lei, aveva negli occhi una rabbia spaventosa. "Rispondimi, adesso. Quando la pianterai di volere essere giudice e boia?" "Non la smetterò mai. Sono nauseata".
"Non hai mai combinato casini? Non hai mai fatto niente di terribile nella tua vita perfetta?" "Non definirei perfetta la mia vita, o il modo in cui l'ho vissuta" disse Sarah. "Anch'io ho fatto la mia buona dose di sciocchezze e di cose terribili. La parte migliore di me non le rifarebbe, ma l'altra sì. Non ti sentire solo: mi faccio schifo anch'io". "È questo il mio epitaffio? Ti disgusto?" "Perché ti interessa l'opinione che ho di te? Tu stesso provi disgusto nei tuoi confronti, e questo è il punto". "Il punto è, Sarah, che non so cosa pensare" disse Redford a bassa voce. "Lascia che ti aiuti. Sei colpevole. Dovresti provare senso di colpa e rimorso". Redford la guardò. "Lo sono? Dovrei? Tu che ne puoi sapere?" "Perché ho visto Carla. Non provare a dirmi che stava inventando tutto. Nessuno riuscirebbe a simulare le proprie emozioni in quel modo". Redford guardò il pavimento. "Allora?" lo interrogò Sarah. "Cos'hai da dire?" Voleva sentire la sua contrizione, recuperare qualcosa di lui che mostrasse che si rendeva conto dell'enormità di quello che aveva fatto. Il suo desiderio di giustizia lo esigeva. Stancamente, lui la guardò. "Posso averlo fatto. Posso non averlo fatto. La cosa più spaventosa è che non lo so". "Come fai a non saperlo?" "Perché c'erano intere notti e interi giorni in cui ero così fuori di testa con la cocaina e l'alcol da non sapere nemmeno dov'ero. Ero a malapena consapevole di quello che facevo. Sono riuscito lo stesso a fare concerti, a incidere dischi e questo è l'unico legame tangibile che ho con dieci anni della mia vita". "Ma per favore! Sicuramente ti ricorderesti di avere violentato una donna, per l'amor di Dio!" Redford scosse la testa. "No, non me lo ricorderei. Ho avuto dei blackout, periodi in cui non riuscivo a ricordare cosa avevo fatto il giorno o la notte precedente. Mi svegliavo in posti strani e non avevo idea di come ci ero arrivato. Non avrei potuto riconoscere la gente che mi ronzava intorno, o la donna con cui ero stato. Mi svegliavo con perfette sconosciute, e una notte della mia vita perduta per sempre. Quindi, per risponderti, sì, potrei averla violentata, e spero con tutte le mie forze di non averlo fatto. Ma può essere successo. Mi ricordo dei pettegolezzi nel backstage, nei giorni suc-
cessivi ai concerti di New York, anni fa, su una donna che era stata impacchettata e buttata da un'auto". I lineamenti gli sì irrigidirono dalla vergogna. "Sacco della spazzatura, veniva chiamata. Aveva creato casini ed era stata buttata via. I roadie ne parlottavano. A quel tempo non ci ho pensato più di tanto, ci sono sempre dei casini con le groupie che ti si gettano addosso e a volte diventano violente, ma qualcosa di quella faccenda mi si deve essere piantato nella mente. Mi fa suonare un campanello in testa. Per cui, penso di essere stato io. Sì, penso proprio di essere stato io. Non credi che questo mi sconvolga? Sto pensando a mia madre. Penso al suo bellissimo viso. Che cosa avrebbe pensato di me? Le avrei spezzato il cuore. E quella povera ragazza..." Il suo dolore era evidente dal tremolio della palpebra sinistra. "Se ne sono responsabile, farò quello che posso per rimediare. Sarei disposto a offrire tutto quello che ho per ridarle la vita che meritava di fare, ma non è possibile". "Allora, fai quello che puoi fare" disse Sarah dolcemente. "Cioè?" "Non lo so. Ci sarebbero migliaia di buone cause da sostenere. Fai un'offerta di cinque milioni di dollari a un'associazione che aiuta le donne e i bambini maltrattati". "Non è così semplice. Ho dato un sacco di soldi in beneficenza, ma non mi comprerò l'assoluzione". "Smettila di pensare a te stesso. Non stiamo parlando della tua assoluzione. Solo Dio potrà decidere. Stiamo parlando di aiutare qualcun altro. Chiamalo fare ammenda, se preferisci. Cinque milioni di dollari potrebbero comperare case, pagare cure mediche, cibo, vestiti. Faresti una cosa molto bella e utile". "Non ho cinque milioni in contanti". "Presto sì. Se l'emissione obbligazionaria va avanti, ne avrai presto cento". "Come può andare avanti, adesso che sei al corrente di quello che ho fatto? La Goldstein mi lascerà al palo appena lo saprà. Non credere che io non abbia capito che sei una specie di spia incaricata di controllarmi. Non eri con me solo per controllare le cifre, o sbaglio?" "E allora?" "E allora, hai saputo quanto di peggio potesse saltar fuori, che sia vero o no, e come dici tu Carla non può avere recitato. Nessuno potrebbe. Così, sono obbligato a supporre di averlo fatto. Tu, del resto, hai già deciso". "E se me ne sto zitta?" chiese Sarah, cadendo, con orrore, in una trappo-
la preparata da lei stessa. "Intendi, mentire alla Goldstein?" Sarah pensò a Carla, pensò a tutte le donne che vivevano con i loro violentatori, cercando di proteggere i loro bambini, ammanettate a una vita di violenze, le loro strette vie di fuga bloccate dalla fine delle loro speranze. Cinque milioni di dollari avrebbero potuto comprare un rifugio per loro, un passaporto per una vita nuova. "Sì" disse Sarah lentamente. "Potrei mentire alla Goldstein". "È una scelta tua" disse Redford. "Se lo faccio, darai cinque milioni in beneficenza a un'associazione per bambini e donne maltrattati?" "Mi suona come un ricatto". "Non lo è. È la cosa più vicina all'assoluzione che puoi trovare in questa vita. Chiamala, come ti ho già detto, fare ammenda. Stai cercando il modo di raddrizzare il tiro: te lo sto suggerendo. Prendere o lasciare". Sarah distolse lo sguardo, fingendo l'indifferenza da trader, il cuore che le batteva forte per la speranza. Ma una vocina le sussurrava: e se Redford stava mentendo? Se lui aveva commesso lo stupro e da allora non aveva più smesso? La sua connivenza con la colpevolezza di lui avrebbe potuto condannare ancor più donne alla stessa violenza. La voce di lui si intromise nelle sue speranze e nei suoi timori. "Va bene, Sarah. Ci sto". Capitolo 49 Sarah prese il primo volo disponibile per Londra. Appena prima di salire a bordo, telefonò a Jacob e gli disse che stava partendo. "Pensavo che non arrivassi prima di domani" disse lui, sorpreso e felice. "Sarebbe dovuto essere così, ma chi se ne frega. Sono solo affari, in fin dei conti. John Redford e la sua ciurma possono fare senza di me, ma io non posso stare senza te e Georgie". Percepiva il sorriso di Jacob. Lui adorava le piccole ribellioni di Sarah contro il mondo delle corporation, così credette senza problemi alla sua bugia. Lei detestava mentirgli, ma dirgli la verità, adesso, con la miriade di complicazioni che era emersa, era a dir poco impensabile. Quella sera Redford si sarebbe esibito sulla terraferma, a diversi chilometri da Venezia, a Jesolo. Qualche giorno prima le sarebbe piaciuto andarci, adesso le sembrava di scappare anche troppo lentamente. Quando la
punta del suo aereo trafisse il cielo plumbeo, cercò di aggrapparsi al senso di sollievo per avere trovato, intrappolato e fermato, la donna responsabile delle minacce a lei e alla sua famiglia. L'intimidatrice, come ancora chiamava Carla dentro di sé. Ma la sua anima rimaneva pesante come il piombo. Poche ore dopo, fu accolta da un party di benvenuto con Jacob, Georgie ed Eva. Georgie e Jacob la salutarono con amore, Eva con sollievo e una stanchezza che cercava chiaramente di nascondere. Sarah sapeva che aveva trascorso la notte in bianco per fare la guardia alla casa. Dopo la solita seduta interminabile di coccole e giochi con Georgie, e una lunga chiacchierata con Jacob, Sarah cercò di restare un po' sola con Eva nello studio. "Tutto a posto" disse Eva, prima che Sarah le chiedesse qualcosa. "Né io né la squadra abbiamo notato qualcosa di sospetto". Sarah si sporse e l'abbracciò, con grande sorpresa di Eva, che non era espansiva, a meno che dovesse recitare una parte. L'emozione, e specialmente la profonda gratitudine che Sarah aveva negli occhi, erano, secondo gli schemi di Eva, da tenere rigidamente sotto controllo. Sarah lo sapeva, e sorrise all'amica. "Com'è andata a Venezia?" chiese Eva, rifugiandosi su un terreno sicuro. "Ero molto preoccupata quando Jacob mi ha detto che saresti tornata un giorno prima, ma mi sembri relativamente incolume". "Ho fatto quello che pensavi che facessi. Era da stupidi girarci intorno". "L'hai presa?" chiese Eva velocemente. Sarah annuì. "E allora?" sbottò Eva, sorpresa dalla reticenza di Sarah. "È una storia lunga. Ma credo che non ci creerà più problemi". "Però non mi sembri soddisfatta. Mi sembra che ci siano altri problemi" osservò Eva. "Già. Purtroppo, però, non posso fare niente per risolverli" rispose Sarah tristemente. Eva si alzò in piedi, evitando di insistere. "Devo andare. Ho detto a Jacob che il mio scaldabagno è stato riparato". Sarah frugò nel cassetto della scrivania. "Quanto ti devo?" Eva si girò imbarazzata. "Due turni di quattro persone, nove ore ciascuno. Cinquanta sterline all'ora. Arriviamo a tremilaseicento". "E per te?" Eva gesticolò. "Mi farai da babysitter, quando avrò dei bimbi miei". "Ne sarò estremamente felice, ma nel frattempo ti voglio pagare".
Eva sorrise. "Non sprecare il fiato. Non voglio niente, Sare. Hai già speso abbastanza". "Oh, Eva. Grazie. Quello che avete fatto vale ogni singolo penny". Disse Sarah accettando l'intransigenza di Eva e richiudendo il libretto degli assegni. "Sì" disse l'amica. "E almeno non devi più preoccuparti per le minacce". Sarah rievocò il viso di Carla, e si chiese perché non riusciva a scacciare quel presentimento negativo. Guardò Eva che usciva dalla porta e la salutò, andando da Georgie e Jacob. Dopodiché portò il figlio in cucina, lo fece sedere sulle ginocchia e lo guardò, mangiandoselo con gli occhi, provando quello strano miscuglio di amore e paura che spesso la attanagliava quando era con lui. L'amore per lui e la paura per il dolore che avrebbe potuto assalirlo si ripercossero su di lei con una violenza centuplicata. Per favore, Dio, lui è l'amore non della mia vita, ma di tutta l'eternità. Dio, ti prego, proteggilo. Si fece un caffè ultraforte, ne bevve una sorsata, si alzò in piedi e cercò di recuperare la freddezza necessaria per la riunione alla Goldstein. Capitolo 50 James Savage sembrava ubriaco di dolore. Beveva i suoi espressi amari come il veleno, uno dopo l'altro, inghiottendoli con veloci movimenti della testa come fossero bicchieri di vodka. Sembravano solo accrescere la sua rabbia. "Sei ancora viva?" ringhiò a Sarah. "Così sembra" rispose lei timida, lisciando le pieghe della camicia di lino. Aveva perso peso, finalmente, negli ultimi giorni, quando l'appetito l'aveva abbandonata. Savage la guardò disperato. "Novità dall'autrice delle minacce?" "Nessuna. Sembra che si sia stancata" disse Sarah. "Che strano" meditò Breden. "Lui o lei si è messa in contatto in ogni posto nelle ultime settimane, vero?" "Sì. Ma a Venezia no" cercò di improvvisare un'espressione neutra. "Perché?" chiese Breden. Sarah alzò le spalle. "Ne sono sorpresa anch'io. Forse è dovuta tornare a lavorare, o è rimasta senza soldi. Sarà interessante vedere se io o Redford riceveremo biglietti, qui". Breden guardò Sarah a lungo dopo che lei ebbe finito di parlare. Sarah
cercava di sembrare distaccata, chiedendosi se fosse l'atteggiamento giusto da tenere. "Forse ha trovato qualcun altro da perseguitare" disse sarcastico Savage. "Forse. C'è da augurarcelo. Hai niente, Dick?" "Niente di oscuro. Non ci sono problemi di droga. Quando non è in tour, fa una vita semplice nel suo ranch, nel Wyoming. Nessuna fidanzata e nemmeno groupie. Fa un sacco di yoga, va a cavallo, dà una quantità di soldi in beneficenza". "Davvero? Quanto?" "Più di trenta milioni di dollari". "Cristo!" esclamò Sarah. "Non pensavi fosse un tipo caritatevole?" "Non ne avevo idea. A chi fa beneficenza?" "Ad associazioni che aiutano le persone con problemi mentali, e agli orfani". Sarah deglutì, cercando di ricomporsi. "Come va l'accordo?" chiese a Zamaroh, sperando che la sua voce non risuonasse tesa come temeva. "Bene. I numeri sembrano darci ragione. Credo che potremo arrivare all'importo massimo". "Cento?" chiese Sarah. Zamaroh annuì. "Vogliamo comprarlo tutto noi". "Io sto pensando di comprarlo tutto" la corresse Savage. "È perfetto dal punto di vista degli investimenti" insistette Zamaroh. "Basso rischio, una A, ma in grado di produrre duecento punti in più dei titoli con una simile valutazione. Dobbiamo comprare tutto noi". "Noi non dobbiamo fare un bel niente" disse secco Savage. Sarah guardò Zamaroh. il cui caratterino stava per provocare un'esplosione. "Non possiamo starcene seduti alla finestra. James, per quanto tu sembri apprezzarlo molto". "Possiamo, se sono io a volerlo". "Se vogliamo perdere l'accordo possiamo starcene seduti alla finestra in eterno. O fino a quando la talpa ci ruba anche questo incarico". Sarah e Savage evitarono di guardarsi in faccia. "Novità sulla talpa, Dick?" chiese Zamaroh. "Nessuna, come l'intimidatrice di Sarah: sembrano essersi messi stranamente tranquilli". Mentre parlava, Breden guardò Sarah. Lei si chinò a studiare i fondi del
suo caffè. "Quando pensate di poter portare via dal mio ufficio quelle dannate telecamere e quei maledetti microfoni?" chiese Zamaroh. "Non posso neanche più scoreggiare in pace!" Sarah e Breden sghignazzarono. Zamaroh lanciò loro un breve sorriso, poi tornò all'attacco di Savage. "Allora, possiamo interrompere lo spettacolo?" Savage fece un vago cenno con la mano, come se stesse scacciando una mosca. "Perché no?" "E il mio accordo?" continuò Zaha. "Devo aspettare fino a quando gli asini voleranno?" "Non così tanto" disse Savage, come avesse in mente una data vicina. "Solo fino a quando sarò sicuro che la nostra Sarah non mi nasconda niente di importante". "Io?" chiese Sarah. "Di cosa stai parlando?" "La tua persecutrice, tesoro" rispose Savage, in tono fintamente casuale. "E ogni altro piccolo problema che può non essere ancora venuto alla luce". I suoi occhi erano piantati su di lei, intorpiditi dal dolore, ma sempre spaventosamente acuti. Era arrivato il momento. Ora o mai più. Menti o di' la verità. Sarah vide la faccia contusa e tumefatta di Carla, i suoi sogni distrutti, ma vide anche ricoveri per migliaia di donne. Cinque milioni di dollari di rifugi. Non è un tuo problema, le disse il suo grillo parlante personale. Non pensare di essere dio. Fai il tuo lavoro, di' la verità. La Goldstein avrebbe potuto perdere cento milioni di dollari se lei avesse sbagliato le sue valutazioni: se Redford non avesse commesso solo lo stupro di quindici anni prima, o se la storia di Carla fosse saltata fuori. Tutto o niente. Non poteva suggerire a Savage di concludere l'accordo, ma di comprare solo una parte delle obbligazioni: avrebbe capito subito che lei sapeva qualcosa che non poteva dirgli. Le sembrò improvvisamente ridicolo che, dopo la scienza dei modelli valutativi e la spietatezza nichilista del mondo borsistico, il destino di cento milioni di dollari, e delle persone a essi unite dovesse dipendere da lei, da una bugia creata da speranze, perdono e redenzione. Ma d'altra parte era sempre stato così. Lei aveva sempre interferito, giocato a fare dio o la sua antitesi. Si fermò un attimo, prima di rispondere con un sorriso tranquillo. "Non c'è nessun piccolo problema, James. Le minacce erano vere, ma non possiamo bloccare l'accordo sulla base di qualcosa di così poco tangibile. Io lo farei, e comprerei tutto".
Zamaroh sogghignò deliziata. Breden aveva la solita maschera di educato interesse. Savage sembrava volersi ritirare dal dibattito. "Bene" sventolò ancora la mano. "Compreremo tutto noi. Vai avanti, Zana". Si alzò e fece per uscire dalla stanza. Si fermò a metà strada e si girò verso Sarah. "Sarà meglio che non ti sbagli ". Sarah. Breden e Zamaroh lo guardarono uscire in silenzio. Quando fu sparito dalla loro vista, Sarah fece un lungo sospiro. "Perfetto. Mi ha appena addossato la responsabilità del successo o del fallimento dell'intero accordo". "Non ha parlato del successo" disse Zamaroh. "Quello sarebbe solo suo". Sarah rise. "Capro espiatorio ufficiale. Mi chiedo se posso avere un extra. Non ho avuto un extra per la faccenda delle minacce, forse però posso chiedere del denaro per fare il capro espiatorio. Penso che presenterò un reclamo". "Ne hai bisogno?" chiese Breden. "Di cosa?" chiese Sarah maliziosa. "Di denaro per il pericolo" disse Breden in tono pacato. "Apparentemente no. Ti sembro incolume o no?" Sarah si alzò in piedi, li salutò e uscì. "Allora..." disse Breden a Zamaroh dopo che Sarah ebbe chiuso la porta dietro di sé. "Hai avuto quello che volevi". "Cosa volevo?" chiese allegramente l'iraniana. "L'accordo. Sarah ha fornito a Redford un certificato di buona salute". "Anche tu". "Già, e odio sembrare modesto, ma non era la mia approvazione, quella che aspettava Savage. Sarah ha dato il colpo finale, lo sappiamo tutti e due". "Lei ha uno strano potere su di lui, e questo mi fa incazzare" mugugnò Zamaroh. "Non te la prendere. In fin dei conti hai avuto il tuo accordo". "L'accordo era da fare. Sarah non c'entra". "Non ne sarei troppo sicura". "Cosa vuoi dire?" chiese Zamaroh, rapida come una coltellata. "Penso che stia davvero nascondendo qualcosa". "Qualcosa di grosso?" "Qualcosa che potrebbe fare saltare tutto per aria, se viene fuori". "Perché dovrebbe farlo?" "Forse ha perso la testa per Redford. È una rockstar, e le donne lo trova-
no irresistibile". Zamaroh scosse la testa. "No. Non è nel suo stile compromettersi". "Pensi che sia incapace di mentire?" "Al contrario. Penso che cerchi delle ragioni migliori del sesso per mentire". "L'amore?" "Ti sembra una donna romantica e innamorata?" chiese Zamaroh. "No" ammise Breden. "Non mi sembra. Ma sembra una donna con parecchie cose per la testa". "Allora, cosa facciamo? Savage sta evidentemente attraversando un periodo di crisi a livello personale, e questo non ci è di aiuto. Se noi provassimo a sussurrargli una cosa del genere, si ritirerebbe immediatamente dall'accordo. L'umore è quello". "Sì, probabile". "Sai, questa cosa mi fa impazzire. Se fossi io, ad avere problemi personali, mi direste: le donne non sanno compartimentalizzare, sono ipereccitabili, instabili, sentimentalizzano tutto, non faranno mai i piloti da caccia eccetera eccetera. Quando invece è il capo, cioè un uomo, a perdere la testa, si fanno un sacco di eccezioni. È vista come una sorta di eccentricità, quasi una cosa positiva: quell'uomo ha sentimenti, sente il dispiacere, è umano come tutti noi. Mi fa incazzare". Breden si strinse nelle spalle. "Arriva la rivoluzione". Oddio. Si morsicò la lingua per quella infelicissima battuta. Il sangue abbandonò il viso di Zamaroh. "Cosa hai intenzione di fare con Sarah?" chiese cercando di sembrare distaccata. "Andare a trovarla a casa e farci due chiacchiere". Capitolo 51 Sarah si svegliò avviluppata nel piacere delizioso del suo piumino d'oca. Si stiracchiò, si alzò e si catapultò giù dal letto, indossando i calzoni della tuta e una striminzita maglietta senza maniche. Andò da Georgie. Lo cambiò e gli diede il latte col biberon giocò con lui per una mezz'ora, poi attraversò Kings Road per comperare dei giornali. Il sole splendeva. La giornata era calda, per la stagione. C'erano più di venti gradi. L'aria era cristallina dopo il temporale della notte prima, e Sarah si sentì sollevata di non dover pensare a Redford e alla Goldstein. Tornò con le braccia cariche di giornali e un caffè nero.
Sulla sua terrazza in cima al tetto, mise Georgie sul girello di fianco a lei in compagnia del suo animaletto di stoffa preferito, un ragno a strisce rosse e nere, e sparse i giornali sul tavolo, nello splendore del sole autunnale. La tournée di Redford, lesse, si stava trasferendo a Londra fra gli applausi. Fu colpita dalle parole dell'articolo. «I tour di Redford sono esperienze magiche, in cui un angelo si cala sulla terra e ci intrattiene per poche, preziosissime ore» diceva un critico musicale del Times. Il verdetto del Sun era più terra terra: «Il sesso in persona è ancora fra noi!» L'Indipendent, in maniera un po' più sobria, descriveva il tour mondiale come «il tour che ha incassato di più in tutti i tempi. Centinaia di migliaia di ammiratori fedeli sono fioccati ai concerti. Milioni di persone acquisteranno i suoi cd. La stella di John Redford si sta innalzando ai suoi massimi livelli». Sarah poteva sparare a quella stella e farla cadere a terra. O lasciarla dov'era, immacolata. Non aveva più parlato con Redford, ma non voleva più sfuggirgli. Desiderava da morire il Redford che aveva creduto di conoscere. Ora lo disprezzava con tutte le sue forze. Non era mai stata brava a concedere seconde possibilità alla gente, ma ora avrebbe voluto farlo. Sapeva che, una volta che si era fatta un'idea, una volta che aveva giudicato qualcuno colpevole, non c'era speranza che tornasse sui suoi passi. Nel suo cuore non esisteva una Corte d'Appello, non era possibile tornare indietro. Quell'uomo, però, era il padre di suo figlio, pur non sapendolo, e lei lo aveva amato. Nonostante la sua rabbia, una parte di lei era ancora pazza di lui. Aveva fatto una cosa vile, resa ancora più tenibile dalle conseguenze che aveva scatenato, come una maledizione a lungo termine, letale. Le bombe a orologeria che carichiamo non si può mai sapere quando esploderanno, rifletté Sarah. Decisioni che prendiamo, lavori che accettiamo, posti che frequentiamo, gente con cui entriamo in rotta di collisione. A volte abbiamo dei leggeri e vaghi presentimenti, ma poi ce ne freghiamo del destino, e non sapremo mai quali conti ci presenterà da pagare, e quando. Tornò ai suoi giornali e, in un vano tentativo di esorcizzare l'uomo dalla sua mente, accartocciò le pagine con Redford in copertina, e le buttò sul pavimento. Georgie ne prese una vagante, speditagli da un colpo di vento improvviso e violento. La acchiappò deliziato, facendo a brandelli quella sfilza di bugie. Gorgogliò di piacere. I fringuelli in giardino cantavano allegramente, Jacob dormiva di sotto, nella sua camera, e Sarah avrebbe voluto fermare quell'istante. Voleva stare lì con il suo bambino, a casa loro, con la benigna
presenza dello zio. Non voleva più avere a che fare con l'accordo. Non voleva più sentire nominare Redford, dovere pronunciare il suo nome in tono distante e professionale, mentire e nascondere il suo vero carattere, era più di quello che poteva fare. Ma non era ancora stata pagata. Aveva bisogno dei soldi, e come lei tutte le donne che Redford avrebbe potuto aiutare se lei avesse mentito. Cercò la tazza del caffè e stava dando un'occhiata al resto dei giornali, quando un articolo attirò la sua totale attenzione. INTERPOL E FBI SULLE TRACCE DI UNO STUPRATORE SERIALE Uno stupratore che pare aver colpito in almeno dieci diverse città degli Stati Uniti negli ultimi quattro mesi sembra ora essersi spostato in Europa. L'Interpol e le polizie locali, con l'aiuto dell'FBI, stanno investigando su stupri commessi a Parigi e a Venezia che reputano possano essere stati perpetrati dallo stesso uomo. Seguiva una lista delle città americane in cui lo stupratore aveva colpito. Sarah si alzò lentamente, come se non fosse sicura che il suo corpo le ubbidisse, e andò nel suo studio. Pescò un foglio di carta dalla scrivania e tornò sulla terrazza, muovendosi come un automa. Spostava lo sguardo dal foglio di carta all'articolo, tornava sul foglio di carta e così via. Poi scattò in piedi, urtando la tazza che cadde. Si dondolò avanti e indietro con le braccia strette intorno al corpo, emettendo un suono agghiacciante. Il caffè si spargeva come sangue sull'inchiostro dei giornali, fino a quando le parole vennero oscurate. Iniziò a sgocciolare dal tavolo al pavimento. Georgie guardò il liquido vischioso avvicinarsi, guardò sua madre e iniziò a urlare a squarciagola. Il campanello della porta si mise a squillare. Sarah inghiottì la saliva acida, prese in braccio il bimbo e lo abbracciò forte. "Va tutto bene, piccolino. La mamma si è spaventata, amore, tutto qui. Non c'è problema, gattino. Non c'è problema. Quel cattivone del caffè è caduto per terra, tutto qui. Non toccherà Georgie. Georgie sta bene". Baciò i capelli setosi del bimbo mentre lo portava giù dalle scale. Senza riflettere, la mente altrove, spalancò la porta. Di fronte a lei c'era Dick Breden. Il consueto mezzo sorriso svanì quando vide Sarah e Georgie. I capelli di Sarah erano arruffati come se li avesse rastrellati con le dita avanti e indietro. L'espressione del suo viso ondeggiava tra paura, rabbia e impotenza. Era totalmente indifesa. Breden l'ave-
va colta di sorpresa. Non c'era più niente che potesse fare per nascondere le sue emozioni, ora. Lo guardò, furiosa per l'invadenza di Breden e perché lui aveva visto Georgie, il segreto che stava cercando di tenere nascosto. "Vattene, Dick. Ti prego, vattene. Non so perché tu sia qui, ma qualunque cosa sia dovrà aspettare. Ho bisogno di starmene da sola. Per favore, vattene. E dimentica di essere stato qui". Breden guardò lei e il bimbo che aveva tra le braccia. "È tuo?" "Sì, è mio figlio". "È bellissimo". "Già. Grazie". "Perché non ce l'hai detto?" "Non sono affari vostri, direi". "Un sacco di gente si arrampicherebbe sul tetto per urlarlo al mondo intero". "Lui è la mia gioia privata, e non si sentirà meno amato se lo tengo nascosto. Comunque, non sono affari tuoi". Breden la osservò con fermezza, cercando di leggere i segreti che aveva negli occhi. "È successo qualcosa. Cosa?" "Vai via". "Posso aiutarti?" Lei scosse il capo con violenza. "Sì. Andandotene". "Posso tornare più tardi?" "No". "Sarah, dobbiamo parlare". "Di cosa? Di Georgie? Non ha niente a che fare con te". Breden la guardò stranamente. "Non ti devo parlare di Georgie. Come dici tu, non sono affari miei. Non ti preoccupare che ne parli con qualcuno, perché non lo farò". "Grazie" disse Sarah. "Te ne sarei grata". Breden la guardò gentilmente. "Non è un problema. Però dobbiamo parlare". "Perché? Cosa sta succedendo?" "Dimmi un orario. Tornerò" disse Breden. "Oddio, va bene. Tanto non riuscirò a farti cambiare idea. Alle otto di stasera. Georgie sarà a nanna. Potremo parlare, anche se credo che non ci sia niente da dire".
"A più tardi" disse Breden. Sarah gli chiuse praticamente la porta in faccia, andò nel corridoio e si appoggiò alla parete con Georgie, un fagotto caldo stretto tra le braccia. Guardò l'orologio. Aveva nove ore prima che tornasse Breden. Nove ore per capire cosa diavolo stava succedendo e cosa doveva fare. Erano solo le undici di mattina, troppo presto per bere un drink. Cercò Jacob. L'uomo anziano era ancora addormentato, cercando di riprendersi dalla fatica di allevare un bambino. Indossò le scarpe da tennis, mise Georgie nel passeggino e si diresse verso Battersea Park, sperando che la passeggiata servisse a schiarirle le idee. Camminò sotto i cedri rossi, disturbando torme di piccioni affamati e girò verso lo zoo, accompagnata da scoiattoli che saltavano da un ramo all'altro. Contava i minuti. Contava gli stupri. Dieci in America, due in Europa. Dodici stupri, uno per ogni città che lui aveva toccato con il suo tour e, Sarah avrebbe potuto scommetterci, nei giorni in cui Redford e il suo entourage erano là. E lei gli aveva creduto. Aveva fatto un patto di cinque milioni di dollari con lui. Cinque milioni per uno stupro. Assoluzione in terra. Un rifugio per tante donne, pagato dal dolore di una donna. Una valutazione data a una cosa senza prezzo. Solo che non era cinque a uno. Era almeno cinque a dodici, e chi sapeva se tante donne non avevano avuto il coraggio di parlare, o avevano preferito tacere per far sì che il loro incubo finisse prima? Aveva sbagliato tutto. Era rimasta accecata dal potere d'acquisto di cinque milioni di dollari. Peggio ancora, era stata accecata dalla volontà di non vedere. Aveva voluto credere che fosse stata un'aberrazione solitaria, un on-off, e che lui meritasse un'altra opportunità. La vocina aveva ragione. Fai il tuo lavoro, non cercare di fare la parte di dio. Il destino ti ha dato le carte. Gioca la tua mano, non cercare di barare, quali che siano i tuoi motivi. Camminò lungo il lago, oltrepassò le sculture di Henry Moore, incombenti e meditabondi bronzi in mezzo agli alberi. E poi? Si diresse verso casa, mise Georgie nel lettino per il pisolo e si fece sommergere dalla doccia. Dio mio, e adesso? Si asciugò e si sedette da sola, guardando le pareti del suo studio, obbligandosi a rimanere immobile fino a quando non avesse trovato una soluzione. Capitolo 52 Breden arrivò puntuale alle otto. Sarah, calzoni militari color kaki e
un'informe maglia marrone, lo salutò. Aveva raccolto i capelli m cima alla testa. Ciocche ribelli sfuggivano e le incorniciavano il viso. Non era truccata, solo uno spruzzo di intenso profumo che sapeva di gelsomini in una notte d'estate. Era pallida, ma risoluta. Portò Breden in casa, su per le scale e sul terrazzo verdeggiante. Mise il baby phone sul tavolo, dove iniziò a crepitare per le interferenze quando un aereo passò sopra di loro. Quando Breden si sedette, lei lo studiò, inconsciamente, come se lo stesse vedendo per la prima volta. Sapeva che aveva quarantacinque anni, ma ne dimostrava meno di quaranta. Aveva il portamento, la muscolatura e il colorito di chi si allena intensamente. Si muoveva con scioltezza ed energia, senza ostentare atteggiamenti da spaccone. Sapeva che era stato nell'esercito, e improvvisamente l'idea le piacque. Era un uomo del mondo, di diversi mondi, e sarebbe riuscito a occuparli tutti. Non si limitava ad attraversarli, ma lasciava un profondo segno del suo passaggio. Ora la stava guardando, non con il solito sorriso sardonico, ma con aperto interesse, come un uomo guarda una donna. Era come se entrambi fossero arrivati a una comprensione senza bisogno di esprimersi a parole, la voglia di fare insieme lo stesso cammino sconosciuto. "Vuoi da bere?" "Sì grazie. Vodka". Sarah tornò con una bottiglia di whisky, una di vodka, il cestino del ghiaccio e due bicchieri. Si sedette di fronte a Breden e versò i due drink. Per un po' entrambi sorseggiarono le bevande, guardandosi mentre il silenzio e il buio scendevano su di loro. Breden taceva. Non fece domande alle quali lei non avrebbe risposto, e lei lo apprezzò per il suo silenzio. In effetti, le sembrava di notare rispetto negli occhi di lui, e una gentilezza che non gli aveva mai visto. "Penso di avere fatto un errore colossale" disse infine Sarah. "Ho mentito sull'intimidatrice. L'ho messa in trappola a Venezia, l'ho acciuffata, l'ho affrontata, ho ascoltato la sua storia". Con voce velata e monotona per le emozioni che cercava di reprimere, raccontò tutto a Breden. Lui ascoltava in silenzio, sorseggiando la vodka. Quando lei finì di parlare, lui si limitò ad osservare il buio davanti a sé. Poi Sarah gli mostrò l'articolo sul Times. Riempì ancora i bicchieri, e bevve un lungo sorso di whisky. "Ho la sensazione orrenda che Redford sia lo stupratore". Breden rispose dopo un po'. "Allora, qual è il tuo dilemma?" "Una parte di me non ci crede. Si rifiuta di crederlo".
"Il tuo mitico istinto?" "Sì". Sarah si spostò i capelli dagli occhi. "Voglio dire, perché avrebbe bisogno di stuprare qualcuno? Ha così tante donne che gli si buttano addosso..." "Non stiamo parlando di sesso, ma di stupro. È più una questione di potere. Forse, tra l'altro, tutte queste proposte di sesso consensuale l'hanno stancato. Forse ora ha bisogno di resistenza e di lotta, per sentirsi vivo, per fare una vera conquista". "È nauseante". Breden annuì. "Già. Ma c'è una cosa che continuo a non capire" aggiunse lentamente. "Quale?" "Perché dici tutto questo proprio a me?" Sarah non esitò. "Perché mi devi aiutare a scoprire se è lui". "E se lo è?" "Lo gettiamo in pasto ai leoni". "E se non è lui?" "Manteniamo il segreto e l'accordo va avanti". Sarah non menzionò i cinque milioni di dollari in beneficenza; non voleva che Breden pensasse che pregiudicavano la sua obiettività. "E come ti posso aiutare?" "Userai le tue fonti in polizia, Interpol, FBI, so che le hai. Devi ottenere tutti i dettagli che riguardano gli stupri, il modus operandi, perché si pensa a un collegamento tra i casi, l'ora esatta in cui sono stati commessi. Da parte mia, io controllerò i movimenti di Redford. Se lui stava facendo lo spettacolo, o era a cena in un posto pubblico, è innocente". "E cosa facciamo con Savage?" "Non c'è nessun bisogno di coinvolgerlo finché non sappiamo qualcosa". "Perciò, vuoi che facciamo un'investigazione privata?" "Sì. Pagherò io la tua parte". "Non voglio il tuo denaro, Sarah". Lei si strinse nelle spalle. "Dimmi, piuttosto: perché dovrei farlo?" "Perché, se è colpevole, avremo la possibilità di provarlo, e se è innocente, e noi continuiamo a pensare che sia uno stupratore seriale, lo rovineremmo. Savage non si lascerebbe sfuggire niente, ma non possiamo essere sicuri che la talpa non ci si butterebbe in mezzo". "Chi è la talpa? Ho la sensazione che, anche qui, tu sappia più di quello
che sei disposta a dirmi". "Non me lo chiedere". "Te lo sto chiedendo". "Non te lo posso dire. Per favore, non è importante". "Savage lo sa?" "Sì, lui lo sa". Breden annuì. "Va bene, lascerò perdere. Per ora. Ma per quanto riguarda partire in quarta, io e te, con una bella investigazione clandestina, se Savage viene a sapere che tutti e due siamo assenti ingiustificati, andrà su tutte le furie. La Goldstein è il mio principale cliente e non posso permettermi di perderla. L'altra cosa che mi dà fastidio è che mi stai bendando gli occhi. Ci sono tante cose che non mi dici, tante omissioni, se non balle..." Sarah lo guardò. "Sono colpevole su tutti i fronti. Cosa vuoi che ti dica? Ho le mie ragioni, nessuna delle quali può danneggiare qualcuno. Esattamente il contrario". "Va bene. Adesso mi devi dare una ragione per buttarmici dentro a testa bassa". "Ti chiedo di fidarti di me e di aiutarmi, Dick. È la migliore ragione che ti posso dare". Capitolo 53 Il campanello squillò il mattino successivo alle dieci. Sarah era seduta alla sua scrivania e stava controllando bollette scadute da tempo, mentre Jacob beveva il tè in cucina e Georgie faceva un pisolino. Corse giù dalle scale e aprì la porta. Un fattorino in motocicletta, col volto sinistramente coperto dal casco, le porse una busta e un foglio da firmare. Tornò in studio e aprì la busta. Uscì una descrizione sommaria di Roddy Clark: registrazioni telefoniche, estratti conto bancari da Coutts, una breve biografia. Viveva in Camden Hill Square, era nato nel St Mary's Paddington nel 1965, era andato alla Dragon School, poi a Eton, infine a Oxford. Aveva vagabondato per il mondo per quattro anni prima di approdare al Word, dove aveva fatto una carriera fulminante diventando redattore capo a ventinove anni, poi sembrava che si fosse bruciato la carriera in pochi anni, retrocedendo alla posizione di reporter generico, sempre alla ricerca di scandali. Sulle tracce della Goldstein, pensò Sarah. Avrebbe dovuto recuperare gli articoli dell'anno prima, nei quali lui aveva sputtanato l'azienda. Forse aveva già la sua fonte, allora. Qualcosa le scattò in testa, un debole e lontano collegamento. Iniziò a passare una a una le registrazioni te-
lefoniche quando suonò il telefono. Lo prese in fretta, irritata. "Sì?" "Ciao, sono Strone". Lei fece una smorfia. "Ho un po' di materiale finanziario per te. Vuoi venire a vedere?" Oh no, Dio, tutto ma non questo. Altre perfide colonne di cifre, ancora mal di testa e agli occhi. Ancora Redford. Quando si concluderà questa maledizione? Quando ti pagheranno. La voce della ragione, il suo grillo parlante, la ammonì. "Dove sei?" chiese lei. "Al Portobello Hotel". "Va bene. Sarò lì tra mezz'ora". Abbandonò Roddy Clark sulla scrivania e uscì. Il Portobello era così discreto che lei lo notò per la prima volta. Era situato in una strada elegante di Notting Hill, un posto tutto di stucchi bianchi e rame scintillante, con un'aria di ordine e di tranquillo benessere. Sarah chiese di Strone Cawdor e fa indirizzata alla sua camera. Bussò e rimase senza fiato quando Redford le aprì la porta. Aveva l'aspetto disastroso di una persona che non dorme da giorni. "Ah. Scusami" disse Sarah. "Mi hanno mandato nella stanza sbagliata. Sono venuta qui a trovare Strone". "Questa è la sua stanza" disse gelido Redford. "È dovuto uscire un attimo per vedere qualcuno. Sarà indietro tra cinque minuti. Non mi ha detto che saresti arrivata". "Bene. Questo ci pone entrambi in svantaggio, no?" "Ah. Questo è il modo in cui andrà in futuro?" Sarah andò alla finestra. Non voleva guardarlo, non voleva fargli vedere le domande che aveva nella mente e nel cuore, il sospetto che la attanagliava. 'Innocente fino a prova contraria', continuava a ripetersi, lottando per essere obiettiva. Le tornò in mente il viso di Carla, che emerse dal suo inconscio come un angelo vendicatore. Redford si avvicinò alla finestra e fronteggiò Sarah. Lei lo guardò negli occhi. "Che ne so di come andrà? So solo che è diventato un colossale casino". Stettero lì, uno di fronte all'altro, furiosi, con migliaia di domande negli occhi, e parole non dette che si ghiacciavano sulle labbra. Strone entrò in quell'istante. "Ho interrotto qualcosa?" Sarah e Redford si allontanarono.
"Ciao, Strone" disse Sarah stancamente. "Sembra che ci sia qualcosa di eccitante, qui". "E a me sembra che tu sia sempre il solito cafone e rozzo sempliciotto". Strone ignorò la battuta e si girò verso Redford. "L'is..." Si bloccò. "Quello là che hai incontrato ieri è tornato. Ti aspetta di sotto". Redford si irrigidì. "Può aspettare". Strone scosse la testa. "Gliel'ho detto. Mi ha risposto che ti deve vedere assolutamente. Adesso. Che è impegnato e tutte quelle balle lì". "Vaffanculo!" Redford si passò le dita tra i capelli e uscì senza nemmeno salutare. "Cosa succede tra voi due? Una scaramuccia tra innamorati?" "Cosa? Hai un'immaginazione che definirei fetida, anzi, putrefatta!" "Dici? Non dimenticare che conosco molto bene John Redford". "E cosa sai di lui?" "So per certo che è disperatamente innamorato, e che questa persona gli ha fatto qualcosa che lo ha ferito a morte" replicò Strone, con voce inaspettatamente gentile. Sarah si voltò, gli occhi pieni di lacrime. Tossì, si terse le lacrime, guadagnò tempo fingendo di essere affascinata dal dedalo di stradine strette sotto di lei. "Allora, quando si comincia con l'accordo?" chiese Strone, gettandole un'ancora di salvezza. "Oramai vi ho sommerso di tonnellate di carta, e la tua Zamaroh continua a chiederne". "Questi accordi sono sempre degli incubi, dal punto di vista cartaceo" disse Sarah, girandosi verso di lui, grata di poter tornare su un terreno a lei familiare. "Non crederesti mai al volume di documentazione totale che si accumula. Penso che stiamo per concludere" disse, più per tenerlo tranquillo che per la convinzione che l'accordo fosse davvero imminente. "Adesso bisogna considerare le condizioni di mercato. Dobbiamo varare la nave con la marea favorevole". "Noi siamo la marea" contestò Strone, sorridendo. "Sì, e non dirmi che sei in grado di governarle, come il re Canuto. Hai mai sentito parlare di hybris?" "Sarebbe un avvertimento?" il sorriso svanì. "Consideralo un consiglio per salvarti la vita". "Voglio che questo accordo si faccia al più presto, non capisci?" "Lo si farà quando è ora, né prima, né dopo. E tu capisci? Adesso, quali sono le cartacce che mi devi consegnare?" Strone le porse un fascio di documenti. "Vuoi che ti aiuti?" chiese.
"No. Se ho dei problemi, ti chiamo io" replicò Sarah. "Voglio dire, non sono esattamente una novellina, no?" Strone sorrise. "Attenta, l'hai detto tu stessa". "Che cosa?" "Hybris e il resto. Orgoglio e caduta". "Dovrò stare attenta a quello che faccio, allora, no?" Sarah uscì e chiuse la porta dietro di sé con un senso di sollievo. D'impulso, si mise a sedere nel foyer, prese il suo quotidiano e fece finta di leggere. C'era solo un'altra persona in attesa. Nonostante l'abito stazzonato, qualcosa in lui irradiava autorità,. Come se si fosse accorto dell'attento esame di Sarah, alzò lo sguardo e la guardò fisso. Pochi minuti dopo, la pazienza di Sarah fu premiata quando la ragazza della reception avanzò verso di lui e gli disse, dandosi una grande importanza. "Il signor Redford la può vedere, ora". L'uomo grugnì e si incamminò per le scale. Lui era Vis..., quello là, come aveva preferito chiamarlo Strone. Iscritto? Istruttore? Istigatore? Cosa era lui per Redford, da riuscire a farsi ricevere così alla svelta, e perché Redford lo temeva e ne era disturbato? Capitolo 54 Sarah tornò a casa sua e la trovò vuota. Georgie e Jacob erano evidentemente andati a fare due passi nel sole autunnale. Dio, sarebbe stato bello se si fosse potuta unire a loro. Manda al diavolo tutto e buttati fuori al sole. Si preparò un caffè mostruosamente forte, poi, demoralizzata, salì le scale e si chiuse in studio. Roddy Clark la stava aspettando. Passò attraverso gli estratti conto delle carte di credito. Quell'uomo era un dandy: sarti a Londra, sarti a Windsor, dove tutti gli etoniani si vestivano fin da quando erano ragazzi. Una commovente fedeltà. Poi, Sarah iniziò a sentire il calore di una connessione che le bruciava nel cervello. Scuola, fedeltà, scolaro, Eton... Dai, muoviti, muoviti, vieni fuori porca miseria, ci sono, ci sto arrivando, mi stai prendendo in giro. Mise il suo cervello sotto pressione. Bingo! Fece un salto. Eton. Jezza. Con le dita impacciate per l'agitazione, mise sulla scrivania la pratica di Jezza e andò dritta alla biografia. Nato nel 1965. Prese i tabulati telefonici e li confrontò con quelli di Clark, facendo scivolare la punta dell'indice sulla colonna di numeri. C'era il numero di Clark, chiamato da Jezza il 23 settembre, due giorni prima che Clark scrivesse l'articolo su Redford e la
Goldstein. Andò indietro nove mesi per vedere quante volte i due uomini si fossero sentiti per telefono. Solo due. Non poteva essere una coincidenza, la telefonata del 23 settembre... Ti ho beccato, bastardo. Il suo senso di trionfo svanì gradualmente. Perché Jezza l'aveva fatto? Cosa poteva guadagnarci? E come poteva essere stato così idiota da pensare di passarla liscia? Le registrazioni telefoniche erano indizi circostanziali, ma non li avrebbe portati in un tribunale, dove il giudizio era più mite. Jezza sarebbe stato giudicato nel feudo spietato della Borsa, nell'arena della sala contrattazioni. Sarah prese un taxi e andò nella City. Dal cellulare organizzò una riunione con Savage, Zamaroh e Breden, ma prima volle vedere Zaha da sola. La responsabile della sala contrattazioni era raggomitolata sulla sua poltrona e parlava al telefono con gli auricolari. Con un'aria sdegnosa, l'iraniana guardò la visitatrice poco gradita che si sedeva di fronte a lei. Sarah vide l'occhiata e decise di ignorarla. Una parte di lei era troppo avvilita per i giochetti. L'iraniana concluse la telefonata con il solito tono gentile. "Be', allora guardali! Subito!" Si tolse gli auricolari con una smorfia. "Sarah. Cosa posso fare per te?" Sarah la guardò decisa. "Ho trovato degli indizi particolarmente evidenti sulla persona che ha messo Roddy Clark sulle nostre tracce per Redford" le disse, esprimendo le sue certezze con voce ben modulata. La faccia di Zamaroh si indurì. "Chi è?" sussurrò. "Jeremy St James". Zamaroh saltò in piedi. "Lo sapevo! Io l'ho sempre saputo! Che bastardo..." Iniziò a percorrere l'ufficio a grandi passi, gli occhi fissi sulla moquette, un ciclone di furia scatenata. "Aspetta un attimo, Zaha. Guarda gli indizi, prima". Sarah mostrò i tabulati telefonici e spiegò il collegamento di Eton. "Mi basta" concluse Zamaroh. "È un indizio circostanziale. Non è una prova" la ammonì Sarah. Zamaroh si voltò verso di lei. "Hai bisogno di prove?" Sarah annuì dubbiosa. "Fai venire St James". "Chiamalo tu" disse Sarah, uscendo dall'ufficio di Zamaroh per entrare nel suo. Non voleva partecipare a quello che temeva stesse per esplodere. Ci volle solo un minuto. Dal suo ufficio, sentì la voce di Zamaroh, all'inizio abbastanza quieta, anche se sibilante, contrapposta ai toni più alti e striduli di Jezza. Queste interruzioni sembrarono appiccare fuoco al tempera-
mento di Zaha, perché la sua voce si alzò di tono e di volume, e Sarah non poté evitare di sentire le sue parole. "Perché? Dimmi solo perché? Ti ho dato tutto. Sei cresciuto grazie a me, anche più di quello che avresti meritato! Ti ho sostenuto. Ti ho dato un'altra possibilità. Ti ho tenuto a balia quando sei caduto in disgrazia, e negli ultimi mesi sei rimasto qui solo grazie a me, alla mia parola, anche se ti avrei dovuto buttare fuori dopo la tua performance spettacolare, quando hai buttato via otto milioni di dollari in un colpo solo!" Sarah si strofinò il viso, come per cercare di ripulirsi dalle parole cattive di Zamaroh. L'iraniana aveva l'atteggiamento dell'amante tradita. "Perché? Dimmelo, allora!!" urlava. La sala contrattazioni era piombata in un inusuale silenzio di tomba. L'umiliazione di Jezza si era trasformata in una pubblica impiccagione. "Cosa ti fa pensare che io abbia fatto qualcosa?" esplose Jezza in tono disperato. "Lo vedi questo?" chiese Zamaroh istericamente. "Lo vedi? Una prova nero su bianco. Non sei solo infedele e scorretto, sei anche un deficiente. Credi davvero di passarla liscia?" "Con cosa?" Sarah si rannicchiò. Più a lungo Jezza teneva duro, peggiore sarebbe stata la sua inevitabile caduta. Il poveraccio era ancora convinto di trovare una scappatoia. "Sei stato tu. Abbiamo altre prove. Mi hai tradito, hai tradito tutta la sala contrattazioni. Adesso dimmi perché. Avanti, muoviti. Dillo. Assumiti le tue responsabilità e prenderò in considerazione l'idea di salvare la tua misera pellaccia". Ci fu un lungo silenzio, poi Jezza parlò, la voce che trasudava disperazione. "Non credevo che vi avrei creato dei problemi. Non l'ho fatto in malafede o con malizia". "Allora perché?" "Volevo dare qualcosa a Roddy. Volevo fargli credere di essere ben inserito, importante, di prendere parte alle decisioni, non volevo che sapesse che ero uno dei tuoi tanti schiavi di miniera". Il silenzio divenne pesante come piombo. Sarah poté quasi sentire Jezza chiedere a Zamaroh di dargli un'altra possibilità. Si unì a lui col pensiero. Tutte le loro speranze furono spazzate via dal colpo di grazia della risata cattiva di Zamaroh. "Vattene, pezzo di merda".
Ci fu ancora silenzio e Sarah immaginò che Jezza stesse guardando il suo capo, confuso. Ancora la voce di Zamaroh. "Sicurezza? Sono Zamaroh. C'è qualcuno, qui da me, che vorrei fosse scortato fuori dall'azienda, per cortesia". Oh Cristo, no. Che stronza. Sarah vide St James che usciva dall'ufficio di Zamaroh, a testa bassa, orrendamente umiliato. Lui alzò lo sguardo, i loro occhi si incontrarono. Sarah cercò di nascondere la pietà che provava, come pure un profondo senso di colpa. Jezza si accasciò sulla sedia. Poi apparvero due uomini della sicurezza. "Va bene, signore" disse uno dei due, un ex giocatore di rugby alto un metro e novanta. "Le dispiacerebbe seguirci?" "Per cortesia, aspettate cinque minuti, vi dispiace?" sibilò lui. Zamaroh gli arrivò alle spalle. "Conosci le regole. Levati dai coglioni subito". Jezza si alzò in piedi e la guardò con odio puro. Si girò e iniziò ad aprire i cassetti della sua scrivania, prendendo un paio di scarpe da tennis e della corrispondenza. "Lascia tutto qui" disse Zamaroh. "Conosci le regole". "Sono effetti personali" disse St James. "Lo giudicheremo noi. Vattene!" fece un cenno ai due della sicurezza che lo presero per le braccia e lo portarono via di peso dalla scrivania. L'uomo si guardava intorno disperato mentre intorno a lui si era formato un assembramento. Ancora, incrociò lo sguardo di Sarah. Lei cercò di infondergli forza e sicurezza. Poteva vedere quanto era vicino a perdere il controllo. "Oh, per l'amor di Dio! Lasciatelo libero! Lasciatelo uscire da qui con le sue gambe, porca puttana!" esplose Sarah, uscendo dal suo ufficio. "Non è un assassino". Le guardie della sicurezza sembravano imbarazzate. Zamaroh si girò e se ne andò, annoiata dallo spettacolo. Il pubblico rimase in attesa, col fiato sospeso. "E tornate al lavoro, voi, branco di piraña schifosi!" disse Sarah, prima di tornare nel suo ufficio, sbattendo la porta e chiudendo le veneziane dei vetri, nauseata. Capitolo 55
Sarah incontrò ancora Zamaroh trenta minuti dopo, insieme a Dick Breden, nell'ufficio di Savage. I due uomini erano l'unica cosa che le impediva di azzannare Zaha alla giugulare. "Dunque, Sarah. Ho bisogno di sapere qualcosa da te" disse Savage, indicando la porta. Sarah si alzò e lo seguì in bagno. Savage richiuse la porta e si appoggiò al lavandino di marmo. Sarah chiuse il coperchio del water e si sedette. "Ho seguito il tuo consiglio" disse lui, con un guizzo di divertimento negli occhi. "Per cosa?" chiese Sarah sorridendo. "Riguardo a quel pezzo di merda. Richard Deane. Non ho potuto dirtelo, ieri. Ero ancora frastornato. Devo dire che la mia coscienza immacolata mi brucia un po', e che mi vergogno abbastanza, ma più ci penso, meglio mi sento". "Cos'hai fatto?" chiese Sarah, deliziata dall'animazione che era tornata sul viso di Savage. Lui sogghignò. "Ho chiesto all'autista di andare alla Uriah, alle otto in punto della sera in cui abbiamo parlato io e te. Deane era lì a pavoneggiarsi, tutto carino e azzimato, quel bastardo cazzone. Comunque... Sono sceso dall'auto, gli sono arrivato di fronte, l'ho guardato bene in faccia e gli ho mollato un pugno micidiale". Sarah scoppiò a ridere, orripilata ed eccitata allo stesso tempo. "Bel colpo" esclamò. "E poi?" "È rimasto sconcertato, si è seduto sui gradini, il sangue che gli colava sulla camicia Brooks Brothers. Gli ho dato un'occhiata, mi sono girato, sono risalito in macchina e me ne sono andato". "Ti ha visto qualcuno?" "Secondo me, un sacco di gente. Ero talmente fuori di me che non ci ho fatto caso". "Merda. Ma nessuno ti ha contattato, da allora?" Savage sorrise. "Intendi strascichi legali? No, nessuno". Sarah cercò di immaginarsi la scena. "Ben gli sta". Il sorriso di Savage si spense. "Sì, be', bisogna che ci prendiamo le nostre piccole rivincite, quando si può". Sarah avrebbe voluto chiedere se Fiona avesse troncato il legame, ma temeva di avere capito la risposta dal tono disperato di Savage. Tornarono in ufficio, guardati con curiosità da Breden e Zamaroh. "Strone mi ha dato questi, stamattina" disse Sarah a Zamaroh. Era anco-
ra deliziata dall'idea che Savage avesse dato un pugno in faccia al suo rivale. Perfidamente lanciò le carte sul tavolo, di modo che Zamaroh fosse costretta ad allungarsi per prenderle. "Vuole i soldi" continuò Sarah. "Mi fa forti pressioni. C'è qualche data orientativa?" "Ci stiamo lavorando il più velocemente possibile" disse Zamaroh, studiando attentamente i documenti. Guardò Sarah. "Se acquistiamo l'intero lotto, bisognerà affrettarsi". "Pensavo fosse una decisione già presa, quella di acquistare tutto il lotto" disse Sarah a Savage. "Lui sta tentennando" disse Zamaroh, con un tono di altezzoso disprezzo. Savage le indirizzò uno sguardo che avrebbe potuto Mulinarla. Era bello vederlo arrabbiato, invece che disperato. "Allora?" gli chiese. "Cosa ne pensi?" "Andiamo fino in fondo?" meditò Savage, come giocherellando con un dilemma filosofico. Sarah lo guardò, cercando di non trattenere il respiro. Poteva sentire la tensione di Breden, che guardava fuori dalla finestra, sguardo casuale, labbra strette. "Che si fa, Sarah?" gli occhi di Savage la colpirono come un proiettile. Lei alzò le spalle. "Non sono soldi miei, John. Devi decidere tu. Tu e Zaha". "E se i soldi fossero tuoi?" insistette Savage. "Se io avessi i soldi della Goldstein, potrei investire cento milioni senza fare una piega". "Allora, si parte" disse Savage. Zamaroh era in estasi. "Quando?" chiese Sarah. "Servono altri due mesi" rispose Zamaroh. "Sono le agenzie di valutazione il fattore che ci vincola di più. Devo dire, a favore del signor sottocontrollo Strone, che ha fatto un ottimo lavoro. La documentazione che ci ha inviato è sempre stata di ottimo livello. Ci ha aiutato molto". Sarah ascoltò sorpresa e muta l'inaspettato impeto di grande generosità di Zamaroh. "Diciamo nove settimane, per stare più tranquilli" le disse Zamaroh. "Per i primi di dicembre, allora" concluse Savage. "Di' al signor Strone che l'accordo partirà allora, salvo imprevisti".
Capitolo 56 Breden arrivò alle undici di notte. "Scusa il ritardo vergognoso. Ero fuori a cena. Sembrava non finisse mai". "Non c'è bisogno che mi spieghi la tua vita privata e sociale" disse Sarah, un po' tagliente. Era tardi, era esausta e, sebbene Breden la stesse aiutando, era furiosa di essere arrivata a quel punto per colpa di Redford. "Non era privata" disse Breden gentilmente. "Era una cena di lavoro, con un paio di disgraziati come me". "Niente sugli stupri?" "È quello che ho chiesto. Ci vorranno un paio di giorni e duecento sterline". "Hai già pagato?" "Assolutamente no. Volevano sapere perché mi interesso a questa faccenda". "Cos'hai detto?" "Mi sono toccato il naso. Non si aspettavano una risposta, ma si sarebbero sentiti idioti se non ci avessero provato". "Se la stampa inizia a frugarci dentro..." disse Sarah. "Non c'è bisogno di mettermi in guardia. Sono molto discreto". Sarah aggrottò le sopracciglia. "Lo so. Fammi sapere, quando ti contattano". "Ho un'altra cosa". Sarah lo guardò interessata. "Ti ricordi che mi hai chiesto di informarmi su un certo Jim O'Cleary?" "Già, il capo della sicurezza svanito nel nulla". "È un ex CIA. Ha smesso tre anni fa, dopo aver creato qualche casino, qualcosa che aveva a che fare con la droga. Non è stato provato niente, per quel che ne so, ma ci furono seri sospetti che stesse lavorando su un'operazione della narcotici su entrambi i lati, sia servendosi liberamente del prodotto, sia facendo il bravo ragazzo immacolato". "Ma dai. Mi chiedo cosa ne sappia Redford". "È stato Strone Cawdor che lo ha assunto. Apparentemente, O'Cleary se ne uscì col problema della droga subito dopo, perché Strone Cawdor gli ha pagato due mesi di disintossicazione". "Sì, coi soldi di Redford". "No. Coi suoi, ho saputo. Apparentemente, il manager è molto affezio-
nato alla sua gente". "Ma guarda. Più si vive, più si impara! Mi chiedo se O'Cleary si farà ancora vedere in giro. Forse è caduto dal treno?" "Perché non lo chiedi a Strone?" "Lo farò". "Cosa dice Strone della faccenda di Carla?" "Non ne sa nulla. Almeno credo". "Forse ne è al corrente l'uomo della CIA. È un cercatore professionale di spazzatura". "Penso che fosse lì più che altro per proteggere Redford dai pazzi. John era diventato molto nervoso, quando O'Cleary è sparito". Breden si alzò in piedi. "Scopri se è tornato. E io ti chiamerò quando avrò altre notizie". "Ho sempre il cellulare acceso". "Comunque, stai attenta". "Perché?" "Zamaroh è convinta che tu stia nascondendo qualcosa. È terribilmente decisa a scoprire qualcosa su di te". "Perché? Cosa le ho fatto?" "La rendi nervosa". "Perché?" "Tutti abbiamo qualcosa da nascondere. Penso che abbia paura che tu ti metta a curiosare, scoprendo qualche elemento da usare contro di lei". "Non ho alcun interesse a fare una cosa del genere. Quella donna è paranoica". "Paranoica, stronza e spietata. Una degna discendente dei suoi antenati Moghul. Guarda come ha trattato quel povero cristo di Jezza". "Non aveva bisogno di umiliarlo così. Ma con me è diverso. Su di me lei non ha nessun potere" aggiunse Sarah in tono arrogante. "Stai attenta, Sarah. Ti sto solo avvisando". "Perché me lo dici? Mi sembra evidente che siete molto in confidenza". "Perché io e te siamo una squadra, ora, e Zamaroh potrebbe farti a pezzi, se non stai attenta". Capitolo 57 Il giorno successivo, Sarah si decise a cancellare dalla mente la Goldstein, Redford, Carla e il mondo intero. Jacob era tornato a casa in Ro-
therwick Road per un giorno di necessaria e meritata solitudine, interrotto dalle partite a carte con gli amici, lasciando a Sarah la possibilità di godersi Georgie. Erano le dieci di mattina, e Sarah era sveglia dalle cinque e mezza. Lui ora stava dormendo beato e lei si stava rilassando. Guardava il letto desiderosa di infilarcisi, ma pensò che, se si fosse coricata, avrebbe dormito per due giorni. Si tolse il pigiama e indossò un'accettabile divisa da giorno, calzoncini corti e una maglietta. Poteva non essere abbastanza elegante per Carlyle Square, ma per casa sua era alta moda. Guardò il ficus, con le foghe raggrinzite dalla sete. Prima di tutto, doveva innaffiarlo. Riempì un grande innaffiatoio, aggiunse un misurino di concime e innaffiò il ficus e le altre piante. Adesso era ora di pensare a se stessa. Il poco sonno di quella notte era stato troppo agitato per sentirsi riposata, e si era alzata con il corpo ammaccato e dolente. Doveva fare dieci minuti di yoga, sciogliere la sua spina dorsale, altrimenti si sarebbe ritrovata presto con un mal di testa da guinness dei primati. Scese le scale e inserì nello stereo un cd di Gloria Estefan. Gloria cantava di speranze e sogni, di giorni migliori e notti piene d'amore. Sarah alzò il volume e cantò con lei, mentre iniziava il rito dei movimenti che aveva eseguito religiosamente ogni giorno fino a quando aveva partorito, e da allora sì e no cinque volte. Il suo corpo la stava punendo per la sua trascuratezza. Le fece anche perfidamente sapere che, all'inizio dei trent'anni, non poteva più ignorarlo o abusarne beatamente, cosa che aveva sempre dato per scontata. Appena finì, suonò il citofono, un breve ronzio, per fortuna. Chiunque svegliasse Georgie non se ne sarebbe più dimenticato. Dick Breden la aspettava sulle scale. Fine dell'evasione. "Qualunque cosa sia, deve aspettare che io abbia mangiato. Sono in crisi ipoglicemica, e se non mangio sono rovinata" disse Sarah. "Va bene. Non voglio rovinarti". "Non ho detto questo. Anche se immagino che per un bel po' di gente tu sia una rovina". Sarah guardò in dispensa. Decise di mangiare delle frittelle dolci. "Hai fame?" "Dipende. Cosa mi offri?" "Frittelle dolci". "Allora sì".
Sarah preparò otto frittelle e ne mangiò quattro, seppellite da zucchero di canna liquido e limone. A quel punto, decise che poteva degnarsi di ascoltare Breden. Bevve un lungo sorso di caffè nero. "Adesso va bene. Dimmi". Breden prese dalla tasca un bigliettino piegato. "C'è una lista dei luoghi degli stupri, e gli orari approssimativi. Alcune vittime erano così traumatizzate da non ricordare quando era successo". Mise il foglietto sul tavolo. Sarah lo guardò, poi andò in studio a prendere l'itinerario del tour. La conclusione le balzò agli occhi. Tutte le violenze erano avvenute nelle città in cui era stato Redford, e durante il suo soggiorno. "C'è una descrizione?" "Sì. Fra i trenta e i quaranta. Magro, corpo muscoloso, alto un metro e ottanta circa". "E il viso?" chiese Sarah. "Indossava un cappuccio. Beccati questa: un cappuccio talmente stretto che non poteva essere strappato via. Molte vittime ci hanno provato e l'unico risultato che hanno ottenuto è stato prendere più pugni". "Gesù" Sarah allontanò i capelli dal viso. "Redford corrisponde alla descrizione. Deve indossare una maschera, perché il suo viso è conosciuto nel mondo intero. Lo ammazzerei". "Calmati, Sarah. Non è detto che sia lui. Quanta gente c'è, in tour con lui?" "Non lo so, forse cento persone. Di cui ottanta uomini". "Potrebbe essere uno di loro". "Può anche essere Redford. Qui dice che le violenze sono state commesse dopo la mezzanotte e prima delle nove di mattina. Lui per quell'ora ha già finito coi concerti". Si fermò perché le era venuta un'idea. "Dopo un concerto è emozionalmente sconvolto, per ore. Gli saltano fuori un sacco di problemi. Strone definisce il concerto un ciclone per la mente, come fosse qualcosa di pericoloso. Conosco le paure di Redford, lui me ne ha parlato. Dopo il concerto di New York, è arrivato con una mano bendata e mi ha detto di aver dato un pugno contro il muro. Forse, lo stupro è il modo di bruciare l'adrenalina dopo il concerto, e forse si era ferito violentando una donna". Breden consultò i suoi appunti. "Quando è stato l'ultimo concerto a New York?" Sarah glielo disse.
Breden fece una smorfia. "C'è stato uno stupro nelle prime ore del mattino successivo". Sarah si nascose il viso tra le mani, cercando di non sentire. "E a Parigi e a Venezia? Eri con lui?" chiese Breden. "Sì" disse Sarah gravemente. "Ma non le notti degli stupri. C'è altro?" "C'è uno schema comune. Sono stati tutti commessi nelle zone più povere e malfamate delle città, e tutte le ragazze erano cameriere o cuoche di bar aperti tutta la notte. Le adocchiava alla fine del turno, tutte dopo mezzanotte, alcune molto più tardi, anche alle quattro della mattina, le seguiva e poi le assaliva". Sarah sentì l'urto del vomito. Emise un gemito. Breden le prese la mano, allarmato. "Cosa c'è?" "Non te l'ho detto. Mi sembrava un dettaglio insignificante. Carla Parton faceva la cameriera. Andò al concerto di Redford alla fine del turno, ancora in uniforme. Deve aver innescato una sorta di feticcio". Breden fece un lungo sospiro. "Non si mette bene, per lui". "Tutto conduce a lui" disse Sarah. "Lui, più di tutti gli altri, ha bisogno di una maschera. Tutti lo conoscono. Lo stupratore ha mai parlato?" "Mai, a quanto pare. La polizia non ha voce, né accenti, su cui lavorare". Per un po' rimasero entrambi in silenzio. "E adesso?" chiese alla fine Breden. Nella mente di Sarah iniziò a formarsi un piano. "Ho un'idea. Chiamala pure ultima spiaggia". Capitolo 58 Breden sembrava aver intuito qualcosa del piano di Sarah e si irrigidì immediatamente. "Io potrei fare la cameriera. Potrei fare da esca. Tu mi puoi organizzare una protezione alle spalle. Lo stupratore abbocca, mi salta addosso, tu salti addosso a lui. Bingo!" La risposta di Breden fu diplomaticamente tranquilla. "Non è così semplice, Sarah. Come proponi di intrappolarlo? Potrebbe cercare di violentare una qualsiasi cameriera di fast food o di bar aperti fino a tardi ovunque, a Londra o fuori Londra". Sarah sorrise furbescamente. "Ma noi lo seguiremo". "Suppongo che ti dovrai anche travestire. Non penso che violenterebbe una persona da lui conosciuta, specialmente te, no? Tu sei il suo passapor-
to per cento milioni di dollari..." "Mi metterò una parrucca. So truccarmi in modo da sembrare diversa. Metterò una gonna corta, tacchi altissimi..." "E lui sarà incapace di resisterti" completò Breden. "Questo è il piano" disse Sarah con un sorriso incerto. "Ne hai uno migliore?" "No, ma questo non mi piace. Potrebbe andare tutto storto". "Cioè?" "Ti salta addosso e ti dà un sacco di botte prima che arrivi io. Perché la trappola scatti, dovrei starmene lontano. Mi ci vorrebbe almeno un minuto per arrivare. Per lui è più che sufficiente per farti davvero del male, fisicamente e psicologicamente". "Sono rimaste ferite, le vittime degli stupri?" "Se resistevano, sì". "Quanto?" "Dipende. Da un occhio nero a costole incrinate, polmoni perforati, mascelle rotte, polsi spezzati. Sembra che il ragazzo adori la violenza". Sarah deglutì. "Era armato?" "Fino ad ora no. Le uniche armi che ha usato sono state il pene e i pugni, ma può avere cambiato tattica. Se andiamo in questa direzione, dovrò fare un sacco di controlli. Lo stupro può diventare omicidio, Sarah. Una cosa che non ti ho ancora detto è che la polizia crede che stia cominciando a perdere la testa. Gli stupri stanno aumentando in frequenza. Ha bisogno di farli più spesso, per provare le stesse sensazioni di prima. Presto lo stupro non gli sarà più sufficiente". "È un'idea confortante". "Devi conoscere l'arena in cui ti vuoi buttare a combattere. Hai mai subito delle violenze?" Sarah guardò lontano. Non rispose. Quando si girò aveva le lacrime agli occhi. "Va bene. Chiuso. Fermiamo tutto subito". "Andiamo avanti" disse Sarah, a labbra strette, determinata. "Posso gestire il futuro. È il passato che talvolta mi crea dei problemi". "Non puoi gestire il passato e non puoi gestire il futuro. Questa è la mia esperienza personale" osservò Breden, tornando laconico. La sua tendenza a drammatizzare la situazione la rassicurava e la faceva infuriare allo stesso tempo. "Posso gestire la violenza su di me senza problemi. Fare da esca per uno
stupratore non mi spaventa affatto" insisté. "Non ora, forse. Seduta qui, in questa splendida casa, con la porta chiusa. Prova alle quattro del mattino, fuori in strada, sculettando sui tuoi bei tacchi alti, a sentire dei passi che accelerano dietro di te; forse puoi provare a correre più in fretta, ma lui è più veloce di te. Ti afferra, ti sbatte per terra. Ti tira su la gonna, ti obbliga ad aprire le gambe". "Taci! Non credi che ogni donna abbia immaginato cosa si possa provare a essere violentata? È una paura con cui ci dobbiamo confrontare. Tutte siamo tornate a casa tardi di notte, o comunque al buio, e abbiamo sentito dei passi. A volte sono innocenti, ma per le più sfortunate non lo sono stati o non lo saranno. Non pensare di dovermelo spiegare, so già come può essere". "Sono sicuro che è vero, ma mi stai proponendo di buttartici in mezzo". "Mostrami un altro modo e lo seguirò". "Ci deve essere una soluzione migliore, Sarah. Mi sembri troppo pronta a buttarti in mezzo alla linea di fuoco. Non capisco perché. Mi sembri coinvolta di persona". "È così" disse Sarah, mescolando verità e bugie. "Ho deciso di fare finta di essere dio. Mi sono sbagliata. Adesso voglio correggere il tiro". "Ma non pensi a tuo figlio? Se qualcosa va storto, non sarai l'unica a esserne coinvolta". "Lui è proprio la ragione principale per cui mi ci trovo in mezzo. L'ultima minaccia che ho ricevuto riguardava mio zio Jacob e Georgie. Ecco perché sono partita per Venezia e sono corsa praticamente dietro all'autrice dei biglietti. Non potevo lasciare che la mia famiglia fosse esposta a un pericolo". Breden sollevò un sopracciglio. "Questo spiega il tuo comportamento. Un minuto arrivi e dici che molli tutto, il successivo insisti nel volere partire..." Breden si strofinò gli occhi. "Così pensi di avere salvato tuo figlio, catturandola?" "Sì. Non penso che disturberà più né me, né Redford". Fece una pausa. "Posso sbagliarmi, ma non stavolta". "Tutti la pensano così, fino a quando l'evidenza non li colpisce". "Piantala. Non cercare di spaventarmi". "Sto presentandoti i fatti come li vedo io. Non mi hai ancora spiegato perché vuoi fare da esca, nonostante le ripercussioni che può subire tuo figlio se ti succede qualcosa". "Non succederà nulla" ripeté Sarah a denti stretti. "Ascolta, ho il miglior
meccanismo di autodifesa e di sopravvivenza che esista al mondo. Amore materno, si chiama. Amo quel bimbo più del mondo intero, più della mia vita, ma sono anche egoista. Voglio rimanere viva per potere continuare ad amarlo, per essere amata da lui. Tutte quelle storie di madri che sollevano i camion per salvare i loro piccini, quello è il potere dell'amore materno. Non c'è niente di altrettanto potente, sulla terra. Certo non la follia di uno stupratore. Nulla". Breden distolse lo sguardo, nascondendo la preoccupazione che aveva negli occhi. "Allora, aiutami" lo implorò Sarah, che sentiva la sua paura. "Come?" "Insegnami qualche trucchetto per combattere contro di lui". "Le donne che lottano contro di lui vengono quasi massacrate, Sarah. Non dimenticartelo. A meno che tu non sia cintura nera, combattere servirebbe solo a peggiorare la situazione". "Allora, cosa mi consigli?" "Di non farlo. Ma se proprio devi, pianificheremo tutto come si trattasse di una campagna militare. Va bene. Ti insegnerò un paio di trucchetti sporchi, cose che puoi imparare in un paio di giorni. Potresti forse immobilizzarlo fino a quando arrivo io". "Come la cavalleria nei film". "Non ne hai bisogno?" "Tutti hanno bisogno di aiuto". "Dove vai per il weekend? Posso chiamarti a casa?" "Ci sarò, sarò qui con Georgie. E suppongo dovrò andare a trovare Redford. Vedere se scopro qualcosa, un diario personale, per esempio". "Sembra che la prospettiva non ti entusiasmi". "Andare a rubacchiare nell'anima delle persone? No, guarda, sono proprio negata". Capitolo 59 Domenica mattina, Sarah stava giocando in cucina con Georgie quando suonò il citofono. Era ancora in camicia da notte, la sua preferita, vecchia, color miele, ormai Usa a forza di lavarla. I suoi capelli erano arruffati e non si era nemmeno sciacquata il viso. Georgie era sorridente e tranquillo e, dato che non aveva ancora imparato a muoversi da solo, lo lasciò sul pavimento della cucina. Borbottando cupamente, si diresse verso la porta
principale. La aprì e si trovò di fronte Redford. Stava lì, in piedi, illuminato dal sole, con jeans e giaccone di pelle e, nonostante tutto, le tolse il fiato. Guardandolo, si sentì come si stesse svegliando da un sogno, leggera e serena, fino a quando, come una mazzata, si ricordò che il sogno si era trasformato in un incubo. "J... John". Pronunciò il nome di lui come un lamento. Lui la guardava in silenzio, negli occhi una triste e nuda consapevolezza. Dopo pochi istanti, si girò e prese una pianta di gardenie, lucida e ricca di fiori bianchi. La tenne in braccio, come se pensasse di portarla in casa lui stesso. Lei si allungò, la prese e si guardò involontariamente alle spalle, come se Georgie avesse imparato l'arte di camminare in quel momento, e stesse cercando di raggiungere suo padre. Redford seguì il suo sguardo. Sarah si accorse che lui stava prendendo nota dei suoi capelli arruffati, degli occhi cerchiati da profonde occhiaie nere, traendone l'inevitabile e tragicamente sbagliata conclusione. Le fece un sorriso disperato. "Me ne vado, allora". "Ascoltami, dentro c'è un casino pazzesco..." disse Sarah in fretta. "Ti inviterei volentieri, solo che..." "Non mi devi nessuna spiegazione" le disse lui. "Mi hai detto una volta che tutti abbiamo diritto ad avere i nostri segreti. Non mi intrometterò nei tuoi". Si girò per andarsene. "John, aspetta. Vediamoci più tardi, facciamo qualcosa di semplice, giusto una passeggiata e due chiacchiere". Guardandolo in quel momento, nonostante tutti i suoi sospetti, non riusciva a credere che fosse uno stupratore. Redford si arrestò. Nel suo sguardo, normalmente risoluto, tremolava l'indecisione. "Si dà il caso che avessi pensato esattamente a quello. Un serata insieme, due passi, forse fermarci in un bar e ascoltare un po' di musica". Sarah attese. "Possiamo fare due passi insieme" disse Redford. "A che ora?" "Dieci?" Sarah deglutì. Ben oltre l'ora in cui andava normalmente a letto. "Verrò io al Portobello".
Telefonò a Jacob sul cellulare che aveva acquistato quando era nato Georgie. "Ciao, tesoro. Tutto a posto?" "Tutto bene" si fermò. "Mi stavo solo chiedendo..." "A che ora devo venire?" chiese lui ridacchiando. Cercò per tutto il giorno di entrare in contatto con Breden. Aveva detto che sarebbe stato rintracciabile e che forse l'avrebbe chiamata per iniziare il corso veloce di autodifesa personale. Dove diavolo era quando aveva bisogno di lui? Alle nove rinunciò, lasciandogli un lungo messaggio in cui gli spiegava il programma per la serata, in modo che qualcuno sapesse che era uscita con Redford. Doveva uscire con lui. Se era lui lo stupratore, come persona da lui conosciuta Sarah non era certo la vittima ideale, secondo lo schema o almeno secondo lo schema nelle mani della polizia. Pensò a Carla, una vittima da lui conosciuta, anche se forse aveva dimenticato il collegamento, o era troppo fuori di testa per ricordarselo. Cos'altro aveva detto Breden? Qualcosa a proposito della decompensazione dello stupratore. Lei sapeva che voleva dire che iniziava a perdere la testa, il controllo, che stava rompendo con i vecchi schemi, commettendo crimini a distanza più ravvicinata e in maniera forsennata, come se sperasse di essere arrestato prima di perdere la salute mentale. Allora, perché si stava mettendo in un simile casino? Per trarre in salvo qualcosa dal naufragio della sua relazione con Redford o per affrettarne la fine? Al momento di uscire, non ne sapeva molto di più. I suoi pensieri erano ottenebrati, lo sapeva, dalla speranza opprimente che il padre di suo figlio fosse innocente. Sembrava impossibile, quando pensava a lui come al padre di suo figlio, e non alla rockstar, che lui potesse essere colpevole. Ma sapeva anche che la speranza, da sola, non sarebbe bastata a scagionarlo. Si vestì comoda e con le scarpe da tennis, per poter correre forte. Indossò i pantaloni militari neri, con una maglietta bianca e una giacca di pelle nera in cui mise i soldi, il cellulare e una bomboletta di Mace. Andò a dare un'occhiata a Georgie e baciò Jacob. "Fai la brava, ragazza, qualunque cosa tu stia per combinare". "Devo curiosare ancora un po'" disse lei con una smorfia triste. "Quando finirà?" chiese Jacob. "Appena mi pagano" replicò lei speranzosa. Uscì, andò in King's Road e prese un taxi. Accasciata sul sedile, si chiese come aveva fatto Redford a ottenere il suo indirizzo. Lei non glielo ave-
va mai dato, pensò con una fitta di sospetto. La lista dell'accordo, capì. Su ogni accordo, i principali interessati ricevevano l'elenco dei numeri telefonici e degli indirizzi di tutti gli altri. Cristo, ci era arrivato vicino, quella mattina. Avrebbe potuto facilmente andare ad aprire la porta con Georgie in braccio. Non voleva che si avvicinasse al bimbo. Lo voleva a una distanza minima di cento chilometri. Non era proprio così, e lo sapeva. In tutti i suoi sogni, lei presentava il bimbo al suo papà, gonfia di orgoglio per il miracolo che era cresciuto dentro di lei. Il John Redford che aveva fatto l'amore con lei con una passione e una tenerezza da capogiro poteva accarezzare il viso di un bimbo con la stessa intensità. Redford era in grado di amare con tutto se stesso. Se odiava con la stessa intensità... Sarah non riuscì a finire il pensiero. Rabbrividì, si strofinò le braccia, cercando di aggrapparsi alla realtà. La violenza delle sue emozioni la faceva stare male. Responsabile o meno degli stupri seriali, Redford era comunque colpevole dell'aggressione a Carla, e Sarah non sarebbe mai riuscita a perdonarglielo. Pensò a sua madre morta, a lui che entrava in casa e trovava il padre col viso spappolato, e fu sommersa dalla compassione. Arrivò al Portobello alle dieci, andò nella stanza di Redford e bussò. La porta fu spalancata. Lui era scalzo, con un mezzo sorriso dipinto sul viso. "Ciao. Entra". Lei si ficcò le mani in tasca, e lo seguì con cautela, evitando di dargli troppa confidenza. "Grazie per la gardenia" gli disse. "L'ho messa in studio, vicina alla finestra, in piena luce. Ha già riempito la stanza del suo profumo delizioso". "Bene. Stavo passeggiando in King's Road, sono entrato al Chelsea Gardener, o quello che è, l'ho vista e ho pensato a te". Sarah sorrise. "Meno male che non mi hai portato un cactus!" "Non ho scelto subito la gardenia: solo che le alternative erano piante carnivore". Ogni parola che pronunciavano abbreviava la distanza tra di loro e aumentava la bassezza del tradimento di Sarah. "Allora, sei pronta per uscire?" chiese Redford, ancora sorridente. "Uscire?" disse Sarah con un soprassalto, come se lui la stesse invitando a buttarsi giù da un aereo senza paracadute. "Sì, a fare due passi. Come da programma". "Sembra essere il filo conduttore della tua esistenza, camminare". "Lo è. In ogni città mi cerco un posto che mi attira e cammino".
"Ad esempio?" "A Parigi adoro St Germain, anche se questa volta non ci sono andato. Faccio due passi, mi fermo in un bar o in un club a bere qualcosa e ad assaporare l'atmosfera. Camminando e guardandosi intorno ci si appropria di un posto. L'ho sempre fatto: esco da solo, che sia notte o giorno, e cerco di vedere la città con gli occhi dei suoi abitanti". "Perché non l'hai fatto a Parigi, stavolta?" "Per le minacce. Non me la sono sentita". "Ah. Adesso che ci penso, è tornato il capo della sicurezza? Come si chiamava?" domandò Sarah, facendo finta di niente. "Jim O'Cleary" rispose Redford. "È ricomparso dal nulla il giorno dopo, quel bastardo, dicendo che aveva avuto un problema grave da risolvere". Sarah si strinse nelle spalle. "Capita a tutti". "A lui capita troppo spesso. L'avrei già silurato da un pezzo, se Strone non insistesse per tenerlo" meditò per un attimo. "Penso che lo farò, comunque". "Non è male, farsi proteggere da una persona di cui non ti fidi..." osservò Sarah. "Be', sì, devo praticamente proteggermi da solo". Sarah ci pensò un po' su. "Tutto quel camminare nelle città... non ti sentiresti sotto tiro, senza Jim O'Cleary che ti protegge?" "No. In genere mi metto una parrucca, a volte mi trucco. Non mi riconoscono mai". Sarah tacque, raggelata. Si chinò, facendo finta di allacciarsi una scarpa e attese che lo shock svanisse prima di rialzarsi. "Allora, dove andiamo?" "Da qualche parte nell'East End. Adoro le stradine intorno allo Smithfield Market, i bar aperti tutta la notte. Ci dovrebbero essere un paio di club, là intorno. Andiamo a bere qualcosa e ad ascoltare un po' di musica. Cerchiamo di non pensare a niente per un po'". "Mi sembra un po' banale, no?" chiese Sarah, sbalordita dalle sue stesse parole. Redford sorrise. "Cosa c'è di male nelle cose semplici? Pensavo ti piacesse questo genere". "La semplicità può andare bene, non è questo il problema. Può essere invece pericoloso girovagare per quella zona di notte da soli". "Pericoloso? Certo non quando stai con me". Sarah distolse lo sguardo, cercando rifugio in un assortimento di guide e
un mastodontico volume su Londra dalla A alla Z ammucchiati sul divano. "Conosci la zona degli Spitalfields?" chiese Redford, mentre Sarah raccoglieva una guida. "Non proprio". "Allora concedimi di farti da cicerone". Si accovacciò vicino ai libri, indicandole il tragitto. "Se ne abbiamo la forza, possiamo addirittura arrivare fino alla Torre di Londra. Ti suona bene?" "Mi suona bene, ma da cosa ti travestirai?" "Aspettami qui". Redford sparì in bagno, dando a Sarah il tempo di studiarsi le piantine e il tragitto, controllando le strade chiuse, cercando le più vicine stazioni di polizia. Un rumore la distrasse. Alzò lo sguardo. Redford si era avvicinato in perfetto silenzio e stava in piedi di fronte a lei. Almeno, lei supponeva che quell'uomo fosse Redford. Quell'estraneo aveva una zazzera color topo, mentre i capelli di Redford erano lucenti e scuri. Quell'uomo aveva rughe profonde ai lati della bocca, mentre la pelle di Redford era liscia. Aveva gli occhi marroni, mentre gli occhi di Redford erano chiari. "Sono io" disse la voce familiare e ben modulata. "Pazzesco. Come cavolo hai fatto?" "La parrucca è banale, e anche le lenti a contatto, i batuffoli dentali no. Ho due serie di cuscinetti appiccicati alle gengive che mi danno una bell'aria da mascellone, proprio da gentleman inglese". Sarah rise, suo malgrado. "Sicuramente non come i gentlemen inglesi che ho avuto modo di frequentare io!" "Puoi sopportare una notte di certezze infrante?" "Dovrò farlo, cosa dici?" Presero un taxi per la City. "Mi piace iniziare dal cuore della ricchezza, per poi scivolare nei posti da duri". "Come un giro alla rovescia della tua vita". "Già, più o meno". È come camminare attraverso una delle sue canzoni, pensò Sarah, richiamando alla memoria Heart of Riches, la canzone che parlava di un viaggio di un ragazzo solo attraverso la vita, il viaggio di un orfano. Voglio tornare indietro a prima dell'inizio del gioco, Tornare alle mie vecchie cose. Ho cercato il successo, ho voluto la fama, Ma il cuore dei ricchi è gelido.
Riattraverso i miei vecchi sentieri, Canto le mie vecchie canzoni Sono andato in giro per tutto il mondo Cercando quello che avevo prima. Il cuore di Sarah volò verso Redford. Conosceva troppo bene, lei, quella ricerca interminabile. Non c'era la catarsi, alla fine. L'unico modo per rimanere sani di mente era cercare altre strade. Lei la possibilità l'aveva avuta: la sua strada era Georgie. La sua mente indugiò su suo figlio, e l'ondata di profonda compassione per Redford si infranse. Ora non si sentiva più un'orfana, ma la madre di un bimbo piccolo. Nella giacca di pelle, la sua mano cercò la bomboletta di Mace. Il taxi li scaricò nel cuore della City. Camminarono accanto ai templi di Mammona, ora vuoti del loro traffico umano. Si guardò intorno. Chi avrebbe mai potuto sentire le sue urla, in quelle strade abbandonate? Dopo le dieci di sera la City era una città fantasma, per non parlare del fine settimana. Cosa aveva in mente Redford? Lo osservò attentamente. Lui ricambiò lo sguardo, con domande inespresse negli occhi. Percorsero Bishopsgate, in direzione di Spitalfields. L'East End prese vita quando girarono per Brick Lane, e Sarah iniziò a rilassarsi. L'aria era ricca del dolce e acre aroma del curry, i lampioni erano in sovrabbondante rococò pakistano. Girarono verso Hambury Street, barcollando nell'improvviso ruggito del traffico di Commercial Street, riguadagnarono la pace in Lamb Street. Sarah lesse il nome della strada e rabbrividì, quando un collegamento le arrivò al cervello, improvviso e non richiesto: come un agnello al mattatoio. Fu felice quando vide i portali del vecchio Spitalfields Market erigersi di fronte a loro, perché fra le antiche arcate risuonavano voci umane. Dentro, sui campi di Astroturf, si svolgeva un torneo di calcetto. Redford guardava i giocatori con interesse, un leggero sorriso sul viso. Lui adorava questo rientrare nel suo vecchio mondo, pensò Sarah. Passarono di fianco a tende a strisce blu e bianche montate su file di banchi di legno, che ore prima avevano sostenuto i profumi e i colori della frutta fresca. Si fermarono di fronte a una serie di negozietti, con gli occhi fissi sulle insegne. "Teppisti e Thug" lesse Redford con una risatina. "Ma che diavolo vendono, questi? Dai, vieni a vedere". Insieme, spiarono dalla vetrina che era ricoperta di poster e cartoline che
nascondevano tutto quello che stava sotto. "Chi sono?" chiese Redford, studiando le figure elaborate che sgambettavano sui poster. "Si direbbe il pantheon di tutti gli dei indù" disse Sarah. "Sono impressionato" disse Redford, raddrizzandosi. "Si be', non chiedermi altro, perché tutta la mia conoscenza si esaurisce qui". Ristoranti illuminati da lampade a olio arancioni ospitavano avventori sazi di buon cibo, vino e ricche conversazioni. Sarah era ancora più cosciente del solito dell'abisso che si era creato tra lei e Redford. C'erano troppe cose di cui lei non gli poteva parlare e, senza dubbio anche lui aveva i suoi segreti. Quali fossero, lei non voleva chiederselo. Così si incamminarono, soli nel loro silenzio, fuori da Spitalfields, nella notte. Sarah controllò i nomi delle strade, cercando di richiamare alla mente la mappa, ma senza riuscirvi. Sorpassarono un parcheggio sotterraneo, la cui entrata era protetta da un enorme cancello di ferro che si spalancò appena loro si avvicinarono, lasciando uscire un'enorme Mercedes color argento tutta tirata a lucido, che se ne andò ronzando sommessamente, lasciandoli soli e ancora una volta in silenzio, mentre si inoltravano in Lamb Street. Passarono la Cripta di Spitalfields, da cui splendeva una luce intensa, che illuminava una processione sfilacciata di persone esitanti, con le mani avvolte strettamente intorno a recipienti di cibo fumante, i visi sorridenti. I senzatetto alla Mensa del Povero. Uscirono in Fournier Street. Sarah guardò le facciate eleganti di una fila di case in stile georgiano. "Qui vennero gli Ugonotti quando fuggirono dalla Francia" disse Redford all'improvviso. "Erano tessitori e tintori formidabili, tessevano damaschi, broccati e sete, e investirono le loro nuove ricchezze per costruire queste case". "Adesso sono io a essere impressionata" disse Sarah. "Le guide sono molto utili" sogghignò lui. Quando raggiunsero Brick Lane, un grido basso e lamentoso si alzò dalla moschea all'angolo con Fournier Street. Era il muezzin che chiamava a raccolta i fedeli per la preghiera notturna. Il suono li seguì come uno spettro. Sarah si fermò di colpo di fronte alla finestra della stazione di polizia metropolitana. Il vetro era coperto da manifesti, che rivelavano la triste connessione del quartiere con la microcriminalità. C'erano almeno cinque manifesti che dicevano: OMICIDIO. Ci puoi aiutare? Oppure: VIOLENZA SESSUALE. Hai visto qualcosa?
TERRORISMO. BOMBE POSTALI. IN GUARDIA. Avete informazioni? Chiamate il quartier generale. Era un memorandum tristissimo della natura dell'area in cui stavano camminando. Erano molto lontani da Carlyle Square. Redford si allontanò da Brick Lane, entrando in una strada molto stretta. "Eccolo, è qui" disse dolcemente, parlando tra sé e sé. Sarah gli stava per chiedere cosa volesse dire quando vide una Landcruiser nera che si avvicinava a folle velocità. "Gesù Cristo". Sarah si appiattì contro il muro. Non c'era marciapiede, e la strada era talmente stretta che c'era a malapena spazio per l'automobile. Con uno stridore di gomme sull'asfalto, l'auto riuscì a rallentare, e li superò procedendo lentamente. I finestrini erano oscurati, e intensificavano la sensazione di Sarah di essere osservata da forze ostili. Con un suono martellante di bassi, che stava sicuramente facendo saltare gli altoparlanti, e il ruggito improvviso dell'accelerazione, l'auto se andò, e ancora una volta furono avvolti dal silenzio. Sarah si guardò intorno a disagio. L'unico rumore era l'eco dei loro passi. "Lo sai che Jack lo Squartatore era il re di queste strade?" chiese Redford girandosi verso di lei. "La sua prima vittima fu trovata qui, in Gunthorpe Street". "Oddio. Andiamocene immediatamente di qui". Sarah sperò che la sua voce risuonasse normale. Non voleva farsi vedere terrorizzata. Le sue dita si strinsero intorno alla bomboletta di Mace. Redford si fermò. Sarah cercò di farsi forza. "Ehi, stai bene?" le chiese Redford, cercando di toccarle un braccio. "Hai sentito anche tu?" chiese lei, facendo un passo indietro e guardandosi intorno. "Cosa?" "Passi" rispose Sarah, cercando un diversivo. "Hai paura?" chiese Redford. "Certo che ho paura. Mi porti qui, e cominci a parlare di Jack lo Squartatore!" Redford la guardò a lungo negli occhi, come per cercare la verità. In quegli istanti, nessuno dei due si mosse e Sarah iniziò a pensare che sarebbe potuto succedere di tutto, tanto il suo sguardo era intenso. Lo scrutinio finì. Gli occhi di Redford la lasciarono. Lui si girò. "Andiamo. Ti accompagno dove potrai trovare un taxi". "Cosa c'è che non va?"
Si girò verso di lei. "Cosa c'è che non va?" esplose. "Non mi prendere per il culo, Sarah. Tu non ti fidi di me, vero? Cosa pensi che stia per farti? Stuprarti qui? Lo vedo nei tuoi occhi. Le strade solitarie, poco illuminate, quello che io vedevo molto romantico, tu lo trovi sinistro. Il problema è un altro: tutto quello che faccio io, tu lo troverai sinistro! Mi hai già giudicato e marchiato. Con me, vedi tutto in modo negativo". Sarah non rispose, non riuscì a rispondere. Redford aveva semplicemente detto la verità. In quel momento, lei non provava più paura, ma solo una profonda tristezza. Redford iniziò a camminare lentamente. "Andiamo a cercare un taxi". "Vai tu" replicò Sarah. "Me lo cerco da sola. Mi dispiace che sia finita così, John". "Mai quanto a me". Capitolo 60 Il taxi arrivò finalmente in Carlyle Square. Felice di ritrovarsi ancora una volta nel suo mondo familiare, pagò il tassista e si incamminò verso la porta di casa, quando una portiera che sbatteva la fece fermare. Si guardò intorno. Dick Breden attraversò la strada e le si avvicinò. "Che diavolo combini?" "Ho cercato di chiamarti. Non rispondevi..." "E tu hai deciso che lasciarmi un messaggio assolutamente idiota in segreteria ti avrebbe protetto". "Sshh" disse Sarah. "Non urlare". "Ah, ma guarda, ti preoccupi per il tuo bambino? Il tuo piccolino è davvero molto fortunato ad avere ancora la mamma, anche se è una mamma sconsiderata e irresponsabile come te!" La mano di Sarah si mosse di colpo come la lama di un coltello a serramanico. L'aria crepitò quando schiaffeggiò la guancia di Breden. Le lacrime le solcavano il viso. "Taci, tu! È già abbastanza difficile anche senza avere intorno qualcuno che non ha la più pallida idea di quello che sta succedendo, ma ci vuole mettere il becco lo stesso. Hai ragione: sono stata veramente un'idiota. Non avrei dovuto farlo, credi che non lo sappia? Ma sono qui, per fortuna, e l'unica cosa che voglio fare, adesso, è correre in casa, salire le scale, accucciarmi di fianco al lettino di mio figlio e ascoltare il suo respiro". Armeggiò con le chiavi e scappò singhiozzando dentro casa. Si appog-
giò al muro per un attimo, premendosi la mano sulla bocca per frenare i singhiozzi, finché, lentamente, riprese il controllo di sé. Breden l'aveva seguita. Stava in piedi di fianco a lei nell'entrata, la rabbia che si affievoliva di fronte alla sua profonda disperazione. Rimase lì, in piedi, ad aspettare Sarah che era salita da Georgie. Il bimbo stava dormendo profondamente, le braccia spalancate in fiducioso abbandono. Una luce brillava nell'atrio. Sarah guardò attraverso la porta aperta dell'altra camera da letto e vide Jacob rannicchiato su un fianco, che respirava con la cadenza lenta e regolare del sonno profondo. Lentamente, e in silenzio, scollegò il baby phone dalla spina e se lo portò al piano di sotto. "Chi segue il tuo bambino quando non ci sei?" chiese Breden. "Pensi che lo lasci solo?" "Ma no, ovviamente no". Sarah fece strada verso la cucina. Breden la seguì. Lei attaccò il baby phone, prese da uno stipo una bottiglia di whisky, la aprì e versò due dosi quadruple. "Mio zio Jacob sta con Georgie. Mi fido ciecamente di lui. Gli affiderei la mia vita. Gli ho affidato la mia vita". "Sarah, stai tranquilla. Non devi spiegarmi niente". Lei fece un sorriso malinconico. "È esattamente quello che volevi. Bene, adesso la spiegazione ce l'hai, per cui piantala di giudicarmi. Sono una brava madre. Faccio del mio meglio. Non è facile. Sono piena di conflitti. Fai qualcosa, e vieni risucchiato dalle conseguenze. Sono contraria a molte cose, ma ho le mie ragioni. Le mie ragioni, è chiaro?" "Va bene, mi dispiace, ma ero terrorizzato per te. Era la paura che parlava, non certo lo spirito critico. Ho visto il modo in cui guardi il tuo bimbo. Ho visto il modo in cui lui ti guarda. È come un campo di forza. Mi ha scioccato. Non ho mai visto niente del genere". Sarah rise. "Si vede che conosci poche mamme". "Nessuna". "Eri lì da molto?" chiese lei in tono gentile. "Un po'". "Quanto eri disposto ad aspettare?" "Tutto il tempo necessario". Sarah fece un sorriso triste. Non era sicura di cosa stesse parlando Breden. In un altro momento e in un altro posto, avrebbe indagato più a fondo per vedere cosa succedeva, ma ora nel suo cuore non c'era più spazio.
"Cos'è successo stanotte?" chiese Breden, con un repentino cambiamento di tono, come se avesse letto nella mente di Sarah. Sarah raccontò gli eventi della serata e lui rimase in un silenzio teso. "Pensavo che sapessi fare di meglio. Coprirti le spalle, almeno" "E quello che ho fatto" replicò Sarah stizzita. "Non ti saresti dovuta mettere in una condizione che non eri in grado di gestire da sola". "Pensavo di riuscirci". "No. Hai rischiato troppo". "Forse, ma normalmente ci sarei riuscita". "Non con Redford. Lui è parte di te. Non so perché, ma sembra che tra voi ci sia un legame molto stretto". "Mi identifico con la sua storia, mi immedesimo in lui" disse Sarah in fretta, come se potesse coprire la verità con la velocità. "Siamo entrambi orfani. Non c'è altro. Qualunque cosa abbia o non abbia fatto, io continuo a vedere in lui il ragazzino che ha perso la mamma e ha scoperto il cadavere del padre con la testa spappolata" "L'empatia ti rende vulnerabile. Anche lui prova gli stessi sentimenti per te. Lui tiene a te. Ti vuole bene. A lui interessa profondamente quello che pensi tu. Se è innocente, tu lo stai massacrando. Se è colpevole, sei fortunata ad esserne uscita sana e salva". "Ma lui non è innocente, no?" "Uno stupro fa di lui uno stupratore?" "No?" chiese Sarah. Un omicidio, anche se commesso per autodifesa, la faceva diventare un'assassina? "Non siamo qui per discutere dì questo". "Perché dici che mi è andata bene? Dopo tutto, non è nello schema dello stupratore aggredire donne che conosce. O almeno, è quello che supponiamo". "Se è colpevole, può darsi che tu ti stia avvicinando troppo a lui. Sta per perdere completamente la faccia, con te. Se per disgrazia gli hai fatto capire che lo vedi come un mostro, cosa ha da perdere, adesso, se è davvero lo stupratore? Come ti ho detto, lui tiene molto alla tua opinione. Ora sa che tu pensi che lui sia un delinquente. Oltretutto, tu sei l'unica persona, a parte Carla, che sa dello stupro. Tu e lei siete la barriera che può dividere lui e la sua ottima reputazione da cento milioni di dollari". Sarah si chiese come avrebbe reagito Breden se avesse saputo che aveva convinto Redford a devolverne cinque in beneficenza. "Cosa vuoi dire?"
chiese. "Voglio dire che, se è colpevole, ammazzarti potrebbe sembrargli una buona idea. È motivato, e stanotte ne aveva anche la possibilità. Quello che mi spaventa maggiormente, è che era travestito. Nessun testimone, nessuno che avesse guardato fuori dalla finestra della camera da letto ci sarebbe stato d'aiuto". "Allora, perché non ci ha provato?" chiese Sarah, reprimendo un brivido. "Forse il tuo stratagemma dei passi lo ha messo in crisi". "Un trucchetto da niente". "No, se stai programmando di ammazzare qualcuno. Attenta, però, può essere innocente". "Ma tutta la passeggiata, le strade vuote, l'ora tarda, il travestimento, tutto fa pensare che sia lo stupratore". "Già" replicò Breden. "E ho ricevuto un sacco di notizie nuove, oggi, che mi spaventano profondamente. Prima di tutto, ero al Lyons stasera, al quartier generale dell'Interpol. Prima che procediamo con la trappola, voglio essere sicuro di sapere il più possibile. Ho un amico, là, ai piani alti, e l'unico modo di ottenere delle risposte da lui è affrontarlo faccia a faccia. Ecco perché non sei riuscita a trovarmi". Sarah si sentì eccitata. "Cosa hai scoperto?" "Dettagli. L'amico è destrorso. Profuma di limone, indossa guanti di gomma, usa il preservativo". "Pratica il sesso sicuro" lo interruppe Sarah con dubbia ironia. "Per impedire l'esame del DNA. La maschera gli copre anche i capelli. Si è assicurato in ogni modo che da lui alle sue vittime passi la minima quantità di tracce". "Che tracce hanno raccolto?" "Fili di tessuto, frammenti di sedile di taxi. Tutto qui". "Non parla mai?" "No, per cui non abbiamo voce, né idioma, né accento su cui lavorare". Sarah meditò un attimo. "Dovrà grugnire o sospirare, fare un suono qualunque, accidenti!" "No. È totalmente silenzioso". "Un controllo eccezionale". "Di se stesso, intendi? Sì. Anche delle sue vittime. Apparentemente, riesce ad essere totalmente e spaventosamente convincente. I suoi occhi sono spietati, duri, cattivi. Ti sto riportando la descrizione fatta dalle vittime. Questo, fino al momento in cui tutto finisce, e lui diventa triste".
"Tristezza postcoito. Il mio cuore sanguina per lui. Ma, il silenzio... anche questo lo collega a Redford. L'uomo dalla voce d'oro, conosciuta in tutto il mondo". "Credi che abbia la stessa voce quando canta e quando parla?" Sarah ci pensò un po', richiamando alla mente la notte in cui erano stati insieme all'Hotel Costes, seduti sulla terrazza sotto la luna. "Quando parla, la sua voce è ancora più bella, soprattutto quando è rilassato e sognante. Più tempo passo con lui, più sento le due voci che si sovrappongono, ma suppongo che sarebbe difficile riconoscere la sua voce, se fossi bendata". "Lo stupratore è un perfezionista, ossessionato dal non lasciare prove. Se è Redford, rimanere muto è fondamentale". "È come un giocatore di scacchi" disse Sarah, " che deve pianificare in anticipo ogni dettaglio". "O un musicista. Scrivere musica è una scienza matematica". "Oh, Cristo. Tutto punta verso di lui. Ci sono altri dati? Niente che ci chiarisca le idee?" "La resistenza gli fa perdere il controllo. Ne siamo sicuri. Il mio amico, però, pensa che la violenza non serva solo a controllare le vittime, ma sia causata dalla rabbia per il fatto che la sua operazione perfettamente orchestrata viene rovinata. Il ragazzo è perennemente sotto controllo". "Come metà dei londinesi". Breden fece un sorriso triste. "Già". "Dove nasconde i guanti e l'attrezzatura per cammuffarsi prima e dopo gli attacchi?" "Non si sa, ma normalmente indossa un giubbotto, per cui..." "Di che tipo?" "Qualcosa di pelle o di jeans". "Cos'altro indossa?" "Jeans, scarpe da tennis. La classica tenuta urbana che indossi anche tu". "Gioielli, orologio?" "Non ci sono dati". Sarah guardò nel vuoto, frustrata. "Una cosa che ha detto il mio amico rispecchia la mia idea". Sarah lo guardò, allarmata. "Il ragazzo ha commesso i suoi stupri in mezzo mondo. Estremo Oriente, Sud America, Nord America, Europa. I giornali non hanno parlato dell'Oriente e del Sud America. Ho controllato il programma del concerto, e
ho fatto una sovrapposizione. Ci siamo. Allora, circa un anno fa, gli stupri erano meno frequenti, forse uno ogni tre settimane. Ora siamo a uno a settimana. Il ragazzo sta crollando. Sta diventando più pericoloso ogni giorno che passa. Con ogni stupro, ha sempre meno da perdere. Nella sua mente il prossimo passo diventerà sempre più accessibile e fattibile". "Di che passo stai parlando?" chiese Sarah fiaccamente. "Omicidio". "Oh, splendido" si azzittì, chiedendosi se la situazione già tragica, triste e disastrosa potesse peggiorare ulteriormente. "Mi hai detto che hai saputo due cose. Dimmi anche l'altra". "Il conto corrente di Redford. Dei miei collaboratori hanno passato il conto di Redford al setaccio. Ieri è stato presentato un assegno alla sua banca, pagato alla signora Carla Parton, per un milione di dollari". "Oh, no. L'ha fatto davvero" disse Sarah, con la voce carica di dolore. "Non ci posso credere. L'ha fatto". Ma doveva crederci. Non aveva scelta. Si sentì girare la testa. La prova contro Redford ora torreggiava di fronte a lei. "Vuoi andare avanti?" chiese Breden, interrompendo i suoi pensieri. Lei lo guardò, confusa. "Non lo so. Suppongo che sia stupido da parte mia continuare a pensare che è innocente. Se sappiamo che è colpevole, potremmo anche passare tutto alla polizia". "Sarah, noi non lo sappiamo, che è colpevole. Non si mette bene, per lui, ma quello che abbiamo sono prove circostanziali. Non ci sono prove concrete". "A parte la parola di Carla". "Giusto, ma si parla di uno stupro, non di una serie". "Una serie di cameriere, dopo avere stuprato la prima, Carla. Non credo che tu possa spiegarmela come una coincidenza". "No, in effetti. Se andassimo alla polizia, dovrebbero creare un'operazione per incastrarlo, per ottenere l'evidenza che ancora manca. Quello che abbiamo noi comunque non basta, Sarah". Il viso di Sarah aveva ora un'espressione di feroce risolutezza. ''Allora andiamo avanti noi. Noi lo intrappoleremo". Breden annuì lentamente. Prima di parlare, studiò Sarah per un po', come se volesse essere certo delle intenzioni della donna. "C'è possibilità che tu ti avvicini a lui domani?" domandò. Sarah lo guardò, cercando di capire cosa volesse fare. "Poche, anzi nulle.
Non ci siamo decisamente lasciati da buoni amici e, comunque, il giorno del concerto non si fa vedere. Fa meditazione, si chiude in se stesso". "Voglio che tu gli piazzi addosso una trasmittente, Sarah, una di quelle piccole, autoadesive, che emanano impulsi. Sarà più facile seguirlo". "Anche se mi ci avvicino, dopo il concerto lui farà la doccia e si cambierà i vestiti". "Non puoi vederlo dopo il concerto?" "Penso di sì. Posso chiedere a Strone un pass per il backstage. Poi potrei farmi vedere, congratularmi con lui per il concerto, cercare di alleggerire la tensione. Lui potrà essere sovreccitato, o depresso per la fine del concerto. In entrambi in casi, sarà ipersensibile". "Bisognerà farlo, se decidiamo di continuare, Sarah. Domani non è solo il giorno del concerto. Domani notte sul tardi, o dopodomani all'alba, è il Giorno dello Stupro. Stiamo facendo il conto alla rovescia. Puoi uscirne quando vuoi, ma se vuoi farlo, dobbiamo iniziare a prepararci da ora". Sarah guardò fuori nella notte a lungo, poi si girò verso Breden. "Inizia il conto alla rovescia". Capitolo 61 "Ok. Per cominciare, dormirò qui. Starò sul divano, se non è un problema". "Perché?" "Se Redford è il nostro uomo, la tua performance di stanotte può averlo fatto infuriare. Non vorrei che decidesse di venire a farti una visita notturna". "Jacob è di sopra. Non sono sola". Breden si fermò. "Tuo zio?" "Sì". "E quanti anni ha Jacob?" Sarah sembrò addolorata. "Sui settanta". "Non per offenderti, Sarah, né per offendere Jacob, ma non vorrei correre rischi". "Va bene" rispose Sarah lentamente. "Non c'è bisogno che tu dorma sul divano. Ho una splendida stanza per gli ospiti, di sopra". La notte passò tranquillamente. Nessuno cercò di entrare. Se c'era qualcuno accucciato tra le siepi del giardino, a osservare la casa addormentata, Sarah non se ne accorse. Crollò in un sonno di piombo, in cui il suo corpo
distrutto non riuscì però a rimettersi in sesto. Si svegliò il mattino dopo sentendo gli urletti di benvenuto di Georgie al nuovo giorno e rimase sdraiata, ascoltandolo, gustandosi la gioia di vivere del bimbo, prima di avvolgersi in un salviettone e andare in silenzio da lui. Lo prese in braccio e assaporò i suoi sorrisi e gli urli esagerati di piacere, lo cambiò e scese le scale. Mentre scendeva, controllò Breden, la cui porta era accostata. L'investigatore era prono sul pavimento e stava eseguendo una serie di flessioni statiche, indossando solo un paio di boxer. Dopo un lungo momento, crollò a terra, mugolando. Si riprese in un attimo e si mise in piedi. "Mica male" osservò Sarah. "La panca" spiegò. "Una forma di tortura". Andò verso di loro. "Buongiorno, Georgie. Come stai, piccino? Dormito bene?" "Sì, grazie" disse Sarah. "E, grazie a lui, anche la mamma si è un po' riposata". "Ne sono felice". "Tu non hai dormito?" "No, troppe cose a cui pensare". "Bene, io adesso voglio pensare ad altro. Perlomeno, non ne voglio parlare con Georgie in braccio" disse Sarah. "Lui capisce e sente tutto. È come una spugna. Non voglio che senta la paura della sua mamma". "Bene" disse Breden, alzando una mano in segno di resa. Abbassò la mano e accarezzò i piedini nudi di Georgie. Sarah lo guardò accarezzare le dita perfette, vide il timore reverenziale e la totale mancanza di confidenza coi bambini e le vennero le lacrime agli occhi. "E questo chi è?" Si voltarono insieme verso la voce poco amichevole: Jacob era in piedi, avvolto in una vestaglia scozzese, le braccia conserte in segno di difesa. "Jacob, questo è Dick Breden. È venuto per discutere il caso la notte scorsa. Siamo rimasti a parlare fino a tardi e ho deciso di farlo rimanere a dormire qui". Sarah sentì il desiderio di indicare la camera degli ospiti. Un po' divertita e un po' scocciata, le sembrava di essere tornata una sedicenne. "Mmm". Jacob guardava i boxer di Breden con mal simulato disgusto. "Va bene. Sarà come dici tu. Adesso mi vesto e poi vado dal nostro ometto. Se il vostro caso vi ha tenuto in piedi per quasi tutta la notte, sarà meglio che vi ci ributtiate dentro". Si girò con un'ultima torva occhiata di ammonimento a Breden e sbatté la porta della sua camera da letto. "Ti presento mio zio. Mi ha praticamente allevato lui" disse Sarah men-
tre guardava la porta. "Abbaia molto, ma in genere non morde". Breden alzò le spalle. "Ti sta solo proteggendo. Fossi nei suoi panni, farei la stessa cosa". "Ti prego, qualunque cosa succeda, non dirgli niente della trappola. Diventerebbe pazzo". Breden la guardò. "Capisco". Sarah vestì Georgie, lo porse a Jacob e si vestì velocemente. "Ciao, ciao, ragazzi" baciò Georgie e Jacob. Lo zio si ammorbidì appena quando Sarah gli strinse la mano e gli lanciò un'occhiata rassicurante. Presero un tavolo d'angolo da Oriel in Sloane Square e ordinarono. Toast di pane integrale e caffè nero per Breden, una colazione completa per Sarah. "Ma tu mangi sempre tanto?" Sarah annuì. "E come fai a rimanere così magra?" "Nervi e allattamento, ma al momento non mi definirei esattamente in forma". Breden fece scorrere gli occhi su Sarah, guardandola dalla testa ai piedi, con uno sguardo di ammirazione spudorato e scosse il capo. "Trovo ancora sorprendente che Sarah Jensen sia mamma". "Perché? Cosa c'è di così innaturale?" "Niente, in effetti" disse Breden, con un pizzico di malinconia. "Vederti con lui sembra perfettamente logico". "Lo è". "Tu lo ami da impazzire". "Con tutto il cuore. Incondizionatamente e per sempre". "Bimbo fortunato". Breden si alzò, entrò nel bar e uscì con due giornali. Porse il Times a Sarah e si tenne il Daily Telegraph. "Posso?" chiese, indicando i giornali. "Le vecchie abitudini non muoiono mai. Se non leggo i giornali a colazione, non riesco più a farlo". "Fai pure. Sei un pantofolaio, perché non lo ammetti?" "E chi non lo è?" Lei pensò a John Redford. Prese i giornali e lesse. Le loro colazioni furono portate da una cameriera con piercing a una narice che guardò Breden con occhi vogliosi mentre gli serviva la colazione con un gesto affettato. Breden la ringraziò assente, e lei ripagò Sarah, la presunta causa del disinteresse dell'uomo, con un "Tieni" e un rumore di porcellana sbattuta con forza sul marmo.
Sarah si girò e, guardando Breden per una volta senza paraocchi, vide esattamente quello che aveva visto la cameriera. Un gran bell'uomo sui quarant'anni, un'oasi di forza, qualcuno che poteva venire a soccorrerti dai tuoi incubi e risolvere i tuoi problemi. Rise forte. Breden la guardò sorpreso. "Cosa c'è?" Sarah tornò seria. "Niente, solo favole e principi azzurri". Breden la guardò divertito, poi si concentrò a raschiare il sottilissimo velo di burro che ricopriva il suo toast. Rimasero per un po' in silenzio. Poi, di colpo, Sarah chiuse il giornale. "Merda!" "Cosa c'è, ora?" chiese Breden. Sarah lesse a voce alta l'articolo di Roddy Clark: La piaga delle minacce anonime è in aumento. Si dice che una famosissima rockstar sia al momento la vittima di uno squilibrato. Il cantante, attualmente all'apice della carriera dopo numerosi anni di successo, è stato minacciato negli ultimi sei mesi, ma rifiuta di incrementare la sua sicurezza personale. Fonti a lui vicine riportano, comunque, che il musicista ritiene che la sua vita possa essere in pericolo e ha modificato le sue abitudini. Ma l'esporsi al pubblico è l'ossigeno che respirano tutti gli artisti, e il musicista di cui stiamo parlando è una delle più grandi attrazioni mondiali, con centinaia di migliaia di fan ai suoi concerti. La polizia nega di essere al corrente delle minacce, ma crede che la rockstar preferisca che non si sappia nulla. Il più famoso musicista a essere minacciato e, purtroppo, ucciso, fu, come tutti sanno, John Lennon. L'ex Beatle fu freddato di fronte all'entrata del suo... Sarah si interruppe. "Conosciamo il resto della storia. Vaffanculo!! Vafanculo!!" Breden diventò serio. "Chi lo sapeva? Io, tu, Zamaroh e Carla. Chi altri?" "Sei al corrente di quello che è successo a Jeremy St James?" "Certo. Ma anche lui non può aver sentito niente delle minacce, a meno che uno di noi non si sia fatto scappare qualcosa. L'unica cosa certa è che ora è motivato, dopo essere stato buttato fuori da Zaha". "Giustiziato in pubblico, vorrai dire. Sì, lui è sicuramente motivato, ma non è possibile che lo abbia saputo".
"Allora, chi?" chiese Breden. La moglie di Savage. Doveva averlo detto al suo gigolò, e lui, forse per una ripicca nei confronti di Savage, doveva aver cercato personalmente Clark, notoriamente in cerca di vendetta contro la Goldstein. Ma Sarah non parlò. "Ancora la talpa segreta?" Lei annuì impercettibilmente. "Lo sai, no, che questa storia mi fa incazzare da morire?" "Lo so, e mi dispiace, ma non ne posso parlare. Se tu lo sapessi, capiresti perché, per cui fidati di me e lascia perdere". "Questa persona non è più in Goldstein, ho indovinato? Non può più fare danni?" chiese Breden. "Giuste entrambe" rispose Sarah, pregando di non sbagliarsi. Breden alzò le mani in segno di resa totale. "Va bene! Ho colto il messaggio. Lasciamo stare chi può aver fatto la spia e consideriamo effetti che potrà avere questo articolo. Se Redford è il nostro stupratore" continuò "questo lo farà impazzire. Può decidere di eliminare le appendici inutili, tu e Carla, o decidere che sia tutto troppo complicato, e volere inconsciamente essere catturato". Breden guardò gli effetti del suo discorso su Sarah. Lei ricambiò lo sguardo, risoluta. "Il mio consiglio è di fare marcia indietro immediatamente". Sarah scosse la testa. "È l'unica opportunità di acchiapparlo. Dobbiamo avere adesso le nostre risposte". "O altrimenti? Salta l'accordo. Sarebbe la fine del mondo?" "La sarebbe per Redford, e se è innocente non se lo merita di sicuro. Lo stiamo sospettando solo per la faccenda di Carla. Dovremmo dargli un'opportunità". I cinque milioni di dollari le balenarono davanti agli occhi. Sapeva che non riusciva a essere obiettiva, e questa era la ragione principale per cui si sarebbe licenziata in tronco. "Si procede, Dick. Prima sistemiamo la trappola, prima acchiappiamo lo stupratore, prima lo fermeremo. Se è Redford. È la mia ultima parola". Doveva sapere se il padre di suo figlio era uno stupratore seriale. "Potrebbe essere una delle tue ultime parole, Sarah. Se prima il tuo piano era pericoloso, ora è un vero suicidio". Capitolo 62 Dick Breden viveva a Battersea, appena oltre l'Albert Bridge, in un attico di un palazzo di vetro, metallo e cemento, alto sei piani. In qualunque
altra occasione, Sarah avrebbe ceduto alla curiosità e avrebbe passeggiato un po' in questo tempio ascetico del minimalismo, ma in quel momento era l'ultima cosa che aveva il tempo di fare. L'analisi di Breden, per capire chi era, e non chi voleva fare credere di essere, avrebbe dovuto aspettare. John Redford e la trappola diventarono il punto focale dei pensieri di Sarah. Con grande tormento, doveva anche tenere a bada Savage e Zamaroh. Breden le allungò un telefono. Passarono le due ore successive a fare telefonate con Zamaroh e Savage, discutendo il caso. Entrambi dovettero dire che era loro impossibile andare in ufficio. Entrambi ricevettero severi rimproveri da Savage e Zamaroh. Quando tutto fu finito, sembravano due pugili suonati. "Ne avrei fatto volentieri a meno" disse Breden. "Tutt'e due hanno brontolato che nessuno dei loro investigatori era disponibile, che così non va, e così via". "Bene, io ho sentito lo stesso ritornello" disse Sarah mestamente. "Basta. Non pensiamoci più" disse Breden. "Andiamo a lavorare. Iniziamo a concentrarci sull'operazione. Non parliamo d'altro, va bene?" Sarah benedisse l'acciaio che lui aveva negli occhi, che mascherava il tono gentile della sua voce. "Bene". Lo studio di Breden era perfetto: largo e spoglio, a parte un divano e un tavolo di cristallo, che lui spinse sotto la finestra. Spiegò quello che stava per fare, poi, in tre mosse fluide, si avvicinò e fece volare Sarah attraverso la stanza. Lei fece del suo meglio per rotolare sul materasso che lui aveva tirato via dal letto, poi si tirò su, ammaccata e dolorante. "Tutto bene?" si informò Breden, preoccupato. "Sopravviverò". "Visto com'è facile?" "Bella forza... Con tutto l'allenamento che fai..." "Come fai a sapere che lo stupratore non si allena? Intanto, per un uomo non è difficile spostare una donna facendola praticamente volare, Sarah. Questa non è questione di training, ma di peso e di forza superiori. Ti mostrerò qualcosa che ti potrà aiutare a farlo cadere, tre mosse veloci che puoi imparare su di me". Breden addestrò Sarah per un'ora, lasciandola sorridente sotto i rivoletti di sudore che le correvano sul viso. Si liberò dalle braccia di Breden, colpendolo come lui le aveva insegnato, dibattendosi per liberarsi se sbagliava la mossa e lui la stringeva in una morsa per punirla. Tanto vicini da po-
ter sentire l'odore di lui. Cristo, cosa stava facendo? Si tirò su. Redford aveva risvegliato la sua sensualità; si sentiva come un animale durante la caccia. La condizione migliore per intrappolarlo, pensò lei, con un dolore improvviso e acuto. "Usa le mosse solo se non hai alternative" la ammonì Breden, stringendole i polsi, tenendola stretta perché non riuscisse a fargli male. "Poi, usale con estrema aggressività. Non stai facendo la civetta". Nascose un sorriso: non riusciva a immaginare Sarah che faceva la civetta. "Ho messo assieme otto uomini per coprirti le spalle" continuò, liberandola. "Questo è quello che faremo". "Quanto costerà?" chiese Sarah, quando Breden finì di esporre il suo piano. "Una squadra di otto persone e tu. Costerà un capitale". "Già, temo" annuì. "Io non farò ricarichi, ma dovrò pagare gli altri ragazzi. Dipende anche da cosa succede, da quanto dura, ma da quattromila sterline non riceverai molto resto". Sarah sogghignò. "Speriamo che Savage mi paghi alla svelta". "Visto che sembra che tu abbia pescato la sua talpa, credo abbia un grosso debito nei tuoi confronti". Sarah sorrise impacciata. Breden uscì all'ora di pranzo per gestire l'operazione dal suo ufficio. Sarah rimase nell'appartamento di lui. Non poteva tornare a casa. Jacob e Georgie l'avrebbero fatta innervosire, lei li avrebbe terrorizzati e loro l'avrebbero distratta. Stava sentendo una nuova fermezza crescere in lei, per loro e per tutte le donne che erano state violentate. Telefonò a Strone. "Ciao, sono Sarah. Ascolta, avrei bisogno di un pass per il backstage per stasera. Puoi fare qualcosa?" Strone sembrava infastidito e arrabbiato, ma promise di lasciarne uno alla reception del Portobello. Sarah riagganciò e camminò nell'appartamento di Breden, cercando di calmare la tensione. Si impose di mangiare una grande quantità di pasta con pomodoro e basilico, ingredienti che trovò nella cucina ben fornita, sapendo che aveva bisogno di immagazzinare tutta l'energia possibile. Lo stress estremo la lasciava esausta e non aveva dormito abbastanza. Dopo pranzo, si buttò sul letto della stanza degli ospiti per cercare di rubare un paio di ore di sonno. Si svegliò febbricitante e sudata nel mezzo di un tenibile incubo. Gli echi di un suono sembravano rimbombare nella stanza. Sembrava un grido di terrore, o di rabbia. Era la sua voce, si rese conto. Si alzò dal letto, più stanca di prima. La sveglia segnava le sei. Merda, aveva dormito troppo.
Aveva puntato la sveglia alle quattro e mezza, ma evidentemente non l'aveva sentita. Rimase sotto la doccia bollente per cinque minuti, poi girò il rubinetto sull'acqua fredda. Resistette a lungo. L'adrenalina le crepitava per il corpo. Si asciugò, si vestì e prese un taxi per andare a casa. Jacob stava facendo il bagnetto a Georgie. Entrambi erano, fortunatamente, distratti. Allungò il collo dalla porta, e li baciò entrambi da lontano. "Ciao, bella bestiolina e ciao, bel vecchietto. Non posso fermarmi, devo cambiarmi e fuggire via. Tornò tardissimo, Jacob, non aspettarmi". Sorreggendo il bimbo con un braccio, Jacob la guardò con aria interrogativa. Sarah si era accorta che lui sapeva che gli stava nascondendo qualcosa di importante. Attraversò la stanza con due lunghe falcate, lo baciò sulla guancia, accarezzò la testa del bambino poi corse via. "Vado. È tardissimo". Cercando rifugio nella camera da letto, chiuse la porta dietro di sé e vi si appoggiò, vedendo ancora le due paia di occhi preoccupati che la studiavano: lo sguardo del suo bimbo, piccolo ma, a volte, stranamente consapevole, e lo sguardo dello zio, di amore e preoccupazione per lei. Doveva uscire immediatamente, prima di pensarci troppo su, prima di tirarsi indietro. Si fermò per un attimo, baloccando l'idea di abbandonare tutto e chiudersi in casa con due dei suoi tre amori. Mancava solo suo fratello. Capì che stava imbrogliando sé stessa: in realtà non aveva proprio pensato a suo fratello. Allora erano quattro, gli uomini che amava. Redford l'aveva contagiata con il suo amore, era così che lei vedeva il loro rapporto. Voleva odiarlo, o almeno provare per lui una totale indifferenza, ma, nonostante tutto, sentiva un fortissimo amore per lui, la temperatura le si alzava quando gli si avvicinava, e quando ricordava le due notti passate insieme si sentiva scottare. L'aveva resa sua schiava, tormentata da amore e dubbi atroci, l'appassionato amore che lei provava per il figlio continuava a cementare qualcosa che sarebbe dovuto essere eroso molto tempo prima da tutti i colpi inflitti: assenza, sospetto, tradimenti, Carla, e chi altro della lista delle vittime? Lei l'aveva tradito spiandolo, e ora, se lui era innocente, aveva la possibilità di fare una cosa giusta. Se lui era colpevole, se ne sarebbe potuta liberare, e tornare a una vita normale, solo lei e Georgie. Si spostò dalla porta e fece una pausa davanti al guardaroba, sfiorando con le dita i velluti e le sete, come una donna che si vuole fare bella per una notte d'amore. Una parte di lei voleva indossare abiti comodi, vecchi jeans, una maglietta e scarpe da ginnastica, l'altra parte voleva vestirsi co-
me per andare al suo funerale, all'ultima danza abbagliante. Scelse un vestito rosso e salmone di seta e velluto, lungo, attillato e dalla scollatura profonda, e sandali rossi con il tacco alto. Si raccolse i capelli, si truccò con sapienza e terminò con un tocco di Fracas. Si studiò nello specchio, un'ultima occhiata veloce, poi uscì senza salutare più nessuno. Capitolo 63 Sarah si sedette da sola nella tribuna dei vip dell'Arena di Wembley e guardò giù, verso il palcoscenico. Aveva una voglia matta di una sigaretta e ancora una volta si dovette convincere che ne poteva fare a meno. Si mangiucchiò un po' le unghie e attese l'arrivo di Redford. John Redford arrivò sul palco da professionista qual era. Vestito in jeans blu, la camminata sciolta, fluida, potente e deliziosamente sexy. Pensò alle sue mani su di lei e rabbrividì. Lui era stato tenerissimo, la violenza dentro di lui trattenuta, ma percettibile, talmente percettibile da provocarle le vertigini. Si lanciò in una sequela di canzoni rock; la sua voce, ricca e potente, vibrava attraverso di lei. Poteva vedere che stava già portando il pubblico a un'eccitazione parossistica, ma, prima che perdesse il controllo, virò su una ballata, una canzone nuova, lui e la sua chitarra, senza band. Il faro illuminava solo lui. Guardò la folla, e sebbene fosse impossibile che si fosse accorto di lei, a meno che sapesse esattamente dove era seduta, avrebbe giurato che stava guardando proprio lei. Finì di suonare l'introduzione, poi iniziò a cantare. Una notte buia, Un peccato senza redenzione, Anima e corpo distrutti, Una bomba a tempo innescata. Che devo fare per chiederti perdono? Non ci è concesso almeno un errore? Dio solo sa se regalerei tutto quello che ho, Per tornare indietro e non rifarlo, Ma nemmeno Dio mi può aiutare. Vedo ormai solo il sospetto Nei tuoi occhi,
Sei il mio giudice e, Se potessi, mi impiccheresti senza pensarci. Cosa devo fare per chiederti perdono? Non ci è concesso almeno un errore? Dio solo sa se regalerei tutto quello che ho, Per tornare indietro e non rifarlo, Ma nemmeno Dio mi può aiutare. Esiste un'altra strada Che possiamo percorrere? O siamo veramente giunti Alla fine? Quando furono svaniti gli ultimi accordi della canzone il pubblico rimase in silenzio. Poi iniziarono gli applausi, una piccola onda che crebbe fino a diventare un oceano. Il pubblico capì che questo era come un testamento, con tutti loro presenti come testimoni, e stavano tutti dalla parte di Redford. Redford fece un inchino. "Grazie. Questa era la mia Song far Sarah". John Redford sedeva solo nel suo camerino. Sarah entrò dopo aver bussato. Lui si girò al suono della sua voce. "Ciao, Sarah". "Ciao, John". C'era pace nei suoi occhi, come se fosse passato attraverso una specie di esorcismo. "La tua canzone era meravigliosa". "Grazie. Un po' fuori moda, oramai, ma caspita, è comunque una gran bella canzone" scosse la testa. "Chi se ne frega". Alzò le spalle, e Sarah restò colpita da quanto spesso le parole più dolorose venivano dette in un modo e in una situazione addirittura banali. Forse è così che si cerca di mantenere la sanità mentale. "Strone ha detto che mi volevi vedere" continuò Redford col suo tono monocorde. "Perché?" "Per dirti addio" disse Sarah. "Ah".
"E per augurarti buona fortuna". Lei aprì le braccia. Lui la guardò per qualche istante, il viso inespressivo, prima di alzarsi e andarle vicino. Lei si era messa il rilevatore elettronico adesivo sulla punta dell'indice. Lo schiacciò dietro al colletto della camicia di Redford quando lui la strinse forte a sé. "Addio, Sarah. Tu sai, no, che nutrivo tante speranze per noi?" Sarah lo abbracciò forte. Si tirò indietro, tenendogli le braccia. "Non sono la donna giusta per te". "Non puoi saperlo". "Sì, lo so". Lo lasciò andare, lo baciò sulla guancia, si girò e uscì prima che lui vedesse le lacrime che le rigavano il volto. Capitolo 64 Sarah trovò il furgone di Breden parcheggiato nel punto esatto in cui doveva essere. Si sentì confortata. Breden era un uomo affidabile, concreto. Dal momento in cui si era inserito nell'operazione, non aveva più avuto scampo. C'era in gioco la vita di Sarah. Il portellone posteriore si aprì appena lei si avvicinò. Impacciata, nel vestito attillato e le scarpe alte, si arrampicò all'interno. "Sei splendida". "Grazie". "Perché mi sembri disperata?" "Ho appena detto addio a Redford. Gli ho appiccicato il microfono mentre mi stava abbracciando. Ha scritto e cantato una canzone dedicata a me, Dick, chiedendo il mio perdono, chiedendo se eravamo arrivati alla fine di tutto. Mi ha spaventato. Agiva come se avesse in mente qualcosa di preciso". "Cioè?" "Non lo so". Esitò, perché non voleva dare voce alle sue paure. "Era come se lui fosse arrivato alla sua fine. Quando sono arrivata nel suo camerino, non volevo dirgli addio. Mi è poi uscito così, spontaneo. Ho sentito che era davvero un addio". "Forse vuole buttarsi alle spalle l'intera faccenda. Puoi tirarti indietro, Sarah. Quando vuoi". "No. Non ci riesco. Dobbiamo andare fino in fondo". Breden diede a Sarah una divisa credibile per una cameriera, corta, bian-
ca e inamidata. La indossò con calze velate beige e le sue scarpe col tacco alto. Un artista orientale dal viso grinzoso lavorò sul suo viso e sui suoi capelli. Non disse una sola parola, le piegò semplicemente la testa da una parte all'altra, le dita sorprendentemente leggere, morbide ma forti. Quando terminò, Sarah, al di sotto della parrucca bionda, si era trasformata in una puttanella provocante. Breden la studiò. Fece un cenno di approvazione al truccatore. "Ottimo lavoro. Ci vediamo". L'uomo annuì, poi si girò lentamente verso Sarah. Prima, mentre le studiava il viso, l'aveva fatto con occhio professionale; l'aveva trattata né più né meno come una modella. Ora il suo sguardo indecifrabile la terrorizzò. Le fece un inchino, poi aprì le portiere del furgone e saltò giù, in perfetto silenzio. "Spero che non dovremo aspettare a lungo" disse Sarah, appena la portiera sbatté con un tonfo. "Questo è il momento peggiore, l'attesa. Ecco quello che distrugge i nervi. Bisogna avere un talento incredibile, sicuramente sottovalutato, per andare avanti con freddezza". "L'attesa?" "Certo. Restare qui fermo e silenzioso come un palo, con la voglia di pisciare, rinchiuso nel tuo camuffamento, la gola che ti pulsa, cercando di trattenere un colpo di tosse o uno starnuto". "Almeno, non devo stare zitta". Sarah si guardò intorno allarmata. "Ma come faccio se devo fare pipì?" Breden si allungò sotto il suo sedile e tirò fuori un catino. Sarah scoppiò a ridere. "Ce la farai?" chiese Breden. "Stai parlando con una delle poche donne che sanno fare la pipì in piedi. Certo che ce la farò". Sentirono dei colpetti sul finestrino oscurato che separava il retro del furgone dalla parte anteriore. Breden lo fece scivolare. "Ci siamo" disse una voce dal davanti. Sarah vide un lampo di capelli neri e ricci, pelle abbronzata. "Si muove con sicurezza, sta camminando, probabilmente è diretto verso la sua auto". Breden guardò il monitor. Sarah vide un puntino bianco pulsante che si muoveva verso nord. Breden controllò un piccolo auricolare che aveva nell'orecchio e parlò con un piccolo microfono attaccato al colletto della camicia. "Hai il movimento, numero due?" chiese. "Bene, Stai pronto". Ripeté la
domanda altre due volte. "Quanti veicoli abbiamo?" chiese Sarah. "Quattro, incluso questo. Due uomini in ognuno". Il puntino bianco si arrestò. "Partiamo?" chiese Breden dal microfono. "Suppongo che sia salito in macchina". Il puntino, improvvisamente iniziò a muoversi, più veloce, ora, verso sud. Breden controllava i movimenti. "Allaccia la cintura", disse a Sarah. Lei lo fece, poi si allungò in avanti, per vedere meglio. "Viene verso di noi" disse Breden. "Il numero due lo seguirà, ripeto, il numero due lo seguirà. Tre, vieni dietro a me, quattro, cerca di andare dove va lui". Appena il puntino si avvicinò, l'uomo con i capelli ricci accese il motore, e quando il puntino girò a destra all'improvviso, mise la marcia e uscì nel traffico. "Qualcuno ha una visuale completa?" chiese Breden. "Numero quattro? Bene. Cosa guida? Ha un autista? C'è qualcun altro con lui?" Ascoltò, poi si girò verso Sarah. "Guida una Range Rover, finestrini oscurati. Sembra siano in due, dentro, probabilmente ha un autista. I miei non riescono a riconoscere Redford, ma deve essere lì". "Un autista complicherebbe le cose" disse Sarah. "Probabilmente lascerà Redford da qualche parte. Se lui è il nostro stupratore, vorrà essere lasciato un po' lontano dalla sua riserva di caccia, a meno che l'autista sia un complice". "Sarebbe una sorpresa. Non riesco a immaginare che possa coinvolgere qualcuno in questa brutta storia". "Neanch'io. La mia idea è che si faccia lasciare da qualche parte dall'autista, per poi proseguire da solo". "Adora passeggiare di notte" disse Sarah. "Me l'ha detto lui. Potrebbe camminare per ore". "Allora, teniamoci pronti a fare lo stesso". Breden parlò nel microfono. "Tenetevi pronti a scendere. La persona da seguire potrebbe camminare a lungo". "E potrebbe avere un travestimento" aggiunse Sarah. "Detesta essere riconosciuto". "Capelli color sabbia, ondulati, mascelle prominenti e gozzo?" verificò Breden. Sarah annuì. "Il nostro uomo potrebbe essere travestito, come già detto". Breden disse
nel microfono. "Può avere una parrucca color sabbia, mascellone, o qualsiasi altra cosa". Sarah cercò di pensare a come si sentiva Redford. Aveva buttato via la personalità che Sarah conosceva per lasciare posto all'altra, nascosta, corrotta? Non riusciva a immaginarselo, ma sapeva bene che era possibile. Se gli stupratori, i pedofili e gli assassini fossero così facili da individuare, i loro vicini li segnalerebbero sempre. I peggiori criminali sono sempre quelli che si nascondono meglio. E Redford, in fin dei conti, era un artista. Sapeva perfettamente quello che la gente voleva da lui, e glielo dava. Sarah rabbrividì. Percorsero a tutta birra Harrow Road, diretti verso sud-est, su Western Avenue, sulla Westway. Sarah guardò fuori dai vetri oscurati, ascoltando Breden che parlava lentamente nel microfono. "Numero quattro, vagli dietro, numero due, sorpassalo". Marylebone, Euston, King's Cross. Quartieri belli, ma squallidi. Vide le prostitute, che occhieggiavano il loro furgone, cibo per il loro bisogno di crack. Il puntino bianco si arrestò. Loro si fermarono. Sarah guardò lo schermo. "Numero due, hai visuale?" chiese Breden. Ascoltò attentamente. "Passeggeri due, scendete. Andategli dietro a piedi. Auto due, state con la sua auto. Tutti i passeggeri scendano, lo seguano a piedi coi monitor portatili. Autisti tre e quattro, muovetevi a intervalli, non fatevi distanziare. Distanza massima, cento metri". Breden si girò verso Sarah. "Sta andando a piedi". "E adesso, cosa succede?" Si mordicchiò un'unghia, fissando Breden. 'Tu e io lo seguiamo in macchina, fino a quando capiamo cosa stia facendo. Per quello che si sa, le vittime sono sempre state cuoche o cameriere, poveracce che lavoravano fino a tardi. Credo che camminerà fino a quando trova qualcosa che fa al caso suo, poi si nasconderà. Quando smetterà di camminare, dovremo tenerci pronti". Sarah annuì, lo stomaco stretto in una morsa. Parcheggiarono e attesero. Il puntino si muoveva lungo Pentonville Road. Gli occhi di Breden lampeggiarono mentre cercava di trarre le conclusioni con gli elementi che venivano forniti attraverso l'auricolare. "Sono in due" disse a Sarah. "Redford e un altro personaggio, almeno, pensiamo che uno dei due sia Redford. Ha un giaccone di pelle col colletto tirato su, e un cappello da baseball". "Nessuno riesce a capire veramente se è lui?" chiese Sarah. Breden scosse il capo. "Non devono avvicinarsi troppo. Lo stupratore è
intelligente, non vogliamo che ci scopra e che ci sfugga. Dobbiamo stare lontani, senza avvicinarci più di venticinque metri. I ragazzi hanno binocoli, ma devono stare attenti che lui non li scopra ad usarli: manderemmo a monte tutta l'operazione in un attimo". Breden si girò ancora, ascoltando i messaggi. "Ha svoltato per City Road. Sono ancora in due". "Nessuna idea di chi sia l'altro?" "Sui due metri, corporatura media, cappello da baseball, giaccone, scarpe da tennis". Sarah scosse il capo. "Non lo conosco". "Avviciniamoci" disse all'autista. Quando il veicolo si avviò, Sarah guardò fuori dal finestrino. Raggiunsero City Road, voltarono e parcheggiarono in una laterale. Sarah controllò il nome e scoppiò a ridere. "Cosa c'è?" chiese Breden. Sarah indicò la targa. "Micawber Street. Come in Dickens. Qualcosa deve succedere, allora. Ho sempre pensato che gli dei avessero il senso dell'ironia. Sicuramente si preparano a divertirsi, stanotte". Breden vide lo sguardo triste e amareggiato di Sarah, e si chiese da dove arrivasse quello humour così macabro. Stranamente, lei gli ricordava i suoi soldati, che scherzavano sempre prima di un'operazione che poteva essere mortale. Sarah vide una strada di deliziose case in stile georgiano, affiancate da un quartiere sgradevole per nuovi ricchi, costellato di lampioni e dissuasori di velocità, le case popolari prive di personalità lontane dalla strada principale e i magazzini abbandonati sulla limitrofa Taplow Street. Una zona desolata, squallida, di anonimato e bieca funzionalità. Sentì i tentacoli della stanchezza che le si abbarbicavano lentamente addosso. Solo l'adrenalina la teneva sveglia. Il puntino si muoveva senza posa, su Great Eastern Street. Redford camminava da quaranta minuti esatti. "Si sta dirigendo verso Spitalfields" disse Sarah con orrore. "Forse la notte scorsa ha fatto un giro di ricognizione". "Credi che correrebbe il rischio di portarti sulla scena di un crimine?" le chiese Breden. "Forse vuole davvero essere arrestato". Sarah e Breden guardavano il puntino che girò in Commercial Street e arrivò in Grey Eagle Street. Poi si fermò.
"Chi ha la visuale?" chiese Breden con voce tagliente. "Numero due, cosa succede?" si girò verso Sarah. "Redford e il suo amico sono entrati in un bar. Andiamo" disse all'autista. Prese la mano di Sarah. "Te la senti?" Lei annuì. Lui le diede un auricolare e le fissò un microfono sul colletto. "Ricordati: io sono il numero cinque, tu sei il numero uno. Funzionano?" Sarah provò l'auricolare, parlò e ascoltò. "Sono il numero uno. Mi sentite?" Un coro di voci rispose di sì. Breden passò un dito sul viso di Sarah. "Il tuo travestimento è perfetto. Non capirà che sei tu finché non ti sarà sopra, se succederà. Non parlargli finché non arrivo io. Non voglio che riconosca la tua voce e perda la testa". O ti ammazzi, pensò tra sé. "Muta come una tomba" disse Sarah, cercando di sorridere. Breden l'abbracciò all'improvviso. "Buona fortuna". Sarah ricambiò l'abbraccio. "Grazie". Pensò che lui stava sentendo il suo cuore che batteva forte. Avrebbe avvertito il suo tenore, le avrebbe chiesto di rinunciare... invece la lasciò andare. "Chiamami. Arriverò in un attimo. In caso di emergenza, chiama aiuto. Cerca di spiegare velocemente cosa succede, muovi la bocca meno che puoi. Parla lentamente. I microfoni sono così sensibili che trasmetteranno il tuo respiro". Il furgone fu parcheggiato su Grey Eagle Street, un lungo e vuoto corridoio di decadenza urbana. Sarah e Breden uscirono. Era l'una di notte. I lampioni brillavano di luce arancione, la pioggerellina creava un miasma attorno alla luce. Il bar si chiamava The Fallen Angel, "L'Angelo Caduto". Lo costeggiarono fino a raggiungere l'entrata posteriore. Breden fece entrare Sarah. Un uomo con la coda di cavallo li bloccò. "Cosa volete?" chiese a voce alta. "Con chi sto parlando?" chiese Breden. "Sono quel rompicoglioni del titolare. Voi chi cazzo siete?" "Polizia" replicò Breden. "Aspetta, cerco il distintivo in tasca e te lo mostro, ok?" L'uomo abbassò la testa, annuendo con scarsa considerazione. Breden tirò fuori un pass laminato su cui era stampigliato che lui era il Detective Ispettore Dick Evans della polizia metropolitana. Il proprietario lo prese e lo studiò con aria totalmente disinteressata. "Cosa volete?" ripeté. "Dobbiamo usare i tuoi locali per un'azione di sorveglianza. Vorremmo
poter aspettare tranquilli, poi, non sappiamo quando, avremo bisogno di fare uscire il mio agente" indicò Sarah. "Dovrà mostrare il suo bel visino nel bar, solo per un attimo. Vorrei che tu le dicessi 'Buonanotte', facendo finta che sia la tua nuova aiuto-cuoca, che viene ad aiutarti stasera per farti un favore". Lo sguardo dell'uomo saettò da Sarah a Breden. "Non mi sembra una cuoca". Sarah sorrise. "Lei è una cuoca" disse Breden duramente. "Fai finta". L'uomo alzò le sopracciglia. "Perché dovrei?" Breden lo guardò per qualche momento prima di rispondergli. "Non hai mai bisogno di favori?" "Capita a tutti, no?" "Bene, diciamo che ti guadagnerai un bel credito, allora". L'uomo annuì lentamente, come per soppesare le diverse possibilità, prendendo tempo, per salvarsi la faccia. "Allora, mi devi un favore". "Va bene. Però non fare troppo casino". "E come devo fare?" "Devi fare quello che dico io". L'uomo sembrò pensare che la scena era già durata abbastanza, e immediatamente si trasformò in un affarista. "Meglio che veniate nel mio ufficio". "Solo l'agente" disse Breden. "Io gironzolerò qui intorno". "Fai pure". Sarah si girò, diede un'ultima occhiata a Breden e seguì il titolare dentro al Fallen Angel. Capitolo 65 Il posto puzzava di fumo, piscio e cipolla fritta. Un juke box suonava del rock, qualcosa di Bon Jovi, You Give Love a Bad Nome. Già, proprio, pensò Sarah. Il titolare la guidò su per delle sgangherate scale di servizio. Le gambe le tremavano mentre si arrampicava. L'uomo prese una chiave dalla tasca e aprì il suo ufficio. Rimase in piedi e disse a Sarah di entrare. "Grazie". Si mise a sedere su un divano sfasciato. Lui la seguì. "Adesso cosa succede?" chiese lui. "Succede che mi lasci sola, continui a farti gli affari tuoi, e aspetti che
l'ispettore ti dia istruzioni". "Tutto qui?" Sarah annuì. "Tutto qui". Vai via, per favore. Vai via, pregò lei. Come se le leggesse nel pensiero, l'uomo attraversò lentamente la stanza guardandosi velocemente intorno, come per fare un inventario di quello che c'era, poi uscì in silenzio. Sarah chiuse la porta dietro di lui, scorse una bottiglia di whisky e un bicchiere sul suo tavolo, si versò un doppio whisky, poi si buttò sul divano. Guardò il bicchiere come se contenesse una pozione magica. Dio del coraggio e della forza, non mi abbandonare adesso. Lo bevve lentamente, lasciando che le bruciasse la gola, immaginandosi Redford nel bar al piano di sotto. Dall'auricolare, sentiva le voci che le parlavano. "Numero tre qui" disse un morbido accento irlandese. "Sono il numero quattro, sono al bar. Abbiamo la visuale. Due uomini al bar, uno di loro è quello che ha il rilevatore, ma non è Redford". "Cosa?" le gracchiò nelle orecchie la voce di Breden. "Aspettate" disse Sarah. "Com'è?" "Un metro e ottanta, forse un po' di più, capelli scuri ondulati, occhi marroni". "Mascelle prominenti?" "Già. Ehi, amico, scusami, c'eri tu?" Sarah sentì le sedie che raschiavano il pavimento, una voce che rispondeva, poi il risucchio di una persona che beveva e lo sgranocchiare di patatine. "Scusami, ma qualcuno mi è venuto vicino. Mascellone, fammi vedere, sì, è grosso intorno alla bocca. Sì, potrei dire guanciuto come uno scoiattolo". "Quello è Redford" sussurrò Sarah. "È il suo classico travestimento, proprio come ieri notte. La parrucca è diversa, tutto qui". Prese il bicchiere di whisky. Era vuoto. Lo appoggiò, senza accorgersene, sul bordo del tavolino. Cadde per terra e si frantumò. "Cos'è successo?" chiese Breden con tono tagliente. "Ho rotto un bicchiere. È tutto a posto. Com'è l'altro uomo?" "Più o meno alto come Redford. Capelli biondi lunghi, fumatore". "Lo conosci?" chiese Breden. "Non mi sembra" replicò Sarah. "Cosa bevono?" "Il biondo un po' sciatto beve un baby, forse un whisky" disse il numero tre. "L'altro beve una pinta di qualche bevanda trasparente e gassata, può essere acqua, può essere limonata. Sgranocchiano patatine. Sembrano affamati".
"Sono sicura che è Redford" disse Sarah. "Dopo i concerti è affamato e assetato da morire". "Deve essere lui" disse Breden. "A meno che non abbia prestato a qualcuno la sua camicia". "Giusto. Carina, come idea. Soprattutto per darla a qualcuno che va nello stesso posto in cui lui è andato la sera prima. No" borbottò. "È Redford. Ne sono sicura". "Un travestimento perfetto" disse il numero tre. "Può farsi truccare dai migliori truccatori del mondo" disse Sarah. "Questo non è certo un problema, per lui. Tra l'altro, ieri sera si è truccato da solo, in un attimo, ed era terribilmente diverso". Le voci tacquero. Sarah rimase ferma, trattenendo il fiato. Forse non stava succedendo nulla. Forse Redford avrebbe preso l'auto e sarebbe tornato tranquillamente a casa. Si perse nei suoi sogni e sobbalzò quando la voce dell'irlandese parlò bassa e rapida. "Un uomo non identificato si è avvicinato ai nostri. Penso che si muoveranno presto. Ripeto, credo che stiano andando via". "Bene" disse la voce di Breden. "Numero uno, tieniti pronta. Sto entrando". Sarah si girò velocemente. Udì un suono di passi, poi una porta che si apriva e si chiudeva, poi Breden che parlava al titolare. "Vado su dal mio agente. Eccoti cinquanta sterline. Dagliele, ringraziala per il suo lavoro, per l'aiuto, ma sottotono, non esagerare". "Non sono il tipo" disse l'uomo, laconico. Sarah sentì dei passi, poi bussarono alla porta. "Apri, sono io". Aprì a Breden. "Tutto bene?" Annuì, con la bocca secca. "Adesso tocca a te. Buona fortuna". Gli diede un'ultima occhiata, poi scese le scale verso l'atrio dove il proprietario la stava aspettando. Sentì che le gambe le stavano cedendo, e il sudore le scivolava lungo la schiena. Il proprietario si mosse verso il bar. Aprì la porta ed entrò. Sarah tenne la porta, nascondendo parzialmente il viso, sbirciando di lato. Lui borbottava tra i denti, quando lei lo raggiunse alla cassa. Contò cinquanta pezzi da dieci sterline e li porse a Sarah. "Cinquanta sterline per una cuoca. Maledetta strozzina!"
"Risparmiami le prediche" disse Sarah, con la voce di un'altra persona. I due uomini si stavano rimettendo le giacche e si voltarono per seguire la voce. Sarah fece in tempo a vedere gli occhi del presunto Redford su di lei, prima di guardare altrove, come per timidezza o voglia di flirtare. Si guardò i piedi. Non aveva il coraggio di guardare l'altro uomo. Fece un piccolo show contando e mettendosi il denaro in tasca, borbottando un saluto al titolare, e si avviò verso la porta. La fece sbattere dietro di sé. Poi, uscì lentamente. "Vado verso Grey Eagle Street" sussurrò alla sua squadra di sorveglianza. Cristo, era buio pesto. Il manto stradale era costellato di catarifrangenti. Alti muri di mattoni, ferro corrugato verniciato di arancione pallido dei pochi lampioni che non erano stati distrutti. Uno squarcio nella cortina di acciaio lasciava intravedere appartamenti in pessime condizioni, da molto tempo abbandonati da chiunque avesse una minima possibilità di scelta. Ma ancora c'erano i detriti del passaggio di umani, una sedia rotta, lattine di birra. Aveva l'aria di un'occupazione forzata. Gli squatter, però, avrebbero sicuramente scelto qualcosa di meglio. Una fabbrica di crack, ecco cosa poteva essere. Sarah si mosse velocemente. "Stanno abbandonando il bar" disse il numero tre. Lei sentì una porta sbattere, e cercò di resistere alla voglia di girarsi. "Ti stanno guardando, numero uno, ti stanno guardando tutti e due" disse un'altra voce nelle sue orecchie. Lei continuò a camminare, lentamente, sui tacchi alti. "Stanno parlando, si guardano intorno. Aspetta, sta arrivando un'auto, sembra un taxi. L'auto si è fermata, i due si avvicinano, parlano con l'autista. Lui sta entrando. Ripeto: il nostro uomo sta entrando in macchina. Volvo rossa. Numero di targa: CST 45P. L'auto se ne va, verso nord. Attraversa Grey Eagle". "Numero due, tre e quattro, seguite l'auto. Ripeto, seguite l'auto" ordinò Breden. "Numero uno, stai tranquilla. Continua a camminare". Sarah si fece coraggio mentre l'auto si avvicinava. "Si stanno avvicinando, cambiano marcia, accelerano". Sbirciò l'auto, vide Redford che guardava fuori, dritto verso di lei. Cristo, i suoi occhi sembravano due raggi laser. L'aveva riconosciuta, forse? "Mi stanno sorpassando, girano a destra a una cinquantina di metri" continuò, la voce disperatamente ferma. "Riesco a sentire la macchina che se ne va, il rumore si sta allontanando" disse, sopraffatta da un senso di sollievo e confusione. "L'auto dei sorvegliati si dirige a est su Cheshire Street" disse una voce.
"Numero quattro, lascia perdere i sorvegliati" disse Breden. "Numero tre, rallenta, mantieniti fuori vista. Qualcuno li vede?" "Vedo qualcosa: autista pakistano, il sorvegliato è dietro". "Cosa succede, adesso?" chiese Sarah. "Gira a sinistra per Quaker Street" le disse Breden. "Prendi ancora a sinistra per Commercial Street. Cammina fino all'incrocio con Hambury Street. Ti aspetto lì". "Sto arrivando" disse Sarah. Capitolo 66 Camminava con difficoltà sui tacchi alti, rischiando continuamente di inciampare sulla strada sconnessa. Santo cielo, che bel modo di passare la notte! Ora che la tragedia era finita e il pericolo se n'era andato, fu sopraffatta dalla tristezza, e da un senso di profonda confusione. Perché Redford se n'era andato? Forse cercava altri territori di caccia. Forse, dopotutto, era innocente. Ma allora chi cazzo era lo stupratore, se non lui? Svoltò in Quaker Street. Cristo. Lontana dal Fallen Angel, invaso dal rumore del traffico su Commercial Street, il silenzio la sommerse come nebbia. Sentiva il rumore dei suoi passi, ma si rese conto che nessuno avrebbe potuto sentire le sue grida. Non avrebbe mai pensato che un paesaggio urbano potesse arrivare a essere così squallido, ma evidentemente si era sbagliata. Questa era la degna cornice dell'orrore che aveva vissuto. Una strada vuota si snodava lungo i binari della ferrovia. Un'alta barriera di filo spinato cercava di impedire atti vandalici, o forse i suicidi. Un parcheggio vuoto giaceva costellato di spazzatura: luci fioche provenienti dalle arcate sui binari gettavano ombre sull'intonaco butterato. Cortili pieni di detriti vennero illuminati per un istante al passaggio di una BMW rossa, pulsante di musica ad altissimo volume. Era il posto ideale per procurarsi della droga, pensò Sarah. Per un momento, temette che l'auto inchiodasse e si fermasse, ma per fortuna tirò dritto senza curarsi di lei. Trattenne il respiro fino a quando l'auto scomparve dalla sua vista, poi continuò a camminare, ora totalmente sola. Qualcosa la fece fermare, un suono strano, come di suole infangate. Ascoltò, col cuore in subbuglio. Era un rumore di suole, di scarpe da tennis sul terreno bagnato, che si avvicinavano. Lei iniziò a muoversi, sempre più veloce sui tacchi maledettamente alti. L'incrocio con Commercial Street era solo a una quarantina di metri da lei, e voleva disperatamente avvici-
narsi.... Avrebbe voluto correre, aveva una voglia pazzesca di correre. Stai calma, è solo qualcuno che toma a casa. Redford se n'è andato, si disse. Ascoltò le voci nelle orecchie, che continuavano con i rapporti. Redford ora era in Great Eastern Street, direzione ovest. Era quasi arrivata all'incrocio, ancora solo una trentina di metri, quando sentì un rumore dietro di lei. Si girò. Un uomo le stava arrivando addosso a tutta velocità. Non poté trattenersi e urlò. "Noooooooo!" Poi iniziò a correre. L'uomo era più vicino, lei cercò di correre più velocemente. Le voci le urlavano nelle orecchie. La voce di Breden: "Dove sei, numero uno? Cosa succede?" "Aiutatemi! Aiutatemi! Sono in..." Scivolò, inciampò e cadde a terra. Urlò per il dolore e il terrore e cercò di rimettersi in piedi. Ci stava riuscendo quando l'uomo le arrivò addosso e si allungò sopra di lei. Sbatté la testa contro il terreno sconnesso. L'uomo le prese i polsi: le sue dita la stringevano come una morsa di ferro. Fu assalita da un'ondata di nausea e vide dei lampi rossi davanti agli occhi. Scosse la testa, lottando disperatamente per restare cosciente. Attraverso il velo rossastro, vide l'uomo che si profilava su di lei. Indossava un cappuccio nero, con due tagli per gli occhi. Profumava di limone. La guardava senza dire una parola. L'unico suono era il suo respiro, che diventava sempre più veloce e sovreccitato. Il tempo rallentò, all'improvviso, come quando in un sogno si cerca di fuggire da un pericolo, ma le gambe sono intrappolate, e non si riesce a muoversi. Sentiva la ghiaia penetrarle nella pelle, sentiva il sapore del sangue. Doveva essersi morsicata un labbro quando era caduta. A fatica, lontano, riusciva a vedere il binario morto. Udiva il rumore del traffico. Sembrava lontanissimo, come parte di un altro mondo. Era davvero così. Il mondo da cui lei era stata strappata da questo essere mostruoso era il mondo in cui lei si era sforzata di credere. Un mondo senza violenza, dove c'era solo correttezza, bontà e giustizia. Dove viveva Georgie. Suo figlio, il suo bimbo, il suo grande amore. Appena pensò a lui, sentì un'ondata di forza e cercò di allentare la morsa dell'uomo. La risposta che ottenne fu un pugno in faccia. La sua testa tornò a sbattere per terra, e sentì che stava perdendo conoscenza. Oh, no, Oh, no no no non può succedere davvero. Lottò per non svenire. Si aggrappò alle cose più belle della sua vita. Georgie, bimbo mio, Georgie, ti amo. Non mi succederà niente. Niente succederà alla tua mamma. Vide il suo piccolino che si allungava verso di lei, le braccia tese per supplicarla di prenderla in braccio. Le lacrime le scesero sul viso. Cercò di pensare a quello che Bre-
den le aveva insegnato. Noncurante dell'ultimo pugno, cercò ancora di combattere. La risposta fu un altro colpo alla testa. Oddio, un altro ancora e non sarebbe più stata in grado di restare cosciente. Non doveva essere così. Si ricordò che Breden le aveva detto che le cose spesso vanno storte. Dov'era? Dov'era? Dove cazzo era??? L'uomo iniziò a trascinarla sulla strada verso il binario morto. I suoi polpacci sfregavano il terreno ruvido. Sentiva il sangue che scorreva sulla pelle escoriata. "Aiutatemi! AIUTATEMI!!" urlò nel microfono, ma nessuno arrivava. Era stata abbandonata nelle mani di quel mostro. Ogni istante era un'eternità di terrore. Capì che stava iniziando a distaccarsi dalla realtà. Si vide come da lontano, sdraiata sul terreno sudicio, cibo di un predatore che si stagliava su di lei. Poteva vedere la scena che si svolgeva, come se stesse succedendo a un'altra persona. Oh Georgie, non posso lasciare che questo accada alla tua mamma. Non lascerò che quest'uomo... La rabbia la invase. Si contorse ancora una volta e cercò di alzarsi. Sollevò le ginocchia, fino a quando riuscì ad appoggiarle alle costole dell'uomo, poi lo colpì con tutte le sue forze. Lui fece un grugnito e cadde. Rallentata dalle fitte alla testa, Sarah si alzò a fatica. L'uomo si rialzò e sferrò a Sarah un altro colpo in testa che sembrò scatenare la rabbia di lei. Lo colpì, non come le aveva insegnato Breden, con il taglio della mano, ma con i pugni nudi. Poteva a malapena vedere cosa stava colpendo: un velo di rabbia le copriva gli occhi. Si rendeva solo conto di colpirlo, e di stare prendendo dei pugni terribili che la massacravano. Uno di essi, in particolare, le fece esplodere una miriade di luci nella testa, e cadde all'indietro. L'uomo non si sarebbe più fermato, lo sapeva. Aveva liberato un torrente di violenza. Si ricordò di Breden che le diceva che lo stupratore stava diventando sempre più violento, e che più le vittime resistevano, più lui le puniva. Non pensava fosse possibile essere più terrorizzata, ma improvvisamente la paura sembrò scoppiare quando si sentì prendere da dietro. Urlò di terrore, un terrore profondo, infinito. Non riusciva nemmeno più a sentire, per il rumore che aveva nelle orecchie, ma lentamente, frammentarie, le parole arrivarono al suo cervello. "Sarah, Sarah, va tutto bene, sono io, Sarah. Sono Dick. Va tutto bene, Sarah. Sono qui. Sei in salvo, ora". L'uomo mascherato si girò e si allontanò vacillando. Breden la appoggiò a terra con dolcezza e, rapido, lo inseguì. "Prendilo. Ti prego, dio, fai che
lo prenda", Sarah sussurrò, prima che un'ondata nera la sommergesse. Poi, non pensò più a nulla. Capitolo 67 Pavimenti di linoleum, polizia di guardia intorno, puzza di fumo di sigarette, voci basse. "Guardatela. Possibili ferite gravi alla testa, commozione cerebrale, perdita ingente di sangue. La spedirei immediatamente in traumatologia". "Il dottore sta arrivando. Sarà qui tra cinque minuti. Lo dirà lui se deve andare". Le parole le piovevano addosso come pugni, e cercava di ricordare cosa l'aveva tanto spaventata. Poi, all'improvviso, tutto le fu chiaro. Si sedette e vomitò. Diverse mani la sorressero, la tennero stretta, le tennero ferma la testa. "Stai tranquilla. È tutto finito. Butta fuori tutto, ti sentirai meglio" le diceva una voce compassionevole, una voce che sarebbe potuta appartenere a sua madre. Un'altra fitta di dolore e ricominciò a vomitare. La stessa voce, ora, parlò duramente. "Salviette pulite, una asciutta, una bagnata con acqua fredda. Subito, per favore". Sarah sentì che la stavano ripulendo. L'acqua le scivolava giù per il viso insieme a un liquido acre, il cui odore la faceva stare male. Si appoggiò le dita sulla testa e le portò davanti agli occhi: erano sporche di grossi grumi di sangue. Poi, la sua voce. "Sono ferita, sono ferita". "Va tutto bene, Sarah" qualcuno le prese la mano. "Ti cureremo". Lei guardò, cercò di mettere a fuoco e, fiocamente, le sembrò di vedere la faccia di Dick Breden. "Sei tu? Cosa è successo?" poi, agitata, chiese velocemente. "L'hai preso? Ti prego, dimmi di sì, ti prego, l'hai preso vero?" "L'ho preso". "Chi è? Chi è? Dimmelo!" "Non lo so. Non lo vuole dire e non ha documenti di riconoscimento". "Non è Redford" disse Sarah, cercando di capire perché lo sapeva. "No. Non è Redford". "Allora, chi?" Un'altra voce, un uomo chino su di lei. "Sono l'ispettore Harding, signorina Jensen. È proprio quello che le dobbiamo chiedere, signorina. Pensa di essere in grado di dargli un'occhiata?"
Vide Breden che guardava il poliziotto con aria dubbiosa. "Dove diavolo è il medico?" chiese Breden a nessuno in particolare. "Dev'essere visitata subito". "La faremo visitare appena arriva" promise l'ispettore. Si chinò su Sarah. "Come si sente? Se la sente di dargli un'occhiata? Lui non la vedrà, non si preoccupi". Sarah si pulì la bocca con il dorso della mano. "Sì, voglio vederlo. E voglio che lui mi veda". L'ispettore la accompagnò lungo uno stretto corridoio. Sui muri erano appesi numerosi poster, uguali a quelli che aveva visto la sera precedente: ASSASSINIO, STUPRO, TERRORISMO, SPARIZIONI. Ora lei faceva parte di quello schifo di mondo, e uno dei colpevoli era in cella che l'aspettava. Dick Breden le camminava di fianco, sorreggendola con un braccio intorno alla vita. Scesero una rampa di scale e si fermarono. L'ispettore si girò verso di lei. "Sicura di essere pronta per farlo?" Lei annuì. Lui le diede un' occhiata interrogativa, prima di girarsi e portarli dietro l'angolo. Una fila di celle era allineata lungo il muro. Si fermarono davanti alla prima. Un uomo era seduto per terra, di spalle rispetto a loro. "Alzati, bastardo" disse Harding. "Hai visite". Lui si alzò lentamente, si girò e li fronteggiò. Era Strone. Capitolo 68 Quando Sarah lasciò la stazione di polizia erano passate le quattro. Un dottore l'aveva visitata. Il taglio in testa era superficiale. Il medico le aveva dato degli antidolorifici e le aveva messo un paio di punti. Il problema principale era la seria commozione cerebrale, e il medico insisteva per farla ricoverare subito e tenerla sotto osservazione. Sarah voleva andare a casa. Insistette a lungo. Doveva vedere suo figlio, e nessuno sarebbe riuscito a trattenerla. Il dottore e Breden dovettero cedere, nonostante fossero in totale disaccordo con lei, assicurandosi che a casa fosse seguita da qualcuno. Jacob, come sempre. Un agente in uniforme la accompagnò. Breden dovette rimanere alla stazione di polizia per spiegare all'ispettore furibondo tutta la storia della trappola. Strone era stato messo sotto chiave, per quello che ne sapeva lei. Dio, fai che buttino via le chiavi della sua cella. Iniziò a tremare in modo incontrollabile, pensando a quello che aveva rischiato, e pensando a quelle
povere donne che non avevano la fortuna di ritrovarsi una squadra di uomini a proteggerle. Si passò una manica sul viso, cercando di ripulirsi dal trucco mezzo sciolto. La parrucca bionda giaceva nel retro della macchina di Breden. Il viaggio di ritorno a casa sembrò non finire mai, e fu lasciata troppo sola con i suoi pensieri. Si era sempre raccontata di essere invincibile. Ora, anche l'ultima delle sue illusioni era stata spazzata via e non sarebbe mai più riuscita a guardare al mondo con gli stessi occhi di prima. Sapeva, d'istinto, che l'eredità e gli strascichi di quella violenza non se ne sarebbero andati mai più. L'agente l'accompagnò alla porta. Sarah si fermò un attimo prima di infilare la chiave nella serratura. Non voleva contaminare la sua casa con quello che le era successo quella notte. Non voleva contaminarla con la sua paura, con la violenza scatenata su di lei. Finalmente, al quinto tentativo, riuscì a controllare il tremore delle mani e inserì la chiave. Sulle gambe traballanti, salì le scale, strappandosi i vestiti di dosso e dirigendosi verso la doccia. Seguendo le istruzioni del dottore, stringendo i denti si infilò una cuffia di plastica prima di buttarsi sotto il getto d'acqua. Rimase lì dieci minuti, fino a che non riuscì più a reggersi in piedi. Poi si infilò un vecchio pigiama e uscì dalla sua stanza. La luce del corridoio era accesa, e quando aprì in silenzio la porta della camera di suo figlio, un fioco bagliore lo illuminò. Si accucciò vicino a lui, guardandolo attraverso le sbarre del lettino, ascoltando il suono del suo respiro, guardando il suo piccolo petto alzarsi e abbassarsi sotto il lenzuolino. Annusò il profumo di latte del suo alito e pianse in silenzio. Le sue dita attraversarono le sbarre per accarezzarlo piano. Jacob la stava aspettando. Improvvisamente, era diventato vecchio e fragile. Indossava la sua vestaglia scozzese, era spettinato e aveva un velo di barba grigia sul volto. Aveva un'espressione spaventata. "Oh mio Dio. Oh santo cielo. Cosa ti è successo? Cosa ti è successo bambina mia?" gemette, con voce lamentosa. Si sporse verso di lei e sfiorò leggermente i contorni deformati del suo viso. "Dio del Paradiso. Lo ammazzerò, quel bastardo. È stato quel Breden? È stato lui? Io..." "Lui mi ha salvato, Jacob. Lui mi ha salvato la vita". Insieme, scesero le scale, si sedettero vicino alla cucina a gas per stare più caldi. Jacob si prese un whisky e Sarah un bicchiere di tè zuccherato. A quel punto, Sarah iniziò a raccontare la sua storia.
Capitolo 69 Il suono della sveglia colpì la sua testa come il fragore di un martello pneumatico. Cercò di mettersi in piedi, corse in bagno e vomitò nel lavandino. Commozione cerebrale, shock, antidolorifici e stanchezza avevano formato un cocktail micidiale. Alzò la testa e si spruzzò l'acqua sul viso. Sbatté gli occhi e spiò attraverso le palpebre semichiuse per vedersi allo specchio. Toccò piano l'occhio nero, le labbra gonfie e spaccate, la guancia contusa. L'immagine di Strane mascherato, gli occhi cattivi che brillavano dai due tagli nel tessuto, che la guardavano con un odio spaventoso, le riempiva la mente. Vomitò ancora una volta. Quindici minuti nella doccia e si sentì appena un po' meno che morta. Si asciugò in fretta, indossò vestiti puliti. Erano le nove. Georgie si era svegliato presto e Jacob gli aveva dato la colazione. Ora stava facendo il primo pisolino della giornata. Sarah lo guardò, si beò della sua dolcezza e della sua innocenza, si gustò il sentimento di amore infinito che provava per lui e chiuse la porta in silenzio. Jacob era in cucina e stava bevendo del tè. Quando la videro, i suoi occhi espressero tutto il suo dolore. Era suo padre in tutto e per tutto, anche se non dal punto di vista biologico. Il dolore di lui era amplificato cento volte dal fatto che lei non lo aveva voluto rendere partecipe del suo piano e dei rischi che avrebbe dovuto inevitabilmente correre. Non gli aveva dato la possibilità di aiutarla, o forse di fermarla, e questa era una ferita che sarebbe guarita molto più lentamente delle contusioni di Sarah. "Come ti senti?" le chiese rigido. "Meglio, adesso che vedo te e il mio bimbo". "Be' certo. Bisogna dire che sei fortunata ad avere ancora la possibilità di vedere qualcosa. Se tu..." "Lo so. Me l'hai già detto ieri sera. Sono una stupida, un'irresponsabile, una madre negligente, non ero autorizzata a..." "Piantala. Ho sbagliato a dirti quelle cose. Sei una madre splendida. Non avrei detto quello che ho detto se non fossi stato fuori di me dalla disperazione. Stupida, sì. Sei stata una stupida. Non riesco ancora a capire perché hai voluto correre un rischio come quello. Non ha senso. C'è qualcosa che continui a non volermi dire". La guardò con i suoi occhi feriti. Sarah gli si avvicinò e gli prese una mano. "Jacob, ti ho detto tutto quello che potevo. Per favore, lascia perdere. Ho le mie ragioni: concedimelo. Sono cresciuta. Non ho scelto di avere dei segreti per capriccio, credimi". Lui tirò via la mano e si alzò in piedi. "Ti preparo la colazione. Sei bian-
ca come un lenzuolo... dove non sei nera e blu, s'intende". Erano le dieci e un quarto quando Sarah arrivò al Portobello. Il viso di John Redford era insonnolito, ma sorpreso. Rimase appoggiato allo stipite, distrutta, esausta. Redford la guardava con gli occhi semichiusi, intontito dal sonno. "Sarah, entra" si tolse i capelli dagli occhi. Indossava l'accappatoio dell'hotel: i suoi piedi nudi erano pallidi e vulnerabili. Sarah vide quello che avrebbe sempre dovuto vedere in lui: il ragazzino, l'innocente. Non sapeva niente. Nessuno glielo aveva ancora detto. Il salotto era scuro. Pesanti tendoni tenevano fuori la luce del giorno. Redford si sistemò in poltrona. Sarah si sedette di fronte a lui sul divano. "Ho brutte notizie" disse dolcemente. "Riguardano Strone". "Cosa c'è? Ero con lui qualche ora fa". "Riteniamo sia colpevole di più di venti stupri in Sud America, Nord America, Oriente e ora Europa". "Cosa?" Redford si svegliò improvvisamente. "E chi ci crede? Strone non è uno stupratore. Sarah, piantala con questa ossessione. Porca puttana, stai parlando della vita, della reputazione di una persona". Lei si alzò, accese le luci e lo guardò. "Cazzo! Cosa hai combinato?" Si alzò e le andò vicino. Tracciò con le dita i contorni sfigurati del suo viso, i lividi cangianti. Lei si scosse e lo spinse via. "Lo stupratore seriale ha colpito praticamente in tutti i posti in cui tu hai tenuto un concerto, sempre nella notte o all'alba del giorno dopo il concerto" disse lei, restando lontana da Redford, senza lasciarlo mai con lo sguardo. "Quando ho saputo di Carla e poi dello stupratore, ho pensato che potessi essere tu. Dovevo esserne sicura, così io e la mia squadra abbiamo studiato il modus operandi dello stupratore e abbiamo deciso di piazzare una trappola, usando me come esca. Quando sono venuta a salutarti nel camerino ti ho appiccicato sulla camicia un trasmettitore. Io e la squadra che mi copriva le spalle ti abbiamo seguito al Fallen Angel. Io ero la donna con la parrucca bionda e la divisa da cameriera. Quello era il tipo di donna che lo stupratore aggrediva. Ho lasciato il club insieme a te. Mi hai anche guardato. Tu avevi il tuo travestimento, io il mio. Te ne sei andato su una Volvo rossa. A quel punto pensavo che il pericolo fosse finito e ho fatto una passeggiata intorno all'isolato. Qualcuno mi ha seguito. Un uomo con un cap-
puccio nero, con due tagli per gli occhi". La sua voce all'inizio fredda e impersonale, ora iniziò a tremare. "Mi è saltato addosso, ho cercato di lottare, così ha iniziato a colpirmi. Il tutto è durato più o meno quarantacinque secondi, ma mi è sembrata un'eternità. Deve essere riuscito a colpirmi sei volte prima che la mia squadra arrivasse, lo bloccasse e lo arrestasse. Sono svenuta e mi sono svegliata alla stazione di polizia di Brick Lane. Mi hanno chiesto di provare a vedere se lo conoscevo, visto che non voleva parlare. Era Strone". Redford nascose il viso tra le mani. "Mio Dio, Sarah, è terribile. Mi dispiace che ti sia successa una cosa così orrenda. Cristo santo, dev'essere stato un inferno". "Già". Redford iniziò a camminare nervosamente. "Non ci posso credere. Mi ha detto che voleva fare due passi. Lo fa sempre, in ogni città. Esce a camminare, ecco perché anch'io lo faccio. Ma lui ha il suo anonimato, può andare dove vuole. Era diventato uno scherzo tra noi due. Le passeggiate nei quartieri bassi e pericolosi. E quando uscivamo insieme, pensava fosse una gran turbata indossare un travestimento anche lui. Pensavo che gli piacesse andare con le prostitute, non ci ho mai pensato più di tanto". Si fermò davanti a Sarah. "Mi sta per scoppiare la testa. Strone, uno stupratore seriale e tu... 'la squadra che mi copriva le spalle, trasmettitori elettronici'. Metterti in pericolo in questo modo. Ma chi cazzo sei, Sarah?" "Una donna che deve lavorare per mantenersi". "Ti ho detto una volta che per me sei una spia della Goldstein. È quello che sei, no? La faccenda dei numeri era solo un pretesto per spiarmi, vero?" "Non era un pretesto. Solo in parte, almeno. Qualcuno doveva pur controllare i tuoi scheletri nell'armadio. La Goldstein ha deciso che quel qualcuno ero io". "Come hai potuto farlo? A me, a te, a noi, intendo..." "Oh, John, no, ti prego. Non riesco a sopportarlo". "Rispondimi, Sarah. Non puoi arrivare qui, scaricarmi addosso quello che hai combinato negli ultimi mesi e aspettarti che io stia seduto qui buono buono a dirti di sì. Questa è la vita vera, non qualche giochetto finanziario che ha me come pegno. Questo è qualcosa che coinvolge la gente vera. Come noi due". "Non c'è un noi due, John" disse Sarah lentamente. "Non c'è mai stato".
"Lo credi sul serio?" "Credo quello che devo credere". "Allora è per questo che hai fatto l'amore con me? Per lavoro?" Sarah lo schiaffeggiò. Redford si strofinò la guancia arrossata, ma sembrava quasi soddisfatto di avere suscitato in lei un minimo di passione. "Tu cosa pensi?" chiese Sarah. "Cosa ne so di cosa penso? Mi hai mentito fin dal primo momento". "No. Non nel Wyoming" disse lei a bassa voce. "E dopo di allora, tornati a casa, ho fatto di tutto per evitare di stare con te. Quando poi è successo non aveva niente a che fare con il lavoro, credimi". Redford fece una risata amara. "La fiducia è un articolo che scarseggia, qui intorno. Tu hai perfino pensato che io fossi uno stupratore seriale..." "Mi sono sbagliata. Comunque una volta l'hai fatto, e non si metteva bene, per te". Redford si passò la mano sui capelli. "La polizia mi è venuta a trovare. Un ispettore". Sarah lo guardò acutamente. L'iscritto, istruttore, istigatore... Un ispettore di polizia. Avrebbe dovuto capirlo dall'atteggiamento dell'uomo, dal suo abbigliamento stazzonato, dal crollo delle difese della rockstar. "Voleva vedermi a proposito di una certa signorina di nome Carla Parton" disse Redford, pronunciando le parole, deliberatamente senza emozioni, gelido. "Alias Jenny White, alias D.D. Simmonds". Sarah sentì le ginocchia che le tremavano. L'aggressione, la commozione cerebrale, il terrore e la stanchezza, e ora la sensazione sgradevole che qualcosa di terribile stesse per caderle addosso, la fecero quasi svenire. Si accomodò sul divano, stringendosi le ginocchia. "La signorina Carla Parton, attricetta fallita, residente in varie cliniche psichiatriche dove è stata sempre curata per atteggiamento psicotico, è ricercata in cinque nazioni per minacce, ricatto ed estorsione" elencò Redford. "Una certa rockstar, della quale non sono autorizzato a dire il nome, l'ha sfidata quando lei lo ha accusato di stupro mentre lui era in stato confusionale. Ha chiamato la polizia e, nel frattempo, gli uomini della sicurezza hanno bloccato la signorina White, come si faceva chiamare in quella situazione. I poliziotti le hanno scattato una foto ricordo e, facendo una ricerca incrociata, sono saltate fuori le informazioni su di lei: una lista di condanne lunga come le sue gambe! Aveva già provato con tre artisti prima di me. Tutti e tre le hanno dato dei soldi per rimediare al fatto di averle
fottuto la vita. Era così credibile, nel suo racconto, ed era tanto furba a trovare le vittime, che l'unica possibilità era quella di essere colpevoli senza riuscire a ricordarselo". Sarah nascose il viso tra le mani. Si sedette, col fiato che le scaldava le dita. Rivedeva il viso di Carla, risentiva la sua voce, il dolore, le lacrime. Aveva voluto crederle, aveva voluto giudicare Redford, vederne un lato mostruoso, così da potersene liberare, da potersi affrancare dall'amore che provava per lui, per tenere suo figlio lontano da lui. Per non dover dividere suo figlio con nessuno. Aveva creato un mondo distorto dal suo egoismo, dai suoi bisogni e dal suo amore. Un altro pensiero la inchiodò. "Forse Carla diceva la verità. Forse è stata veramente stuprata, non da te ma da Strone". Redford la guardò silenzioso e truce. "Non era riuscita a vedere in faccia chi l'aveva stuprata dopo il concerto" continuò Sarah. "La sicurezza l'aveva spedita nel tuo camerino. Lei era entrata e chiunque fosse nella stanza era protetto da un paravento. Poi le luci si erano spente e lui le era saltato addosso. Non aveva mai visto il colpevole, ma aveva dato per scontato che eri tu, visto che si trovava nel tuo camerino'". "Strone ha il suo camerino personale, per calmarsi, per poter sovrintendere le operazioni, come dice lui" disse Redford secco. "Era vestita con l'uniforme da cameriera. Tutte le donne che pensiamo abbia stuprato Strone indossavano divise da cameriere. Carla non poteva conoscere un dettaglio come questo. Se lei è stata stuprata da Strone, forse questo ha fatto scattare qualcosa nel suo cervello e si è messa a pensare che tutte le rockstar che ha ricattato le avevano usato violenza". Sarah si riprese la testa fra le mani. "Forse. Tutto è possibile" disse Redford. "È molto convincente, sia che ne sia convinta lei, sia che non lo sia. Mi ha preso per il culo. Le ho pagato un milione di dollari, cazzo!" aggiunse, disgustato. Sarah decise di non dirgli che lo sapeva già. Camminò a grandi passi nella stanza, con la mente sconvolta dall'uragano di sensazioni. "Perché non me l'hai detto?" Redford fece una risata amata. "Era troppo tardi, no, Sarah? Ti eri già fatta la tua idea ben precisa su John Redford". Sarah iniziò a piangere. Si alzò e fuggì dalla stanza. Capitolo 70
Prese un taxi in Kensington Park Road e si diresse verso la Goldstein. James Savage era la prossima persona da affrontare. Appena il taxi si avvicinò a Liverpool Street, il suo cellulare squillò. Era Breden. Dopo essersi accertato che Sarah stava relativamente bene, la sua voce si fece eccitata. "Ho appena parlato con la polizia. Cawdor ha confessato". Lo shock rese Sarah muta per un attimo. "Confessato? Non lo avrei mai pensato. Pensavo sarebbe rimasto zitto per tutta la vita". "No. Ha confessato un'ora fa e sembra che non voglia più tacere. Ha tirato fuori tutto. Ti avevo detto che stava decompensando, no? Che sembrava volesse farsi prendere? Sembra sollevato". La mente di Sarah partì in quarta. "Ha parlato di Carla?" "Sì. Pare sia stata la prima". "Tanto tempo fa? E quante donne ha violentato da allora?" per un attimo, l'orrore la sopraffece. "Tu l'hai fermato, Sarah" disse Breden. "Il tuo coraggio l'ha fermato". "Giusto, bravo. Ne ho proprio bisogno adesso, di coraggio. Sto andando da Savage per raccontargli tutto". "Buona fortuna" disse Breden. "Vuoi che ti tenga fuori?" chiese Sarah. "Si incazzerà anche con te". "Sicuramente, ma non ti preoccupare. Prima o poi salterebbe fuori la verità. Dovrò prepararmi a una bella lavata di capo". Quando Evangeline vide la faccia di Sarah e udì la sua ferma richiesta di vedere Savage immediatamente, non esitò e lo interruppe nel bel mezzo di una riunione con un potenziale cliente. L'aria rabbiosa di Savage svanì appena vide la faccia di Sarah. "Ma che cazzo ti è successo ancora?" le corse incontro, poi si bloccò, temendo di farle male. "Possiamo sederci?" chiese Sarah, barcollando per un altro attacco di nausea. Savage le si avvicinò sicuro, questa volta, le prese un braccio e la fece sedere sul divano, "Evangeline" chiamò. "Porta subito un bicchiere d'acqua". Sarah bevve lentamente l'acqua che Evangeline le aveva portato e iniziò a stare meglio. Savage la guardava sconvolto. "Insomma, parla!" le sussurrò a denti stretti. "Dimmi chi è stato". "Aspetta" disse Sarah alzando una mano, esausta. "È una lunga storia. Sarà meglio che parta dall'inizio". Le ci volle un'ora, e altri due bicchieri d'acqua. Gli disse come era arrivata alla decisione di attirare Carla in una trappola. Gli disse come l'aveva
catturata e gli raccontò della sua storia terribile, poi gli parlò dell'articolo del Times sugli stupri e dei sospetti su John Redford. Infine, gli spiegò perché aveva fatto da esca per lo stupratore, con Breden che la proteggeva. "Ma se non era Redford, chi cazzo era?" urlò Savage quando lei arrivò verso la fine della storia. "Strone". "Porca puttana. Vaffanculo!" disse, alzandosi in piedi. "E io che pensavo di avere già visto il peggio. Ma guarda che roba. È un mondo di pazzi". Si avvicinò a Sarah e si chinò su di lei. "Stavi per farti ammazzare. Sarah, perché diavolo lo hai fatto? Prima quella donna, poi lo stupratore... Hai qualche insana tendenza suicida o cosa?" Sarah si morsicò il labbro. Il suo cuore tremava, mentre cercava di decidere cosa dirgli e cosa omettere. "Avevo delle ottime ragioni". "Quali ragioni? Cosa può giustificare un casino del genere?" "Carla Parton non ha minacciato solo me, James" disse Sarah con voce piatta. "Ha minacciato mio zio e mio figlio". Savage si bloccò. Guardò Sarah ancora una volta sotto shock. "Tuo figlio?" "Ho un bimbo di nove mesi. Lui è la ragione per cui ho accettato questo incarico, è la ragione per cui ho giocato duro con te per la mia parcella, è la ragione per cui sono andata a scovare Carla Parton. Ha minacciato di uccidere Georgie". Le lacrime iniziarono a scorrerle sul viso mentre pronunciava il nome di suo figlio. Le asciugò e continuò. '"Come potevo lasciar perdere? Ho messo una sorveglianza a tempo pieno su mio zio e mio figlio e sono partita per Venezia". Sarah fece un sospiro. "Eri così strana in tante cose. Non riuscivo a capire cosa ti era successo, ma adesso tutto ha senso. Soprattutto Venezia. Un minuto non volevi andare, quello dopo insistevi per andare". "Nel frattempo lei ha minacciato Georgie e Jacob". Savage annuì. "Perché non me ne hai parlato?" "Non so. Tu avevi già i tuoi problemi, e io pensavo di risolvere i miei da sola". "Giocando a fare dio". "Se vuoi metterla così. "Lo sapevo che mi stavi fregando. Porca puttana, Sarah, non riesco neanche a ragionare con freddezza. È troppo, per un solo giorno. Stavolta ti sei comportata come una pazza scatenata".
"Dici?" chiese Sarah che sentiva la rabbia crescere dentro di lei. "Tu volevi che io indagassi, che scoprissi chissà cosa, e io l'ho fatto per te. Ti ho tirato fuori la talpa, ho scoperto che Redford stava subendo delle minacce, ho trovato chi lo ricattava, e ho scoperto che Strone è uno stupratore seriale. Il tuo accordo prezioso, adesso, si può fare, è salvo. Sarà incasinato dal processo di Strone, ma quello che conta è l'innocenza di Redford". "Pensi che io debba continuare con l'accordo?" chiese Savage incredulo. "Perché no? Se non lo farai, tutti i miei sforzi, i rischi che ho corso, le botte che ho preso, non saranno serviti a niente". Savage iniziò a fare una serie di respiri profondi come cercando di combattere la nausea. "Sei incredibile. Immagino che sia stata tu a obbligare Breden ad aiutarti, no?" "Gli ho reso difficile dirmi di no. Non voleva accoltellarti alle spalle, credimi". Savage fece una risata stridula. "Non ti preoccupare. Non me la prenderò con lui. Gli farò sicuramente una scenata, ma so che quel poveraccio non aveva speranze di resisterti". "Cosa vuoi dire?" "È pazzo di te, Sarah" disse Savage. "Non mi dire che la signorina Super Istinto non se n'era accorta". "No, non me n'ero accorta" replicò Sarah seccata. "E sono sicura che ti stai sbagliando". Savage si sedette alla scrivania e tirò fuori il libretto degli assegni. Prese un assegno, lo compilò e lo porse a Sarah. "Eccoci qui. Non posso proprio dire che tu non te li sia meritati, ma non so cosa darei perché tu fossi stata meno incosciente". "Non c'era un modo meno rischioso di farlo, James. Lo sai, lo devi sapere dentro di te. Tu preferisci non conoscere i nostri metodi, ma premi per i risultati". Savage si fermò un attimo prima di darle l'assegno. "Forse hai ragione. Comunque, eccoti i centomila per il lavoro di Redford e i cinquantamila per la talpa. Dovremmo essere a posto, no?" Sarah intascò l'assegno. "Grazie, James. Siamo a posto. Solo una domanda. Mi chiamerai ancora?" Savage alzò un sopracciglio. "Bel momento per chiedermelo, complimenti". "Ho bisogno di saperlo".
"Per mantenere il tuo bimbo?" "Già". Savage sorrise con una sorprendente dolcezza. "Curati, guarisci, goditi il tuo piccino. E non ti preoccupare". "E l'accordo?" Pensò a Redford e al suo sogno di ritirarsi. "Andrai avanti?" Savage aspettò un po' a rispondere. "Non lo so. Ci devo pensare. È un tale casino, Sarah. All'esterno, la stampa ci terrà sotto battuta, e all'interno dovrò litigare con Zamaroh. Come cazzo farò a spiegarle quello che è successo? O cercare di tenerglielo nascosto? Sarà come un vulcano in azione". "Fallo, James" disse Sarah, dirigendosi verso la porta. "È la cosa giusta da fare, e tu lo sai. Il casino è finito". "Dici?" chiese Savage, lentamente. "È quello che mi sto chiedendo". Capitolo 71 Sarah prese un taxi in Liverpool Street e si accasciò sul sedile. La sua mente tornava all'incontro con Redford, alle rivelazioni sui ricatti di Carla e alla confessione di Cawdor. Come aveva potuto commettere un errore di valutazione così spaventoso? Perché aveva creduto subito che Redford fosse colpevole? Il lato professionale e quello personale si confusero, finché non rimase che il suo profondo senso di inettitudine e di colpa. Aveva amato John Redford, a prescindere dal fatto che era una rockstar. Perché era così terrorizzata dalle ragioni per cui lo amava? Non voleva diventare famosa. Non avrebbe mai potuto scegliere un personaggio pubblico, tantomeno uno conosciuto in tutto il mondo. Adorava l'anonimato. Amava l'uomo, non la rockstar, e la rockstar le faceva paura. Così, nella sua mente, era riuscita a distruggerlo, ad assassinare il loro amore. Arrivò a casa vicina al collasso, il viso rosso e gonfio di lacrime. Prese Georgie dalle braccia di uno sbalordito Jacob. "Cos'è successo, ancora?" "Sono stata un'idiota" singhiozzò lei, cercando disperatamente di non piangere davanti a Georgie. "Ho fatto un tale casino, tu non ci crederesti mai. se te lo spiegassi. Io ho..." Il ronzio del citofono la interruppe. "Oh, ma chi cazzo c'è adesso?!?" Corse lungo il corridoio e spalancò la porta. John Redford stava lì, sulla soglia. Sarah fece un gemito angosciato. Si girò per non fargli vedere Georgie, senza molta fortuna. "E lui chi è?" chiese Jacob, comparendo alle spalle di Sarah. "Me ne de-
vo liberare?" le chiese con voce stridula, urlando come un pazzo. Sarah guardò Jacob e si girò lentamente a guardare Redford, i cui occhi increduli saettavano dal viso di Sarah a quello di Georgie. "No. Non ce n'è bisogno". Parlò a Redford. "Sarà meglio che entri". Sarah si mise a sedere sul divano e strinse a sé Georgie con forza. Redford si mise di fronte a lei. Jacob rimaneva sulla soglia, indeciso sul da farsi. "Quanto ha?" chiese Redford. Il suo tono di voce, normalmente tranquillo, ora era scosso e tremante. "Nove mesi e qualche giorno" rispose Sarah. Riusciva a vedere Redford che faceva i calcoli. "C'è bisogno che ti chieda qualcos'altro?" chiese lui lentamente. Sarah non si era mai sentita così indifesa, così nuda. "No. Non c'è bisogno". Redford nascose il volto tra le mani. "Perché non me l'hai detto?" chiese, angosciato. "Come hai potuto farlo?" "Fare cosa?" chiese Sarah, la voce piena di terrore. "Vuoi dire non abortire?" "No, dannazione! Come hai potuto tacere? Come hai potuto tenermelo lontano? Come cazzo hai potuto farmi anche questo?" Lei lo guardò con gli occhi sgranati e vide che negli occhi di lui stava crescendo la stessa furia selvaggia che aveva visto nel Wyoming. Poi ci fu passione, poi rabbia, e poi un'espressione di estrema tenerezza. "Oh, mio Dio! Oh Dio Santo!" esplose Jacob. "Ma tu allora sei il padre di Georgie, vero?" Sia lui che Redford guardarono Sarah per avere una conferma della verità che si leggeva anche troppo bene negli occhi chiari del bimbo. Sarah si girò verso Redford, e rispose direttamente a lui. "Sì. Tu sei il padre di Georgie". Capitolo 72 L'anno seguente Estratti dal Word 3 giugno Il processo sensazionale dello Stupratore del Rock, come è stato soprannominato, è finito oggi quando Strone Cawdor
è stato riconosciuto colpevole dalla giuria dell'Old Bailey. Strone, il manager della rockstar John Redford, è stato riconosciuto colpevole di quindici stupri effettuati in un periodo di diciotto mesi durante il tour mondiale di Redford. L'Interpol, l'FBI e le forze di polizia di oltre dodici nazioni stavano cercando lo stupratore seriale, che è stato arrestato grazie agli sforzi di una consulente finanziaria e investigatrice privata. Sarah Jensen, in passato nota trader del commercio estero presso l'ICB, e ora collegata alla Goldstein International come consulente freelance, stava tornando a casa dopo una visita al bar Fallen Angel nei pressi di Spitalfields Market. Era l'alba del 4 di ottobre dell'anno scorso quando Strone, che indossava un cappuccio nero, è uscito dalle tenebre per aggredirla. Dick Breden, anche lui al Fallen Angel, ha udito le urla della Jensen ed è accorso in suo aiuto. Breden ha poi immobilizzato Cawdor e ha chiamato la polizia. Sarah Jensen, un tempo conosciuta come una delle FX trader più brave della City, non è estranea alla violenza. Lasciò la ICB quattro anni fa dopo una serie di omicidi ad alto profilo che colpirono l'azienda leader della City. Ai tempi, le fu suggerito... Sarah buttò a terra il giornale. "Se Roddy Clark continua a scavare a fondo, prima o poi si troverà in Australia!" 4 giugno Dopo la condanna di ieri di Strone Cawdor, lo Stupratore del Rock, accusato di aver compiuto quindici stupri in tutto il mondo, Jim O'Cleary, il capo della sicurezza di John Redford è stato condannato a otto anni di prigione per aver ostacolato il corso della giustizia. O'Cleary è stato ritenuto colpevole di avere fatto pressioni su testimoni chiave nel processo a Strone Cawdor. È stato anche accusato e riconosciuto colpevole di complicità in stupro. L'evidenza ha dimostrato che era a conoscenza di alcuni degli stupri effettuati da Cawdor, ma si è tenuto l'informazione per sé in nome di un mal riposto senso di fedeltà. Sarah si interruppe ancora, disgustata. 6 giugno. La Goldstein International ha lanciato la più grande operazione
di mobiliarizzazione, tipo i Bowie Bonds, per intenderci, che sia mai stata organizzata. La stella del rock John Redford ha lanciato il catalogo dei suoi vecchi successi come base per un'emissione obbligazionaria eccezionale. La Goldstein ha rastrellato centodieci milioni di dollari per Redford. Le obbligazioni, valutate con una A singola da Moody's, sono state acquistate da dieci investitori istituzionali. Redford non sembra avere patito per lo scandalo esploso intorno al suo vecchio manager, Strone Cawdor, condannato la settimana scorsa a ventidue anni di carcere per stupro seriale. In effetti, le vendite dei dischi di Redford sembrano avere addirittura avuto un beneficio dalla pubblicità generata dal processo, quando la stella è stata chiamata per quattro volte a testimoniare contro il suo manager. Altre notizie nella rubrica "Il tam-tam della Giungla d'Asfalto". 6 giugno IL TAM-TAM DELLA GIUNGLA D'ASFALTO di Roddy Clark L'imperatore della Goldstein International, James Savage, ha divorziato da Fiona, la sua moglie ventottenne. Fiona Savage si è trasferita da Richard Deane, una giovane stella in ascesa nella principale concorrente della Goldstein, Uriah. È d'obbligo chiedersi: Cosa si saranno detti sul cuscino?... Stupida vacca, pensò Sarah. 10 giugno "Donne in Crisi", un'organizzazione che supporta un'ampia gamma di attività, dalla chirurgia plastica per donne che hanno subito clitoridectomie, a rifugi per le donne maltrattate e i loro figli, è al colmo della felicità dopo che un anonimo benefattore ha donato alla sua causa cinque milioni di dollari. «Una splendida donna con lunghi capelli neri è venuta con una busta. Ha aspettato una mezz'ora nella hall, dopo aver chiesto un incontro con il direttore, Lydia Priors, poi le ha semplicemente dato la busta e le ha detto "Ne faccia buon uso", prima di sparire. Il direttore ha lasciato la busta chiusa sulla scrivania ed è stato solo dopo pranzo che le è tornata in mente». Riporta la segretaria del direttore, Linsday McManners. McManners dice che ha sentito un urlo lacerante ed è corsa nell'ufficio della Priors per trovare il suo boss che faceva salti di gioia, brandendo un assegno di cin-
que, dico, cinque splendidi milioni di dollari. Sarah appoggiò il giornale con un sorriso. Si piegò su Georgie e lo baciò. "Vieni a respirare un po' di aria fresca prima che ti faccia il bagno e ti metta a nanna, amore?" Lui scosse violentemente la testa ed enunciò un perfetto e definitivo "No!" prima di ributtarsi sul suo puzzle. Sarah sorrise. "Va bene, angioletto. Sto via solo cinque minuti". Si guardò intorno, si assicurò che non ci fossero pericoli per il bambino, poi chiuse la porta, uscì sul balcone e respirò l'aria tonificante. L'estate era arrivata all'improvviso, sulle montagne e si era portata con sé una ventata di euforia. Ogni giorno, la neve che aveva incappucciato i Tetons come un cappello fino a due settimane fa, si disfaceva sempre di più. Ora era solo sulle vette più alte. Il sole iniziava a tramontare, arrossando le montagne di terracotta, lasciando la stessa immagine al di sotto, riflessa nel lago che ogni giorno si gonfiava della neve che si scioglieva. Sarah scese i gradini e uscì sull'erba folta. Camminò verso il lago, e si arrampicò su un masso coperto dal muschio. Da lì, alzò il viso verso il cielo, godendosi l'ultimo sole della giornata, prima che scendesse come una meteora dietro alle torri di pietra. Poteva respirare l'aria fresca del muschio e dell'acqua pulita del lago. Dal suo punto di vedetta, poteva vedere la vallata con le sue pianure, con le montagne che circondavano il panorama da destra a sinistra. Vide un alce passare delicato da un boschetto a un altro. Si fermò a metà strada. Le sue orecchie si mossero in avanti, poi all'indietro, poi si girò verso di lei. Doveva essere a trenta metri di distanza. Lei rimase ferma. Gli alci possono essere pericolosi, ma lei aveva la sensazione che volessero solo essere lasciati in pace. L'animale rigirò la testa e sembrò guardare un punto ben preciso. Sarah cercò di capire cosa aveva attirato la sua attenzione. Poi, lentamente, vide che si avvicinava un puntino, che crebbe diventando uno splendido cavallo montato da un alto cavaliere con un cappello da cowboy. Il cavallo era dello stesso color terracotta delle montagne incendiate dal sole che tramontava. Riusciva a vedere da lontano l'eleganza e la sicurezza del suo portamento, mentre trotterellava verso di lei. L'alce guardò interessato, prima di scomparire nel boschetto. Sarah scese dal masso e tornò a casa. Georgie stava giocando felice. Lo prese in braccio e uscì con lui. Il cavallo rallentò e si avvicinò al trotto len-
to. A venti metri di distanza, il cavaliere scese di sella, fece passare le redini attorno al pomolo e camminò verso di loro con le braccia spalancate. Georgie si dimenò in braccio alla mamma fino a quando lei non lo fece scendere. Trotterellò verso l'uomo sorridente e pronunciò una parola, ripetendola all'infinito. "Papi". FINE