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ED McBAIN OTTANTA MILIONI DI OCCHI (Eighty Million Eyes, 1966) A Judy e Fred Underhill I Quel venerdì pomeriggio, rientrando dopo aver fatto colazione, Miles Vollner trovò l'uomo seduto su una panca, nell'ingresso. Vollner lo guardò, poi guardò con espressione interrogativa l'impiegata. La ragazza si strinse nelle spalle, e riprese a battere a macchina. Vollner entrò nel suo ufficio e subito la chiamò al telefono. — Chi è quel tipo che sta aspettando lì fuori? — chiese. — Non lo so, signor Vollner — rispose l'impiegata. — Come sarebbe a dire, non lo sapete? — Non ha voluto dirmi il suo nome. — Ma gliel'avete chiesto? — Sì. — E lui, cos'ha detto? — Signor Vollner, è seduto proprio qui davanti — disse la ragazza abbassando la voce il più possibile. — Preferirei non... — Si può sapere cosa vi succede? — disse Vollner. — Questo è il mio ufficio, non il suo! Cosa vi ha risposto quando gli avete chiesto il nome? — Mi... mi ha detto di andare al diavolo. — Cosa? — Sì, signor Vollner. Mi ha detto così. — Vengo subito — disse Vollner. Invece non andò subito perché tra la posta del pomeriggio, che la segretaria gli aveva messo sulla scrivania poco prima che lui arrivasse, vide una lettera che destò il suo interesse. L'aprì, la lesse in fretta e sorrise compiaciuto. Era un grosso ordinativo da parte di un rivenditore del Midwest, che da sei mesi Vollner sperava di accaparrarsi come cliente. L'azienda di Vollner era piccola ma si stava sviluppando. Produceva apparecchiature per radio e televisioni nella fabbrica oltre il fiume Harb, nello stato confinante e lì, nella Shepherd Street, aveva gli uffici amministrativi e commerciali, dove lavoravano quattordici persone. I dipendenti della fabbrica erano duecentosei. Vollner sperava di raddoppiare, entro un anno, tanto il perso-
nale impiegatizio che quello della fabbrica, e magari triplicarlo entro due. La grossa ordinazione del commerciante del Midwest favoriva le sue speranze, e gli aveva fatto un immenso piacere. Tornò serio di colpo ricordandosi dell'uomo che aspettava là fuori. Sospirò, andò alla porta, l'aprì, e percorse il corridoio fino all'ingresso. L'uomo era ancora seduto là. Poteva avere ventitré o ventiquattro anni, era pallido, con la faccia lunga, gli occhi scuri dietro le palpebre semiabbassate, di corporatura vigorosa. Era sbarbato con cura e ben vestito, con un soprabito grigio sopra un completo grigio più scuro. In testa aveva un cappello floscio, grigio perla. Stava seduto con le braccia incrociate e le gambe distese, completamente a suo agio. Vollner gli si fermò di fronte. — Posso esservi utile? — chiese. — No. — Cosa fate qui? — Non è affar vostro — disse l'uomo. — Spiacente di contraddirvi, ma è affar mio, invece — disse Vollner. — Sono il titolare della ditta. — Ah, sì? — si guardò attorno e sorrise. — Vi siete fatto un bel posticino. L'impiegata aveva smesso di scrivere a macchina e stava ascoltando il duetto. Vollner voltava le spalle alla ragazza, ma ne sentiva la presenza. — Purtroppo, se non mi dite che cosa volete — riprese — dovrò pregarvi di andarvene. L'uomo continuava a sorridere. — Non ho nessuna intenzione di dirvi che cosa voglio, e nemmeno di andarmene. Per un attimo Vollner rimase senza parole. Si voltò a guardare l'impiegata, poi tornò a rivolgersi all'uomo. — In questo caso, dovrò chiamare la polizia — disse. — Chiamatela, e ve ne pentirete. — Lo vedremo — disse Vollner, e si avvicinò alla scrivania della ragazza. — Signorina Di Santo, volete chiamare la polizia, per favore? L'uomo si alzò. Era molto più alto di quanto sembrava vedendolo seduto, poco meno di un metro e novanta, con spalle larghe e mani enormi. Andò verso la scrivania, e sempre sorridendo disse: — Signorina Di Santo, se fossi in voi non toccherei quel telefono. La signorina Di Santo si inumidì le labbra e guardò Vollner. — Chiamate la polizia — ripeté Vollner.
— Signorina Di Santo, se solo toccate il ricevitore, vi rompo un braccio. È una promessa. La ragazza esitava. Riguardò Vollner, il quale corrugò la fronte, e disse: — Non importa, lasciate stare, signorina — e senza aggiungere altro andò alla porta, uscì nell'atrio e prese l'ascensore. Durante la discesa la collera ebbe il tempo di montargli al cervello. In un primo momento aveva pensato di chiamare la polizia da un telefono pubblico. Poi decise che la cosa migliore era cercare un agente di servizio lì attorno, e portarlo su direttamente. Erano le due del pomeriggio, e la folla dei compratori pomeridiani intasava le strade. Un agente dirigeva il traffico all'incrocio della Shepherd con la Settima Strada. Vollner raggiunse il centro dell'incrocio, e disse: — Agente, devo... — Un momento — disse il poliziotto. Diede un colpo di fischietto e sollecitò con un cenno un'ondata di macchine in arrivo, poi si rivolse a Vollner. — Cosa desiderate? — chiese. — Nel mio ufficio c'è un uomo che si rifiuta di dirci cos'è venuto a fare. — Sì? — disse il poliziotto. — Sì. Ha minacciato me e una mia impiegata, e non vuole andar via. — Sì? — il poliziotto guardava Vollner con aria scettica. — Sì. Vorrei che veniste su con me per aiutarmi a mandarlo via. — Voi vorreste, eh? — Sì. — E se vengo con voi, chi pensa al traffico di questo incrocio? — disse il poliziotto. — Ma quell'uomo ci ha minacciato — disse Vollner. — Mi sembra più importante di... — Questo è uno degli incroci di maggior traffico, e voi mi chiedete di piantare qui tutto per venire con voi. — Ma non dovreste occuparvi di... — Non mi rompete le scatole — disse il poliziotto, e diede un colpo di fischietto, alzò un braccio e segnò via libera alle macchine di destra. — Qual è il vostro numero di matricola? — domandò Vollner. — Non disturbatevi a farmi rapporto — rispose il poliziotto. — Mi hanno assegnato questo incrocio, e si aspettano che io non mi muova di qui. Se vi serve un poliziotto, usate il telefono. — Grazie — disse Vollner rigido. — Grazie infinite. — Non c'è di che — disse con disinvoltura il poliziotto e, dopo un'occhiata al semaforo, soffiò ancora nel suo fischietto. Vollner tornò sul mar-
ciapiede, e stava per entrare nella tabaccheria d'angolo, ma vide un altro agente. Gli si avvicinò camminando in fretta, ancora schiumante collera, e disse tutto d'un fiato: — Nel mio ufficio c'è un uomo che rifiuta di andarsene e minaccia i miei impiegati. Sentiamo un po' voi che cosa proponete di fare. L'agente rimase colpito dalla tirata di Vollner. Era molto giovane, e nuovo di mestiere. Sbatté le palpebre e disse subito: — Vengo io con voi. Dov'è il vostro ufficio, signore? — Da questa parte — rispose Vollner. I due uomini si avviarono. Il poliziotto, che disse di chiamarsi Ronnie Fairchild, aveva l'aria di essere deciso e volonteroso, e la conservò finché entrarono nell'atrio del palazzo, poi cominciò a manifestare le prime esitazioni. — L'uomo è armato? — chiese. — Non credo — rispose Vollner. — Perché, se è armato, è meglio che chieda rinforzi. — Secondo me, potete benissimo cavarvela da solo — disse Vollner. — Credete? — disse Fairchild, dubbioso, ma Vollner era già entrato nella cabina dell'ascensore. Ne uscirono al decimo piano, e Fairchild rinnovò le sue esitazioni: — Forse dovrei informare il mio comando — disse. — Dopo tutto... — E intanto che voi perdete tempo a telefonare, quello può ammazzare qualcuno — insinuò Vollner. — Eh, già — disse Fairchild, titubante. Se non avesse telefonato per chiedere aiuto, pensava, a finire ammazzato sarebbe magari stato lui. Si fermò davanti alla porta dell'ufficio di Vollner. — È qui? — Sì. — Bene, entriamo. Entrarono. Vollner andò diretto all'uomo, che si era rimesso a sedere, e disse: — Eccolo qui, agente. Fairchild spinse il petto in fuori e si avvicinò. — Allora, che cosa sta succedendo qui? — disse. — Succedendo? Proprio niente. — Quest'uomo — e indicò Vollner — mi dice che non volete andarvene. — È vero. Sono venuto per vedere una ragazza. — Ah, ecco — disse Fairchild, pronto ad andarsene. Era chiaro: si trattava di un romanzetto sentimentale. — Se è così... — Quale ragazza? — chiese Vollner. — Cindy.
— Fate venire qui Cindy — disse Vollner all'impiegata, che si alzò svelta e corse giù per il corridoio. — Perché non mi avete detto che siete un amico di Cindy? — Non me l'avete chiesto — rispose l'uomo. — Sentite, se si tratta di una faccenda privata... — disse il poliziotto. — No, aspettate un momento — interruppe Vollner, e trattenne Fairchild per un braccio. — Cindy arriverà subito. — Molto bene — disse l'uomo. — È solo Cindy che voglio vedere. — Ma... voi chi siete? — chiese Vollner. — E chi siete voi? — Io sono Miles Vollner. Sentite, giovanotto... — Molto piacere di conoscervi, signor Vollner — disse l'uomo, e sorrise. — Come vi chiamate? — Credo proprio che non ve lo dirò. — Agente, chiedetegli voi come si chiama. — Qual è il vostro nome signore? — chiese Fairchild. In quel momento tornò l'impiegata, seguita da una ragazza alta, bionda, vestita di blu, con scarpe a tacco alto dello stesso colore. La ragazza bionda si fermò accanto alla scrivania, e disse: — Mi avete fatto chiamare, signor Vollner? — Sì, Cindy. C'è un vostro amico che vuole vedervi. Cindy si guardò attorno. Era proprio una bella ragazza. Ventidue anni, vita sottile, busto fiorente, fianchi morbidi, capelli tagliati corti alla sbarazzina, occhi azzurri intonati al colore del vestito. La ragazza guardò Fairchild e l'uomo in grigio, poi si rivolse, perplessa, a Vollner. — Un mio amico, avete detto? — chiese. — Quell'uomo dice di essere venuto per voi. — Per me? — Dice di essere un vostro amico. Cindy guardò ancora l'uomo in grigio, poi scosse la testa. — Non lo conosco — disse. — No, eh? — No. — Lo immaginavo. — Sentite, cos'è questa storia? — disse Fairchild. — Se non mi conosci, mi conoscerai, bella — disse l'uomo. Cindy lo guardò freddamente. — Ne dubito molto — disse, poi si voltò
e fece per andar via. Di scatto l'uomo si alzò, e l'afferrò per un braccio. — Un momento — disse. — Lasciatemi andare! — Tesoro, non ti lascerò mai andare. — Lasciate in pace quella ragazza — disse Fairchild. — Non abbiamo bisogno di piedipiatti — rispose l'uomo. — Toglietevi di torno. Fairchild fece un passo avanti, sollevando la mazza. L'uomo si girò, e piantò un sinistro nello stomaco del poliziotto. Fairchild si piegò in due, e nello stesso momento l'altro lo colpì con forza sotto il mento. Per la violenza del pugno, il poliziotto barcollò all'indietro e finì contro la parete, e mentre, stordito, cercava di estrarre la pistola, l'uomo in grigio gli diede un calcio all'inguine. Fairchild cadde, gemendo. L'altro lo prese ancora a calci, due volte, alla testa, e poi più volte allo stomaco. Cindy si era messa a correre lungo il corridoio chiamando aiuto, e l'altra ragazza stava strillando. Vollner aspettava coi pugni serrati che l'uomo si voltasse per aggredire lui. Invece quello sorrise, e disse: — Dite a Cindy che mi rivedrà — e se ne andò. Immediatamente, Vollner afferrò il telefono. Uomini e donne stavano accorrendo dal corridoio. Nell'ingresso, la ragazza stava ancora strillando. Vollner compose in fretta il numero della polizia, da dove lo misero in comunicazione con l'87° Distretto. Rispose il sergente Murchison, il quale assicurò Vollner che avrebbe mandato immediatamente un poliziotto e che più tardi o al massimo la mattina seguente, sarebbe andato là un agente investigativo. Vollner lo ringraziò e depose il ricevitore. Gli tremavano le mani. La ragazza stava ancora gridando. In un'altra zona dell'87° Distretto, in una traversa di Culver Avenue, al centro di un isolato di catapecchie fetide come una fogna, c'era una casa di mattoni dall'aria quasi normale, sede, in passato, di un magazzino di mobili. Adesso era generosamente chiamata studio televisivo. Tutti i mercoledì sera, eccettuato il periodo estivo, da quella casa veniva messo in onda lo spettacolo di Stan Gifford. Faceva un certo effetto vedere quasi ogni giorno andare avanti e indietro tra le catapecchie puzzolenti decine e decine di pubblicitari e produttori e registi e tecnici della televisione, e attori, tutti ben vestiti e tutti impegnati
a mettere assieme l'ora settimanale dedicata a Gifford. Gli abitanti delle case vicine osservavano con occhio critico la continua processione di estranei. Ormai, si erano abituati a vederseli attorno, perché lo spettacolo era sulla cresta dell'onda da ben tre anni. Non c'erano mai stati guai tra gli abitanti locali e i cervelloni in completo scuro, camicia bianca e cravatta, e probabilmente non ce ne sarebbero mai stati. Un quartiere come quello aveva già abbastanza guai di suo senza crearsene con la televisione. Per di più, lo spettacolo di Stan Gifford piaceva a molti anche lì, e il mercoledì sera alle otto stavano tutti in casa a guardarselo. Se quei tipi strambi avevano l'incarico di mettere insieme lo spettacolo tutte le settimane, dovevano pur farlo, quindi non c'era motivo di lamentarsi per la loro presenza. Inoltre, lo show era buono, e gratuito. Le prove dello show buono e gratuito di quella settimana erano cominciate il venerdì precedente nell'ex magazzino della Undicesima Strada Nord. Adesso erano le tre e quarantacinque del mercoledì pomeriggio, quindi, esattamente fra quattro ore e quindici minuti, in tutte le case del continente sarebbe esploso l'annuncio dello Stan Gifford Show, poi un po' di pubblicità, poi la sigla musicale, e poi da venti milioni circa di apparecchi televisivi sarebbe dilagata la girandola di trovate e trovatine. La stazione televisiva, nello sforzo di accaparrarsi il maggior numero possibile di clienti per la pubblicità, ci teneva a rendere pubblici i dati statistici, secondo cui in ogni casa dotata di televisione vivevano almeno due persone, e questo voleva dire che, ogni mercoledì sera alle otto, ottanta milioni di occhi si puntavano sulla faccia sorridente di Stan Gifford che dallo schermo sventolava una mano e diceva: "Ci si rivede, eh?". In bocca a un attore meno dotato, questa battuta d'apertura avrebbe spinto molti telespettatori a cambiare canale, o a spegnere addirittura la televisione. Ma Stan Gifford aveva fascino, intelligenza, comunicativa, e un senso innato dello spettacolo. Sapeva sempre ciò che era divertente per il pubblico, e poteva persino trasformare una battuta infelice in uno scherzo riuscito, semplicemente riconoscendo il fallimento con un gesto sconsolato e un'occhiata contrita. Aveva una tale disinvoltura e spontaneità, che i suoi spettacoli sembravano nascere sul momento, e una sicurezza assolutamente naturale. — Dove si è cacciato Art Wetherley? — urlò Gifford, frenetico, all'assistente alla regia. — Era qui un momento fa, signor Gifford — urlò in risposta il segretario, e subito chiese, gridando, che nello studio tutti facessero silenzio. Ottenutolo, si mise a urlare: — Art Wetherley! Subito al numero due!
Il piccolo Wetherley, scrittore-sceneggiatore, era andato a fumare una sigaretta sulla scala di sicurezza. Si sentì chiamare, rientrò nello studio, andò vicino a Gifford, e disse: — Cosa c'è, Stan? Gifford era alto, con l'attaccatura dei capelli a punta... per la verità l'effetto era dovuto a un incipiente stempiamento, ma lui preferiva considerarlo un'attaccatura a punta... occhi scuri penetranti, e bocca grande. Quando sorrideva gli si increspavano gli occhi da un angolo all'altro, facendolo sembrare un giovane Babbo Natale senza barba, sul punto di distribuire doni ai bambini poveri. In quel momento Gifford non sorrideva, e Wetherley, che l'aveva visto serio molto spesso, sapeva che quella faccia grave voleva dire guai in vista. — Questa, secondo te, dovrebbe far ridere? — disse Gifford. La domanda venne fatta tranquillamente, educatamente, ma dietro c'era una carica che avrebbe potuto far saltare in aria la città. Quando voleva, Wetherley sapeva essere educato come pochi in televisione. Educatamente chiese: — Di quale battuta stai parlando, Stan? — Quella sulla suocera — rispose Gifford. — Credevo che la scoperta della fissione nucleare avesse fatto sparire le barzellette sulle suocere. — Be', a me piacerebbe che la fissione nucleare avesse fatto sparire "mia" suocera — disse Wetherley, ma subito capì che non era il caso di aggiungere una battuta infelice all'altra. — Possiamo tagliarla — disse in fretta. — Non voglio che sia tagliata. Voglio che venga sostituita. — Questo, volevo dire. — Allora perché invece di dire quello che vuoi dire dici un'altra cosa? — Gifford guardò la parete di fronte, dove l'orologio era indaffaratissimo a far passare i minuti. — Farai bene a sbrigarti — aggiunse. — E lascia perdere le suocere, Liz Taylor, e le donne al volante. — Ehi! Ma allora che cosa resta? — disse Wetherley, fingendosi preoccupato. — Lo sai che qualcuno si ostina a considerarti spiritoso? — disse Gifford e, voltate le spalle a Wetherley, si allontanò. L'assistente alla regia che durante tutto il dialogo era rimasto vicino a un riflettore, sospirò e disse: — Speriamo che si calmi. — Io spero che crepi — disse Wheterley. Steve Carella guardava sua moglie intenta a versargli il caffè. — Sei bella — le disse, ma lei guardava la caffettiera e non vide il movimento delle
sue labbra. Allora lui si protese, e le mise una mano sotto il mento. Teddy alzò la testa a guardarlo, incuriosita, sorridendo. Lui ripeté: — Teddy, sei bella. — Questa volta lei gli guardava le labbra, e questa volta lesse le parole sulla sua bocca, le capì, e gli spiegò con un cenno che aveva compreso. Poi quasi che la voce del marito avesse risvegliato il suo mondo fatto di silenzio quasi che lei fosse stata ad aspettare paziente tutto il giorno il momento di poter riversare su di lui un torrente di parole, cominciò a muovere in fretta le dita nell'alfabeto dei muti. Lui guardò le mani che raccontavano gli avvenimenti della giornata. Di sfondo alle dita, nella faccia, gli occhi scuri e intensi aggiungevano espressione alle parole mute, la testa bruna si piegava a volte di lato per mettere in risalto un particolare, la bocca accennava ora una smorfia, ora il broncio, ora un sorriso radioso. Lui guardava le mani e la faccia, ora dicendo una parola, ora facendo un'esclamazione, interrompendola, qualche volta, quando lei aveva compilato una frase troppo in fretta, sempre ammirando l'intensità d'espressione dei suoi occhi, la vivacità, l'animazione, la passione con cui Teddy diceva anche le cose più semplici. Quando poi ascoltava, gli occhi della donna guardavano attenti e intenti, come per paura di perdere anche una sola sillaba e tutto quello che veniva detto le si rifletteva sulla faccia come in uno specchio. Non potendo sentire le intonazioni di voce, non potendone cogliere le sfumature, suppliva con l'immaginazione, attribuendo a volte un contenuto emotivo anche a frasi che non ne avevano affatto. Una sola semplice innocua battuta poteva farla piangere o ridere. Era come un bambino che, ascoltando una bella favola, l'arricchisca con la fantasia di particolari non detti. Mentre insieme lavavano e asciugavano i piatti, la conversazione tra Steve e Teddy Carella era un bizzarro miscuglio di progetti casalinghi e borseggi, problemi col macellaio e la prossima sfilata per un confronto, l'abito visto a dodici dollari e novantacinque e la rivoltella calibro 38 di un probabile assassino. Nel parlare con sua moglie, Carella teneva sempre la voce bassa. Per Teddy il volume della voce non aveva senso, e poi, nell'altra stanza, dormivano i gemelli. I caldi suoni ovattati di quella cucina sembravano l'eco delicata di una città intenta a mettersi i bigodini per la notte. Fra dieci minuti, in venti milioni di case, quaranta milioni di persone avrebbero fissato ottanta milioni di occhi sul sorridente Stan Gifford che avrebbe detto al mondo: "Ci si rivede, eh?". Per quanto normalmente non si divertisse gran che a guardare la televisione, Steve Carella doveva ammettere di far parte di quei quaranta milioni
di drogati senza speranza, che tutti i mercoledì sera alle otto si sintonizzavano sul canale di Stan Gifford. Mentre asciugava i piatti, quasi senza rendersene conto teneva d'occhio l'orologio. Chissà per quale pervertimento, la battuta d'apertura di Gifford gli procurava un enorme piacere, e se avesse acceso la televisione in ritardo si sarebbe sentito defraudato. Era lui stesso sbalordito dalle sue reazioni al fenomeno Gifford. Di solito, Carella considerava la televisione un passatempo noioso, forse anche influenzato da Teddy, che traeva ben poco divertimento dal teleschermo. Teddy riusciva benissimo a leggere le parole sulle labbra di un attore o di un presentatore, solo quando il regista lo faceva riprendere in primo piano e di faccia, però. Ma non appena l'attore si voltava o la ripresa era effettuata in campo lungo, lei perdeva subito il filo della storia, e cominciava a fare domande a Steve. E per lui guardare contemporaneamente lo schermo e le mani di Teddy era un'impresa impossibile. La menomazione di Teddy complicava le cose per Carella, e la complicazione provocava delusione in entrambi, perciò lui aveva deciso di mandare al diavolo la televisione. A meno che non fosse la sera di Stan Gifford. Quel mercoledì sera, tre minuti prima delle otto, Steve Carella accese la televisione, e si sistemò comodamente in poltrona. Teddy prese un libro e si mise a leggere. Lui guardò il finale dello spettacolo precedente, lo Stan Gifford Show, e assistette alla vincita di un frigorifero da parte di una signora grassa, poi lesse l'annuncio dello spettacolo di Gifford e guardò la scenetta pubblicitaria (un bel giovane bruno faceva all'amore con una sigaretta traendone boccate estatiche), e infine, dopo una brevissima pausa, cominciò la sigla musicale dello show. — Posso spegnere una lampada? — domandò Carella. Teddy teneva il naso sul libro, e non lo vide parlare. Lui le sfiorò una mano e la donna guardò. — Posso spegnere questa? — ripeté lui, e Teddy fece segno di sì nell'attimo in cui la faccia di Stan Gifford riempì lo schermo. Il sorriso dilagò con la forza di un uragano sopra le isole del Pacifico. — Ci si rivede, eh? — disse Gifford, e Carella scoppiò a ridere, poi spense la lampada. L'altra luce rimasta accesa dietro la poltrona di Teddy diffondeva un chiarore discreto in tutta la stanza. Di fronte a questa sorgente luminosa, un rettangolo azzurrognolo di luce più fredda: il teleschermo. Gifford andò a sedersi a un tavolo e si lanciò subito nel suo consueto monologo d'apertura dello show. — L'altro giorno stavo parlando con Julius — cominciò, e la frase, per chissà quali misteriose ragioni, suscitò una risata nel pubblico presente
nello studio, e anche in Carella. — Gli si è sviluppata la mania di persecuzione, ve lo assicuro io. Quello sta diventando paranoico in pieno! — altra risata. — Gli ho detto: "Senti, Julie..." Lo chiamo Julie, così, confidenzialmente, perché ci conosciamo da tanto tempo. Qualcuno dice persino che per lui io sono come un figlio! "Senti, Julie" gli ho detto "si può sapere perché sei così sconvolto? Va bene, uno stupido indovino ti ferma mentre stai andando al foro e ti dice un sacco di fesserie sulle idi di marzo. E con questo? Ma perché ti lasci sconvolgere così? Julie, caro! Che sciocchezze! Il popolo ti ama!" Lui mi ha guardato e mi ha detto: "Lo so, tu penserai che sto rincretinendo, ma vedi, Brutus...". Per dieci minuti buoni Stan Gifford tenne spettacolo da solo, tacendo soltanto per lasciar ridere il pubblico, o per far la faccia contrita quando una battuta cadeva nel vuoto. Alla fine del monologo annunciò il balletto, che si esibì in una danza di cinque minuti. Poi Gifford presentò il primo ospite della serata: una procace bionda di Hollywood, che cantò una canzone sentimentale e recitò una scenetta con lui, concludendo la prima mezz'ora di spettacolo senza che i telespettatori nemmeno se ne fossero accorti. Intervallo, e un po' di pubblicità. Carella andò a prendere una birra in frigorifero, e tornò a sedersi per gustare la seconda mezz'ora. Gifford presentò un complesso folcloristico che cantò Maniche verdi e nastri rossi, un programma pieno di colore. Appena finita l'esibizione del complesso, tornò Gifford, e dopo un paio di minuti cominciò a lavorare sul serio. L'ospite seguente era un grande attore di Hollywood. Ma il grande attore non pareva molto al suo posto, nello show, perché non sapeva né cantare né ballare. Del resto, a sentire qualche critico, non sapeva nemmeno recitare. Ma per qualche minuto Gifford riuscì a fargli fare bella figura, con un paio di scenette ben congegnate poi, mentre il grande attore andava a cambiarsi per una prossima scena, lui fece personalmente la pubblicità a una marca di caffè a tripla tostatura. Finita la pubblicità, Gifford chiamò con un cenno qualcuno fuori campo, e un servo di scena arrivò con una sedia. Gifford lo ringraziò con un inchino, poi mise la sedia al centro del grande palcoscenico. Era in scena da poco più di cinque minuti, pochissimo per lui, quindi gli spettatori furono un po' sorpresi quando, sedendosi, Gifford sospirò con aria stanca. Per un poco rimase seduto senza parlare, senza fare niente. Nessuna musica di sottofondo. Solo un uomo seduto su una sedia al centro di un palcoscenico vuoto, ma Carella cominciò a sorridere perché sapeva che Gifford stava per iniziare una delle sue pantomime. Toccò un braccio di
Teddy e lei alzò la testa dal libro. — La pantomima — disse Steve. Lei fece segno di aver capito, mise giù il libro e si voltò a guardare lo schermo. Gifford era sempre seduto là, con lo sguardo rivolto al pubblico. Sembrava che guardasse qualcosa in lontananza. Silenzio assoluto nel pubblico, mentre l'attore continuava a guardare quell'invisibile cosa che sembrava si stesse avvicinando. Poi, di scatto, Gifford si alzò spostando la sedia e guardando la cosa inesistente che gli passava vicino con un rombo. Si asciugò la fronte, rimise a posto la sedia orientandola in un'altra direzione, e si risedette proteso in avanti. E la storia ricominciò. Ancora, Gifford si alzò di scatto respingendo la sedia e seguendo con lo sguardo la cosa immaginaria, che dopo averlo rasentato si perdeva lontano. Si risedette cambiando posizione per la terza volta. Carella scoppiò a ridere quando, per la terza volta, Gifford individuò in distanza la cosa misteriosa. Questa volta si alzò con espressione decisa, afferrò la sedia per lo schienale e la tenne sollevata di fronte a sé come fanno i domatori di leoni, sfidando l'attacco. Ma all'ultimo momento si tolse dalla traiettoria per lasciar passare indisturbata la minaccia, poi si voltò facendo roteare la sedia. La telecamera si avvicinò riprendendo in primissimo piano la faccia perplessa e disorientata di Gifford. E l'obiettivo colse anche un'altra espressione: l'improvviso smarrimento dovuto a malore. Per un attimo, Gifford parve barcollare, poi si passò una mano sugli occhi come se gli si fosse annebbiata la vista, come se la cosa immaginaria, inesistente che lo minacciava avesse preso di colpo consistenza. Chiuse gli occhi, li strinse, scosse la testa e mosse tre o quattro passi incerti, all'indietro, poi lasciò cadere la sedia, proprio come se fosse stato colpito. Naturalmente faceva parte della pantomima, era chiaro. Ma la scena aveva acquisito un tono di realtà per cui non si poteva più ridere. La confusione di Gifford mentre osservava la nuova carica del nemico sconosciuto era diventata vera, autentica. Il comico guardava direttamente nella telecamera che lo stava ancora riprendendo in primo piano, e la patetica implorazione del suo sguardo a un tratto ebbe il sopravvento, e il pubblico ricominciò a ridere. Gifford era tornato l'uomo mite, perseguitato da un irriducibile nemesi. La farsa continuava. Ma Carella non rise. Gifford si chinò per raddrizzare la sedia. La ripresa passò in campo lungo su un'altra telecamera. Lui prese la sedia, la raddrizzò e ci si sedette di peso, la testa ciondoloni. Il pubblico rise ancora.
Adesso Carella stava proteso in avanti, attento, osservando Gifford con interesse professionale e non più come spettatore. Gifford si premette le mani sul ventre, come se l'invisibile persecuzione l'avesse colpito lì. Poi parve colto da vertigini, impallidì paurosamente, e fece temere che sarebbe caduto dalla sedia. Poi, tutt'a un tratto, davanti a ottanta milioni di occhi, fu preso da violenti conati di vomito. L'operatore della telecamera, colto alla sprovvista, mantenne l'inquadratura per qualche secondo di troppo, poi tagliò di colpo. L'orchestra attaccò un motivo allegro, ma Carella continuò a fissare il teleschermo vuoto. II Quando l'agente investigativo Meyer Meyer arrivò sul posto, in mezzo alla strada, davanti alla casa, c'erano già due macchine della polizia e un'autoambulanza. Cinque agenti, schierati sull'ingresso, tenevano coraggiosamente testa alla folla di giornalisti, fotografi e semplici curiosi che affollavano il marciapiede. Quelli che facevano maggior confusione erano i giornalisti, che urlavano ai poliziotti frasi caratteristiche, scelte con cura tra quante ne offriva il linguaggio anglosassone, ma i poliziotti le conoscevano già tutte, e senza lasciarsi impressionare non cedevano terreno. Meyer smontò dalla macchina e cercò l'agente Genero che aveva telefonato alla Squadra cinque minuti prima. Lo individuò subito e cominciò ad aprirsi la strada lavorando di gomiti. — Scusate, signora... — e passò di forza davanti a una donna anziana che si era infilata un accappatoio sulla camicia da notte. Poi scostò un ciccione che fumava un sigaro: — Volete togliervi dai piedi, per favore? — e finalmente raggiunse l'agente Genero che montava la guardia all'ingresso, pallido e con l'aria di chi non ce la fa più. — Ehi! Mi fa piacere vedervi! — disse Genero. — Anche a me — rispose Meyer. — Avete lasciato entrare qualcuno? — Soltanto il medico di Gifford e quelli dell'ospedale. — Con chi devo parlare? — Col produttore. Si chiama David Krantz. Di sopra pare la fine del mondo, manco fosse morto il Padreterno. — Eh, può darsi che sia così — disse Meyer, ed entrò. La preannunciata fine del mondo cominciava appena dentro. Folla nell'atrio, sulle scale con la ringhiera di ferro, sui pianerottoli e nei corridoi. Parlavano tutti insieme e pareva che dicessero tutti la stessa cosa. Meyer scel-
se un giovanotto dagli occhi vivaci dietro le lenti spesse, e gli chiese: — Dove posso trovare David Krantz? — Chi siete? — volle sapere il giovanotto. — Polizia — rispose Meyer, rassegnato. — Oh! Ah, ecco, è di sopra. Al terzo piano. — Grazie — disse Meyer, e cominciò a salire le scale. Al terzo piano fermò una ragazza in calzamaglia nera, e le disse: — Sto cercando David Krantz. — Avanti dritto — rispose la ragazza. — Quello coi baffi. L'uomo coi baffi era in mezzo a un gruppo di gente ferma sotto una fila di riflettori sospesi. Altre cinque ragazze in calzamaglia nera, una decina con abiti rossi a lustrini, uomini in maglione, in maniche di camicia, in tuta, in completo grigio o sportivo, erano sparsi a gruppetti qua e là per lo studio. Sul pavimento, cavi, carrelli di telecamere, giraffe, praticabili, microfoni, fogli di copione, fari, batterie, fondali, tutte le testimonianze di uno spettacolo televisivo. Dietro i gruppi di persone il circolo di uomini con al centro il produttore, Meyer vide un medico in camice bianco che parlava con un tipo alto in completo grigio. Per un attimo pensò di dare prima un'occhiata al cadavere, poi decise che era meglio parlare subito col produttore e s'infilò nel cerchio umano. — Il signor Krantz? Krantz si voltò con una lentezza e una parsimonia di movimenti sconcertante. — Sì, cosa c'è? — disse, facendo schioccare le parole come una frusta. Era vestito con eleganza, impeccabile in ogni particolare. I baffi erano sottili e corti. Nell'insieme dava l'impressione di contribuire al consolidarsi della civiltà dei consumi. Meyer che, volendo, sapeva essere anche lui assai conciso, sfoderò immediatamente il portafoglio aprendolo per mostrare il distintivo. — Agente investigativo Meyer, Ottantasettesima Squadra — disse. — Mi hanno detto che siete il produttore. — Esatto — rispose Krantz. — Cosa c'è ora? — Cosa significa cosa c'è ora, signor Krantz? — Voglio dire, cosa ci fa qui la polizia? — Normale controllo — disse Meyer. — Per uno che è morto di attacco cardiaco? — Non sapevo che foste un medico, signor Krantz. — Non sono medico, ma anche uno stupido... — Signor Krantz, qui dentro fa un gran caldo, io ho lavorato tutto il
giorno, e sono stanco. Per favore, non mettetevi a fare polemiche con me. Da quanto mi hanno detto... — Ecco che ci siamo — disse Krantz, rivolto a quelli che gli facevano circolo. — Siamo, dove? — disse Meyer. — Se una zitella muore di vecchiaia nel suo letto, i poliziotti pensano subito che si tratti di omicidio. — Ah, sì? E chi ve l'ha detto, signor Krantz? — L'esperienza. Ho prodotto una serie di gialli televisivi, e ne so qualcosa sui sistemi della polizia. — E come sono questi sistemi? — Sentite un po', agente Meyer, che cosa volete da me? — Per prima cosa, vorrei che la finiste di pontificare. Io sono venuto qui per fare un paio di domande semplicissime su un decesso che a quanto pare è stato accidentale... — A quanto pare? Capite, adesso cosa volevo dire? — chiese il produttore al suo pubblico. — Già, a quanto pare, signor Krantz. Ma voi mi state rendendo difficile la vita. Ora, se preferite che mi procuri un mandato d'arresto, invece di farvele qui, le domande, ne riparliamo alla Squadra. Dipende da voi. — State scherzando, agente Meyer! Non avete niente a cui attaccarvi per arrestarmi! — No? Possiamo provare con l'articolo milleottocentocinquantuno del Codice Penale — disse Meyer, senza scomporsi. — Cito: "Resistenza a un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni: si applica a chi in qualsiasi caso o circostanza non altrimenti specificata, e non spinto da cause di forza maggiore, si opponga, ritardi, o in qualche modo crei ostacolo a un pubblico ufficiale nell'eser...". — Va bene, va bene — disse Krantz. — Siete stato chiarissimo. — Allora liberatevi dei vostri leccapiedi, e cominciamo. L'assembramento si sciolse senza una parola. In fondo, l'uomo alto in grigio stava discutendo, accalorato, con il medico in camice. Meyer guardò i due, poi si concentrò su Krantz. — Credevo che allo show assistesse il pubblico — disse. — Infatti. — Dov'è andato a finire? — Abbiamo radunato tutti al piano di sopra. Un vostro agente ha detto di trattenerli.
— Bisognerebbe che qualcuno dei vostri prendesse i nomi di tutti. Poi si può mandarli a casa. — Non può occuparsene la polizia? — La strada qui sotto sembra un manicomio, e ci sono soltanto cinque uomini per tenere a bada tutti. Volete essere così gentile da darmi una mano? Vi assicuro che non volevo la morte del vostro attore più di quanto la voleste voi. — Va bene. Vedrò che sia fatto. — Grazie. Ora, ditemi, che cosa è successo? — È morto di attacco cardiaco. — Come fate a saperlo? Aveva già avuto attacchi di cuore, prima? — Non mi risulta, però... — Allora lasciamo la questione in sospeso, vi va? A che ora si è sentito male? — Posso procurarvi la risposta. Probabilmente durante la trasmissione qualcuno ha segnato i tempi. Aspettate un momento. George! Ehi, George! Un tale in maglione, che stava parlando con una ballerina, si voltò di scatto. Si guardò attorno movendo la testa con piccoli movimenti rapidi, con espressione seccata, cercando di localizzare la persona che l'aveva chiamato. Krantz sollevò una mano e gli fece un cenno, e l'uomo, preso da una sedia lì vicina un megafono a batteria, venne verso i due, con andatura stanca. — Questo è George Cooper, il nostro assistente alla regia — disse Krantz. poi presentò Meyer. Cooper tese la mano con diffidenza e Meyer tutto a un tratto capi che l'espressione annoiata di Cooper era sua abituale: un insieme di scontento, preoccupazione e sopportazione, per indicibili torti subiti, come se fosse sempre costretto a pensare gravi soluzioni nel bel mezzo di una rivoluzione. — Molto piacere — disse Cooper. — Il signor Meyer vuol sapere quando si è sentito male Gifford. — Cosa significa quando? — disse Cooper, e parve la frase di sfida per un duello. — È stato dopo l'uscita del complesso folcloristico. — Sì, lo so, ma a che ora? Nessuno ha segnato i tempi? — Posso controllare sulla registrazione — disse Cooper, senza nessun entusiasmo. — Devo farlo? — Sì, per cortesia — disse Meyer. — Ma cosa gli è successo? — chiese Cooper. — Un infarto?
— Non... — Cos'altro può essere stato? — interruppe Krantz. — Be', io vado a sentire la registrazione, allora — disse Cooper. — Vi ritrovo qui? — Sì, certamente — assicurò Meyer. Cooper fece un rapido cenno con la testa, e se ne andò, imbronciato. — Chi è quello laggiù che discute col medico dell'ospedale? — chiese Meyer. — Carl Nelson — rispose Krantz. — Il medico personale di Gifford. — Era qui durante la trasmissione? — No. Gli ho telefonato io a casa, e l'ho fatto venire subito. Però avevo già chiamato l'ambulanza... — Volete chiamarlo, per favore? — Subito — disse Krantz, e alzata una mano, gridò: — Carl, puoi venire un momento? Nelson si staccò dall'uomo in camice, si voltò dopo un paio di passi per dirgli ancora qualcosa, e poi venne verso Krantz e Meyer, camminando svelto. Era alto e robusto, con folti capelli neri che cominciavano a ingrigire alle tempie. Era serio in faccia e arrossato agli zigomi. Teneva le labbra serrate come se avesse preso una decisione e fosse pronto a difenderla contro chiunque. — Quell'idiota vuol rimuovere il corpo — disse subito. — Gli ho detto che se lo fa lo denuncio all'Ordine dei medici. Cosa volevi, Dave? — Questo è l'agente investigativo Meyer. Agente, il dottor Nelson. Nelson scambiò con Meyer una rapida ed energica stretta di mano, poi chiese: — Avete già provveduto a informare il medico legale per l'autopsia? — Credete che sia necessario, dottor Nelson? — Non avete visto com'è morto Stan? — No. Com'è morto? — Non è stato un infarto? — disse Krantz. — Non essere ridicolo, Dave! Infarto! Il cuore di Stan era in condizioni eccellenti. Quando sono arrivato, verso le nove, tutti i sintomi erano indicativi: respirazione affannosa, polso accelerato, nausea, vomito. Abbiamo tentato una sonda gastrica, ma non è servita. Alle nove e un quarto sono cominciate le convulsioni. Il terzo attacco si è verificato alle nove e mezzo e l'ha stroncato. — A quale conclusione volete arrivare, dottor Nelson?
— Che Stan Gifford è stato avvelenato — disse Nelson, senza esitazioni. Meyer Meyer infilò una moneta da dieci cent nella fessura del telefono pubblico che c'era nell'atrio del terzo piano e compose il numero di casa del tenente Peter Byrnes. Caldo e cattivo odore, nella cabina. Meyer ascoltò il telefono suonare cinque o sei volte all'altro capo del filo. Infine, rispose Byrnes personalmente. Aveva la voce impastata di sonno. — Pete, sono Meyer. — Che ora è? — chiese Byrnes. — Non lo so. Le dieci e mezzo, forse, o le undici. — Devo essermi appisolato. Harriet è andata al cinema. Cosa c'è? — Pete, sto interessandomi per quella faccenda di Stan Gifford, e ho pensato che fosse meglio... — Quale faccenda di Stan Gifford? — L'attore della televisione... È crollato questa sera, e... — Quale attore? — Stan Gifford. Un grande comico. — Ah, sì? — Sì. Comunque, il suo medico è del parere che si debba far fare l'autopsia. È morto dopo un attacco di convulsioni, e... — Stricnina? — chiese Byrnes. — Poco probabile. Prima delle convulsioni ha avuto la nausea. — Arsenico? — Può darsi. Comunque, mi pare che quella dell'autopsia sia una buona idea. — Va bene, procedi pure. Incarica il medico legale. — Un'altra cosa, Pete. Mi servirebbe un aiuto. Io devo stare ancora qui per fare qualche domanda in giro, e sarebbe bene che qualcuno invece andasse direttamente all'ospedale per essere sul posto quando arriverà il cadavere. Per farli muovere un po' alla svelta, capisci? — Giusto. Fai pure. — Già. Ma vedi, Cotton sta seguendo un altro caso, e quando sono uscito dalla Squadra, Bert stava rispondendo in quel momento a una chiamata urgente. Non potresti chiamare tu Steve e mandare lui? — D'accordo. — Ecco, non c'è altro. Ti richiamerò se non sarà troppo tardi. — Che ora hai detto che sono? Meyer guardò l'orologio. — Le undici meno un quarto.
— Devo proprio essermi appisolato — disse Byrnes, in tono poco convinto, poi riappese. Meyer uscì dalla cabina, e trovò George Cooper che l'aspettava. Aveva la stessa espressione di prima, come se avesse inghiottito qualcosa di disgustoso e stesse cercando di tenere a bada la nausea con la collera. — Ho passato la registrazione — disse. — Bene. — Ho cronometrato tutta la seconda parte dello spettacolo. Cosa volete sapere esattamente? — A che ora si è sentito male. Cooper guardò imbronciato il taccuino e disse: — Il complesso folcloristico ha finito alle otto e trentasette, e subito è rientrato in scena Stan. Ci sono stati due minuti e dodici secondi con lui e quello di Hollywood, poi l'ospite è andato a cambiarsi e Stan ha fatto la pubblicità del caffè, ed è uscito un po' dal tempo convenuto con la ditta. In tutto, la pubblicità è durata un minuto e quaranta secondi. Ha cominciato la pantomima alle otto, quarantun primi e cinquantadue secondi. Si è sentito male dopo due minuti e cinquantacinque secondi. Questo significa che in quel momento era in scena da sette minuti e diciassette secondi, quindi si è sentito male esattamente alle otto, quarantaquattro primi e diciassette secondi. Grazie — disse Meyer. — Il vostro aiuto mi è stato prezioso. — Si mosse per avviarsi alla porta dello studio, e Cooper gli si mise davanti, scrutandolo dritto negli occhi. — Qualcuno l'ha avvelenato, eh? — disse. — Che cosa ve lo fa pensare, signor Cooper? — Lo dicono tutti, là dentro. — Questo non significa necessariamente che sia vero. — Il dottor Nelson dice che chiederete l'autopsia. — Sì, questo è vero. — Allora pensate che sia stato avvelenato! Meyer si strinse nelle spalle. — Io non penso ancora niente, signor Cooper. — Sentite — disse Cooper, abbassando la voce. — Sentite, io... io non voglio mettere nei guai nessuno, però... questa sera, prima che cominciasse la trasmissione, mentre stavamo ancora provando... — s'interruppe di colpo, guardando nello studio. Un tale in giacca sportiva stava venendo da quella parte cercandosi in tasca le sigarette. — Continuate, signor Cooper — disse Meyer.
— Lasciate perdere — rispose Cooper, e si allontanò alla svelta. L'uomo in giacca sportiva uscì nel corridoio, salutò Meyer con un cenno, mise in bocca una sigaretta, si appoggio alla parete e accese un fiammifero. Meyer prese anche lui una sigaretta e disse: — Scusate... Mi fate accendere? — Certo — disse l'altro. Era piccolo, con occhi azzurri penetranti, e i capelli tagliati cortissimi ai lati gli facevano la faccia a triangolo. Accese un fiammifero per Meyer, poi tornò ad appoggiarsi al muro. — Grazie — disse Meyer. — Di niente. Meyer andò verso Krantz, fermo a parlare con il dottor Nelson e il medico dell'ospedale. Quest'ultimo poveretto, non capiva più niente. Aveva ricevuto una chiamata d'emergenza, era corso lì con l'ambulanza, e adesso nessuno pareva sapere esattamente che cosa si doveva fare del cadavere. Il giovane medico si rivolse implorante a Meyer, sperando di trovare in lui l'uomo che avrebbe finalmente preso il comando della situazione. — Potete rimuovere il corpo — disse Meyer. — Portatelo nell'obitorio dell'ospedale per l'autopsia, e avvertite per favore che arriverà subito un nostro uomo. Si chiama Carella, agente investigativo Carella. Il medico se ne andò, alla svelta, prima che qualcuno cambiasse parere. Meyer lanciò un'occhiata nel corridoio, dove l'uomo in giacca sportiva stava ancora appoggiato alla parete, a fumare. — Quello, chi è? — chiese. — Art Wetherley — rispose Krantz. — Uno dei nostri sceneggiatori. — Era qui durante la trasmissione? — Certo — disse Krantz. — Va bene. Chi altro c'era, interessato nello spettacolo? — Da chi volete cominciare? — Voglio soltanto sapere chi c'era qui questa sera. — Perché? — Signor Krantz, per favore! Può anche darsi che Gifford sia morto a causa del rumore che c'è qui dentro, ma esiste una probabilità che sia invece stato avvelenato, chiaro? Dunque, chi c'era qui questa sera? — D'accordo. C'ero io. E la mia segretaria. C'era il mio socio. E la sua segretaria. Poi il direttore della rete televisiva, e la sua segretaria. Il... — Ce l'hanno tutti, la segretaria? — No. Non tutti. — Bene. Sentiamo il resto, allora.
Krantz incrociò le braccia e continuò l'elenco: — Il regista e l'assistente alla regia. I due attori di Hollywood, il complesso folcloristico, due scenografi, una costumista, il direttore di scena, il direttore del coro e il coro. Il coro è composto da diciassette persone. Il direttore d'orchestra, due arrangiatori, trentatré orchestrali, cinque sceneggiatori, quattro dattilografe e bibliotecarie, il rappresentante di una casa discografica, la direttrice del balletto, il coreografo, sei ballerini, e il pianista per le ultime prove. Il direttore delle luci, il tecnico del suono, due macchinisti, ventinove tecnici della televisione, ventisette tra elettricisti e servi di scena. Tre poliziotti della TV, trentacinque cameriste, tre truccatori, un parrucchiere, nove guardarobiere, quattro clienti della pubblicità, e sei ospiti. — Krantz concluse l'elenco con un gesto di maligna soddisfazione. — Ecco — aggiunse. — Questa è la gente che c'era qui durante la trasmissione. — Ma che cosa stavate combinando? — disse Meyer. — Volevate cominciare la Terza guerra mondiale? Paul Blaney, l'assistente del medico legale, non aveva mai fatto l'autopsia di un uomo celebre. Se Carella e Meyer, che adesso stavano aspettando in corridoio, non glielo avessero già detto, avrebbe saputo che l'uomo disteso sul tavolo d'acciaio inossidabile era Stan Gifford, il comico della televisione, dal braccialetto al polso sinistro del cadavere. Blaney scosse la testa. Un cadavere era soltanto un cadavere, e lui era contento che quello non fosse stato fatto a pezzi in un incidente automobilistico. Comunque, Paul Blaney non guardava mai la televisione: la violenza lo sconvolgeva. Prese in mano il bisturi. Non gli piaceva però sapere che due agenti investigativi stavano aspettando in corridoio mentre lui faceva il suo lavoro. Con quella gente non si sa mai, capaci di entrargli nella stanza a esprimere il loro parere sul modo migliore di tenere un forcipe. E non gli piaceva neanche che un cadavere, solo perché era quello di una celebrità, godesse di un trattamento di favore, come per esempio far saltare giù dal letto lui nel bel mezzo della notte per fare l'autopsia. Sì, d'accordo, Meyer gli aveva spiegato con molta pazienza che si trattava di un caso particolare, attorno a cui probabilmente ci sarebbe stato un sacco di pubblicità. D'accordo, inoltre, che i sintomi facevano sospettare un avvelenamento, però a Blaney non piaceva lo stesso. Un procedimento del genere sapeva di premura. Invece, un medico dovrebbe poter rimuovere un fegato, o prelevare un campione dei reni, con calma, senza fretta, senza poliziotti impazienti che gli alitano sul collo.
Normalmente uno fa la sua autopsia, stende il rapporto, e poi lo manda alla Squadra Investigativa interessata al cadavere in questione. Se si sospetta un omicidio poi, qualche volta bisogna fare altri rapporti oltre il primo, cosa che Blaney faceva quando lo riteneva necessario. Questi rapporti in più venivano mandati alla Squadra Omicidi Nord e Sud, al capo della polizia, al Comandante della Sezione Investigativa, al Comandante del Distretto, e al laboratorio della polizia. Qualche volta, ma soltanto quando si sentiva particolarmente generoso, Blaney telefonava alla Squadra Investigativa competente, e anticipava per telefono i dati della necroscopia. Ma non gli era mai capitato di avere dei poliziotti che aspettassero in corridoio. Adesso c'erano, e non gli piacevano. Neanche un po'. Praticò la prima incisione con rabbia. Fuori, Meyer era seduto su una panca contro il muro e guardava Carella che camminava su e giù davanti a lui come uno in attesa di diventare padre. Paziente, Meyer muoveva la testa in semicerchio per seguire gli spostamenti di Carella da un capo all'altro del corridoio. Era quasi alto come Carella, ma più massiccio, sembrava quadrato e tozzo, soprattutto quando era seduto. — Come l'ha presa la signora Gifford? — chiese Carella. — A nessuno va giù l'idea di un'autopsia — disse Meyer. — Ma sono andato da lei personalmente e le ho spiegato i motivi per cui l'avevamo decisa, e lei ha convenuto che, stando così le cose, bisognava farla. — Che tipo di donna è? — Perché me lo chiedi? — Se lui è stato veramente avvelenato... — Avrà trentotto o trentanove anni. È alta, e mi è sembrata piuttosto una bella donna, ma sai, come si fa a dirlo? Piangeva, e il rimmel le colava sulla faccia. — Meyer fece una pausa, poi aggiunse: — Comunque, la moglie non era presente alla trasmissione, se può significare qualcosa. — Chi c'era allo studio? — chiese Carella. — Ho incaricato Genero di prendere i nomi di tutti, prima di lasciarli andare. — Un'altra pausa. — Vuoi che ti dica una cosa, Steve? Spero che l'autopsia riveli che è stata una morte naturale. — Quante persone c'erano nello studio? — Ecco... Possiamo tranquillamente non tener conto del pubblico in sala, no? — Penso proprio di sì. Quanti erano in sala? — Cinquecentosessanta.
— Bene, non teniamone conto. — Restano tutti quelli interessati in un modo o nell'altro alla trasmissione e presenti nello studio. — E quanti sono? — chiese Carella. — Una ventina? — Duecentododici — disse Meyer. La porta della sala delle autopsie si aprì, e Paul Blaney uscì sfilandosi uno dei guanti di gomma come aveva visto fare dai medici nei film. Guardò cupo Carella e Meyer, assai seccato di vederli lì, poi disse: — Allora, che cosa volete sapere? — La causa della morte — disse Meyer. — Avvelenamento acuto — rispose Blaney, secco. — Che veleno? — Ehm... Quell'uomo soffriva di cuore? — A sentire il suo medico, no. — Mmmmmm — disse Blaney. — Allora? — disse Carella. — Molto strano, perché... Ecco, il veleno usato è strofantina. Ne ho trovato traccia nell'intestino, e ho pensato che... — Cos'è la strofantina? — Una droga medicinale, molto simile alla digitalina, ma assai più potente. — Perché avete chiesto se soffriva di cuore? — Perché strofantina e digitalina vengono normalmente usate per la cura di disturbi cardiaci. La digitalina viene di solito somministrata per via orale, e la strofantina per endovena o intramuscolare, a piccolissime dosi. — E non viene mai usata in pillole o capsule? — Difficile. Anni fa può darsi che l'abbiano prodotta in pillole, ma oggi è superata da altri farmaci. In realtà, oggi nessun medico prescrive più la strofantina, se non in casi particolari. — Che volete dire? — Per curare l'aritmia o altri disturbi simili, il cardiotonico prescritto più comunemente è la digitalina. Ma la strofantina... — Blaney scosse la testa. — Perché non la strofantina? — Non fraintendetemi. Non sto dicendo che la strofantina non viene mai usata. Solo, la si prescrive assai raramente. La farmacia di un ospedale fa richiesta di strofantina sì e no una volta in cinque anni. Un medico ricorre alla strofantina solo nel caso in cui voglia un risultato immediato, perché questa droga agisce molto più in fretta della digitalina. — Blaney fece una
pausa. — Siete sicuri che quell'uomo non soffrisse di disturbi cardiaci? — Sicurissimi — rispose Carella, e dopo un attimo di esitazione chiese: — In quale forma viene prodotta, oggi? — Solitamente è confezionata in fiale. — In liquido, allora? — Sì, pronta per iniezioni. Avete visto le fiale di penicillina? Ecco, la strofantina è molto simile. — Ma può anche essere sotto forma di polvere? — Ah, sì, potrebbe benissimo. — Polvere di che genere? — Minuscoli cristalli bianchi. Ma è difficile che le farmacie, anche quelle degli ospedali, tengano un rifornimento di strofantina in polvere. Naturalmente se ne può trovare, ma è molto rara. — Qual è la dose mortale? — domandò Carella. — Più di un milligrammo è già pericolosa. Se pensate che la dose mortale di digitalina è invece di due grammi e mezzo, avrete subito un'idea della sua potenza. — Che dose ha preso Gifford? — Non saprei dirlo con esattezza. Una gran parte, naturalmente, era già stata assorbita dall'organismo, in caso contrario non sarebbe morto. Non è facile, sapete, ritrovare le tracce della strofantina. È una sostanza che viene assorbita in fretta, ed eliminata, anche in fretta. Comunque, se volete il mio parere... — Sì, ve ne saremmo grati — disse Meyer. — A giudicare dai risultati delle analisi quantitative, direi che ne ha ingeriti almeno due grani. — Ed è molto? — chiese Meyer. — Circa centotrenta volte la dose mortale. — Cosa? — I sintomi devono essere stati immediati — disse Blaney. — Nausea, vomito, e probabilmente convulsioni. Per diversi secondi nessuno parlò. Poi Carella disse: — Cosa intendete dicendo immediati? Blaney lo guardò, sorpreso. — Immediati — rispose. Cos'altro può significare se non immediati? Supponendo che il veleno sia stato iniettato... — Era in scena da circa dieci minuti quando si è sentito male — disse Carella. — Ed è sempre rimasto inquadrato dalla telecamera. Impossibile che...
— Era in scena esattamente da sette minuti e diciassette secondi — corresse Meyer. — Comunque, durante quel tempo non si è certo fatto una iniezione di strofantina. Blaney si strinse nelle spalle. — Allora, può darsi che il veleno sia stato somministrato per via orale. — E come? — Be'... — Blaney esitò. — Potrebbe aver rotto una fiala e averne ingoiato il contenuto. — Non ha ingoiato niente. Per oltre sette minuti è rimasto inquadrato dalla telecamera, e voi avete detto che la dose era tale da provocare sintomi immediati. — Forse, se somministrata per via orale, la droga ha un effetto ritardato. Non se ne sa molto sulle dosi orali. Negli esperimenti sui conigli, si è constatato che presa per bocca occorre una dose quaranta volte superiore a quella per normale iniezione intramuscolare, e ottanta volte superiore alla endovena, per procurare la morte. Ma gli esseri umani non sono conigli. — Voi però avete detto che probabilmente Gifford ha preso una dose centotrenta volte superiore alla normale. — È solo il mio parere. — E una dose simile, presa per bocca, quanto tempo avrebbe richiesto per procurare i primi sintomi? — Qualche minuto. — Quanti? — Cinque, forse, ma non saprei precisarvelo. — E Gifford era in scena da oltre sette minuti. Dovrebbe aver preso il veleno un attimo prima di andare in onda. — Direi di sì. — Sentite, il contenuto della fiala non potrebbe essere stato versato in qualcosa che Gifford ha bevuto? — Possibilissimo. — E in quali altri modi potrebbe aver preso la strofantina? — Ecco, se la droga era per caso in polvere, la dose di due grani poteva essere contenuta in una capsula di gelatina. — Che cos'è una capsula di gelatina? — chiese Meyer. — Chissà quante ne avrete viste — rispose Blaney. — Ci sono vitamine, tranquillanti, stimolanti, antispasmodici. Un sacco di prodotti farmaceutici vengono oggi confezionati in capsule di gelatina.
— Torniamo un po' alla faccenda dei sintomi immediati — disse Carella. — Abbiamo già... — Quanto tempo ci mette una capsula di gelatina a dissolversi, una volta ingerita? — Non ne ho idea. Qualche minuto, probabilmente. Perché? — Bisogna che si sia sciolta la capsula prima che il veleno venga a contatto con l'organismo, no? — Naturalmente. — Dunque, non sempre il termine immediato significa immediato, non vi pare? In questo caso, immediato significa dopo che si è sciolta la capsula. — Vi ho appena detto che una capsula ci mette pochi minuti a sciogliersi. — Quanti minuti? — chiese Carella. — Non lo so. Dovreste far fare una prova di laboratorio. — La faremo fare — disse Carella. III L'agente investigativo incaricato di indagare sullo strano episodio accaduto negli uffici di Miles Vollner, fu Bert Kling. Il giovedì mattina di buon'ora, mentre Carella e Meyer dormivano ancora, Kling prese la metropolitana, passò alla Squadra per vedere se sull'ordine del giorno c'era qualcosa che lo riguardava; poi, con l'autobus, andò in Shepherd Street. Gli uffici di Vollner erano al decimo piano. La scritta impressa sul vetro smerigliato della porta gli rivelò che il nome della ditta era VOLLNER AUDIOVISUAL COMPONENTS. Scarsamente immaginativo ma indubbiamente chiaro. Kling aprì la porta ed entrò nell'atrio. La ragazza seduta dietro la scrivania era una bruna non molto alta, con la frangetta sulla fronte. Alzò la testa quando lui entrò, sorrise e disse: — Desiderate, signore? — Sono della polizia — disse Kling. — Mi è stato detto che ieri, qui, sono successi guai. — Oh, sì! — esclamò la bruna. — Ce ne sono stati, eccome! — Il signor Vollner è già arrivato? — Non ancora — disse la ragazza. — Avevate un appuntamento? — Non esattamente. Ma l'agente di servizio gli deve aver detto... — Di solito il signor Vollner non arriva prima delle dieci — interruppe
la ragazza — e adesso non sono ancora le nove e mezzo. — Capisco — disse Kling. — Be', farò prima qualche altra faccenda, e magari tornerò più tardi per... — Però Cindy c'è — disse la ragazza. — Cindy? — Sì. È la ragazza che quell'uomo era venuto a trovare. — Non capisco. — Ecco, l'ha detto lui che era venuto per vederla, ma... — State parlando dell'uomo che vi ha aggrediti? — Sì. Aveva detto di essere un amico di Cindy. — Ah, ecco. Be', allora potrei parlare con lei, in attesa che arrivi il signor Vollner? — Certamente. Non vedo perché non potreste — disse la ragazza e premette un pulsante sul suo grosso apparecchio telefonico, poi disse, parlando nel ricevitore: — Cindy, c'è qui un poliziotto per sapere di ieri. Puoi vederlo? Va bene, d'accordo. — Mise giù il ricevitore e disse: — Vi dispiace aspettare un paio di minuti, signor... signor Kling? C'è una persona, adesso, da Cindy. — La ragazza fece una pausa, poi aggiunse: — Sta esaminando uno che ha fatto domanda per essere assunto nella fabbrica. — Capisco. È lei che si occupa delle assunzioni? — No, le assunzioni le fa il capo del personale. — Allora, perché esamina lei quelli che... — Cindy è l'assistente del nostro psicologo. — Ah, ecco. — Sì. Esamina tutte le persone che hanno fatto domanda per essere assunte, poi lo psicologo fa fare tutte le altre prove per vedere se sono adatte al lavoro della nostra fabbrica. Sapete, gli operai devono mettere insieme tutti quei piccoli transistor e cose così, e a fare un lavoro come quello certi diventano nevrastenici, se non sono i tipi adatti. — Eh, ci credo — disse Kling. — Eh, sì. Perciò, prima vengono qui, e Cindy parla con loro per qualche minuto, per capire come vivono, com'è la famiglia, eccetera, e se passano questo primo esame, allora il nostro psicologo gli assegna tutta una serie di prove. Cindy fa un lavoro molto importante. È laureata in psicologia, sapete? Il direttore del personale non prenderebbe mai in considerazione uno per assumerlo, se Cindy o il nostro psicologo dicono che non è adatto per il lavoro della fabbrica. — Un po' come scegliere l'equipaggio per un sottomarino, eh? — disse
Kling. — Cosa? Oh, sì. Pressappoco — disse la ragazza, e sorrise. Poi si voltò a guardare un tale che arrivava dal corridoio. L'uomo sembrava compiaciuto e soddisfatto del suo colloquio con l'assistente dello psicologo della ditta. Sorrise all'impiegata con aria sognante, poi sorrise a Kling, e arrivato alla porta si voltò a sorridere ancora a tutti e due, e se ne andò. — Credo che Cindy sia libera — disse la ragazza. — Un momento che sento. — Sollevò di nuovo il ricevitore, premette il pulsante e aspettò un attimo. — Cindy? Te lo posso mandare, adesso? Va bene. — Depose il ricevitore. — Andate pure — disse a Kling. — Ufficio numero quattordici. Quinta porta a sinistra. — Grazie — disse Kling. — Non c'è di che — rispose la ragazza. Lui passò davanti alla scrivania e infilò il corridoio. Sulla sinistra la prima porta aveva il numero otto, le altre seguivano in progressione matematica, ma il numero tredici era saltato. Dopo il dodici veniva subito il quattordici. Kling si chiese se per caso l'assistente dello psicologo non fosse superstiziosa, poi bussò alla porta. — Avanti — disse una voce femminile. Aprì. La ragazza era vicino alla finestra, con le spalle alla porta. Teneva il ricevitore all'orecchio e aveva buttato indietro i capelli. Indossava una gonna nera e una camicetta bianca. La giacca del due pezzi era sulla spalliera della sua sedia. La ragazza era alta, con una bella figura e una bella voce. — No. John stava dicendo — non mi pare che un Rorschach sia indicato. Certo questo è un altro aspetto. Senti, ti richiamo più tardi, adesso ho gente. Va bene. Ci risentiamo. — La ragazza si girò per deporre il ricevitore, poi guardò Kling. I due si riconobbero immediatamente. — Che cosa fate qui, voi? — disse Cindy. — Dunque siete voi, Cindy — disse Kling. — Cynthia Forrest. E chi se l'aspettava! — Perché hanno mandato proprio voi? Non ci sono altri poliziotti nel vostro Distretto? — Sono il figlio del capo. Ve l'ho già detto tanto tempo fa. — Mi avete detto un sacco di cose, tanto tempo fa. — Adesso, per favore, andate a dire al vostro capitano che io preferisco parlare con un altro...
— Non è un capitano. È un tenente. — Be', diteglielo lo stesso. Parlo sul serio, signor Kling. Non intendo che agli insulti mi sia aggiunta anche l'ingiuria. Il modo in cui mi avete trattata quando è stato ucciso mio padre... — Credo che in quell'occasione ci siano stati molti equivoci, signorina Forrest. — Sì, per lo più fatti da voi. — Stavamo lavorando sotto pressione. In città circolava libero una specie di cecchino che... — Signor Kling, molta gente lavora quasi sempre sotto pressione. Ho sempre creduto che i poliziotti fossero al servizio del pubblico, fossero uomini civili che... — Infatti, è così. — Sì? Voi però siete tutto fuorché civile! Io ho un'ottima memoria, signor Kling. — Anch'io. Vostro padre si chiamava Anthony Forrest ed è stato la prima vittima di quello sparatore matto. Vostra madre... — Sentite, signor Kling... — Vostra madre si chiama Clarice, e avete... — Clara. — Giusto, Clara. E avete un fratello minore di nome John. — Jeff. — Jeff, sì. All'epoca della strage frequentavate l'ultimo anno di pedagogia... — Dopo il primo anno di pedagogia sono passata alla facoltà di psicologia. — ...alla Ramsey University. Avevate diciannove anni... — Ne avevo quasi venti. — ...e siccome sono passati quasi tre anni, vuol dire che adesso ne avete ventidue. — Li compio solo il mese prossimo. — Ho saputo che avete finito gli studi. — Sì, signor Kling — disse Cindy, seccamente. — Ora, se volete scusarmi... — Sono stato incaricato di fare le indagini su una denuncia, signorina Forrest. Incidenti di questo genere sono briciole in una bella città come la nostra, posso quindi garantirvi che il tenente non assegnerà questo incarico a un altro soltanto perché a voi non piace la mia faccia.
— Oltre al resto. — D'accordo. È un vero peccato. Allora, volete dirmi che cosa è successo qui ieri? — A voi non dirò un bel niente. — Non volete che si trovi l'uomo che è venuto qui ieri? — Sì che lo voglio. — Allora... — Signor Kling, intendo mettere le cose in chiaro il più possibile. Voi non mi piacete. Non mi siete mai piaciuto la prima volta che vi ho visto, e continuate a non piacermi. E purtroppo sono di quelli che non cambiano mai idea. — Pessimo difetto per un dottore in psicologia. — Non sono ancora dottore in psicologia. Preparo la tesi di sera. — La ragazza che c'è fuori mi ha detto che siete l'assistente del... — Sì, ma non ho ancora dato la tesi di laurea. — E potete praticare ugualmente? — Secondo le leggi di questo stato, e pensavo che voi le conosceste, signor Kling, nessuno può... — Non le conosco. — Ovvio. Nessuno può praticare la professione di psicologo se non si è addottorato in psicologia, il che significa dare la tesi e prendere la laurea di dottore in psicologia. Io non pratico la professione, signor Kling. Qui parlo con la gente, faccio domande, sento le loro risposte, e qualche volta la sottopongo a prove. — Mi fa piacere saperlo — disse Kling. — Che cosa significa questo vostro commento? — Niente — disse Kling stringendosi nelle spalle. — Sentite, signor Kling, se non ve ne andate immediatamente, ricomincio dal punto in cui siamo stati interrotti! Se ricordo bene, l'ultima volta che vi ho visto vi ho detto di crepare. — Esatto. — Perché non lo fate? — Non posso — rispose Kling. — Mi hanno dato un altro incarico. — Sorrise cordialmente, si sedette sulla sedia di fianco alla scrivania, si mise comodo, e con estrema cortesia chiese: — Signorina Forrest, volete dirmi che cos'è successo qui ieri? Carella arrivò alla Squadra alle dieci e mezzo. Nella sala agenti c'era già
Meyer, e sulla scrivania Carella trovò un appunto in cui si diceva che un certo Charles Mercer del laboratorio di polizia aveva telefonato alle sette e quarantacinque. — L'hai richiamato? — domandò Carella. — Sono appena arrivato anch'io — disse Meyer. — Speriamo che abbia qualche notizia interessante — disse Carella, e chiamò la Scientifica. Chiese di Charles Mercer, ma gli dissero che Mercer aveva fatto il turno di notte ed era andato a casa alle otto. — Con chi parlo? — chiese Carella. — Danny Di Tore. — Bene. Non sapete niente delle prove che Mercer ha fatto per noi su certe capsule di gelatina? — Ah, sì — disse Di Tore. — Un momento solo. Gli avete dato una bella gatta da pelare, sapete? — Che cos'ha scoperto? — Ecco, per cominciare ha dovuto prendere in esame un sacco di capsule, perché non tutte sono dello stesso spessore, sapete? Ogni ditta le fa in un certo modo. — Inserisciti sulla linea, Meyer — disse Carella, e al telefono aggiunse: — Continuate, Di Tore. — Poi, sono moltissimi i fattori che possono modificare il tempo di solubilità delle capsule. Per esempio, se uno ha lo stomaco pieno perché ha appena mangiato, la capsula ci impiega di più a sciogliersi. A stomaco vuoto, invece, il processo avviene con maggiore rapidità. — Capito. Andate avanti. — Inoltre, può anche darsi che una capsula passi attraverso stomaco e intestino senza sciogliersi affatto. Capita, qualche volta, con soggetti anziani. — Ma Mercer ha fatto gli esperimenti, no? — chiese Carella. — Ah, sì, certo. Ha preparato una miscela con una soluzione del cinque per cento di acido cloridrico e un po' di pepsina. Sapete, per simulare i succhi gastrici. Ha messo un po' della miscela in diversi recipienti e ha immerso una capsula in ognuno di essi. — E il risultato? — Lasciatemi prima spiegare che cosa ha fatto. Ha usato capsule di dimensioni e spessore diversi. I vari tipi di capsule sono numerati: più alto è il numero e più piccola è la capsula. Però non chiedetemi perché una capsula del numero quattro è più piccola di quella del numero tre.
— Va bene, ho capito. E che cos'ha scoperto? — Il tempo di soluzione varia da una all'altra. Le prove hanno dato da un minimo di tre minuti a un massimo di quindici. Ce ne sono di quelle che si sciolgono in dieci minuti altre in quattro, altre ancora in otto o in dodici. Che cosa ne dite? — Ecco, non è esattamente quello che... — Comunque, posso dirvi che per lo più le capsule impiegano una media di sei minuti, per sciogliersi. Questo forse è un dato sul quale potete lavorare. — Sei minuti, eh? — Proprio. — Bene. Vi ringrazio, Di Tore. E ringraziate Mercer a nome mio. — Non è il caso. La vostra richiesta l'ha aiutato a non addormentarsi. Carella rimise giù il ricevitore e guardò Meyer. — Cosa ne pensi? — chiese. — Scusa un momento, sono per caso un marziano? Cosa vuoi che pensi di diverso da te? Che abbia preso la sua strofantina sciolta in una bevanda, o che l'abbia ingoiata in capsula, Gifford l'ha sempre presa prima di entrare in scena. — Per forza. Il veleno ci mette pochi minuti ad agire, e le capsule si sciolgono in circa sei minuti. Lui era in scena da sette. — E diciassette secondi — precisò Meyer. — Credi che l'abbia presa volontariamente? — Vuoi dire suicidio? — Potrebbe anche essere. — Si sarebbe ammazzato davanti a quaranta milioni di persone? — Perché no? Un attore è proprio il tipo al quale può piacere l'idea di una fine spettacolare. — Può darsi — disse Meyer, ma non pareva convinto. — Comunque, faremo bene a cercare chi gli è stato vicino prima che entrasse in scena. — Ah, questo è facile — disse Meyer. — Ieri sera attorno a lui c'erano soltanto duecentododici persone. — Proviamo a sentire il tuo signor Krantz. Chissà che non ci possa aiutare. Carella chiamò l'ufficio di Krantz e chiese di parlare col produttore. La centralinista lo mise in comunicazione con una seconda signorina la quale gli passò la segretaria di Krantz, che gli disse: — Il signor Krantz non c'è,
volete lasciar detto qualcosa? — Carella la pregò di attendere un momento, coprì il microfono con una mano e chiese a Meyer: — Andiamo dalla moglie di Gifford? — Mah, io direi di sì — disse Meyer. — Per favore, volete dire al signor Krantz che tra un po' mi può trovare a casa della signora Gifford? — disse Carella alla segretaria, poi la ringraziò e riappese. A mezz'ora di macchina dalla città, il piccolo sobborgo di Larksview offriva miracolosamente ai suoi abitanti qualcosa di più dei soliti appezzamenti di sessanta metri per cento tutto compreso. In un'epoca di frenesia edilizia, era piacevolmente confortante trovare una zona dove le belle case sorgevano a metri e metri di distanza dai tranquilli viali, separate da ampi spazi verdi, e dove l'aria circolava liberamente. L'agente investigativo Meyer Meyer era già stato a Larksview la sera prima, perché gli era sembrato bene spiegare a Melanie Gifford i motivi per cui la polizia voleva far fare l'autopsia, anche se in un caso simile il permesso della moglie non era necessario. Adesso rifece il viaggio, con pazienza e senza lamentarsene, e vide così il piccolo agglomerato alla luce del giorno che ne metteva in risalto le aiuole e i giardini tranquilli e ben tenuti. Da quando si erano messi in moto, Carella non aveva smesso un istante di esporre teorie e formulare ipotesi, ma tacque non appena si fermarono davanti ai due pilastri di pietra che fiancheggiavano l'ingresso di un vialetto pavimentato con ghiaia bianca. Cinque o sei uomini armati di telecamere, e altrettanti muniti di matite e taccuini stavano discutendo coi due poliziotti locali che bloccavano l'entrata. Meyer abbassò il finestrino dalla sua parte e gridò: — Sgombrate, lì! Dobbiamo passare. Uno dei poliziotti si staccò dal gruppo di giornalisti e telecronisti, e si avvicinò alla macchina. — E chi sareste, voi, amico? — disse a Meyer, e Meyer gli aprì sotto il naso il portafoglio. — Ottantasettesimo Distretto, eh? — disse il poliziotto. — Ve ne occupate voi di questo caso? — Proprio così — disse Meyer. — Allora perché non avete mandato qualcuno dei vostri, a proteggere la casa? — Cosa c'è? — intervenne Carella protendendosi verso il finestrino aperto. — Non ce la fate a tenere a bada un paio di giornalisti? — Un paio, dite? Avreste dovuto vedere una decina di minuti fa! Adesso
sono un po' diminuiti. — Allora, si può passare? — domandò Meyer. — Come no? Andate, andate avanti. Puntate dritti su quelli. Poi scoperemo. Meyer suonò energicamente il clacson, poi premette sull'acceleratore. I giornalisti si scansarono alla svelta imprecando dietro la macchina che passò facendo schizzare la ghiaia. — Simpatici ragazzi — disse Meyer. — Uno magari sperava che lasciassero in pace questa povera donna... — Proprio come stiamo facendo noi, no? — disse Carella. — Per noi è diverso. La casa, imponente, era nello stile coloniale georgiano, con le persiane verde chiaro e un grande portico bianco. Ai due lati della porta cominciavano due alte siepi, molto fitte, che seguivano le due ali della costruzione, e giravano fin dietro, a formare una specie di schermo protettivo che assicurava l'intimità degli abitanti. Il viale inghiaiato, arrivato davanti alla porta, deviava a sinistra, per tornare su se stesso dopo aver descritto un ampio cerchio, a metà del quale si trovava lo spiazzo per il parcheggio. Meyer portò la macchina fin lì, mise il freno a mano, e smontò. Carella smontò dall'altra parte, girò attorno alla macchina per raggiungerlo, e insieme percorsero il pezzetto di viale facendo scricchiolare la ghiaia, e andarono alla porta. Nello stipite era inserito un campanello d'ottone, lucidissimo. Carella suonò. Aspettarono. Dopo un po' Carella risuonò. E ripresero ad aspettare. — I Gifford avranno bene una cameriera, no? — disse Carella, perplesso. — Se tu guadagnassi mezzo milione di dollari all'anno, non l'avresti? — Non lo so — disse Carella. — Tu ne guadagni cinquantamila e Sarah non ce l'ha, la cameriera. — Perché a noi non piace ostentare la ricchezza — disse Meyer. — Senza contare che se ne assumo una, il capo della polizia, magari, sarebbe capace di cominciare a farmi domande su tutte quelle bustarelle che intasco. — Anche tu, eh? — Ma certo. L'anno scorso ho intascato un centomila pulito, solo con le macchinette mangiasoldi. — Il mio ramo è la tratta delle bianche — disse Carella. — Credo di avere... La porta si aprì.
La donna era piccola, irlandese, e spaventata. Sbirciò fuori nel sole, poi disse timidamente, con forte accento dialettale: — Sìii, chi siete? — Polizia — rispose Carella. — Vorremmo parlare con la signora Gifford. — Oh! — il disagio della donna aumentò. — Oh, sì — disse. — Sì, entrate. La signora è fuori, coi cani, nel giardino dietro. Adesso vado a vedere se la trovo. Avete detto polizia? — Sì, signora — disse Carella. — Non possiamo andare noi a cercarla, se è in giardino? — Oooh — disse la donna — non so se... — Siete la cameriera? — Sì, signore. — Be', possiamo girare attorno alla casa? — Va bene, ma... — I cani mordono? — si informò prudentemente Meyer. — No! Sono bestie buone. E poi c'è la signora. — Grazie — disse Carella. Si voltarono e presero il sentiero di pietre che girava sul retro della casa. Appena voltato l'angolo videro la donna. Stava uscendo da dietro un boschetto di betulle, all'estremo limite della proprietà. Era alta e bionda. Indossava una gonna di tweed, un cardigan azzurro, e un paio di mocassini, e camminava guardando i due setter rossi che la precedevano correndo. I cani videro quasi subito i due poliziotti, e cominciarono ad abbaiare. La donna alzò la testa incuriosita, poi ebbe un attimo di esitazione e si fermò. — Ti presento la signora Melanie Gifford — mormorò Meyer a Carella. I cani avanzavano verso di loro sul prato, a balzi. Meyer, un po' a disagio, li guardava avvicinarsi. Carella, nato e cresciuto anche lui in città, e non abituato a vedere belve scatenate, nel loro elemento naturale, era sicuro che quei due diavoli gli sarebbero saltati alla gola, e fu tentato di estrarre la pistola. Ma arrivati a tre passi da loro, i cani si fermarono di colpo, e ripresero ad abbaiare all'unisono, furiosamente. — Ssss! — disse Meyer, e batté con forza un piede. Con grande sorpresa di Carella, i cani si voltarono e tornarono correndo dalla padrona che adesso veniva decisa verso i poliziotti, a testa alta, con l'aria di chi vuol sapere cosa sta succedendo. — Sì? — disse. — Chi siete? — La signora Gifford? — chiese Carella. — Sì? — Il tono era imperioso. Adesso che era più vicina, Carella la os-
servò meglio. Aveva lineamenti fini, gli occhi grigi e penetranti, le sopracciglia ad arco perfetto, e la bocca morbida, senza rossetto. L'espressione degli occhi e della bocca tradiva il dolore. Un dolore presente su tutta la faccia, e che le toglieva bellezza. — Sì? — ripeté, con impazienza. — Siamo agenti investigativi, signora Gifford — disse Meyer. — Io sono venuto qui anche ieri sera, non vi ricordate? Lei lo osservò per qualche secondo, quasi dubbiosa della sua affermazione. I cani continuavano ad abbaiare, con maggior coraggio, adesso che erano protetti dalla padrona. — Sì, certo — disse lei alla fine, poi, rivolta ai cani: — Zitti, voi! — e i cani ammutolirono di colpo. — Vorremmo farvi qualche domanda, signora Gifford — disse Carella. — So che è un momento brutto per voi, ma... — Va bene, non vi preoccupate — rispose lei. — Preferite entrare in casa? — Come volete. — Se non vi importa... potremmo stare qui fuori? In casa è... non mi posso, qui all'aria aperta è fresco, si sta bene. Dopo quello che è successo... Osservandola, Carella ebbe la sensazione che recitasse. Corrugò la fronte, ma subito la donna aggiunse: — Lo so che suona tutto terribilmente falso e drammatico. Scusatemi, vi prego. — Comprendiamo, signora Gifford. — Veramente? — disse lei. Un sorriso triste le schiuse le labbra senza trucco. — Vogliamo sederci sul terrazzo? Non sarà troppo freddo, vero? — Il terrazzo va benissimo, signora — disse Carella. Attraversarono l'aiuola verde andando verso il grande terrazzo pavimentato con lastroni di pietre che si stendeva davanti all'ingresso posteriore, aperto sugli alberi tinti dei colori caldi dell'autunno. C'erano tre o quattro poltroncine di metallo smaltate di bianco, e un tavolo con il ripiano in vetro. Melanie tolse da sotto il tavolo un basso sgabello bianco, e si sedette lì. I due uomini presero posto sulle poltroncine, di fronte a lei. Seduti più in alto della donna dovevano abbassare gli occhi per guardarla. Lei alzò la faccia, un gesto patetico, e di nuovo Carella ebbe la sensazione che anche l'atteggiamento della donna fosse studiato, che lei avesse scelto deliberatamente il sedile più basso, per apparire più piccola, e indifesa. D'impulso disse: — Siete un'attrice, signora Gifford? Melanie parve sorpresa. Per un attimo, spalancò i grandi occhi grigi, poi sorrise. Lo stesso sorriso stentato di prima, e disse: — Lo sono stata. Prima di sposare Stan.
— Da quanto tempo eravate sposati, signora Gifford? — Sei anni. — Avete bambini? — No. Carella fece un cenno con la testa, poi disse: — Signora Gifford, ci interessa soprattutto sapere qual è stato il comportamento di vostro marito nelle ultime settimane. Vi è sembrato nervoso, o particolarmente stanco, o preoccupato per qualcosa? — No, non mi sembra. — Si confidava con voi, vostro marito? — Sì, eravamo molto uniti. — E non vi ha mai detto di esser preoccupato, o tormentato da qualcosa? — No. Mi sembrava soddisfatto di come stavano andando le cose. — Quali cose, signora Gifford? — Il suo lavoro, lo spettacolo del mercoledì sera, la popolarità che aveva conquistato con la televisione. Prima che lo show si affermasse, Stan lavorava in un locale notturno, sapete? — No, signora, non lo sapevo. — Eh, sì. Stan ha cominciato con la rivista molti anni fa, poi è passato ai night-club. Stava lavorando in un locale di Las Vegas, quando gli hanno proposto lo show alla televisione. — E da quanto tempo durava la trasmissione del mercoledì? — Da tre anni. — Quanti anni aveva vostro marito, signora Gifford? — Quarantotto. — E voi? — Trentasette. — Non eravate mai stata sposata, prima? — No. — E vostro marito? — Nemmeno. — Potreste dire che il vostro era un matrimonio felice, signora Gifford? — Sì. Molto felice. — Signora Gifford, credete che vostro marito si sia ucciso? — chiese Carella di colpo. Senza esitare, Melanie rispose: — No. — Sapete che è morto avvelenato, vero? — Sì.
— Se non credete che si sia ucciso, allora pensate che... — Sì, penso che sia stato assassinato. — Chi credete che l'abbia assassinato, signora Gifford? — Penso che... — Scusate, signora... — La voce li interruppe dalla porta-finestra del terrazzo. Melanie si voltò. La cameriera era là sulla porta, timida... — C'è il dottor Nelson, signora... — Al telefono? — disse Melanie alzandosi. — No, signora, è qui. — Oh... — Melanie aggrottò la fronte. — Pregatelo di venire avanti. — Tornò a sedersi e disse: — Ancora lui! — Come? — È venuto ieri sera, direttamente dalla televisione. È preoccupato per me. Mi ha dato un sedativo, e questa mattina ha telefonato due volte. — Si circondò le ginocchia con le braccia e, chissà perché, il gesto parve voluto. Carella la guardò in silenzio. Meyer non parlò. Sul prato, uno dei setter si mise ad abbaiare a un uccello ritardatario. — Stavate dicendo, signora Gifford? Melanie alzò gli occhi. Pareva che i suoi pensieri fossero altrove. — Si parlava del probabile assassinio di vostro marito. — Ah, sì... Stavo per dire... credo che l'abbia ucciso Carl Nelson. IV Pochi secondi dopo che Melanie aveva pronunciato il suo nome, il dottor Carl Nelson comparve sulla terrazza. Andò subito a baciare sulle guance la donna, poi strinse la mano a Meyer, che aveva conosciuto la sera prima. Quindi gli fu presentato Carella, e Nelson completò la presentazione con una forte stretta di mano e ripetendo il nome "Agente Investigativo Carella" con un sorriso e un cenno della testa, come se volesse dimostrare di esserselo bene impresso nella mente. E poi si rivolse a Melanie e chiese: — Come stai, Mel? — Sto bene, Carl — rispose lei. — Te l'ho già detto ieri sera. — Hai dormito? — Sì. — È stata una cosa sconvolgente — disse Nelson. — Sono certo che voi signori lo capite. Carella approvò con un cenno. Era intento a studiare l'effetto che la pre-
senza di Nelson aveva su Melanie. Nel momento in cui era comparso sul terrazzo, la donna si era visibilmente chiusa in se stessa, come per sfuggirgli. Adesso se ne stava con le braccia incrociate sul petto, le mani aggrappate alle spalle, come a proteggersi da un forte vento. La posa era indubbiamente teatrale, ma pareva ugualmente spontanea. Forse non era proprio spaventata dalla presenza dell'uomo alto, con la voce profonda e gli occhi scuri penetranti, ma certo sembrava sospettosa, e il sospetto le consigliava un atteggiamento freddo, distaccato, passivo. — È stata fatta l'autopsia? — chiese Nelson a Meyer. — Sì — rispose Meyer. — Posso conoscere i risultati? O sono segreti? — Il signor Gifford è stato ucciso da una forte dose di strofantina — disse Carella. — Strofantina? — la sorpresa di Nelson sembrò sincera. — Alquanto insolito, no? — Voi avete familiarità con questa droga, dottor Nelson? — Sì, naturalmente. Ne conosco l'esistenza e gli usi. Non credo di averla mai prescritta, però. Comunemente non viene usata. — Dottor Nelson, il signor Gifford non soffriva di disturbi cardiaci, vero? — No. Mi pare di averlo detto ieri sera all'agente Meyer. Lo escludo nel modo più assoluto. — Non faceva uso di digitalina o di altri farmaci del genere? — No. — Che cosa prendeva? — Non capisco la domanda... — Non prendeva droghe di nessun genere? Nelson scosse la testa. — No. Non mi risulta. — Dato che eravate il suo medico personale, siete la persona più adatta a saperlo, no? — Esatto. No, signori, Stan non faceva alcun uso di droghe. A meno che non vogliate catalogare fra le droghe le pillole di vitamina o le compresse per il mal di testa. — Per il mal di testa, che cosa usava? — Un composto di empirincodeina. — E le vitamine? — Vitamina B e C.
— Da quanto tempo, prendeva queste vitamine? — Da qualche mese. Era un po' stanco, esaurito. Gli ho consigliato di provare le vitamine. — Gliele avete prescritte regolarmente? — Prescritte? No — Nelson scosse la testa. — Stan prendeva del PlexCin, un prodotto che si può acquistare liberamente in qualsiasi farmacia senza bisogno di ricetta medica. Io gliele ho consigliate, questo sì. — Gli avete consigliato quel particolare preparato? — Sì. È prodotto da una ditta molto seria, e io lo considero di completa fiducia. — Dottor Nelson, in che modo è presentato questo prodotto? Voglio dire, com'è confezionato? In compresse? — In capsule. Confezione molto usata per le vitamine. — Le capsule come sono grandi? — Credo che siano capsule del numero zero. O forse doppio zero. — Non sapete per caso se il signor Gifford aveva l'abitudine di prendere le sue vitamine durante lo spettacolo? — No, io non... — Nelson tacque. Guardò Carella, poi si voltò verso Melanie, e infine tornò a guardare Carella. — Non penserete... — Scrollò la testa. — In fondo, tutto può essere possibile. — Cosa state pensando, dottor Nelson? — Che forse qualcuno ha sostituito la strofantina alle vitamine... — Sarebbe stato possibile? — Sì, certo, possibilissimo — disse Nelson. — Le capsule di PlexCin sono di gelatina opaca, simili a scatolette rotonde, chiuse a incastro. Possibilissimo, quindi, aprire una capsula, togliere il preparato vitaminico e sostituirlo con stronfantina. — Scrollò ancora la testa. — Mi sembra però un sistema troppo lungo per... — S'interruppe. — Per fare che cosa, dottor Nelson? — Ecco... per uccidere una persona. Ci fu un lungo silenzio. — Il signor Gifford prendeva tutti i giorni quelle capsule di vitamine? — chiese Carella alla fine. — Sì — rispose Nelson. — Sapreste dirmi quando le ha prese, ieri? — No. Io... — Lo so io — disse Melanie. Carella guardò la donna. Era ancora seduta sullo sgabello, nella stessa
posizione e con lo stesso atteggiamento assente. — Quando, signora Gifford? — domandò Carella incuriosito. — Una ieri mattina dopo la colazione. — Una pausa. — Mi sono trovata con lui a pranzo, ieri. Ne ha presa una seconda al ristorante. — A che ora? — Subito dopo mangiato. Erano circa le due. Carella sospirò. — Cosa c'è, ispettore? — chiese Melanie. — Credo che il mio collega cominci a odiare gli orologi — disse Meyer. — Che cosa volete dire? — Vedete, signora Gifford, una capsula di gelatina impiega circa sei minuti per sciogliersi e liberare nel corpo ciò che contiene. E la strofantina ha un effetto immediato. — Allora la capsula che Stan ha preso al ristorante non poteva contenere veleno. — Esatto, signora Gifford. Erano le due quando l'ha presa, e si è sentito male soltanto alle otto e cinquantacinque, cioè quasi sette ore più tardi. No, doveva essere già allo studio quando ha preso il veleno. Per qualche secondo Nelson rimase zitto, con aria pensosa. — Allora mi sembra il caso di sentire... — cominciò, ma si interruppe di colpo, perché dall'interno venne il suono petulante del telefono a scuotere la calma del pomeriggio autunnale. David Krantz esordì, come al solito, in modo conciso, da occupatissimo uomo d'affari. La sua voce crepitò secca lungo il cavo telefonico. — Mi avete cercato? — chiese. — Sì. — Come sta Melanie? — Bene, mi sembra. — Non avete perso tempo per andarla a disturbare, vedo. — Cerchiamo anche noi di sbrigare i nostri affari — rispose Carella, seccamente. Ricordava perfettamente la descrizione che Meyer gli aveva fatto del suo incontro con Krantz, e gli sarebbe piaciuto sapere se quelli della televisione avevano tutti per natura un tono così antipatico. — Che cosa volete? — disse Krantz. — Questo telefono non ha smesso un momento di suonare, oggi! Tutti i giornalisti della città, tutte le agenzie di stampa, tutti i cretini di questo mondo vogliono sapere che cos'è successo esattamente ieri sera! Come faccio io a sapere cos'è successo? — Non eravate presente?
— Io ero su in regia, e ho visto solo sul monitor quello che è successo. Comunque, voi che cosa volete? Vi avverto che sono molto occupato. — Voglio sapere esattamente dov'era Stan Gifford ieri sera prima della sua ultima entrata in scena. — Come faccio io a sapere dove era? Vi ho detto che ero in regia! — Di solito, quando non era in onda, dove andava? — Dipende. A seconda del tempo che aveva a disposizione. — Supponete che avesse un intervallo lungo quanto bastava perché il complesso folcloristico cantasse due canzoni. — Probabilmente è andato nel suo camerino. — Potete informarvi e sapermelo dire? — E da chi volete che mi informi? Stan è morto! — Sentite, signor Krantz, vorreste farmi intendere che nella vostra efficientissima organizzazione, ricca di mezzi e di personale, nessuno ha idea di dove fosse Stan Gifford mentre quel complesso si esibiva davanti alle telecamere? — Non ho detto questo. — Cos'avete detto allora? Può darsi che io abbia capito male. — Ho detto che io non so dov'era. Mi trovavo in regia, e c'ero salito quindici minuti prima che la trasmissione andasse in onda. — Va bene, signor Krantz, vi ringrazio. Avete presentato un alibi ottimo. Immagino che Gifford non sia salito in quella cabina dall'inizio della trasmissione, vero? — Infatti. — Allora non potete essere stato voi ad avvelenarlo. È questo che volevate dimostrare? — Non stavo affatto stabilendo il mio alibi. Soltanto volevo... — Signor Krantz, chi può sapere dov'era Gifford in quell'intervallo? C'è qualcuno che lo sa? Esiste nella vostra organizzazione una persona che dovrebbe sapere dove sono gli attori quando non sono in onda? — Mi informerò. Potete richiamarmi? — Preferisco venire personalmente. Sarete in ufficio tutto il giorno? — Sì, ma... — Vorrei farvi qualche altra domanda. — Su che cosa? — Su Gifford. — Sono considerato uno dei sospetti, in questa maledetta faccenda? — Ho detto questo, signor Krantz?
— No. Lo dico io. Sono tra i sospetti? — Sì, signor Krantz — disse Carella, e riappese. Durante il rientro in città, Meyer fu particolarmente silenzioso. A un certo punto Carella, che gli aveva dato il cambio al volante, lo guardò e chiese: — Preferisci divertirti con Krantz adesso o dopo pranzo? — Dopo pranzo — rispose Meyer. — Hai l'aria stanca. Non ti senti bene? — Ho paura di covare qualcosa. Mi sento intontito. — Effetto dell'aria pura. Non ci siamo abituati — disse Carella. — No. Credo che mi stia arrivando un raffreddore. — Posso andare io solo da Krantz. Perché tu non vai a casa? — propose Carella. — No. Non sono moribondo. — Sul serio, Meyer, posso benissimo occuparmi... — Eh, piantala! — disse Meyer. — Mi tratti come un lattante. Mi sembra di sentire mia madre. Tra un po' mi chiederai se ho preso un fazzoletto pulito? — Hai preso un fazzoletto pulito? — chiese Carella, e Meyer scoppiò a ridere, e a metà della risata gli venne di colpo uno sternuto. Mise una mano in tasca, esitò, e guardò Carella. — Vuoi sapere la novità? — disse. — Non ho preso il fazzoletto. — Mia madre mi ha insegnato a usare una manica — disse Carella. — Bene. Posso usare una tua manica? — disse Meyer. — No. Cosa te ne pare del nostro stimato medico? — Non c'è una scatola di Kleenex in questa trappola? — Prova nel cassetto del cruscotto. Cosa te ne pare, del dottor Nelson? Meyer frugò sotto il cruscotto, trovò la scatola dei fazzoletti di carta, e si soffiò il naso rumorosamente. Inspirò due o tre volte a colpetti brevi, disse: — Ohhh! — E subito aggiunse: — Io ho un fatto personale contro tutti i medici, ma questo mi è particolarmente antipatico. — Perché? — Mi sembra uno di quei furbi personaggi subdoli dei film — disse Meyer. — Il che significa che possiamo tranquillamente eliminarlo dalla lista delle persone sospette, no? — C'è un motivo migliore per eliminarlo. Durante la trasmissione, era a casa sua. — Una pausa, poi Meyer aggiunse: — Però è un medico, quindi in grado di procurarsi con facilità una droga poco usata come la strofanti-
na. — Ma è stato lui a suggerire di fare l'autopsia. — Giusto. Altro buon motivo per non occuparsi di Nelson. Se tu avveleni qualcuno, non vai certo a dire ai poliziotti di cercare nel cadavere tracce di veleno, no? — Il furbo e subdolo personaggio di un film lo farebbe. — Sì, ma allora il furbo poliziotto del film capisce subito che il furbo malvagio l'ha fatto per sviare i sospetti. — Melanie la Triste, a quanto pare, pensa che sia stato lui — disse Carella. — Melanie l'Addolorata? Già. Chissà perché? — Bisognerà chiederglielo. — Io volevo farlo, ma il nostro Nelson, detto anche Carl il Grosso, una volta entrato in scena, non ne è più uscito. — Più tardi le telefoneremo. Prendi nota. — Subito — disse Meyer. Tacque per qualche secondo, poi: — Questo caso puzza. — Signore mio, dacci oggi il nostro bel delitto quotidiano, con l'ascia, col coltello, con la rivoltella, alla vecchia maniera! — Di regola il veleno è un'arma femminile, no? — disse Meyer. — Certo — disse Carella. — Basta pensare alla storia del crimine. Pensa un po' a tutti i più famosi avvelenatori. Prendi Neil Cream o Carlyle Harris, per esempio. Oppure Roland B. Molineaux. Prendi un po' Landru e... — Va bene, va bene. Ho capito — disse Meyer. DIPARTIMENTO DI POLIZIA
Rapporto di denuncia
Natura del crimine: aggressione Nome del denunciante: Vollner Miles S. Giorno e ora del crimene 13 ottobre - 2 pomeridiane Giorno e ora della denuncia: 13/10 2,30 pomerid.
Squadra investigativa: 87° Distretto: 87° Data del rapporto: 14/10 Indirizzo del dedunciante: Shepperd Street n. 1116 Luogo del crimine: come sopra Agente assegnato al caso: Bertram Kling
Rapporto sull'interrogatorio di Miles Vollner e Cynthia Forrest:
Miles Vollner è il presidente della Vollner Audio-Visual Components con sede al 1116 di Shepperd Street. Il signor Vollner dichiara che mercoledì 13 ottobre, alle ore 13,45, rientrando in ufficio dopo aver fatto colazione, trovò uno sconosciuto seduto nell'atrio. L'uomo rifiutò di dare il suo nome e di motivare la sua presenza, inoltre minacciò la telefonista della compagnia, signorina Janice Di Santo, quando Vollner disse alla ragazza di chiamare la polizia. Allora Vollner scese in strada dove chiese l'aiuto dell'agente di pattuglia Ronald Fairchild, numero di matricola 36-104 dipendente dell'87° Distretto. Il Fairchild lo riaccompagnò in ufficio. Messo di fronte a Fairchild, lo sconosciuto dichiarò allora di essere lì per vedere una ragazza, e quando gli fu chiesto il nome della ragazza, rispose "Cindy". (Cindy è il diminutivo della signorina Cynthia Forrest, assistente dello psicologo della Compagnia Vollner.) A questo punto Vollner mandò a chiamare la Forrest che, visto l'uomo, disse di non conoscerlo. Mentre lei stava per tornare nel suo ufficio, lo sconosciuto l'afferrò per un braccio. L'agente Fairchild l'ammonì di lasciar stare la ragazza, e andò verso di lui impugnando lo sfollagente. L'uomo assalì Fairchild e lo colpì ripetutamente con calci alla testa e allo stomaco dopo che era caduto. In seguito Fairchild fu portato al Buena Vista dove è stato trattenuto per la perdita di quattro denti e la rottura di tre costole. Vollner sostiene di non aver visto prima quell'uomo, e lo stesso dichiara la signorina Forrest. Cynthia Forrest è la figlia del defunto Anthony Forrest (V. rapporti dal 201 A-4601 al 201 A-46-31) che fu la prima vittima nel caso del "cecchino" di due anni e mezzo fa. Un controllo in archivio ha dato i seguenti risultati: Lewis Redfield (il cecchino) processato e ritenuto colpevole di omicidio di primo grado è stato condannato alla sedia elettrica. La sentenza è stata eseguita nel marzo scorso nel penitenziario di Castleview. Pare che non ci siano legami tra questo caso e il caso del cecchino, ma ho ugualmente ritenuto opportuno che la Forrest vedesse le fotografie di tutti quelli che hanno scontato una condanna a Castleview nel periodo in cui Redfield è rimasto nel penitenziario e che ora risultano rilasciati. È molto improbabile che ne esca qualcosa perché Redfield ha passato tutto il periodo di detenzione nel braccio della morte, però può sempre aver avuto dei contatti con qualche detenuto comune, e aver disposto per la persecuzione della signorina Forrest e
di altri parenti delle sue vittime. Durante il caso del cecchino avevo già avuto occasione di incontrare la Forrest, e da questo incontro la ragazza ha riportato una antipatia invincibile nei miei confronti. Se devono esserci altre indagini, chiedo rispettosamente che il caso venga affidato ad altro agente investigativo. Agente Investigativo di 3° grado Bertram Kling Giovedì pomeriggio il tenente Peter Byrnes lesse il rapporto di Bert Kling, poi chiamò la sala agenti con il telefono interno e chiese a Kling di andare da lui. Quando Kling entrò, Byrnes gli offrì una sedia, che lui accettò, e un sigaro, che rifiutò, poi accese un sigaro per sé, buttò fuori una densa boccata di fumo, e disse: — Cos'è questa storia della invincibile antipatia? Kling si strinse nelle spalle. — Non le piaccio — disse. — In realtà non posso biasimarla. Il nostro primo incontro risale all'epoca in cui ero un po'... fuori fase. Allora, che cosa ne pensi, Peter? — Ehmm — disse Peter Byrnes. — Credi che salti fuori qualcosa da quell'esame delle foto segnaletiche? — Poco probabile. È pur sempre una possibilità, però, e mi è sembrato che valesse la pena di tentare. — Guardò l'orologio. — In questo momento, la ragazza dovrebbe essere giù, nell'Ufficio Identificazione a sfogliare le fotografie. — Forse salterà fuori qualcosa. — Può darsi. Per controllo, ho telefonato ai familiari delle altre vittime di Redfield. Non ho ancora finito, però. Ma quelli con cui ho già parlato dicono che a loro non è mai successo niente, né minacce né incidenti di nessun genere. Non preoccuparti, sono stato molto prudente. Ho detto che si trattava di un normale controllo. Non volevo allarmarli. — Bene — disse Byrnes. — Ma tu non credi che qui si tratti di una specie di vendetta, vero? — Ecco, se si tratta di una vendetta, quell'uomo deve essere qualcuno che Redfield conosceva da prima che lo prendessimo, o al massimo un compagno di prigione. Non vedo altrimenti perché qualcuno debba rischiare il collo per un morto. — Già — disse Byrnes. Aspirò pensoso il suo sigaro poi diede un'altra occhiata al rapporto. — Quattro denti partiti e tre costole rotte — disse. —
Un duro, eh? — Be', Fairchild è nuovo del mestiere. — Lo so. Comunque, questo non mi sembra un tipo che rispetti molto la legge. — Per dirla con un delicato eufemismo — commentò Kling. — Nel rapporto, dici che quel tale ha afferrato la Forrest per un braccio. — Infatti. — Non mi piace, Bert. Se quel ragazzo ha potuto picchiare un poliziotto senza pensarci due volte, cosa sarebbe capace di fare se gli capita di trovarsi da solo con la ragazza? — È questo il punto. — Bisognerà prenderlo, allora. — D'accordo, ma chi è? — Forse scopriremo qualcosa da quelle fotografie della Centrale. — La Forrest ha promesso di telefonare più tardi, appena viste le fotografie. — Chissà che non ci capiti un colpo di fortuna. — Può darsi. — E se no, bisognerà ricorrere ad altri sistemi. Per cominciare, non mi piace che i poliziotti vengano picchiati. E poi non mi piace pensare che forse quel tipo sta aspettando di saltare addosso a quella ragazza. Ha buttato giù quattro denti a Fairchild e gli ha rotto tre costole. Chissà cosa può fare a una ragazzina indifesa. — Ragazzina, non direi. È alta circa un metro e settanta, Pete, e non è poco per un ragazza... — Non mi piace lo stesso. Se non stiamo più che attenti, rischiamo di ritrovarci tra le mani un omicidio. — Mi sembra che questa sia una esagerazione... — Forse, ma forse no. Continuo a pensare che dobbiamo trovarlo. — Già. E come? — Questo non lo so ancora. Su cosa stai lavorando? — Ci sono quelle rapine a ripetizione nelle rivendite di liquori, e poi ho già un altro caso. — Quando è stata l'ultima rapina della serie? — Tre notti fa. — Che piano hai fatto? — Il rapinatore prende di mira i negozi di Culver Avenue, uno dopo l'altro. Ha cominciato all'inizio della strada e la sta risalendo a poco a poco.
Avevo pensato di nascondermi personalmente nel negozio che viene subito dopo l'ultimo saccheggiato. — Credi che tenterà un altro colpo così presto? — Finora tra una rapina e l'altra sono passati dai quattordici ai quindici giorni. — Allora non c'è molta fretta, mi pare. — Be', il rapinatore può decidere di accorciare gli intervalli. — Può anche decidere di cambiare zona o sistema, se è per questo. E allora tu ti troveresti a piantonare il negozio sbagliato. — È vero, ma pensavo... — Lasciamo perdere le rapine, per il momento. Cos'è la storia dell'aggressione? — La vittima è un certo Vinny Marino, un piccolo spacciatore che abita in Ainsley Avenue. Circa una settimana fa, due tipi l'hanno caricato su una macchina e se lo sono lavorato con mazze da baseball. Gli hanno rotto le gambe. Dalle chiacchiere dei vicini di casa di Marino, pare che lui se la facesse con la moglie di uno dei due che l'hanno picchiato. Pare, anzi, che questo spieghi perché gli abbiano fracassato le gambe: per impedirgli di dare ancora la caccia alle donne degli altri. Che fosse nel traffico della droga è puramente casuale. — Per conto mio, potevano anche ammazzarlo — disse Byrnes. Prese di tasca il fazzoletto, si soffiò il naso, poi aggiunse: — Anche il caso del signor Marino non è urgente. Voglio che ti occupi di quest'altro caso, Bert. — Sono sempre del parere che sia meglio affidarlo a qualcun altro. Non riuscirò a ottenere nessuna collaborazione dalla ragazza. — A chi vuoi che lo affidi? — disse Byrnes. — Willis e Brown si stanno occupando di quell'accoltellamento. Hawes sta lavorando a un caso che ha seguito lui dall'inizio, Meyer e Carella sono impegnati in quella maledetta faccenda della televisione, Andy Parker... — Potrei scambiare il mio incarico con quello di uno di loro. — Non mi piace che i casi cambino di mano, una volta avviati. — Farò come vuoi tu, Pete, però... — Te ne sarò grato — disse Byrnes. — Sì, signore. — Puoi seguire la pista della vendetta, ma sono d'accordo con te che con tutta probabilità non ne esce niente. — Lo so. Ma mi sembrava... — Certo, vale la pena di tentare. Mettiti in contatto con gli altri parenti
delle vittime, e senti quello che dirà la Forrest quando telefonerà. Ma se fossi in te non punterei molto su questa pista. — Byrnes fece una pausa, aspirò un paio di boccate dal sigaro, poi disse: — La ragazza dichiara di non conoscerlo, eh? — Esatto. — Pensavo che potesse essere un ex corteggiatore. — No. — Sai, uno respinto, eccetera. — A sentire lei, no. — Forse è uno che vuol portarsela a letto. — Può darsi. — È una bella ragazza? — Be', non è una bellezza, ma mi sembra molto attraente. — Allora forse è proprio così. — Può essere, ma perché scegliere un modo tanto complicato per abbordarla? — Può darsi che lui non conosca altri modi. Dal comportamento pare un teppista, e i teppisti quando vogliono una cosa la prendono. Probabilmente ignora la tecnica dei fiori e delle scatole di dolci. Uno vede una bella ragazza, decide che la vuole, e le va dietro, deciso anche a picchiarla pur di arrivarci. È una mia supposizione. — Può essere quella giusta. — Se è così, siamo avvantaggiati. Pensa a quello che è successo a Fairchild quando si è messo sulla strada di quel tipo. Ci ha ricavato denti e costole rotti. Qualunque cosa quello voglia dalla ragazza... e per conto mio vuole farci l'amore... non permetterà che nessuno gli impedisca di arrivarci, legge o non legge. E qui entri in scena tu. — Cosa vorresti dire? — Che riusciremo a prenderlo con questo sistema. Non voglio fare niente che possa mettere in pericolo la ragazza, voglio invece che quel tipo la faccia contro di te, la sua mossa. — Contro di me? — Proprio. Lui sa dove lavora la ragazza, e probabilmente sa anche dove abita. Sono pronto a scommettere la testa che la tiene d'occhio minuto per minuto. Bene, gli daremo qualcosa da vedere. — E sarei io? — disse ancora Kling. — Sì, tu. Starai con quella ragazza giorno e notte, e quel... — Giorno e notte?
— Nei limiti del ragionevole, s'intende. Quel tipo se la prenderà tanto con te che a un certo punto ti si butterà addosso per ridurti come Fairchild. Kling sorrise. — Bello — disse. — E se ci riuscisse? — Fairchild è nuovo del mestiere — disse Byrnes. — L'hai detto anche tu. — Va bene, Pete, però stai dimenticando una cosa. — Quale? — La ragazza non mi può soffrire. Non le piacerà affatto l'idea di passare tanto tempo con me. — Chiedile se preferisce essere violentata una sera o l'altra nell'ascensore di casa sua, dopo essere stata gonfiata di pugni. Prova a chiederglielo. Kling sorrise di nuovo. — Forse lo preferisce davvero. — Ne dubito. — Pete, quella ragazza mi odia. Sul serio... Byrnes sorrise. — Falle cambiare idea, ragazzo mio — disse. — Metticela tutta per conquistarla. David Krantz lavorava per la Major Broadcasting Associates, una compagnia che aveva la sede in centro, in Jefferson Street. La Major Broadcasting, nominata con la sigla MBA, si occupava principalmente della produzione di programmi televisivi registrati, ogni tanto rischiava l'avventura della ripresa diretta. Lo Stan Gifford Show era, o meglio era stato, uno dei tre spettacoli dal vivo che la compagnia metteva in onda settimanalmente dagli studi locali. Un quarto programma in ripresa diretta andava in onda dagli studi della Costa. La MBA era un colosso della produzione televisiva, e siccome il successo provocava sempre invidia e rabbia, qualche ingrato e scontento bello spirito le aveva appioppato tutta una serie di soprannomi, che andavano dai facili giochetti come Maledetta Banca Anonima agli epiteti del genere Migliori Bestie Associate, per finire con autentiche creazioni artistiche tipo Massacratori Bene Assortiti o Maestri Bocciati Ancora. Ma comunque la si chiamasse e comunque se ne parlasse, restava una compagnia importantissima, grande e potente, che assorbiva oltre il sessanta per cento degli abbonamenti televisivi. Il palazzo di Jefferson Street era di proprietà della MBA, e ogni piano ospitava uffici con le pareti rivestite di legno, dove lavoravano affascinanti segretarie e vicesegretarie importate dalla Costa, e giovanotti dall'aria seria e solenne, vestiti con abiti e cravatte scure, camicie bianche, calze e scarpe nere. David Krantz era anche lui un uomo dall'aria seria e solenne, e porta-
va anche lui l'uniforme della compagnia, ma non era più giovane come una volta. La sua segretaria introdusse Meyer e Carella, poi richiuse delicatamente la porta. — Ho già conosciuto il signor Meyer — disse Krantz, con una sfumatura di sarcasmo — ma con voi ho avuto soltanto il piacere di una conversazione telefonica, signor Casella. — Carella — corresse Carella. — Scusate. Carella. Accomodatevi, prego. Purtroppo, sto aspettando una comunicazione sulla linea speciale, e forse bisognerà interrompere la nostra chiacchierata. Ma spero che capirete. — Certamente — disse Carella. Krantz si lisciò i baffi. — Allora, cosa volete sapere? — Prima di cominciare, avete saputo dov'era Gifford nel periodo in cui è stato fuori scena? — Non sono riuscito a trovare George Cooper. È il nostro a.r., l'unico che può sapere queste cose. — Che cos'è un a.r.? — domandò Carella. — L'assistente alla regia — spiegò Meyer. — Ho parlato anche con lui questa notte, Steve. È Cooper che ha controllato i tempi della registrazione per stabilire ore e minuti. — Ho capito. — Ho provato a telefonargli — riprese Krantz — ma non ha risposto nessuno. Se volete, posso ritentare. — Dove abita? — chiese Carella. — In centro, nel Quarter. Cooper è responsabile della reperibilità di ognuno durante le trasmissioni, quindi sono sicuro che sa dov'era Stan mentre era in onda il complesso vocale. Devo dire alla segretaria che riprovi a chiamarlo? — Sì, per favore — disse Carella. Krantz chiamò la segretaria. In accordo con la politica della compagnia, la segretaria di Krantz era una bellissima rossa, e indossava gonna e maglioncino verdi. La ragazza ascoltò attentamente Krantz che le disse di provare ancora a chiamare il numero di casa di Cooper, poi gli disse: — Abbiamo in linea quella chiamata dalla Costa, signor Krantz. — Grazie — rispose Krantz. — Scusatemi — disse a Carella e Meyer, poi sollevò il ricevitore. — Pronto, Parla Krantz. Salve, Frank. Cos'è quella storia? Chi? Lo sceneggiatore? Cosa vuoi dire? All'autore non piacciono i cambiamenti che abbiamo fatto? E chi diavolo ha chiesto il suo parere?
Lo so benissimo chi ha scritto la sceneggiatura, ma questo cosa c'entra? Scusa un momento, comincia dal principio, per favore. Chi ha apportato le modifiche? Dunque, si tratta di un abilissimo produttore, e allora perché lo sceneggiatore dovrebbe lamentarsi? Lui dice, cosa? Dice che la sceneggiatura è sua e gli dà fastidio che una mezza calzetta di produttore ci pasticci sopra? Senti, chi è questo autore? Chi? Mai sentito. Cos'ha fatto prima? Cosa dice il "Saturday Review"? Cosa diavolo c'entra una rivista letteraria qualsiasi con il pubblico della televisione. Cosa me ne importa se è un romanziere? A me interessa che sappia scrivere sceneggiature per noi! Chi gli ha dato l'incarico? È stato deciso qui o la scelta l'hanno fatta sulla Costa? Senti, Frank, non raccontarle a me certe cose, i romanzieri si trovano a dieci centesimi la dozzina! Sì, anche i buoni romanzieri. Difficile, invece, è trovare uno che sappia fare un copione decente per la televisione. Dici che lui può scrivere un copione decente? Allora qual è il problema? Ah, capisco. Non gli piacciono i cambiamenti che abbiamo fatto. Be', puoi dirmi di che cambiamenti si tratta? "Ah... Capisco, già, la prostituta è stata trasformata in una suora, già, mmm-mm... già alla fine non muore, ma compie invece un miracolo... capisco, sì... be', cosa c'è da dire del protagonista? Non è più un camionista, eh? Ah, capisco, è diventato un calciatore, capisco. Già... e gioca per la squadra dell'università che è vicino alla chiesa, già... Resta ambientato a Londra? Capisco. Oh, sì, sì, lo vorresti girare all'UCLA, mi pare una buona idea, è più vicino allo studio. Be', Frank, in tutta coscienza direi che la revisione ha notevolmente migliorato il lavoro, quindi non capisco cos'abbia da protestare l'autore! Spiegagli che i cambiamenti sono di entità minima e che la maggior parte dei dialoghi originali e degli ambienti non è stata toccata, e rimangono tali e quali li ha scritti lui. Digli che purtroppo subiamo le pressioni della televisione e che perciò siamo costretti ad apportare un paio di piccole... no, usa il termine transizioni... alcune modifiche di transizione, modifiche che sono state apportate da una persona competente perché mancava il tempo per una completa consultazione tra autore e revisore. Digli che abbiamo la più grande considerazione per il suo lavoro, e che teniamo in gran conto il parere del 'Saturday Review' su di lui, ma spiegagli che ci troviamo tutti quanti impegnati nella stessa maledetta corsa col tempo, e per di più siamo ossessionati dagli inserzionisti, dai tempi di produzione, dalle date fissate per la messa in onda, eccetera. Pregalo di essere ragionevole, Frank. Spero che capirà. Bene. Senti questa: sai cos'ha promesso il visone alla visoncina per convincerla ad andare con lui? Prova
a indovinare... No. No, no. Una pelliccia di pelle di sgualdrina! — Krantz scoppiò a ridere. — Okay, Frank, ci sentiamo. Stammi bene, ciao." Depose il ricevitore. La porta dell'ufficio si aprì un secondo dopo, e la bella rossa si affacciò per dire: — Il signor Cooper non risponde. — Continuate a chiamare — disse Krantz, e la ragazza sparì. — Scusate l'interruzione — riprese Krantz. — Continuiamo? — Sì — disse Carella. — Potete dirmi chi c'era con voi in regia durante la trasmissione? — Volete i nomi? — Ve ne sarei grato. — Ho anticipato la vostra richiesta — disse Krantz — e questa mattina, dopo il nostro colloquio telefonico, ho fatto battere a macchina dalla mia segretaria tutto l'elenco. — Siete stato molto previdente — disse Carella. — In questo lavoro, tento sempre di prevedere tutto. — Peccato che non abbiate previsto la morte di Stan Gifford — disse Carella. — Già, quella è stata del tutto imprevista — disse Krantz, in tono grave e convinto, e scosse la testa. — Adesso faccio portare quell'elenco. — Premette un pulsante del telefono. — La mia segretaria prima lavorava allo studio, per il capo della produzione. Avete mai visto seni come quelli? — Mai — disse Carella. — Sono più che notevoli — disse Krantz. La ragazza entrò nell'ufficio. — Sì, signor Krantz? — Portate per favore l'elenco che avete battuto questa mattina. Come va col signor Cooper? — Continuo a chiamare, signor Krantz. — Grazie. — Di niente, signore — disse lei, e uscì. — Notevolissimi — disse Krantz. — Intanto che aspettiamo l'elenco — disse Carella — perché non cominciate a metterci al corrente, signor Krantz? — Oh, sì, certo. Dunque, in cabina con me c'era Gladine. C'è sempre, per prendere appunti di quello che mi... — Gladine? — La mia segretaria. Il seno — disse Krantz, modellando una forma nell'aria. — Ah, sì.
— C'era anche il mio assistente. Si chiama Dan Hollis. Lavora per la MBA da quasi quindici anni. — Chi mandava avanti la baracca? — chiese Meyer. — Scusate, non... — Se tanto voi che il vostro assistente eravate nella cabina di regìa... — Ho capito. Giù nello studio c'era il direttore del programma, e il regista naturalmente era nella cabina di controllo vera e propria, e poi c'era il segretario alla regia che stava attento perché tutto... — Okay — disse Meyer. — E in cabina con voi, chi c'era? — Alcuni ospiti. Due rappresentanti degli inserzionisti, un regista di Hollywood incaricato di girare un film per il nostro studio, e che aveva messo gli occhi su Gifford per una parte, e altri due... La porta si aprì. — Ecco l'elenco, signor Krantz — disse Gladine. — Stiamo sempre chiamando il numero del signor Cooper. — Grazie, Gladine. — Di niente, signore — disse lei, e uscì. Krantz tese a Carella la lista battuta a macchina. Carella la guardò, poi la passò a Meyer. — Signor Feldensehr e signora... Chi sono? — chiese Meyer. — Amici di Carter Bentley, il nostro direttore del programma. Li aveva invitati lui per vedere lo spettacolo. — Non c'era nessun altro, allora, vero? Voi e la vostra segretaria, il vostro assistente Dan Hollis... Chi è Nathan Crabb? — Il regista di Hollywood. Vi ho già detto che... — Ah, già. Poi i signori Feldensehr, e gli ultimi due sono i clienti? — Esatto. — Otto persone in tutto — disse Carella — cinque delle quali erano invitate. — Esatto. — Ci avevate detto che gli invitati erano sei, signor Krantz. — No. Ho detto cinque. — Signor Krantz — disse Meyer — ieri sera mi avete detto sei. — Probabilmente ho contato Gladine. — La vostra segretaria? — disse Carella. — Sì. Forse l'ho inclusa nel numero degli ospiti. — Non è un po'... insolito, signor Krantz, considerare come ospite una dipendente della compagnia? — Ecco...
Un lungo silenzio. — Sì? — disse Carella. — Ecco... Altro silenzio. — Signor Krantz, stiamo parlando di un omicidio — disse gentilmente Meyer. — Non è consigliabile a questo punto tenerci nascosto qualcosa, signor Krantz. — Ecco, io... Immagino di poter fidare nella vostra discrezione, vero? — Certamente — disse Carella. — Ecco, Nathan Crabb... il regista... quello venuto per vedere se Stan poteva andar bene per... — Sì? — Era in compagnia di una ragazza, che lui stava istruendo per il suo prossimo film. Io ho volutamente omesso dall'elenco il nome dell'attrice. — Perché? — Crabb ha moglie e due figli. Non mi è sembrato prudente inserire il nome di quella ragazza. — Capisco. — Ma, se preferite, posso farlo aggiungere. — Sì, lo preferiremmo — disse Carella. — A che ora siete saliti in regia? — chiese di colpo Meyer. — Quindici minuti prima che iniziasse lo show — disse Krantz. — Alle otto meno un quarto? — Esatto. E io ci sono rimasto fino al momento in cui Stan si è sentito male. — Chi c'era quando siete arrivato voi? — Tutti tranne Crabb e la ragazza. — Questi due a che ora sono arrivati? — Dopo cinque minuti. Circa alle otto meno dieci. La porta dell'ufficio di Krantz si aprì improvvisamente. Dalla porta, Gladine sorrise e disse: — Abbiamo rintracciato il signor Cooper, signore. E sulla tre. — Grazie, Gladine. — Sì, signore — disse lei, e uscì. Krantz sollevò il ricevitore. — Pronto? — disse. — Sono Krantz. Salve, George. Ci sono un paio di poliziotti qui da me, stanno facendo indagini sulla morte di Stan. Vorrebbero farti qualche domanda, per sapere esattamente quali sono stati i movimenti di Stan ieri sera. Resta in linea, ti farò
parlare con uno di loro. Si chiama Capella. — Carella — corresse Carella. — Ah, sì, Carella, scusatemi. Ecco, te lo passo, George. Krantz tese il ricevitore a Carella che disse: — Buongiorno, signor Cooper. Siete in casa, adesso? Contate di restarci per un po'? Bene. Il mio compagno e io vorremmo passare da voi. Oh, appena usciamo di qui. Bene. Volete dirmi l'indirizzo, per favore? — prese dalla tasca interna della giacca una penna a sfera, e cominciò a scrivere l'indirizzo di Cooper su un foglietto intestato della MBA. — Bene — disse ancora quando ebbe finito. — Grazie, signor Cooper. Saremo lì tra una mezz'ora circa. Arrivederci. — Ridiede il ricevitore a Krantz, che lo depose sul supporto. — Posso fare qualcos'altro per voi? — disse Krantz. — Sì — disse Meyer. — Potete pregare la vostra segretaria di farci avere gli indirizzi e i numeri di telefono di tutti quelli che ieri sera erano nella cabina di regia quando ci siete arrivato voi. — Perché? Volete controllare se sono realmente arrivato là un quarto d'ora prima che iniziasse lo spettacolo? — Già. E se ci siete rimasto finché Stan Gifford non si è sentito male. Giusto? — Infatti — disse Krantz, poi si strinse nelle spalle. — Fate pure. Controllate tutto quello che volete. Io ho detto la verità. Non ho niente da nascondere. — Ne siamo convinti — disse Carella, sorridendo. — Pregate la signorina di telefonarci per farci avere quegli indirizzi, per cortesia. — Tese la mano, ringraziò Krantz, per il tempo che gli aveva concesso, poi uscì e passò davanti alla scrivania di Gladine, seguito da Meyer. Quando furono nell'ascensore, Meyer disse: — Sì. Notevolissimi! Il quartiere dove abitava Cooper era all'estremo margine del centro cittadino, incuneato in una sottile fetta di città, e con le strade affollate come un bazar. Gioiellerie, mostre d'arte, librerie, bar, pizzerie, quadri esposti sul marciapiede, piccoli locali riservati agli amatori del caffè espresso, teatri, minuscoli cinematografi dove si proiettavano esclusivamente film d'arte, contribuivano tutti a dare al Quarter il sapore, se non proprio l'essenza, di una comunità veramente all'avanguardia. George Cooper abitava al secondo piano di un piccolo edificio in una via stretta e tortuosa. La scala di sicurezza era zeppa di vasi di fiori e ornata con sgargianti scialli sudamericani. Le porte erano verniciate in verde o in arancione, con le maniglie
d'ottone ben lucide. Il carattere da dare alla strada era stato studiato e realizzato da quelli che ci abitavano, gente per lo più fasulla come un informatore cieco. Bussarono alla porta di Cooper e aspettarono. Il padrone di casa venne ad aprire con la stessa espressione scontenta e amareggiata che Meyer conosceva dalla sera prima. — Buongiorno, signor Cooper — disse Meyer. — Vi ricordate di me? — Sì. Entrate — disse Cooper. Diede un'occhiata truce a Meyer, che già conosceva, poi, per essere imparziale, ne diede una anche a Carella, che gli era ancora sconosciuto. — Questo è l'agente investigativo Carella — disse Meyer. Cooper fece un cenno con la testa e li fece entrare. Il soggiorno era arredato sommariamente: uno stretto divano nero contro una parete, due poltrone Bertoia, nere, contro l'altra. Evidentemente la scarsità dei mobili era voluta, e tendeva a mettere in grande risalto i quadri moderni che riempivano le altre pareti. I due poliziotti si sedettero sul divano. Cooper prese posto su una poltrona, di fronte a loro. — Signor Cooper, ci interessa sapere dov'era ieri sera Stan Gifford durante l'esibizione del complesso vocale. — Uscito di scena, Gifford è andato nel suo camerino — rispose Cooper senza esitazioni. — Come fate a saperlo? — Perché più tardi sono andato a chiamarlo proprio là. — Capisco. Era solo nel camerino? — No, aveva compagnia — disse Cooper. — Chi c'era con lui? — Art Wetherley, e Maria Vallejo. — Wetherley è uno sceneggiatore — spiegò Meyer a Carella. — Chi è Maria... come si chiama? — Vallejo. È la nostra costumista. — E quando siete andato a chiamare Gifford, erano tutti e due là, con lui? — Sapete per caso se erano là da molto? — No. — Voi quanto tempo siete rimasto nel camerino di Gifford, signor Cooper? — Ho bussato alla porta, Stan ha risposto: "Avanti". Io ho aperto, ho messo dentro la testa, e gli ho detto: "Tra due minuti, tocca a te, Stan". Lui
mi ha risposto: "Okay" e io ho aspettato finché non è uscito. — Ed è uscito immediatamente? — Quasi immediatamente. Dopo pochi secondi. In televisione, non c'è da scherzare, tutto è calcolato al secondo, sapete? E Stan lo sapeva. Quando gli davo il di scena, scattava. — Quindi, non vi siete fermato affatto nel suo camerino? — No. Non sono nemmeno entrato. Come vi ho detto, mi sono soltanto affacciato. — Quando avete guardato dentro, stavano parlando? — Mi pare di sì. — Stavano per caso discutendo, o litigando? — No, ma... — Cooper scosse la testa. — Cosa c'è, signor Cooper? — Niente. Volete bere qualcosa? — No grazie — disse Meyer. — Siete sicuro di non averli sentiti litigare? — Sicuro. — Da fuori non avete sentito gridare? — No. — Cooper si alzò. — Se mi scusate, berrò qualcosa io. Non è troppo presto per un bicchiere, vero? — No, fate pure — disse Carella. Cooper passò nell'altra stanza. Lo sentirono versarsi da bere, poi lui tornò con in mano un bicchiere tozzo, diritto, dove c'erano un paio di cubetti di ghiaccio e un abbondante triplo whisky. — Non mi piace bere nelle prime ore del pomeriggio — disse. — Sono stato in clinica per un anno, sapete? Quanti anni mi date? — Non saprei — disse Carella. — Ne ho ventotto. Sembro molto più vecchio, no? — No. Non mi sembra — disse Carella. — Prima bevevo molto — spiegò Cooper, e assaggiò un sorso di whisky. L'espressione imbronciata scomparve d'incanto. — Adesso ho ridotto parecchio. — Quando il signor Gifford ha lasciato il suo camerino — disse Meyer — voi eravate con lui, vero? — Sì. — Non avete incontrato nessuno mentre andavate dal camerino alla scena? — Non mi sembra. Perché?
— Se aveste incontrato qualcuno, ve ne ricordereste? — Penso di sì. — Allora, le ultime persone che sono state con Stan Gifford siete voi, Art Wetherley e Maria Vallejo. In realtà, volendo essere precisi, l'ultima persona siete stato voi, signor Cooper. — Immagino di sì. No, aspettate un momento. Mi pare che lui si sia fermato a parlare con un tecnico un attimo prima di entrare in scena. Gli ha detto qualcosa a proposito del passaggio da un campo lungo a un primo piano. Sì, ne sono sicuro. — Il signor Gifford ha mangiato qualcosa, in vostra presenza? — No. — Si è messo in bocca qualcosa? — No. — Quando siete andato nel suo camerino, non stava mangiando o bevendo niente? — Io non sono andato nel suo camerino. Ho solo guardato dentro. Mi pare che ci fossero in giro delle tazze da caffè, ma non ne sono sicuro. — Stavano bevendo caffè? — Vi ho detto che non ne sono sicuro. Carella approvò con un cenno, guardò Meyer, guardò Cooper poi, molto lentamente, con estrema calma, chiese: — Che cosa volevate dirci, signor Cooper? Cooper si strinse nelle spalle. — Niente di quello che volevate sapere. — D'accordo. Ma cos'era? — Non voglio mettere nei guai nessuno. — Di che cosa si tratta, signor Cooper? — Ecco... ieri, poco prima che cominciasse lo spettacolo, Stan Gifford ha avuto uno scontro con Art Wetherley. Be', non si sono picchiati. Hanno solo avuto una discussione. Così, uno scontro a parole. Dopo... ecco, io ho detto che speravo che Stan si calmasse prima di andare in onda, e Art... Sentite, io non voglio metterlo nei guai. Art è un bravo ragazzo... Non ve ne avrei nemmeno accennato... ma i giornali dicono che Stan è stato avvelenato e... insomma, non so... — Che cos'ha detto Art, signor Cooper? — Ha detto... che sperava che Stan crepasse. Per qualche secondo Carella non parlò, poi si alzò e disse: — Sapete dirci dove abita Art Wetherley, per favore?
Cooper disse dove abitava Wetherley, ma non servì molto, perché quando loro arrivarono là, lui non c'era. Scesero a chiedere informazioni alla portiera, la quale disse di averlo visto uscire in mattinata e che, no, non aveva bagaglio con sé, e perché mai avrebbe dovuto portare delle valigie alle dieci del mattino? Carella e Meyer dissero alla portiera che se, per esempio, lui avesse avuto intenzione di partire ecco che avrebbe avuto delle valigie, e la portiera disse che lui non sarebbe mai partito di giovedì, perché il giovedì la MBA proiettava la registrazione dello spettacolo della sera precedente, in modo che gli sceneggiatori e gli altri potessero rendersi conto di quali battute avevano fatto ridere e quali no, e questa era una cosa molto importante nel lavoro del signor Wetherley. Carella e Meyer spiegarono che, forse, dopo quello che era successo la sera precedente, quel giovedì la registrazione non sarebbe stata proiettata. Ma la portiera rispose che quanto era successo non cambiava niente, che con tutta probabilità la MBA avrebbe sostituito lo show, e che il signor Wetherley avrebbe comunque dovuto scrivere le scenette per il nuovo spettacolo, quindi era molto importante vedere la registrazione oggi per sapere a che punto il pubblico aveva riso e dove non aveva riso. La ringraziarono, e telefonarono alla MBA, da dove risposero che quel giorno non avrebbero visionato la registrazione e che Wetherley no, non era là. Andarono a prendere un caffè con una brioche in un bar vicino all'appartamento di Wetherley, e discussero un po' sull'opportunità di operare un fermo nei confronti dello sceneggiatore, poi decisero che sarebbe stato un passo eccessivo, se fatto sulla sola scorta di una frase riportata, anche ammesso che Cooper avesse detto la verità, il che poteva non essere. Erano poliziotti bene informati e tutt'altro che sprovveduti, e sapevano tutto sull'ambiente della televisione, quella specie di scannatoio dove ognuno cercava di fare la forca all'altro e tutti si pugnalavano a vicenda nella schiena. In fondo, era possibilissimo che Cooper avesse mentito. In realtà era possibilissimo che avessero mentito tutti. Perciò chiamarono la Squadra, e incaricano Bob O'Brien di piantonare il telefono di Wetherley, cioè di chiamare il numero dello scrittore ogni mezz'ora, e se gli capitava che quello rispondesse, avvertirlo di non muoversi di casa. O'Brien stava cercando di risolvere solo tre casi di violenza successi a Grover Park e che sembravano collegati tra loro, quindi non aveva proprio nient'altro da fare che comporre il numero di Wetherley ogni mezz'ora, e di conseguenza fu felicissimo di esaudire i desideri di Carella. I due poliziotti discussero un paio di minuti sull'importo della mancia da lasciare alla cameriera del bar, e alla fine
si accordarono su una percentuale del quindici per cento abbondante, considerato che la ragazza li aveva serviti in fretta e che aveva delle belle gambe, poi tornarono fuori, sulla strada. L'aria del tardo pomeriggio era frizzante e leggera, e la città splendeva di una luminosità limpida che dava rilievo a cose e persone. Le strade sembravano più lunghe e parevano spingersi fino all'orizzonte. I mille particolari a cui i due uomini erano abituati, le cose familiari che davano una fisionomia alla città, sembravano più vicine e percepibili, quasi intime, quasi dettagli di un unico quadro complesso di cui anch'essi facevano parte. Allungando una mano si poteva toccare la città. Si distinguevano gli occhi di pietra di un mascherone su al dodicesimo piano. Anche la gente, i cittadini che facevano la città com'era, sembravano più limpidi. Camminavano coi soprabiti aperti, non più esseri anonimi, godendo della stupenda giornata autunnale, e contagiati da quella rarità, camminavano riempiendosi i polmoni dell'aria fattasi di colpo tanto dolce. Carella e Meyer attraversarono allegramente la strada. Sorridevano tutti e due. Camminavano con la città tra loro come una bella ragazza, godendo in silenzio della sua presenza radiosa, orgogliosi di averla con sé. Per qualche minuto almeno dimenticarono che stavano indagando su una morte che sapeva di omicidio. V Come Kling aveva previsto, Cindy Forrest non fu allettata dalla prospettiva di dover trascorrere con lui una parte sia pure infinitesimale del suo tempo. Ammise, comunque, per quanto con riluttanza, che una simile disgrazia poteva essere meno grave dell'eventualità di trascorrere un uguale periodo in un letto d'ospedale. Fu deciso che Kling sarebbe andato a prenderla il venerdì a mezzogiorno, all'uscita dall'ufficio, l'avrebbe accompagnata a fare colazione, e poi l'avrebbe riaccompagnata in ufficio. Lui le ricordò che era un dipendente dell'amministrazione pubblica, e che non possedeva un conto spese al quale attingere per portare a pranzo i cittadini allo scopo di proteggerli, una messa a punto che Cindy considerò come un'altra prova della discutibile personalità di Kling. Quel poliziotto non era soltanto odioso: era anche tirchio. Alle dodici di venerdì, il bellissimo tempo del giorno prima si era trasformato in una giornata triste e opprimente. Il cielo era grigio cupo senza speranza, le strade sembravano sbiadite, e la gente aveva perso vivacità.
Kling andò a prendere la ragazza all'ufficio, e in silenzio raggiunsero un ristorante lontano sei isolati. Lei aveva i tacchi alti, ma anche così gli arrivava appena al mento. Erano biondi tutti e due, e tutti e due senza cappello. Kling camminava con le mani nelle tasche del soprabito. Cindy teneva le braccia incrociate, con le mani nascoste sotto. Arrivati al ristorante, Kling si dimenticò di tenerle aperta la porta, ma solo Un leggero sbattere di ciglia indicò che questo era esattamente il comportamento che Cindy si era aspettata da un tipo come lui. Troppo tardi lui si fece da parte per lasciarla passare. — Spero che vi piaccia la cucina italiana — disse Kling. — Mi piace — rispose lei — ma avreste dovuto chiedermelo prima. — Scusatemi, ma avevo un paio di altre cose in testa oltre alla preoccupazione di quale ristorante vi piacesse. — Sono sicura che siete un uomo molto indaffarato — disse Cindy. — Infatti. — Sì, ne sono convinta. La proprietaria del ristorante, una napoletana piccola con una gran massa di capelli neri attorno alla faccia tonda ma bella, li scambiò per innamorati e li fece accomodare a un tavolo isolato e discreto, in fondo al locale. Kling si ricordò di aiutare Cindy a togliere il soprabito (e lei mormorò un grazie, educatamente) e poi si ricordò anche di tenerle la sedia mentre lei si sedeva (e Cindy prese nota della cortesia con un lieve cenno della testa). Il cameriere, avute le ordinazioni si allontanò, e loro rimasero seduti uno di fronte all'altra, in silenzio. Un silenzio che si prolungò alquanto. — Mi rendo conto che sarà inebriante pranzare con voi per Dio solo sa quanto tempo! — disse infine Cindy. — Vi assicuro che anch'io preferirei fare qualcos'altro, signorina Forrest — disse Kling — ma, come avete sottolineato voi ieri, sono al servizio dei cittadini, e devo fare quello che mi viene ordinato. — Carella lavora ancora nella vostra Squadra? — chiese Cindy. — Sì. — Avrei preferito pranzare con lui. — Eh, sono i guai della vita — disse Kling. — D'altronde, Carella è sposato. — Lo so. — E ha anche due bambini. — Lo so.
— Ehm. Ecco, sono sicuro che a Carella sarebbe piaciuto moltissimo potersi scegliere questo incarico, ma sfortunatamente si sta già occupando di un avvelenamento. — Chi è stato avvelenato? — Stan Gifford. — Oh! Carella si sta occupando di questo? Ho letto della morte di Stan Gifford nei giornali di ieri. — Sì, è il suo caso. — Deve essere un buon investigatore, se gli hanno affidato un caso tanto importante. — Sì, è molto bravo. Tacquero tutti e due per qualche minuto. Kling si voltò a guardare verso la porta. Un uomo tarchiato, con un soprabito scuro, stava entrando in quel momento. — È quello, il vostro amico? — chiese Kling. — No. È l'uomo che vi interessa non è un mio amico. — Il tenente pensava che fosse, magari, un vostro ex-corteggiatore. — No. — O qualcuno che avete conosciuto da qualche parte. — No. — Siete sicura di non aver riconosciuto nessuno dei pregiudicati di cui ieri vi hanno mostrato le fotografie? — Sicurissima. Non so chi sia quell'uomo, e non riesco a immaginare cosa possa volere da me. — Il tenente avrebbe una sua idea, a questo proposito. — Qual è questa idea? — Preferisco non parlarne. — Perché... — Ecco... preferisco non parlarne. — Il vostro tenente pensa forse che quell'uomo voglia venire a letto con me? — disse Cindy. — Come avete detto? — Se il tenente pensa che... — Ah, sì... ecco... qualcosa del genere — disse Kling, e tossicchiò. — Non mi stupirebbe — disse Cindy. L'arrivo del cameriere esonerò Kling da ulteriori commenti. Cindy aveva ordinato l'antipasto, una specialità della casa. Kling aveva chiesto invece un piatto di minestrone. Si ricordò di aspettare che lei avesse cominciato a
mangiare prima di prendere in mano il suo cucchiaio. — Com'è? — le chiese. — Ottimo. — Una pausa. — E la vostra minestra? — Buonissima. Per un po' mangiarono in silenzio. Poi, Cindy chiese: — Che piano avete, esattamente? — Secondo il tenente, il vostro ammiratore è un po' una testa calda, supposizione abbastanza logica, direi. Fatta questa premessa, lui spera che il nostro uomo ci veda insieme, e in base a questa speranza, spera che mi bastoni. — Nel qual caso? — Nel qual caso io bastono lui, e poi lo porto dentro. — Oh, mio eroe! — disse Cindy, secca, e attaccò una sardina. — Il piano prevede che io rimanga con voi il più a lungo possibile — disse Kling. Fece una pausa, poi aggiunse: — Credo che ceneremo insieme, questa sera. — Cosa? — Già — disse Kling. — Sentite, signor Kling. — Non è stata una mia idea, signorina Forrest. — E se io avessi altri progetti? — Li avete? — No, ma... — Allora, il problema non esiste. — Di solito non ceno fuori, signor Kling, a meno che non mi accompagni qualcuno. — Vi accompagnerò io. — Non intendevo questo. Io lavoro per vivere, e non posso permettermi... — Ecco, mi dispiace per la questione finanziaria, ma come vi ho spiegato... — Sì, lo so. Be', dite al vostro tenente che non posso permettermi di spendere per il ristorante tutte le sere. Chiaro, no? Guadagno centodue dollari alla settimana, detratte le tasse, signor Kling, e con quello che mi resta devo pagarmi l'università, e l'affitto, e... — La cosa non dovrebbe andare tanto per le lunghe. Se il nostro uomo ci vede, può darsi che passi presto all'attacco. Fino a quel momento ci regoleremo come stabilito. Avete visto l'ultimo film di Hitchcock?
— Cosa? — L'ultimo film di... — No, non l'ho visto. — Possiamo andarlo a vedere dopo cena. — Perché? — Un modo come un altro per stare insieme. — Kling fece una pausa. — Come alternativa potrei proporre una lunga passeggiata, ma temo che faccia già un po' troppo freddo, la sera. — Io posso invece proporre che dopo cena andiate direttamente a casa vostra — disse Cindy. — Come alternativa, naturalmente. Per dirvi la verità, signor Kling, alla fine di una giornata di lavoro mi sento molto stanca. Il martedì, il mercoledì e il giovedì, poi, ho appena il tempo di mangiare un panino prima di correre a lezione. Non sono il tipo della ragazza mondana, e credo che l'abbiate capito. — Ordini del tenente — disse Kling. — Già! Dite al tenente che ci vada lui a vedere l'ultimo film di Hitchcock. Cenerò con voi, se insistete, ma subito dopo andrò a letto. — Una pausa. — E non sto proponendo un'alternativa. — Non l'ho pensato. — Ho voluto soltanto chiarire la situazione. — La situazione la conosco benissimo — disse Kling. — In questa città ci abita un sacco di gente, signorina Forrest, e nel numero c'è l'uomo che vi ha preso di mira. Non so quanto ci vorrà per scoprire chi è, non so se e quando lui ci vedrà insieme. Ma so che non gli sarà possibile vederci insieme se voi ve ne state tranquilla a dormire nel vostro lettino, e io tranquillo nel mio. — Kling tirò il fiato e riprese: — Perciò, signorina Forrest, ecco cosa faremo: questa sera andremo a cena insieme, poi a vedere il film di Hitchcock, e poi a bere un caffè o qualche cos'altro da qualche parte, e poi vi accompagnerò a casa. Domani è sabato, e potremo organizzare una bella giornata da passare tutta insieme, voi e io. Lo stesso dicasi per domenica. Lunedì... — Oh, Dio! — disse Cindy. — Eh! Volevo dirlo io — ribatté Kling. — Allegra, stanno arrivando le vostre lasagne. Mentre Cindy Forrest metteva in bocca la prima forchettata di lasagne, un bianco prendeva a pugni un nero, in un bar di Culver Avenue, e così cinque agenti investigatori dell'87° Distretto vennero spediti là d'urgenza, a
stroncare la rissa che aveva tutta l'aria di essere l'inizio di un disordine su larga scala. Due di quegli agenti erano Carella e Meyer, distolti dal loro incarico del momento in base alla teoria secondo cui Stan Gifford era già morto, mentre lì, in Culver Avenue qualcun altro poteva rimetterci la pelle prima di sera, se non si faceva qualcosa alla svelta. Logico che non c'era molto da fare, subito. Un disordine di quel genere comincia o non comincia, e spesso la presenza dei poliziotti serve solo a infiammare maggiormente una folla già esagitata, contraddicendo la logica che ha suggerito il loro intervento. Poliziotti in divisa e agenti investigativi dell'87° Distretto poterono soltanto attenersi a una tattica dilatoria, cercando di calmare gli animi, quando potevano, tentando di individuare nella folla qualcuno che conoscevano personalmente e parlando in nome del buon senso, assicurando i presenti che entrambi gli uomini coinvolti nella rissa erano stati arrestati, e non soltanto il nero. Qualcuno fu possibile calmarlo, e qualche altro no. I poliziotti si spostavano da un capannello all'altro, atteggiandosi a buoni papà, nel tentativo di sanare ferite vecchie di un secolo, pronunciando ispirate parole di pace, battendo comprensive manate sulle spalle, e chiedendo di essere considerati amici. Ma molti poliziotti non erano amici, e la gente lo sapeva. Molti poliziotti erano uomini rabbiosi con rabbiose concezioni personali sui neri e sui portoricani, pregiudizi innati che né l'esempio né le prediche potevano estirpare. La faccenda andò avanti parecchio nel ventoso pomeriggio d'ottobre. La folla cominciò a disperdersi dopo le quattro. Gli agenti di pattuglia rimasero sul posto in numero doppio del normale, ma gli agenti investigativi, sostituiti da colleghi disponibili, poterono tornare alle loro indagini. Meyer e Carella andarono da Maria Vallejo. La donna abitava in una delle migliori zone della città, in un antico edificio di pietra con le scale d'ingresso tutte belle lustre e le tende dietro i vetri della porta. Entrarono nel piccolo atrio dove c'erano le cassette delle lettere e la fila di campanelli, tutto di ottone lucidissimo, trovarono il nome di Maria Vallejo col numero del suo appartamento, il 22, e suonarono il campanello. Il ronzio di risposta, lungo e insistente, continuava ancora quando già loro stavano salendo le scale coperte dalla passatoia, diretti al secondo piano. Suonarono di nuovo il campanello, anche questo d'ottone e lucido, di fianco alla porta segnata col numero 22. Dall'interno, aprirono subito. Maria era piccola e bruna, e sprizzava vitalità. Poteva avere trentuno o trentadue anni, aveva capelli neri e folti, pettinati lisci indietro e fermati sulla nuca, vivaci occhi scuri, la bocca carnosa, e il naso rifatto da un in-
tervento di chirurgia estetica. Indossava una camicetta bianca e un paio di pantaloni neri di stoffa operata. Unico ornamento, un grosso paio di cerchi d'oro alle orecchie. Aprì la porta con l'espressione della padrona di casa che sta aspettando ospiti, poi guardò i due poliziotti con aria perplessa. — Sì? — disse. — Cosa c'è? — la sua pronuncia era senza accento. Se Carella avesse dovuto indovinare l'origine della donna dal modo di pailare, avrebbe detto che era di Boston o dei dintorni. — Siamo della polizia — disse, mostrando il distintivo appuntato all'interno del portafoglio. — Stiamo facendo indagini sulla morte di Stan Gifford. — Ah, sì — disse lei. — Entrate. La seguirono nell'appartamento. Era arredato con molto buon gusto, e arricchito di mobiletti e soprammobili acquistati dai migliori antiquari della città. Alle pareti e sugli scaffali, antichi schiaccianoci, vecchie locandine di teatro, una bambola francese, bozzetti ad acquerello di costumi e scene teatrali, un ventaglio nero di seta, e tre o quattro decorazioni militari. Il soggiorno, piccolo, con grandi finestre verso strada coperte da tendaggi, illuminato dal sole del pomeriggio, era arredato con un divano e una poltrona a dondolo ricoperti di velluto verde scuro, un tavolo col ripiano di marmo su cui c'erano alcuni numeri di "Paris Match", una poltrona a dondolo, di legno, un posapiedi ricamato. — Accomodatevi — disse Maria Vallejo. — Posso offrirvi qualcosa da bere, o non potete, in servizio? Forse un caffè? — Ne accetto una tazza — disse Carella. — Lo stavo giusto preparando. L'ho appena messo al fuoco. Ho sempre la caffettiera al fuoco. Credo di bere un milione di caffè al giorno. — Li lasciò per andare in cucina. Da dov'erano poterono vederla davanti a un tavolo rotondo col ripiano di vetro sopra cui pendeva una lampada di Tiffany, intenta a versare il caffè da una caffettiera col manico smaltato. La donna tornò in soggiorno portando tazze, zucchero, cucchiaini e bricco del latte, su un vassoio di teak che depose sul tavolino dopo aver spostato le riviste francesi. Servì i due poliziotti, poi si sedette sulla poltrona a dondolo, e bevve il caffè, ondeggiando pigramente avanti e indietro. — Ho comperato questa poltrona dopo che Kennedy è stato ucciso — disse. — Vi piace? Finora non si è ancora rotta. Allora, cosa volete sapere di Stan? — Abbiamo saputo che mercoledì sera, prima che Gifford tornasse in scena, voi eravate con lui nel suo camerino. È vero?
— Verissimo — rispose lei. — Eravate sola con lui? — No, c'era altra gente in camerino. — Chi, esattamente? — Oooh, adesso sul momento non ricordo bene... Mi pare che ci fosse Art, sì, c'era Art, e forse un'altra persona. — George Cooper, forse? — Sì! Giusto. Cooper. Ehi, ma come fate a saperlo? Carella sorrise. — Il signor Cooper però non è entrato nel camerino, vero? — Certo che è entrato! — Devo essermi spiegato male. Il signor Cooper ha semplicemente bussato, e poi ha aperto la porta per avvertire Gifford che era di scena, non è così? — No, è entrato — disse Maria — e si è fermato un po'. — Quanto tempo è rimasto nel camerino, secondo voi? — Oh, almeno cinque minuti. — Ne avete un ricordo preciso? — Oh, sì. Sono sicurissima di quello che ho detto. — Cos'altro ricordate, signorina Vallejo? Che cos'è successo mercoledì sera nel camerino di Stan Gifford? — Niente di speciale. Abbiamo fatto quattro chiacchiere. Stan si stava riposando un po', approfittando dell'esibizione del complesso folcloristico, e io sono entrata da lui proprio per scambiare quattro parole e fumare una sigaretta. — Di che cosa avete parlato? — Non ricordo — rispose lei, scuotendo la testa. — Chiacchiere banali. Il monitor era acceso, e avevamo il sottofondo di quei matti che cantavano, quindi abbiamo parlato di cose senza importanza. — Il signor Gifford ha mangiato o bevuto qualcosa? — No, no. Non ha preso niente. Abbiamo soltanto chiacchierato. — Niente caffè, o tè, o cose del genere? — No, niente. — Ha preso forse una pastiglia di vitamina? Ve ne sareste accorta, se l'avesse presa? — Santo cielo, no, non ho notato niente. — O un qualsiasi tipo di pillola? — No. Abbiamo parlato e basta.
— Vi era simpatico, il signor Gifford? — Ecco... Maria esitò. Si alzò dalla poltrona a dondolo, andò a deporre la sua tazza di caffè sul tavolino, tornò alla poltrona e si strinse nelle spalle. — Allora, signorina Vallejo, vi piaceva Gifford? — Non mi piace parlare dei morti — disse la donna. — Abbiamo parlato di lui fino a mezzo minuto fa. — Non mi piace parlare male dei morti — corresse Maria. — Allora non vi piaceva? — Era un po' troppo pesante, ecco tutto. — Pesante in che senso? — Io sono la costumista dello show... — Sì, lo sappiamo. — Sotto di me lavorano otto persone. Sono tante, e io ho la responsabilità di tutte e otto. Credetemi, non è facile scegliere e preparare i costumi per uno spettacolo settimanale. Ecco... Stan non mi facilitava certo il lavoro. Lui... be', lui non se ne intendeva affatto di costumi, ma pretendeva di intendersene, e... spesso mi dava ai nervi, ecco tutto. — Capisco — disse Carella. — Ciononostante, siete entrata nel suo camerino per chiacchierare con lui — disse Meyer con voce nasale, poi aspirò un paio di volte rumorosamente. — Non c'è guerra tra di noi. Solo che di tanto in tanto strillavamo un po' uno contro l'altra, ecco tutto. Lui non capiva niente di costumi, io invece di costumi me ne intendo parecchio, è il mio mestiere. Gli scontri erano inevitabili, ma questo non mi impediva di andare nel suo camerino a fare quattro chiacchiere. Non ci vedo niente di male nell'essere andata da lui a chiacchierare. — Nessuno ha detto che ci sia stato qualcosa di male, signorina Vallejo. — Volevo dire... so che un uomo è stato assassinato, eccetera eccetera, ma non mi sembra un buon motivo per esaminare al microscopio ogni parola che è stata detta od ogni gesto che uno ha fatto. La gente litiga spesso, sapete? — Sì, lo sappiamo. Maria tacque. Smise di dondolarsi e voltò la testa verso la finestra, da dove il sole filtrava attraverso le tende, e a voce molto bassa disse: — Ma perché me la prendo? Vi ho già detto che Stan e io non andavamo d'accordo. — Scosse la testa con aria desolata. — Credo che fosse sul punto di
farmi licenziare. So che aveva detto che non intendeva sopportarmi più a lungo. — Da chi l'avete saputo? — Da David. Mi ha detto... David Krantz, il nostro produttore, mi ha detto che Stan aveva deciso di darmi il benservito. È per questo che mercoledì sera sono andata da lui. Per chiedergli se era vero, e tentare di... Ecco, quel lavoro mi rendeva bene. I motivi personali non dovrebbero interferire col lavoro. Non volevo perdere il mio incarico, ecco tutto. — Avete discusso del lavoro con lui? — Avevo cominciato a parlarne, ma poi è entrato Art, e subito dopo è arrivato George, così me n'è mancata l'occasione. — Una pausa. — Immagino che ormai la questione sia puramente accademica, no? — Credo di sì. Meyer si soffiò rumorosamente il naso, rimise via il fazzoletto poi, quasi casualmente, disse: — Siete conosciuta, come costumista, signorina Vallejo? — Sì, certo. — Quindi, anche se Gifford vi avesse licenziata avreste trovato un altro lavoro, no? — Ecco... Nel nostro ambiente le notizie volano. Non è buona pubblicità venire esonerata da un lavoro, da nessun lavoro. Credo che lo sappiate anche voi. Alla televisione poi... Be', avrei preferito essere io a dare le dimissioni, ecco. E volevo chiarire la situazione proprio per questo, quando sono andata nel camerino di Stan. Volevo mettere le cose in chiaro. Se era vero che aveva deciso di licenziarmi, preferivo saperlo con sicurezza per avere la possibilità di essere io a lasciare il posto, ecco tutto. — Ma vi è mancata l'occasione di parlarne. — Ve l'ho detto. È entrato subito Art. — Vi ringraziamo, signorina Vallejo — disse Carella alzandosi. — Il vostro caffè era ottimo. — Sentite... Si era alzata, e la poltrona dondolava avanti e indietro, vuota, adesso. Maria Vallejo era in piedi in mezzo alla stanza, col sole filtrato dalle tende alle sue spalle. La donna si tormentò le labbra coi denti, poi riprese: — Sentite, io non c'entro con questa storia. Meyer e Carella non dissero niente. — Stan non mi piaceva, e forse stava veramente per licenziarmi, ma io non sono matta, sapete? Forse ho un carattere un po' focoso, ma non sono
matta. Noi non andavamo d'accordo. Tutto qui. Non è un buon motivo per ammazzare una persona. Un sacco di gente che faceva parte dello show non andava d'accordo con Stan. Lui era un uomo difficile, ecco tutto. Ed era la stella dello spettacolo. Ci rompeva l'anima ogni tanto, ecco tutto. Ma io non l'ho ucciso. Io... io non saprei nemmeno da che parte si comincia a far del male a qualcuno. Quando furono di nuovo in strada, il pomeriggio era sul finire. Carella guardò l'orologio e disse: — Telefoniamo un po' a Bob. Sentiamo se è stato fortunato con Wetherley. — Telefona tu — disse Meyer. — Io mi sento moribondo. — Faresti meglio a metterti a letto — consigliò Carella. — Sai qual è il miglior rimedio contro il raffreddore, secondo la contessa Klara? — No. Qual è? — Spalmare sullo stomaco un ebreo ben caldo. — Meglio prendere anche un paio di aspirine, però — disse Carella. Andarono fino alla tabaccheria più vicina, e Carella chiamò la salaagenti. Robert O'Brien gli disse che aveva tentato tre volte, nel pomeriggio di telefonare a Wetherley, ma che non aveva mai avuto risposta. Carella ringraziò, riappese e tornò alla macchina, dove Meyer stava soffiandosi il naso con l'aria di stare proprio molto male. Nel tempo che ci misero a tornare alla Squadra, O'Brien telefonò una quarta volta a casa dello sceneggiatore, con lo stesso risultato. Carella disse a Meyer di andarsene subito a casa, ma Meyer insistette per battere a macchina almeno uno dei rapporti sulle persone interrogate negli ultimi due giorni, e se ne andò, poi, una ventina di minuti prima di Carella. Carella finì i suoi rapporti in tempo per salutare il collega che veniva a sostituirlo, Andy Parker che, secondo il solito, aveva mezz'ora di ritardo. Tentò ancora il numero di Wetherley, poi disse a Parker di continuare a chiamare quel numero durante la sera e la notte, e di telefonargli a casa se riusciva a parlare con Wetherley. Parker gli assicurò che l'avrebbe fatto, ma Carella non era per niente sicuro che l'altro mantenesse la promessa. Arrivò a casa sua, in Riverhead, alle sette e un quarto. I gemelli gli corsero incontro sulla porta, e quasi lo buttarono per terra nell'impeto della corsa. Lui ne prese su uno per braccio, e li stava portando in cucina quando suonò il telefono. Carella mise giù i bambini e andò a rispondere. — Pronto — disse.
— Scommetto che l'avevi messo in dubbio, eh? — disse una voce. — Chi parla? — Andy Parker. Ho appena chiamato Wetherley. Mi ha detto di essere arrivato a casa dieci minuti fa. Gli ho raccomandato di restarci finché non fossi arrivato tu. — Bene — disse Carella. — Grazie, Andy. Rimise giù il ricevitore e si voltò verso la cucina. Teddy era là, sulla porta. Lui la guardò in silenzio per qualche secondo, e lei ricambiò lo sguardo. Poi Carella si strinse nelle spalle e disse: — Posso anche mangiare prima di andare là. Teddy sospirò impercettibilmente, ma Mark, il gemello di cinque minuti più vecchio della sorella, che era stato a guardare la scena con la massima attenzione, allargò le braccia in un gesto rassegnato e disse: — Ecco, deve andare via ancora! — Aprii, pensando che fosse un nuovo gioco, si buttò tra le braccia del padre, e stringendolo da mozzargli il respiro cominciò a strillare: — Ecco, deve andare, ecco, deve andare! Art Wetherley lo stava aspettando. Fece entrare Carella e lo accompagnò nello studio che s'affacciava sul parco. Sulla scrivania c'era una macchina per scrivere, un posacenere, una risma di carta bianca, e un altro mucchio di fogli già battuti a macchina e con numerose correzioni a penna. Contro una parete, sotto tre o quattro attestati e diplomi, c'erano scaffali pieni di libri. Wetherley indicò una delle due poltrone, e Carella si sedette Lo sceneggiatore sembrava calmissimo, e completamente a suo agio, ma il posacenere traboccava di mozziconi. Wetherley accese un'altra sigaretta. — Non sono abituato a ricevere telefonate dalla polizia — fu la prima cosa che disse. — Ecco, noi volevamo... — Soprattutto, è seccante quando la polizia mi ordina di non muovermi, di non uscire di casa. — Andy Parker non è il nostro agente più diplomatico. — Volevo dire che ignoravo di vivere in clima dittatoriale — disse Wetherley. — Infatti, la nostra non è una dittatura, signor Wetherley — disse Carella, cortesemente. — Comunque, stiamo facendo indagini su un omicidio, e siamo stati qui ieri, ma... — Ero fuori in compagnia. — Potreste dirci con chi, esattamente? — Con una ragazza, per la precisione. Mercoledì sera, dopo quello che è
successo, mi sentivo troppo scosso per restare solo, e allora sono andato da lei. Sono rimasto a casa sua per due giorni. — Fece una pausa, poi aggiunse: — Non è contrario alla legge, vero? — No, certo — rispose Carella sorridendo. — Mi dispiace di avervi messo in imbarazzo, signor Wetherley, ma volevamo farvi qualche domanda. Wetherley parve un po' rabbonito. — Va bene, non ha importanza — disse. — Però non c'era nessun bisogno di impormi di non uscire di casa. — Vi prego di scusare la scarsa cortesia usata, signor Wetherley. — Va bene, lasciamo perdere. — Sono venuto da voi sperando che poteste dirmi che cos'è successo mercoledì sera nel camerino del signor Gifford, prima che lui tornasse in scena. — Non ricordo i particolari. — Ditemi quello che ricordate. Wetherley ci pensò un momento, spense la sigaretta, ne accese un'altra, poi disse: — Quando sono entrato io c'era già Maria. Stava discutendo per qualcosa con Stan, o almeno... — Stava discutendo, avete detto? — Sì. Gridavano tutti e due, prima che io bussassi. — Continuate, signor Wetherley. — L'atmosfera si è un po' distesa dopo il mio arrivo. Maria non ha parlato molto finché sono rimasto là, ma Stan e io abbiamo scherzato per lo più alle spalle del complesso folcloristico. Stan non poteva sopportare i cori folcloristici, ma quel particolare complesso va forte in questo momento, e Stan stava progettando di assumerli. — Dunque, avete scherzato sul coro. — Sì, e intanto seguivamo lo show sul monitor. — Capisco. Scherzavate in tono cordiale, amichevole, vero? — Sì, amichevolmente. — Poi cos'è successo? — Ecco... dopo, è arrivato George. Parlo di George Cooper, l'assistente alla regia. — Il signor Cooper è entrato nel camerino? — Sì. — Quanto ci è rimasto? — Tre o quattro minuti, credo. — Bene. Ma lui non ha litigato con Gifford, vero?
— No. — La discussione è stata soltanto tra Gifford e la Vallejo? — Sì. Prima ch'entrassi io, però. — Bene. E cosa mi dite di voi? — chiese Carella. — Di me? — Sì. Cosa mi dite della vostra discussione con Stan Gifford, prima che cominciasse lo spettacolo? — Discussione? Chi vi ha detto che c'è stata una discussione? — Non c'è stata? — Ma no! Nessuna discussione! Carella sospirò. — Signor Wetherley, non avete detto parlando di Gifford, "Vorrei che crepasse?" — No. — Non avete detto questa frase? — No, non l'ho mai detta. Stan e io siamo sempre andati d'accordo. — Una pausa. — Molti non andavano d'accordo con Stan, ma io non ho mai avuto guai con lui. — Chi non andava d'accordo con Gifford, per esempio, signor Wetherley? — Ecco... Maria, tanto per cominciare. Vi ho appena detto di averli sentiti litigare. E anche David Krantz non aveva simpatia per Stan Gifford. Diceva sempre, e in modo da farsi sentire da Stan, che tutti gli attori erano bestie, e che i comici erano più attori degli altri. E a George Cooper non andava affatto il suo ruolo di... ecco, quasi di fattorino. Non gli piaceva che il suo lavoro si limitasse a far stare zitti tutti sul set, e correre a prendere il caffè, e portare a Stan le sue pillole, e stare attento che ognuno... — Portare a Stan... che cosa? — Le pillole — disse Wetherley. — Stan era molto nervoso. Credo che prendesse dei tranquillanti. Comunque, George doveva sempre essere pronto a correre non appena Stan schioccava le dita. — Mercoledì sera George Cooper ha portato una pillola a Gifford? — Quando? — chiese Wetherley. — Mercoledì sera, quando è entrato in camerino. Wetherley si concentrò per un momento, poi disse: — Ora che l'avete detto, mi sembra di sì. — Ne siete sicuro? — Sì. Sicurissimo. — E Stan ha preso la pillola?
— Sì, signore. Carella si alzò di scatto. — Vi dispiace venire con me, signor Wetherley? — disse. — Venire con voi? E dove? — Alla stazione di polizia. Ci sono due o tre cose da chiarire. Le due o tre cose che Carella voleva chiarire erano le versioni contrastanti delle tre persone che erano state, per ultime, a contatto con Gifford prima del suo ritorno in scena. A suo giudizio, il posto migliore per avere un chiarimento era la sala agenti, dove la polizia avrebbe goduto il vantaggio psicologico del gioco domande-risposte. Non c'era assolutamente nulla di sinistro nei due globi di vetro verde appesi all'ingresso dell'87° Distretto, o nel banco della sala d'aspetto, alto come una cattedra, o nel cartello che avvertiva i visitatori di rivolgersi al sergente di servizio, e nemmeno nell'altro cartello bianco a forma di freccia, con la scritta in nero SQUADRA INVESTIGATIVA, che indicava la scala metallica che portava ai piani superiori. E non c'era niente di minaccioso nei gradini di quella scala o nel corridoio lungo e stretto che Cominciava in cima alle scale, o nelle varie stanze che si aprivano in quel corridoio, tutte col loro bravo cartello che diceva INTERROGATORI, SPOGLIATOIO, UFFICIO SCHEDE. La ringhiera di legno col cancelletto a molla, che separava il corridoio dalla sala-agenti, aveva un aspetto del tutto innocuo, e la stessa sala-agenti, nonostante la rete metallica di protezione alle finestre, pareva un normale ufficio di una qualsiasi ditta, con le sue scrivanie, i classificatori, i telefoni che suonavano continuamente, la colonnina dell'acqua, i quadri con gli ordini di servizio, e gli uomini che lavoravano in maniche di camicia. Ma Art Wetherley, Maria Vallejo e George Cooper rimasero chiaramente impressionati dall'ambiente, e si impressionarono anche di più quando vennero separati per l'interrogatorio. Bob O'Brien, un uomo grande e grosso, con la faccia da bambino innocente, interrogò Cooper nell'ufficio del tenente. Steve Carella interrogò Maria Vallejo nell'Ufficio Schede, dopo aver cacciato fuori Alf Miscolo, che, intento a battere a macchina i suoi documenti d'archivio, protestò sentitamente. Meyer, in pieno raffreddore e poco disposto a scherzare, andò con Art Wetherley nella disadorna stanza degli interrogatori. I tre poliziotti si erano accordati prima sulle domande da fare e sul modo di arrivarci. Adesso, in tre stanze separate, con tre diversi individui sospetti, si imbarcarono in un tran tran familiare.
— Signorina Vallejo, voi dite di non aver bevuto caffè — disse Carella. — Ma il signor Cooper sostiene che nel camerino c'erano delle tazzine da caffè. Allora, c'erano o non c'erano? — No... Non mi ricordo. So solo che io non ho bevuto caffè. — Art Wetherley l'ha bevuto? — No. Io non l'ho visto. — George Cooper ho portato una pillola a Stan Gifford? — No. — Stavate litigando con Gifford quando è entrato Wetherley? — No. — Rivediamo questo particolare, signor Cooper — disse O'Brien. — Avete detto di avere soltanto bussato alla porta e di esservi affacciato al camerino. Esatto? — E vi siete fermato solamente pochi secondi. È così? — Sì. Sentite, io... — Avete dato una pillola a Stan Gifford? — Una pillola? No. No, non gli ho dato assolutamente niente! — Però nel camerino c'erano delle tazzine da caffè, vero? — Sì. Ma io non ho dato un bel niente a Stan. Cosa cercate... — Avete sentito Art Wetherley dire che avrebbe voluto che Gifford crepasse? — Va bene, Wetherley — disse Meyer. — Quando gli ha dato quella pillola, Cooper? — Appena entrato nel camerino. — E Gifford con che cosa l'ha mandata giù? — Col caffè che stavamo bevendo. — Stavate bevendo caffè, tutti quanti? — Sì. — E ditemi, chi beveva caffè in quel preciso momento? — Maria, Stan, e anch'io. — Se non è stato per discutere, perché siete entrata nel camerino? — Sono entrata... per parlargli. Pensavo che avremmo potuto... — Però vi siete messi a litigare, vero? — No, lo giuro! Io non...
— Allora, perché mentite a proposito del caffè? Stavate bevendo caffè o no? — No. Non ho bevuto caffè. Vi prego, io... — Restiamo un momento su questo punto, signor Cooper. O voi eravate nel camerino o non c'eravate. O gli avete dato una pillola o... — Non gli ho dato niente, ve l'ho già detto. — Non gli portavate mai le sue pillole? — No. — Gifford faceva uso di tranquillanti, vero? — Non so di cosa faceva uso. Io non gli ho mai portato niente. — Mai? — Forse è capitato una volta o due che gli abbia portato un'aspirina, perché aveva mal di testa. — Ma non gli avete mai portato dei tranquillanti? — No. — Non gli avete mai portato nemmeno capsule di vitamine? — No. — Io l'ho visto dargli una pillola — disse Wetherley. — Com'era quella pillola? — Non lo so. — Pensateci un momento. — Ci sto pensando. Era una pillola piccola. — Di che colore? — Bianca. — Era una compressa? Come l'aspirina? Era come una pastiglia di aspirina? — Sì, mi pare di sì. Non mi ricordo bene. — L'avete vista, però? — Sì, ma... Dopo, nella sala-agenti, misero insieme le diverse risposte. Riunirono i tre sospetti nell'ufficio del tenente sotto la sorveglianza di un agente, e si sedettero tutti e tre attorno alla scrivania di Carella, a confrontare le risposte. I risultati non furono particolarmente soddisfacenti, ma nemmeno li sorpresero. Erano tutti e tre poliziotti da molti anni, e non si sorprendevano più di qualsiasi cosa un essere umano progettasse ai danni
di un altro. Forse restavano un po' amareggiati da quello che a volte scoprivano, ma sorpresi, mai. Erano uomini abituati a trarre le somme dai fatti, e nel caso Gifford i fatti erano quelli che erano: semplici e deludenti. Dopo il confronto dei loro risultati, i tre poliziotti decisero che tutte e tre le persone sospette stavano mentendo. Maria Vallejo aveva effettivamente litigato con Stan Gifford, e aveva bevuto il caffè, ma negava e l'uno e l'altro fatto perché si rendeva conto che presi isolatamente la compromettevano parecchio. La donna pensava giustamente che qualcuno poteva avere avvelenato Gifford mettendogli qualcosa nel caffè, perciò se ammetteva di avere bevuto caffè nel camerino, e cioè di averlo bevuto con Gifford, e per di più ammetteva di avere litigato con lui, le sarebbe stato difficile dimostrare di non essere stata lei a mettere il veleno nella bevanda della vittima. Perciò Maria Vallejo aveva mentito, ma, lealmente, non aveva voluto danneggiare altri con la sua menzogna. A lei bastava trovare una scappatoia per sé da quella che poteva essere una trappola pericolosissima. Art Wetherley aveva veramente desiderato che Gifford crepasse, e aveva espresso veramente il suo desiderio a voce alta e in presenza di un testimone. E, guarda caso, quella stessa sera Gifford era crepato davanti alla macchina da presa, sotto gli occhi di milioni di spettatori. Art Wetherley, come un bambino che ha espresso con fervore un desiderio, era rimasto sconcertato nel vederlo realizzarsi. Sconcertato, e spaventato. Si era ricordato immediatamente di quello che aveva detto prima dello spettacolo, ed era sicuro che anche George Cooper se lo sarebbe ricordato. La sua paura aveva assunto proporzioni più vaste quando gli era venuto in mente che lui era stato uno degli ultimi a parlare con Gifford prima che l'attore morisse, e che la sua vicinanza a Gifford in un caso di avvelenamento evidente, accoppiata con la frase poco felice detta durante le prove, poteva portare a una brutta accusa di omicidio contro di lui. Quando poi un agente investigativo gli aveva telefonato a casa, e gli aveva consigliato di non lasciare la sua abitazione, Wetherley si era trovato in ottima posizione per vincere l'Oscar della fifa, un riconoscimento senza statuetta dorata, però. Spinto dalla disperazione, aveva allora tentato di screditare le dichiarazioni di Cooper, tirando fuori la storia delle pillole, e presentando quindi Cooper come altrettanto sospetto. Negli ultimi tre anni aveva visto qualche volta Cooper portare a Gifford un'aspirina e un bicchier d'acqua, perciò aveva deciso di ricamarci un po' sopra, inventando una pillola che la sera della morte di Gifford non era mai stata portata da nessuno a nessun altro, e accusando
così, stupidamente, Cooper. Ma a un uomo terrorizzato non importa di chi si prende una colpa, purché non sia lui. Allo stesso modo, Cooper si era improvvisamente reso conto non solo di essere tra quelli che avevano parlato con Gifford per ultimo, ma di essere addirittura l'ultimo in assoluto. Era stato effettivamente nel camerino di Gifford per alcuni minuti, ma aveva pensato che fosse più prudente dire di essersi soltanto affacciato. Poi, per quanto Gifford non si fosse fermato a parlare con nessuno prima di entrare in scena, Cooper aveva ritenuto meglio inserire un misterioso tecnico. Infine, per assicurarsi la via d'uscita da una situazione che aveva tutta l'aria di essere assai compromettente, ricordando la frase pronunciata da Wetherley si era affrettato a riferirla, per quanto sapesse benissimo che frasi simili venivano pronunciate cento volte al giorno da tutti durante ogni prova. Bugiardi tutti. Ma assassino, nessuno. Gli agenti investigativi erano convinti che dopo due o tre ore di trattamento, tutti e tre quei bugiardi si sarebbero purificati nella catarsi della Verità. E così fu. Sì, abbiamo mentito, ammisero tutti e tre separatamente, ma ora stiamo dicendo la verità, la pura verità. Noi non abbiamo ucciso Stan Gifford. Noi non faremmo del male a una mosca. Guardateci: siamo tutte persone civili, di animo buono. Bugiardi sì, ma non assassini. Non abbiamo ucciso. Questa è la verità. Noi non abbiamo ucciso. Gli agenti investigativi credettero a tutti e tre. Nell'esercizio della loro professione avevano sentito talmente tante bugie che ormai sapevano riconoscere subito il suono della verità, un campanello acutissimo che arrivava fin sopra il più alto grattacielo. Rimandarono a casa tutti e tre senza scusarsi per averli disturbati. Bob O'Brien sbadigliò, si stirò, chiese a Carella se aveva ancora bisogno di lui, si mise il cappello e se ne andò. Meyer e Carella rimasero seduti soli nella sala-agenti, a guardarsi in faccia. Mancavano cinque minuti a mezzanotte. Il suono del telefono li colse di sorpresa, facendoli trasalire. Meyer sollevò il ricevitore. — Qui Meyer, Ottantasettesima Squadra — disse. — Oh, salve George! — e mormorò a Carella. — È Temple. L'avevo mandato a controllare l'alibi di Krantz. — Tornò a parlare al telefono: — Com'è andata? Bene. Bene. Bene. Okay, ti ringrazio. — Riappese. — È riuscito finalmente a trovare anche l'ultima persona in lista, quel regista di Hollywood. Era andato a teatro ed è rientrato in albergo soltanto pochi minuti fa. Era con la sua galli-
nella. — Allora, qual è il risultato? — chiese Carella. — Temple dice che hanno confermato tutti la versione di Krantz. È salito nella cabina di regia un buon quarto d'ora prima che iniziasse lo spettacolo, e c'era ancora quando Gifford si è sentito male. — Mmmm — disse Carella. Si guardarono cupi. Mezzanotte era arrivata e passata, e adesso era lunedì. Meyer sternuti rumorosamente. Carella sbadigliò, e poi si passò le mani sulla faccia. — Cosa ne pensi? — chiese. — Mah. Tu cosa ne pensi? — Mah. Tacquero. — Forse è stato un suicidio — disse Carella. — Può darsi. — Gente mia, non sto più in piedi — disse Carella. Meyer sternuti. VI Li aveva seguiti al ristorante e poi al cinema. Ora stava fermo nell'androne di fronte alla casa, aspettando che lei tornasse. La sera era fredda, e lui stava nascosto nell'ombra, col bavero rialzato, le mani in tasca, il cappello tirato giù sulla fronte. Era mezzanotte e dieci, e i due erano usciti dal cinema alle undici e quarantacinque, ma lui era sicuro che dal cinema sarebbero venuti direttamente a casa. Teneva d'occhio la ragazza da tanto tempo ormai, e conosceva bene le sue abitudini. Così sapeva, per esempio, che non passava quasi mai la notte fuori di casa. Il mese prima, una volta era stata con un tale che abitava in Banning Street, era rimasta là a dormire, e al mattino, appena lei se n'era andata, lui era salito su da quel tale e l'aveva lavorato ben bene con un pugno di ferro, lasciandolo sul pavimento della cucina a piangere come un bambino. L'aveva anche diffidato dal chiamare la polizia, e gli aveva detto che non avrebbe mai più dovuto avvicinare Cindy Forrest né cercare di vederla, e nemmeno tentare di telefonarle. Quello, reggendosi con una mano la bocca spaccata, aveva fatto segno di sì con la testa a tutto, supplicandolo di non picchiarlo più. Un tipo come quello non avrebbe più dato fastidio a Cindy. Ecco perché lui sapeva che lei non dormiva fuori di casa, e poi sapeva che
quella sera, dopo il cinema, non sarebbe andata in nessun altro posto ma sarebbe tornata dritta a casa sua, con quel tipo biondo, perché il tipo biondo era un poliziotto. L'aveva capito a fiuto, la prima volta che l'aveva visto quel giorno stesso, quando il biondo era andato a prenderla per portarla a colazione. Li riconosceva a vista, i poliziotti lui, li riconosceva a fiuto, e aveva anche capito immediatamente che i padreterni di quella meravigliosa città gli avevano preparato una trappola, certi che lui ci sarebbe caduto. Sono qui, padreterni, prendetemi! Ci sarebbe stato da divertirsi. Si era tenuto alla larga dal ristorante dove loro due erano andati a cena, perché l'odore della polizia era acuto e forte, e lui sapeva che in pentola bolliva qualcosa ma, non sapendo di che genere fosse la trappola che gli avevano preparato, voleva essere ben sicuro di sé prima di fare il prossimo passo. Il biondo aveva l'andatura del poliziotto, non ci si poteva sbagliare. E anche il suo atteggiamento, tutto quello che faceva, puzzava lontano un miglio. Per esempio, quel tenere la testa voltata da una parte mentre in realtà la sua attenzione era concentrata nella direzione opposta. Un trucchetto efficace, che anche molti criminali usavano qualche volta, ma che era sfruttato soprattutto dai poliziotti di tutti gli Stati Uniti. Be', lui aveva avuto modo di conoscere i poliziotti di tutt'America, e aveva fracassato più teste di poliziotti di quante poteva contarne sulle dita delle mani e dei piedi, e fracassarne un'altra giusto per divertirsi un po' non lo impressionava, ma prima voleva sapere qual era la trappola che gli avevano preparato. Se c'era una cosa che lui non aveva nessuna intenzione di fare, era quella di finire dritto in una trappola. In inverno, o comunque quando la temperatura consiglia di mettesi un soprabito, c'è sempre modo di sapere quando uno è carico. Se è il tipo che usa il fodero a spalla, lascerà sempre sbottonato il primo o il secondo bottone in alto. Se è invece il tipo che usa agganciare il fodero alla cintura, allora a restare slacciato è il bottone subito al di sotto della vita, in modo da poter arrivare al fodero alla svelta con la mano destra ed estrarre rapidamente la pistola. Questo fu il primo indizio che il biondino era un poliziotto. Era un poliziotto di quelli che portano la rivoltella agganciata alla cintura. Il secondo indizio concreto l'aveva scoperto più tardi, guardando dalla vetrina del ristorante dove erano andati a cenare. Quando il biondino era andato a pagare il conto alla cassa e aveva aperto il portafoglio, il distinti-
vo aveva scintillato per un attimo sotto la luce. A uno che sapesse il fatto suo non occorreva di più per fare due e due quattro, soprattutto con quell'odore di polizia che si sentiva in tutto il quartiere. L'unica cosa che ancora non sapeva, era il tipo di trappola e se affrontando il biondino lui ci sarebbe cascato dentro. Pensò che questa volta sarebbe stato meglio lavorare sulla ragazza. Era ora che imparasse cosa poteva e cosa non poteva fare. Non aveva senso tirare per le lunghe. La ragazza doveva sapere che non poteva permettersi di andarsene in giro con uno di Banning Street o di qualsiasi altra strada. E doveva anche sapere che non poteva fare comunella coi poliziotti e prestarsi alle trappole che loro volevano preparare. Doveva saperlo subito, una volta per tutte, perché lui non aveva nessuna intenzione di restarsene nell'ombra ancora per tanto. La ragazza doveva sapere che lei era roba sua e soltanto sua. Decise che quella notte se la sarebbe lavorata. Guardò ancora l'orologio. Erano le dodici e un quarto, e lui cominciò a chiedersi come mai tardavano tanto. Forse avrebbe fatto meglio ad affrontarli quando erano usciti dal cinema, invece di precipitarsi lì per aspettarli. Però, se il biondino... Una macchina svoltò l'angolo. Lui si tirò più indietro, nell'ombra, e aspettò. La macchina avanzava lentamente lungo la strada. Su, avanti, biondino, pensò, nessuno ti sta seguendo, quindi non c'è motivo di andare così adagio! Sorrise tra sé. La macchina accostò al marciapiede. Il biondino smontò, girò attorno per andare all'altra portiera, l'aprì per far scendere la ragazza, e poi l'accompagnò fin sulla porta. La casa era un edificio grigio di quattro piani, e lei abitava all'ultimo. Sul cartellino accanto al campanello c'era scritto C. FORREST. Il nome della ragazza era la prima cosa che lui aveva saputo sul suo conto, circa un paio di mesi prima. Poco dopo aveva tolto la serratura della cassetta delle lettere, e dentro ne aveva trovate due, una indirizzata alla signorina Cynthia Forrest, era una buona cosa che non fosse sposata perché in caso contrario il marito sarebbe stato messo fuori combattimento per un bel po' di tempo; l'altra portava il nome di Cindy Forrest ed era stata scritta da un tale che si trovava in Thailandia con le forze dell'ONU. Una fortuna per lui essere in Thailandia, se no avrebbe ricevuto la visita di qualcuno che gli avrebbe ordinato di piantarla di scrivere lettere a quella pollastrella. Il biondino adesso stava aprendo la porta interna. La ragazza augurò la buonanotte, e lui ne sentì chiaramente la voce dall'altra parte della strada. Il biondino le restituì le chiavi e disse anche lui qualche cosa, ma voltava
la schiena e non si poté sentire cos'avesse detto. Poi la porta si chiuse alle spalle della ragazza, e il biondo scese gli scalini dell'ingresso con la sua buffa andatura da poliziotto, l'andatura di un pugile che si avvia al ring dove lo sta aspettando il compagno picchiatore, e la testa china: un altro trucco da poliziotto quello di camminare con la testa china e intanto sbirciare a destra e a sinistra per la strada. Il biondo salì in macchina, il motore era rimasto acceso, innestò la marcia e si mosse. Lui aspettò. Dopo cinque minuti la macchina ricomparve dall'angolo e percorse la strada lentamente ripassando davanti alla casa grigia. Quasi scoppiò a ridere. Cosa credeva, il biondino? Di avere a che fare con un dilettante? Aspettò che la macchina scomparisse e poi ricomparisse dall'altra parte. E poi aspettò un altro quarto d'ora, finché fu sicuro che il biondino non sarebbe più tornato. Allora attraversò in fretta la strada, girò l'angolo, entrò nella casa dietro quella della ragazza, uscì da una seconda porta passando così nel cortile interno, scavalcò la staccionata che divideva i due cortili e si lasciò cadere dall'altra parte. Alzò la testa e vide la finestra illuminata, al quarto piano, nell'appartamento della ragazza. Cauto, ma sicuro, attraversò il cortile e si avvicinò alla facciata posteriore della casa. Con un salto, raggiunse il primo gradino della scala di sicurezza, la tirò giù a forza di braccia, ci piantò sopra i piedi e cominciò a salire. Fece molta attenzione nel passare davanti alle finestre, soprattutto a quelle dove la luce era ancora accesa, come al secondo piano, e arrivato come un'ombra fino al quarto, si fermò sulla piattaforma. La sua piattaforma. Lì c'era una cassetta di legno con piantati dei fiori, appassiti sul gambo infilato nella terra secca. La scala di sicurezza passava di fianco alla finestra della camera da letto. Si sollevò a sbirciare oltre il parapetto, ma la stanza era vuota. Guardò alla sua destra, e vide la luce accesa alla stretta finestra del bagno. La ragazza era là dentro. Rimase in forse se entrare nella camera mentre lei era dall'altra parte, poi decise di no. Voleva aspettare che fosse a letto. Voleva spaventarla il più possibile. Nella camera da letto c'era accesa soltanto la lampada sul tavolino accanto al letto, e da fuori, dal punto in cui stava lui, accosciato sulla scala, il letto era ben visibile. Accanto al letto, dalla sua parte, c'era una sedia. Avrebbe dovuto stare attento a non urtarla, nel buio. Voleva che la sua sorpresa fosse completa, quindi non doveva inciampare nei mobili e svegliarla prima del tempo. La finestra era aperta, appena pochi centimetri in alto.
Probabilmente la ragazza l'aveva aperta quando era arrivata a casa, per lasciar entrare un po' d'aria. Ma lui non sapeva se l'avrebbe chiusa prima di andare a letto. Forse no. Quello era un quartiere tranquillo e dignitoso, dove non succedevano pasticci. Lui si era informato bene, per paura che qualche teppista s'infilasse in casa della ragazza a complicargli le cose. Perciò lei forse dormiva con la finestra aperta un paio di centimetri, com'era adesso. Comunque osservò attentamente il tipo di chiusura. Semplice, elementare. Non avrebbe presentato problemi anche se lei avesse chiuso del tutto i vetri. La luce del bagno si spense. Lui si appiattì contro il muro. La ragazza entrò nella camera canticchiando, poi la sua voce venne sopraffatta di colpo dalla radio aperta a volume altissimo. Cristo, avrebbe svegliato tutto il palazzo! Lei continuò a girare le manopole finché non ebbe trovato la stazione che cercava: musica sdolcinata di violini e trombe in sordina, e alla fine abbassò il volume. Lui aspettava. Lei si accostò alla finestra e tirò giù la tenda. "Non ha chiuso la finestra" pensò l'uomo. Aspettò almeno mezzo minuto, poi si chinò in modo da poter guardare nella stanza da sotto la tenda rimasta sollevata due o tre centimetri. La ragazza indossava ancora il vestito marrone che aveva messo per andare a cena col biondino, ma quando si voltò per andare verso l'armadio lui vide che la cerniera lampo sulla schiena era già aperta, e l'abito si spalancava a V lasciando vedere l'elastico bianco del reggiseno e l'inizio delle reni. La radio stava trasmettendo una canzone che Cindy conosceva e lei cominciò a canticchiarla in sordina mentre apriva l'armadio e ne tirava fuori la camicia da notte. Richiuse l'armadio, tornò verso il letto, si sedette sulla sponda, faccia alla finestra, e sollevò la gonna per sganciare il reggicalze, prima da una parte, poi dall'altra. Si tolse le scarpe, arrotolò giù le calze, le sfilò, andò ancora all'armadio dove ripose le scarpe in basso e infilò le calze in una busta appesa nell'interno del battente. Richiuse e si tolse il vestito, ma non tornò subito verso il letto. In reggiseno e mutandine andò dall'altra parte della stanza, dove lui non poteva vederla, quasi sapesse che era là fuori a guardarla, la sgualdrina! Aveva ripreso a canticchiare. Lui si sentiva le mani sudate. Se le asciugò sulle maniche del soprabito, e aspettò. Lei ricomparve inaspettatamente, cogliendolo di sorpresa. Si era tolto tutto, e andò svelta al letto a prendere la camicia da notte. Gesù, com'era bella! Non aveva immaginato che fosse bella fino a quel punto! La guardò
chinarsi per far passare la camicia da notte sopra la testa, rialzarsi e lasciar cadere la stoffa leggera sul seno e sui fianchi. Sbadigliò, guardò, e infine tornò al letto con in mano un libro. S'infilò nel letto sollevando prima una gamba e poi l'altra, tirò il lenzuolo e la coperta sulle ginocchia, sistemò il guanciale, alzò una mano a grattarsi il mento, e aprì il libro. Sbadigliò ancora. Guardò l'orologio, parve cambiare idea a proposito del libro, lo mise giù sul tavolino, e risbadigliò. Un momento dopo spense la luce. Sentì per prima cosa la voce. La voce disse: — Cindy! — e per un attimo lei pensò di aver sognato, perché era stato solo un bisbiglio. Poi sentì ancora: — Cindy! — il nome le era stato alitato in faccia. Lei spalancò gli occhi e fece per tirarsi su a sedere, ma qualcosa la tenne ferma con forza contro il guanciale. Lei aprì la bocca per gridare, ma una mano le bloccò le labbra. Lei cercò di vedere nel buio. — Stai ferma, Cindy — disse la voce. — Non ti muovere. La pressione sulla bocca era pesante e salda. Lui si era messo a cavalcioni su di lei, le ginocchia sul letto, le gambe strette a immobilizzarle le braccia, seduto sul suo ventre, con un braccio che le premeva contro il petto tenendola ferma. — Mi senti? — le chiese. Lei mosse a fatica la testa su e giù, la mano che le tappava la bocca le faceva male. Avrebbe voluto mordere la mano ma non poteva liberare le labbra. Il peso che le gravava addosso era insopportabile. Cercò di muoversi, ma la stretta delle gambe glielo impediva, e il braccio attraverso il petto pesava una tonnellata. — Ascoltami — le disse. — Adesso ti picchierò fino a farti sputare l'anima. Lei gli credette istantaneamente, e il terrore le invase il cervello. Gli occhi le si erano un po' abituati al buio, e riusciva a intravedere la faccia dell'uomo china sulla sua. Le dita avevano odore di tabacco. Lui continuava a premerle la mano destra sulla bocca. Aveva abbassato un poco il braccio sinistro, adesso, e con le dita le tormentava un seno. Mentre parlava le dita le stringevano la carne attraverso il tessuto lieve della camicia, lavorando come tenaglie. E la voce continuava piano, monotona, roca: — Lo sai perché ti picchierò, Cindy? Lei tentò di scuotere la testa, ma la mano pesava con forza sulla bocca impedendole di muoversi. Tra un minuto, lo sentiva, si sarebbe messa a
piangere. Tremava sotto il peso del suo corpo, e la mano che le torchiava il seno la faceva trasalire per il male. — Non mi piace che tu vada in giro coi poliziotti — le disse. — Non mi piace che tu vada con nessuno, ma specialmente coi poliziotti. Adesso la ragazza riusciva a vedere bene la faccia. Era l'uomo che l'aveva cercata in ufficio, lo stesso che aveva picchiato l'agente di pattuglia. Rivide la scena di lui che prendeva a calci il giovane poliziotto caduto sul pavimento, e cominciò a tremare più forte. Lo sentì ridere. — Adesso ti toglierò la mano dalla bocca perché dobbiamo parlare — disse lui. — Ma se gridi ti uccido. Hai capito? Lei tentò di muovere la testa. La mano allentò la stretta. Lui stava sollevando adagio le dita e il palmo, come chi vuol sbirciare cautamente per vedere se è riuscito a prendere la mosca. Lei pensò per un attimo di gridare ma sapeva che se l'avesse fatto lui avrebbe mantenuto la minaccia e l'avrebbe uccisa. L'uomo si raddrizzò un poco, sollevò il braccio sinistro liberandole il seno, e le appoggiò le mani sui fianchi restando con le gambe piegate sotto di sé e le ginocchia ferme a imprigionarle le braccia contro il corpo. Il sudore le colò dal petto e per un attimo lei pensò che fosse sangue. Una nuova ondata di paura la fece tremare di nuovo. Si vergognava di essere così spaventata, ma il terrore è una cosa incontrollabile, una reazione istintiva che nasce dal dolore e dall'idea della morte. — Domani ti libererai di lui — mormorò l'uomo, pesando sulle mani appoggiate ai suoi fianchi. — Di chi? Di chi state... — Il poliziotto. Domani ti libererai del poliziotto. — Va bene. — Lei mosse la testa nel buio. — Va bene — ripeté. — Chiamerai il suo Distretto... che Distretto è? — L'Ottan... l'Ottantasettesimo, mi sembra. — Gli telefonerai. — Sì. Sì, gli telefonerò. — Gli dirai che non hai più bisogno della scorta della polizia. Gli dirai che tutto è a posto. — Sì, va bene — disse la ragazza. — Glielo dirò. — Gli dirai che hai sistemato le cose col tuo ragazzo. — Il mio... — tacque. Il cuore le batteva furiosamente. Ne sentiva il rumore, forte. — Il mio ragazzo? — Io — disse l'uomo, e rise. — Io... io non vi conosco nemmeno — disse lei.
— Io sono il tuo ragazzo. Lei scosse la testa. — Sono il tuo amante. Lei continuò a scuotere la testa. — Sì. Io. — Non vi conosco — disse lei, e improvvisamente cominciò a piangere. — Che cosa volete da me? Andate via, lasciatemi in pace. Io non vi conosco. Vi prego, vi prego... — Sì, prega — disse lui, ridendo. — Per favore, per favore... — Gli dirai di smetterla di starti attorno. — Sì, glielo dirò. Ve l'ho già detto. — Promettilo. — Lo prometto. — E manterrai la promessa — disse lui in tono di comando. — Sì. Ve l'ho detto... Le diede uno schiaffo, improvviso, forte. Di colpo la mano destra si staccò dal fianco sinistro della ragazza e salì minacciosa alzandosi sulla sua faccia. Lei batté gli occhi un attimo prima che la mano aperta le si abbattesse sulla guancia. Si irrigidì, spingendosi il più possibile indietro, contro il materasso, i cordoni del collo tesi, i denti serrati. — Manterrai la promessa — disse lui — perché questo è un esempio di quello che ti succederà se non lo fai. E cominciò. A tutta prima non capì dov'era. Tentò di aprire gli occhi ma qualcosa non andava: non riusciva ad aprirli. Sentiva un contatto ruvido contro la faccia, sentiva di avere la testa girata in maniera curiosa, sentiva cento diversi punti doloranti che parevano avulsi dal suo corpo e che seguivano ognuno un proprio ritmo pulsante. L'occhio sinistro si socchiuse a fatica. Una lama di luce penetrò dolorosamente nella stretta fessura e colpì la pupilla. Non poté aprirlo più di quel poco. L'effetto doloroso della luce fece tremare la carne attorno all'occhio. Era sdraiata supina con la faccia premuta contro il tappeto. Insistette ad aprire l'occhio sinistro, e ogni volta che riusciva a sollevare la palpebra coglieva la visione rapida di un pezzo di tappeto grigio. Non sapeva ancora dov'era, ma era certa che le fosse successo qualcosa di terribile. Però non ricordava cosa. Giaceva immobile sul tappeto, sentendo
acuto lo spasimo delle cento pulsazioni dolorose, alle braccia, alle gambe, ai fianchi, al petto, al naso, cento dolori separati che messi assieme davano una forma riconoscibile alla massa dolorante di carne: la forma del suo corpo. Un corpo che era stato picchiato ferocemente. Di colpo ricordò. La prima reazione fu di terrore. Inarcò le spalle tentando di affondarvi il più possibile la testa. La mano sinistra salì, molle, verso la faccia, le dita che si agitavano, molli, nel debole tentativo di difesa contro altri colpi. — Vi prego — disse. Le parole furono un bisbiglio sordo nella stanza. Aspettò che lui colpisse ancora, il corpo tutto teso e irrigidito dalla paura, e quando si accorse che non succedeva niente, si rilassò tremante, sperando di essersi sbagliata, temendo che lui facesse solo finta di essersene andato e stesse invece aspettando il momento migliore per tornare all'attacco. L'occhio sinistro si aprì e si richiuse. Lei rotolò su se stessa mettendosi sulla schiena e cercò di aprire l'altro occhio, ma ancora solo una lama di luce le ferì la pupilla. Il soffitto pareva altissimo, lontanissimo. Singhiozzando, portò una mano al naso e lo asciugò col dorso credendo che colasse, poi si accorse che colava sì, ma sangue. — Oh, Dio! — disse. — Dio! Rimase sdraiata supina a gemere e singhiozzare. Alla fine tentò di alzarsi. Riuscì a mettersi in ginocchio, ma ricadde a faccia in giù. La polizia, pensò. Devo chiamare la polizia. Ma poi ricordò il perché lui l'aveva picchiata. Non voleva la polizia. Le aveva detto di liberarsi dalla polizia. Si rimise sulle ginocchia. La camicia da notte era tutta strappata sul davanti. Il seno era segnato da ecchimosi rosse che parevano ferite aperte. La gola, la camicia, il petto erano macchiati dal sangue che le colava dalle narici. Cercò di fermare il sangue con un brandello di camicia, mentre si tirava su in piedi barcollando e andava a passi incerti verso il tavolino da toilette dove sapeva che c'erano le chiavi di casa. Kling gliele aveva date, e rientrando lei le aveva messe sul tavolino, adesso le avrebbe appoggiate sulla nuca per interrompere il flusso di sangue, il fresco del metallo avrebbe fermato il sangue. Annaspò con una mano verso il ripiano del tavolino, sentì un dolore acuto al fianco, in alto, sotto le costole. Lui l'aveva presa a calci come aveva fatto col poliziotto, oh Dio, Dio, Dio mio! Non riuscì a credere a quello che vide nello specchio. L'immagine riflessa era grottesca, mostruosa, spaventosa, incredibile, ripugnante. Gli occhi erano gonfi e tumefatti, le pupille non si vedevano at-
traverso la stretta fessura che sembrava un taglio nella carne che sporgeva viola dalle orbite. Il resto della faccia era coperto di sangue e di ecchimosi, tutta una informe massa enfiata sotto la pelle fatta più trasparente dal gonfiore, i capelli biondi erano incollati dal sangue, e c'erano brutti segni, lividi, striature rosso-blu sulle braccia, sui fianchi, sulle gambe. Sentì girare la testa, di colpo, e si appoggiò sul ripiano del tavolino per non cadere, togliendo la mano dal naso per sostenersi. Vide le gocce di sangue battere sulla superficie bianca. Provò un'ondata di nausea che passò subito, però. Rimase così, con le mani sul tavolino, col busto un po' piegato in avanti, sostenuto dalle braccia tese, la testa china, rifiutandosi di guardare ancora lo specchio. Non doveva chiamare la polizia. Se l'avesse chiamata, lui sarebbe tornato a picchiarla ancora. Le aveva detto di liberarsi della polizia, perciò avrebbe telefonato a Kling per dirgli che adesso era tutto a posto, che lei e il suo amico avevano rifatto pace... Disperata, ricominciò a piangere, le spalle scosse dai singhiozzi, il naso che colava sangue, le ginocchia che tremavano mentre lei pesava sul tavolino per sostenersi. Sentendosi mancare il respiro si raddrizzò di colpo, la bocca spalancata a succhiare aria, una mano posata sul ventre come una farfalla tremante. E svenne. Bert Kling abbatté la porta dell'appartamento, alle dieci e mezzo del mattino. Aveva cominciato a telefonarle alle nove perché voleva mettersi bene d'accordo con la ragazza su come avrebbero passato la giornata. Aveva lasciato suonare il telefono sette volte, poi aveva pensato di aver sbagliato numero. Aveva riappeso, e poi richiamato. Questa volta aveva aspettato dieci squilli. Forse lei aveva il sonno pesante. Non aveva risposto nessuno. Alle nove e mezzo Kling aveva richiamato sperando che, uscita magari per far colazione, fosse tornata. Ancora nessuna risposta. Aveva continuato a chiamare ogni cinque minuti fino alle dieci, poi si era agganciato il fodero, era sceso, ed era montato in macchina, ci aveva messo mezz'ora per andare da Riverhead a casa di Cindy in Glazbrook Street. Era salito al quarto piano, aveva bussato, l'aveva chiamata, poi aveva buttato giù la porta. Chiamò immediatamente un'ambulanza. Lei riprese i sensi per un attimo prima che arrivasse l'ambulanza. Lo riconobbe, e mormorò: — No, vi prego... andate via, andatevene, lui verrà a saperlo... — poi era svenuta di nuovo.
Su un gradino metallico della scala di sicurezza, di fianco alla finestra della camera da letto di Cindy, Bert Kling scoprì l'impronta netta di un tacco, proprio sotto il davanzale. Vicinissimo all'impronta, incuneato tra due delle piastrelle metalliche che formavano i gradini, trovò anche un frammento di terra pressata. C'era la possibilità, per quanto minima, che il frammento di fango si fosse staccato dalle scarpe dell'uomo che aveva assalito Cindy. Kling lo raccolse con cura, e lo infilò in una busta indirizzata al tenente Samuel Grossman della Scientifica. VII Tutte le volte che andava al laboratorio della polizia, in High Street, Bert Kling riprovava le sensazioni avute a undici anni quando i suoi genitori gli avevano regalato per Natale la scatola del Piccolo Chimico. Il laboratorio occupava quasi tutto il pianterreno del palazzo dove aveva sede la Centrale, e per quanto Kling si rendesse conto che per Grossman e i suoi collaboratori quello era un posto del tutto normale, lui continuava a considerarlo una specie di Paese delle Meraviglie. Nella disposizione ordinata delle macchine fotografiche e dei filtri, dei flash e degli ingranditori, dei proiettori e delle batterie vedeva i simboli della Verità e della Giustizia. Nelle file silenziose dei microscopi, delle lenti d'ingrandimento, degli apparecchi stereoscopici e polarizzatori, gravava un'aria di mistero. Le lampade a quarzo con la loro luce ultravioletta sapevano di magia. Le provette, i bicchieri, le storte, le serpentine, i treppiedi, le ampolle, i becchi Bunsen, i vetrini avevano una loro aura poetica. Il laboratorio della polizia era un'intera annata del "Mechanics Illustrated" diventata realtà, con le sue bilance di precisione gli arnesi da disegno, gli scalpelli di tutte le dimensioni e i compassi, micrometri e cento altri tipi di misuratori, dischi smerigliati e trapani. E sul tutto stagnava l'odore acuto di mille prodotti chimici, che penetrava nelle narici come una zaffata di profumo esotico imprigionato nella vela gonfia di un brigantino arabo. Gli piaceva quel posto, e tutte le volte che capitava lì si metteva a girare dappertutto come un bambino curioso, spesso dimenticando che c'era andato per parlare di violenza e di morte. Sam Grossman non dimenticava mai che il suo lavoro era legato alla violenza e alla morte. Era alto, di ossatura grossa, con le mani e la faccia da contadino del New England. Gli occhiali dalla grossa montatura incorniciavano gli occhi azzurri e limpidi. Parlava piano, con voce calda e cor-
tese, che ricordava placidi tempi passati, anche se nel tono si avvertiva la secca concisione di chi è abituato a trattare i freddi fatti scientifici. Quel lunedì mattina, nel laboratorio, Sam Grossman si tolse gli occhiali, ripulì le lenti con un lembo del camice bianco, se li rimise, poi disse: — Questa volta, Bert, ci hai portato un problema interessante. — Perché? — Il tuo uomo è un intero catalogo ambulante. In quel frammento di fango abbiamo trovato di tutto, mancava soltanto la porcellana del lavandino! — E c'è qualcosa che mi possa servire? — Dipende. Vieni con me. I due uomini percorsero tutto il laboratorio passando tra due file di tavoli bianchi su cui si allineavano file di provette contenenti svariati prodotti chimici, alcuni in ebollizione. A Kling vennero in mente i film di Frankenstein. — Ecco. Qui c'è tutto quello che siamo stati in grado di riconoscere e isolare da quel frammento. Sono sette sostanze ben identificate, tutte rinvenute nell'impasto base che è risultato composto a sua volta da tre sostanze diverse. Secondo me la tua ipotesi che quel pezzo di fango si sia staccato da una scarpa dell'uomo è esatta. Non vedo in quale altro modo si sia potuta formare una simile collezione di cose diverse. — Fango attaccato al tacco, allora? — Probabilmente fango rimasto tra la fine della suola e il tacco. Naturalmente è impossibile stabilirlo con sicurezza. Sembra molto probabile, però, considerato il miscuglio di materiali accumulati e pressati insieme. — Che roba è? — Ecco qua — disse Grossman. Ogni particella di sostanza diversa era stata isolata, messa su un suo vetrino e contrassegnata da un numero di identificazione. I vetrini erano allineati su uno scaffale sopra il lungo tavolo, e Grossman li indicò a uno a uno mentre dava le relative spiegazioni. — Questi primi tre vetrini contengono le tre diverse sostanze del materiale base, amalgamatesi a formare una specie di mastice al quale gli altri elementi si sono attaccati via via. — E quali sono queste tre sostanze base? — chiese Kling. — Grasso, segatura e sangue — rispose Grossman. — Sangue umano? — No. Abbiamo fatto l'esperimento con il reagente di Uhlenhuth. Non si
tratta di sangue umano. — Bene. — Bene, sì — disse Grossman — perché almeno abbiamo un problema nuovo da risolvere. Dove è più probabile trovare una combinazione di grasso, segatura e sangue animale? — In una macelleria? — disse Kling. — Questa è la nostra ipotesi. E il nostro quarto vetrino la convalida. — Grossman batté con l'indice sul vetrino. — È un pelo animale. Sulle prime siamo stati un po' incerti perché il bulbo sembrava quello di un pelo umano, ma i calcoli della proporzione tra lo spessore midollare e il diametro del pelo ha dato come risultato zero virgola cinque. Un valore più basso avrebbe indicato che si trattava di un pelo umano, ma così non ci sono dubbi: è animale. — Che specie di animale? — chiese Kling. — Non possiamo affermarlo con sicurezza. O equino o bovino. Se teniamo in considerazione gli altri elementi, il pelo probabilmente proviene da un animale che è facile trovare in una macelleria, per esempio un vitello o un manzo. — Capisco — disse Kling. Una pausa, poi: — Ma... — Un'altra pausa. — Le bestie arrivano in macelleria già scuoiate, no? — E con questo? — Ecco, la pelle e i peli non ci sono più. — E allora? — Voglio dire... in una macelleria, in un negozio di macellaio, non si trovano facilmente i peli delle bestie in vendita. — Sì, ho capito dove vuoi arrivare. Pensi che sia più logico pensare a un macello che a una macelleria, vero? — Già — disse Kling. Ci pensò un momento, poi aggiunse: — In città ci sono sicuramente dei macelli, non credi? — Non lo so con certezza, ma mi sembra che tutti i macelli siano dall'altra parte del fiume, nello stato vicino. — Be', almeno abbiamo un'idea di dove cercare. — Abbiamo trovato qualcos'altro, però — disse Grossman. — Per esempio? — Scaglie di pesce. — Cosa? — Scaglie di pesce, o per la precisione un minuscolo frammento di una scaglia di pesce.
— In un macello? — Suona improbabile, eh? — Già. Comincio a riconsiderare la tua ipotesi della macelleria. — Lo sapevo. — Già... Un negozio di macellaio-pescivendolo. Perché no? — E il pelo animale? — Non potrebbe essere quello di un cane? — suggerì Kling. — Lo escluderei — disse Grossman, dopo una breve esitazione. — Ma allora mi spieghi come può uno pestare scaglie di pesce in un macello? — Non è obbligato a farlo proprio in un macello — disse Grossman. — Può aver raccattato il suo pezzo di scaglia in qualsiasi altro posto, andando in giro per la città. — Ipotesi che restringe il campo delle ricerche! Mi fa piacere — disse Kling. — Secondo me ti devi orientare sul miscuglio grasso-sangue... — ...e segatura. — Esatto. Sono proprio questi i tre elementi principali che amalgamati insieme sono rimasti attaccati alla suola. Poi il nostro amico se n'è andato in giro qua e là raccogliendo altra roba col suo tampone vischioso di glopis. — Tampone vischioso di cosa? — Glopis. È un antico termine ebraico. — Glopis? — Glopis. — E il pelo animale era attaccato al glopis, ho capito bene? — Giusto. — E anche la scaglia di pesce? — Anche. — E cos'altro c'era? — Dunque... Oh, tieni presente che non ti posso dare un preciso ordine di successione. Voglio dire che non è possibile stabilire, in base alle varie sostanze, la sequenza cronologica di dove il tuo uomo è stato. Posso solo elencarti i vari elementi. — Ho capito — disse Kling. — Bene. Dunque, abbiamo trovato un frammento di stucco, una scheggia di legno imbevuta di creosoto, limatura metallica, di rame, per la precisione...
— Continua. — E infine un pezzetto di nocciolina. — Nocciolina — ripeté Kling, col tono di chi non si stupisce più di niente. — Esatto. E, il tutto, è risultato impregnato di benzina, come se il nostro amico avesse immerso il piede in un bidone. Kling prese una penna dalla tasca della giacca, e cominciò a scrivere sul suo libretto di appunti, ripetendo a voce alta quello che scriveva, e aspettando ogni volta la conferma di Grossman. 1 - Grasso 2 - Segatura 3 - Sangue animale 4 - Pelo animale 5 - Scaglia di pesce 6 - Stucco 7 - Scheggia di legno (creosoto) 8 - Limatura metallica (rame) 9 - Nocciolina 10 - Benzina — È tutto, allora? — Tutto. — Grazie. Mi hai rovinato la giornata. Rientrando alla sala-agenti, Kling trovò pronto lo schizzo fatto dal disegnatore della polizia. I disegnatori del Dipartimento di Polizia erano cinque. L'agente che aveva fatto quel particolare schizzo era uno della Squadra Investigativa, si chiamava Victor Haldeman, e prima di entrare a far parte della polizia aveva studiato disegno a New York e alla scuola di Belle Arti di Chicago. Tutti e cinque i disegnatori avevano svolto altri incarichi prima di essere assegnati a quel servizio; due avevano fatto l'agente di pattuglia nel quartiere di Isola, e gli altri tre erano stati agenti investigativi rispettivamente nei distretti di Calm's Point, Riverhead e Majesta. L'Ufficio di Identificazione Criminale aveva sede nel palazzo della Centrale in High Street, alcuni piani sopra il laboratorio della Scientifica, ma i cinque uomini che facevano parte della sezione disegnatori lavoravano in uno studio distaccato, al numero 600 di Jessup Street. Il loro stato di servizio era sbalorditivo. Lavorando unicamente su de-
scrizioni fornite da testimoni spesso sconvolti e imprecisi, nel solo anno precedente avevano reso possibili ventotto identificazioni e conseguenti arresti. Nell'anno in corso avevano già fatto sessantotto ritratti su descrizione, portando a quattordici arresti positivi. In tutti gli individui sospetti riconosciuti e arrestati, si era riscontrata una rassomiglianza sorprendente con i ritratti tratteggiati dai disegnatori, in base alle descrizioni avute. L'agente investigativo Haldeman aveva parlato con tutti coloro che nel pomeriggio di mercoledì avevano visto l'uomo nell'ufficio di Vollner, aveva ascoltato attentamente la descrizione della faccia, capelli, occhi, naso, bocca, fatta da Miles Vollner, Cindy Forrest, Janice Di Santo e Ronnie Fairchild, l'agente di pattuglia tuttora ricoverato all'ospedale. Il disegno che ne ricavò in base agli elementi avuti richiese tre ore e mezzo di lavoro. Finito, venne recapitato a Kling in busta chiusa il lunedì mattina. Il cartoncino con lo schizzo era infilato in una custodia di celluloide trasparente. Kling lo tolse dalla custodia e lo studiò con attenzione.
Andy Parker, che stava passando in quel momento davanti alla scrivania di Kling per andare alla toilette, si fermò a guardare lo schizzo. — Chi è questo? — chiese. — Un sospetto — rispose Kling. — Sul serio? Credevo che fosse Cary Grant. — Sai che cosa dovresti fare, Andy? — disse Kling, senza guardarlo e rimettendo il disegno nella custodia. — No, dimmelo. — Dovresti arruolarti nella polizia. Ho sentito dire che stanno cercando
dei comici. — Ah ah ah! — disse Parker e se ne andò nella toilette, dove impiegò la mezz'ora seguente a leggere "Life". Quel lunedì mattina, a sessanta chilometri dal Distretto, e a trentotto dall'estremo limite della città, Meyer Meyer e Steve Carella affrontarono il paesaggio autunnale dei sobborghi. Erano diretti a Larksview dove c'era la casa della signora Melanie Gifford. Avevano passato tutto il sabato e parte della domenica a interrogare una buona percentuale delle duecentododici persone che la sera di mercoledì erano nello studio televisivo. Non che avessero sperato di trovare tra quei duecentododici qualcuno sospettabile di omicidio, anzi, in realtà stavano cercando accanitamente qualche elemento sostanziale per attaccarci un verdetto di suicidio. I loro interrogatori avevano seguito una linea molto semplice: volevano sapere se qualcuno collegato con lo Stan Gifford Show avesse visto in qualche momento l'attore mettere in bocca qualcosa. Le risposte non fornirono nessun elemento valido per sostenere la teoria del suicidio. La maggior parte delle persone interessate nello spettacolo erano state troppo occupate durante la trasmissione per notare se e chi metteva in bocca qualcosa; qualcuno addirittura non aveva avvicinato Gifford in tutto il giorno, e quelli che gli erano stati vicini per qualche tempo non avevano visto assolutamente niente finire nella bocca dell'attore. Un colloquio con David Krantz rivelò che Gifford aveva l'abitudine, ogni mercoledì sera, di ritardare la cena fin dopo lo spettacolo e, in previsione di questo ritardo, a pranzo mangiava abbondantemente, in modo da non risentire poi dello spostamento del secondo pasto. Questa affermazione annullava definitivamente l'ipotesi che Gifford avesse mangiato ancora dopo aver pranzato con la moglie, però offriva nuove possibilità di speculazione, ed erano proprio queste possibilità che riportavano Carella e Meyer a Larksview. Meyer era in condizioni pietose. Aveva il naso completamente otturato, la gola gli bruciava, gli occhi erano pesti e gonfi. Sabato e domenica si era imbottito di un prodotto specifico per il raffreddore, ma non gli era servito a niente. Continuava a soffiarsi il naso, a parlare con voce nasale e a risoffiarselo. In quelle condizioni, era proprio un compagno ideale. Fortunatamente, adesso che la storia della morte di Gifford non faceva più prima pagina, giornalisti e fotografi avevano finalmente smesso di assediare la casa della vedova. Carella e Meyer arrivarono indisturbati con la macchina fino allo spiazzo riservato al parcheggio, smontarono, andarono
alla porta principale, e tirarono il pomo d'ottone che azionava il campanello. La cameriera aprì, sbirciò fuori e disse: — Oh! Siete ancora voi. — La signora Gifford è in casa? — chiese Carella. — Vado a vedere — disse la donna, e gli richiuse la porta in faccia. Aspettarono sui gradini. Le fresche folate di vento scuotevano gli alberi e i cespugli che circondavano la casa coi colori dell'autunno. La cameriera tornò quasi subito. — La signora Gifford sta bevendo il caffè in sala — disse. — Se volete, potete raggiungerla. — Grazie — disse Carella, e i due uomini la seguirono. Dall'atrio, un'ampia scalinata ricoperta da un folto tappeto saliva al piano superiore descrivendo una curva. Grandi vetrate davano sul soggiorno, che comunicava con la piccola sala da pranzo con la veranda sul giardino posteriore. Melanie Gifford sedeva al tavolo, sola. Indossava una vestaglia trapunta sopra una lunga camicia da notte rosa di nylon, i cui pizzi spuntavano dall'orlo della vestaglia. Non si era pettinata, e i capelli biondi le ricadevano a ciocche disordinate attorno alla faccia. Per quanto senza trucco come l'altra volta, aveva però l'aria più riposata, e sembrava molto meno tesa. — Sto facendo colazione — disse. — Non sono un tipo mattiniero. Accettate un caffè? Meyer si sedette di fronte a lei, e Carella occupò la sedia di fianco alla donna. Melanie versò il caffè per entrambi, poi offrì marmellata e biscotti, che i due uomini rifiutarono. — Signora Gifford — disse Carella — quando siamo venuti qui l'altra volta voi avete accennato qualcosa a proposito del medico di vostro marito, il dottor Nelson. — Sì, ricordo — disse Melanie. — Zucchero? — Grazie. — Carella mise un abbondante cucchiaino di zucchero nel caffè, e passò la zuccheriera a Meyer. — Avete detto di aver pensato che avesse ucciso... — Latte? — Grazie... vostro marito. Perché l'avete detto, signora Gifford? — Perché lo credevo. — Lo credete ancora? — No. — Perché? — Mi sono resa conto che era impossibile. Allora non sapevo ancora quale veleno fosse stato usato.
— Intendete la rapidità con cui il veleno agisce? — Sì. — E volete dire che è impossibile che sia stato il dottor Nelson, perché durante la trasmissione Nelson era a casa sua? — Sì, esatto. — Ma perché avevate sospettato di lui? — Ho pensato a chi poteva procurarsi facilmente un veleno, e mi è venuto in mente Carl. — L'abbiamo pensato anche noi — disse Carella. — L'ho immaginato — rispose Melanie. — Quei biscotti sono ottimi. Davvero non ne volete? — No, grazie. Ma la possibilità di procurarsi del veleno non basta, signora Gifford, a fare di un uomo un assassino. Per quale motivo il dottor Nelson avrebbe dovuto uccidere vostro marito? — Non ne ho la minima idea. — Il dottore e vostro marito andavano d'accordo? — Sapete come sono i medici — rispose Melanie. — Hanno tutti il complesso di superiorità. Si credono degli dei. — Fece una pausa, poi aggiunse: — In ogni universo c'è posto per un solo Dio. — E nell'universo di Stan Clifford, il dio era lui. Melanie bevve un sorso di caffè, poi disse: — Se un attore non ha una fortissima personalità, non conclude niente. — Volete dire che le personalità dei due uomini entravano a volte in conflitto? — Sì. — Ma sicuramente non in modo serio. — Non so quando gli uomini considerano serio uno scontro. So che Stan e Carl ogni tanto discutevano. E così, quando Stan è stato ucciso, ho cercato di immaginare chi poteva procurarsi del veleno, e come vi ho detto prima, ho pensato a Carl. — Questo, però, prima di sapere che il veleno usato era strofantina, vero? — Sì. Appena ho saputo di che veleno si trattava, sapendo che quella sera Carl era a casa, ho capito... — Ma se non aveste saputo che si era trattato di strofantina, potevate pensare che il veleno fosse uno qualsiasi, vero? — Sì, ma... — E certamente sapevate che molti veleni possono venire acquistati in
farmacia, di solito sotto forma di questo o quel prodotto. Per esempio l'arsenico e il cianuro sono... — Sì, certo, lo sapevo. — Ciononostante avete concluso che era stato il dottor Nelson a uccidere vostro marito. — Ero sconvolta, non sapevo che cosa pensare. — Capisco — disse Carella. Prese la sua tazza e bevve un sorso di caffè, volutamente lungo. — Signora Gifford, ci avete detto che mercoledì, dopo aver pranzato, vostro marito ha preso una capsula di vitamine. — Sì, infatti. — Aveva la capsula con sé o gliel'avete portata voi quando siete andata in città? — L'aveva lui. — Era sua abitudine tenere in tasca le capsule di vitamine? — Sì — rispose Melanie. — Doveva prenderne una dopo ogni pasto. Stan era molto scrupoloso e preciso. Quando sapeva di restare in città, portava le capsule con sé in un piccolo portapillole. — Quel mercoledì, ha preso con sé una sola capsula o due? — Una — disse Melanie. — Come fate a esserne sicura? — Ecco, quella mattina, quando abbiamo fatto colazione, sulla tavola c'erano due capsule. Lui ne ha presa una con la spremuta d'arancia, poi ha messo l'altra nel portapillole, e infine si è infilato nella tasca la scatoletta. — E voi l'avete visto prendere la seconda capsula, dopo il pranzo di mezzogiorno? — Sì. L'ha tolta dalla scatoletta e l'ha messa sulla tavola, appena ci siamo seduti al ristorante. Faceva sempre così per non dimenticarsi di prenderla. — E, a quanto vi risulta, non aveva altre capsule con sé, avete detto. Quindi, quella capsula è l'unica che lui abbia preso mercoledì dopo essere uscito di casa. — Sì. — Chi ha messo le due capsule sulla tavola, quella mattina, signora Gifford? — La cameriera — disse Melanie, e tutt'a un tratto parve seccata. — Non capisco il motivo di tutte queste domande — disse. — Dato che Stan ha preso la sua capsula a mezzogiorno, non vedo come possa essere stata quella a...
— Stiamo solo cercando di accertare se effettivamente quel giorno vostro marito ha preso soltanto due capsule. — Ve l'ho già detto, no? — Vogliamo esserne assolutamente sicuri, signora Gifford. Sappiamo che non può essere stata la capsula presa durante il pranzo ad averlo ucciso. Ma se ci fosse stata una terza capsula... — Erano solo due — disse Melanie. — Stan sapeva che dopo lo spettacolo sarebbe venuto a mangiare a casa, come faceva tutti i mercoledì sera, quindi non aveva bisogno di portare con sé più di... — Più di quella che ha preso a pranzo. — Infatti. — Signora Gifford, sapete se vostro marito aveva un'assicurazione sulla vita? — Sì, l'aveva. — Ne conoscete l'importo? — Centomila dollari. — Sapete anche il nome dell'Assicurazione? — Sì. La Municipal Life. — Chi è il beneficiario, signora Gifford? — Io — rispose Melanie. — Capisco — disse Carella. Ci fu un breve silenzio. Melanie mise giù la tazzina, poi guardò Carella dritto negli occhi. Calma, disse: — Agente Carella, siete sicuro che con le vostre domande non state insinuando... — Signora Gifford, questa è la normale trafila di una... — ...che io c'entro per qualcosa con la morte di... — ...indagine. Io non so chi ha avuto a che fare con la morte di vostro marito. — Io, no. — Spero che sia così. — Vedete, agente Carella, i centomila dollari dell'assicurazione non si avvicinano nemmeno alla cifra che mio marito guadagnava facendo l'attore. Certamente saprete che Stan aveva firmato poco tempo fa un contratto per due milioni di dollari con la compagnia televisiva. E vi posso assicurare che Stan è sempre stato molto generoso con me. Forse vi piacerebbe venire di sopra per dare un'occhiata alle mie pellicce e ai miei gioielli? — Non credo che sia necessario, signora Gifford. — Anch'io non lo credo. Ma forse vorrete essere tanto gentile da prende-
re in considerazione il fatto che l'assicurazione di Stan comprendeva la solita clausola del suicidio. — Temo di non seguirvi, signora Gifford. — Stavo dicendo che, a meno che non troviate un assassino, a meno che non possiate provare che la morte di mio marito è stata provocata da un atto criminale, la compagnia d'assicurazioni concluderà che si è trattato di morte per suicidio. In questo caso io riceverò dalla compagnia solo la cifra dei premi già pagati e non un soldo di più. — Capisco. — Lo spero. — Signora Gifford, sapete se vostro marito aveva fatto testamento? — chiese Meyer. — Sì, l'aveva fatto. — E siete voi la beneficiaria anche del testamento? — Non lo so. — Non ne avete mai parlato con lui? — Mai. Sapevo che c'era un testamento, ma non ne ho mai conosciuto i termini. — Chi può saperlo, signora Gifford? — Il suo legale, immagino. — Volete darci il nome di questo legale? — Salvatore Di Palma. — Ha lo studio in città? — Sì. — Non vi dispiace se lo interpelliamo? — Perché dovrebbe dispiacermi? — disse Melanie. Fece una pausa e tornò a fissare Carella, — Vorrei dirvi — riprese — che cominciate a darmi seriamente sui nervi. — Ne sono desolato. — Fa parte della normale trafila di una indagine tormentare la vedova della vittima? — Ne sono desolato, signora Gifford — ripeté Carella. — Stiamo solo cercando di non trascurare nessuna eventualità. — Perché allora non provate a non trascurare l'eventualità che con Stan io ero felice? Quando l'ho conosciuto, lavoravo in Pennsylvania con una compagnia estiva, e guadagnavo sessanta dollari la settimana. Dal momento in cui l'ho sposato ho avuto sempre tutto quello che desideravo, ma ora sarei felice di dare tutto, pellicce, gioielli, la casa, i vestiti, tutto, se questo
potesse restituirmi Stan. — Noi stiamo solo... — Sì, state... prendendo in considerazione ogni eventualità, lo so. Ma potreste cercare anche di essere un po' più umani — disse lei. — State trattando con persone, non con cose. I due poliziotti non parlarono. Melanie sospirò. — Allora, volete parlare con la cameriera? — Sì, per cortesia — disse Meyer. Melanie sollevò la piccola campanella posata sul tavolo accanto a lei, e la scosse rapidamente un paio di volte. La cameriera comparve subito, quasi che fosse rimasta lì appena fuori ad aspettare la chiamata. — Maureen, questi signori vorrebbero farti qualche domanda — disse Melanie. — Se permettete, signori — aggiunse, rivolta ai due poliziotti — vi lascio soli. Vorrei andarmi a vestire, perché sto facendo tardi per un appuntamento. — Grazie per averci concesso il vostro tempo, signora — disse Carella. — Non c'è di che — rispose Melanie e uscì dalla stanza. Maureen, in piedi di fianco alla tavola, tormentava, a disagio, l'orlo del grembiule bianco. Meyer guardò Carella, che gli fece un cenno con la testa, e Meyer si schiarì la voce e disse: — Maureen, il giorno in cui è morto il signor Gifford avevate preparato voi la tavola per la prima colazione? — Sì. Ho preparato per lui e per la signora. — Preparate sempre voi la tavola? — Sì, signore, tranne il martedì e due domeniche al mese, quando ho le mie giornate di libertà. — Quella mattina avete messo voi sulla tavola le capsule di vitamine del signor Gifford? — chiese Meyer. — Sì, signore. Le ho messe di fianco al suo piatto, come al solito. — Quante capsule erano? — Due, signore. — Non erano tre? — No, due — rispose Maureen. — C'era presente qualcuno quando avete messo le capsule sulla tavola? — No, signore. — Chi è sceso per primo? Il signor Gifford o la signora? — La signora è entrata qui proprio mentre io stavo uscendo. — Poi è arrivato il signor Gifford? — Sì. L'ho sentito scendere un cinque minuti più tardi.
— Quelle capsule di vitamine sono in un flacone? — Sì. In una bottiglietta. — Possiamo vederla, per favore? — È in cucina — disse Maureen. — Aspettate un momento che vado a prenderla. La donna uscì. Carella aspettò finché non sentì più il rumore dei passi, poi chiese: — Cos'hai in mente? — Non lo so. Ma se Melanie Gifford è rimasta qui sola con le due capsule può averne sostituita una, no? — Quella che lui ha preso durante il pranzo? — Già. — C'è una cosa che non quadra, però, nella tua teoria — disse Carella. — Sì, lo so. Lui ha pranzato parecchie ore prima di sentirsi male. — Meyer sospirò e scosse la testa. — Ci troviamo sempre di fronte a quei maledetti sei minuti. Mi faranno diventare matto. — Inoltre, non sembra che Melanie Gifford avesse motivi per eliminare il suo caro marito. — Già — disse Meyer. — Però, ho la sensazione che sia troppo ansiosa di collaborare, sai? Lei, e anche il bravo dottore. Tutti e due così pieni di buona volontà! Lui che fa subito una diagnosi di avvelenamento e insiste perché si faccia l'autopsia. Lei che punta immediatamente i sospetti su di lui, poi cambia idea appena viene a conoscere le caratteristiche del veleno. E tutti e due prudentemente lontani dallo studio la sera in cui Gifford muore. — Meyer scosse ancora la testa con espressione penosa. — Forse quei sei minuti sono fatti apposta per farci diventare scemi. — Che cosa vuoi dire? — Forse era calcolato che noi scoprissimo qual era il veleno che l'aveva ucciso. Avremmo fatto comunque l'autopsia, giusto? E avremmo scoperto che si trattava di strofantina, dopo di che avremmo anche saputo come agisce la strofantina. — Continua. — Scoperto questo, avremmo automaticamente escluso dalla lista dei sospetti tutti coloro che non si trovavano vicino a Gifford pochi minuti prima della sua morte. — Cioè quasi tutta la città. — No, sai benissimo cosa voglio dire. Abbiamo escluso Krantz che sostiene di essere stato in regia, e abbiamo escluso Melanie Gifford che era qui, e il dottor Nelson che era a casa sua.
— Questo particolare va ancora controllato — disse Carella. — Perché? Krantz dice di averlo trovato a casa quando gli ha telefonato dopo che Gifford si è sentito male. — Sì, ma non significa che Nelson sia stato a casa tutta la sera. Glielo voglio chiedere. Appena torniamo in città voglio passare al suo studio. — D'accordo, ci passeremo. Ma hai capito qual è il punto, secondo me? — Credo di sì. Fissando dei termini ben precisi entro cui lavorare, sapendo esattamente quanto veleno Gifford ha inghiottito, e conoscendo la rapidità con cui agisce quel veleno, si arriva forzatamente all'unica conclusione logica: suicidio. Non è questo che vuoi dire? — Proprio questo — disse Meyer. — Ancora, c'è una cosa che non quadra con la tua teoria, amico. — E quale? — I fatti, Meyer. Il veleno era veramente strofantina. La strofantina agisce veramente entro pochi minuti. Puoi specularci sopra quanto vuoi, ma i fatti non cambiano. — Fatti, fatti — disse Meyer. — Tutto quello che so... — Fatti — insistette Carella. — Prova a supporre che Melanie abbia sostituito la capsula. Non abbiamo ancora controllato il testamento di Gifford. Lei potrebbe essere la beneficiaria di una grossa somma. — Va bene. Supponiamolo pure. In questo caso Gifford sarebbe crollato morto mentre stava andando allo studio. — Oppure supponi che Krantz gli abbia fatto bere qualcosa prima di salire nella cabina di regia. — Allora Gifford avrebbe avuto i primi sintomi quando lo show non era ancora in onda. — Maledizione ai fatti! — disse Meyer, e Maureen rientrò nella stanza. — Ho chiesto alla signora Gifford se potevo portarvi la bottiglietta — disse la cameriera, e diede a Carella il flacone delle capsule. — Ha detto che potete farne quello che volete. — Se è possibile, vorremmo portarlo via. — La signora Gifford ha detto che è a vostra disposizione. — Vi rilasceremo una ricevuta — disse Meyer. Guardò il flacone che Carella teneva in mano. Era quasi pieno di capsule opache, colorate in rosso e nero. Meyer le fissò con espressione disgustata. — Cercavi una terza capsula? — disse a Carella. — Sei servito. Lì dentro ce ne saranno almeno un centinaio!
Si soffiò il naso, poi scrisse la ricevuta per il flacone. VIII Lo studio del dottor Carl Nelson era in Hall Avenue. Davanti alla casa, tutta bianca, un'aiuola verde si allargava fino alla cordonatura del marciapiede. Carella e Meyer arrivarono lì alla una, salirono con l'ascensore al quinto piano, e dissero il loro nome a un'infermiera bruna la quale li informò che in quel momento il dottore era occupato con una paziente, ma che lei li avrebbe annunciati. Volevano sedersi? Si sedettero. Dopo una decina di minuti, dallo studio del medico uscì una signora anziana con una benda su un occhio. La donna sorrise ai due poliziotti, chiedendo comprensione per la sua ferita e offrendone per il motivo che costringeva anche loro a consultare un medico. Dietro di lei uscì dallo studio Carl Nelson, con la mano tesa. — Buongiorno, signori — disse. — Venite... accomodatevi. Ci sono novità? — Non proprio, dottore — rispose Carella. — Vogliamo solo farvi un paio di domande. — Sarò felice di darvi tutto l'aiuto che posso — disse Nelson. Poi si rivolse all'infermiera: — Rodha, a che ora è il prossimo appuntamento? — Alle due, dottore — rispose la ragazza. — Per cortesia, non passatemi nessuna telefonata fino a quell'ora, a meno che non si tratti di casi di emergenza — disse Nelson, e fece entrare nello studio i due poliziotti. Lui si sedette subito dietro la scrivania, indicò a Carella e Meyer due poltroncine, poi incrociò le mani davanti a sé, in atteggiamento professionale di attesa. — Dottor Nelson, siete un medico generico? — chiese Meyer. — Sì — rispose Nelson sorridendo. — Avete un gran brutto raffreddore, agente Meyer. Spero che abbiate preso qualcosa per curarlo. — Sto prendendo di tutto — rispose Meyer. — Ci sono in giro molte forme da virus — disse Nelson. — Già — disse Meyer. — Dottor Nelson — disse Carella — non vi dispiacerebbe parlarci un po' di voi? — Niente affatto — rispose Nelson. — Che cosa volete sapere? — Ecco, qualsiasi cosa vi sembri pertinente.
— Riguardo alla mia vita, al mio lavoro, o alle mie aspirazioni? — A tutto — disse Carella sorridendo. Nelson ricambiò il sorriso. — Vediamo... — disse. — Ho quarantatré anni, sono nato in questa città, e ho frequentato qui la Haworth University. Mi sono diplomato in scienze, nel gennaio del Millenovecentoquarantaquattro, e sono andato sotto le armi in tempo per la battaglia di Cassino. — Quanti anni avevate, allora, dottor Nelson? — Ventidue. — Avete prestato servizio nell'Esercito? — Sì. In Sanità. — Eravate ufficiale o soldato semplice? — Ero caporale. Mi hanno destinato a un ospedale da campo a Castelforte. Conoscete la zona? — Più o meno — rispose Carella. — Si è combattuto duramente da quelle parti — disse Nelson, e con un sospiro chiuse l'argomento. — Sono stato congedato nel maggio del Quarantasei, e mi sono iscritto subito a medicina. — Dove, dottor Nelson? — Alla Georgetown University di Washington. — Poi siete tornato qui e avete cominciato a esercitare. È così? — Sì. Ho aperto lo studio nel Cinquantadue. — Questo studio? — No. Il mio primo gabinetto medico era a Riverhead. — Da quanto tempo vi siete trasferito qui? — Dal Sessantuno. — Siete sposato? — No. — Non lo siete mai stato? — Sì. Ho divorziato sette anni fa. — La vostra ex moglie è ancora viva? — Sì. — Abita in città? — No. Vive a San Diego col suo nuovo marito. — Avete figli? — No. — Prima avete accennato alle vostre aspirazioni. Volete parlarcene? — Oh, niente di eccezionale — rispose Nelson sorridendo. — Spero di riuscire, col tempo, a fondare una casa di riposo per persone anziane.
— Dove la vorreste, la vostra casa di riposo? — Mi piacerebbe farla a Riverhead, dove ho cominciato la mia carriera. — Dottor Nelson, a quanto ci risulta, mercoledì sera, quando il signor Krantz vi ha telefonato per informarvi di quanto era successo, voi eravate a casa — disse Carella. — È esatto? — Sì, ero a casa. — Siete rimasto in casa tutta la sera? — Appena uscito di qui, sono andato direttamente a casa. — A che ora siete uscito dallo studio? — Il mio orario di visite pomeridiane va di solito dalle cinque alle otto. Mercoledì sera sono uscito una decina di minuti dopo le otto. — Qualcuno può confermarlo? — Sì. Rhoda è uscita con me. È la mia infermiera, la signorina Barnaby, che avete visto. Siamo usciti insieme. Se volete, potete chiederglielo. — Dove siete andato, fuori dall'ufficio? — A casa. Come vi ho già detto sono andato a casa direttamente. — Dove abitate, dottor Nelson? — Nella Quattordicesima Strada Sud. — Quattordicesima Sud... ci mettete circa un quarto d'ora, al massimo, per andare da qui a casa vostra. Giusto? — Giustissimo. Sono arrivato a casa alle otto e mezzo. — C'era qualcuno in casa? — La mia cameriera, la signora Irene Janlewski. Stava preparandomi la cena, quando è arrivata la telefonata dallo studio. Comunque non avrei avuto bisogno della telefonata. — Perché? — Avevo visto Stan. — Cosa volete dire, dottor Nelson? — Stavo guardando la televisione. L'ho accesa appena arrivato a casa. — Alle otto e mezzo, avete detto, vero? — Sì. Minuto più minuto meno. — Cosa stava succedendo quando avete acceso l'apparecchio? — chiese Meyer. — Succedendo? — Sì, sullo schermo — disse Meyer. Aveva preso di tasca il suo taccuino d'appunti e una penna, e pareva che prendesse nota di quel che Nelson diceva. Ma in quel momento stava guardando la pagina di fronte a quella su cui scriveva. Era la pagina dove aveva annotato le informazioni che Co-
oper gli aveva dato la sera di mercoledì. Il complesso folcloristico aveva finito alle otto e trentasette, e Gifford, entrato in scena subito dopo con l'ospite di Hollywood, era rimasto davanti alle telecamere per due minuti e dodici secondi. Poi l'ospite era andato a cambiarsi. — Quando ho acceso la televisione, Stan Gifford stava facendo una pubblicità — disse Nelson. — La pubblicità di un caffè. — Allora erano le otto e quaranta — disse Meyer. — Possibilissimo. — In realtà, erano esattamente le otto, trentanove minuti e dodici secondi — disse Meyer, tanto per fare il pignolo. — Cosa? — disse Nelson. — Significa che non avete acceso il televisore appena rientrato in casa, se quando siete arrivato erano le otto e mezzo. — Probabilmente ho scambiato quattro parole con la signora Janlewsky, le avrò chiesto se c'erano state telefonate, e avremo parlato per qualche minuto di problemi casalinghi. Ce ne sono sempre, no? — Sì, certo — disse Meyer. — Comunque, la cosa importante è che stavate guardando la televisione quando Stan Gifford si è sentito male. — Infatti. — Cioè, esattamente alle otto, quarantaquattro minuti e diciassette secondi — disse Meyer, provando un gran piacere a dimostrarsi tanto ben informato. — Possibilissimo — ripeté Nelson. — Cos'avete pensato vedendolo star male? — Non so che cos'ho pensato. So che sono andato subito a prendere il soprabito e il cappello, e stavo uscendo quando è suonato il telefono. — Chi era? — David Krantz. — Il quale vi ha detto che Gifford stava male, giusto? — Sì. — Cosa che voi sapevate già. — Sì, lo sapevo già. — Però quando l'avete visto star male non sapevate che cosa aveva. — No, certo. — Più tardi, dottor Nelson, quando vi ho parlato nello studio televisivo, vi siete dimostrato certo che si trattava di avvelenamento. — Verissimo, ma allora... — In realtà, siete stato proprio voi a consigliare l'autopsia.
— Esatto. Quando sono arrivato nello studio, i sintomi erano ormai evidentissimi. Anche un qualsiasi studente al primo anno di medicina avrebbe diagnosticato avvelenamento acuto. — Ma naturalmente non sapevate quale fosse il veleno. — Come facevo a saperlo? — Dottor Nelson — disse Carella — non avete mai litigato con Stan Gifford? — Sì, certo. Tutti gli amici hanno qualche discussione ogni tanto. Sono i semplici conoscenti che non hanno mai divergenze d'opinioni. — Per che cosa litigavate? — Non lo ricordo. Per un sacco di cose. Stan era un uomo bene informato, sempre al corrente di tutto, e con precise opinioni personali su molti argomenti che concernono la società. — Capisco. E così, litigavate su questi problemi. — Sarebbe più esatto dire che ne discutevamo. — Discutevate sui più svariati argomenti, è così? — Esatto. — Ma non litigavate? — Sì, litigavamo anche. — Su argomenti di interesse generale, vero? — Sì. — Mai, però, su problemi specifici. Mai su cose... diciamo personali. — Ma sì, litigavamo anche su questioni personali. — Su che cosa, per esempio? — Non ricordo, adesso. Ma so che avevamo di tanto in tanto delle discussioni di carattere personale. — Cercate di ricordare, dottor Nelson — disse Carella. — Melanie ve l'ha detto? — chiese improvvisamente Nelson. — È per questo che fate tante domande? — Cos'avrebbe dovuto dirci la signora Gifford, dottor Nelson? — State cercando una conferma, vero? Posso assicurarvi che è stato un incidente senza nessuna importanza. Una vera stupidaggine. Se Stan non fosse stato ubriaco, non avrebbe perso la calma in quel modo. — Parlateci di questo incidente — disse Meyer, calmo. — Stan aveva dato una festa a casa sua, e io stavo ballando con Melanie. Stan aveva bevuto parecchio e... e si è messo in testa una cosa assurda, ridicola. — Che cosa si è messo in testa?
— Mi ha accusato di volergli rubare la moglie, e... e mi ha dato un pugno. — E voi che cos'avete fatto? — Mi sono difeso, naturalmente. — Come? Avete restituito il pugno? — No. Ho alzato le mani per respingere i suoi colpi. Stan era molto ubriaco e non era in grado di fare veramente male. — Quando è stata questa festa, dottor Nelson? — Poco dopo la festa del cinque settembre, una settimana prima che ricominciassero le trasmissioni dello show dopo la pausa estiva. Stan aveva voluto festeggiare proprio la ripresa dello spettacolo. — E quella sera Stan Gifford ha pensato che voi steste cercando di portargli via la moglie? — Sì. — Soltanto perché stavate ballando con lei? — Sì. — Avete ballato molto con Melanie Gifford. — No. Era forse la seconda volta in tutta la sera. — L'atteggiamento di Gifford era del tutto ingiustificato, vero? — Stan era ubriaco. — Secondo voi vi ha assalito solamente perché era ubriaco? — E anche perché David l'aveva stuzzicato. — David Krantz? C'era anche lui alla festa? — Sì. Erano stati invitati molti di quelli che partecipavano in un modo o nell'altro allo spettacolo. — Capisco. In che modo il signor Krantz ha stuzzicato Gifford? — Be', sapete, con quegli stupidi scherzi che a molti piacciono. — Che genere di scherzi, dottor Nelson? — Aveva detto un paio di battute di cattivo gusto sul fatto che Melanie e io ballavamo insieme. Krantz è un barbaro. Secondo me, è ossessionato dal sesso e di conseguenza attribuisce un significato sessuale a tutto quello che fanno gli altri. — Capisco. Quindi, secondo voi, è stato Krantz a mettere in testa a Gifford l'idea che voi cercavate di rubargli la moglie? — Sì. — E perché l'avrebbe fatto? — Perché odiava Stan. In realtà, Krantz odia tutti gli attori. Li chiama bestie, e li ritiene esseri inferiori a lui, sicuramente inferiori a lui.
— E quali erano i sentimenti di Gifford per Krantz? — Credo che fossero reciproci. — Volete dire che anche Gifford odiava Krantz? — Sì. — Allora perché quella sera ha preso sul serio le insinuazioni di Krantz? — Temo di non aver capito la domanda... — Parlavo della festa, quando Krantz ha detto a Gifford che voi volevate rubargli la moglie. — Ah, non so. Era ubriaco. Forse un ubriaco è disposto ad ascoltare chiunque. — Mmm — fece Carella. Rimase in silenzio per poco, poi chiese: — Ma nonostante quell'incidente siete rimasto il suo medico personale, vero? — Naturalmente. Il giorno dopo, Stan mi ha fatto le sue scuse. — E avete continuato a essere amici? — Sì, certo. Non capisco perché Melanie abbia ritirato fuori quella storia. Non vedo che interesse può... — Melanie Gifford non ci ha detto niente — disse Meyer. — Oh... Allora da chi l'avete saputo? Da Krantz? Non avrei mai pensato che arrivasse a questo. È proprio un maledetto pasticcione. — Nessuno ci ha detto niente, dottor Nelson — disse Meyer. — Questa è la prima volta che sentiamo parlare dell'incidente. — Oh! — Nelson fece una pausa. — Be', non importa. Preferisco che l'abbiate saputo da me piuttosto che da qualcun altro presente alla festa. — Molto sensato da parte vostra, dottor Nelson. Vi ringraziamo per la vostra collaborazione — disse Carella. E dopo una pausa: — Se non vi dispiace, controlleremo con la vostra infermiera se quando siete uscito con lei mercoledì sera erano circa le otto e dieci. Poi... — Ma certamente. Chiedeteglielo pure. — Poi vorremmo anche telefonare alla vostra cameriera, col vostro permesso s'intende, per controllare se siete veramente arrivato a casa alle otto e mezzo come affermate, e se siete rimasto in casa fino a quando ha telefonato il signor Krantz. — Certo, signori. La mia infermiera vi darà il mio numero di casa. — Grazie, dottor Nelson. Siete stato molto gentile — disse Carella, e i due poliziotti, usciti dallo studio privato del medico, parlarono con la signorina Barnaby, la quale disse loro che quel mercoledì pomeriggio il dottor Nelson era arrivato allo studio alle cinque meno un quarto e se n'era andato finita l'ora delle visite, alle otto e dieci. Ne era assolutamente certa
perché lei e il dottore erano usciti insieme. Poi la ragazza diede ai due poliziotti il numero di casa del medico perché potessero telefonare alla signorina Janlewsky, la cameriera. La ringraziarono educatamente, poi scesero e uscirono dall'edificio. — Sì, un tipo che non si fa pregare per dare la sua collaborazione — disse Carella. — Già. Non si fa pregare proprio nemmeno un po' — approvò Meyer. — Mi piacerebbe farlo pedinare — disse Carella. — Ho un'idea migliore — disse Meyer. — Far pedinare lui e anche Krantz. — Sì. Una buona idea. — Sei d'accordo? — In pieno. — Pensi che sia stato uno di loro? — Io penso che sia stato tu — disse Carella, e sganciate di colpo le manette dalla cintura, ne chiuse una attorno a un polso di Meyer. — Vieni con me, adesso, e niente storie! — Lo sai di cosa ha più bisogno un disgraziato con un brutto raffredore? — chiese Meyer. — No. Di cosa? — Di un compagno spiritoso. — Ma io non stavo facendo dello spirito — disse Carella, guardandolo severamente. — Mi capita di sapere che Stan Gifford ha stipulato un'assicurazione sulla vita, di sette milioni di dollari pagabili a tua moglie Sarah nel caso in cui lui fosse morto un mercoledì tra le otto e mezzo e le nove e mezzo di sera durante il mese di ottobre. Inoltre mi capita di sapere che... — Oh, Dio! — disse Meyer. — E insiste, anche! Tornati alla sala-agenti, fecero due telefonate. La prima, alla Municipal Life. Dalla Compagnia d'Assicurazione seppero che Stan Gifford aveva stipulato una polizza vita solo un anno e mezzo prima e che la polizza conteneva la seguente clausola: "Nel caso in cui la morte dell'assicurato avvenga entro due anni dall'inizio della polizza, per suicidio, qualunque sia lo stato mentale del soggetto, la compagnia è tenuta unicamente al rimborso dei premi già pagati all'atto del decesso". La seconda telefonata venne fatta a Salvatore Di Palma, legale di Gifford, il quale confermò che Melanie Gifford non era a conoscenza dei termini in cui era stato redatto il testamento del marito.
— Perché volete saperlo? — domandò il legale. — Stiamo conducendo le indagini sull'assassinio di Gifford — rispose Carella. — Nel testamento di Stan non c'è niente che potesse spingere Melanie a prendere in considerazione l'idea di un delitto — dichiarò Di Palma. — Ne siete sicuro? — Io so cosa c'è nel testamento. — Potete dircelo? — Non credo che sia corretto da parte mia rivelare a qualcuno il contenuto del testamento, prima che la vedova del signor Gifford ne abbia preso visione. — Stiamo indagando su un delitto — disse Carella. — Sentite, prendete per buona la mia parola — disse Di Palma. — Nel testamento non c'è niente che possa... — Volete dire che non ha lasciato niente alla moglie? — Ho detto questo? — No, l'ho detto io — rispose Carella. — Allora, lei eredita o no? — Voi mi state facendo violenza — disse Di Palma, e poi rise. Gli piaceva parlare con gli italiani e aveva capito subito che Carella era di origine italiana, origine recente, anche. Gli italiani erano gli unici esseri civili del mondo. — Su, coraggio — disse Carella. — Aiutate un pover'uomo che lavora! — Va bene, ma non l'avete saputo da me — disse Di Palma, ridendo ancora. — Stan è venuto qui ai primi del mese scorso e mi ha chiesto di rifare il testamento. — Perché? — Non me l'ha detto. Nel testamento adesso la casa e i beni personali vanno a sua madre, la signora Adelaide Garfein, una vedova che vive a New York. — Continuate. — Un terzo delle sue restanti proprietà vanno all'Associazione Americana degli Attori di Rivista, un terzo all'Accademia delle Arti e Scienze Televisive, e un terzo alla Fondazione Damon Runyon per gli studi sul cancro. — E alla moglie? — Zero — rispose Di Palma. — Quando ha cambiato il testamento l'ha esclusa completamente dai lasciti. — Vi ringrazio infinitamente.
— Di che cosa? — e Di Palma rise ancora. — Io non vi ho detto niente, no? — Ah, no. Nemmeno una parola — disse Carella. — Grazie di nuovo. — Non è il caso — disse Di Palma e riagganciò. — E allora? — chiese Meyer. — Non le ha lasciato niente — rispose Carella. — Ha cambiato testamento il mese scorso. — Niente? — Niente. — Carella fece una pausa. — Molto curioso, non ti pare? Da una parte abbiamo una dolce moglie che ha avuto una vita completamente felice col marito e che vuol portarci di sopra per mostrarci le pellicce e i gioielli e tutto il resto, e dall'altra un marito che il mese scorso rifà testamento escludendola dall'eredità. A me pare molto strano. — Già, soprattutto se pensi che proprio nel mese scorso lo stesso marito ha avuto uno scontro col nostro dottore e l'ha accusato di volergli rubare la moglie. — Mmm. Una coincidenza curiosa — disse Carella. — Forse credeva davvero che Nelson gli volesse portare via la moglie. — Forse. — Già — disse Meyer. Ci pensò un momento, poi aggiunse: — Eppure lei sembra pulita. Dalla morte del marito non ne ricava un centesimo. — A meno che noi non troviamo un assassino, nel qual caso, non trattandosi più del suicidio, lei incassa un bel centomila dollari dall'assicurazione. — Già, ma anche questo particolare la mette fuori causa, perché se fosse stata lei ad ammazzarlo non avrebbe fatto in modo che la morte sembrasse un suicidio, no? — Cosa vuoi dire? — Che questa storia sembra proprio un suicidio. E, per quello che è risultato finora, lo è. — Allora? — E allora, se uno spera di incassare centomila dollari da un'assicurazione con la clausola che esclude il suicidio, non organizza certo le cose in maniera che il delitto abbia l'aria di un suicidio, no? — No. — E allora? — disse Meyer. — Allora, Melanie Gifford sembra pulita. — Già.
— Sai cos'ho scoperto? — disse Carella. — Dimmelo. — Il vero nome di Gifford è Garfein. — Ah, sì? — Sì. — E con questo? Il mio vero nome è Rock Hudson, figurati un po' se m'impressiono! IX Preso a confronto il numero di ammazzamenti umani che succedevano ogni giorno nelle cinque diverse zone della città, Kling fu molto stupito nello scoprire che in città esisteva un unico macello. Evidentemente, l'Unione Macellai, che gli aveva dato l'informazione, era contraria ad ammazzare gli animali entro i limiti della città. L'unico macello esistente era sulla Boswell Avenue, in Calm's Point, ed era specializzato nel macello degli ovini. Come Grossman aveva immaginato, la maggior parte degli animali destinati al rifornimento della città, venivano macellati in quattro costruzioni apposite sull'altra riva del fiume, nello stato confinante. Dato che il macello di Caml's Point era il più vicino, Kling andò prima in Boswell Avenue. Aveva con sé la lista compilata quello stesso giorno al laboratorio e il disegno dell'Ufficio Identificazione Criminale. Non sapeva esattamente che cosa stesse cercando o che cosa sperasse di scoprire. Era la prima volta che metteva piede in un macello. Dopo aver visitato quello di Calm's Point non avrebbe mai più voluto mettere piede in un altro per tutta la vita. Disgraziatamente doveva controllarne altri quattro, dall'altra parte del fiume. Alla vista del sangue c'era abituato. Un poliziotto ci si abitua per forza. Lui era abituato alla vista di esseri umani che sanguinavano in cento modi diversi da mille ferite diverse. A questo c'era abituato. Era stato testimone di aggressioni improvvise con rasoi e coltelli, rivoltelle e fucili, aveva visto i corpi delle vittime squarciati e passati da parte a parte, col sangue che fluiva dalle ferite e ne sprizzava. Li aveva visti morti e sanguinanti, li aveva visti vivi durante la lotta, e sanguinanti. Ma non aveva mai visto una bestia uccisa, e quella vista l'aveva fatto star male. A fatica era riuscito a concentrarsi su quello che gli diceva il macellaio. Aveva nelle orecchie il belato degli agnelli, e l'aria era impregnata dell'odore acre del sangue. Il
caposquadra aveva preso in mano il disegno che Kling gli aveva mostrato, lasciando l'impronta di un pollice sporco di sangue sulla custodia trasparente, e aveva scosso la testa. Dietro di lui, gli animali belavano terrorizzati. Fuori l'aria era fredda e gelava le narici. Kling se ne riempì i polmoni, assaporando ogni respiro purificatore. Non aveva voglia di andare dall'altra parte del fiume, ma ci andò. Saltò la seconda colazione perché sapeva che non sarebbe riuscito a tenere giù il cibo, e visitò altri due macelli. Non trovò niente e si preparò tristemente a visitare gli altri due. Le intuizioni esistono, e nella vita reale ciò che più si avvicina alla rivelazione improvvisa è il lampo che passa nella mente di un poliziotto un attimo prima di fare una scoperta. Kling seppe di aver fatto centro nel momento in cui arrivò sul molo. Fu una folgorazione improvvisa. Smontò dalla macchina della polizia sorridendo e alzò la testa a guardare la grande insegna bianca in cima all'edificio che fronteggiava il fiume: Purley Brothers, Inc. Rimase per qualche minuto fermo in mezzo al molo, uno spiazzo libero grande come un campo di baseball, e osservò tutto con calma, mentre dentro di lui cresceva la convinzione di essere arrivato al punto giusto. "È qui, è qui, è qui..". Sul lato del molo verso il fiume, rivolte all'acqua c'erano due pompe per il rifornimento di benzina ai battelli. Oltre le pompe, Kling poteva vedere l'altra sponda e gli edifici della città che si stagliavano contro il grigio cielo d'ottobre. Guardò un momento la riva opposta, poi girò la testa a destra. Da una mezza dozzina di pescherecci attraccati al molo, i pescatori sbarcavano le loro ceste e, vuotate le reti, saltavano sul molo e si sedevano là, le gambe penzoloni, ancora protette dagli alti stivali di gomma, e cominciavano a pulire il loro pesce passandolo in ceste pulite foderate con fogli di giornale. Il sorriso di Kling si allargò. Adesso sapeva con certezza che quello era il posto giusto, che lì su quel molo tutto quadrava. Rivolse la sua attenzione al macello, che occupava quasi tutto un lato dell'area rettangolare del molo. I gabbiani stridevano alti sul fiume nel punto dove un condotto di scarico rovesciava i rifiuti. Un binario morto, lungo cinquecento metri circa, partiva dal molo e arrivava fin dietto l'edificio di mattoni. Kling andò verso il binario e seguì le rotaie dentro l'edificio. Le rotaie portavano direttamente al recinto delle bestie, vuoto in quel momento. Di fianco c'era la porta metallica del mattatoio. Kling sapeva cos'avrebbe trovato sul pavimento dietro la porta. Aveva già visto altri tre
posti uguali. Il direttore del macello, un certo Joe Brady, si dimostrò felicissimo di aiutare Kling. Lo accompagnò in un piccolo ufficio con una parete di vetro, da dove si vedeva il pavimento del mattatoio. Kling si sedette con la schiena alla vetrata e diede a Brady il ritratto a matita. L'uomo lo studiò per qualche minuto poi chiese: — È uno sporco negro? — No — rispose Kling. — Un bianco. — Avete detto che ha aggredito una ragazza, no? — Sì, infatti. — E non è uno sporco negro? — disse Brady, poi scosse la testa. — Potete vedere dal ritratto, che è un bianco — disse Kling. Nella voce del poliziotto era affiorata una certa irritazione, ma Brady non se ne accorse. — Da un disegno non è facile capirlo — disse — Il modo come è fatta l'ombreggiatura qui, vedete, proprio qui, fa confondere. Potrebbe benissimo essere uno sporco negro. — Signor Brady — disse Kling, seccamente — quella definizione non mi piace. — Quale definizione? — Sporco negro. — Oh, andiamo! — disse Brady. — Non prendetevela per così poco. Abbiamo almeno una dozzina di negri che lavorano qui, e sono tutti bravi ragazzi. Si può sapere perché ve la prendete? — Quella definizione mi dà fastidio — disse Kling. — Quindi, non ripetetela. Di scatto Brady restituì il ritratto. — Non ho mai visto quest'uomo — disse. — Se avete finito, vorrei tornare al mio lavoro. — Dunque, non lavora qui? — No. — I vostri dipendenti sono tutti a orario pieno? — Tutti. — Non avete nessuno a ore? Qualcuno che lavori magari soltanto un paio di ore ogni tanto? — Conosco tutti i nostri dipendenti — disse Brady. — Quell'uomo non lavora qui. — Non potrebbe essere qualcuno che viene a fare le consegne? — Che genere di consegne? — Non lo so. Forse...
— L'unica cosa che viene consegnata qui sono le bestie da macellare. — Eppure sono sicuro che vengono consegnate altre cose, signor Brady. — No. Niente — disse Brady, e si alzò dalla scrivania. — Adesso devo tornare al lavoro. — Sedetevi, signor Brady — disse Kling. Aveva parlato con voce dura, aspra. Sorpreso, Brady lo guardò con le sopracciglia inarcate, pronto a risentirsi. — Vi ho detto di sedervi. — Sentite un po', voi... — No. Sentite voi me — interruppe Kling. — Sto facendo indagini su un caso di aggressione e ho degli ottimi motivi per credere che quest'uomo — e batté la mano sul disegno — venerdì scorso sia venuto da queste parti. Ora, il vostro atteggiamento non mi piace, signor Brady, e se voi preferite rispondere alle mie domande nella stazione di polizia invece che qui nel vostro comodo ufficio con veduta panoramica sul mattatoio, per me va bene lo stesso. Quindi, se volete mettervi il cappello, faremo una passeggiatina, d'accordo? — Ma perché? — disse Brady. Kling non rispose. Rimase seduto di fianco alla scrivania, davanti a Brady, a guardarlo freddamente. Brady lo fissò negli occhi. — L'unica cosa che viene consegnata qui sono gli animali — ripeté. — Allora, come ci arriva la carta igienica? — Cosa? — Per i gabinetti — disse Kling. — Non fatemi perdere la pazienza, signor Brady. Me ne resta già poca. — Va bene, va bene — disse Brady. — Okay! Allora, chi viene a consegnare le diverse merci? — Un sacco di gente, ma li conosco quasi tutti e non ho riconosciuto l'uomo del ritratto. — Non vengono fatte consegne senza che voi vi assistiate? — Cioè? — In questo edificio non entra niente senza il vostro controllo personale? — Controllo tutto quello che entra e che esce. Ma cosa volete dire esattamente? Parlate di cose personali? — Cose personali, signor Brady? Quali sarebbero? — Cose che non hanno niente a che fare con il lavoro.
— Volete spiegarvi meglio, signor Brady? — Ecco, qualcuno dei ragazzi ordina la colazione al locale che c'è dall'altra parte del molo. Ci pensa il personale della tavola calda che porta qui le colazioni ordinate, oppure i caffè. Anch'io mangio qui, ma mi porto la colazione da casa, e per i caffè adopero un fornello, quindi non devo mandare a prendere nemmeno quello, e di solito non vedo chi viene a portare da mangiare. — Grazie — disse Kling e si alzò. Brady non resistette alla tentazione di una battuta finale. — Comunque — disse — molti di quelli che vengono qui a consegnare una cosa o l'altra sono degli sporchi negri. Fuori, l'aria pulita portava dal fiume ventate di umidità. Kling vide la tavola calda all'estremità opposta del molo, e andò svelto in quella direzione. Il locale era schiacciato in mezzo ad altri negozi che prendevano fisionomia a poco a poco. I due che fiancheggiavano la tavola calda erano di un idraulico e di un vetraio. Kling consultò il taccuino: grasso, segatura, sangue, pelo animale, scaglia di pesce, stucco, scheggia di legno, limatura metallica, nocciolina, benzina. L'unico elemento che ancora non quadrava era il frammento di nocciolina, ma forse ne avrebbe trovate nel locale. In realtà, Kling sperava di trovare là dentro molto di più di una nocciola. Sperava di trovare l'uomo che era entrato nel macello mettendo i piedi nel miscuglio di grasso, segatura e sangue, e raccogliendo poi il pelo nel passare davanti al recinto degli animali. Sperava di trovare l'uomo che aveva camminato lungo le rotaie raccattando sotto la suola una scheggia di legno imbevuta di creosoto. Sperava di trovare l'uomo che si era fermato in cima al molo dove i pescatori pulivano il pesce, poi aveva camminato sul terreno impregnato di benzina accanto alle pompe, e poi era entrato dal vetraio, dove al resto si era attaccato il pezzetto di stucco, e dall'idraulico, dove la limatura di rame aveva arricchito l'impasto schiacciato tra la suola e il tacco. Sperava di trovare l'uomo che aveva picchiato Cindy fino a farla svenire. C'erano ottime probabilità che quell'uomo lavorasse alla tavola calda. Chi altro poteva avere l'occasione di entrare e uscire da tutti quei posti? Kling sbottonò la giacca, sentì sotto le dita il contatto rassicurante del calcio della pistola, aprì con decisione la porta del locale ed entrò. L'odore di fritto gli riempì le narici. Aveva lo stomaco vuoto, e adesso l'odore del cibo, mescolandosi ai ricordi del macello, gli diede la nausea.
Si sedette su uno degli alti sgabelli davanti al banco, e ordinò un caffè. Voleva osservare bene il personale prima di mostrare il ritratto. Dietro il banco c'erano due uomini, uno bianco e uno di colore. Né l'uno né l'altro avevano la minima rassomiglianza col disegno. Dal passa-vivande che comunicava con la cucina, intravide un altro bianco nel momento in cui l'uomo deponeva un piatto per un cliente. Ma nemmeno quello assomigliava allo schizzo. Vicino alla cassa c'erano seduti due ragazzi di colore in giacca bianca, due aiuto camerieri, e alla cassa c'era un bianco completamente calvo che si frugava nei denti con un fiammifero. Kling ritenne di aver visto tutto il personale tranne, forse, il cuoco. Finì di bere il caffè, andò alla cassa, mostrò il distintivo all'uomo calvo e disse: — Vorrei parlare col direttore del locale, per favore. — Sono io. Proprietario e direttore — rispose il calvo. — Mi chiamo Myron Kreeps. — Sono l'agente investigativo Kling. Vorreste dare un'occhiata a questo ritratto e dirmi se conoscete quest'uomo? — Volentieri — rispose Kreeps. — Ha fatto qualcosa? — Sì. — Posso chiedervi che cosa? — Questo non ha importanza — rispose Kling, e tolto il disegno dalla custodia lo diede a Kreeps. L'uomo piegò la testa di lato e osservò il ritratto. — Lavora qui? — chiese Kling. — No. — Non ha mai lavorato da voi? — No — disse Kreeps. — Non l'avete mai visto nel vostro locale? Dopo un breve silenzio, Kreeps chiese: — Si tratta di una cosa grave? — Sì — disse Kling, e subito dopo chiese: — Perché? — Non avrebbe potuto affermare che la domanda gli fosse stata suggerita dall'intuito, però la breve esitazione di Kreeps gli aveva fatto drizzare le orecchie. — Grave come? — domandò Kreeps. — Ha picchiato una ragazza — disse Kling. — Oh. — Vi sembra grave abbastanza? — È molto grave — ammise Kreeps. — Abbastanza perché mi diciate chi è? — Pensavo che fosse qualcosa di meno importante — disse Kreeps. —
Per infrazioni minori, che bisogno c'è di essere un bravo cittadino? — Conoscete quest'uomo, signor Kreeps? — Sì. L'ho visto qui attorno. — L'avete visto nel vostro locale? — Sì. — Molto spesso? — Tutte le volte che fa il suo giro. — Cosa significa? — Gira tutti i locali e i negozi qui sul molo. — Per far cosa? — Non vorrei metterlo nei guai per quello che fa — disse Kreeps. — A mio giudizio la sua non è un'attività criminale e poi, alla gente di questa città, piace sognare. — Che cosa fa, quest'uomo, signor Kreeps. — È soltanto perché voi avete detto che ha picchiato una ragazza. E questa si è una cosa grave. Per una cosa così io non ho nessuna intenzione di proteggerlo. — Perché viene nel vostro locale, signor Kreeps? E perché va in tutti gli altri posti del molo? — Raccoglie le scommesse del lotto — disse Kreeps. — Tutti quelli che vogliono giocare danno a lui i soldi delle puntate quando fa il giro. — Come si chiama? — Lo chiamano Cookie. — Cookie e poi? — Non so il cognome. L'ho sempre sentito chiamare Cookie. Viene qui soltanto per il lotto. — Vendete noccioline nel vostro locale, signor Kreeps? — Cosa? Noccioline, avete detto? — Sì. — No, non tengo le noccioline. Ho soltanto tavolette di cioccolato e pacchetti di caramelle, e gomma da masticare, ma niente noccioline. Perché? Vi piacciono le noccioline? — C'è qualche posto sul molo dove se ne possono trovare? — Sul molo, no — disse Kreeps. — E dove, allora? — Dietro. Sulla strada. C'è un bar. Là, ci sono anche le noccioline. — Grazie — disse Kling. — Mi siete stato molto utile. — Mi fa piacere — disse Kreeps. — Adesso, per favore, vi dispiace pa-
gare il caffè che avete bevuto? La vetrina del bar era dipinta in verde scuro. Sul vetro, al centro, in grosse lettere bianche disposte a semicerchio c'era il nome Buddy. Kling entrò e andò direttamente alla cabina telefonica, sistemata a un paio di metri dall'unica porta d'ingresso. Prese di tasca una moneta, la infilò nell'apparecchio, compose il numero di casa sua e, mentre il telefono suonava inutilmente all'altro capo del filo, simulò una conversazione animata, approfittandone per osservare il locale. Non vide l'assalitore di Cindy tra i clienti seduti al banco o ai tavolini. Riappese, ricuperò la moneta dall'apposita fessura e andò al banco. Il barista lo guardò incuriosito. O era uno studente capitato per caso nella zona portuale... o era un poliziotto. Kling risolse immediatamente il dubbio del barista mostrandogli il distintivo. — Agente Bert Kling — disse. — Ottantasettesima Squadra. Il barista osservò il distintivo senza scomporsi: era abituato ai poliziotti, lì dentro. Poi, col tono del bambino bene educato chiese: — Che cosa desiderate, agente Kling? Kling non rispose subito. Prima prese una manciata di noccioline dal recipiente messo sul banco, se ne riempì la bocca, e cominciò a masticare rumorosamente. La cosa giusta da fare, pensava intanto, era quella di mettere fuori strada il barista facendogli domande su generiche violazioni dei regolamenti, bidoni della spazzatura abbandonati sulla strada, alcol servito a minorenni, e altre fesserie del genere. Poi ottenere che il tenente mettesse un altro, o degli altri, di piantone nel bar perché beccassero Cookie la prima volta che si rifaceva vedere lì. Questa sarebbe stata la procedura giusta e, mentre masticava le sue noccioline e guardava il barista senza parlare, Kling rimuginò tra sé l'opportunità o meno di seguirla. C'era un guaio, però. Prendere Cookie si poteva, ma incriminarlo? Cindy Forrest era stata spaventata a morte da lui. Come si può convincere una ragazza che è stata picchiata in quel modo, che è nel suo interesse identificare l'uomo che l'ha aggredita? Kling continuò a masticare noccioline, e il barista continuò a guardarlo. — Vorreste una birra o qualcos'altro, agente Kling? — chiese il barista. — Siete voi il proprietario? — Sì. Sono Buddy. Volete una birra? — Mmm — disse Kling masticando. — Sono in servizio. — Allora... siete venuto qui per qualche motivo? — chiese Buddy. Kling fece segno di sì con la testa. Aveva preso la sua decisione, e cominciò a costruire la trappola. — Cookie è venuto, oggi?
— Quale Cookie? — Sono tanti a chiamarsi Cookie, qui? — Io non conosco nessun Cookie che venga qui — disse Buddy. — Già, lo immagino — disse Kling, e prese un'altra manciata di noccioline. — Allora non lo conoscete? — No. — Peccato. — Kling ricominciò a masticare. Buddy non gli staccava gli occhi di dosso. — Siete sicuro di non conoscerlo? — Mai sentito nominare. — Peccato, proprio — disse Kling. — Lo stiamo cercando. — Perché? — Ha picchiato una ragazza. — Ah, sì? — Sì. L'ha mandata all'ospedale. — Sul serio? — Già — disse Kling. — Stiamo setacciando tutta la città per trovarlo. — Una pausa, poi buttò l'amo: — Non l'abbiamo trovato all'indirizzo segnato nel nostro archivio, ma sappiamo che viene spesso qui. — Come fate a saperlo? Kling sorrise. — Abbiamo i nostri sistemi. — Ehmm — fece Buddy. — Lo beccheremo — disse Kling, e gettò il secondo amo: — La ragazza l'ha identificato dalla fotografia. Quando l'avremo preso potrà salutare il sole. — Ha dei precedenti, eh? — No — rispose Kling — niente precedenti. Buddy si protese in avanti, preparandosi a tirare il suo colpo. — Niente precedenti, eh? — No. — Allora come avete fatto a far vedere la sua fotografia alla ragazza perché lo identificasse? — disse Buddy, e sorrise. — È nel giro del lotto — disse Kling, e con aria annoiata si ficcò in bocca una nocciolina. — E allora? — Abbiamo un archivio di notizie. — Su chi? — Su quasi tutti quelli che hanno a che fare col lotto. — Ah, sì? — disse Buddy. Gli occhi gli si erano ristretti a una fessura.
Era chiaro che non si fidava di Kling e che cercava una falla nelle sue affermazioni. — Proprio così — disse Kling. — Indirizzi, fotografie, e di qualcuno persino le impronte digitali. — Ah, sì? — ripeté Buddy. — Sì. — E perché? — Per il momento in cui faranno un passo falso. — Cosa volete dire? — Intendo qualcosa di più grosso del lotto. Qualcosa per cui possiamo sbatterli dentro, chiuderceli, e buttare via la chiave. — Capito — disse Buddy. Adesso era convinto. Questo sì lo convinceva. I sistemi vigliacchi dei poliziotti lo convincevano. Kling ce la mise tutta per restare impassibile, e prese un'altra manciata di noccioline. — Finalmente Cookie ha fatto il suo passo falso. Quando gli avremo messo su le mani e la ragazza gli avrà dato un'altra occhiata, affare fatto. Aggressione di primo grado. — Ha usato un'arma? — No. Le mani. Ma ha rischiato lo stesso di ammazzarla. Buddy si strinse nelle spalle. — Lo piglieremo — disse Kling. — Sappiamo chi è, quindi è solo questione di tempo. — Già — commentò Buddy e si strinse ancora nelle spalle. — Dobbiamo solo trovarlo. Il resto è facile. — Già. Ma qualche volta può essere estremamente difficile trovare una persona — disse Buddy, riprendendo il tono della persona bene educata. — Vi darò un consiglio, amico — disse Kling. — Quale? — Tenete la bocca chiusa sulla mia visita. — A chi dovrei dirlo? — Non lo so a chi, ma è meglio che non lo diciate a nessuno. — Perché dovrei ostacolare la giustizia? — disse Buddy, con espressione risentita. — Se questo Cookie che dite voi ha picchiato una ragazza, spero che lo troviate presto. — Apprezzo i vostri sentimenti. — Grazie. — Buddy fece una pausa, poi guardò il recipiente delle noccioline. — Avete intenzione di mangiarvele tutte? — gli chiese. — Ricordate il mio consiglio — disse Kling, sperando di non aver esa-
gerato. — Tenete la bocca chiusa. Se scappa fuori qualcosa, e scopriamo che siete stato voi a parlare... — Qui dentro scappa solo la schiuma della birra — rispose Buddy, e andò all'altro capo del banco, dove un cliente l'aveva chiamato con un gesto. Kling rimase seduto ancora un momento, poi si alzò, si riempì la bocca con un'ultima manciata di noccioline e uscì. Fuori, sulla strada, si permise di sorridere. Testimoni di un'aggressione rifiutano di collaborare con la polizia Due testimoni della brutale aggressione di cui è rimasto vittima mercoledì scorso, 11 ottobre, l'agente Ronald Fairchild, si sono rifiutati oggi di identificare una fotografia del presunto aggressore. La fotografia, tolta dall'archivio della polizia sugli organizzatori del lotto clandestino, e stata mostrata oggi nelle prime ore del pomeriggio a un'altra vittima dello stesso individuo. La signorina Cynthia Forrest, ricoverata all'ospedale Elizabeth Rushmore e appena rimessasi dallo shock, ha identificato nell'uomo della fotografia il proprio aggressore, e ha accettato di testimoniare contro di lui quando sarà il momento. Il tenente Peter Byrney capo dell'87a Squadra Investigativa che sta conducendo le indagini sulle due aggressioni, ci ha rilasciato questa dichiarazione: «Lo scarso senso civico degli altri due testimoni è sconcertante. L'agente Fairchild, ricoverato all'ospedale Buena Vista la settimana scorsa, è ancora in coma, e i medici si riservano la prognosi. Se il nostro agente morirà, non si tratterà più di aggressione, ma di omicidio. Se non fosse per l'esistenza di cittadini responsabili come la signorina Forrest, in questa città sarebbe impossibile perseguire i criminali». Il trafiletto comparve quello stesso giorno sulle edizioni serali dei due quotidiani locali. Non dava molto nell'occhio, relegato com'era in quarta pagina tra un sacco di altre notizie. Il titolo però, non poteva passare inosservato. Byrnes lesse l'articolo nel suo ufficio, poi alzò la testa a guardare Kling che in piedi davanti alla scrivania sprizzava orgoglio d'autore.
— Le condizioni di Fairchild sono davvero così critiche? — chiese il tenente. — Nemmeno per sogno. — E se il nostro amico controlla? — Lascia che controlli. Il Buena Vista è stato avvertito. Byrnes approvò con un cenno, lesse ancora l'articolo, poi mise da parte il giornale e disse: — Mi hai fatto fare un po' la figura dell'ingenuo. X Meyer e Carella erano nella sala-agenti quando Kling uscì dall'ufficio del tenente. — Come va la tua faccenda? — chiese Carella. — Così così. Abbiamo appena scelto il tipo di formaggio. — Quale formaggio? — Ah ah! — fece Kling in tono misterioso, e se ne andò. — Quando richiamerà il laboratorio per quelle capsule? — chiese Carella. — Oggi — rispose Meyer. — Oggi, quando? Sono già le cinque passate. — Non prendertela con me — disse Meyer e si alzò per andare alla colonnina dell'acqua. Suonò il telefono. Carella sollevò il ricevitore. — Ottantasettesima Squadra. Parla Carella — disse. — Steve, sono Bob O'Brien. — Salve, Bob. Cosa c'è? — Per quanto tempo vuoi che resti incollato a questo Nelson? — Dove sei, adesso? — Davanti a casa sua. L'ho pedinato dallo studio all'ospedale, e dall'ospedale a qui. — Quale ospedale? — Il General Presbyterian. — Che cosa c'è andato a fare? — Ah, non chiederlo a me. Un sacco di medici vanno e vengono dagli ospedali, no? — Già, è abbastanza normale. A che ora è uscito dallo studio? — Un po' dopo le due. — Ed è andato direttamente all'ospedale?
— Sì. Ha una MG rossa. — E dall'ospedale, quando è uscito? — Circa mezz'ora fa. — E andato subito a casa? — Direttamente. Pensi che si stia preparando il letto per la notte? — Non te lo so dire. Richiamami tra un'ora, per favore. — Bene. Dove ti trovo? A casa? — No. Staremo qui ancora per un po'. — Okay — disse O'Brien, e riappese. Meyer tornò alla sua scrivania con un bicchiere di cartone pieno d'acqua. Mise giù il bicchiere vicino al telefono, poi aprì un cassetto e ne tolse una lunga striscia di cartone con inserite delle capsule arancioni. — Cos'è quella roba? — chiese Carella. — Sono per il raffreddore — disse Meyer e, tolta una capsula dal suo involucro di cellophane, se la mise in bocca, e la buttò giù con un sorso d'acqua. Il telefono suonò ancora. Meyer staccò il ricevitore. — Ottantasettesima Squadra. Meyer. — Meyer, sono Andy Parker. Sono ancora incollato a Krantz. Adesso è a un cocktail con una ragazza che ha dei seni come meloni. — Di che peso? — chiese Meyer. — Eh? Come faccio a saperlo? — Va bene, restagli incollato. E richiama più tardi, per favore. — Ehi, io sono stanco. — Anch'io. — Sì, ma io sono stanco sul serio — disse Parker, e riappese. Meyer depose il ricevitore. — Era Parker — disse. — Krantz è a un cocktail. — Beato lui — disse Meyer. — Cosa ne dici di mandare a prendere qualcosa da mangiare? — Questo raffreddore mi fa perdere l'appetito — disse Meyer. — Questo caso mi fa perdere l'appetito — disse Carella. — Si dovrebbe poter ricorrere alla matematica. — Cosa vuoi dire? — Ogni caso dovrebbe seguire scrupolosamente le leggi della matematica. Non mi piacciono i casi che sfidano le regole dell'addizione e della sottrazione. — Per che cosa diavolo stava ridendo Bert quando è uscito? — Non lo so. Bert ride spesso — disse Meyer e si strinse nelle spalle. —
A me piace quando due più due fanno quattro. Mi piacciono i suicidi che sono suicidi. — Pensi che sia stato un suicidio? — No. Era proprio questo che volevo dire. I suicidi che sono omicidi non mi piacciono. A me piace la matematica. — Alle elementari mi hanno bocciato in geometria — disse Carella. — Ah, sì? — Sì. — I fatti appurati sono tutti giusti — disse Meyer — e sommandoli insieme si ottiene un suicidio. Ma il risultato non mi convince. — Il risultato è sbagliato — disse Carella. — Già, è sbagliato. Il risultato giusto è: omicidio. Il telefono suonò. Rispose Meyer. — Ottantasettesima Squadra. Meyer... Ancora tu? Cosa c'è di nuovo? — ascoltò per qualche secondo. — Ah, sì? Sì... Be', non lo so. Controlleremo. Bene. Non ti muovere. Okay. — Riappese. — Chi era? — domandò Carella. — O'Brien. Dice che una Thunderbird azzurra si è appena fermata davanti alla casa di Nelson, e ne è smontata una donna bionda. Voleva sapere se Melanie Gifford ha un Thunderbird azzurra. — Io non lo so. E tu? — Nemmeno io. — L'Ufficio Immatricolazione Autoveicoli sarà chiuso a quest'ora, no? — Possiamo chiamare il servizio notturno. — Sì. È meglio sentire subito. Meyer scosse la testa. — Nelson è un amico di famiglia, e che lei vada a trovarlo è abbastanza logico. — Sì, lo so — disse Carella. — Quale è il numero dell'Ufficio Immatricolazione? — Eccolo qui — disse Meyer, spingendo verso di lui la sua rubrica del telefono aperta alla pagina giusta. — Però c'è quella storia della festa. — Vuoi dire la lite? — chiese Carella, mentre componeva il numero. — Sì, quando Gifford ha dato un pugno a Nelson. — Già — approvò Carella — sentiamo se rispondono. — Gifford però era ubriaco. — Già. Pronto? — disse Carella al telefono. — Qui l'agente investigativo Carella dell'Ottantasettesima Squadra. Volete cercarmi la registrazione di una macchina intestata a Melanie Gifford, domicilio Larksview. Sì, giu-
sto. Aspetto. Cosa? No. Gifford con la G. Giusto. — Coprì il microfono con la mano. — Ma Bob non sa che faccia ha la Gifford? — Come fa a saperlo? — Già, è vero. Questo maledetto caso mi rincretinisce. — Guardò la fila di capsule colorate sulla scrivania di Meyer. — Cos'è quella roba che stai prendendo per il raffreddore? — chiese. — Mah! Mi pare che faccia bene, però — disse Meyer. — Meglio di tutte le porcherie che ho preso prima. Carella guardò l'orologio a parete. — Devo prenderne soltanto due al giorno — aggiunse Meyer. — Pronto, sì — disse Carella al telefono. — Sì, dite. Una Thunderbird convertibile... azzurra... del Millenovecentosessantaquattro. Bene, grazie. — Depose il ricevitore. — Hai sentito? — Ho sentito. — Interessante, no? — Molto interessante. — Cosa credi che sia andata a fare dal nostro dottore la cara Melanie la Triste? — Forse ha preso anche lei il raffreddore — disse Meyer. — Può darsi. — Carella sospirò. — Perché soltanto due? — Come hai detto? — Perché devi prendere soltanto due capsule al giorno? Cinque minuti più tardi, Carella telefonava a casa, al tenente Sam Grossman. Bob O'Brien era fermo di fronte alla casa di Nelson, sull'altro lato della strada, quando Meyer e Carella arrivarono nella Quattordicesima Strada Sud. La MG rossa era parcheggiata davanti all'ingresso, e dietro c'era la Thunderbird azzurra di Melanie Gifford. Meyer e Carella raggiunsero il compagno che se ne stava con le spalle curve e le mani affondate nelle tasche. Lui li riconobbe da lontano, e li salutò con un cenno della testa. — Sta facendo un bel freddo — disse, quando gli furono accanto. — Mmmm. Lei è ancora dentro? — Sì. A quanto pare, il vostro Nelson è padrone di tutta la casa. Al pianterreno l'ingresso, al primo piano la cucina, la sala da pranzo e il soggiorno, e al secondo, le camere da letto. — Come fai a saperlo? — chiese Meyer. — Al pianterreno, si è accesa la luce quando è arrivata la donna. A pro-
posito, è la Gifford? — Sì. — Ehm — disse O'Brien. — Poi la luce si è spenta subito. Le luci del primo piano sono rimaste accese fino a poco fa. Alle sette è uscita una donna più anziana dell'altra. Ho immaginato che fosse la cuoca o la cameriera, o la cameriera-cuoca. — Adesso, allora, sono soli? — Sì. Le luci del secondo piano si sono accese circa dieci minuti fa, dopo che la donna anziana se n'è andata. Vedete quella finestra più piccola? Secondo me, è il bagno. Non vi sembra? — Credo tu abbia ragione. — Prima di tutto la luce si è accesa lì, poi si è spenta, e si è accesa invece quella della finestra grande. Scommetto che è la camera da letto. — Cosa credi che stiano facendo in camera da letto? — chiese Meyer. — Io so quello che ci farei io — rispose O'Brien. — Perché non te ne vai a casa, Bob? — domandò Carella. — Non avete più bisogno di me? — No, vai pure. Ci vedremo domani. — Voi entrate? — Sì. — Siete sicuri di non aver bisogno di me per fare le fotografie? — Ah, Ah! — fece Meyer e seguì Carella che aveva già cominciato ad attraversare la strada. Sui gradini dell'ingresso si fermarono. Carella suonò il campanello. Aspettarono, ma nessuno venne ad aprire. Suonò ancora. Meyer scese i gradini e alzò la testa a guardare la casa. Al primo piano si accese la luce. — Sta scendendo — disse Meyer a bassa voce. — Eccolo, è lui — disse Carella. — Battuta del secondo sicario. — Eh? — Macbeth. Atto terzo, scena terza. — Ci manca giusto il Macbeth — disse Meyer, e in quel momento si accese la luce nell'ingresso. Subito dopo la porta si aprì. — Dottor Nelson? — disse Carella. — Sì? — il medico parve sorpreso, ma non particolarmente seccato. Indossava una vestaglia di seta nera, e un paio di pantofole. — Possiamo entrare? — domandò Carella. — Ecco... veramente, stavo andando a letto. — Sarà questione di un momento.
— Be'... — Siete solo, vero, dottor Nelson? — Si, certo — rispose il medico. — Possiamo entrare? — Sì, entrate. Ma sono stanco e speravo... — Ci tratterremo il meno possibile — disse Carella ed entrò. Nell'atrio, vide un piccolo divano, e un tavolino. Sulla parete di fronte alla porta era appeso uno specchio. Sotto lo specchio, una mensola per la posta. Nelson non li invitò a salire. Si mise le mani in tasca, e dal suo atteggiamento era chiaro che non aveva nessuna intenzione di farli arrivare oltre l'atrio. — Ho un brutto raffreddore — disse Meyer. Nelson inarcò le sopracciglia. — Sto cercando di farmelo passare con tutti i mezzi — riprese Meyer. — E ho appena cominciato a prendere una nuova medicina. Spero che faccia qualcosa. Nelson aggrottò la fronte. — Scusatemi, agente Meyer — disse — ma se siete venuto qui per parlare del vostro... Carella frugò in una tasca della giacca, poi allungò la mano verso Nelson. Sul palmo aveva una capsula rossa e nera. — Mi sapete dire che cos'è questa dottor Nelson? — chiese. — Sembra una capsula di vitamine — rispose Nelson. — Infatti. Per essere precisi è una capsula di PlexCin, un prodotto che combina la vitamina C coi complessi B. È il prodotto di cui faceva uso Stan Gifford. — Ah, sì — disse Nelson. — Per essere ancora più precisi, è una delle capsule che c'erano nel flacone che Gifford aveva a casa sua. — Sì? — disse Nelson. Sembrava estremamente perplesso. Aveva l'aria di chiedersi dove esattamente volesse arrivare Carella. — Oggi, nel pomeriggio, abbiamo mandato il flacone con le capsule al tenente Grossman della Scientifica — disse Carella. — Niente veleno in nessuna capsula. Soltanto un preparato vitaminico. — Ma io ho il raffreddore — disse Meyer. Nelson si accigliò. — E il raffreddore dell'agente Meyer ci ha consigliato di telefonare al tenente Grossman, così per divertirci un po' — riprese Carella. — Il tenente Grossman ci ha detto di andare da lui, al laboratorio, dottor Nelson. Siamo stati là per un paio d'ore, cioè sino a poco fa. Sam, il tenente Gros-
sman si chiama Sam, ci ha detto un paio di cose interessanti, e noi vorremmo sentire il vostro parere. Ci teniamo a essere il più precisi possibile nei particolari di questo caso, perché, vedete, nel caso Gifford ci sono molti elementi precisi e particolari. Non vi sembra? — Sì... direi di sì. — Il particolare veleno, per esempio, e la dose particolare, e la particolare rapidità d'azione del veleno, e il particolare tempo di dissolvenza di una capsula di gelatina. Giusto? — Sì, esatto — rispose Nelson. — Voi siete medico del General Presbyterian, dottor Nelson? — Sì. — Abbiamo parlato proprio poco fa col farmacista dell'ospedale. Ci ha detto che lì, al General Presbyterian, tengono sempre una riserva di strofantina in cristalli, solo tre o quattro grani. E un po', ma sempre poca, anche in forma liquida. — Molto interessante, ma non vedo... — Aprite la capsula, dottor Nelson. — Come avete detto? — Aprite la capsula di vitamina. Coraggio, dottor Nelson. Si può aprirla facilmente. Quella capsula è di grossezza doppio zero. Lo sapevate, questo, vero, dottor Nelson? — Saperlo... avrei potuto dire a occhio che era o doppio zero oppure zero. — Cerchiamo di essere precisi. Questa particolare capsula per la confezione del prodotto vitaminico che Gifford prendeva, è doppio zero. — Va bene. Allora è doppio zero. — Apritela. Nelson si sedette sul divano, mise la capsula sul tavolino, e con grande attenzione separò le due valve. Un velo di polvere si sparse sul tavolino. — Quello che vedete è il composto vitaminico, dottor Nelson. Lo stesso che c'è in tutte le altre capsule contenute in quel flacone. Un prodotto del tutto innocuo. O, per essere precisi, dagli effetti benefici. Esatto? — Sì. — Date un'altra occhiata alla capsula — disse Carella, e Nelson la guardò. — No, dottor Nelson. Non fuori. Guardate dentro. Vedete niente? — Non... ah, sì... pare che dentro ci sia un'altra capsula. — Esatto, dottor Nelson! — disse Carella. — Pare proprio che dentro ci sia un'altra capsula. E c'è. Per l'esattezza si tratta di una capsula numero
tre, che come vedete entra con estrema facilità nella più grande doppio zero. Abbiamo fatto questo campione al laboratorio. — Carella si chinò sul tavolino, prese in mano la capsula più grande, e ne scosse fuori quello che restava del prodotto vitaminico. La capsula più piccola cadde sul tavolino insieme al resto, e con l'indice Carella separò il minuscolo involucro di gelatina dal mucchietto di polvere. — Questa è la terza capsula, dottor Nelson — disse. — Non capisco cosa volete dire. — Vedete, dottor Nelson, noi stavamo cercando una terza capsula, visto che non poteva essere stata quella presa dopo il pranzo di mezzogiorno a uccidere Gifford. Ma se questa capsula più piccola con dentro due grani di strofantina fosse stata messa dentro a quella più grande allora sì che avrebbe potuto ucciderlo, non credete? — Indubbiamente, ma sarebbe sempre... — Dite, dite, dottor Nelson. — Ecco, ritengo che anche la capsula più piccola si sarebbe dissolta in fretta. Di conseguenza... — Volete dire che se la capsula esterna ci impiega sei minuti a dissolversi, anche la capsula interna impiega, per dissolversi, be'...diciamo altri tre o quattro o cinque minuti. È questo il vostro ragionamento, dottor Nelson? — Esatto. — E quindi, la presenza dell'altra capsula non avrebbe cambiato niente, in sostanza, vero? Anche così Gifford avrebbe dovuto inghiottire il veleno poco prima di rientrare in scena. — Sì. Mi pare che sia questo il punto. — Ma io ho il raffreddore — disse Meyer. — Già, e per curare il raffreddore, anche Meyer sta facendo una cura a base di capsule — disse Carella sorridendo. — Però ne deve prendere soltanto due al giorno perché il prodotto contenuto nelle sue capsule viene liberato lentamente dall'involucro. Sempre per la precisione, viene liberato del tutto in dodici ore. Sono capsule speciali, dottor Nelson. Le chiamano capsule a tempo. Sono sicuro che le conoscete. — Nelson fece un movimento, come se volesse alzarsi, e Carella aggiunse immediatamente: — Restate seduto, dottor Nelson. Non abbiamo finito. Meyer sorrise e disse: — Naturalmente le mie capsule sono un prodotto commerciale. Immagino che non sia facile per un privato fare una capsula a tempo senza la necessaria attrezzatura, vero dottor Nelson?
— Sì, lo credo anch'io. — Ecco, per essere precisi — disse Carella — il tenente Sam Grossman ha detto che è impossibile fare una capsula del genere. Però vedete, dottor Nelson, il tenente si è ricordato di alcuni esperimenti fatti al tempo in cui era nell'esercito e alcuni medici del suo ospedale si erano messi in testa di ottenere un particolare rivestimento enterico. Anche i medici del vostro ospedale hanno tentato, dottor Nelson? L'espressione rivestimento enterico vi è familiare, dottor Nelson? — Certo che conosco il procedimento — rispose Nelson, e si alzò. Carella si protese al di sopra del tavolino, posò le mani sulle spalle del medico e lo respinse giù a sedere. — Il rivestimento enterico applicato specificatamente a questa piccola capsula interna, dottor Nelson — disse Carella — significa che se la capsula è stata immersa per trenta secondi esatti in una soluzione contenente l'uno per cento di formaldeide, e poi è stata fatta asciugare... — Che cos'è questa storia, adesso? Perché... — ...e in seguito tenuta a riposo due settimane per permettere alla formaldeide di agire sulla gelatina, indurendola, e quindi la... — Non capisco dove vogliate arrivare. — A questo, dottor Nelson: una capsula trattata in quel modo non si dissolve nei succhi gastrici prima di tre ore come minimo, ma in capo a tre ore potrebbe già non essere più nello stomaco. Significa, dottor Nelson, che arrivando nell'intestino tenue prima di essersi dissolta impiega, per dissolversi, cinque ore. Vedete quindi, dottor Nelson, che non ci troviamo più alle prese con i sei minuti. Solo la capsula esterna si è dissolta così in fretta. Per l'altra dobbiamo lavorare su un periodo che va dalle tre alle otto ore. Dobbiamo lavorare con un involucro esterno tenero, e un nucleo interno durissimo, che contiene due grani di strofantina. Per essere precisi, dottor Nelson, dobbiamo lavorare sulla capsula che Gifford ha indubbiamente preso dopo il pranzo nel giorno in cui è stato assassinato. Nelson scosse la testa. — Non so di che cosa stiate parlando — disse. — Io non ho niente a che fare con questa storia. — Ah ah, dottor Nelson — disse Carella. — Forse ci siamo dimenticati di dire che nella farmacia del General Presbyterian tengono una registrazione di tutti i medicinali prelevati dai medici dell'ospedale. Dalle registrazioni risulta che durante il mese scorso voi avete personalmente prelevato dalla farmacia piccole quantità di strofantina. E non esistono prove che in quel periodo abbiate somministrato quel particolare medicinale a nessuno
dei vostri pazienti ricoverati nell'ospedale. — Carella fece una pausa, poi disse: — Sappiamo esattamente come avete fatto, dottor Nelson. Ora vorreste dirci voi il perché? Nelson non parlò. — Allora forse ce lo dirà la signora Gifford — disse Carella. Andò ai piedi della scala in fondo all'atrio. — Signora Gifford? — chiamò. — Volete per cortesia rivestirvi e scendere? L'ospedale Elizabeth Rushmore sorgeva alla periferia sud della città. Il complesso di edifici bianchi si affacciava sul Dix River. Dalle finestre dell'ospedale si vedeva il passaggio delle imbarcazioni sul fiume, gli sbuffi di fumo scuro che uscivano dai fumaioli, e le travature aeree dei tre ponti che univano Isola a Sands Spit, Calm's Point e Majesta. Dall'acqua salivano folate di vento freddo. Quel pomeriggio lui aveva telefonato all'ospedale e aveva saputo che, dopo le otto, non si ammettevano più visitatori. Adesso erano le sette e mezzo, e lui stava sulla sponda del fiume, col bavero rialzato, a guardare le finestre illuminate dell'ospedale e a ripassare il suo piano. Sulle prime aveva pensato che fosse tutto un trucco del poliziotto. Aveva ascoltato attentamente quello che Buddy gli aveva detto sulla visita del poliziotto biondo, sempre il solito bastardo. Buddy aveva detto che si chiamava Kling, agente investigativo Bert Kling. Lui aveva ascoltato premendo il ricevitore contro l'orecchio, e la mano stretta attorno alla plastica nera aveva preso a sudare. Ma poi si era detto che era soltanto uno sporco trucco, e che quelli erano matti se pensavano che lui sarebbe caduto in una trappola così ingenua. Eppure sapevano il suo nome. Kling aveva proprio chiesto di lui: aveva chiesto di Cookie. Come avrebbero potuto sapere il suo nome se non avessero avuto davvero un archivio su tutti quelli che trafficavano col lotto? E Kling aveva anche detto che non l'avevano trovato all'indirizzo segnato nell'archivio. Questa aveva proprio l'aria di essere una notizia genuina. Lui aveva cambiato casa due anni prima, e poteva darsi che i dati d'archivio fossero vecchi di due anni. Ma anche se fossero stati aggiornati, lui non andava a casa da qualche giorno, perciò loro non l'avevano trovato perché lui non c'era. Quindi poteva anche darsi che ci fosse della verità in quello che aveva detto il biondo. Chissà! Ma la fotografia? Dove diavolo se l'erano procurata, una sua fotografia? Però non era impossibile che ce l'avessero. Se la polizia teneva davvero un
archivio del genere, allora potevano anche avere le fotografie. Lui sapeva benissimo che quelli prendevano fotografie continuamente, per lo più cercando di tenersi aggiornati sui tipi coinvolti nello spaccio della droga. Forse però lo facevano anche per il lotto. Gli era capitato qualche volta di vedere camioncini di qualche lavanderia o camion di mobili parcheggiati nello stesso posto per tutta una giornata, e in quei casi lo sapeva lui, come lo sapevano tutti nel quartiere, che là dentro c'erano dei poliziotti che prendevano fotografie o giravano film. Perciò non era impossibile che avessero anche una sua fotografia. E forse quella sgualdrina l'aveva realmente identificato. Neanche questo era impossibile. Nonostante tutto, però, la storia aveva continuato a puzzargli, perché troppe domande restavano senza risposta. Molte di queste risposte le aveva avute più tardi, leggendo i giornali della sera. Solo per caso la notizia non gli era sfuggita, perché lui aveva comperato i giornali unicamente per leggere i risultati delle corse, nelle ultime pagine, e aveva poi sfogliato il resto giusto per passare il tempo. Tanto per cominciare, la notizia confermava l'esistenza di un archivio su quelli che accettavano le scommesse per il lotto, per quanto lui fosse ormai sicuro su questo anche prima di leggere il giornale. L'articolo spiegava anche perché Fairchild non aveva potuto fare l'identificazione. Non ci si può aspettare che uno in coma guardi e riconosca qualcuno in fotografia. Non credeva di avere colpito quel bastardo così forte, ma forse non conosceva appieno la propria forza. Per essere completamente sicuro, aveva telefonato subito al Buena Vista chiedendo notizie dell'agente Fairchild, e gli avevano risposto che era in coma, sulla lista degli aggravati. Quindi questa parte della storia era vera. Così, se quegli altri cretini dell'ufficio dove lavorava Cindy erano troppo spaventati per osare di identificare la fotografia, e le condizioni dell'agente Fairchild escludevano che lo potesse fare lui, era chiaro che la polizia contava soltanto su Cindy. La parola omicidio l'aveva spaventato. Se il bastardo fosse morto e i poliziotti l'avessero preso e Cindy avesse detto "sì è lui", si sarebbe trovato in un bel pasticcio. Credeva di essere stato molto chiaro con la ragazza, ma forse lei era meno malleabile di quanto avesse pensato. Non sapeva bene perché, ma l'idea lo eccitava. Lo eccitava il pensiero che Cindy non si era spaventata per il pestaggio, e aveva avuto il fegato di identificare la sua fotografia, promettendo di testimoniare contro di lui. Ricordava di essersi eccitato leggendo la notizia sul giornale, e il medesimo eccitamento lo prese adesso, mentre guardava su, alle finestre dell'ospedale e ripassava i par-
ticolari del suo piano. L'orario delle visite finiva alle otto, il che significava che aveva dieci minuti per entrare nell'ospedale. Si chiese, di colpo, se gli avrebbero permesso di entrare a pochi minuti dalla chiusura e immediatamente si avviò all'ingresso principale. Una tettoia inclinata, di cemento, sporgeva sopra la porta girevole. L'ospedale era nuovo, un imponente complesso di edifici in cemento, vetro e alluminio. Spinse la porta, entrò e si diresse subito verso il banco, a destra dell'ingresso. Una donna in camice bianco, certamente un'infermiera, alzò la testa a guardarlo. — La signorina Cynthia Forrest — disse lui. — Camera settecentoventi — disse la donna, e guardò l'orologio. — L'orario delle visite finisce tra pochi minuti — aggiunse. — Sì, lo so, grazie — rispose lui e andò svelto all'ascensore. Solo un altro visitatore aspettava alla cabina, insieme con alcuni dipendenti dell'Elizabeth Rushmore, in uniforme bianca. Improvvisamente lui si chiese se non ci sarebbe stato per caso un poliziotto davanti alla porta della camera settecentoventi. Be', se ci sarà, pensò, dovrò soltanto liberarmene, ecco tutto. Le porte dell'ascensore si aprirono. Lui entrò insieme con gli altri, premette il pulsante del settimo piano, notò che una infermiera premeva lo stesso pulsante, poi andò a mettersi tranquillamente in fondo alla cabina. Le porte si richiusero. — Per conto mio — disse un'infermiera, continuando evidentemente un discorso già iniziato — si tratta di psoriasi. Il dottor Kirsch dice che è avvelenamento del sangue, ma hai visto la gamba di quel poveretto? Quello non è effetto di un avvelenamento del sangue. — Be', domani mattina faranno tutte le prove — disse un'altra infermiera. — E intanto, ha quaranta di febbre! — La febbre dipende dalla gamba gonfia. È tutta infettata. — È psoriasi, te lo dico io — disse la prima infermiera. Le porte dell'ascensore si aprirono, e le due donne uscirono. Le porte si richiusero. Nella cabina nessuno parlava, adesso. Lui guardò l'orologio. Mancavano cinque minuti alle otto. L'ascensore si fermò ancora al quarto piano, poi fece un'altra fermata al quinto. Al settimo, lui uscì dalla cabina insieme con l'infermiera che prima aveva schiacciato il suo stesso bottone. Nell'atrio, l'uomo esitò un attimo. Oltre l'atrio spazioso c'era una sala grandissima con una parete tutta di vetro. Probabilmente era il solario. A destra e a sinistra degli ascensori, due porte di vetro davano sui corri-
doi dove si aprivano le camere dei malati. Alla scrivania, sistemata a un metro circa, sulla sinistra degli ascensori, stava seduta un'infermiera. Lui andò svelto alla scrivania e chiese: — Da che parte la settecentoventi? L'infermiera rispose guardandolo di sfuggita: — Avanti di qui — disse. — Avete solo pochi minuti. — Sì, lo so, grazie — disse lui, e aprì la porta a vetri. La prima camera aveva il numero 700 e quella subito dopo era la 702. Dunque, la 720 doveva essere in fondo al corridoio. Guardò ancora l'orologio. Quasi le otto. Si avviò svelto lungo il corridoio, sbirciando le porte al passaggio, e a metà circa trovò la toilette degli uomini. Aprì la porta, entrò subito in uno dei gabinetti, e chiuse a chiave. Dopo un minuto circa sentì annunciare dagli altoparlanti che l'ora delle visite era finita. Sorrise, abbassò il coperchio del water, accese una sigaretta e cominciò la sua lunga attesa. Rimase nella toilette degli uomini fino a mezzanotte. In quelle quattro ore aveva sentito i discorsi di malati e medici che discutevano di una infinita varietà di malanni, o come parte in causa, o come osservatori obiettivi. Lui aveva ascoltato dal suo nascondiglio, e quelle chiacchiere l'avevano aiutato a far passare il tempo. Aveva progettato di non mettere in esecuzione il suo piano prima che venissero spente tutte le luci nelle camere. Non sapeva esattamente quando l'avrebbero fatto, in quell'ospedale, ma aveva pensato che fosse intorno alle dieci o le dieci e mezzo, e per garantirsi un margine di sicurezza aveva deciso di aspettare fino a mezzanotte. A quell'ora, anche i medici avevano finito sicuramente il loro giro di visite. A mezzanotte dunque, uscì nel corridoio, con molta cautela, però. Non voleva che qualcuno lo fermasse o lo vedesse mentre entrava nella camera di Cindy. Peccato che dovesse ucciderla. Quella ragazza era proprio il tipo che gli piaceva. Nel tempo che era rimasto chiuso nel suo nascondiglio, un tale era entrato nella toilette almeno una quindicina di volte. Aveva capito che era sempre lo stesso perché quel tale doveva avere un disturbo alle reni e ogni sua visita era accompagnata da lamenti e imprecazioni. Una volta, qualcun altro aveva gridato dal gabinetto vicino: — Per la miseria, Mandel! Non puoi tenerti per te i tuoi guai? — Vorrei che provassi tu, Liebovitz! — aveva risposto il primo. — Ti auguro che ti marcisca e ti caschi pezzo per pezzo, e che Dio mi ascolti! Lui per poco non era scoppiato a ridere. Aveva acceso un'altra sigaretta,
aveva guardato per la centesima volta l'orologio, e si era chiesto quando se ne sarebbero andati a letto definitivamente, tutti quanti. Poi si era chiesto cos'avrebbe avuto addosso Cindy. Ricordava la notte in cui le aveva strappato la camicia di nylon, quando l'aveva picchiata... Poi si era imposto di non pensarci più. Doveva ucciderla, quindi non c'era senso ad abbandonarsi a quei pensieri... Però, forse, mentre la uccideva, avrebbe potuto fare come l'altra volta, per l'ultima volta... A mezzanotte, nella toilette, non c'era nessuno. Così, lui aveva aperto, era uscito, era andato sino all'altra porta, quella del corridoio, e aveva sbirciato fuori. Sul pavimento di marmo, lucidissimo e duro, i tacchi si sentivano a un chilometro di distanza. Questa era una fortuna. Aveva sentito perciò il passo svelto di una infermiera, e aveva aspettato finché il rumore dei tacchi non era svanito in lontananza. Poi era sgusciato fuori alla svelta, e aveva cominciato a camminare verso la fine del corridoio, leggendo i numeri delle camere a destra e a sinistra: 709, 710, 711... 714, 715, 716... Stava passando davanti alla porta della camera 717, quando questa si aprì e ne uscì un'infermiera. Colto alla sprovvista, si fermò di colpo, trattenendo il fiato, chiedendosi se doveva abbatterla con un pugno. Poi sentì una voce dire: — Buonanotte, infermiera — e a stento riconobbe la propria voce, il tono educato, disinvolto, del saluto spontaneo e abituale. La donna lo guardò un attimo, sorrise, disse: — Buonanotte, dottore — e proseguì per il corridoio. Lui non si voltò a guardare. Continuò a camminare fino alla camera 720. Aprì, augurandosi che fosse una camera singola, entrò svelto, richiuse immediatamente e, appoggiandosi allo stipite, rimase in ascolto. Dal corridoio, non veniva nessun rumore. Soddisfatto, rivolse la sua attenzione alla stanza. L'unica fonte di luce era la finestra, dietro il letto. Si poteva vedere nella penombra la forma del corpo sotto le coperte. La luce che entrava dalla finestra metteva in evidenza la curva del fianco. Le coperte erano tirate su, oltre le spalle, alte sulla nuca, ma lui riusciva a distinguere i corti capelli biondi illuminati dal riflesso della luna. Stava eccitandosi di nuovo, come la notte in cui l'aveva picchiata, ma si ricordò perché era lì: quella ragazza poteva mandarlo alla sedia elettrica. Se l'agente Fairchild moriva, quella ragazza era l'unico testimonio che la polizia poteva presentare contro di lui. Respirò a fondo e avanzò verso il letto. Nell'ombra allungò le mani, le chiuse attorno al collo indifeso e mormorò: — Cindy! — voleva che fosse sveglia, e che lo guardasse quando le a-
vrebbe strizzato fuori la vita. Accentuò la stretta. Lei si drizzò a sedere di colpo. Due mani strette a pugno salirono di scatto infilandosi tra le sue braccia, su, e poi si allargarono con forza spezzando la sua presa. Lui spalancò gli occhi. — Sorpresa! — disse Bert Kling, e lo colpì sulla bocca con un pugno. XI I poliziotti non sono poeti. E in una testa rotta, non c'è l'armonia di una pentametro giambico. Se Meyer fosse stato William Shakespeare, sarebbe certamente stato del parere che l'amore è fumo che si solleva col respiro, ma non era William Shakespeare. Se Steve Carella fosse stato Henry Wadsworth Longfellow, avrebbe saputo che l'amore è una tela che cresce e cambia sul suo telaio, ma ahimè, lo sapete anche voi che Carella non era Henry Wadsworth Longfellow, anche se aveva uno zio che si chiamava Henry e che abitava a Red Bank, nel New Jersey. Poeta per poeta, se Carella e Meyer fossero stati Buckingham od Ovidio o Byron, si sarebbero resi conto che l'amore è il sale della vita e la fonte perenne di timori e di ansietà e un capriccioso potere. Ma non erano poeti. Erano soltanto poliziotti. Certo che, pur essendo poliziotti, avrebbero potuto apprezzare il commento di Omero nel film su di lui, e che tradotto suona pressappoco così: "Chi troppo ama, sa arrivare alle conseguenze estreme dell'odio". Ma non avevano visto il film e non avevano letto il libro; perciò, cosa diavolo ci si può aspettare da due piedipiatti? Però avrebbero potuto raccontare un'infinità di storie d'amore. Gente mia, quante avrebbero potuto raccontarne. Avevano sentito le storie d'amore di almeno cento persone, e anche di più. E non crediate che non sapessero che cos'è l'amore. Lo sapevano, eccome! Sapevano tutto dell'amore. L'amore è dolce, puro, meraviglioso, l'amore è un sentimento ineguagliabile. Loro avevano amato le loro madri e i loro padri, le zie e gli zii. A tredici o quattordici anni, avevano baciato per la prima volta una ragazza. Non è amore questo? Gente mia, certo che lo è. E poi, erano tutti e due sposati felicemente, e amavano le loro mogli e i loro figli. Non sarò certo io a spiegare loro che cos'è l'amore, perché lo conoscono, sissignori, loro dell'amore sanno tutto. — Ci amiamo — disse Nelson. — Ci amiamo — disse Melanie. Erano le due di notte, e la coppia, sedu-
ta nella silenziosa sala-agenti, dettava la propria confessione allo stenografo della polizia. Erano seduti a due diverse scrivanie, le dita ancora macchiate con l'inchiostro che era servito a prendere loro le impronte digitali. Meyer e Carella ascoltavano impassibili, silenziosi, pazienti. Era una storia che avevano già sentito tante altre volte. Né il dottor Nelson né Melanie parevano rendersi conto che alle nove del mattino un furgone carcerario sarebbe venuto a prenderli per trasferirli alla Centrale, dove li avrebbero messi in celle separate. Dissero che per oltre un anno si erano visti in segreto, ma pareva che non si rendessero conto che adesso non si sarebbero più visti fino al momento del processo, e dopo, forse, mai più. Carella e Meyer ascoltarono pazientemente il racconto di quella storia d'amore. — Non si possono imporre leggi all'amore — disse Nelson. — Quello che c'è tra me e Melanie è... è accaduto, così, semplicemente accaduto. Non l'abbiamo voluto noi, nessuno di noi ci pensava. Ma è successo. — È successo — disse Melanie, dalla scrivania accanto. — Ricordo esattamente come e quando. Una sera eravamo seduti nella macchina di Carl, davanti allo studio, e aspettavamo che Stan si struccasse dopo lo spettacolo per andare a cena insieme. La mano di Carl ha sfiorato la mia, e un attimo dopo ci stavamo baciando. Ci siamo innamorati subito, a un tratto. Sì, così. Ci siamo innamorati. — Ci siamo innamorati — disse Nelson. — Abbiamo cercato di smettere. Sapevamo che non era giusto. Ma quando abbiamo capito che non potevamo far tacere i nostri sentimenti, siamo andati da Stan, glielo abbiamo detto, e gli abbiamo chiesto di concedere il divorzio. È stato immediatamente dopo l'incidente durante la festa, quando lui mi aveva dato un pugno, un mese fa, in settembre. Gli abbiamo detto che ci amavamo e che Melanie voleva divorziare. Lui ha rifiutato, recisamente. — Credo che abbia sempre saputo di noi — disse Melanie. — Dev'essere per questo che ha rifatto il testamento, come mi avete detto. Doveva sapere che Carl e io avevamo una relazione. Mio marito era estremamente percettivo. Deve aver capito che qualcosa non andava, molto prima che glielo dicessimo noi. — L'idea di ucciderlo è stata mia — disse Nelson. — Io l'ho approvata immediatamente — disse Melanie. — Il mese scorso ho cominciato a prelevare strofantina dall'ospedale. Conosco bene il farmacista dell'ospedale e mi capitava spesso di entrare da lui quando mi mancava qualcosa o per la borsa o per il mio studio privato.
Bastava che entrassi e dicessi, per esempio, che mi serviva della penicillina, e lui mi dava subito quello che chiedevo, perché mi conosceva. Con la strofantina ho fatto così. Non ho mai spiegato perché mi serviva. Probabilmente lui ha pensato che ne avessi bisogno per i miei clienti privati. Comunque fosse, lui non mi ha mai chiesto niente. E del resto, perché avrebbe dovuto farlo? — Carl ha preparato la capsula — disse Melanie. — Quel mercoledì mattina a colazione, dopo che Stan ebbe preso la prima vitamina, io ho sostituito la seconda capsula con quella che conteneva il veleno. Durante il pranzo l'ho guardato mentre la mandava giù con un bicchier d'acqua. Sapevamo che ci sarebbero volute dalle tre alle otto ore perché la capsula si sciogliesse, ma non sapevamo esattamente quando sarebbe successo. Non avevamo calcolato che morisse durante la trasmissione, ma non aveva nessuna importanza il quando, perché ne Carl né io saremmo comunque stati nelle vicinanze dello studio televisivo nel momento in cui sarebbe successo. Era questo che importava. Noi due saremmo stati assolutamente fuori causa. — Però ci eravamo resi conto che il primo a essere sospettato sarei stato io — disse Nelson. — Sono un medico, e ho la possibilità di procurarmi del veleno facilmente. Prevedendo questa possibilità, abbiamo studiato il modo di allontanare i sospetti. Sarei stato io a suggerire l'ipotesi di un avvelenamento e a insistere perché venisse fatta l'autopsia. — Abbiamo anche pensato che poteva essere una buona idea dire che io sospettavo di Carl — disse Melanie. — Poi, scoperto quale veleno era stato usato, e la rapidità della sua azione, e saputo che Carl era a casa sua durante la trasmissione, la polizia l'avrebbe automaticamente escluso dai sospetti. Avevamo fatto questo ragionamento. — Noi ci amiamo — disse Nelson. — Ci amiamo — disse Melanie. Finita la confessione, rimasero seduti in silenzio. Lo stenografo mostrò loro la trascrizione a macchina delle dichiarazioni che avevano fatto, e tutti e due firmarono le diverse copie della confessione. Poi Miscolo arrivò dall'Ufficio Schede, li ammanettò, e li portò giù, nelle celle. — Una per noi, una per il tenente, e una per la Squadra Omicidi — disse Carella allo stenografo. Lo stenografo si limitò a un cenno con la testa. Anche lui aveva sentito già altre volte la stessa storia. Si mise il cappello, lasciò sulla scrivania più vicina alla ringhiera divisoria una copia della confessione, e uscì dalla sala-agenti. Nel passare davanti alla porta chiusa
della stanza degli interrogatori, sentì un suono ovattato di voci. — Perché l'hai picchiata? — chiese Kling. — Io non ho picchiato nessuno — rispose Cookie. — Io sono innamorato di quella ragazza. — Tu... cosa? — Ne sono innamorato, siete sordo? Mi sono innamorato di lei dal primo momento che l'ho vista. — Quando è stato? — Alla fine dell'estate. In agosto. Nel quartiere commerciale. Ero appena andato a ritirare i soldi delle scommesse in una pasticceria, e stavo passando davanti a quel locale che si chiama Il Pokerino, e ho pensato di fermarmi lì ad ammazzare un po' il tempo. Fuori c'era il ragazzo che attirava la gente con il suo discorsetto, spiegando che bastavano pochi soldi per giocare là dentro. Mi sono fermato a sentirlo e ho guardato nel locale. Lei era là, con un vestitino verde, china su un tavolo a far rotolare i dadi. Aveva tre regine o qualcosa di simile. — Va bene. E poi? — Sono entrato. — Continua. — Che cosa volete da me? — Voglio sapere perché l'hai picchiata. — Non l'ho picchiata, ve l'ho già detto. — Senti, razza di bastardo, chi pensavi che ci fosse in quel letto, stanotte? — Non sapevo chi c'era. Lasciatemi in pace. Non caverete niente da me. Cosa pensate che sia, io, un ragazzino col moccio al naso? — Già, proprio quello che penso — disse Kling. — Cos'è successo, la prima volta che l'hai vista? — Niente. C'era un tale con lei. Un giovanotto, di quelli vestiti bene. L'ho guardata, non ho fatto altro. Lei non si è accorta che la stavo guardando. Non si è accorta nemmeno che ascoltavo i suoi discorsi. Poi, quando sono usciti, gli sono andato dietro, e ho scoperto dove abitava. Dopo, ho cominciato a seguirla dappertutto. Non c'è altro. — C'è qualcos'altro, invece. — Vi ho detto che non c'è altro. — Okay, gioca pure a modo tuo, si tratta della tua pelle — disse Kling. — Se fossi in te, cercherei di essere più furbo. Se insisti in questo atteg-
giamento, ti rovesceremo addosso tutte le imputazioni possibili tranne, forse, quella di espatrio clandestino. — Vi ho detto che non l'ho mai toccata nemmeno con un dito. Sono soltanto salito nel suo ufficio per dirglielo, e basta. — Per dirle che cosa? — Che lei era la mia ragazza. Che non doveva andare in giro con nessuno, e non doveva dare appuntamento a nessuno perché lei era mia, chiaro? È stato soltanto per questo che sono andato là. Per farglielo sapere. Non mi aspettavo tutto il pasticcio che è saltato fuori. Io volevo soltanto dirle che cosa mi aspettavo da lei, e basta. John Cookie abbassò la testa, e la tesa del cappello gli nascose gli occhi sottraendoli allo sguardo di Kling. — Se voi vi foste occupati dei fatti vostri senza interferire, tutto sarebbe andato bene — disse. Silenzio. — Io sono innamorato di quella ragazza — disse. Poi, aggiunse: — Pidocchioso bastardo! Mi avete quasi accoppato, questa notte. Il mattino viene tutti i giorni. Al mattino, l'agente investigativo Bert Kling andò all'ospedale Elizabeth Rushmore e chiese di vedere Cynthia Forrest. Sapeva che non era orario di visite, ma spiegò di essere un poliziotto e chiese che facessero un'eccezione. Veramente non ci sarebbe stato bisogno della sua spiegazione, perché tutti all'ospedale sapevano che lui era il poliziotto che la sera prima aveva catturato un delinquente, su al settimo piano. Il permesso gli venne accordato immediatamente. Cindy era seduta sul letto. Quando Kling entrò, la ragazza voltò la testa verso la porta e inconsciamente sollevò le mani a ravviarsi i corti capelli biondi. — Salve — disse lui. — Salve. — Come vi sentite? — Bene. — Si toccò delicatamente l'occhio. — È diminuito il gonfiore? — Sì. — Ma ci sono ancora i lividi, vero? — Quelli sì. Però avete un buon aspetto. — Grazie. — Una pausa. — Vi... vi ha fatto male, lui, questa notte? — No.
— Ne siete sicuro? — Sì. Sicurissimo. — È un individuo pericoloso. — Lo so. — Andrà in prigione? — In galera, sì. Anche senza la vostra testimonianza. Ha aggredito un poliziotto. — Kling sorrise. — A dire la verità, ha tentato di strangolarmi. È tentato omicidio bell'e buono. — Io... ho una gran paura di quell'uomo — disse Cindy. — Sì, lo credo. — Però... — inghiottì a vuoto. — Però, se la mia testimonianza può essere utile, testimonierò. Se è utile davvero. — Non so se sarà necessario — disse Kling. — Ce lo farà sapere l'ufficio del Procuratore Distrettuale. — Bene — disse Cindy, poi tacque. La luce del sole, entrando dalla finestra, le illuminava i capelli biondi. La ragazza abbassò gli occhi e prese a tormentare il lenzuolo con le dita. — L'unica cosa che mi fa paura adesso è... per quando uscirà. Quando avrà scontato la condanna... — Vi metteremo sotto la protezione della polizia — disse Kling. — Ehm... — Cindy non sembrava molto soddisfatta. — Volevo dire che... che mi offrirò io personalmente per l'incarico — disse Kling, e aspettò. Cindy sollevò gli occhi a guardarlo. — È... è molto gentile da parte vostra — disse piano. — Ecco... — disse lui, e si strinse nelle spalle. Silenzio, nella stanza. — Avrebbe potuto farvi del male, questa notte — riprese Cindy. — No. Non ne avrebbe avuto la possibilità. — Sono convinta di sì — insistette lei. — No, ve lo assicuro. — Sì, invece — disse lei. — Non ricominceremo a litigare, per caso? — No! — disse Cindy, e rise. Poi fece una smorfia e si toccò la faccia. — Oh, Dio! — disse. — Mi fa ancora male! — Però soltanto quando ridete, vero? — Sì — disse lei, e rise ancora. — Quando uscirete di qui? — chiese Kling. — Non lo so. Forse domani. O dopodomani.
— Ecco, pensavo... — Sì? — Ecco... — Cosa volevate dire, agente Kling? — So che siete una ragazza che lavora... — Sì? — E che normalmente non cenate fuori. — Esatto. Non ceno fuori — disse Cindy. — A meno che non siate accompagnata. — Cindy aspettò il seguito. — Pensavo che... Lei aspettò. — Pensavo che forse accettereste di cenare con me qualche volta. Quando vi avranno dimessa dall'ospedale, naturalmente... E, volevo dire... sono io che vi invito, pago io, naturalmente... — disse Kling, poi tacque di colpo. Cindy non rispose subito. Dopo qualche secondo sorrise, e disse semplicemente: — Mi farà molto piacere. — Fece una pausa, poi chiese: — Allora, quando? FINE