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KATHY REICHS OSSARIO (Cross Bones, 2005) A Susanne Kirk, editor della Scribner, 1975-2004 e a James Woodward, rettore della University of North Carolina di Charlotte, 1989-2005 grazie per gli anni in cui mi avete sostenuta e incoraggiata. Buon pensionamento! Ringraziamenti Come sempre devo molto a tanti miei colleghi, alla mia famiglia e ai miei amici per il tempo, la consulenza e i consigli. Al dottor James Tabor della facoltà di Studi religiosi della University of North Carolina di Charlotte, che mi ha dato l'impulso per scrivere Ossario, e ha messo a mia disposizione i suoi appuntì e i risultati delle sue ricerche, ha controllato mille dettagli e mi ha cortesemente accompagnata nelle mie visite in Israele. Ai dottori Charles Greenblatt e Kim Vernon, dell'Università ebraica di Gerusalemme, e al dottor Carney Matheson, del Paleo-DNA Laboratory, Lakehead University, che mi hanno istruita sul DNA antico. Al dottor Mark Leney. DNA coordinatore del CILHI, Joint POW-MIA Accounting Command, e al dottor David Sweet, direttore del Bureau of Forensic Dentistry, University of British Columbia, che ha risposto ai miei quesiti sul DNA moderno. Ad Azriel Gorsky, direttore (emerito) del Laboratorio fibre e polimeri, Divisione di identificazione e scienze forensi, polizia nazionale israeliana, per i consigli in relazione alle analisi sui capelli e le fibre e sui metodi di applicazione della legge in Israele. Al dottor Elazor Zadok, brigadier generale, direttore della Divisione di identificazione e scienze forensi, polizia nazionale israeliana, che mi ha permesso di visitare il complesso dell'istituto di scienze forensi. Al dottor Tzipi Kahana, ispettore capo e antropologo forense della Divisione di i-
dentificazione e scienze forensi, polizia nazionale israeliana, che mi ha informata sul sistema di medicina legale israeliano. Al dottor Shimon Gibson dell'Unità archeologica di Gerusalemme, che mi ha accompagnata in vari siti in tutto Israele e ha risposto alle molte domande sulla sua terra. A Debbie Sklar, dell'Autorità archeologica israeliana, che mi ha consentito una visita privata del Museo Rockefeller. A Christopher Dozier, funzionario del dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg, e al detective Stephen Rudman, Superviseur (in pensione), Analyse et Liaison, Communauté Urbaine de Montréal Police, che mi ha fornito informazioni su come ottenere registrazioni telefoniche. A Roz Lippel, che mi ha aiutata a tener buoni gli ebrei e a Marie-Eve Provost, che ha fatto lo stesso con i francesi. Un ringraziamento speciale è rivolto a Paul Reichs per i suoi penetranti commenti sul manoscritto. Vanno inoltre ricordati i due libri citati nel testo: Masada: la fortezza di Erode e l'ultima difesa degli Zeloti di Yigael Yadin (traduzione di Clara Valenziano), De Donato, Bari 1968 e The Jesus Scroll di Donovan Joyce, Dial Press, New York 1973. Per finire, ma certo non per importanza, un sincero ringraziamento va alla mia editor, Nan Graham. Grazie ai suoi consigli Ossario è un libro davvero migliore. E grazie anche a Susan Sandon, la mia editor di oltreoceano. E naturalmente a Jennifer Rudolph Walsh, vicepresidente esecutivo del Worldwide Literary Department, e una delle prime due donne a essere nominate nel consiglio di amministrazione della William Morris Agency. Congratulazioni! Grazie perché nonostante tutto continui a essere la mia agente. L'Editore e Studio Editoriale Littera ringraziano Sara Grazioli, Irene Annoni, Annalisa Crea, Valeria Fucci e Raffaella Chelotti per la preziosa collaborazione. Sta' lontano dal male e fa' il bene, cerca la pace e perseguila. Antico Testamento Salmi 34:15
Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace. Nuovo Testamento Lettera di Giacomo 3:18 Non fate di Dio l'oggetto dei vostri giuramenti - che sarete giusti, che temerete Dio e che metterete pace fra gli uomini - poiché Dio sa ed ascolta. Corano 2:224 1 Dopo la cena di Pasqua a base di purè, prosciutto e piselli, Charles «le Cowboy» Bellemare sottrasse alla sorella una banconota da venti, guidò fino a Verdun, entrò in una crack house e scomparve. Quell'estate la crack house fu venduta. Ma durante l'inverno i nuovi proprietari si accorsero che il camino non tirava bene. Il 7 febbraio, un lunedì, il padrone di casa decise di ripulire la canna fumaria e vi infilò il manico di un rastrello. Una gamba essiccata cadde sulla cenere del focolare. L'uomo chiamò la polizia. La polizia chiamò i vigili del fuoco e il Bureau du Coroner. Il coroner chiamò noi dell'Istituto di medicina legale. Il caso fu affidato a Pelletier. Un'ora dopo la caduta della gamba dal camino, Pelletier e due tecnici di autopsia si trovavano già sul prato antistante la casa. Sul posto regnava una grande confusione. Padre infuriato. Madre isterica. Figli agitati. Vicini pietrificati. Poliziotti infastiditi. Vigili del fuoco sconcertati. Il dottor Jean Pelletier è il più anziano dei cinque patologi che lavorano al Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, l'Istituto di medicina legale del Québec. Ha denti e articolazioni in pessimo stato, e nessuna tolleranza verso chi o cosa lo costringe a perdere tempo. Quel giorno Pelletier diede una rapida occhiata e ordinò una palla demolitrice. Il muro esterno del camino venne letteralmente polverizzato. Dalle macerie fu estratto un cadavere ben carbonizzato, il quale fu adagiato su una lettiga e trasportato in istituto. Il giorno successivo Pelletier osservò i resti e decretò: «Ossements». Ossa. A questo punto entro in scena io, Temperance Brennan, antropologa forense in Québec e North Carolina. Perché la belle province e Dixieland? È una lunga storia, iniziata con uno scambio tra la mia università, la Univer-
sity of North Carolina di Charlotte, e la McGill di Montréal. Alla fine del periodo previsto tornai al sud, ma continuai a collaborare con l'Istituto di medicina legale di Montréal. Sono passati dieci anni e ormai posso considerarmi una pendolare della rotta Charlotte-Montréal. Quando arrivai in istituto per il mio turno di febbraio, la Demande d'expertise en anthropologie firmata da Pelletier mi aspettava sulla scrivania del mio ufficio. Era il 16 febbraio, mercoledì, e le ossa rinvenute nel camino formavano uno scheletro completo sul mio tavolo da lavoro. Sebbene la vittima non fosse un fanatico dell'igiene orale, e quindi la consultazione della documentazione odontoiatrica era esclusa, tutti gli indicatori scheletrici erano compatibili con Bellemare. Età, sesso, razza, altezza e alcuni chiodi inseriti nella tibia e nel perone destro mi dicevano che stavo guardando il Cowboy da tempo scomparso. A parte una frattura sottile quanto un capello alla base del cranio, probabilmente causata dall'imprevisto tuffo nel camino, non riscontrai nessun'altra indicazione di trauma. Mi stavo domandando come e perché un uomo sale su un tetto e cade in una canna fumaria, quando il mio telefono squillò. «Pare che io abbia bisogno della sua assistenza, Temperance.» Solo Pierre LaManche usava il mio nome per intero, calcando l'accento sull'ultima sillaba e pronunciandolo con suono nasale, alla francese. Sospettai che LaManche stesse lavorando a un cadavere che presentava fenomeni di decomposizione. «Stato avanzato di decomposizione?» «Oui.» Il mio capo si interruppe per qualche secondo. «E altre complicazioni.» «Complicazioni?» «Gatti.» Oh, santo cielo. «Scendo subito.» Dopo aver salvato su disco la perizia relativa a Bellemare, lasciai il mio laboratorio, superai le porte a vetri che separano l'Istituto di medicina legale dal resto del piano, imboccai un corridoio secondario e premetti il pulsante dell'ascensore. Accessibile solo dal dodicesimo e tredicesimo piano, sedi dell'LSJML, e dall'undicesimo, che ospita l'ufficio del coroner, questo ascensore porta a un'unica destinazione: l'obitorio. Mentre scendevo nel seminterrato, ripensai a quanto avevo appreso quel-
la mattina durante la consueta riunione del personale. Avram Ferris, un ebreo ortodosso di cinquantasei anni, era scomparso una settimana prima. Il corpo di Ferris era stato ritrovato il giorno precedente in un ripostiglio al primo piano dell'edificio in cui lavorava. La valutazione sulla scena del crimine era stata morte autoinflitta con colpo di arma da fuoco. La famiglia della vittima però aveva rifiutato con forza l'ipotesi del suicidio. Il coroner aveva richiesto l'esame autoptico. I parenti di Ferris e il rabbino invece erano contrari. Raggiungere un compromesso era stato molto difficile. Stavo per vedere il cadavere. E il bel lavoretto eseguito dai gatti. Uscita dall'ascensore, voltai a sinistra e poi a destra verso l'obitorio. Via via che mi avvicinavo al corridoio delle sale autopsia, udivo dei suoni provenire dalla saletta dei parenti, una stanza piuttosto triste riservata ai familiari chiamati a identificare i cadaveri. Un pianto sommesso. Una voce femminile. Immaginai quello spazio cupo, con le piante finte, le sedie di plastica e le finestre oscurate dalle tende e provai la solita tristezza. Qui in istituto non eseguiamo autopsie di tipo ospedaliero. Niente malati terminali di cancro. Niente infarti. Noi siamo addetti agli omicidi, ai suicidi, alle morti violente, improvvise e inaspettate. La saletta dei parenti ospita quelle persone alle quali l'imprevedibilità del destino ha appena teso un'imboscata. E il loro dolore mi turba sempre. Aprii una porta di colore azzurro intenso e imboccai uno stretto corridoio con una serie di postazioni informatiche, carrelli di acciaio e asciugatoi alla mia destra. Altre porte azzurre, invece, si aprivano alla mia sinistra, ciascuna recante la targa salle d'autopsie. Alla quarta porta tirai un profondo respiro ed entrai. Oltre agli scheletri, io mi occupo anche dei cadaveri, mummificati, bruciati, mutilati e decomposti. Il mio lavoro consiste nel ritrovare l'identità che la morte ha cancellato. Utilizzo spesso la sala quattro perché è dotata di uno speciale impianto di aerazione. Quel mattino l'impianto sembrava quasi non farcela contro il fetore della decomposizione. Alcune autopsie vengono eseguite in una sala completamente vuota. Altre di fronte a molte persone. Malgrado l'odore terribile, per l'autopsia di Avram Ferris era rimasto solo posto in piedi. LaManche. Il suo tecnico di autopsia, Lisa. Un fotografo della polizia.
Due agenti. Un detective della Sûreté du Québec che non conoscevo, un tipo alto, con le lentiggini, e più pallido di una fetta di tofu. Un detective della Squadra Omicidi che invece conoscevo benissimo. Andrew Ryan. Un metro e ottantacinque. Capelli biondo cenere. Occhi più blu di un lago di montagna. Ci salutammo con un cenno del capo. Ryan il poliziotto. Tempe l'antropologa. E visto che eravamo in pochi, alla folla degli addetti ai lavori si era unito un drappello di quattro estranei, che formava un muro di disapprovazione ai piedi della salma. Con una rapida occhiata stabilii che erano tutti uomini. Due ultracinquantenni. Due forse più vicini ai sessanta. Capelli scuri. Occhiali. Barba. Abiti neri. Yarmulke. Il muro mi scrutò con attenzione. Otto mani si intrecciavano dietro quattro schiene rigide. LaManche si abbassò la mascherina e mi presentò al quartetto di osservatori. «Date le condizioni del corpo del signor Ferris, ho dovuto richiedere l'intervento di un antropologo forense.» Quattro sguardi perplessi. «La dottoressa Brennan è una specialista in anatomia dello scheletro.» LaManche parlava in inglese. «Ed è stata ampiamente informata circa le vostre particolari necessità.» A parte la scrupolosa raccolta del sangue e dei tessuti, non avevo idea delle loro particolari necessità. «Sono davvero dispiaciuta per la perdita che avete subito» dissi, stringendo la cartellina al petto. Quattro sobri cenni del capo. La loro perdita mi aspettava al centro del palcoscenico, distesa su un foglio di plastica che la separava dal tavolo d'acciaio. Altri fogli erano stati stesi sul pavimento sotto e intorno al tavolo. Vaschette, fiale e contenitori vuoti in vetro erano pronti su un carrellino a rotelle lì accanto. Il corpo era stato spogliato e lavato, ma non era ancora stata eseguita alcuna incisione. Due buste di carta erano state appiattite e posate sul ripiano di lavoro. Probabilmente LaManche aveva appena concluso il suo esame esterno, compreso il test per le tracce di polvere da sparo e di altro genere riscontrabili sulle mani di Ferris. Otto occhi mi seguirono mentre mi avvicinavo alla salma. L'osservatore
numero quattro intrecciò le mani davanti alla patta dei pantaloni. Avram Ferris non sembrava morto da una settimana ma dai tempi dell'amministrazione Clinton. Gli occhi erano neri, la lingua violacea, la pelle punteggiata di chiazze olivastre e violacee. L'intestino era disteso. Lo scroto gonfio come un pallone da spiaggia. Guardai Ryan con aria interrogativa. «La temperatura all'interno del ripostiglio era molto alta. Novantadue gradi Fahrenheit.» «Perché?» «Uno dei gatti potrebbe in qualche modo aver toccato il termostato» ipotizzò Ryan. Cercai di fare a mente una rapida equivalenza. Novantadue Fahrenheit corrispondevano a più di trentatré gradi Celsius. Nessuna meraviglia che Ferris potesse vantare il record mondiale di velocità in decomposizione. Ma il calore era solo uno dei problemi di quell'uomo. Quando siamo affamati anche la persona più pacifica diventa irascibile. In condizioni disperate l'istinto prevale sull'etica. Mangiamo. Sopravviviamo. Questo vale per gli animali docili e per quelli più feroci. Perfino Fido e Micio per fame possono trasformarsi in veri avvoltoi. Avram Ferris aveva commesso l'errore di rimanere chiuso in quel ripostiglio con due gatti soriani e con un siamese. E una scorta poco abbondante di croccantini. Feci il giro del tavolo. A sinistra l'osso temporale e il parietale si presentavano in modo anomalo. Benché non potessi vedere l'osso occipitale, era evidente che la porzione posteriore del cranio aveva subito un colpo. Infilai i guanti, spinsi due dita sotto il cranio e premetti. L'osso cedeva come fosse di burro. E quella porzione di testa era tenuta insieme solo da cuoio capelluto. Ritirai le dita ed esaminai la faccia. Era difficile riconoscere i lineamenti di Ferris. La guancia sinistra era ridotta in poltiglia, sull'osso sottostante erano visibili segni di denti, e dalla carne rosso vivo emergevano frammenti opalescenti. La parte destra, pur gonfia e marmorizzata, era quasi interamente intatta. Mi allontanai di un passo per osservare meglio la mutilazione del viso. Nonostante il calore e l'odore di carne putrefatta, i gatti non si erano spinti alla destra del naso di Ferris, e neppure sul resto del corpo. Avevo capito perché LaManche aveva bisogno di me.
«Per caso sul lato sinistro della faccia c'era una ferita aperta?» domandai al mio capo. «Oui. E un'altra sul retro del cranio. Ma la putrefazione e l'azione dei gatti rendono impossibile la determinazione della traiettoria della pallottola.» «Ho bisogno di una serie completa di radiografie del cranio» dissi a Lisa. «Orientamento?» «Da tutte le angolature. E ho bisogno anche del cranio.» L'osservatore numero quattro in quel momento si rianimò. «Impossibile. Abbiamo un accordo.» LaManche sollevò una mano guantata. «Io ho la responsabilità di stabilire la verità.» «Ma lei mi ha dato la sua parola che non avreste trattenuto alcun campione.» Il viso dell'uomo era color farina, ma sulle sue guance iniziarono ad allargarsi due chiazze rosate. «A meno che non fosse proprio inevitabile» replicò LaManche con tono professionale. L'osservatore numero quattro si voltò verso l'uomo alla sua destra. L'osservatore numero tre sollevò il mento e guardò in basso socchiudendo gli occhi. «Lasciatelo parlare.» L'imperturbabile pazienza di un rabbino. LaManche si voltò verso di me. «Dottoressa Brennan, proceda pure con le sue analisi, lasciando il cranio e tutte le ossa che non hanno subito traumi al loro posto.» «Dottor LaManche...» «Se questo sistema le impedirà di svolgere correttamente il suo lavoro, tornerà alla procedura consueta.» Non mi piace che mi si dica come devo fare il mio lavoro. E non mi piace lavorare senza tutte le informazioni disponibili, o avvalermi di una procedura che non sia quella ottimale. Tuttavia, ho il massimo rispetto per Pierre LaManche. È il miglior patologo che io conosca. Guardai negli occhi il mìo capo. L'anziano patologo mi rivolse un cenno quasi impercettibile. «Fidati di me» mi stava dicendo. Mi voltai verso le facce che torreggiavano sul cadavere di Avram Ferris. In ciascuna lessi l'antica lotta fra dogma e prassi. Il corpo come tempio dell'anima. Il corpo come insieme di organi, di tubi, di urina e di bile.
In ciascuna lessi l'angoscia del lutto. La stessa angoscia che avevo sentito in corridoio qualche minuto prima. «D'accordo» dissi semplicemente. «Chiamatemi quando siete pronti a sollevare il cuoio capelluto.» Guardai Ryan, che mi fece l'occhiolino. Ryan il poliziotto che alludeva a Ryan l'amante. Quando lasciai il corridoio delle sale autopsia, la donna stava ancora piangendo. Il suo compagno, o i suoi compagni, adesso erano in silenzio. Esitai, indecisa se invadere un dolore così personale. O forse era solo una scusa per proteggere me stessa? Mi capita sovente di essere testimone del dolore altrui. Spesso sono presente nel tragico momento in cui chi sopravvive al defunto capisce che la sua vita è cambiata per sempre. Niente più pasti da consumare insieme. Niente più chiacchiere da scambiare. Niente più libri da leggere ad alta voce. Percepisco il loro dolore, ma non posso offrire alcun aiuto. Perché sono un'estranea, una che arriva a mettere il naso dopo l'incidente, dopo l'incendio, dopo la sparatoria. Un elemento del triste panorama della morte, insieme con le sirene spiegate, il nastro giallo che isola la scena del crimine, la cerniera del sacco mortuario. Non posso fare niente per arginare quel dolore travolgente. E detesto questa mia impotenza. Sentendomi una vigliacca, mestamente entrai nella saletta dei parenti. Due donne sedevano l'una accanto all'altra, vicine, ma senza toccarsi. La più giovane poteva avere trent'anni come cinquanta. Aveva la pelle chiara, sopracciglia folte, e ricci capelli castani legati dietro la nuca. Indossava pantaloni neri e un lungo maglione nero con il collo alto, che le sfiorava le guance. La donna più vecchia aveva il viso coperto di rughe, e mi ricordava una di quelle bambole realizzate con le mele essiccate sui monti della Carolina. Portava un abito lungo fino alle caviglie di un colore a metà tra il viola e il nero. I primi tre bottoni mancavano e al loro posto pendevano fili ormai inutili. Mi schiarii la gola. La più anziana mi guardò. Sulle guance rugose brillavano ancora le lacrime. «La signora Ferris?» Con le sue dita nodose la donna continuava a tormentare un fazzoletto.
«Sono Temperance Brennan. Mi occuperò dell'autopsia di suo marito.» La testa della donna si inclinò di colpo, e la sua parrucca si spostò in una posizione precaria. «Le porgo le mie più sentite condoglianze. So bene quanto sia difficile per voi.» La donna più giovane mi guardò con due occhi color lilla da togliere il fiato. «Davvero?» Ottima domanda. La morte è sempre difficile da capire. Questo lo so. E la mia comprensione del lutto è incompleta. So anche questo. Mio fratello morì di leucemia quando aveva tre anni. E persi mia nonna, che aveva superato i novanta. Entrambe le volte il dolore era stato una presenza viva, che aveva invaso il mio corpo e si era stabilito dentro di me, nel profondo. Kevin era poco più che un neonato, mentre la nonna viveva ormai di ricordi che non mi includevano. Gli volevo bene. E loro ne volevano a me. Ma non erano il centro della mia vita, ed entrambi quei lutti erano annunciati. Ma come si affronta la perdita improvvisa del proprio compagno? O di un figlio? Non volevo neanche immaginarlo. «Lei non può neanche immaginare il dolore che proviamo» riprese la donna giovane. Inutile polemica, pensai. Le condoglianze impacciate sono pur sempre condoglianze. «Certamente no» dissi, spostando lo sguardo sull'altra donna e poi ancora su di lei. «Forse sono stata presuntuosa.» Nessuna delle due commentò. «Mi dispiace molto per la morte del vostro caro.» La donna più giovane aspettò così a lungo prima di parlare che pensai non volesse più rispondermi. «Sono Miriam Ferris. Avram è... era mio marito.» La mano di Miriam si alzò e poi si fermò incerta. «Dora è la madre di Avram.» La mano si spostò verso Dora, poi tornò a raggiungere l'altra. «Immagino che la nostra presenza durante l'autopsia sia irregolare. Ma non possiamo farci niente.» La voce di Miriam suonò roca per il dolore. «È tutto così...» La frase rimase in sospeso, ma i suoi occhi continuarono a fissarmi.
Cercai di pensare a qualche parola che potesse essere di conforto, o quanto meno che potesse tranquillizzarle. Ma non trovai niente di originale, e dovetti ripiegare sui cliché. «Mi creda, posso capire il dolore di chi perde una persona cara.» Un tremore mosse la guancia destra di Dora, che abbandonò le spalle e inclinò la testa. Mi avvicinai a lei, mi abbassai e le presi le mani. «Perché Avram?» mi disse tra i singhiozzi. «Perché il mio unico figlio? Una madre non dovrebbe mai seppellire il proprio figlio.» Miriam disse qualcosa in ebraico, o yiddish. «Che Dio è mai questo? Perché lo ha fatto?» Miriam parlò ancora alla donna, questa volta con un pacato tono di rimprovero. Dora mi guardò. «Perché non ha preso me? Sono vecchia. Sono pronta.» Le sue labbra raggrinzite tremarono. «A questo non posso rispondere, signora.» Anche la mia voce suonò roca. Una lacrima cadde dal mento di Dora sul mio pollice. Abbassai lo sguardo su quell'unica lacrima. Deglutii. «Vuole che le porti un tè, signora Ferris?» «Non si disturbi, la prego» disse Miriam. «Grazie lo stesso.» Strinsi la mano di Dora. La sua pelle era secca. Le ossa fragili. Sentendomi impotente, mi alzai e porsi a Miriam il mio biglietto da visita. «Per qualche ora sarò nel mio ufficio. Se dovesse aver bisogno di qualcosa, la prego di chiamarmi.» Quando uscii dalla saletta dei parenti, notai che uno dei barbuti osservatori guardava nella mia direzione. Mentre gli passavo davanti, l'uomo mi fermò. «È stato molto gentile da parte sua.» Aveva una voce particolare, stranamente aspra, come Kenny Rogers quando canta Lucille. «Una donna ha perso un figlio. Un'altra il marito.» «L'ho vista là dentro. È chiaro che lei è una persona sensibile. Una persona d'onore.» Dove voleva arrivare? L'uomo esitò, come se dovesse superare una sorta di resistenza interna. Poi infilò la mano in tasca, ne estrasse una busta e me la porse. «Questo è il motivo per cui Avram Ferris è morto.»
2 La busta conteneva una fotografia in bianco e nero. La fotografia di uno scheletro in posizione supina, il cranio deformato, la mandibola spalancata in un urlo congelato. Voltai l'immagine. Sul retro qualcuno aveva scritto una data. OTTOBRE 1963. E un appunto sbiadito. H DE 1 H. Forse. Guardai con aria interrogativa il signore barbuto che mi sbarrava la strada. Che però non accennò alcuna spiegazione. «Lei è il signor...?» «Kessler.» «E come mai ha voluto mostrarmi questa fotografia, signor Kessler?» «Perché credo sia questo il motivo per cui Avram Ferris è morto.» «Questo me lo ha già detto.» Kessler incrociò le braccia. Poi si strofinò le mani sui pantaloni. Io semplicemente aspettai. «Diceva di essere in pericolo.» Kessler indicò la foto. «Diceva che se gli fosse successo qualcosa, sarebbe stato a causa di questa foto.» «Lei l'ha avuta da Avram Ferris?» «Sì.» Kessler guardò dietro di sé. «Perché?» La risposta di Kessler fu un'alzata di spalle. Riportai lo sguardo sulla foto. Lo scheletro era completamente disteso, ma l'anca e il braccio destro erano parzialmente oscurati da una roccia, o una grossa pietra. E per terra, accanto al ginocchio sinistro, si distingueva un oggetto. Un oggetto familiare. «Da dove viene?» alzai lo sguardo. Kessler stava di nuovo guardando dietro di sé. «Da Israele.» «Quindi Avram Ferris temeva che la sua vita fosse in pericolo, giusto?» «Era terrorizzato. Diceva che se questa foto fosse mai venuta alla luce, sarebbe successo un pandemonio.» «Che genere di pandemonio?» «Non lo so.» Kessler alzò i palmi delle mani. «Ascolti, io non ho nessuna idea di che cosa significhi questa foto. Ho solo accettato di custodirla. Tutto qui. Questo è il mio ruolo.»
«Lei che rapporti aveva con Avram Ferris?» «Eravamo soci.» Restituii la foto. Kessler abbassò le mani. «Perché non riferisce al tenente Ryan quanto mi ha appena detto?» suggerii. Kessler fece un passo indietro. «Perché tutto quel che so adesso lo sa anche lei.» In quel momento trillò il mio cellulare. Lo sfilai dalla cintura. Era Pelletier. «Ho ricevuto un'altra chiamata a proposito di Bellemare.» Kessler intanto si stava allontanando. Io agitai la fotografia, ma lui fece cenno di no con la testa e imboccò rapidamente il. corridoio che conduceva alla sala destinata ai familiari delle vittime. «È già pronta a consegnare il corpo del Cowboy?» «Sì, sto salendo nel mio ufficio proprio in questo momento.» «Bon. La sorella sta già organizzando il funerale.» Quando conclusi la chiamata, il corridoio era vuoto. E va bene. Non mi restava che consegnare la fotografia a Ryan. Che avrebbe anche ricevuto l'elenco con il nome degli osservatori. E se il tenente intendeva fare delle indagini, avrebbe potuto mettersi in contatto direttamente con Kessler. Chiamai l'ascensore. A mezzogiorno avevo completato la mia perizia su Charles Bellemare, dove concludevo che, per quanto strane potessero sembrare le circostanze, l'ultima galoppata del Cowboy era stata la conseguenza della sua stessa follia. Che cosa fosse andato a fare là sopra restava un mistero. A pranzo, LaManche mi informò che non sarebbe stato facile esaminare le ferite sul cranio di Ferris in situ. Dalle radiografie risultava solo la presenza di un frammento di pallottola, e che la porzione posteriore del cranio e la metà sinistra della faccia erano frantumate. Mi informò inoltre che le mie analisi sarebbero state fondamentali, visto che le mutilazioni procurate dai gatti avevano modificato il disegno della traccia metallica visibile sulle lastre. In più, nella caduta, le mani di Ferris erano rimaste sotto il corpo, e la decomposizione aveva vanificato il test sui residui di polvere da sparo. All'una e mezzo, scesi di nuovo in obitorio.
Trovai il busto di Ferris aperto dalla gola al pube, e i suoi organi interni già sigillati negli appositi contenitori. Il fetore all'interno della sala aveva raggiunto, e oltrepassato, il livello di guardia. C'erano Ryan e il fotografo, insieme a due dei quattro osservatori che avevo già visto la mattina. LaManche aspettò cinque minuti, poi con un cenno indicò al tecnico di autopsia di procedere. Lisa eseguì due incisioni, una dietro le orecchie di Ferris e l'altra sulla sommità del cranio. Dopodiché, servendosi del bisturi e delle dita, sollevò il cuoio capelluto dall'alto verso la base del cranio, interrompendosi di tanto in tanto per posizionare la targhetta con il numero del caso, per il fotografo. Via via che i lembi di pelle venivano sollevati, LaManche e io li esaminavamo, li catalogavamo e poi li inserivamo nei contenitori. Quando ebbe finito con il cuoio capelluto, Lisa passò a sollevare la pelle del viso, e LaManche e io ripetemmo la stessa procedura, arretrando ogni tanto di qualche passo per lasciar lavorare il fotografo. Lentamente, riuscimmo a estrarre la poltìglia formata dalle ossa della mandibola, dello zigomo, del naso e della tempia. Alle quattro, ciò che restava della faccia di Ferris era tornato al suo posto, e una cucitura a forma di Y teneva insieme l'addome e il petto. Il fotografo aveva scattato cinque rullini. LaManche aveva riempito pagine e pagine di grafici e di appuntì. Io avevo quattro vaschette di schegge insanguinate. Stavo pulendo quei frammenti di ossa, quando Ryan comparve nel corridoio davanti al mio laboratorio. Lo osservai avvicinarsi dalla finestra sopra il mio lavandino. Viso solcato dalle rughe. Occhi sempre troppo blu. Quando mi vide, Ryan premette il naso e le mani contro il vetro della finestra. Io lo schizzai con l'acqua. Indicò la porta del laboratorio e io mimai la parola «aperta» con le labbra, invitandolo a entrare con un sorriso un po' imbarazzato. E va bene. Ryan non era affatto male. Ma ero giunta a quella conclusione solo di recente. Da quasi dieci anni, il tenente Andrew Ryan e io eravamo impegnati in una intermittente non-relazione. Su-giù. Sì-no. Freddezza-passione. Passione-passione. Ryan mi aveva attratta sin dal primo momento, ma la via che portava dalla teoria ai fatti era stata irta di ostacoli. Io credo fermamente nella separazione fra lavoro e vita privata. E Ryan
lavora alla Omicidi, mentre io lavoro all'Istituto di medicina legale. Ostacolo numero uno. Poi c'è Ryan. Il suo curriculum era di pubblico dominio. Nato in Nova Scotia da genitori irlandesi, il giovane Andrew aveva imboccato una brutta strada finendo per trovarsi dalla parte sbagliata di una bottiglia rotta minacciosamente brandita da un biker. Poi aveva cambiato idea ed era passato dalla parte dei buoni, arruolandosi in polizia e facendo rapidamente carriera fino al grado di tenente. L'adulto Andrew è un uomo gentile, intelligente e rigorosissimo quando si tratta di lavoro. Altrimenti noto come il casanova della Squadra Omicidi. Ostacolo numero due. Ma Ryan aveva saputo trovare il modo di convincermi, e dopo anni di resistenza, avevo finito per cedere alle sue lusinghe. E poi, a Natale, era arrivato l'ostacolo numero tre. Lily. Una figlia diciannovenne, completa di palmare, piercing all'ombelico e madre originaria delle Bahamas. Un memento in carne e ossa della vita bohémien del giovane Andrew Ryan. Anche se spaventato e in un certo senso scoraggiato di fronte alla responsabilità di una figlia, Ryan aveva accolto il frutto del suo passato e preso alcune importanti decisioni riguardo al suo futuro. E così, intorno a Natale, si era impegnato in una paternità a distanza, e nella stessa settimana mi aveva proposto di andare a vivere da lui. Coraggioso, il tenente... Ma io avevo respinto la proposta. Al momento, anche se io continuavo a vivere con il mio gatto Birdie, Ryan e io stavamo lavorando alla bozza preliminare di un accordo. E finora i lavori procedevano alla grande. E rigorosamente a porte chiuse. Nel senso che tenevamo la cosa per noi. «Allora, pasticcino, come va?» domandò Ryan, entrando in laboratorio. «Bene.» E aggiunsi un frammento osseo a quelli che già erano ad asciugare sul supporto di sughero. «È il morto nel camino?» Ryan stava guardando la scatola che conteneva Charles Bellemare. «Sì, il nostro Cowboy non ha fatto proprio una bella fine» dissi. «Ha preso un colpo forte?» Scossi la testa. «Si direbbe che si è sporto un po' troppo. Ma non ho idea del perché fosse seduto sul bordo di una canna fumaria.» Mi sfilai i guanti e mi versai un po' di sapone liquido sulle mani. «Chi è il tizio biondo al piano di sotto?»
«Birch. Lavoriamo insieme al caso di Ferris.» «Il tuo nuovo collega?» Adesso fu Ryan a scuotere la testa. «No. Lavora con me solo temporaneamente. Pensi davvero che Ferris si sia fatto fuori?» Mi voltai e rivolsi a Ryan uno sguardo che significava: «Dimmi perché sei venuto qui». Ma Ryan rispose con un'innocente aria da chierichetto. «Non volevo metterti fretta.» Presi una salvietta di carta dal suo contenitore e dissi: «Raccontami di lui». Ryan spostò Bellemare e si sedette sul mio tavolo da lavoro. «Appartiene a una famiglia di ebrei ortodossi.» «Ah, davvero? Non lo avevo capito» replicai fingendomi sorpresa. «I Fantastici Quattro erano qui per accertarsi che praticassimo un'autopsia perfettamente kosher.» «Chi erano?» domandai, gettando via la salvietta. «Il rabbino, due membri della sinagoga e un fratello. Vuoi i nomi?» Scossi la testa. «Ferris però era un po' meno osservante dei suoi amici. Gestiva una società di importazioni situata in un magazzino vicino all'aeroporto Mirabel. Aveva detto alla moglie che giovedì e venerdì sarebbe andato fuori città. Secondo...» Ryan tirò fuori dalla tasca un notes a spirale. «Miriam» dissi io. «Giusto.» Ryan mi guardò sorpreso. «Secondo Miriam, il marito stava cercando di espandere l'attività. Mercoledì Ferris l'ha chiamata verso le quattro dicendo che stava partendo e che sarebbe rientrato venerdì, sul tardi. E quando venerdì sera Miriam non l'ha visto tornare, ha semplicemente pensato che l'avessero trattenuto. E ha preferito non mettersi in macchina durante lo Shabbat.» «Era già successo altre volte?» Ryan annuì. «Ferris non aveva l'abitudine di telefonare a casa tanto spesso. Quando sabato Miriam ha visto che lui non rientrava, ha iniziato a fare un po' di telefonate. Ma nessuno dei familiari l'aveva visto. E nemmeno la sua segretaria. Miriam non sapeva chi doveva incontrare, così ha deciso di aspettare. Poi domenica mattina è andata al magazzino a controllare, e domenica pomeriggio ha denunciato la sua scomparsa alla polizia. Gli agenti hanno detto di aver iniziato le ricerche lunedì mattina.» «Quindi, un uomo adulto che decide di espandere la sua attività?»
Ryan alzò una spalla. «Succede.» «Ferris non ha mai lasciato Montréal?» «LaManche ritiene che sia morto poco dopo la chiamata a Miriam.» «La storia di Miriam regge?» «Per il momento sì.» «Il cadavere è stato trovato in uno sgabuzzino?» Ryan annuì. «Sangue e cervello schizzati su tutte le pareri.» «Che genere di sgabuzzino?» «Un piccolo ripostiglio accanto a un ufficio del primo piano.» «Ma perché là dentro c'erano dei gatti?» «Perché nella porta c'era uno di quegli sportellini basculanti per far entrare e uscire i gatti. Ferris là dentro teneva il cibo per loro e la lettiera.» «Possibile che abbia chiamato i gatti prima di spararsi?» «Forse erano già dentro quando è partito il colpo. O forse sono entrati dopo. Ferris potrebbe essere morto seduto su uno sgabello, da cui poi è scivolato bloccando la gattaiola con un piede.» Riflettei per qualche secondo. «Miriam non ha controllato quello sgabuzzino, la domenica?» «No.» «E non ha sentito i gatti grattare contro la porta, o miagolare?» «La signora non impazzisce per i felini. Per questo Ferris teneva i gatti in ufficio.» «E non ha sentito nessun cattivo odore?» «Sembra che Ferris non fosse molto scrupoloso riguardo alla toilette dei suoi amici a quattro zampe. Miriam ha detto che se anche avesse notato qualche cattivo odore, avrebbe pensato che fosse la lettiera sporca dei gatti.» «E non ha trovato l'edificio surriscaldato?» «No. Ma se anche un gatto avesse toccato il termostato dopo la sua visita, tra domenica e martedì Ferris avrebbe comunque avuto il tempo di cuocersi.» «Ferris aveva altri dipendenti, oltre alla segretaria?» «No.» Ryan consultò il suo block-notes. «Courtney Purviance. Miriam la chiama segretaria. Ma Purviance preferisce usare il termine socia.» «E chi delle due ha ragione?» «Direi Purviance. Sembra che avesse un ruolo tutt'altro che marginale all'interno della società.» «E dov'era questa Purviance mercoledì?»
«È uscita presto. Forte raffreddore.» «E come mai non ha trovato il cadavere di Ferris lunedì?» «Perché lunedì era una di quelle feste ebraiche. E Purviance era a casa a piantare alberi.» «Tu BiShvat.» «BiShvat sarai tu.» «Tu BiShvat. La festa degli alberi. Negli uffici manca qualcosa?» «Purviance dice che in ufficio non c'è niente che valga la pena di rubare. Il computer è vecchio. La radio anche di più. Le scorte in magazzino non sono di valore. Comunque ha detto che controllerà.» «Da quanto tempo lavora per Ferris?» «Dal 1998.» «Niente di sospetto nel passato di Ferris? Clienti conosciuti? Nemici? Debiti di gioco? Fidanzate sedotte e abbandonate? Fidanzati?» Ryan scosse la testa. «Niente che possa confermare un'ipotesi di suicidio?» «Sto cercando, ma per il momento nada. Matrimonio tranquillo. A gennaio ha portato la moglie a Boca. Gli affari non andavano a gonfie vele, ma gli permettevano una vita agiata. Soprattutto da dopo l'arrivo di Purviance. Fatto che la donna non ha mancato di sottolineare. Nessun segno di depressione.» Mi venne in mente Kessler e presi la fotografia dalla tasca del camice. «Un regalino da uno dei Fantastici Quattro.» La porsi a Ryan. «Quell'uomo ritiene che sia questo il motivo per cui Ferris è morto.» «In che senso?» «Nel senso che secondo lui questa è la ragione per cui Ferris è morto.» «Brennan, a volte sai essere davvero stronza.» «Be', diciamo che faccio del mio meglio.» Ryan studiò l'immagine. «Quale dei Fantastici Quattro?» «Kessler.» Ryan alzò un sopracciglio e dopo aver posato la foto controllò sul suo block-notes. «Sei sicura?» «Così mi ha detto.» «Nessuna delle persone autorizzate ad assistere all'autopsia si chiamava Kessler.»
3 «Sono sicura che mi ha detto di chiamarsi Kessler.» «Era un osservatore autorizzato?» «Vuoi dire rispetto alla folla di gente che bazzica questi corridoi?» Ryan ignorò il mio sarcasmo. «Kessler ti ha detto perché era qui?» «No.» Per qualche ragione le domande di Ryan iniziavano a infastidirmi. «Avevi già visto questo Kessler in sala autopsia?» «Veramente...» Quella mattina, prima il dolore di Miriam e Dora Ferris, poi la chiamata di Pelletier mi avevano distratta. Kessler aveva la barba, portava gli occhiali e indossava un abito nero. La mia mente non aveva pensato ad altro che a uno stereotipo culturale. Non ero infastidita dalle domande di Ryan. Ero infastidita da me stessa. «Diciamo che ho presunto di sì.» «Ricominciamo daccapo.» Raccontai a Ryan dell'incontro avvenuto nel corridoio del piano inferiore. «Quindi Kessler si trovava nel corridoio quando sei uscita dalla sala riservata ai parenti?» «Sì.» «Hai visto da dove era arrivato?» «No.» «E dove è andato?» «Ho pensato che tornasse da Dora e Miriam.» «Ma l'hai visto entrare nella sala dei parenti con i tuoi occhi?» «Stavo parlando con Pelletier.» La mia risposta fu più secca di quanto avrei voluto. «Non metterti sulla difensiva.» «Non mi sto mettendo sulla difensiva» replicai, tutt'altro che rilassata, iniziando a sbottonarmi il camice. Ryan osservò la fotografia. «Che cosa sto guardando?» «Uno scheletro.» Ryan alzò gli occhi al soffitto. «Kessler...» Mi interruppi. «Il misterioso sconosciuto barbuto mi ha detto che viene da Israele.»
«Nel senso che la fotografia arriva materialmente da Israele, o che è stata scattata in Israele?» Alzai le spalle. «Questa foto avrà più di quarant'anni. Probabilmente non significa nulla.» «Quando si afferma che una foto ha causato la morte di qualcuno non può non significare nulla.» Arrossii. Ryan voltò la foto, come avevo fatto io. «Cosa significa M DE 1 H?» «Secondo te la prima lettera è una M?» Ryan ignorò la mia domanda. «Che cosa succedeva nell'ottobre del 1963?» domandò, più a se stesso che a me. «I pensieri di Oswald erano su JFK.» «Brennan, quando vuoi riesci a essere una vera...» «Questo l'abbiamo già appurato.» Mi avvicinai a Ryan, voltai la foto e indicai l'oggetto alla sinistra delle ossa della gamba. «Vedi questo?» domandai. «È un pennello.» «No. È una freccia che punta verso nord.» «Cioè?» «Un vecchio trucco da archeologi. Quando non si ha a disposizione un indicatore ufficiale per indicare la scala e la direzione, si inserisce nell'immagine qualcosa rivolto verso nord.» «Quindi pensi che questa foto sia stata scattata da un archeologo?» «Sì.» «In quale sito?» «Un sito di tombe.» «Adesso sì che è tutto chiaro.» «Ascolta, questo Kessler probabilmente è uno squinternato. Trovalo e mettilo un po' sotto torchio. Oppure parla con Miriam Ferris.» Indicai la foto. «Forse lei sa perché il marito si interessava a questo genere di cose» mi sfilai il camice. «Ammesso che gli interessassero davvero.» Ryan studiò la foto per qualche minuto. Poi alzò lo sguardo e mi chiese: «Ti sei comprata le culottes?». Mi sentii avvampare. «No.» «Mi raccomando: seta rossa. Sexy da impazzire.»
Socchiusi gli occhi e gli rivolsi uno sguardo d'avvertimento. «Non qui» sussurrai. Andai verso l'armadietto, appesi il camice e svuotai le tasche, cercando di togliermi di dosso anche la libido in eccesso. Quando tornai da lui, Ryan stava per uscire, ma diede un'ultima occhiata alla foto di Kessler. «Pensi che qualche tuo vecchio paleo-amico potrebbe darci una mano?» «Potrei fare qualche telefonata.» «Non sarebbe male.» Varcata la soglia, Ryan si voltò e mi guardò con aria ammiccante. «Dopo sei libera?» «Il mercoledì è la sera del Tai chi.» «Domani?» «Sono tutta per te.» Ryan puntò il dito verso di me e mi fece l'occhiolino. «Le culottes...» Il mio appartamento di Montréal si trova al piano terra di un palazzo a forma di U. Una camera da letto, due bagni, soggiorno-sala da pranzo, minuscola cucina che permette giusto di stare al lavello e girarsi verso il frigorifero. Attraverso un arco si passa dalla cucina a un piccolo ingresso chiuso da grandi porte a vetri affacciate sul cortile interno. Attraverso l'arco opposto si passa in soggiorno, anche questo chiuso da porte a vetri che danno su un piccolo cortiletto privato. Camino di pietra. Rivestimenti in legno. Grandi armadi a muro. Parcheggio sotterraneo. Niente di lussuoso. Ma il mio appartamento ha il grande vantaggio di essere in centro. Centre-Ville. E tutto quel che mi serve si trova a non più di due isolati dal mio letto. Birdie non si fece vedere, nonostante il rumore delle chiavi. «Ciao, Bird.» Niente gatto.' «Cip...» «Salve, Charlie.» «Cip... Cip...» «Birdie?» «Cip. Cip. Cip. Cip.» Fischio di ammirazione. Appesi il cappotto nell'armadio, posai il portatile in studio, depositai le
mie lasagne da asporto in cucina e proseguii oltre uno dei due archi. In soggiorno, Birdie mi aspettava nella sua posa da sfinge, le zampe raccolte sotto il petto e rivolte all'interno. Quando lo raggiunsi, sul divanetto, alzò lo sguardo per un istante e subito lo riportò sulla gabbia alla sua destra. Charlie inclinò la testa di lato e mi osservò da dietro le sbarre. «Come stanno i miei ragazzi?» domandai. Birdie mi ignorò. Charlie saltellò sulla mangiatoia ed emise un altro fischio di approvazione seguito da un cinguettio. «La mia giornata? Faticosa, ma senza particolari disastri.» Non accennai a Kessler. Charlie inclinò di nuovo la testa e mi guardò con l'occhio sinistro. Dal gatto nessun segno di interesse. «Sono molto felice che voi due andiate d'accordo.» Era vero. Il cacatua grigio era stato il regalo natalizio di Ryan. Al momento l'idea non mi aveva entusiasmata, dato il mio stile di vita frenetico; Birdie, invece, si era innamorato a prima vista. Dopo che avevo respinto la sua offerta di convivenza, Ryan mi aveva proposto un affidamento congiunto del volatile. Quando ero a Montréal, Charlie stava con me. Quando invece ero a Charlotte, Charlie e Ryan abitavano insieme. Birdie mi seguiva quasi sempre nei miei spostamenti. L'accordo stava funzionando, gatto e cacatua avevano stretto amicizia. Andai in cucina. «Viaggio in vista.» Charlie gracchiò. «Non dimenticare la gabbia.» Quella sera alla lezione di Tai chi fui una frana, ma la notte dormii come un sasso. Okay, le lasagne forse non sono il massimo per fare «afferra la coda del passero», o «la gru bianca spiega le ali». Ma sono una vera bomba per trovare la quiete interiore. Il mattino dopo mi alzai alle otto, e alle nove ero già in istituto. Trascorsi la prima ora impegnata nell'identificazione, segnatura e archiviazione dei frammenti ossei ricavati dal cranio di Avram Ferris. Non ero ancora arrivata all'esame dettagliato ma avevo già notato alcuni particolari: si stava delineando un quadro significativo. Direi piuttosto sconcertante. La quotidiana riunione del personale fu come di consueto un lungo elenco di crudeltà, banalità e follia. Un maschio di ventisette anni era rimasto folgorato mentre orinava sui
binari elettrificati della stazione del metro di Lucien-l'Allier. Un falegname di Boisbriand aveva ucciso a randellate la moglie di trent'anni nel corso di una lite scoppiata per stabilire chi doveva uscire a prendere la legna. Un tossicodipendente di cinquantanove anni era morto di overdose in un dormitorio a pagamento dalle parti di Chinatown. Niente lavoro per l'antropologa. Alle nove e venti tornai nel mio ufficio e chiamai Jacob Drum, un collega della University of North Carolina di Charlotte. Mi rispose la sua casella vocale. Lasciai un messaggio chiedendo di richiamarmi. Avevo ripreso a lavorare sui frammenti ossei da circa un'ora, quando il mio telefono squillò. «Salve, Tempe» era la voce di Jacob Drum. «Salve, Jake.» «Qui a Charlotte oggi non superiamo i venti gradi. E lassù? Fa freddo?» In inverno, gli abitanti degli Stati del sud adorano informarsi sul clima canadese. In estate, l'interesse precipita. «Fa freddo.» La massima prevista non superava lo zero. «Io sto dove il clima è adatto al mio abbigliamento.» «Sei in partenza?» Jake era un archeologo specializzato in questioni bibliche che scavava in Medio Oriente da quasi trent'anni. «Sì, signora. Dovrò lavorare a una sinagoga del I secolo. La squadra è già stata formata. I miei soliti collaboratori mi stanno aspettando in Israele, e sabato vado a Toronto per incontrare un supervisore del sito. Al momento sto definendo gli ultimi dettagli del viaggio. Una vera seccatura. Hai idea di quanto siano rare queste cose?» Le seccature? «Le sinagoghe del I secolo si trovano soltanto a Masada e a Gamia.» «Un'occasione davvero unica! Comunque, sono contenta di averti beccato, perché avrei un favore da chiederti.» «Spara.» Gli descrissi la fotografia di Kessler, tralasciando di precisare come ne ero entrata in possesso. «Hai detto che la foto è stata scattata in Israele?» «Così mi è stato riferito.» «Risale agli anni Sessanta?» «Sul retro c'è scritto ottobre 1963. E poi c'è anche una specie di nota. Potrebbe essere un indirizzo.»
«Informazioni piuttosto vaghe.» «Già.» «Va bene. Vedrò quel che posso fare.» «Scannerizzo l'immagine e te la mando per e-mail.» «Al posto tuo, non sarei troppo ottimista.» «Mi basta la tua disponibilità a dare un'occhiata.» Ora sapevo che cosa mi aspettava. Con Jake era sempre la solita storia. «Devi tornare a scavare con noi, Tempe. Devi tornare all'archeologia. Alle tue radici professionali.» «Non potrei desiderare di meglio, credimi. Ma adesso non posso mollare tutto.» «Prima o poi spero che riuscirai a farlo.» «Prima o poi...» Dopo la telefonata, andai rapidamente dai colleghi che che usavano il programma Imaging, scannerizzai la fotografia di Kessler e inviai il file jpg al computer del mio laboratorio. Quando rientrai nel mio ufficio, mi collegai a Internet e inviai l'immagine all'indirizzo di posta elettronica di Jake, alla UNCC. Quindi tornai al cranio frantumato di Ferris. Le fratture craniali possono assumere una configurazione enormemente variabile. La corretta interpretazione dell'aspetto di una frattura dipende dalla comprensione delle proprietà biomeccaniche dell'osso unita alla conoscenza dei fattori endogeni ed esogeni che hanno concorso alla produzione della frattura stessa. Semplice, no? Come la fisica quantistica. Diciamo allora che il tessuto osseo, benché sembri rigido, in realtà possiede un certo grado di elasticità. Quando viene sottoposto a una sollecitazione, l'osso cede e cambia forma. Ma quando il limite della deformazione viene superato, l'osso si frattura. Nel cranio le fratture si diffondono lungo linee di minima resistenza, determinate da fattori quali la curvatura della volta cranica, la resistenza dell'osso, e dalle suture, cioè i margini frastagliati con cui le varie ossa si articolano tra di loro. Questo per quanto concerne i fattori endogeni. Quelli esogeni comprendono le dimensioni, la velocità e l'angolo di impatto del corpo contundente. Mettiamola così. Il cranio è una sfera con protuberanze, curve e interstizi. Gli schemi seguiti dalla frattura quando la sfera viene colpita da un cor-
po contundente sono prevedibili. Quando parlo di corpi contundenti mi riferisco tanto alla pallottola di una calibro 22 quanto a un tubo di ferro del diametro di cinque centimetri. Solo che la prima è maledettamente più veloce del secondo, e colpisce una zona più piccola. Spero di aver reso l'idea. Nonostante i danni prodotti sul cranio di Ferris fossero notevoli, mi trovavo di fronte a una frattura dallo schema decisamente atipico. E più la esaminavo, più mi sentivo inquieta. Stavo inserendo un frammento di osso occipitale nel microscopio, quando il mio telefono squillò. Era Jake Drum. Ma questa volta il suo tono era tutt'altro che rilassato. «Da dove hai detto che arriva questa fotografia?» «Veramente non l'ho detto...» «Chi te l'ha data?» «Un uomo che si chiama Kessler. Ma...» «Hai ancora la foto originale?» «Sì.» «Per quanto tempo ti fermi a Montréal?» «Parto domenica per gli Stati Uniti. Ma sarà un soggiorno breve. E...» «Se sabato arrivo a Montréal, mi faresti vedere l'originale?» «Sì. Ma... Jake?» «Devo chiamare l'agenzia di viaggio per modificare il biglietto.» Dalla sua voce, capii che era molto teso. «Nel frattempo, ti consiglio di tenere la foto ben nascosta.» Un attimo dopo ascoltavo solo il suono della linea telefonica. 4 Fissai il telefono. Cosa poteva esserci di così importante da indurre Jake a modificare l'itinerario di un viaggio che aveva pianificato da mesi? Posai la foto di Kessler sulla mia scrivania. Se la mia intuizione riguardo al pennello era corretta, il corpo era orientato in direzione nord-sud con la testa rivolta verso est. I polsi erano incrociati sull'addome. Le gambe completamente distese. A parte un leggero dislocamento del bacino e delle ossa dei piedi, tutto era disposto nel corretto ordine anatomico. Troppo corretto.
Le due rotule si trovavano perfettamente posizionate all'estremo di ciascun femore. E non era possibile che stessero al loro posto così bene. E poi c'era un'altra cosa che non andava. Il perone destro si trovava all'interno della tibia destra. Mentre avrebbe dovuto essere all'esterno. Conclusione: la scena era stata alterata. Chissà se un archeologo aveva semplicemente ordinato le ossa, o se quel riposizionamento aveva un qualche significato... Guardai la fotografia al microscopio, ridussi l'ingrandimento e posizionai la luce a fibra ottica. Sul terreno intorno alle ossa si distinguevano chiaramente delle impronte. Grazie al microscopio, riuscii a individuare almeno due diverse sagome di suole. Conclusione: sul posto era presente più di una persona. Passai a determinare il sesso dello scheletro. Le arcate sopraccigliari erano ampie e sporgenti. La mandibola pronunciata. Nonostante fosse visibile solo la metà destra del bacino, l'incisura ischiatica era stretta e profonda. Conclusione: molto probabilmente lo scheletro apparteneva a un maschio. E infine l'età. L'arcata dentaria superiore sembrava relativamente completa. Quella inferiore presentava alcuni vuoti, e i denti presenti non erano perfettamente allineati. La sinfisi pubica destra, cioè una delle due porzioni ossee dove il bacino si articola frontalmente, era inclinata verso la lente. E benché la foto fosse piuttosto sgranata, la superficie della sinfisi appariva liscia e piatta. Conclusione: l'individuo era un maschio adulto di età compresa tra la giovinezza e la mezza età. Forse. Fantastico, Brennan. Un morto adulto con pessimi denti e ossa risistemate. «Adesso sì che è tutto chiaro» dissi a me stessa, imitando Ryan. L'orologio segnava l'una e quaranta. Stavo morendo di fame. Mi sfilai il camice, spensi la fibra ottica e mi lavai le mani. Arrivata sulla soglia, però, esitai. Tornai al microscopio, presi la fotografia e la nascosi sotto un'agenda nel cassetto della mia scrivania.
Alle tre su Ferris non ne sapevo più che a mezzogiorno. Ma mi sentivo molto più frustrata, perché i frammenti del cranio non avevano rivelato nulla di nuovo. Una persona può allungare le braccia solo in alcune direzioni quindi, se decide di spararsi, può colpirsi solo in fronte, alle tempie, in bocca e al petto. Non può certo farlo alla schiena o alla nuca, perché posizionare la canna dell'arma in quei punti e contemporaneamente tenere il dito sul grilletto sarebbe molto complesso. Questo è il motivo per cui la direzione della pallottola è un fattore di cui si tiene spesso conto per distinguere un suicidio da un omicidio. Quando attraversa un osso, una pallottola sposta alcune minuscole particelle dal perimetro del foro che produce, svasando internamente la ferita d'ingresso, ed esternamente la ferita d'uscita. Pallottola dentro. Pallottola fuori. Traiettoria. Tipo di decesso. Allora, qual era il problema? Avram Ferris si era sparato alla testa, oppure l'onore era toccato a qualcun altro? Il problema era che le porzioni del cranio di Ferris interessate avevano tutta l'aria di un puzzle appena rovesciato dalla sua scatola. Prima di analizzare il modo in cui le ferite erano state svasate, dovevo stabilire che cosa era entrato, e dove. Dopo ore di studio ero riuscita a individuare una lesione di forma ovale dietro l'orecchio destro di Ferris, vicino al punto di congiunzione fra le suture parietale, occipitale e temporale. A portata del braccio di Ferris? Forse... Altro problema. Il foro era svasato su entrambi i lati, quello interno e quello esterno. Per il momento però decisi di lasciar perdere il foro e di concentrarmi sulla sequenza delle fratture. Il cranio è progettato per contenere il cervello e una ridotta quantità di liquido. Tutto qui. Niente spazio per gli ospiti. Quando una pallottola penetra nella testa, innesca di norma una serie di eventi, che possono verificarsi o meno, o comparire insieme ad altri. Innanzitutto, la pallottola produce un foro. Contemporaneamente, una serie di fratture si diffonde in modo radiale sulla superficie ossea e avvolge il cranio. La pallottola penetra nel cervello creando una sorta di tunnel; per farlo, però, sposta una certa quantità di materia grigia e si apre uno spazio laddove non è previsto che ci sia. La pressione intracranica di conseguenza aumenta, il tavolato cranico si solleva e una serie di fratture si sviluppa
perpendicolarmente a quelle già presenti che si irradiano dal foro d'entrata. Se le fratture radiali e quelle di sollevamento si intersecano e pam! quella porzione del cranio si frantuma. Un altro scenario. Il cranio non si frantuma, ma la pallottola fuoriesce dalla parte opposta del cranio. Dal foro di uscita partono all'indietro numerose fratture che finiscono in quelle già irradiate dal foro d'entrata. L'energia si disperde lungo le fratture preesistenti e le fratture prodotte dal foro d'uscita non procedono oltre. Mettiamola così. Una pallottola nel cervello produce energia. Ma l'energia intrappolata all'interno deve andare da qualche parte. E come farebbe chiunque di noi, cerca la via d'uscita più comoda. In un cranio, questa è rappresentata dalle suture aperte o da fessure già esistenti. Conclusione: le fratture prodotte dall'uscita della pallottola non intersecheranno le fratture create dall'entrata. Basta analizzarle e si ottiene la sequenza delle fratture. Ma per analizzare il percorso delle fratture era necessario ricostruire il cranio. Non potevo fare altrimenti. Dovevo rimettere insieme tutti i pezzi. Ma per farlo avevo bisogno di tempo e di pazienza. E di molta colla. Presi le bacinelle di acciaio, la sabbia e la colla Elmer. Iniziai a incollare i frammenti a due a due e a tenerli fra le dita finché la colla non si era indurita. Quindi posai ogni mini-ricostruzione nella sabbia, in posizione verticale, in modo che non subisse danni o distorsioni. La radio stereo dei tecnici di laboratorio fu spenta. Le finestre si colorarono di blu. Suonò un campanello, che indicava che i telefoni erano passati al servizio notturno, privo di centralinista. Continuai a lavorare. A selezionare, analizzare, incollare, mentre intorno a me calava il silenzio, amplificato dal vuoto dell'enorme palazzo alla fine del normale orario di lavoro. Quando alzai lo sguardo, l'orologio segnava le sei e venti. Cosa c'era che non andava? Ma certo! Ryan sarebbe arrivato da me alle sette. Volai al lavandino, mi lavai le mani e, dopo essermi sfilata il camice, afferrai le mie cose e schizzai via. Fuori pioveva. Anzi, in realtà era nevischio. Una poltiglia ghiacciata che si attaccava al giaccone e mi bruciava le guance. Mi ci vollero dieci minuti solo per togliere il ghiaccio che copriva il pa-
rabrezza. E un'altra mezz'ora per compiere un tragitto che in condizioni normali non durava più di un quarto d'ora. Quando arrivai, Ryan era appoggiato al muro, accanto alla mia porta. Con una busta della spesa vicina ai piedi. Esiste un'infallibile legge di natura per cui ogni volta che devo vedere Andrew Ryan sono in pessime condizioni. Mentre Ryan ha sempre l'aria di un divo in versione casual. Quella sera indossava bomber, guanti di lana a righe e jeans scoloriti. Appena mi vide, sorrise: avevo la borsetta su una spalla, il portatile nella mano sinistra, la portadocumenti nella destra, guance screpolate, capelli bagnati e incollati al viso, mascara che colava. «Ciao, pasticcino. Una brutta giornata?» «No. Sta solo cadendo un fastidioso nevischio.» Ryan mi prese il portatile di mano e cercò di scostarmi i capelli dalla faccia. Ma intere ciocche rimasero incollate al loro posto. «Hai esagerato con il gel, per caso?» «No. Ho semplicemente passato il pomeriggio a incollare ossa.» Presi le chiavi dalla borsa. Ryan fece per commentare, ma si trattenne e mi seguì in casa. «Cip?» «Charlie!» gridò Ryan. «Cip! Cip! Cip! Cip!» «Tu e Charlie adesso vi farete un po' di compagnia» dissi. «Mentre io vado a liberarmi della colla.» «Le culottes?» «Non le ho comprate, Ryan.» Nel giro di venti minuti riuscii a fare la doccia, lavarmi, asciugarmi i capelli e mettermi anche un utile velo di trucco. Scelsi un paio di jeans di velluto rosa e un top superaderente. E due gocce di Issey Miyaki dietro le orecchie. Niente culottes, ma un tanga da urlo. Rosa polvere. Non certo l'intimo che avrebbe scelto mia madre. Ryan era in cucina. In tutta la casa aleggiava un delizioso profumo di pomodori, acciughe, aglio e origano. «Stai facendo la tua famosa puttanesca?» domandai alzandomi sulla punta dei piedi per dargli un bacio. «Wow!» Ryan mi strinse tra le braccia e mi baciò sulla bocca. Nel frattempo, colse l'occasione per scostarmi il bordo dei pantaloni e sbirciarmi il
fondoschiena. «Non sono culottes. Ma non è niente male.» Lo spinsi via con le mani. «Davvero non ti sei comprata le culottes?» «Davvero.» Comparve Birdie, ci guardò con aria di disapprovazione e caracollò alla sua ciotola. Durante la cena parlai a Ryan delle difficoltà del caso Ferris. Tra il caffè e il dessert Ryan mi aggiornò sulle sue indagini. «Ferris era un importatore di abbigliamento ebraico. Yarmulke, tallit...» Ryan equivocò la mia espressione. «Il tallit è lo scialle della preghiera.» «Sono molto colpita dalle tue conoscenze.» Ryan, come me, è di cultura cattolica. «Ho cercato sul dizionario. Perché fai quella faccia?» «Si direbbe un mercato piuttosto ristretto.» «Ferris vendeva anche alcuni accessori. Menorah. Mezuzah, candele per lo Shabbat, coppe per il Kiddush... questi però non li ho ancora cercati sul dizionario.» Ryan mi porse il piatto del dolce. Era rimasta ancora un po' di millefoglie. L'avrei voluta finire io, ma dissi di no. E la mangiò Ryan. «Ferris commerciava in Québec e Ontario. Non era un nababbo, ma non se la passava male.» «Hai parlato di nuovo con la segretaria?» «Pare che Purviance in effetti sia molto più di una semplice segretaria. Tiene i libri contabili, compila gli inventari, viaggia tra Israele e gli Stati Uniti per valutare i prodotti e i fornitori.» «Israele non è un luogo facile, di questi tempi.» «Purviance è stata in un kibbutz negli anni Ottanta, quindi sa come deve comportarsi. E poi parla inglese, francese, ebraico e arabo.» «Notevole.» «Il padre era francese, la madre tunisina. Comunque, Purviance racconta la stessa storia. Gli affari andavano bene. Nessun nemico. Le concedo un giorno di tregua per concludere con il magazzino, e poi vado a fare un'altra chiacchierata.» «Hai trovato Kessler?» Ryan andò al divano e prese un foglio dal suo giubbotto. Tornò al tavolo e me lo porse.
«Queste sono le persone autorizzate a presenziare all'autopsia.» MORDECAI FERRIS THEODORE MOSKOWITZ MYRON NEULANDER DAVID ROSENBAUM «Nessun Kessler» dissi, sottolineando l'ovvio. «Per caso hai trovato qualcuno che lo conosce?» «Parlare ai familiari è come parlare al muro. Stanno facendo aninut.» «Aninut?» «Il primo periodo del lutto.» «E quanto dura questo aninut?» «Fino alla tumulazione.» Pensai ai frammenti del cranio che prendevano forma nelle mie bacinelle d'acciaio. «Potrebbe essere una cosa lunga.» «La moglie di Ferris mi ha detto di tornare quando la famiglia termina lo shivah. Che dura una settimana. Ma io ho accennato al fatto che potrei passare prima.» «Dev'essere un incubo per quella donna.» «C'è un particolare interessante. Ferris era assicurato per due milioni di dollari, con una clausola di raddoppio in caso di morte accidentale.» «Miriam?» Ryan annuì. «Non hanno figli.» Raccontai a Ryan della mia conversazione con Jake Drum. «Non riesco proprio a immaginare perché voglia venire fin qui.» «Credi che ci verrà veramente?» Mi ero già posta la stessa domanda. «La tua esitazione mi dice che hai qualche dubbio» osservò Ryan. «Il tuo amico è poco affidabile?» «No, Jake è tutt'altro che inaffidabile. Diciamo che è una persona... diversa.» «Diversa in che senso?» «Jake è un bravissimo archeologo. Ha lavorato anche a Qumran.» Ryan mi guardò con aria interrogativa. «I Rotoli del Mar Morto. È in grado di tradurre un miliardo di lingue.» «Tra queste, anche qualcuna ancora in uso?»
Tirai un tovagliolo a Ryan. Dopo aver sparecchiato il tavolo, Ryan e io ci allungammo sul divano. E Birdie si accoccolò accanto al fuoco. Parlammo di cose personali. La figlia di Ryan a Halifax, per esempio. Lily in quel periodo usciva con un chitarrista e stava valutando se trasferirsi a Vancouver. Ryan pensava che le due cose fossero collegate. Katy. Per il dodicesimo e ultimo semestre alla University of Virginia aveva scelto di frequentare un corso di ceramica, uno di scherma e uno sulla mistica femminile nella cinematografia moderna. I suoi studi extra curriculari invece comprendevano interviste a gestori di pub. Birdie faceva le fusa. O russava. Charlie gracchiò più e più volte un verso di Hard hearted Hannah. Il fuoco crepitava e scoppiettava. La neve ghiacciata tamburellava contro le finestre. Ryan allungò il braccio dietro il divano e accese la lampada. Di colpo una calda luce ambrata avvolse le forme familiari del mio appartamento. Ryan e io ce ne stavamo avvinghiati come due ballerini di tango. Il mio tenente profumava di sapone e dei ceppi di legna che aveva portato in casa per accendere il fuoco. Mi accarezzava i capelli. Le guance. Il collo. Ero tranquilla. Appagata. Lontana mille miglia da scheletri e crani frantumati. Dopo poco ci ritirammo lasciando Birdie a guardia del fuoco. 5 Il mattino dopo Ryan uscì di buon'ora. Borbottò qualcosa riguardo a pneumatici radiali, equilibratura e cerchioni storti. Non sono una buona ascoltatrice alle sette del mattino. Men che meno sono interessata alle ruote. Al contrario, mi interessano molto le rotte aeree tra Charlotte e Montréal. Potrei recitare a memoria l'orario di tutte le compagnie aeree degli Stati Uniti. Quindi, sapendo che Jake non sarebbe arrivato prima di metà pomeriggio, mi voltai dall'altra parte e continuai a dormire. Una ciambella e un caffè verso le otto, e poi dritta in istituto. Sapevo che dovevo assentarmi per cinque giorni, e sapevo anche che la famiglia di Ferris era impaziente di avere notizie. E di riavere il corpo. Trascorsi un'altra mattinata con la colla Elmer, impegnata a unire le de-
cine di frammenti che avevo ricostruito il giorno prima. Procedevo poco alla volta, finché non riuscii ad assemblare sezioni sempre più estese della volta cranica. Per le ossa della faccia il discorso era diverso. La frantumazione era molto elevata, in parte a causa dei gatti, in parte a causa della natura fragile delle ossa stesse. Non c'era modo di ricostruire la parte sinistra del viso di Ferris. Ciò nonostante, qualcosa di significativo apparve. Anche se le linee non erano complete, era chiaro che nessuna fessura incrociava le fratture che si irradiavano a stella dal foro dietro l'orecchio destro di Ferris. Quindi, la sequenza delle fratture indicava quella lesione come il foro di entrata. Ma allora perché i margini di quel foro erano svasati sul lato esterno del cranio? Il foro di ingresso avrebbe dovuto essere svasato sul lato interno. Una spiegazione era possibile, ma per confermare la mia ipotesi mi servivano i frammenti della zona immediatamente superiore alla lesione e quelli della zona alla sinistra di essa. Che mancavano. Alle due scrissi un biglietto per LaManche, dove gli spiegavo ciò che mi mancava e gli ricordavo che mi sarei assentata da Montréal fino a mercoledì sera. Nelle due ore successive sbrigai una serie di commissioni. Banca. Lavanderia. Cibo per il gatto. Mangime per il cacatua. Ryan aveva accettato di tenere Charlie e anche Bìrdie ma aveva idee particolari riguardo alla dieta degli animali domestici. Così cercai di dare il mio contributo a un'alimentazione corretta. Jake mi chiamò mentre stavo scendendo in garage. Si trovava nell'atrio esterno. Uscii di corsa dal garage, gli aprii il portone e lo accompagnai lungo il corridoio che portava al mio appartamento. Mentre camminavamo, ricordai la prima volta che avevo visto Jake Drum. Ero appena arrivata alla University of North Carolina, e conoscevo pochissime persone al di fuori della mia facoltà. E nessuno del dipartimento di studi religiosi. Jake comparve nel mio laboratorio una sera, in un periodo in cui le molte aggressioni alle studentesse avevano costretto le autorità accademiche a trasmettere annunci per la sicurezza in tutto il campus. Ero tesa come un topo che ha di fronte un pitone denutrito. Ma le mie paure erano immotivate. Jake aveva per me una domanda sulla conservazione delle ossa. «Vuoi un tè?» gli domandai, appena entrati in casa.
«Certo che sì. In aereo mi hanno dato pretzel e gassosa.» «Le tazze sono dietro di te.» Osservai Jake prendere le tazze. Ha il naso sottile e sporgente, le sue sopracciglia folte e diritte sovrastano due occhi nerissimi alla Rasputin. È alto più di un metro e novanta, pesa ottantacinque chili, e porta i capelli rasati. Eventuali testimoni avrebbero ricordato Jake con grande facilità. Ma quel giorno chi l'aveva incrociato sul marciapiede probabilmente aveva fatto il giro largo. La sua agitazione era palpabile. Chiacchierammo del più e del meno aspettando che l'acqua bollisse. Jake aveva prenotato un piccolo albergo sulla sinistra del campus della McGill University e aveva preso un'auto a noleggio per recarsi a Toronto, il mattino dopo. Lunedì doveva partire per Gerusalemme, dove insieme ai suoi collaboratori israeliani avrebbe effettuato scavi in una sinagoga del I secolo. Jake mi invitò ancora una volta a tornare a scavare. Io come sempre ringraziai e declinai dicendomi dispiaciuta. Quando il tè fu pronto, Jake si sedette al tavolo del soggiorno. Io presi una lente di ingrandimento e la foto di Kessler e le posai di fronte a lui. Jake osservò la foto come se non ne avesse mai vista una. Poi prese la lente. Mentre esaminava la stampa, i suoi movimenti si fecero sempre più misurati. In un certo senso Jake e io siamo molto simili. Quando qualcosa mi infastidisce, divento sgarbata, scatto per un nonnulla e rispondo con sarcasmo. Quando sono arrabbiata, anzi, quando sono infuriata, divento terribilmente calma. Lo stesso capita a Jake. Lo so perché l'ho sentito discutere durante i consigli di facoltà. Quella facciata di gelo è anche la mia risposta alla paura. E iniziai a temere che fosse la stessa cosa per Jake. Di fronte al suo nuovo atteggiamento, sentii un brivido gelido attraversarmi il corpo. «Cosa c'è?» gli domandai. Jake sollevò la testa e guardò nel vuoto, perso - immaginai - in un ricordo di scavi e di terra smossa. Poi tamburellò sulla foto con una delle sue lunghe dita. Non fosse stato per le molte callosità, le mani di Jake potevano essere quelle di un pianista, pensai. «Hai parlato con l'uomo che ti ha dato questa foto?»
«Solo brevemente. Stiamo cercando di localizzarlo.» «Che cosa ti ha detto esattamente?» Esitai, riflettendo su ciò che la deontologia professionale mi consentiva di rivelare. La morte di Ferris era arrivata ai mezzi di informazione. E Kessler non mi aveva chiesto di mantenere il segreto. Gli raccontai dello sparo, dell'autopsia e dell'uomo che aveva detto di chiamarsi Kessler. «Pare che la foto sia stata scattata in Israele.» «È così» confermò Jake. «È un'intuizione?» «No. È un fatto.» Corrugai la fronte. «Come fai a esserne così sicuro?» Jake si appoggiò alla sedia. «Che cosa sai di Masada?» «È una montagna in Israele dove morì un sacco di gente.» Le labbra di Jake accennarono a una sorta di sorriso. «Cerchi di ampliare il concetto, signorina Brennan.» Frugai nella memoria. «Nel I secolo a.C...» «Attenzione: politicamente scorretto. Adesso si dice prima dell'Era Comune.» «... la zona compresa tra la Siria e l'Egitto, anticamente nota come la terra di Israele, e che i romani chiamavano Palestina, passò sotto la dominazione romana. Inutile dire che i giudei erano incazzati. Il secolo successivo vide una serie di ribellioni mirate a cacciare quei bastardi di romani, ma furono tutte un fallimento.» «Raccontata in questo modo non l'avevo mai sentita. Vai avanti...» «Verso il 66 d.C, scusa, E.C., nella regione scoppiò l'ennesima rivolta. Questa volta i romani se la fecero sotto e l'imperatore ricorse all'esercito per reprimere gli insorti.» Cercai di riportare alla memoria qualche data. «Dopo quattro anni, il generale romano Vespasiano conquistò Gerusalemme, saccheggiò il tempio ed espulse i sopravvissuti.» «E Masada?» «Masada è un masso gigantesco nel deserto della Giudea. All'inizio della guerra un gruppo di zeloti si arrampicò fino alla cima e lì si asserragliò. Il governatore romano... il nome proprio non lo ricordo.» «Flavio Silva.» «Proprio lui. Di questo fatto Silva non era per nulla contento. Masada
era una sacca di resistenza che non poteva tollerare. Silva allestì alcuni accampamenti lungo il perimetro, circondò la base della montagna con un muro e infine costruì un'enorme rampa che portava alla cima. Quando le truppe riuscirono a trascinare un ariete sul pendio e a penetrare nella fortezza, trovarono solo morti.» Non citai le mie fonti, ma io sapevo benissimo che dovevo tutti i miei ricordi a uno sceneggiato degli anni Ottanta su Masada. Con Peter O'Toole nei panni di Silva. Se non sbaglio... «Ottimo. Anche se il tuo racconto è un po' carente in termini di proporzioni. Silva non si limitò a spostare qualche plotone a Masada, ma organizzò un'operazione militare in grande stile, cui parteciparono l'intera Decima Legione, le truppe ausiliarie e migliaia di giudei prigionieri di guerra. Silva non intendeva mollare finché non avesse catturato tutti i ribelli.» «Chi comandava nella fortezza?» «Eleazar ben Ya'ir. Altrimenti noto come Eleazaro. I giudei erano lassù da sette anni ed erano determinati a rimanerci, tanto quanto Silva era determinato a tirarli giù.» Altri sceneggiati mi tornarono alla memoria. Decine di anni prima, Erode era impegnato nell'ampliamento di Masada, e aveva ordinato la costruzione di un muro di cinta intorno alla cima, con torri difensive, magazzini, baracche, arsenali, e un sistema di cisterne per raccogliere e conservare l'acqua piovana. Settant'anni dopo la morte del vecchio re, i magazzini erano ancora pieni di scorte, e gli zeloti avevano tutto ciò di cui avevano bisogno. «La principale fonte riguardo a Masada sono gli scritti di Giuseppe Flavio» proseguì Jake. «Joseph ben Matatyahu in ebraico. All'inizio della rivolta del 66, Flavio Giuseppe era un comandante giudeo in Galilea. In seguito passò dalla parte dei romani. Ma a prescindere dalla sua lealtà militare, il nostro era un ottimo storico.» «Nonché unico cronista in città, all'epoca.» «Giusto. Le descrizioni di Flavio Giuseppe sono straordinariamente dettagliate. Secondo ciò che scrive, la notte in cui la fortezza fu presa Eleazaro radunò i suoi seguaci.» Jake si sporse in avanti. «Immagina la scena. Il muro era in fiamme. I romani sarebbero entrati all'alba. Non c'era nessuna possibilità di fuggire. Eleazaro doveva aver argomentato che una morte gloriosa era da preferirsi a una vita in schiavitù. Così tirarono a sorte e dieci uomini furono candidati per uccidere tutti gli altri. Tirarono di nuovo a sorte e scelsero chi tra quei dieci avrebbe ucciso i compagni e infine se
stesso.» «Nessun contrario?» «No. Ma se anche ci fosse stato, del suo parere non si sarebbe tenuto conto. Due donne e alcuni bambini però riuscirono a nascondersi. E gran parte delle informazioni di Giuseppe Flavio vengono da loro.» «Quante persone morirono?» «Novecentosessanta tra uomini, donne e bambini» disse Jake sottovoce. «Gli ebrei considerano Masada una delle pagine più drammatiche della loro storia. Soprattutto gli ebrei di Israele.» «Che cosa c'entra Masada con la foto di Kessler?» «Il destino dei resti di quegli zeloti è rimasto un mistero. Secondo Giuseppe Flavio, Silva stanziò una guarnigione sulla cima della montagna subito dopo la conquista di Masada.» «Di certo a Masada sono stati condotti scavi.» «Per anni, a tutti gli archeologi del pianeta che ne hanno fatto richiesta è stato negato il permesso. Finché un archeologo israeliano chiamato Yadin riuscì a ottenere carta bianca. Yadin lavorò in due diversi periodi con un gruppo di volontari. Il primo periodo fu dall'ottobre del '63 al maggio del '64. Il secondo dal novembre del '64 all'aprile del '65.» Iniziai a capire dove Jake stava andando a parare. «La squadra di Yadin recuperò restì umani?» «Tre scheletri. Sulla terrazza inferiore della villa di Erode.» «Una villa?» «Le rivolte che scoppiavano periodicamente non permettevano al nostro di dormire sonni tranquilli. Così, Erode aveva fatto fortificare Masada per costruirsi una sorta di covo dove rifugiarsi nel caso in cui lui e la sua famiglia avessero dovuto fuggire. E di certo non era tipo da rinunciare alle comodità. Oltre alla cinta di mura e alle torri, infatti, ordinò la costruzione di palazzi completi di colonne, mosaici, affreschi, terrazze, giardini...» Indicai la foto. «E questo è uno dei tre scheletri?» Jake scosse la testa. «Secondo Yadin, uno era lo scheletro di un uomo sui vent'anni. Non lontano furono ritrovate le ossa di una ragazza, con i sandali e il cuoio capelluto perfettamente conservati. Non sto scherzando. Ho visto le fotografie. Sembrava che la donna si fosse fatta le trecce la mattina in cui l'hanno dissotterrata.» «L'aridità è un grande aiuto per la conservazione.» «Già. Anche se i resti non erano esattamente così come Yadin li ha interpretati.»
«In che senso?» «Non importa. Secondo Yadin, il terzo scheletro apparteneva a un bambino.» «E che mi dici di questo tizio?» Indicai di nuovo la fotografia che mi aveva dato Kessler. «Questo tizio.» Jake serrò le mascelle. Le rilassò. «Questo tizio non doveva affatto essere lassù.» 6 «In che senso non doveva essere lassù?» «È una mia teoria.» «Condivisa da qualcuno?» «Sì.» «E chi sarebbe, allora?» «Il problema è questo.» Mi appoggiai alla sedia e mi disposi all'ascolto. «Dopo la vittoria, le truppe di Flavio Silva avrebbero dovuto gettare i cadaveri degli zeloti oltre la rupe, o seppellirli sulla montagna in una fossa comune. La squadra di Yadin aveva scavato alcune trincee campione, senza però trovare alcuna prova di una sepoltura di massa. Aspetta un secondo...» Jake aprì la sua consunta cartella di cuoio e ne tirò fuori due fogli, che posò sul tavolo davanti a me. Il primo era una cartina piuttosto schematica. Avvicinai la sedia al bordo del tavolo e ci chinammo insieme sul foglio. «Masada ha la forma di un bombardiere, con un'ala che punta a nord, l'altra a sud, e la cabina di pilotaggio rivolta a ovest.» A me venne in mente solo il test di Rorschach, e pensai a un'ameba. Ma non lo dissi. Jake indicò la sommità del monte, vicino alla punta dell'ala sud del suo bombardiere. «In questo punto, qualche metro sotto la cinta difensiva, c"è una serie di grotte.» Jake prese il secondo foglio da sotto la cartina. Una vecchia fotografia in bianco e nero. Ossa umane. Terra calpestata da stivali. Un déjà vu della foto di Kessler. Anche se non era esattamente identica.
In questa immagine comparivano le ossa di molte persone, sparpagliate alla rinfusa. Inoltre, c'era una freccia puntata verso nord e un indicatore di scala ufficiale, e nell'angolo in alto a destra si vedevano un ginocchio e un braccio accanto a una scavatrice che smuoveva la terra. «In una delle grotte sulla cima di Masada la squadra di Yadin trovò resti di scheletri» indovinai, senza distogliere lo sguardo dalla foto. «E questa fotografia è stata scattata durante gli scavi.» «Proprio così.» Jake indicò un punto sulla cartina di Masada. «Il sito fu chiamato Grotta 2001. Yadin ne parla nel suo rapporto preliminare sul progetto Masada, e acclude una breve descrizione di Yoram Tsafrir, il supervisore addetto agli scavi di quel sito.» «Numero minimo di individui nella grotta?» domandai, contando almeno cinque crani. «Dipende come si interpreta Yadin.» Lo guardai, sorpresa. «Non dovrebbe essere complicato stabilirlo. Qualche antropologo fisico riuscì a esaminare quelle ossa?» «Il dottor Nicu Haas dell'Università ebraica. Sulla base della sua valutazione, Yadin indicò nel suo primo rapporto un totale di venticinque individui: quattordici maschi, sei femmine, quattro bambini e un feto. Ma, se leggi attentamente le sue parole, scoprirai che Yadin considerò separatamente un maschio molto anziano.» «Quindi il numero minimo di individui in realtà corrisponde a ventisei.» «Esattamente. Nel suo famoso libro...» «Quello pubblicato nel '66?» «Sì. Masada: la fortezza di Erode e l'ultima difesa degli Zeloti. In quella pubblicazione, Yadin ripete praticamente la stessa cosa, e cioè che Haas trovò quattordici maschi di età compresa fra i ventidue e i sessant'anni, un maschio ultrasettantenne, sei femmine, quattro bambini e un embrione.» «Quindi non è chiaro se il conteggio totale sia venticinque o ventisei, giusto?» «Sei perspicace.» «Grazie. E non potrebbe essere un semplice errore?» «Potrebbe.» La voce di Jake però suggeriva il contrario. «Età di donne e bambini?» «I piccoli, tra gli otto e i dodici anni. Le donne erano tutte giovani, tra i quindici e i ventidue.» Intuizione improvvisa. «Pensi che il nostro amico sia l'ultrasettantenne?» domandai indicando la foto di Kessler.
«Tra un attimo arrivo anche a lui. Per il momento, ti parlo ancora della grotta. Nei loro rapporti conseguenti agli scavi, né Tsafrir né Yadin indicarono quando fu scoperta la Grotta 2001, e neppure quando fu svuotata.» «Potrebbe essere una svista...» Jake mi interruppe. «Il ritrovamento non fu mai comunicato ai media.» «Forse decisero di fare così per rispetto a tutti quei morti.» «Quando ritrovò i tre scheletri del palazzo principale, Yadin convocò subito una conferenza stampa.» Jake agitò le mani, tenendo le dita come E.T. «Hai presente, no? Grande euforia. Ritrovati i resti degli ebrei che difesero Masada... Tutto questo succedeva nel novembre del '63. La Grotta 2001 fu scoperta e svuotata nell'ottobre del '63, quindi un mese prima di quella conferenza stampa.» Jake puntò l'indice sulla foto di Kessler. «Yadin sapeva delle ossa trovate nella grotta e non ne parlò mai pubblicamente.» «Ma se i dati relativi a quelle ossa non sono mai stati pubblicizzati, come mai tu sai che la grotta fu oggetto di scavi e quando?» «Perché ho parlato con un volontario che lavorava in quel sito. Una persona fidata, che non avrebbe avuto ragione di mentire. E poi ho fatto qualche ricerca su diversi giornali, giungendo alla conclusione che non si trattò solo di quella conferenza stampa. Nel corso di entrambi i periodi di scavo, i media riferirono regolarmente di tutto ciò che veniva ritrovato a Masada. Il "Jerusalem Post" tiene archivi dei vari argomenti e ho trascorso ore e ore a esaminare il dossier relativo a Masada. Gli articoli parlano di mosaici, di rotoli, della sinagoga, delle mikveh, dei tre scheletri del palazzo. Ma non c'è una sola parola sui resti della Grotta 2001.» Jake sembrava non volersi più fermare. «E non parlo solo del "Post". Nell'ottobre del 1964, "The Illustrated London News" pubblicò un servizio molto esauriente su Masada, con tanto di fotografie, dove venivano citati gli scheletri del palazzo, ma non c'era neanche una virgola sulle ossa della grotta.» Charlie scelse quel momento per lanciare uno dei suoi fischi. «Cosa diavolo è stato?» «Il mio cacatua. In genere non lo fa, a meno che qualcuno non gli dia un po' di birra.» «Stai scherzando, vero?» Jake sembrava sconcertato. «Ma certo.» Mi alzai e presi le nostre tazze. «Quando beve, Charlie di-
venta sentimentale. Altro tè?» Jake sorrise e annuì. «Sì, grazie.» Quando tornai, Jake si stava massaggiando il collo. «Fammi capire bene» dissi. «Yadin citava liberamente gli scheletri del palazzo, ma non ha mai parlato pubblicamente delle ossa trovate nella grotta, giusto?» «L'unico accenno alla Grotta 2001 che ho trovato sulla stampa si riferisce alla conferenza di Yadin che seguì il secondo periodo di scavi. Sul "Jerusalem Post" del 28 marzo 1965 Yadin dichiara che a Masada erano stati rinvenuti solo ventotto scheletri.» «Venticinque nella grotta e tre nel palazzo di Erode.» «Sì, ammesso che fossero venticinque.» Riflettei sulla frase di Jake. «Secondo Yadin, a chi potevano appartenere gli scheletri della grotta?» «A zeloti ebrei.» «Su che base?» «Due elementi. I manufatti associati e la somiglianza di quei crani a un tipo dissotterrato nelle grotte di Bas Kochba a Nahal Hever. Ai tempi si riteneva che quei resti appartenessero a un gruppo di ebrei uccisi durante la seconda rivolta degli ebrei contro Roma.» «E lo erano?» «Oggi è stato stabilito che quelle ossa erano del Calcolitico.» Rapida consultazione del mio archivio mentale. Calcolitico. Altrimenti detto Età del Rame. Utensili di pietra e di rame. Quarto millennio prima dell'E.C, dopo il Neolitico, prima dell'Età del Bronzo. Quindi troppo presto per Masada. «Gli antropologi fisici non hanno molta dimestichezza con le varie tipologie di crani» osservai. «Lo so. Ma quella fu la conclusione di Haas, e Yadin l'accettò.» Seguì un lungo silenzio. Che toccò a me rompere. «Adesso le ossa dove sono?» «Presumibilmente sono tutte tornate al loro posto, nella terra di Masada.» «Presumibilmente?» La tazza di Jake urtò il piano del tavolo. «Facciamo un passo indietro. Nel suo famoso libro, Yadin fece solo un accenno ai resti umani rinvenuti a Masada. Shlomo Lorinez, un membro ultra-ortodosso della Knesset, lesse il libro e sollevò un putiferio. Proba-
bilmente si era perso quell'unica conferenza stampa in cui avevano parlato di quegli scheletri. Lorinez protestò di fronte alla Knesset, sostenendo che i cinici antropologi e i medici ricercatori stavano violando la legge ebraica, e chiedendo di sapere dove fossero quei resti, al fine di poter dare degna sepoltura ai difensori di Masada. «L'opinione pubblica si divise. Il ministero per gli Affari religiosi e i rabbini capo proposero di sistemare tutte le ossa di Masada in un cimitero ebraico sul monte degli Ulivi. Yadin non si trovò d'accordo e suggerì la sepoltura dei tre scheletri del palazzo di Erode a Masada, e di quelli della Grotta 2001 nello stesso luogo in cui erano stati rinvenuti. La proposta di Yadin ebbe la meglio, e nel luglio del 1969 tutti i resti tornarono nel terreno ai piedi della rampa romana.» Trovavo l'intera questione molto confusa. Perché Yadin si sarebbe opposto alla risepoltura delle ossa trovate nella grotta sul monte degli Ulivi? E perché aveva suggerito di riportare gli scheletri del palazzo a Masada ma di rimettere le altre ossa nella grotta? Lo scopo era forse quello di tenere gli scheletri della grotta lontano dalla terra consacrata? Oppure non gli piaceva l'idea che gli abitanti della grotta e quelli del palazzo condividessero la stessa tomba? Charlie interruppe il filo dei miei pensieri con un verso della canzone Hey, big spender. «Insieme alle ossa furono rinvenuti altri reperti?» «Molti utensili domestici. Pentole per cucinare, lampade, cesti...» «Dal che si potrebbe dedurre che le grotte erano abitate.» Jake annuì. «Da chi?» «C'era la guerra. Gerusalemme era poco sicura. Su quella montagna potevano aver cercato rifugio ogni genere di profughi. Quindi anche qualcuno che non faceva parte della comunità degli zeloti.» «In altre parole, in quella grotta potevano esserci anche dei non ebrei.» Jake annuì. «E non era certo una notizia che Israele avesse voglia di pubblicizzare.» «Per niente. Masada era diventata un simbolo sacro. L'estrema resistenza, il suicidio invece della resa. Quel sito era una metafora del nuovo Stato. Sino a poco tempo fa, sulla cima di Masada l'esercito israeliano teneva cerimonie speciali per arruolare i nuovi effettivi nei corpi speciali.» «Caspita.» «Secondo Tsafrir, le (ossa della grotta erano in disordine, e inframmez-
zate da strati di tessuto, come se i corpi fossero stati gettati là dentro alla rinfusa» continuò Jake. «E questa modalità non appartiene di certo ai riti della sepoltura ebraica.» Birdie scelse quel momento per saltarmi in grembo. Procedetti alle presentazioni. Jake gli grattò la testa, e riprese il suo racconto. «A oggi, la Israel Exploration Society ha pubblicato cinque volumi sugli scavi di Masada. Il terzo volume riporta che le grotte erano state esaminate e scavate ma, a parte questo, e a una cartina con un disegno sommario della Grotta 2001, da nessuna parte viene menzionato alcun ritrovamento relativo a quella grotta, né umano, né materiale.» Jake si appoggiò alla sedia e prese la sua tazza. Ma subito la riposò sul tavolo. «Aspetta» mi disse. «Cancella l'ultima frase. In realtà il quarto volume ha un'appendice. Con i risultati di una datazione al carbonio 14 eseguita sulle fibre tessili ritrovate nella grotta. Il test venne eseguito anni dopo. E questo è tutto.» Spostai Birdie sul pavimento, e sfilai la foto di Kessler da sotto la cartina di Jake. «Insomma, che cosa c'entra il tizio di questa foto?» «È proprio questa la cosa più strana. La Grotta 2001 conteneva i resti di uno scheletro completo e intatto, separato dalle altre ossa. L'individuo era in posizione supina, con le mani incrociate e la testa voltata di lato.» Jake mi guardò negli occhi. «Ma questo scheletro così particolare non viene citato da nessuna parte.» «Presumo che tu sia venuto a conoscenza di questo scheletro dal volontario che aveva lavorato nella grotta negli anni Sessanta...» Jake annuì. «A questo punto mi dirai che lo scheletro intatto non fu risepolto insieme agli altri.» «Esatto.» Jake finì il tè. «Gli articoli che si riferiscono alla risepoltura parlano sempre di ventisette individui, tre del palazzo di Erode e ventiquattro della grotta.» «Quindi né venticinque, né ventisei. Forse avevano tralasciato il feto.» «Sono convinto che evitarono di parlare del feto e anche dello scheletro completo.» «Fammi capire. Stai dicendo che da un volontario addetto agli scavi, quindi un testimone oculare, sei venuto a sapere che lui e Tsafrir recupera-
rono uno scheletro intatto e completo nella Grotta 2001. Ma che questo scheletro non venne mai nominato dalla stampa, né da Yadin nei suoi rapporti ufficiali, e neppure nei suoi libri.» Jake annuì. «E pensi che quello scheletro non fu risepolto con gli altri scheletri della grotta e quelli del palazzo di Erode?» Jake annuì ancora. Indicai la foto di Kessler. «Questo volontario per caso ricorda se qualcuno scattò delle foto?» «Certo. Le scattò lui stesso.» «Hey, big spender...» Charlie ci ricordò la sua presenza. «Chi ha custodito i resti durante i cinque anni prima della risepoltura?» domandai. «Il dottor Haas.» «Pubblicò qualcosa in merito?» «Niente. E Haas invece aveva l'abitudine di redigere rapporti molto esaurienti, completi di disegni, tabelle, misurazioni, perfino ricostruzioni facciali. La sua analisi dei resti della necropoli di Giv'at ha-Mivtar è incredibilmente dettagliata.» «È ancora vivo?» «Andò in coma nel 1975 in seguito a una brutta caduta, e morì nel 1987 senza mai riprendere conoscenza. Quindi senza più scrivere nulla.» «Perciò Haas non ci aiuterà a risolvere i dubbi sul conteggio dei corpi, né a chiarire il mistero dello scheletro intatto?» «No. A meno che non si voglia organizzare una seduta spiritica.» «Hey, big sp...» Lungo fischio di approvazione. «Voglio farti una domanda.» Jake cambiò argomento. «Tu sei Yadin. E trovi queste strane ossa nella grotta. Qual è la prima cosa che fai?» «Oggi?» «No. Negli anni Sessanta.» «Avevo ancora i denti da latte.» «Dai, segui il mio ragionamento.» «Datazione al carbonio 14. Per stabilire l'antichità dei reperti.» «Metti in conto anche questo: nei suoi sproloqui davanti alla Knesset, Lorinez insiste che alcuni scheletri di Masada sono stati portati all'estero.» «Lorinez era il parlamentare ultra-ortodosso che spingeva per la risepoltura, giusto?» «Sì. E quel che diceva Lorinez era fondato. Altrimenti perché Yadin non
avrebbe richiesto la datazione al carbonio 14 sui resti della grotta?» «Quindi tu pensi che Lorinez avesse ragione» conclusi. «Esatto. Ma secondo Yadin, nessuno scheletro di Masada lasciò mai il Paese.» «Perché no?» «Ho letto che Yadin in un'intervista sul "Post" dichiarò che non era compito suo richiedere quel test. E nello stesso articolo, un antropologo attribuì la mancata richiesta ai costi elevati.» «Ma la datazione al carbonio 14 non è così costosa. Anche all'inizio degli anni Ottanta, il test costava circa centocinquanta dollari a campione. Data l'importanza del sito, è comunque molto strano che Yadin non avesse richiesto quel test.» «Ma ancora più strano è che il dottor Haas non avesse scritto il suo rapporto sulle ossa della grotta» disse Jake. Riflettei per qualche istante. Poi: «Sospetti che gli scheletri della grotta non appartenessero al gruppo degli zeloti?». «Proprio così.» Raccolsi dal tavolo la foto di Kessler. «E che questo sia lo scheletro completo di cui non è mai stata rivelata la presenza?» «Precisamente.» «Credi che questo scheletro sia stato portato fuori da Israele, e quindi non risepolto insieme agli altri?» «Sì.» «E perché sarebbe successo?» «Domanda da un milione di dollari.» «E adesso questo scheletro dove sarebbe?» «Questa, dottoressa Brennan, è una domanda da due milioni di dollari.» 7 Ogni anno una sventurata e tranquilla città viene gettata nel caos dalla American Academy of Forensic Sciences. Per una settimana ingegneri, psichiatri, dentisti, avvocati, patologi, antropologi e una miriade di tecnici la affollano come tarme su un tappeto arrotolato. Quella volta toccò a New Orleans. Da lunedì a mercoledì il tempo è dedicato a comitati, consigli e riunioni di lavoro. Il giovedì e il venerdì le sessioni scientifiche offrono spunti di ri-
flessione su tecniche e teorie d'avanguardia. Da neolaureata, o da consulente in erba, partecipavo a quelle presentazioni con lo zelo di un fanatico religioso. Oggi preferisco incontrare i vecchi amici in occasioni informali. In entrambi i casi, il convegno è estenuante. In parte anche per colpa mia. Perché partecipo a troppi gruppi di lavoro. In altre parole: non mi oppongo con sufficiente convinzione all'arruolamento coatto. Passai la domenica a lavorare insieme al collega con cui stavo scrivendo un artìcolo da pubblicare sul «Journal of Forensic Sciences». I successivi tre giorni trascorsero in una confusione di ordini del giorno, votazioni, rémoulade e abbondanti bevute: Hurricane per i miei colleghi in pace con l'alcol, Perrier per me. Le conversazioni vertevano su due argomenti principali: bravate del passato e casi curiosi. In cima alla classifica del bizzarro e dello sconcertante quell'anno c'erano calcoli biliari scheletrizzati grossi come nocciole, un suicidio in carcere con filo del telefono e un poliziotto sonnambulo con una pallottola della sua stessa pistola nel cervello. Io contribuii con la descrizione del caso Ferris. E le opinioni sulla strana svasatura del foro d'ingresso furono alquanto varie. I più concordavano con lo scenario da me prospettato. I miei impegni non mi permisero di fermarmi per le sessioni scientìfiche. E quando il mercoledì sera arrivai in taxi all'aeroporto di New Orleans ero distrutta. Ma... Guasto meccanico. Quaranta minuti di ritardo. Benvenuti nel magico mondo dei collegamenti aerei americani. Arrivi al check-in un minuto dopo e il tuo volo è partito. Arrivi un'ora prima e il tuo volo è in ritardo. Problemi meccanici, problemi di equipaggio, problemi meteorologici, problemi, problemi, problemi. Ormai li conosco tutti. Un'ora dopo avevo terminato di inserire nel mio portatile i verbali dei vari comitati. Intanto il mio volo delle 17.40 era stato spostato alle 20.00. Addio alla coincidenza per Chicago. Frustrata, mi trascinai al banco della compagnia aerea, mi misi in fila e ottenni un nuovo biglietto. La buona notizia era che sarei arrivata a Montréal in serata. Quella cattiva, che sarei atterrata intorno a mezzanotte. E che strada facendo avrei fatto scalo a Detroit. Infuriarsi serve a poco in queste situazioni, a parte alzare la pressione. Nella libreria dell'aeroporto mi trovai di fronte a milioni di copie dei
best-seller del momento. Ne presi uno quasi a caso. Il risvolto della copertina annunciava un mistero che avrebbe rivelato «un'esplosiva e antica verità...». Come Masada? Perché no? Pareva che tutto il mondo stesse leggendo lo stesso genere di cose. Senza quasi accorgermene, arrivai al capitolo 40. D'accordo, erano brevi. Ma la storia era avvincente. Chissà cosa pensavano del libro Jake e i suoi colleghi? Giovedì mattina il suono della sveglia giunse gradito come una congiuntivite. E quasi altrettanto doloroso. Quando arrivai al dodicesimo piano dell'Édifice Wilfrid-Derome, mi precipitai direttamente alla riunione del personale. Solo due autopsie. Una toccò a Pelletier, l'altra a Santangelo. LaManche mi informò che, come indicato dal mio messaggio, aveva chiesto a Lisa di ricontrollare la testa di Avram. Il nostro tecnico aveva recuperato altri frammenti e li aveva mandati su da noi. Mi domandò quando prevedevo di concludere il mio esame. Io stimai di poter finire nel primo pomeriggio. Eccole. Sette schegge ossee mi aspettavano nel mio laboratorio, accanto al lavandino. Il loro numero di LSJML corrispondeva a quello del cadavere di Ferris. Mi infilai il camice, ascoltai i messaggi della segreteria telefonica, risposi a due chiamate. Poi andai alle vaschette con la sabbia e iniziai a inserire i nuovi frammenti nelle porzioni di cranio già ricostruite. Due appartenevano all'osso parietale. Uno si inserì in quello occipitale. Uno era un frammento isolato. Tre completavano il margine della lesione ovale. Era sufficiente. Avevo la mia risposta. Mentre mi lavavo le mani, il cellulare trillò. Era Jake Drum. Linea disturbatissima. «Ciao, Jake. Mi stai chiamando da Plutone?» «Non c'è campo...» La linea gracchiò. «... perché Plutone è stato declassato da pianeta a...» A che cosa? A luna? «Sei in Israele?» «Parigi. ...mbiato piani. ... Musée de l'Homme.»
Ascoltai una lunga scarica transoceanica di crepitìi e sfrigolìi. «Mi chiami da un cellulare?» «...vato un numero di acquisizione... scomparso dagli ... Settanta.» «Jake? Richiamami da un telefono fisso. Non riesco praticamente a sentirti.» A quanto pareva, neppure Jake ci riusciva. «...tinuo a cercare. ...amo da un telefono fisso.» Sentii un bip e la comunicazione si interruppe. Jake era andato a Parigi. Perché? Al Musée de l'Homme. Perché? Illuminazione. Presi la foto di Kessler, la misi sotto il microscopio e osservai la scritta sul retro ingrandita. OTTOBRE 1963. H DE 1 H. Quello che inizialmente mi era sembrato un 1, in realtà era la lettera L minuscola. E la prima H era una M malfatta. M de l'H. Musée de l'Homme. Jake doveva aver riconosciuto l'abbreviazione ed era andato a Parigi, dove aveva scoperto un numero di acquisizione dello scheletro di Masada. LaManche indossava scarpe di cuoio e teneva sempre le tasche vuote. Niente monete. Niente chiavi. Niente rumore di passi. Niente tintinnii. E nonostante la sua corporatura riusciva a muoversi in modo incredibilmente silenzioso. La mia mente stava formulando la domanda successiva, quando il mio naso percepì un aroma di Flying Dutchman. Mi voltai. LaManche era entrato in laboratorio e si era fermato alle mie spalle. «Pronta?» «Pronta.» Mi sedetti alla scrivania insieme al mio capo, e posai fra di noi la mia ricostruzione. «Tralascio le cose ovvie.» LaManche mi sorrise indulgente. E io mi morsi la lingua. Presi la porzione di osso che formava la parte posteriore destra del cranio di Ferris e indicai un punto con la penna. «Lesione ovale con fratture raggiate.» Indicai la ragnatela di fessure che intersecavano quella porzione e altre due. «Fratture concentriche sollevate.»
«Quindi il foro di ingresso si trova dietro e sotto l'orecchio destro?» LaManche non alzò gli occhi dal segmento. «Sì. Però la faccenda è più complicata.» «La svasatura» disse LaManche andando subito al punto. «Esatto.» Tornai al primo segmento e indicai la svasatura esterna adiacente la lesione ovale. «Se la canna della pistola si trova a stretto contatto con il cranio, la svasatura esterna può essere prodotta dal ritorno di fiamma dei gas» osservò LaManche. «Non credo che sia questo il caso. Osservi la forma della lesione.» LaManche si avvicinò alle ossa. «Un proiettile che penetra perpendicolarmente la superficie del cranio in genere produce una lesione circolare» dissi. «Uno che invece penetra tangenzialmente, produce una perforazione irregolare, spesso di forma ovoidale.» «Mais oui. Lesione a buco di serratura.» «Esattamente. Ma una porzione del proiettile in realtà si è staccata e si è persa al di fuori del cranio. Ecco il motivo di quella svasatura esterna.» LaManche mi guardò. «Quindi la pallottola è entrata sotto l'orecchio destro ed è uscita dalla guancia sinistra.» «Sì.» LaManche rifletté per qualche secondo. «Nei casi di suicidio, è una traiettoria poco usuale, ma possibile. Monsieur Ferris era destrorso.» «C'è dell'altro. Osservi meglio.» Passai a LaManche una lente di ingrandimento. Lui la sollevò e l'abbassò sulla lesione ovale. «Il margine arrotondato sembra scanalato.» LaManche studiò la lesione ovale per altri trenta secondi. «Come se un cerchio fosse sovrapposto all'ovale.» «Oppure il contrario. Il bordo della lesione circolare è pulito sulla superficie esterna del cranio. Ma controlli all'interno.» LaManche rovesciò il segmento. «Svasatura interna.» LaManche capì subito. «È un doppio foro di entrata.» Annuii. «Il primo proiettile ha colpito il cranio di Ferris direttamente. Come da manuale: bordo esterno pulito, bordo interno svasato. Il secondo
ha colpito nello stesso punto, ma con una traiettoria inclinata.» «Producendo una lesione a buco di serratura.» Annuii ancora. «La testa di Ferris si è mossa, oppure la mano di chi ha sparato ha avuto un tremito.» Stanchezza? Tristezza? Rassegnazione? LaManche si appoggiò alla sedia mentre io lo mettevo a parte della mia conclusione. «Avram Ferris è stato ucciso con due colpi di pistola dietro la testa. Come una vera esecuzione.» Quella sera Ryan venne da me e cucinò. Salmone, asparagi, e ciò che noi meridionali della cara Dixieland chiamiamo purea di patate. Ryan fece arrostire in forno le patate, le sbucciò, le schiacciò con la forchetta e infine le condì con cipolline fresche e olio di oliva. Lo guardai ammirata. Dicono che io sia una persona intuitiva. Intelligente, anche. Ma quando si tratta di cucinare, ho l'acume di un girino. Anche dopo aver riflettuto un'eternità, non sarei mai capace di cucinare la purea di patate senza bollire le patate. Birdie apprezzò immensamente la cucina di Ryan, e passò la serata mendicando bocconcini. Poi si sistemò accanto al caminetto e dalle sue fusa intuii che la sua vita di felino in quel momento non poteva essere migliore. Durante la cena, comunicai a Ryan le mie conclusioni riguardo alla causa della morte di Ferris. Lui ne era già al corrente, e infatti adesso stava ufficialmente indagando per omicidio. «L'arma è una Jericho calibro 9» mi comunicò. «Dov'era?» «In un angolo del ripostiglio, sotto una scatola di cartone.» «L'arma apparteneva a Ferris?» «Se è così, nessuno lo sapeva.» Mi servii altra insalata. «La Scientifica ha recuperato un proiettile calibro 9 all'interno del ripostiglio» proseguì Ryan. «Solo uno?» Un solo proiettile non era compatibile con la mia ipotesi di doppio foro d'entrata. «In un pannello del soffitto.» E neanche questo era compatibile. «Che cosa diavolo ci faceva una pallottola così in alto?» domandai. «Forse Ferris si è avventato sull'assassino, hanno lottato, ed è partito un
colpo.» «Forse chi ha sparato ha messo l'arma nella mano di Ferris e poi ha premuto il grilletto.» «Un suicidio simulato?» Ryan. «Chiunque guardi la TV sa che devono esserci i residui della polvere da sparo.» «LaManche non ne ha trovati.» «Questo non significa che non ci fossero.» Mangiai un po' di insalata e intanto cercai di riflettere. LaManche aveva estratto un frammento di proiettile dalla testa della vittima. La Scientifica aveva recuperato un altro proiettile dal soffitto. Dov'erano le altre prove balistiche? «Hai detto che Ferris probabilmente era seduto su uno sgabello quando gli hanno sparato?» domandai. Ryan annuì. «Rivolto verso la porta?» «Che con molta probabilità era aperta. La Scientifica sta esaminando l'ufficio e i corridoi. Non puoi nemmeno immaginare quanta merda ci sia là dentro.» «E i bossoli?» Ryan scosse la testa. «Chi ha sparato deve averli raccolti.» Nemmeno questo aveva senso. «Perché lasciare l'arma e poi tornare indietro a raccogliere i bossoli?» «Astuta domanda, dottoressa Brennan.» Peccato non avere anche un'astuta risposta. Offrii l'insalata a Ryan. Lui declinò. «Oggi sono passato dalla vedova» mi disse, cambiando argomento. «E lei?» «Diciamo che la signora non entra nella mia Top Ten della simpatia.» «È in lutto.» «Così ha detto lei.» «E tu non ne sei convinto, giusto?» «La pancia mi dice che lì c'è qualcosa da rosicchiare.» «Pessima metafora» replicai, pensando ai gatti. «Uno a zero per te.» «Sospetti?» «Una pletora.» «Che parolona» dissi. «Molto sexy.»
«Come culottes?» «No. Quella è solo una parola francese.» Arrivati al dessert, raccontai a Ryan ciò che avevo appreso circa la foto di Kessler. «Quindi Drum adesso è a Parigi?» «Così pare.» «Lui pensa che su quella foto ci sia lo scheletro di Masada?» «Già. E Jake non è certo uno che si entusiasma facilmente.» Ryan mi guardò in modo strano. «Lo conosci bene, questo Jake?» «Da vent'anni.» «La domanda riguardava la profondità della conoscenza, non la sua durata.» «Siamo colleghi.» «Solo colleghi?» Alzai gli occhi al soffitto. «Non ti sembra di essere un po' troppo curioso?» «Mah...» «Mah...» «Stavo pensando che forse dovremmo mettere insieme tutte le nostre informazioni.» Perché, che cosa stavamo facendo? «Ho fatto anche un'altra chiacchierata con Courtney Purviance» proseguì Ryan. «Donna interessante.» «Simpatica?» «Finché la discussione non arriva a Ferris o alla sua ditta. Allora si chiude come il caveau di una banca.» «Per proteggere il capo?» «Oppure perché ha paura di trovarsi di colpo in mezzo a una strada. Il mio sesto senso dice che non è in ottimi rapporti con Miriam.» «Perché? Che cosa ti ha detto?» «Non è tanto quello che dice.» Ryan rifletté un secondo. «Ma come si comporta. Comunque, sono riuscito a farle ammettere che di tanto in tanto Ferris trattava anche reliquie.» «Oggetti provenienti dalla Terra Santa?» tirai a indovinare. «Ovviamente, tutta roba acquistata e trasportata legalmente.» «Ovviamente. Il mercato nero delle antichità illegali è enorme» dissi. «Colossale» concordò Ryan.
Silenzio. «Credi che Ferris c'entri in qualche modo con le ossa di Masada?» domandai. Ryan scrollò le spalle. «E che per questo l'hanno ucciso?» «Così ha detto Kessler.» «Sei riuscito a rintracciare Kessler?» «Ci riuscirò.» «Potrebbe essere una semplice coincidenza.» «Potrebbe.» Non ne ero convinta. 8 Ryan mi svegliò verso le sei, per un po' di intimità mattutine. Birdie sgusciò fuori dalla camera da letto. In fondo al corridoio, Charlie gracchiò un verso da Strokin' di Clarence Carter. Mentre facevo la doccia, Ryan abbrustolì qualche ciambella e preparò il caffè. A colazione discutemmo della rieducazione di Charlie. Perché anche se al momento dell'arrivo del cacatua, durante le feste di Natale, non se n'era parlato, con il tempo non avevo potuto ignorare il suo poco ortodosso repertorio musicale. Piuttosto noir. Incalzato dalle mie domande, Ryan aveva ammesso che l'amico pennuto era giunto a lui in seguito a una retata della Buoncostume. Le signore avevano gusti musicali particolari, e il cacatua li aveva fatti suoi. Da mesi mi impegnavo ad ampliare il repertorio di Charlie e il suo talento oratorio. Con risultati parziali. Alle otto infilai nel lettore un CD educativo per Charlie, e uscii insieme a Ryan alla volta dell'Édifice Wilfrid-Derome, il palazzo che ospita la polizia di Stato e l'Istituto di medicina legale. Il mio compagno si fermò al primo piano, al comando della Section de Crimes contre la Personne, mentre io proseguii in ascensore fino al dodicesimo. Dopo aver scattato alcuni primi piani e steso il mio rapporto riassuntivo, dissi a LaManche che i resti in mio possesso potevano essere restituiti alla famiglia Ferris. Anche se durante la mia permanenza a New Orleans il funerale era stato celebrato, avevamo concordato di seppellire i frammenti del cranio in un secondo tempo accanto alla bara. Alle dieci e mezzo chiamai Ryan. Mi diede appuntamento dopo cinque
minuti. Ne aspettai dieci. Poi, annoiata, mi infilai nella caffetteria e ordinai una Diet Coke. E non riuscii a resistere all'impulso di comprare un pacchetto di biscotti scozzesi di pasta frolla. Quando tornai nell'atrio, Ryan mi stava aspettando. Aprii la lattina e chiusi i biscotti in borsetta. Per ventisette anni Avram Ferris aveva gestito la sua ditta da un capannone della zona industriale dalle parti della Autoroute de Laurentide, a metà strada fra l'isola di Montréal e il vecchio aeroporto Mirabel. Costruito negli anni Settanta, il Mirabel era stato concepito come il fiore all'occhiello dei trasporti aerei nazionali. Il progetto prevedeva anche la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità che lo collegasse al centro città, da cui distava una quarantina di chilometri. Ma la linea ferroviaria non fu mai costruita. E all'inizio degli anni Novanta il viaggio da e per l'aeroporto era di una lunghezza inaccettabile. Era anche molto costoso, e il traffico era in crescita. Sessantanove dollari di taxi per arrivare in centro. Così le compagnie aeree boicottarono Mirabel in favore del suo rivale, Dorval, dotato di una collocazione geografica più favorevole. Oggi a Mirabel arrivano solo voli charter e voli mercantili, mentre tutti i voli nazionali e internazionali atterrano e decollano da Dorval, di recente ribattezzato Pierre Elliot Trudeau International. Ad Avram Ferris però la cosa non importava. Aveva avviato la sua Les Imports Ashkenazim vicino a Mirabel, e lì era rimasto. E lì era anche morto. Ferris viveva a Côte-des-Neiges, un sobborgo residenziale dalle parti del Jewish General Hospital, a nord-ovest di Centre-Ville. Ryan prese la Décarie, tagliò a est sulla Van Horne, poi a nord sulla Plamondon ed entrò sulla Vézina. Mentre accostava al marciapiede, mi indicò una villetta a un piano in mattoni rossi, inserita in una lunga fila di villette a un piano in mattoni rossi. Osservai l'isolato. Tutti gli edifici erano identici, e il lato destro della via era l'immagine speculare del lato sinistro. Portoncini in legno al centro della facciata, balconi alle finestre del primo piano. Tutti i vialetti erano coperti di ghiaia. Parcheggiate, Chevrolet e Ford station wagon. «Non è gente da Jaguar e SUV» osservai. «Si direbbe che i proprietari si siano riuniti e abbiano bandito qualsiasi rifinitura che non fosse bianca.» Ryan mi indicò con il mento la casa di fronte a noi. «L'abitazione di Fer-
ris è al primo piano, a sinistra. Il fratello sta al pianterreno. La madre e un altro fratello abitano nell'altra metà della casa.» «Per Ferris il tragitto da qui al lavoro dev'essere stato un inferno.» «Probabilmente non si è mai mosso di qui perché amava questa espressione architettonica.» «Hai detto che Avram e Miriam non avevano figli, giusto?» Ryan annuì. «Si sono sposati tardi. La prima moglie aveva problemi di salute e morì nell'89. Ferris si risposò nel '97. E finora, niente prole.» «Non è contro le regole?» Ryan mi guardò perplesso. «Le mitzvot.» Ancora più perplesso. «La legge ebraica. Le coppie devono avere figli. Non si può disperdere il seme.» «Stai parlando dell'almanacco del perfetto agricoltore?» Ryan e io ci fermammo davanti al portoncino. Ryan suonò il campanello di Avram Ferris. Aspettammo. Ryan suonò ancora. Aspettammo ancora. Una donna anziana passò alle nostre spalle, trascinandosi dietro un carrellino per la spesa. «Ma la vedova non dovrebbe stare chiusa in casa?» domandò Ryan suonando una terza volta. «Lo shivah dura solo una settimana.» «E poi?» «Poi reciti il Kaddish tutti i giorni, non vai alle feste, non ti radi, non tagli niente per un po'. Ma in pratica continui a fare la tua vita.» «Come fai a sapere tutte queste cose?» «Il mio primo ragazzo era ebreo.» «Un amore scritto nella stella?» «Ah-ah, molto divertente.» Ryan appoggiò la mano sulla maniglia del portoncino. La donna con il carrellino si voltò e ci fissò da dietro la sua enorme sciarpa. Alla nostra destra, una tendina si mosse. Toccai il braccio di Ryan e gli feci un cenno con la testa. «Lì abita Dora.» Ryan sorrise.
«Avram era un bravo ragazzo ebreo che aspettò otto anni prima di risposarsi. Forse lui e mammina erano molto legati.» «Forse le ha raccontato qualcosa.» «Oppure mammina si è accorta da sola di qualcosa.» Riflettei. «Le signore anziane amano i biscotti.» «Tutti lo sanno.» Frugai nella borsetta e mostrai a Ryan i miei biscotti. «Mammina potrebbe intenerirsi, e magari potrebbe aver voglia di far due chiacchiere.» «E che diamine.» Ryan mi guardò. «Noi siamo bravissimi quando si tratta di chiacchiere, giusto?» Solo che Dora non aprì la porta. Miriam invece sì. Indossava calzoni neri, una camicetta di seta nera, un cardigan nero e un filo di perle. Di nuovo, come già era successo durante il nostro primo incontro, gli occhi di Miriam mi colpirono. Quegli incredibili occhi violetti lasciavano sbalorditi, anche se adesso erano segnati da profondi cerchi neri. Miriam non era ignara dell'effetto che i suoi occhi avevano sugli uomini. Dopo avermi guardato rapidamente, si voltò verso Ryan e si sporse impercettibilmente verso di lui con una mano sulla vita e l'altra sul collo del cardigan. «Tenente.» Sottovoce. Quasi sospirando. «Buon giorno, signora Ferris» rispose Ryan. «Spero che si senta meglio.» «La ringrazio.» Miriam era pallidissima. E sembrava più magra di quanto ricordassi. «Ci sono alcuni punti che vorrei chiarire con lei» spiegò Ryan. Lo sguardo di Miriam si fissò su un punto alle nostre spalle. Il carrellino della donna anziana riprese a cigolare. Miriam riportò lo sguardo su Ryan e inclinò leggermente la testa. «Non è possibile rimandare?» Ryan lasciò la questione in sospeso nel triangolo di spazio che ci divideva. «Chi è?» Una vocina incerta arrivò dall'interno della casa. Miriam si voltò e disse qualcosa in yiddish o in ebraico, poi tornò a rivolgersi a noi. «Mia suocera è leggermente indisposta.» «Suo marito è morto» disse Ryan, non troppo delicatamente. «Non pos-
so rimandare le indagini su un omicidio per rispettare il dolore dei parenti.» «Io convivo con quel pensiero in ogni momento della mia giornata. Quindi lei è convinto che si tratti di omicidio?» «Come lei, mi sembra di capire. Per caso sta cercando di evitarmi, signora Ferris?» «No.» I loro occhi si incontrarono. Turchese contro lavanda. Nessuno dei due abbassò lo sguardo. «Vorrei di nuovo parlarle di un uomo di nome Kessler.» «Glielo ripeto, tenente. Non lo conosco.» «Forse sua suocera potrebbe dirci qualcosa di più.» «No.» «Come fa a saperlo, signora Ferris? Kessler sostiene di aver conosciuto suo marito. Per caso ha parlato di Kessler con sua suocera?» «No, ma posso dirle che non le ho mai sentito menzionare questo nome. Mio marito aveva contatti con molte persone, per via del suo lavoro.» «E una di queste potrebbe avergli ficcato due pallottole in testa.» «Sta cercando di spaventarmi, tenente?» «Lei era al corrente del fatto che suo marito commerciava in antichità?» Miriam sollevò le sopracciglia quasi impercettibilmente. E poi chiese: «Chi glielo ha detto?». «Courtney Purviance.» «Ah...» «Le risulta che non sia vero?» «La signorina Purviance ha la tendenza a esagerare l'importanza del suo ruolo negli affari di mio marito.» La voce di Miriam era affilata come un rasoio. «Sta forse insinuando che la segretaria di suo marito ha mentito?» «Sto dicendo che quella donna non ha granché di cui occuparsi nella vita, a parte il lavoro.» «La signorina Purviance aveva notato uno strano comportamento da parte di suo marito subito prima della sua morte.» «Questo è ridicolo! Se Avram avesse avuto dei problemi, di certo l'avrei saputo.» Ryan non si lasciò distrarre. «Le chiedo ancora, signora: le risulta che non sia vero?» «Il commercio di antichità costituiva una parte molto esigua degli affari
di mio marito.» «Lo sa con certezza?» «Lo so con certezza.» «Ma mi aveva detto di non essere molto al corrente del lavoro di suo marito.» «Lo sono quanto basta.» Era una giornata limpida, ma freddissima. «Secondo lei, quei reperti antichi potevano comprendere anche resti umani?» domandò Ryan. Gli occhi viola si spalancarono. «Santo cielo, no!» Le persone in genere provano imbarazzo quando cala il silenzio in una conversazione. E si sentono obbligate a riempirlo dicendo qualcosa a tutti i costi. Ryan spesso approfittava di questa reazione. E lo fece anche in quel caso. Aspettò senza parlare. E funzionò. «Sarebbe stato chet» aggiunse Miriam. Ryan continuò a non parlare. Miriam stava per aggiungere qualcosa, ma in quel momento la suocera fece di nuovo sentire la sua voce. Miriam si voltò e le parlò. Quando ebbe finito, sul suo viso scintillava qualche goccia di sudore. «Devo aiutare mia suocera a prepararsi per lo Shabbat.» Ryan porse a Miriam un biglietto da visita. «Se mi viene in mente qualcosa, la chiamo.» Di nuovo, sgranò gli occhi. «Voglio con tutta me stessa che l'assassino di Avram sia assicurato alla giustizia.» «Le auguro una buona giornata» disse Ryan. «Shabbat shalom» dissi io. Ci voltammo per andarcene, ma Miriam fermò Ryan toccandogli il braccio. «Nonostante quello che forse lei pensa, tenente, io amavo molto mio marito.» Nella sua voce c'era una desolazione raggelante. Ryan e io uscimmo e salimmo in auto. «Allora?» domandò Ryan. «Non saprei» risposi. Riflettemmo entrambi. «Chet?» chiese Ryan. «È una specie di peccato» spiegai. «Mi è sembrato che la signora non sentisse molto il richiamo della sorellanza.»
«Già. Sembrava che non mi vedesse neanche.» «E direi che non ha tanta simpatia neppure per Purviance.» «No. Direi di no.» Ryan mise in moto e partì. «Pensare che mi ritengo abbastanza bravo a capire il carattere delle persone» disse Ryan. «È vero. Abbastanza bravo.» «Eppure quella Miriam non la capisco proprio. Un momento è affranta dal dolore. Quello dopo ti guarda come per mandarti a quel paese. Secondo te sta cercando di coprire qualcosa?» «Stava sudando» osservai. «Con questo freddo...» Ci fermammo all'angolo di una via. «E adesso?» domandò Ryan. «Il detective sei tu» replicai. «L'arma è un modello che non viene più prodotto. Non sono riuscito a risalire a niente. E le domande che ho fatto ai vicini di Ferris, nella zona industriale, non hanno portato a nulla. Idem con i parenti e i conoscenti di lavoro. Sto aspettando che mi mandino la documentazione fiscale e il tabulato delle telefonate. Ho chiesto notizie di Kessler in tutte le sinagoghe della città.» «Sembra quasi che ti sia messo a indagare seriamente.» «A dire la verità, mi sono fatto un gran culo. Ma i risultati non sono incoraggianti» mi disse Ryan. «E adesso?» «Adesso la Scientifica sta ancora lavorando sulla scena del crimine. E Purviance sta verificando se per caso è stato rubato qualcosa. Noi abbiamo tempo per mangiare un boccone.» Quando tornai in auto con il mio hamburger, il cellulare trillò. Era Jake Drum. La linea per fortuna non era disturbata. «Sei davvero andato a Parigi?» domandai, e sussurrai il nome di Jake a Ryan. «Non è stato un gran problema. Invece di raggiungere Toronto in auto e da lì prendere il volo per Tel Aviv, sono venuto qui a Parigi, e prenderò una coincidenza dal Charles de Gaulle.» «Quello scheletro è così importante?» «Potrebbe essere di grandissima importanza.» «Che cos'hai scoperto?»
Ryan mi scartò l'hamburger e me lo passò. Io ne staccai un morso. «Il mio istinto aveva ragione» disse Jake. «Uno degli scheletri di Masada arrivò al Musée de l'Homme nel novembre del 1963. Ho individuato un dossier relativo al reperto, e un numero di acquisizione.» «Contìnua.» «Stai mangiando?» «Sì. Hamburger.» «Mangiare quella roba è un sacrilegio in una città come Montréal.» «Ma è veloce.» «Questa è quella che chiamerei una deriva gastronomica.» Io intanto accompagnai la mia deriva con un sorso di Diet Coke. «Le ossa sono ancora lì?» «No.» Jake sembrava deluso. «No?» Addentai un altro boccone di hamburger. Un filo di ketchup mi colò sul mento. Ryan lo tamponò con un tovagliolino. «Ho trovato una donna, una certa Marie-Nicole Varin, che lavorava agli inventari delle raccolte all'inizio degli anni Settanta. Questa signora ricorda effettivamente uno scheletro di Masada. Ma adesso quello scheletro non è più nel museo. Abbiamo controllato ovunque.» «Vuoi dire che dagli anni Settanta nessuno l'ha più visto?» «No.» «Ma i movimenti dei reperti non dovrebbero essere registrati da qualche parte?» «Dovrebbero. Ma il resto di quel dossier risulta mancante.» «Che spiegazione danno i dirigenti del museo?» «C'est la vie. Del resto, i dipendenti dell'epoca ancora in servizio ormai sono pochi. Marie-Nicole Varin ricorda di aver compilato l'inventario con un neolaureato, un certo Yossi Lerner. Secondo lei questo Lerner potrebbe essere ancora a Parigi. E, aspetto interessante, la donna crede che possa essere americano o canadese.» Rimasi con l'hamburger sospeso davanti alla bocca. «Sto cercando di rintracciarlo.» «Bonne chance» risposi. «Non so se la fortuna mi basterà.» Raccontai a Ryan quello che Jake mi aveva riferito. Lui mi ascoltò senza commentare. Finimmo le patatine.
Tornati sulla Van Horne, osservammo un uomo con un lungo cappotto nero, cappello nero, pantaloni alla zuava e calzini chiari, passare accanto a un bambino in jeans e giubbotto. «Lo Shabbat incombe» osservai. «Il che probabilmente non contribuirà a migliorare l'accoglienza che potrebbero riservarci da queste parti.» «No. Probabilmente no.» «Hai mai fatto un appostamento?» Scossi la testa. «Bisogna avere nervi saldi.» «Eh già.» «Miriam potrebbe uscire.» «E così Dora rimarrebbe sola.» «Non sono ancora riuscito a parlare con quella donna da solo.» «Potremmo comprarle dei fiori» suggerii. Passammo da un fiorista e tornammo davanti alla casa dei Ferris quaranta minuti dopo averla lasciata. Un'ora dopo Miriam uscì dalla casa di Dora. 9 Dora rispose alla seconda scampanellata. E nella luce tersa la sua pelle rugosa sembrava quasi trasparente. Ryan rinnovò le presentazioni. L'anziana donna ci guardò con aria assente. Mi chiesi se per caso non le avessero somministrato dei farmaci. Ryan le mostrò il distintivo. Dora lo osservò, indifferente. Era chiaro che non sapeva chi fossimo. Presi i biscotti dalla borsa e glieli porsi insieme al mazzo di fiori. «Shabbat shalom» dissi. «Shabbat shalom» mi rispose, quasi per un riflesso condizionato. «Ci dispiace davvero tanto per suo figlio, signora Ferris. Sono stata fuori città, altrimenti sarei passata prima.» Dora prese quanto le porgevo e si chinò ad annusare i fiori. Raddrizzandosi, ispezionò i biscotti e me li riconsegnò. «Mi dispiace, non sono kosher.» Sentendomi una stupida, rimisi i biscotti nella borsa. Gli occhi di Dora si spostarono su Ryan, poi tornarono su di me. Erano
piccoli e velati dall'età. «Lei è quella dell'autopsia di mio figlio.» Un leggero accento. Forse dell'Europa dell'Est. «Sì, signora. Sono io.» «Non c'è nessuno in casa.» «Vorremmo parlare proprio con lei, signora Ferris.» «Con me?» Stupore. Anche un filo di paura. «Sì, signora. Con lei.» «Miriam è andata a fare la spesa.» «È questione di un minuto, signora.» La donna esitò. Poi si voltò e ci fece entrare in un piccolo ingresso arredato con specchi anticati, e da qui in un luminoso salottino con divano e poltrone in similpelle. «Vado a prendere un vaso. Vi prego, accomodatevi.» La signora Ferris scomparve in fondo a un corridoio a destra dell'ingresso. Io mi guardai intorno. La casa era un compendio del cattivo gusto anni Sessanta. Rivestimenti in raso bianco. Tavolo in finta quercia. Tappezzeria con motivi in rilievo. Una decina di odori diversi attiravano l'attenzione. Disinfettante. Aglio. Deodorante per ambienti. Legno di cedro. Dora tornò lentamente in salotto e per un po' sistemammo i fiori nel vaso. Poi scomparve di nuovo e tornò con un piatto di biscotti. Ryan e io prendemmo un biscotto, poi Dora posò il piatto sul tavolo di fronte a noi e si accomodò su una sedia a dondolo di legno con cuscini legati al sedile e allo schienale. «I bambini sono a scuola e Roslyn e Ruthie sono al tempio.» Supposi che le due donne fossero le nuore che abitavano nella casa accanto. Dora intrecciò le mani in grembo e abbassò lo sguardo. «Miriam è andata dal macellaio.» Ryan e io ci scambiammo un'occhiata. Lui mi fece cenno di iniziare a parlare. «Signora Ferris. so che ha già parlato con il tenente Ryan.» Lo sguardo velato della donna si alzò, fermo e presente. «Ci rincresce molto doverla disturbare ancora, ma volevamo sapere se per caso dopo le nostre conversazioni fosse emerso qualche elemento nuovo.» Dora scosse la testa.
«Suo figlio ha ricevuto visite non abituali nelle settimane precedenti alla sua morte?» «No.» «Ha litigato con qualcuno? Si è lamentato di qualcosa?» «No.» «Faceva parte di qualche gruppo politico?» «Avram viveva per la sua famiglia. Per il lavoro e per la famiglia.» Sapevo che stavo ripetendo le stesse domande già poste da Ryan. Ma a volte funzionava, e il nuovo interrogatorio innescava ricordi in precedenza dimenticati, o dettagli considerati irrilevanti. E poi era la prima volta che vedevamo Dora da sola. «Suo figlio aveva dei nemici? Qualcuno che potesse volergli fare del male?» «Siamo ebrei, signora.» «Pensavo a una persona specifica.» «No.» Nuova tattica. «Lei conosce gli uomini che hanno presenziato all'autopsia di suo figlio?» «Sì.» Dora si grattò un orecchio e si schiarì la gola. «Chi ha scelto quelle persone?» «Il rabbino.» «Perché sono tornati solo in due nel pomeriggio?» «Probabilmente è stata una decisione del rabbino.» «Conosce un uomo di nome Kessler?» «Una volta conoscevo un Moshe Kessler.» «Era presente all'autopsia di suo figlio?» «Moshe morì durante la guerra.» Il mio cellulare scelse proprio quel momento per trillare. Controllai il display. Numero privato. Ignorai la chiamata. «Lei sapeva che suo figlio trattava reperti antichi?» «Avram vendeva tante cose.» Il cellulare trillò di nuovo. Scusandomi, lo spensi. Istinto. Frustrazione. Ispirazione. D'un tratto un nome mi risuonò in testa. E ancora non sono sicura del perché posi quella domanda.
«Conosce un certo Yossi Lerner?» Le rughe che circondavano gli occhi di Dora si fecero più profonde. «Questo nome le ricorda qualcosa, signora Ferris?» «Mio figlio aveva un amico che si chiamava così.» «Davvero?» Mantenni un'espressione neutra, la voce calma. «Avram e Yossi si conobbero da studenti, alla McGill.» «Quando?» Evitai di guardare Ryan. «Tanti anni fa.» «Erano rimasti in contatto?» domandai con aria indifferente. «Non ne ho idea.» Dora inspirò di colpo. «Per caso Yossi c'entra in tutto questo?» «No, signora. Ovviamente no. Sto solo facendo dei nomi. Sa dove vive oggi il signor Lerner?» «Non lo vedo da anni.» La porta d'ingresso si aprì e si richiuse. Dopo qualche secondo, Miriam comparve nel salotto con i sacchetti di plastica della spesa. Dora sorrise. Miriam ci fissò, insondabile. Quando parlò, si rivolse a Ryan. «Le avevo detto che mia suocera non si sente bene. Perché siete venuti a disturbarla?» «Ma no. Sto b...» cercò di dire Dora. Ma la nuora la interruppe. «Questa donna ha ottantaquattro anni e ha appena perso un figlio.» Dora si limitò a fare un verso con le labbra. Come già era successo, Ryan rispose con il silenzio, in attesa che Miriam lo riempisse. Ma questa volta la donna non parlò. Lo fece Dora. «È tutto a posto, Miriam. Stavamo facendo due chiacchiere.» Dora indicò il piatto con la mano venata d'azzurro. «E mangiando qualche biscotto.» «Di che cosa stavate parlando?» Miriam continuò a fissare Ryan, come se Dora non avesse parlato. «Di Euripide» rispose Ryan. «Dovrei ridere, tenente?» «Di Yossi Lerner.» Osservai Miriam con attenzione. Non notai alcuna reazione particolare. «Chi è Yossi Lerner?» «Un amico di suo marito.» «Non lo conosco.»
«Un amico dell'università.» «Quindi io non c'ero ancora.» Guardai Dora. Il suo sguardo si era fatto assente, come se l'anziana donna stesse rivivendo ricordi persa in un altro tempo e in un altro luogo. «Perché volete sapere di questa persona? Di questo Yossi Lerner?» domandò Miriam posando le borse sul pavimento e sfilandosi i guanti. «Perché è uscito il suo nome.» «Durante le indagini?» Nei suoi occhi violetti comparve un filo di sorpresa. «Sì.» «In che contesto?» Da fuori arrivò il suono di un antifurto. Dora non si mosse. Ryan mi guardò. Io annuii. Ryan spiegò a Miriam Ferris di Kessler e della fotografia. Il viso della donna rimase impassibile. «Credete ci sia un nesso fra quello scheletro e la morte di mio marito?» «Risposta diretta, o un giro di parole?» «Diretta.» Ryan sollevò una mano per contare sulle dita. Pollice. «Un uomo è stato assassinato. Un tizio consegna una foto, sostiene che quella foto è la causa dell'omicidio. Il tizio scompare.» Ryan guardò Miriam e proseguì. Indice. «La vittima commerciava in reperti antichi provenienti da Israele.» Ryan alzò il medio. «Lo scheletro rappresentato nella foto è passato per le mani di un certo Yossi Lerner. La vittima aveva un amico che si chiamava Yossi Lerner.» «L'altro era un prete.» Ci voltammo tutti verso Dora. Lei parlava nel vuoto. «L'altro ragazzo era un prete» ripeté. «Ma arrivò dopo. O forse no?» «Quale altro ragazzo?» domandai con cautela. «Avram aveva due amici. Yossi, e poi un altro ragazzo.» Dora si toccò il mento con la mano. «Era un prete. Sono sicura.» Miriam si avvicinò alla suocera, ma senza toccarla. Quel gesto mi ricordò la scena a cui avevo assistito nella saletta per i parenti dell'obitorio. Le due donne erano una accanto all'altra, ma distanti. Non si toccavano. Non si abbracciavano. La più giovane non condivideva
la sua forza d'animo con la più anziana. La più anziana non cercava conforto nella più giovane. «Erano molto legati» continuò Dora. «Suo figlio e i suoi amici?» domandai. Dora sorrise. Era la prima volta. «Che menti curiose. Leggevano di continuo. Discutevano. Si interrogavano. A volte per notti intere.» «Come si chiamava il prete?» domandai. Dora scosse la testa. «Era di Beauce. Questo lo ricordo. Lui ci chiamava zaydeh e bubbeh.» «Suo figlio dove aveva conosciuto il suo amico?» «Alla Yeshiva University.» «A New York?» Dora annuì. «Avram e Yossi si erano laureati alla McGill. Avram all'epoca era più spirituale. Studiava per diventare rabbino. Quel prete seguiva i corsi sulle religioni del Vicino Oriente, o qualcosa del genere. Probabilmente si conobbero perché erano gli unici canadesi.» Gli occhi di Dora si spostarono. «Era già prete?» domandò più a se stessa che a noi. «Oppure lo diventò in seguito?» Dora irrigidì le dita. La sua mano tremò. «Povera me... quanto tempo è passato...» Miriam si avvicinò a Ryan. «Tenente, mi spiace ma mi vedo costretta a interrompere questa conversazione.» Ryan mi rivolse un'occhiata. Ci alzammo. Miriam congedò Ryan come la volta precedente. «Trovi il responsabile di tutto questo, tenente, ma la prego, non venga più a infastidire mia suocera quando è sola.» «Primo, direi che sua suocera più che infastidita è persa nei suoi ricordi. Secondo, non posso porre questo genere di limiti alle mie indagini. In ogni caso, cercheremo di essere sensibili.» Tornati in auto, Ryan mi domandò perché avessi chiesto di Lerner. «Non ho idea» risposi. «Ottima intuizione.» «Ottima intuizione» concordai. Fummo anche d'accordo sul fatto che Lerner meritava un po' più di attenzione. Mentre Ryan guidava, io ascoltai i miei messaggi. Tre.
Tutti di Jake Drum. Ho trovato il modo di contattare Yossi Lerner. Chiamami. Ho parlato con Yossi Lerner. Chiamami. Incredibile novità. Chiamami. E ogni «chiamami» era più impaziente del precedente. Riferii a Ryan. «Chiama subito quell'uomo, Brennan.» «Dici?» «Certo. Ho bisogno di altre informazioni su questo Lerner.» «Anch'io non vedo l'ora di sapere quello che ha scoperto Jake. Ma tra poco sarò a casa. E preferisco chiamarlo da un telefono fisso. Da cellulare a cellulare è peggio che parlare con lo Zambia.» «Chiami spesso in Zambia?» «No. Perché non riesco mai a prendere la linea.» Dieci minuti dopo, Ryan mi lasciò davanti casa. «Questo fine settimana mi tocca una sorveglianza, e sono già in ritardo.» Mi prese il mento fra le mani e mi accarezzò le guance. «Occupati di questo Lerner. E fammi sapere che cosa ha trovato Jake.» «Un appostamento da nervi saldi?» domandai. «Sai benissimo dove preferirei appostarmi.» «Non credo ci sia una parola per questo.» Ryan mi baciò e si diresse al Wilfrid-Derome. Io andai a casa. Dopo aver salutato Birdie e Charlie, mi infilai un paio di jeans e mi preparai una tazza di tè Earl Grey. Poi portai il telefono sul divano e digitai il numero di Jake. Mi rispose al primo squillo. «Sei ancora in Francia?» domandai. «Sì.» «Arriverai in ritardo per gli scavi.» «Non possono iniziare senza di me. Il capo sono io.» «Ah, già. Dimenticavo...» «E quello che ho trovato qui è molto più importante.» Birdie mi saltò in grembo. Gli accarezzai la testa. Lui allungò una zampa e iniziò a leccarsela. «Ho parlato con Yossi Lerner.» «L'ho capito dai tuoi messaggi.» «Lerner vive ancora a Parigi.» «Ma è nato da questa parte dell'oceano, giusto?»
«Esatto. Québec.» Doveva essere proprio lo Yossi Lerner di cui parlava Dora. «Questo Lerner lavorava al museo nel periodo in cui lo scheletro era lì?» domandai. «Sì. Aveva un incarico part-time, mentre faceva ricerca per la sua tesi di dottorato. Sei pronta per quello che sto per dire?» «Dai, Jake. Lascia perdere la suspense.» «Rimarrai senza fiato.» E così fu. 10 «Prima lascia che ti parli un po' di questo Lerner, che è un tipo abbastanza strano. Niente famiglia. Vive con un furetto. È una specie di archeologo itinerante. Israele. Egitto. Giordania. Si fa assegnare dei fondi. Organizza uno scavo. Scrive una relazione. Si sposta. Un continuo lavoro di recupero di reperti antichi.» «Del genere: salviamo ciò che possiamo prima che arrivino a sbancare tutto con i bulldozer per costruire la tangenziale.» «Esattamente.» «Lerner lavora per qualche istituzione?» «Ha avuto alcuni contratti temporanei, ma dice che un posto fisso non gli è mai interessato. Lo troverebbe claustrofobico.» «Sì, in effetti uno stipendio fisso e regolare è una grande limitazione.» «Il denaro non è decisamente una delle sue priorità. Abita in uno stabile del XVII secolo senza ascensore, che in origine ospitava i moschettieri del re. L'appartamento non è molto grande. E ci arrivi salendo una scala a chiocciola di pietra. Però si affaccia su Notre Dame.» «Quindi sei stato a casa sua?» «Quando gli ho telefonato, mi ha detto che lavorava di notte, e mi ha proposto di andare da lui. Abbiamo festeggiato il Re Sole per un paio d'ore.» «Cioè?» «Abbiamo gravemente danneggiato una bottiglia di Martell Medallion.» «Quanti anni ha il nostro amico?» «Decisamente oltre i cinquanta, direi.» Avram Ferris ne aveva cinquantasei. «Ebreo?»
«Non più così osservante come in gioventù.» «Che mi dici della sua storia?» «Di Lerner?» «No. Di Luigi XIV.» Mi appoggiai al divano. Birdie mi salì su una spalla. «All'inizio Lerner era un po' abbottonato, ma dopo il quarto giro di Martell ha iniziato a parlare come un convertito al metodo Betty Ford. Immagino che la vicenda delle sue lezioni di piano non ti interessi, giusto?» «Giusto.» «Lerner lavorò al Musée de l'Homme dal '71 al '74, nel periodo in cui faceva ricerca per il suo dottorato.» «Argomento?» «I Rotoli del Mar Morto.» «Immagino gli esseni abbiano impiegato meno tempo per scriverli.» «Lerner ama fare con calma. Ed è molto serio. All'epoca prendeva molto seriamente anche la sua religione.» «E poi è arrivata la pianista e le cose sono cambiate?» «Chi ha detto che era una pianista?» «Arriviamo alle ossa di Masada.» «Nel '72 Lerner ricevette la proposta di partecipare all'inventario di un certo numero di raccolte del museo. Durante il suo lavoro, si trovò di fronte a un dossier che conteneva i documenti di viaggio e la fotografia di uno scheletro.» «I documenti attestavano che le ossa arrivavano da Masada?» «Sì.» «Era datato?» «Novembre 1963.» Grotta 2001, il sito sotto la cinta muraria della cima meridionale di Masada. Le ossa alla rinfusa. Lo scheletro intatto. Secondo l'informatore di Jake, quella grotta era stata scoperta e svuotata nell'ottobre del 1963, un mese prima della data riportata sulla documentazione di viaggio del museo. Iniziai a provare un certo entusiasmo. «Era firmato?» «Sì, ma Lerner non ricorda da chi. Esaminò la raccolta del museo, trovò lo scheletro, aggiunse una nota nel dossier in cui indicava lo stato di conservazione del reperto e la sua collocazione, come da protocollo, e procedette oltre. Però quello scheletro per qualche motivo gli rimase in testa. Perché era stato inviato al museo? Perché era rimasto chiuso in una scatola
e non esposto? Tempe? Stai facendo le fusa?» «No. È il mio gatto.» «L'anno dopo, Lerner lesse il libro di un giornalista australiano, un certo Donovan Joyce, che partiva dalla premessa che Gesù Cristo non fosse morto sulla croce.» «E cosa gli era successo, allora? Si era ritirato a vita privata in un paesino delle sue parti?» «No. Pare che abbia vissuto fino a ottant'anni, per poi morire combattendo i romani a Masada.» «Sembra la trama di un romanzo.» «Non è tutto. Mentre era a Masada, Gesù scrisse una pergamena con le sue ultime volontà testamentarie.» «E come mai il nostro Joyce era al corrente di tutte queste meraviglie?» «Perché nel dicembre del 1964 Joyce era in Israele per occuparsi di certe ricerche relative a un libro. Mentre si trovava lì, fu avvicinato da un professore, tale Max Grosset, uno dei volontari che scavavano con la squadra di Yigael Yadin. Grosset sosteneva di aver rubato un'antica pergamena da Masada e chiedeva l'aiuto di Joyce per far uscire il suo bottino dal Paese. Grosset gli giurò che la pergamena era di grandissima importanza, e che era sufficiente il suo autore a conferirle un valore inestimabile. Joyce non si lasciò coinvolgere nell'impresa, ma giurò di aver visto e toccato la pergamena di Grosset.» «E in seguito ci scrisse sopra un libro.» «Joyce si recò in Terra Santa per visitare Masada. Ma le autorità israeliane gli negarono l'autorizzazione a salire sulla cima della montagna. Vedendosi costretto ad abbandonare l'idea che era alla base del libro che stava scrivendo, iniziò a fare ricerche sulla pergamena di Grosset. Sorpreso da ciò che riuscì a scoprire, Joyce dedicò otto anni della sua vita al progetto. E pur non avendo mai più incontrato Grosset, sostenne di essere venuto a conoscenza di impressionanti e nuovi elementi sulla paternità di Gesù, sul suo stato civile, sulla crocifissione e sulla resurrezione.» «Wow.» «Nel suo libro, Joyce parla anche degli scheletri trovati nella Grotta 2001.» «Stai scherzando?» «Secondo Joyce, i venticinque individui trovati nella grotta facevano parte di un gruppo molto particolare, distinto dal resto degli zeloti ebrei. E conclude che, dopo aver espugnato Masada, il generale romano Flavio Sil-
va ordinò di lasciare intatte le tombe di quella grotta per rispetto a questo gruppo particolare di persone.» «Perché i resti erano quelli di Gesù e dei suoi seguaci.» «Questa è la tesi.» «Lerner crede in questa teoria assurda?» «Ormai il libro di Joyce è fuori catalogo, ma sono riuscito a mettere le mani su una copia. Devo ammettere che per chi è interessato a questo genere di cose, le sue argomentazioni sono piuttosto convincenti.» «Gesù...» «Per l'appunto. Torniamo a Lerner. Dopo aver letto il libro di Joyce, il nostro devoto e giovane studioso decise che le ossa che aveva classificato al Musée de l'Homme avevano buone possibilità di essere quelle di Gesù Cristo.» «Gesù e i suoi seguaci nel sito più sacro del giudaismo.» «Vedo che hai afferrato. E questa possibilità stravolse la vita di Lerner.» «Avrebbe stravolto anche la vita dello Stato di Israele, per non parlare dell'intera Chiesa cristiana. Che cosa fece Lerner?» «Precipitò nell'angoscia. E se si trattava veramente di Gesù? E se invece non era Gesù, ma un altro personaggio di spicco del nascente movimento cristiano? E se quelle ossa fossero cadute nelle mani sbagliate? E se la stampa fosse venuta a conoscenza della storia? La sacralità di Masada sarebbe stata compromessa. Il mondo cristiano si sarebbe ribellato contro quella che di sicuro sarebbe stata etichettata come una mistificazione ebraica. E notte dopo notte, Lerner era sempre più turbato. «Dopo settimane di tormento, Lerner decise che lo scheletro doveva sparire. Trascorse intere giornate a pianificare il modo di sottrarlo al museo e distruggerlo. Valutò se bruciare le ossa o frantumarle a colpi di martello, legarle a un blocco di cemento e gettarle in mare. «Poi la sua coscienza ebbe la meglio. Un furto era sempre un furto. Se lo scheletro era veramente quello di Gesù, lui era pur sempre un ebreo di fronte a un uomo sacro. Lerner non riusciva più a dormire. Alla fine, non riuscì a distruggere lo scheletro, ma allo stesso tempo non tollerava il pensiero che altri potessero trovarlo. Per proteggere la cultura e la tradizione religiosa, decise infine che quelle ossa dovevano semplicemente sparire.» «Quindi Lerner eliminò il dossier e sottrasse le ossa.» «Le portò fuori dal museo in un borsone sportivo.» «E poi?» Ero impaziente di sapere. Birdie percepì la mia tensione, e saltò sul pavimento, fissandomi con i
suoi occhi gialli. «Adesso viene il bello. Come si chiama la vostra vittima?» «Avram Ferris.» «Come pensavo.» E le parole che seguirono come previsto mi lasciarono letteralmente senza fiato. «Lemer diede le ossa e la foto ad Avram Ferris.» «Il suo amico di gioventù» aggiunsi in un sussurro. «Ferris aveva trascorso due anni in un kibbutz, in Israele, ed era passato a Parigi prima di tornare a Montréal.» «Che figlio d'un cane.» «Già.» Dopo aver parlato con Jake, provai a chiamare Ryan. Nessuna risposta. Probabilmente il suo appostamento era già iniziato. Troppo agitata per mangiare, decisi che era meglio andare in palestra. E mentre macinavo chilometri sullo StairMaster, nella mia mente infuriavano le domande. Cercai di ordinarle secondo un criterio logico. La fotografia raffigurava effettivamente lo scheletro di Masada? Se sì, lo scheletro di Masada era ancora in possesso di Avram Ferris, al momento del suo omicidio? Chi altro poteva sapere che quelle ossa erano in suo possesso? Ferris stava progettando di vendere lo scheletro sul mercato clandestino? A chi? Perché proprio adesso? O forse si stava offrendo di distruggerlo dietro compenso? Pagato da chi? Ebrei? Cristiani? Se le ossa della fotografia non erano lo scheletro di Masada, perché Ferris era stato assassinato? E dov'era adesso lo scheletro? Dov'era Kessler? Chi era Kessler? Perché Ferris avrebbe accettato quello scheletro rubato? Non riuscivo a immaginare un motivo che rispondesse alla mia ultima domanda. Lealtà nei confronti di un amico? Preoccupazione per la sacralità di Masada, oppure paura di un confronto teologico epocale fra ebrei e cristiani in un periodo in cui il sostegno dell'Occidente cristiano era cruciale per la sopravvivenza di Israele? Dora aveva detto che il figlio all'epoca era piuttosto devoto. Gesù che sopravvive alla crocifissione e muore durante l'assedio di Masada? Sarebbe stato un incubo tanto per gli ebrei quanto per i cristiani. O no? Gesù era ebreo. Perché lui o i suoi seguaci non avrebbero dovuto
essere a Masada? No. Gesù era un ebreo eretico. Aveva offeso i sommi sacerdoti. Tornai alle mie domande. Che cosa avrebbe potuto fare Ferris con quelle ossa? Il nascondiglio più logico sarebbe stato il capannone che ospitava la sua ditta. Ma la Scientifica là dentro non aveva trovato nessun genere di ossa. Forse avrebbe potuto nasconderle in modo tale da sfuggire a qualsiasi perquisizione. Avrei dovuto chiedere a Ryan. E anche a Courtney Purviance. Poi mi asciugai il sudore dalla faccia e continuai ad allenarmi. C'era qualcosa che non funzionava nell'ipotesi del capannone. La Torah proibisce di lasciare un corpo insepolto. È scritto nel Deuteronomio. O da qualche altra parte. Ferris non si sarebbe sentito... inquinato dalla presenza di quei resti umani nel suo luogo di lavoro? O quanto meno a disagio? Intanto lasciai lo StairMaster e passai alla panca. Forse Ferris era stato un semplice tramite. Forse in seguito aveva passato le ossa ad altri. Ma a chi? E per conto di chi? Qualcuno che condivideva la sua preoccupazione e quella di Lerner circa la sacralità di Masada? Ma come Ferris qualunque altro ebreo avrebbe dovuto rispettare i dettami della Torah. Magari era qualcuno che aveva altre ragioni per volere la sparizione di quelle ossa. Ragioni cristiane, forse? Se Gesù non era morto sulla croce, se Gesù era sopravvissuto, e le sue ossa erano finite davvero al Musée de l'Homme, questo fatto avrebbe letteralmente messo a soqquadro il Vaticano così come l'intero mondo protestante. L'ipotesi sarebbe stata risolutamente respinta, altrimenti avrebbe rischiato di far saltare i cardini della fede cristiana. Niente sepolcro vuoto. Niente angeli. Niente resurrezione. Niente Pasqua. Le indagini e le polemiche avrebbero aperto i telegiornali di tutto il mondo per mesi. Per anni. Sarebbe stato un dibattito senza precedenti. E avrebbe prodotto contrasti e scontri devastanti. Mi fermai con il bilanciere a mezz'aria. Il terzo amico! Il prete di Beauce County!
Dora aveva detto che i due uomini erano molti legati. I preti non avevano problemi con le ossa umane. Le consideravano reliquie. Le chiudevano negli altari. E le mostravano nelle chiese di tutta Europa. Di colpo, sentii un'insopprimibile urgenza di trovare quel prete. Guardai l'ora. Le sei e mezzo. Presi l'asciugamano e andai velocemente al mio armadietto. Il mio cellulare aveva appena una tacca di campo. Mi infilai felpa e giubbotto e mi precipitai fuori. Jake mi rispose al quarto squillo, con la voce impastata di sonno. Mentre percorrevo la Sainte-Catherine, gli spiegai la storia di Ferris, di Lerner e del prete. «Jake, mi serve un nome.» «Tempe, qui è mezzanotte.» «Non hai detto che questo Lerner lavora di notte?» «Okay.» Seguito da uno sbadiglio. «Dimmi tutto quello che riesci a scoprire su questoprete. Era coinvolto nel furto dello scheletro? Dove viveva nel 1973? Dove vive ora?» «Boxer o slip?» «Bravo. Quel genere di cose.» «Se lo chiamo a quest'ora Lerner potrebbe insospettirsi.» «Ho molta fiducia nelle tue capacità di persuasione.» «E nel mio fascino fanciullesco.» «E in quello.» Il telefono squillò mentre uscivo dalla doccia. Mi avvolsi nel telo da bagno e cercai di schizzare in camera da letto, rischiando di scivolare più volte sulle piastrelle umide. Impaziente, sollevai la cornetta. «Sylvain Morissonneau.» «Jake, sei una rock star» dissi, annotando il nome sul retro di un estratto conto. «Guarda che mi confondi con Sting» rispose Jake. «Allora, questo Morissonneau era coinvolto nella storia dello scheletro?» «No.» «Adesso dove si trova?» «Lerner non lo conosceva tanto bene. Dice che poco dopo l'incontro di Ferris e di Morissonneau alla Yeshiva University, lui partì per Parigi. E dal
1971 non ha mai più visto né sentito Morissonneau.» «Ah.» «Però c'è una cosa interessante.» Attesi che continuasse. «Morissonneau è un cistercense.» «Una specie di monaco trappista, giusto?» «Se lo dici tu.» Dopo una cena thailandese scongelata a base di pollo e riso, accesi il PC e lanciai una ricerca sul Web. Charlie gracchiava Get off of my cloud. E Birdie faceva le fusa sulla scrivania, alla mia destra. Nel corso della mia ricerca scoprii una serie di cose. Nel 1098 un fremito di rinnovamento percorse la confraternità dei benedettini del monastero di Cîteaux, nella Francia centrale. La loro idea era quella di ripristinare, il più fedelmente possibile, il rispetto della regola di san Benedetto. Ma non chiedetemi che cosa significhi in termini pratici. Il nome latino di Cîteaux era Cistercium, e coloro che aderirono al movimento riformatore in seguito vennero identificati con l'appellativo di cistercensi. Oggi i monaci benedettini si dividono in vari ordini, uno dei quali è l'Ordine cistercense della stretta osservanza. I suoi aderenti, noti con il nome di monaci trappisti, provengono da un altro movimento riformatore partito dal monastero francese di La Trappe, nel XVII secolo. Quanti movimenti riformatori, pensai. Del resto, ha senso. I monaci avevano molto tempo per meditare, riflettere e migliorare le cose. Trovai tre monasteri cistercensi in Québec. Uno a Oka, vicino a Lac-desDeux-Montagnes. Uno a Mistassini, vicino a Lac-Saint-Jean. Uno nella regione di Montérégie, vicino a Saint-Hyacinthe. Tutti e tre avevano un loro sito Web. Trascorsi due ore navigando tra infinite pagine Web che spiegavano la giornata dei monaci, la loro missione spirituale, il significato della vocazione, la storia dell'ordine. Ma per quanto leggessi, non riuscivo a trovare nessun elenco di monaci. In nessuno dei tre monasteri. Stavo quasi per rinunciare, quando capitai su un breve annuncio. Il 17 luglio 2004 i monaci dell'abbazia di Sainte-Marie-desNeiges, sotto la presidenza di padre Charles Turgeon dell'Ordine cistercense della stretta osservanza, scelgono come loro ottavo
abate padre Sylvain Morissonneau, cinquantanove anni. Nato in Québec, nella Beauce County, padre Morissonneau frequenta l'università a Laval. Viene ordinato sacerdote nel 1968, e in seguito prosegue gli studi accademici negli Stati Uniti. Padre Morissonneau entra nell'abbazia nel 1971. Durante gli otto anni precedenti alla sua elezione, si occupa della gestione economica del monastero. Durante il suo ufficio, si avvarrà tanto delle sue competenze pratiche quanto di quelle accademiche. E così Morissonneau aveva optato per la vita contemplativa, pensai, passando dal sito Web del monastero a quello dello stradario del Canada. Spiacente, padre, ma la sua beata solitudine verrà presto turbata. 11 La zona di Montérégie è una lunga fascia a vocazione agricola che si estende tra Montréal e il confine con gli Stati Uniti. Punteggiata di colline e vallate, attraversata dalla Rivière Richelieu e delineata dalle rive del San Lorenzo, la regione è ricca di parchi e di spazi verdi. Parc National des Îles-de-Boucherville. Pare National du Mont-Saint-Bruno. Le Centre de la Nature du Mont-Saint-Hilaire. I turisti visitano la zona di Montérégie per la bellezza della natura, per i suoi prodotti e per praticare il ciclismo, lo sci e il golf. L'abbazia di Sainte-Marie-des-Neiges si trovava sulle rive della Rivière Yamaska, a nord della città di Saint-Hyacinthe, nel cuore del trapezio formato da Saint-Simon, Saint-Hugues, Saint-Jude e Saint-Barnabé. La zona di Montérégie è anche molto ricca di santi. Alle nove e venti del mattino seguente lasciai la strada statale a doppia corsia ed entrai in una strada secondaria lastricata che si snodava tra distese di meli per quasi un chilometro, prima di svoltare bruscamente e attraversare un alto muro di pietra. Una sobria targa mi informò che avevo trovato i miei monaci. Il monastero si estendeva su un vasto spiazzo erboso ed era circondato da olmi giganteschi. Edificato con la pietra grigia del Québec, il luogo di preghiera ricordava una chiesa colpita da metastasi. Ali secondarie si sviluppavano da tre lati, e da queste altre ali di dimensioni minori. Una torre rotonda a tre piani si elevava nel punto di unione dell'ala est con la chiesa vera e propria, mentre sulla sua omologa di sinistra spiccava una guglia a
base quadrata. Alcune finestre erano ad arco, altre quadrate e chiuse da persiane. Tra la struttura principale, i campi di mais e il fiume sorgevano alcuni edifici separati. Mi presi qualche secondo per riflettere. Dalle mie navigazioni in rete avevo appreso che molti ordini monastici cercano di far fronte alle necessità economiche producendo e rivendendo prodotti alimentari come pane, dolci, formaggi, cioccolato, vino, verdure, oppure souvenir religiosi. Altri monasteri invece ospitano visitatori in cerca di rinnovamento spirituale. Ma i monaci di quell'abbazia non parevano della stessa idea. Intorno a me non vidi insegne accattivanti. Né bottegucce zeppe di artìcoli da regalo. Non un'automobile parcheggiata. Mi fermai di fronte all'ingresso. Nessuno venne ad accogliermi o a respingermi. Dal mio giro sul Web avevo anche appreso che i monaci di SainteMarie-des-Neiges si alzavano alle quattro del mattino, partecipavano a diversi momenti di preghiera, quindi lavoravano dalle otto a mezzogiorno. Avevo fatto in modo che la mia visita coincidesse con il turno di lavoro del mattino. A febbraio il lavoro non poteva riguardare né le mele né il mais. E intorno non notai alcun segno di vita, a parte i passeri e qualche scoiattolo. Scesi dall'auto e chiusi con delicatezza la portiera. C'era qualcosa in quel luogo che invitava al silenzio. Una porta arancione a destra della torre rotonda sembrò la scelta migliore. Mentre mi avvicinavo, da dietro un muro spuntò un monaco. Indossava un mantello marrone con il cappuccio, calze e sandali. Quando mi vide, il religioso non si fermò, ma continuò più lentamente, come per darsi il tempo di capire chi fossi. Si fermò a tre metri da me. In passato doveva aver subito un incidente, perché il lato sinistro del viso sembrava molle, la palpebra sinistra ricadeva sull'occhio e la guancia sinistra era solcata da una riga bianca. Il monaco mi guardò, ma non disse niente. Aveva i capelli completamente rasati, il mento sporgente e una faccia scarna quanto un grafico muscolo-scheletrico. «Sono la dottoressa Temperance Brennan» dissi. «Sono venuta qui per parlare con Sylvain Morissonneau.» Nessuna risposta. «È questione di una certa urgenza.»
Ancora nessuna risposta. Gli mostrai il mio tesserino dell'Istituto di medicina legale. Il monaco abbassò lo sguardo sul tesserino ma non reagì. Avevo previsto un'accoglienza poco calorosa. Così aprii la borsetta e presi una busta chiusa in cui avevo infilato una fotocopia della fotografia di Kessler. Feci un passo in avanti e gliela porsi. «La prego di consegnare questa busta a padre Morissonneau. Sono certa che mi riceverà.» Dal mantello sbucò una mano scheletrica, che prese la busta e mi fece cenno di seguirlo. Il monaco mi fece entrare dalla porta arancione, e dopo aver attraversato un minuscolo atrio percorremmo un corridoio rivestito da pannelli di legno. L'aria aveva l'odore del lunedì mattina nelle scuole parrocchiali della mia infanzia. Un misto di lana bagnata, disinfettante e cera per mobili. Entrammo in una biblioteca e il mio ospite mi fece cenno di accomodarmi. Poi con la mano aperta mi fece capire che dovevo aspettare lì. Quando il monaco mi lasciò, ne approfittai per guardarmi intorno. La biblioteca ricordava il set di una scena di Harry Potter. Pannelli in legno scuro, armadi con ante a vetro, scale a rotelle che servivano per raggiungere scaffali di libri a tre piani. Tutto quel legno probabilmente corrispondeva al patrimonio forestale dell'intero British Columbia. Contai otto lunghi tavoli e dodici archivi con minuscole maniglie di ottone sui cassetti. Non c'era l'ombra di un computer. Non sentii entrare il secondo monaco. Me lo trovai semplicemente di fronte. «La dottoressa Brennan?» Mi alzai. Il monaco indossava un saio bianco con sopra una specie di stola marrone formata da due pannelli rettangolari uniti che ricadevano sul davanti e sul dietro. Niente mantello. «Sono padre Sylvain Morissonneau, abate di questa comunità.» «Sono desolata di essere arrivata all'improvviso.» Gli tesi la mano. Morissonneau sorrise ma non rispose al mio gesto. Sembrava più vecchio, ma più in carne, del monaco che mi aveva accolta. «Lavora per la polizia, dottoressa?» «No, per l'Istituto di medicina legale di Montréal.» «Prego.» Morissonneau fece un gesto con la mano, identico a quello del suo confratello. «Mi segua.» Inglese, con forte accento québécois.
Morissonneau mi scortò lungo il corridoio principale e dopo aver attraversato un ampio spazio aperto entrammo in un altro corridoio, lungo e stretto. Superata una decina di porte, entrammo in quello che mi sembrò un ufficio. Morissonneau si richiuse la porta alle spalle e di nuovo mi fece un gesto con la mano. Mi accomodai. Rispetto alla biblioteca, quella stanza era decisamente spartana. Muri bianchi. Pavimento rivestito di mattonelle. Semplice scrivania in legno di quercia. Normali schedari metallici. Gli unici ornamenti erano un crocifisso dietro la scrivania e un dipinto sopra una delle file di schedari. Gesù che parlava con gli angeli. E appariva decisamente più in forma che nel crocifisso di legno intagliato. Spostai il mio sguardo dalla tela al crocifisso. Un pensiero fece capolino nella mia testa. Prima e dopo. Un pensiero che mi fece sentire sacrilega. Morissonneau si sedette e posò la mia fotocopia sul ripiano della scrivania. Quindi intrecciò le dita e mi guardò. Io attesi. Lui attese. Io attesi ancora. E vinsi. «Immagino che abbia visto Avram Ferris.» Tranquillo. «Sì, l'ho visto.» «È stato Avram a mandarla da me?» Morissonneau non sapeva niente. «No.» «E che cosa vuole Avram?» Inspirai a fondo. Odiavo fare ciò che stavo per fare. «Sono molto dolente di doverle portare una cattiva notizia, padre. Ma Avram Ferris è stato assassinato due settimane fa.» Sulle labbra di Morissonneau lessi una preghiera silenziosa, e i suoi occhi si abbassarono sulle mani. Quando li rialzò, il suo viso era incupito da un'espressione che avevo visto ormai troppe volte. «Da chi?» «La polizia sta ancora indagando.» Morissonneau si sporse verso di me. «C'è qualche pista accreditata?» Indicai la fotocopia.
«Un uomo di nome Kessler mi ha dato questa fotografia» dissi. Nessuna reazione. «Per caso lei conosce il signor Kessler?» «Potrebbe descrivermelo?» Glielo descrissi. «Mi spiace, dottoressa.» Dietro gli occhiali bordati d'oro, gli occhi di Morissonneau si erano fatti neutri. «Purtroppo la sua descrizione potrebbe essere valida per molte persone.» «Molte persone che potrebbero aver avuto accesso a questa fotografia?» Morissonneau ignorò la mia domanda. «Come mai si è rivolta a me?» «Ho avuto il suo nome da Yossi Lerner.» Più o meno. «Come sta Yossi?» «Bene.» Raccontai a Morissonneau ciò che Kessler mi aveva detto riguardo alla fotografia. «Capisco.» L'abate sollevò le dita e le tamburellò brevemente sulla scrivania. Per un istante osservò la copia della fotografia. «Avram Ferris è stato colpito dietro la testa, come capita nelle esecuzioni.» «Basta, la prego.» Morissonneau si alzò. «Mi aspetti qui.» Di nuovo quel gesto della mano. Iniziavo a sentirmi un po' come Lassie. Morissonneau uscì rapidamente dalla stanza. Passarono cinque minuti. Un orologio risuonò dal corridoio. A parte quel rumore, l'intero edificio era immerso nel silenzio. Passarono dieci minuti. Annoiata, mi alzai e mi avvicinai al dipinto. Avevo ragione e torto al tempo stesso: la tela e il crocifisso costituivano in effetti una sequenza «prima e dopo», ma avevo invertito l'ordine. Il dipinto raffigurava infatti il giorno di Pasqua. Quattro figure stavano presso una tomba: due angeli sedevano sul coperchio di pietra aperto, mentre una donna, probabilmente Maria Maddalena, era tra loro. Gesù risorto appariva sulla destra del dipinto. Com'era già successo in biblioteca, non sentii Morissonneau entrare. Lo vidi solo mentre girava intorno a me, tenendo in mano una cassettina. Si fermò quando mi vide, e il suo viso si distese. «Bello, vero? Molto più delicato della maggior parte delle rappresentazioni della resurrezione di Cristo.» La voce di Morissonneau era comple-
tamente diversa da prima. Sembrava un nonno che mostra con orgoglio le foto dei suoi nipoti. «Sì, lo è.» Il dipinto era immerso in un'atmosfera eterea. «Edward Burne-Jones. Lo conosce?» mi chiese Morissonneau. Scossi la testa. Non lo conoscevo. «Era un artista inglese del periodo vittoriano, un allievo di Rossetti. Molti dei suoi dipinti sono caratterizzati da un'atmosfera di sogno. Questo si intitola La mattina della resurrezione. Risale al 1882.» Morissonneau indugiò un momento sul dipinto, poi serrò le mascelle e rimase in silenzio. Girando intorno alla scrivania, ripose la cassettina sul ripiano e si mise a sedere. Dopo aver riorganizzato i pensieri, tornò a parlare, di nuovo con tono teso. «La vita monastica è una vita di solitudine, di preghiera e di studio. E io ho scelto questa vita.» Morissonneau parlava lentamente, inserendo pause dove normalmente non ci sarebbero volute. «Con i voti, ho voltato le spalle alla politica e ai problemi di questo mondo.» Morissonneau posò una mano punteggiata di macchie brune sulla cassetta. «Ma non posso ignorare le vicende che agitano il mondo. E non posso voltare le spalle all'amicizia.» Morissonneau si guardò la mano, ancora impegnato in una personalissima lotta interiore. Verità o silenzio? Verità. «Queste sono le ossa del Musée de l'Homme.» Sentii un fiammifero accendersi nel petto. «Lo scheletro trafugato da Yossi Lerner?» «Sì.» «Da quanto tempo è in suo possesso?» «Da troppo tempo.» «Aveva accettato di custodirlo per conto di Avram Ferris?» Rapido cenno affermativo. «Perché?» «I perché sono tanti. Perché Avram insisté che fossi io a tenerlo? Perché io accettai? Perché ho protratto tanto a lungo questa disonestà condivisa?» «Inizi da Ferris.» «Avram accettò lo scheletro da Yossi per lealtà nei suoi confronti, e perché Yossi lo aveva convinto che la sua scoperta avrebbe innescato conse-
guenze spaventose. Dopo aver trasportato le ossa in Canada, Avram le tenne nascoste nel suo capannone per diversi anni. Alla fine, però, iniziò a sentirsi a disagio. Più che a disagio. Quelle ossa diventarono per lui un'ossessione.» «Perché?» «Avram è ebreo. E questi sono i restì di un uomo.» Morissonneau accarezzò la cassetta. «E...» L'abate alzò di colpo la testa. Su una lente degli occhiali notai un riflesso di luce. «Chi è?» Sentii il lieve fruscio di un tessuto. «Frate Marc?» La voce di Morissonneau era affilata. Mi voltai. La sagoma di un uomo riempiva il vano della porta. Il monaco con la guancia sfregiata si portò la mano alla bocca e alzò un sopracciglio. Quello sano. Morissonneau scosse la testa. «Laissez-nous.» Il monaco fece un inchino e si ritirò. L'abate si alzò e andò a chiudere la porta. «Avram quindi iniziava a sentirsi a disagio» dissi, dopo che Morissonneau era tornato a sedere, cercando di riprendere il discorso. «Avram credeva nella stessa teoria in cui anche Yossi credeva.» Sussurrò. «E cioè che si trattasse dello scheletro di Gesù Cristo?» Morissonneau annuì. «Lo credeva anche lei, padre?» «Crederci? No, per crederci, non ci credevo. Ma non sapevo cosa fare. Come non lo so adesso. Non potevo rischiare. E se Avram e Yossi avevano ragione? E se Gesù non fosse morto sulla croce? Sarebbe stata la messa di requiem per tutta la cristianità.» «Avrebbe smentito i princìpi fondamentali della fede.» «Proprio così. La fede cristiana si basa sull'assunto della morte e resurrezione di nostro Signore. Credere nella Passione è centrale per una religione su cui milioni di anime in tutto il mondo modellano la loro vita. Un miliardo di persone, dottoressa Brennan. Mettere in discussione quei princìpi produrrebbe conseguenze inimmaginabili.» Morissonneau chiuse gli occhi, riflettendo, supposi, su quelle inimmaginabili conseguenze. Quando li riaprì, il tono della sua voce era più deciso. «Avram e Yossi probabilmente avevano torto. Io non credo che queste
siano le ossa di Gesù Cristo. Ma cosa sarebbe successo se una simile notizia fosse trapelata raggiungendo la stampa? Cosa sarebbe successo se quel pozzo nero che sono oggi i media avesse montato su questa storia uno dei suoi nauseanti teatrini, vendendo l'anima al diavolo per vincere la battaglia dell'audience con il telegiornale della sera? Le sole polemiche che ne sarebbero derivate sarebbero state una catastrofe.» L'abate non aspettò la mia replica. «Vuole sapere che cosa sarebbe successo? Un miliardo di vite sarebbe stato scardinato. La fede sarebbe stata sovvertita lasciando spazio a una vera devastazione spirituale. Il mondo cristiano sarebbe sprofondato nella crisi. E le cose non sarebbero finite qui, dottoressa Brennan. Che piaccia o no, la cristianità è una potente forza politica ed economica. Il crollo della Chiesa cristiana avrebbe portato a uno sconvolgimento globale. Alla totale instabilità. E il mondo sarebbe precipitato nel caos.» Morissonneau sottolineò il concetto alzando il dito indice in segno di monito. «La civiltà occidentale sarebbe stata estirpata alle radici. Ecco che cosa credevo all'epoca. E oggi, con gli estremisti islamici che insistono nel proporre al mondo il loro nuovo fanatismo religioso, lo credo con sempre maggior convinzione.» Morissonneau si sporse in avanti. «Io sono cattolico, ma ho studiato la fede musulmana. E ho osservato con attenzione i recenti sviluppi in Medio Oriente. Anche allora, vedevo il malcontento che mi circondava, e sapevo che una crisi era in agguato. Ricorda i giochi olimpici di Monaco?» «Sì. Un gruppo di terroristi palestinesi rapì undici atleti della rappresentanza israeliana. E tutti furono uccisi.» «I rapitori erano membri di una fazione dell'OLP chiamata Settembre Nero. Tre furono catturati. Circa un mese dopo, un jet della Lufthansa fu dirottato da altri terroristi che chiedevano il rilascio degli assassini di Monaco. Le autorità tedesche accettarono. Era il 1972, dottoressa Brennan. E io leggevo la notizia sulla stampa, pensando che eravamo solo all'inizio. Quei fatti ebbero luogo un anno prima che Yossi trafugasse lo scheletro per affidarlo ad Avram. «Sono un uomo tollerante. E nutro un profondo rispetto per i miei fratelli musulmani. Le persone di fede islamica in genere sono orientate al lavoro e alla famiglia, e amano la pace. Quindi sono persone che condividono gli stessi valori in cui lei e io crediamo. Ma tra tanti buoni, esiste anche
una bieca minoranza guidata dall'odio e votata alla distruzione.» «I cosiddetti jihadisti.» «Lei conosce i dettami del wahabismo, dottoressa Brennan?» Non li conoscevo. «Questo movimento, che professa una forma più rigorosa della più vasta religione islamica, fiorì nella Penisola Arabica. E da due secoli a questa parte è la religione dominante in Arabia Saudita.» «Che cosa distingue questo movimento dall'islamismo?» «L'importanza data all'interpretazione letterale del Corano.» «Ricorda quasi il caro vecchio fondamentalismo cristiano.» «Per molti aspetti è così. Ma gli wahabiti si spingono oltre, e chiedono il rifiuto totale e la distruzione di tutto ciò che non si basa sugli insegnamenti originari del profeta Maometto. La crescita esplosiva di questo movimento si verificò negli anni Settanta, quando le cellule saudite iniziarono a sovvenzionare scuole e moschee wahabite, chiamate madrasa, in tutto il mondo, da Islamabad a Culver City.» «Questo movimento è davvero così pericoloso?» «Secondo lei i talebani in Afghanistan non erano pericolosi? E l'Iran dell'ayatollah Khomeini non lo era?» Morissonneau non attese la mia risposta. «I wahabiti non si interessano semplicemente di mente e di anima. Questa setta ha un'ambiziosa agenda politica centrata sulla sostituzione del potere secolare con quello religioso, sia esso esercitato da un gruppo di governanti o da una singola persona, in tutti i Paesi musulmani del pianeta.» Delirio nazionalistico? Tenni i miei dubbi per me. «I wahabiti si stanno infiltrando in governi ed eserciti di tutto il mondo musulmano, occupando posizioni di rilievo in previsione del rovesciamento o dell'assassinio dei governanti non religiosi.» «È veramente convinto di questo?» «Pensi solo alla distruzione del moderno Libano, che porta all'occupazione siriana. Pensi all'Egitto e all'assassinio di Anwar Sadat. Pensi agli attentati subiti da Mubarak in Egitto, da re Hussein di Giordania, da Musharraf in Pakistan. Pensi alla repressione dei leader non religiosi in Iran.» Di nuovo, Morissonneau sollevò il dito indice in segno di ammonimento. Questa volta però il suo dito tremava. «Osama bin Laden è un wahabita, come molti di quelli che hanno partecipato agli attentati dell'11 settembre. Questi fanatici sono impegnati in quello che loro chiamano il Terzo Grande Jihad, o guerra santa, e tutto, ri-
peto tutto, ciò che serve alla loro causa per questa gente è lecito.» La mano di Morissonneau si posò sulla cassetta. Adesso capivo dove quel discorso voleva andare a parare. «Comprese le ossa di Gesù Cristo» conclusi. «Perfino le eventuali ossa di Gesù Cristo. Questi pazzi utilizzerebbero il loro potere per manipolare la stampa, distorcendo la questione a loro uso e consumo. Il circo mediatico si scatenerebbe sull'autenticazione di queste ossa mettendo in discussione la fede di milioni di persone, e fornendo agli jihadisti i mezzi per erodere le fondamenta della Chiesa che è tutta la mia vita. Ora, avendo la possibilità di impedire tutto questo, io mi sono sentito obbligato a farlo. «La ragione primaria che mi spinse a custodire queste ossa fu proteggere la Chiesa. Il timore dell'integralismo islamico all'epoca era secondario. Ma con il passare degli anni, quel timore crebbe sempre di più.» Morissonneau inspirò dal naso e si appoggiò alla sedia. «Fino a diventare la vera ragione che mi indusse a tenerle.» «E dove le ha custodite per tutti questi anni?» «Qui al monastero c'è una cripta. La religione cristiana non proibisce di tenere resti insepolti.» «Non si è sentito in dovere di avvertire il museo?» «Non mi fraintenda, dottoressa Brennan. Io sono un uomo di Dio. Per me l'etica è importante. È stata una decisione molto sofferta, contro la quale ho lottato quotidianamente.» «Però ha accettato di nascondere lo scheletro.» «Ero giovane quando tutto questo iniziò. Dio mi perdonerà per questo, ma lo considerai uno dei tradimenti necessari del nostro tempo. Poi, via via che gli anni passavano e visto che nessuno al museo parve interessarsi più a quelle ossa, pensai che fosse meglio lasciarle dov'erano.» Morissonneau si alzò. «Ma adesso basta. Un uomo è morto. Una brava persona. Un amico. Forse solo per una cassetta di vecchie ossa e l'ipotesi di un uomo bizzarro scritta in un libro.» Mi alzai anch'io. «Confido in lei affinché faccia tutto quanto è in suo potere per mantenere la questione strettamente riservata» mi disse Morissonneau. «Chi mi conosce sa che non ho rapporti idilliaci con la stampa.» «Così ho sentito.» Immagino che lo guardai con aria sorpresa.
«Ho fatto un rapido controllo telefonico, dottoressa.» Quindi la vita dell'abate Morissonneau dopo tutto non era così ritirata dal mondo. «Mi metterò in contatto con le autorità israeliane» dissi. «È probabile che queste ossa torneranno a loro, e dubito che convocheranno una conferenza stampa.» «Ciò che succederà da oggi in poi è nelle mani di Dio.» Sollevai la cassetta. Il contenuto si mosse producendo un leggero rumore. «La prego di tenermi informato» mi disse l'abate. «Certamente.» «La ringrazio, dottoressa.» «Cercherò di tenerla fuori da questa storia, padre. Ma non posso assicurarle con certezza che ci riuscirò.» Morissonneau fece per dire qualcosa. Ma poi la sua bocca si richiuse ed egli sembrò rinunciare a ulteriori scuse o spiegazioni. 12 Mentre facevo ritorno in città, più volte superai il limite di velocità di una ventina di chilometri orari, ma quel giorno la fortuna era dalla mia parte. L'occhio della legge era puntato su qualche altra strada. Arrivata al Wilfrid-Derome, lasciai l'auto nel parcheggio riservato alla polizia. Al diavolo. Era sabato e potevo avere Dio in persona nella mia Mazda! La temperatura si era alzata e la prevista nevicata si era trasformata in una sottile pioggerella. Strade e marciapiedi si stavano macchiando di piccole pozzanghere. Aprii il cofano, presi la cassetta di Morissonneau e mi affrettai verso il palazzo. Guardie a parte, l'atrio era deserto. Come pure il dodicesimo piano. Posai la cassetta sul mio tavolo da lavoro, mi tolsi il giaccone e chiamai Ryan. Nessuna risposta. Dovevo chiamare Jake? No, prima le ossa. Mentre mi infilavo il camice, mi accorsi che il cuore mi batteva forte. Perché? Pensavo davvero che quello fosse lo scheletro di Gesù Cristo?
Ovviamente no. Allora, chi c'era in quella cassetta? Qualcuno aveva voluto che quelle ossa uscissero da Israele. Lerner le aveva trafugate. Ferris le aveva trasportate e nascoste. Per quelle ossa Morissonneau aveva mentito, andando contro la propria coscienza. Ferris era davvero morto per colpa dello scheletro? Dal fervore religioso nascono comportamenti ossessivi. Se poi queste azioni siano razionali o irrazionali, dipende dalla prospettiva in cui le si guarda. Questo lo sapevo. Ma qual era il senso di tutta quella macchinazione? Perché decidere di nascondere le ossa, ma non di distruggerle? Chissà se Morissonneau aveva ragione. Chissà se era vero che questi jihadisti avrebbero ucciso pur di avere quelle ossa. Oppure se si era sentito profondamente minacciato nella sua fede religiosa come nelle sue tradizioni culturali. Non avevo idea. Ma di sicuro intendevo dare una risposta a quelle domande. Presi un martello da uno dei miei cassetti. Il legno era secco. I chiodi erano vecchi. E mentre schiodavo il coperchio della cassetta, dal legno saltarono via molte schegge. Quando ebbi terminato, accanto alla cassetta avevo allineato sedici chiodi. Posai il martello e sollevai il coperchio. Polvere. Ossa essiccate. Lo stesso odore antico delle vertebre fossili. Le ossa lunghe giacevano sul fondo, parallele tra loro, con in mezzo le rotule e le ossa più piccole di mani e piedi. Il resto formava uno strato intermedio. Il cranio era sopra, con la mandibola separata e le orbite rivolte verso l'alto. Uno scheletro come centinaia di altri che avevo visto. Spostai il cranio su un sostegno di sughero, posizionai la mandibola e fissai quel volto senza carne. Chissà che aspetto aveva avuto in vita. Chissà chi era veramente. No. Niente speculazioni. Uno alla volta, sistemai i vari elementi nel loro ordine. Quaranta minuti dopo, uno scheletro anatomicamente completo giaceva sul mio tavolo da lavoro. Non mancava nulla, a parte un ossicino della gola chiamato ioide e qualche falange dei piedi e delle mani. Mentre pinzavo sul supporto rigido il modulo da compilare per l'apertura del fascicolo, squillò il telefono. Era Ryan. Gli parlai della mia mattinata. «Santa merda.»
«Forse» risposi. «Ferris e Lerner erano convinti che fosse Gesù Cristo?» «Morissonneau non era sicuro.» «Tu che ne pensi?» mi domandò Ryan. «Sto iniziando il mio esame.» «E quindi, che ne pensi?» «Sto iniziando il mio esame.» «Devo tenere il culo inchiodato a questa macchina fino alla fine del mio turno di sorveglianza. Ma questa mattina ho ricevuto una telefonata. E forse c'è qualcosa di nuovo sull'omicidio di Ferris.» «Davvero?» «Quando mi libero da qui, faccio qualche verifica» mi disse Ryan. «Che pista è?» «Quando mi libero da qui, faccio qualche verifica.» «Touché.» «Siamo o non siamo professionisti?» disse Ryan. «Niente inutili speculazioni, per noi professionisti.» «Niente conclusioni affrettate, per noi professionisti.» Dopo la telefonata, scesi rapidamente alla caffetteria del primo piano, divorai un sandwich al tonno con una Diet Coke e tornai di corsa al mio laboratorio. Volevo arrivare a una conclusione il prima possibile. Ma cercai di rispettare ugualmente la procedura. Guanti. Luce. Modulo. Respiro profondo. Iniziai con la determinazione del sesso. Bacino: incisura ischiatica stretta, apertura pelvica stretta, ossa pubiche robuste separate da uno spazio a forma di V rovesciata. Cranio: arcate sopraccigliari sporgenti, margini orbitali non affilati, processi mastoidei, creste e inserzioni muscolari pronunciate. Non c'era molto spazio per i dubbi. Il nostro scheletro era maschio al cento per cento. Passai alla determinazione dell'età. Dopo aver posizionato la luce, osservai la metà sinistra dell'osso del bacino nel punto in cui in vita avrebbe dovuto articolarsi con la metà destra. La superficie era coperta da minuscole depressioni e l'ovale che formava il
perimetro era leggermente schiacciato longitudinalmente. Dal bordo superiore e dai margini inferiori sporgevano alcune escrescenze spinose. La sinfisi pubica destra aveva lo stesso aspetto. Mi alzai e andai alla fontanella dell'acqua. Mi riempii un bicchiere. Sorseggiai lentamente e inspirai a fondo. Più calma, tornai allo scheletro e cercai la terza, quarta e quinta costa di entrambi i lati dello sterno. Solo due avevano le estremità anteriori intatte. Posai le altre coste e osservai quella coppia con attenzione. Entrambe terminavano con profonde dentellature a forma di U circondate da sottili pareti orlate da bordi affilati. Dal margine inferiore e superiore di questi bordi sporgeva una serie di spicole ossee. Mi appoggiai alla sedia e posai la penna. Che sensazione provavo? Sollievo? Delusione? Non ero sicura. Le sinfisi pubiche rientravano nella fase 6 del sistema di determinazione dell'età di Suchey-Brooks, una serie di parametri derivati dall'esame del bacino di centinaia di adulti di età nota al momento del decesso. Per i maschi, la fase 6 indicava un'età media di sessantuno anni. Quanto alle coste, rientravano nella fase 6 del sistema di determinazione dell'età di Iscan-Loth, una serie di parametri basati sulla quantificazione dei cambiamenti morfologici subìti dalle coste di un esteso campione di adulti osservate durante gli esami autoptici. Per i maschi, la fase 6 indicava una classe di età compresa tra quarantatre e cinquantacinque anni. Considerando che il cromosoma Y è terribilmente variabile, e considerando che dovevo ancora esaminare radiologicamente le ossa lunghe e le radici dei molari, ero certa che la mia conclusione preliminare fosse fondata. E quindi la riportai sul modulo relativo al caso in questione. Età alla morte: compresa tra i quaranta e i sessant'anni. Era escluso che il nostro fosse morto a trent'anni. Come Gesù di Nazareth. Sempre che Gesù di Nazareth fosse morto a trent'anni. Secondo l'ipotesi di Joyce, era vissuto fino agli ottanta. Ma quell'individuo non era compatibile con nessuno dei due profili. Perché potevo anche escludere che fosse vissuto oltre i settant'anni. E non era neppure compatibile con il profilo dell'uomo anziano della Grotta 2001. Ma poi, chissà se lo scheletro isolato descritto dal volontario di cui parlava Jake era veramente l'uomo anziano della grotta. Forse non lo era. Forse il settuagenario di Yadin era confuso fra tutte le altre ossa e lo
scheletro isolato era un altro individuo. Un individuo di età compresa fra i quaranta e i sessant'anni. Come quello che avevo davanti. Passai alla pagina successiva. Origine. Bene. Gran parte dei sistemi di valutazione razziale si basano sulle variazioni della forma e delle misure del cranio, dell'architettura facciale, della forma dei denti. Ma anche se io spesso faccio affidamento proprio sulle misurazioni del cranio, questa volta c'era un problema. Se avessi misurato il cranio che avevo davanti e poi inserito i dati ottenuti in Fordisc 2.0, il programma avrebbe confrontato il mio sconosciuto con i parametri relativi ai bianchi, ai neri, ai nativi americani, agli ispanici, ai giapponesi, ai cinesi e ai vietnamiti. Un grande aiuto, peccato che l'uomo della cassetta era presumibilmente vissuto in Israele duemila anni fa! Lessi rapidamente l'elenco dei tratti sul mio modulo. Ossa nasali prominenti. Aperture nasali strette. Profilo facciale piatto se osservato di lato. Zigomi che abbracciano la faccia. Tutto suggeriva razza caucasoide. O al limite indoeuropea. Non negroide. Non mongolide. Rilevai le misure e le inserii. Tutti i parametri di confronto indicavano che il cranio apparteneva senza dubbio alla razza bianca. Okay. Computer e bulbi oculari erano d'accordo. E adesso? Quell'uomo era mediorientale? Mediterraneo? Ebreo? Non ebreo? Non avrei saputo come stabilirlo. E il test del DNA non sarebbe stato di alcun aiuto. Passai alla statura. Tra le ossa della gamba eliminai quelle con le estremità erose o danneggiate e misurai il resto con una tavola osteometrica. Inserii le dimensioni in Fordisc 2.0 e richiesi un calcolo basato su tutti i maschi contenuti nel database con razza sconosciuta. Altezza: tra il metro e sessanta e il metro e settanta. Trascorsi le ore successive analizzando con la lente di ingrandimento ogni sporgenza, cresta, foro e fessura, ogni articolazione e sfaccettatura, ogni millimetro di superficie corticale. Non trovai niente. Nessuna variazione genetica. Nessuna lesione o indicatore di malattia. Nessun trauma, guarito o d'altro genere.
Nessuna ferita da penetrazione nelle mani o nei piedi. Spensi la fibra ottica del microscopio e inarcai la schiena stiracchiando i muscoli delle braccia. Avevo le spalle e il collo rigidi come una tavoletta di legno. Per caso stavo diventando vecchia? Figuriamoci... Andai alla scrivania, mi sedetti e controllai l'orologio. Le sei meno cinque. A Parigi era mezzanotte. Troppo tardi per chiamare. Jake mi rispose con la voce impastata di sonno e mi chiese di aspettare. «Che succede?» mi disse quando tornò. E si aprì una lattina. «Non è Gesù.» «Ah.» «Lo scheletro del Musée de l'Homme.» «Ah.» «Lo sto esaminando.» «Ah.» «È un maschio bianco di mezz'età e di statura media.» «Ah.» «Jake, ma mi stai ascoltando?» «Hai le ossa di Lerner?» «Lo scheletro che lui ha sottratto è qui nel mio laboratorio.» «Cristo santo!» «No, non è lui.» «Sei sicura?» «Sì. Questo tizio ha superato i quaranta. Secondo le mie valutazioni, al momento del decesso aveva almeno cinquant'anni.» «Non ottanta, quindi.» «Assolutamente no.» «Non poteva averne settanta?» «Dubito.» «Quindi non è quel maschio anziano di Masada di cui parlano Yadin e Tsafrir.» «Sappiamo con sicurezza che l'anziano di Yadin corrisponde allo scheletro isolato?» «Veramente, no. Le ossa più vecchie potrebbero essere mischiate a tutte le altre. E questo significa che lo scheletro isolato potrebbe appartenere a uno dei quattordici maschi di età compresa fra i ventidue e i sessant'anni.»
«Oppure potrebbe non essere stato calcolato nel computo degli individui.» «Appunto.» Ci fu una lunga pausa. «Raccontami come hai avuto quelle ossa.» Gli spiegai di Morissonneau e della mia visita al monastero. «Santa merda.» «È quello che ha detto anche Ryan.» La replica di Jake mi arrivò con il suono di un sussurro. «Che cosa pensi di fare?» «Innanzitutto, chiamo il mio capo. Queste ossa sono in ogni caso dei resti umani. Rinvenuti nella provincia del Québec. E quindi sono sotto la responsabilità del coroner. Inoltre, queste ossa potrebbero essere usate come prove in un'indagine per omicidio.» «Ferris?» «Sì.» «E poi?» «Sicuramente il mio capo mi dirà di contattare le autorità preposte in Israele.» Ci fu un'altra pausa. Il nevischio tamburellava contro i vetri della finestra sopra la mia scrivania sciogliendosi in tanti rivoletti. Dodici piani sotto, il traffico intasava le strade e il Pont Jacques Carrier. I fanali delle auto procedevano lentamente disegnando scintillanti nastri di luce rossa sull'asfalto. «Sei sicura che si tratti dello scheletro della fotografia di Kessler?» Buona domanda. Anche perché in effetti non ci avevo pensato. «Non ho visto niente che possa escluderlo» risposi. «E hai visto qualcosa che possa confermarlo?» «No.» Poco convincente. «Secondo te è il caso di ricontrollare?» «Sì. Infatti lo sto per fare.» «Potresti richiamarmi, prima di contattare le autorità israeliane?» «Perché?» «Per favore, Tempe, mi prometti che lo farai?» Perché no? Del resto era stato Jake a metterci su quella pista. Dopo la telefonata, rimasi seduta per qualche secondo con la mano sulla cornetta. Jake mi era sembrato vagamente a disagio quando gli avevo detto che avrei informato chi di dovere in Israele. Perché? Forse perché voleva essere il primo a pubblicare qualcosa sul ritrova-
mento e sull'analisi dello scheletro? O perché temeva di perdere il controllo di quelle ossa? Forse non aveva fiducia nei colleghi israeliani? Non avevo idea. Ma perché non lo avevo domandato direttamente a lui? Avevo fame. Mi faceva male la schiena. Avevo voglia di andare a casa, cenare con Birdie e Charlie, e accoccolarmi sul divano con un libro. Invece, presi la foto di Kessler e la infilai nel microscopio. Lentamente, scesi verso il basso partendo dalla sommità del cranio. La fronte non presentava segni particolari. Occhi. Nemmeno. Naso. Niente. Zigomi. Niente. Voltai la testa prima a destra e poi a sinistra, per alleviare il dolore al collo. Tornai a concentrarmi sul microscopio. Quando misi a fuoco la bocca, la osservai con molta attenzione attraverso l'oculare. Poi alzai lo sguardo e lo portai sul cranio, che avevo posato davanti allo strumento. C'era qualcosa che non andava. Tornai a guardare al microscopio, aumentando l'ingrandimento. I denti diventarono enormi. Misi a fuoco l'incisivo centrale, poi lentamente mi portai oltre la linea mediana fino al retro della mandibola. Di colpo sentii un nodo serrarmi lo stomaco. Mi alzai, presi la lente di ingrandimento e sollevai il cranio. Dopo aver ruotato il palato verso l'alto esaminai la dentizione. Il nodo che mi serrava lo stomaco si strinse ancora di più. Chiusi gli occhi. Che diavolo poteva significare? 13 Portai la foto dal microscopio al cranio. Con una lente di ingrandimento, contai i denti dalla linea mediana del palato fino a uno spazio vuoto sulla destra. Due incisivi, un canino, due premolari. Spazio. Due molari. Allo scheletro della foto di Kessler mancava il primo molare superiore a destra. Al cranio sul mio tavolo da lavoro no.
Quindi quello che avevo davanti non era lo scheletro della fotografia? Tornai al microscopio e posizionai il cranio, dopodiché orientai la fibra ottica sui molari superiori della parte destra. Sotto la lente, notai che le radici dei molari erano più esposte del normale. E gli alveoli erano porosi e coperti di minuscole depressioni. Malattia periodontale. Fin qui niente di strano. Quello che invece era molto strano era lo stato della superficie masticatoria del primo molare superiore, dove le cuspidi erano alte e arrotondate. Mentre nei molari adiacenti erano completamente limate. Che diavolo significava? Articolai la mandibola e osservai l'occlusione. Il primo molare entrava in contatto con il suo antagonista prima di tutti gli altri della fila. Quindi il primo molare avrebbe dovuto presentare maggior usura dei vicini, non il contrario. Mi appoggiai alla sedia e riflettei. I casi erano due. A: quello che avevo di fronte era uno scheletro diverso da quello della fotografia di Kessler. B: era lo stesso scheletro, ma con un molare inserito nello spazio vuoto. E se il molare era stato inserito, di nuovo i casi erano due. A: poteva essere il molare originario caduto, visto che spesso con la decomposizione dei tessuti molli i denti cadono. B: era il molare di un altro scheletro erroneamente inserito in quella mandibola. E questa ipotesi spiegava il diverso grado di usura delle cuspidi. Ma quando era stato reinserito il molare? Le ipotesi più verosimili erano tre. A: al momento della sepoltura. B: durante gli scavi di Yadin. C: durante la permanenza dello scheletro al Musée de l'Homme. Il mio istinto diceva B. Okay. Se il dente era stato inserito durante gli scavi di Masada, chi poteva averlo fatto? Le possibilità erano diverse. A: Yadin. B: Tsafrir. C: Haas. D: un addetto agli scavi. Il mio istinto cosa diceva? Uno scavatore in effetti avrebbe potuto trovare il dente accanto allo scheletro, provare a inserirlo nello spazio vuoto e, vedendo che stava al suo posto, lasciarlo lì. Nella Grotta 2001 le ossa erano ammucchiate alla rinfusa; non veniva tenuta una documentazione puntuale; gli studenti in archeologia inesperti e i volontari senza adeguata preparazione commettevano spesso degli errori. Quindi? Rito funebre? Semplice errore? Scheletro diverso da quello del-
la foto? Rispondere era al di là della mia portata. Avevo bisogno di un odontologo. Erano le sette e dieci di un sabato pomeriggio. Sapevo già che cosa mi avrebbe detto il nostro odontologo forense, Marc Bergeron. Compilai un modulo richiedendo le radiografie endorali. Che non avrei potuto effettuare fino a lunedì. Delusa, dedicai l'ora successiva allo studio della foto di Kessler con la lente di ingrandimento. Ma non notai nessuna stranezza o particolare anatomico che potesse inequivocabilmente legare lo scheletro della foto alle ossa che avevo sul tavolo. Trascorsi il resto della serata in preda a una sottile agitazione. Guardai insieme a Birdie le semifinali del campionato di basket NCAA. Io stavo decisamente con i Duke, Birdie con i Kentucky Wildcats. Solidarietà felina, forse. Domenica mattina in meno di mezz'ora riuscii a trovare e ordinare online il libro di Donovan Joyce, The Jesus Scroll. Gli annunci pubblicitari lo definivano l'opera più inquietante mai scritta sulla cristianità. Peccato che il libro fosse fuori catalogo. Ogni due o tre ore cercavo di mettermi in contatto con Jake, ma il suo cellulare era sempre spento. All'una smisi di lasciare messaggi e provai a chiamarlo in hotel. Scoprii che era andato via. L'appostamento di Ryan si concluse con tre arresti e la confisca di un camion di sigarette. Venne da me alle sei, gli occhi pesantemente cerchiati, i capelli ancora bagnati dopo la doccia. Gli offrii una Moosehead, io presi una Perrier, poi andammo a piedi da Katsura, in rue de la Montagne. La zona di Centre-Ville intorno a casa mia era molto tranquilla. Qualche studente fuori dalla Concordia University, qualche pedone a passeggio in rue Crescent. C'era un'atmosfera speciale, la domenica. O forse era solo la temperatura. Durante la notte, il gelido nevischio del sabato aveva ceduto il passo a un freddo artico e al cielo terso. Davanti al sushi, raccontai a Ryan dello scheletro di Morissonneau, e delle mie conclusioni, cioè che le ossa appartenevano a un maschio bianco di età compresa tra i quaranta e i sessant'anni al momento del decesso. «Quindi, la mia stima dell'età esclude il settantenne della Grotta 2001, il trentatreenne Gesù del Vangelo e l'ottantenne Gesù di Donovan.»
«Però sei certa che la fotografia di Kessler si riferisca allo scheletro isolato trovato nella Grotta 2001, e che quello scheletro sia lo stesso trafugato da Lerner al Musée de l'Homme, successivamente affidato a Ferris e infine a Morissonneau?» «Jake ne è certo. Ha parlato con una persona che lavorava come scavatore volontario nella Grotta 2001. Ma io non sono riuscita a trovare nemmeno un elemento che possa legare senza ombra di dubbio lo scheletro di Morissonneau a quello della foto di Kessler. E poi c'è un problema con i denti.» Raccontai a Ryan dello strano molare. «Quindi hai il sospetto che non si tratti dello stesso scheletro?» «Sì. Oppure che si tratti dello stesso scheletro, ma che il molare sia stato inserito dopo lo scatto della fotografia.» «Cioè qualcuno ha trovato il dente mancante durante il recupero e l'ha rimesso al suo posto?» «Per esempio.» «Non mi sembri molto convinta.» «Le cuspidi dei denti sembrano meno usurate.» «E quindi potrebbero appartenere a un'altra persona, magari più giovane?» «Sì.» «E questo che cosa significa?» «Non so. Forse solo un errore. Yadin si faceva aiutare da volontari. Forse uno di loro ha inserito quel molare pensando che fosse al posto giusto.» «Ti rivolgerai a Bergeron?» «Sì. Lunedì.» Poi Ryan mi raccontò delle sue novità riguardo a Ferris. «Quando ho inserito nel database il nome Kessler, non è uscito un granché.» «Carenza di delinquenti ebrei?» «Meyer Lansky» replicò Ryan. «Hai ragione» ammisi. «Bugsy Siegel.» «Hai ragione bis.» «David Berkowitz.» «Hai ragione ter.» «Carino» commentò Ryan. «Latino» risposi.
«Ma poi, dopo aver insistito un po', qualcosa è uscito. Un tizio di nome Hershel Kaplan.» E adesso? Dopo ter cosa c'era? Quabis? Quatris? «Kaplan è un truffatore a tempo perso. Più che altro roba impiegatizia. Truffe con le carte di credito. Assegni falsi. E usa anche i nomi di Hershel Cantor e Harry Kester.» «Lasciami indovinare. Kessler è uno dei nomi falsi usati da Kaplan.» «Hirsch Kessler, per la precisione.» Ryan prese di tasca una fotocopia. «È il tuo uomo?» Osservai la foto. Occhiali. Capelli bruni. Perfettamente rasato. «Potrebbe.» Chiusi gli occhi e cercai di richiamare alla mente l'immagine di Kessler. Li riaprii e fissai la foto segnaletica di Ryan. Qualcosa vibrò nel mio subconscio. Ma cosa? Kessler che si guardava continuamente intorno. I suoi occhi socchiusi. Una parola che avevo sentito quando Kessler mi aveva fermata davanti alla saletta dei parenti. «Tartaruga.» L'avevo dimenticata. Quella stessa parola adesso mi era tornata in mente. «Kessler aveva la barba. Ma credo che sia la stessa persona.» Gli restituii la foto. «Mi spiace, ma è tutto quello che posso dirti.» «È già qualcosa.» «Adesso Kessler dov'è? Cioè, Kaplan.» «Sto cercando di capirlo.» Rientrati a casa, andai a fare una doccia e Ryan chiacchierò un po' con Charlie. Ero nuda davanti al mio cassettone, quando Ryan entrò nella stanza. «Non si muova.» Mi voltai, con un baby-doll di pizzo in una mano e un delizioso slip di raso nell'altra. «Adesso, signora, devo sapere che cosa sta facendo.» «Lei chi è? Un poliziotto?» «Sennò perché farei tutte queste domande?» Alzai un sopracciglio e la biancheria. «Adesso posi quello che ha in mano e si allontani da quel mobile.» Ubbidii. Come tutti i lunedì mattina l'Istituto di medicina legale era nel caos. Quattro persone morte in un incendio. Una vittima da arma da fuoco. Un
impiccato. Due accoltellati. Un neonato. Per me solo un caso. Qualcuno aveva trovato delle ossa nel lavandino di un seminterrato, in un palazzo di Côte-Saint-Luc. La polizia sospettava che fossero le ossa del cranio di un neonato o di un bambino piccolo. Dopo la riunione del personale, chiesi a LaManche di seguirmi nel mio laboratorio. Dopo avergli mostrato lo scheletro consegnatomi da Morissonneau, gli raccontai la sua storia e la possibile provenienza, spiegando il modo in cui ne ero entrata in possesso. Come previsto, LaManche assegnò alle ossa un numero di inventario dell'LSJML e mi disse di trattarle come un normale caso del nostro istituto. La decisione finale sarebbe spettata a me: se avessi stabilito che erano ossa antiche, ero libera di consegnarle agli archeologi di competenza. Quando LaManche se ne andò, chiesi a Denis, il tecnico del mio laboratorio, di eseguire le radiografie del cranio e dei denti. Poi scesi a occuparmi del neonato. A prima vista i reperti sembravano in effetti due ossa parietali molto giovani e incomplete. Le superfici concave presentavano il disegno vascolare prodotto dalla stretta associazione con la superficie esterna del cervello. Il lavaggio avrebbe risolto la questione. Le «ossa» in realtà si rivelarono essere frammenti di un guscio di cocco. Il disegno venoso era il risultato dell'azione dell'acqua sul fango essiccato. Quando andai in segreteria a consegnare la mia perizia, Denis mi passò una piccola busta marrone. Subito, ne rovesciai il contenuto sul mio diafanoscopio. Mi bastò un'occhiata per confermare il mio sospetto che il primo molare superiore fosse stato reinserito nella mandibola dello scheletro. E neanche troppo bene. Dalle radiografie, era evidente che l'inclinazione del dente era inesatta, e che le radici non aderivano perfettamente agli alveoli. E poi c'era dell'altro. Via via che un dente invecchia, le sue cuspidi si usurano. Okay. Avevo già notato la disomogeneità nell'usura. Ma anche altre caratteristiche cambiano con il tempo. Per esempio, più il dente è vecchio, maggiore è la quantità di dentina secondaria nella camera dentaria e nel canale. Non sono un dentista, ma il primo molare superiore appariva meno radioopaco degli altri molari. Telefonai a Marc Bergeron. La segretaria mi mise in attesa. Ascoltai u-
n'orchestra suonare qualcosa di simile a Sweet Caroline. Nella mia immaginazione, vidi un paziente allungato sulla poltrona con la bocca spalancata e il tubicino che gli aspirava la saliva. Fui molto felice di non essere quel paziente. Marc rispose durante una rumorosa versione di Uptown girl. Accettò di vedermi quel pomeriggio. Jake mi chiamò mentre stavo impacchettando il cranio. «Hai sentito i miei messaggi?» gli chiesi. «Ho lasciato l'hotel sabato e ho preso il primo volo per Tel Aviv.» «Sei in Israele?» «A Gerusalemme. Allora, che succede?» Gli spiegai della discrepanza fra lo scheletro della foto e quello avuto da Morissonneau. E gli descrissi il molare anomalo. «Che cosa significa?» mi domandò Jake. «Che oggi pomeriggio vado a consultare un odontologo.» Ci fu una lunga, lunghissima pausa. Poi: «Voglio che tu estragga quel molare e un paio di altri denti». «Perché?» «Per l'esame del DNA. E poi devi anche tagliare qualche segmento femorale. È un problema?» «Se Ferris e Lerner hanno ragione, quelle ossa hanno quasi duemila anni.» «Il DNA mitocondriale si può ricavare anche dalle ossa antiche, giusto?» «Sì, è possibile. Ma poi? Gli esami forensi si basano sulla comparazione. O con il DNA della vittima, o con quello di un membro della famiglia. Se anche in laboratorio riuscissero a estrarre e ad amplificare il DNA mitocondriale, con cosa lo compareresti?» Pausa lunghissima, alla Jake. Poi rispose: «Ogni giorno vengono scavati nuovi reperti. Non si può mai sapere che cosa salterà fuori. Inoltre, io posso disporre di fondi espressamente stanziati a questo scopo. La storia della razza?». «Quale storia?» «Di recente non c'è stato un caso in cui gli specialisti avevano dichiarato che un uomo era bianco, mentre le analisi di laboratorio hanno stabilito che era nero?» «Stai parlando del caso di Derrick Todd Lee di Baton Rouge. Ma quell'esame è basato sul DNA nucleare.» «E non è possibile estrarre il DNA nucleare da un osso antico?»
«Alcuni sostengono di averlo fatto. La ricerca sull'aDNA è in grande espansione.» «aDNA?» «DNA antico. A Cambridge e a Oxford ci sono studiosi che lavorano all'estrazione del DNA nucleare dal materiale archeologico. Qui in Canada, se ne occupano in un istituto di Thunder Bay. Il Paleo-DNA Laboratory» Mi venne in mente un articolo comparso di recente sull'«American Journal of Human Genetics». «Pare che un gruppo francese abbia riferito di DNA mitocondriale e nucleare estratto da scheletri rinvenuti in una necropoli di duemila anni fa in Mongolia. Però, Jake, anche se si riesce a fare l'esame del DNA nucleare, la stima della razza è molto limitata.» «Quanto limitata?» «Una società della Florida propone un test che traduce i marcatori genetici in una previsione di probabile miscuglio razziale. Pare che siano in grado di stabilire la percentuale di razza indoeuropea, nativa americana, orientale, e sub-sahariana.» «Tutto qui?» «Per ora sì.» «Non è un grande aiuto, quando lavori con le ossa di un antico abitante della Palestina.» «No» concordai. Ascoltai un'altra delle lunghe pause di Jake. «In ogni caso, sia il DNA mitocondriale sia il DNA nucleare potrebbero stabilire se quello strano molare appartiene a un individuo diverso.» «Non è così semplice.» «Ma potrebbe funzionare.» «Potrebbe.» «Chi esegue questi test?» Glielo spiegai. «Va bene, Tempe. Vai dal tuo odontologo, vedi quello che ti dice di questo dente. E poi preleva i campioni. E non dimenticare di tagliare una porzione di osso sufficiente anche per la datazione al carbonio.» «Ti avverto che non credo che il coroner pagherà il conto.» «Userò i soldi dei miei fondi.» Ma mentre chiudevo la cerniera del giaccone, Ryan entrò nel mio ufficio. E quello che mi disse mi lasciò di stucco.
14 «Quindi Miriam Ferris è collegata a Hershel Kaplan?» «Vincolo di affinità.» Affinità? L'affermazione di Ryan non mi aiutava a capire. «È un termine usato per definire il tipo di parentela. L'affinità è un vincolo che si acquisisce con il matrimonio.» Ryan mi guardò con il suo sorriso più innocente. «L'ho usato in omaggio al tuo passato antropologico.» Cercai di disegnarmi nella mente un grafico di ciò che Ryan aveva appena detto. «Nel senso che Miriam Ferris era sposata con il fratello della moglie di Hershel Kaplan?» «Dell'ex moglie.» «Ma Miriam ha negato di conoscere Kaplan» obiettai. «Noi le abbiamo chiesto se conosceva un certo Kessler.» «Che è uno degli pseudonimi di Kaplan.» «Piuttosto confuso, vero?» «Se Kaplan era un parente, Miriam avrebbe dovuto conoscerlo.» «Così possiamo presumere» concordò Ryan. «E quindi il giorno dell'autopsia avrebbe dovuto riconoscerlo.» «Sempre che l'abbia visto.» «Pensi davvero che Kaplan sia Kessler?» domandai. «Quando hai guardato la foto segnaletica mi sembravi piuttosto convinta» replicò Ryan, guardando il pacco che avevo sul tavolo. «Il fratello della moglie di Kaplan è ancora vivo?» «L'ex moglie. Prima del divorzio, il marito di Miriam sarebbe stato il cognato di Kaplan. In ogni caso l'uomo è morto nel '95 per complicazioni derivate dal diabete.» «Dopo che Kaplan e la moglie si sono lasciati, lui è rimasto single. E con la morte del marito, anche Miriam è rimasta single.» «Già. Una vedova inconsolabile. Che c'è in quel pacco?» «Sto portando il cranio da Bergeron per una consulenza su quel dente.» «I suoi pazienti saranno contenti» commentò Ryan ritirando le guance in dentro per imitare un teschio. Alzai gli occhi al soffitto. «Miriam e Ferris quando si erano sposati?» «Nel '97.» «Non era passato molto tempo dalla morte del primo marito.»
«Alcune vedove sono meno inconsolabili di altre.» «E Kaplan? Da quanto tempo è divorziato?» «La gentile consorte ha preso il volo durante il suo secondo periodo di detenzione a Bordeaux.» «Ahia.» «Ho controllato il suo fascicolo. Il nostro amico in prigione si è comportato bene, ed è apparso sincero nel suo desiderio di redimersi. Quindi ha scontato solo metà della pena.» «Ciò vuol dire che esiste un funzionario che si è assunto la responsabilità di firmare la sua libertà vigilata?» «Un certo Michael Hinson.» «Quando è stato rilasciato?» «Nel 2001. Secondo Hinson, da allora Kaplan è un integerrimo imprenditore.» «Di che cosa si occupa?» «Pesci esotici e porcellini d'India.» Sollevai un sopracciglio. «Kaplan Centre d'Animaux.» «Cioè ha un negozio di animali?» Ryan annuì. «È il proprietario della baracca.» «Vede sempre il funzionario del carcere?» «Sì. Una volta al mese, per la firma. Pare che sia un ex detenuto modello.» «Ammirevole.» «Non ha mai mancato il suo appuntamento fino a due settimane fa. Il 14 febbraio non si è presentato, e non ha nemmeno avvisato con una chiamata.» «Era il lunedì dopo il fine settimana in cui hanno ucciso Ferris.» «Vuoi venire con me a scegliere un porcellino d'India?» «Devo vedere Bergeron all'una.» Ryan guardò l'orologio. «Ci vediamo all'ingresso alle due e mezzo?» «Alle due e mezzo.» Lo studio di Bergeron si trova in Place Ville-Marie, in un grattacielo all'angolo tra la René-Lévesque e l'università. Lo divide con un collega chiamato Bougainvillier, che non ho mai visto ma che ho sempre immaginato come un rampicante fiorito e con gli occhiali.
Guidai fino a Centre-Ville, lasciai l'auto nel parcheggio sotterraneo e presi l'ascensore fino al diciassettesimo piano. Bergeron stava finendo un paziente, così mi sedetti nella sala d'attesa con il mio pacco posato a terra. Di fronte a me sedeva una donna corpulenta che sfogliava una copia di «Châtelaine». Quando allungai la mano per prendere un giornale, alzò lo sguardo e mi sorrise. Aveva decisamente bisogno di un dentista. Cinque minuti dopo il mio arrivo, la donna con «Châtelaine» fu ammessa alla camera della tortura. Pensai che ci sarebbe rimasta per un bel po'. Qualche attimo dopo un uomo uscì da un'altra camera della tortura. Era senza giacca e aveva la cravatta allentata, e si muoveva con una certa rapidità. Bergeron comparve in sala d'aspetto e mi portò nel suo ufficio, mentre dal fondo del corridoio udii alzarsi un terribile lamento. Pensai alla donna con «Châtelaine». E subito mi venne in mente la pianta della Piccola Bottega degli Orrori. Mentre aprivo il mio pacco, cercai di spiegare sommariamente i fatti a Bergeron. Lui mi ascoltò con le ossute braccia conserte sull'ossuto petto, mentre la sua chioma di capelli bianchi e crespi risplendeva nella luce della finestra. Quando ebbi finito, Bergeron prese il cranio ed esaminò l'arcata dentaria superiore. Quindi esaminò la mandibola, la articolò e studiò l'occlusione del molare. Poi tese la mano, e io ci posai la piccola busta marrone. L'odontologo accese il diafanoscopio, vi dispose le radiografie e si avvicinò. Sotto la luce fluorescente, i suoi capelli ricordavano un enorme soffione. Passarono i secondi. Un intero minuto. «Mon dieu, non ci siamo proprio.» Una delle sue scheletriche dita indicò il secondo e terzo molare superiore. «Guarda il canale e la camera dentaria. Quest'uomo avrà avuto almeno cinquant'anni. Forse di più.» Il dito si spostò sul primo molare. «Qui il deposito di dentina è molto inferiore. Questo dente appartiene senza dubbio a una persona più giovane.» «Quanto più giovane?» «Trentacinque. Forse quaranta. Non di più» disse. Poi si concentrò ancora sul cranio. «Minima usura delle cuspidi. Probabilmente la minima possibile all'in-
terno di questa fascia d'età.» «Sapresti dire quando questo molare è stato reinserito?» Bergeron mi guardò come se gli avessi chiesto di calcolare un logaritmo a mente. «Una stima approssimativa, naturalmente» mi corressi. «La colla è ingiallita e si sta sfaldando.» «Aspetta» dissi alzando il palmo della mano. «Stai dicendo che quel dente è stato incollato?» «Certo.» «Quindi non è stato reimpiantato duemila anni fa?» «Decisamente no. Forse da qualche decina di anni.» «Negli anni Sessanta, per esempio?» «Per esempio.» Inserzione durante gli scavi di Yadin oppure al Musée de l'Homme. Il mio intuito mi suggeriva la prima ipotesi. «Potresti estrarre i tre molari superiori?» «Certamente.» Bergeron prese il cranio, lo infilò nel suo imballo e uscì rapidamente dallo studio. Lo osservai per qualche secondo: la magrezza unita al suo metro e novanta scarso gli regalavano la grazia di un asse da stiro. Radunai le radiografie, chiedendomi se per caso non stessi esagerando l'importanza di quel dente. In fondo, poteva semplicemente trattarsi di un dente isolato di un individuo più giovane che qualcuno aveva infilato nella mandibola sbagliata. Forse uno degli scavatori volontari. Forse il dottor Haas. In fondo al corridoio, i terribili lamenti continuavano. Un errore di individuazione può verificarsi in qualsiasi momento. Durante il recupero, durante il trasporto, al momento della cernita, durante la pulitura. Forse l'inserimento del dente era avvenuto direttamente nella grotta. Forse nel laboratorio di Haas. Forse dopo, al museo di Parigi. Bergeron tornò e mi porse il cranio e una bustina trasparente con la zip in plastica. «Per caso hai qualche altra osservazione?» gli chiesi. «Sì. Che chiunque abbia rimesso a posto quel molare, era un vero somaro.» Il Kaplan Centre d'Animaux era un negozio a due piani con ampia vetrina inserito in una lunga fila di locali simili in rue Jean-Talon. L'insegna of-
friva cibo per cani e gatti, pesci tropicali e parrocchetti, gabbia inclusa. Le due entrate davano direttamente sul marciapiede. Una porta era in legno, l'altra in vetro. Ryan aprì quest'ultima, accompagnato da un tintinnio di campanellini. Il locale era una confusione di suoni e di odori. Addossate a una parete, una serie di taniche. Allineate in un altro punto, le gabbie dei volatili, i cui occupanti variavano da anonimi a coloratissimi. Oltre i pesci, notai altre rappresentanze del mondo di Linneo. Rane. Serpenti arrotolati. Una creaturina pelosa raggomitolata. Di fronte, conigli, gattini, un lucertolone con una pappagorgia da far invidia alla prozia Minnie. In una gabbia alcuni cuccioli di cane sonnecchiavano, un altro ci guardava scodinzolando con le zampe anteriori premute contro la rete, un altro rosicchiava una papera rossa di gomma. Il centro del locale era occupato da una serie di scaffalature. Un ragazzino sui diciassette anni stava riordinando dei collari. Quando udì lo scampanellio, si voltò senza parlare. «Bonjour» lo salutò Ryan. «Ciao» rispose il ragazzo. «Potresti aiutarmi, per favore?» Il commesso posò la scatola e si avvicinò. Ryan gli mostrò il distintivo. «Sbirri?» Ryan annuì. «Sai che figata...» «Una grandiosa figata, fidati. E tu chi saresti?» «Bernie.» Bernie interpretava nei minimi dettagli il look da membro di una gang di periferia. Jeans enormi con il cavallo alle ginocchia. Camicia sbottonata. Maglietta sbrindellata. Ma era troppo magro per essere credibile. «Sono il tenente Ryan. E la signora è la dottoressa Brennan.» Bernie spostò lo sguardo su di me. I suoi occhi erano piccoli e neri, incorniciati da un paio di folte sopracciglia che si univano nel mezzo. Probabilmente anche Bernie in passato aveva dovuto abbondare con le pomate contro i brufoli. «Stiamo cercando Hershel Kaplan.» «Non c'è.» «Capita spesso che il signor Kaplan non ci sia?» Bernie alzò le spalle.
«Bernie, mi sapresti dire dove si trova oggi il signor Kaplan?» Nuova scrollata di spalle. «Per caso le mie domande sono troppo complicate per te?» Bernie si spostò i capelli dalla fronte. «Devo iniziare tutto daccapo?» La voce di Ryan era diventata gelida. «Perché non ti schiodi, sbirro? Non vedi che sto lavorando.» Un cagnolino iniziò ad abbaiare. Voleva uscire dalla gabbia. «Ascoltami bene, Bernie. Per caso il signor Kaplan oggi è stato qui?» «Ho aperto io.» «Ti ha chiamato per avvisarti?» «No.» «Il signor Kaplan si trova al piano di sopra?» «Kaplan è in vacanza, okay?» disse Bernie, spostando il peso da una gamba all'altra. Non che ci fosse granché da spostare. «Sarebbe stato molto meglio se ce lo avessi detto subito, Bernie.» Il ragazzo guardò il pavimento. «E ci sapresti dire dov'è andato in vacanza il signor Kaplan?» Bernie scosse la testa. «E quando tornerà?» Bernie scosse di nuovo la testa. «Bernie, qui c'è qualcosa che non va. Ho la sensazione che tu non voglia parlare con me.» Il ragazzo continuò a fissare il fango che aveva sulle scarpe da ginnastica. «Per caso hai paura di non ricevere più il piccolo premio che Kaplan ti aveva promesso?» «Ascolta, non lo so quando tornerà.» Bernie alzò la testa. «Kaplan mi ha detto solo di tenere aperto il negozio e di non dire a nessuno che se n'era andato.» «Quando ti ha detto questo?» «Circa una settimana fa.» «Hai le chiavi di casa di Kaplan?» Bernie non rispose. «Vivi ancora in famiglia, Bernie?» «Sì.» Guardingo. «In questo caso potremmo fare un giretto fino a casa tua, per fare due chiacchiere con mammina...» «Ascolta...» Lamentoso.
«Dimmi, Bernie.» «Forse le chiavi sono lì, sotto il bancone.» Ryan si voltò verso di me. «Senti anche tu odore di gas?» «Forse.» Annusai l'aria. Sentii molte cose diverse. «Sì, in effetti direi che potrebbe essere odore di gas.» «E tu, Bernie? Senti anche tu odore di gas?» «È il furetto.» «A me sembra odore di gas.» Ryan si spostò a sinistra con il naso all'aria, poi a destra. «Sì. È proprio odore di gas. Una cosa molto pericolosa.» Ryan si rivolse di nuovo a Bernie. «Ci aiuteresti a controllare, Bernie?» Il ragazzo lo guardò con aria scettica. «Non vorrai che succeda qualcosa di male a tutte queste bestiole che dipendono da te?» disse Ryan, tutto sincerità e ragionevolezza. «Sì, certo. Va bene...» Bernie andò al bancone e dopo aver preso le chiavi da un cassetto le consegnò a Ryan. «Un cittadino ci ha chiesto di venire a controllare una perdita di gas, giusto?» disse Ryan rivolgendosi a me. Io risposi con una scrollata di spalle degna di Bernie. Uscimmo dal negozio e rientrammo nello stabile attraverso la porta di legno. Una ripida scaletta portava al pianerottolo del primo piano. Salimmo. Ryan bussò. Nessuna risposta. Bussò di nuovo, più forte. «Polizia, signor Kaplan.» Nessuna risposta. «Stiamo entrando.» Ryan provò le varie chiavi. La quarta funzionò. L'appartamento di Kaplan era formato da soggiorno, camera da letto, piccola cucina e bagno con mattonelle bianche e nere. Alle finestre tende veneziane; sulle pareti orrendi paesaggi da sala d'aspetto di stazione. Qualche concessione era stata fatta alla tecnologia. La vasca era dotata di doccia. Sul piano di lavoro della cucina c'era un forno a microonde. Il telefono della camera da letto era collegato a una segreteria telefonica. Ma a parte questo, la casa sembrava uscita da un B-movie. «Elegante» commentò Ryan. «Sì, direi addirittura sobrio» concordai.
«Detesto quando gli arredatori esagerano.» «Già. Si finisce per soffocare la bellezza del linoleum.» Andammo in camera da letto. Su un tavolinetto pieghevole guide telefoniche, libri contabili e una pila di fogli. Mi avvicinai e iniziai a dare un'occhiata. Alle mie spalle. Ryan apriva e chiudeva i cassetti del comò. Passò qualche minuto. «Trovato niente?» domandai. «Un sacco di orribili camicie.» Ryan si voltò verso il comodino. E fece la sua scoperta mentre io facevo la mia. 15 Io notai la lettera mentre Ryan premeva il pulsante della segreteria telefonica. Lessi il foglio ascoltando una voce femminile e zuccherosa: Messaggio per Hershel Kaplan. La sua prenotazione per sabato 26 febbraio è confermata. Il suo volo è Air Canada nove-cinqueotto-zero, operato da El Al, in partenza dal Toronto Pearson International Airport alle 19.58. Le ricordo che a causa delle severe misure di sicurezza adottate da El Al, il check-in deve essere effettuato almeno tre ore prima della partenza. Le auguriamo buon viaggio. «Kaplan è andato in Israele» disse Ryan. «E sembra sia anche probabile che conoscesse Miriam Ferris meglio di quanto pensiamo» commentai. «Guarda questa.» Hersh, tu vedi la felicità come un sogno impossibile. Te l'ho letto negli occhi. Il piacere e la gioia sono finiti al di là della tua immaginazione. Sei arrabbiato? Ti vergogni? Hai paura? Non sentirti così. Stiamo procedendo, lentamente, come nuotatori in un mare in burrasca. Le onde si placheranno. E noi trionferemo. Ti voglio bene, M.
Indicai le iniziali stampigliate sulla carta da lettere. «M.F.» «Potrebbero avere un altro significato.» «Non è molto comune sulla carta da lettera. E poi M.F. non è una combinazione così diffusa.» Ryan rifletté un istante. «Morgan Freeman. Marshal Field. Millard Fillmore. Morgan Fairchild.» «Sono impressionata.» Riflettei a mia volta. «Masahisa Fukase.» Sguardo assente. «Fukase è un fotografo giapponese. È famoso per le sue straordinarie immagini di cornacchie.» «Anche alcune immagini di Morgan Fairchild sono piuttosto straordinarie.» Occhi rivolti al soffitto. «Ho la netta sensazione che questa lettera sia stata scritta da Miriam. Ma quando? Non c'è nessuna data. E perché?» «Per tirar su di morale Kaplan mentre era in prigione?» Indicai l'ultima frase della lettera. «Noi trionferemo?» «Per convincere Kaplan a mettere due pallottole nella testa del maritino?» D'un tratto la stanza sembrò fredda e buia. «È tempo di fare una telefonata in Israele» disse Ryan. Rientrati al Wilfrid-Derome, Ryan si diresse al comando della sua sezione, Crimes contre la Personne, mentre io tornai al mio laboratorio. Dopo aver preso il femore dello scheletro del presunto Gesù, scesi nella sala autopsia numero quattro e posai l'osso sul tavolo. Quindi collegai la sega Stryker alla presa di corrente, infilai la mascherina e tagliai due campioni di un paio di centimetri ciascuno dalla porzione mediana del femore. Tornata in laboratorio, chiamai Jake. Ancora una volta, lo svegliai nel cuore della notte. Gli raccontai quello che aveva detto Bergeron sullo strano molare. «Com'è possibile che il dente di qualcun altro sia finito nella mandibola di quello scheletro?» «A volte capita. Secondo me, quel molare in qualche modo è finito insieme allo scheletro durante il recupero delle ossa nella grotta. La radici combaciano con il colletto piuttosto bene, quindi qualcuno, forse un volontario, l'ha inserito nella mandibola pensando di far bene.» «E poi Haas ha completato l'opera incollandolo.»
«Forse. Oppure ci ha pensato qualcuno del Musée de l'Homme. Probabilmente è solo un errore.» «Hai tagliato i campioni per il test del DNA?» Ribadii il mio scetticismo sull'utilità del test in mancanza di un campione di riferimento su cui effettuare il confronto. «Voglio comunque procedere con il test.» «D'accordo. Del resto, sono i tuoi fondi che pagano.» «E anche la datazione al carbonio 14.» «Consegna standard o urgente per il carbonio 14?» «Qual è la differenza?» «Giorni contro settimane. E diverse centinaia di dollari.» «Consegna urgente.» Riferii a Jake il nome dei laboratori cui intendevo rivolgermi e lui mi fornì le coordinate per il pagamento. «Jake, se la datazione al carbonio indica che questo scheletro è antico quanto tu dici, sai che devo contattare le autorità israeliane, vero?» «Sì, ma prima chiamami.» «Va bene. Ma prima vorrei sap...» «Grazie, Tempe.» Respiro profondo. Ebbi la sensazione che Jake stesse per aggiungere qualcosa. E poi: «Questa cosa potrebbe essere una vera bomba». Avrei voluto approfondire quell'affermazione, ma poi decisi di non essere pressante. Intanto, avrei preparato i campioni per il mattino dopo. Dopo la telefonata, mi collegai a Internet, aprii i siti del caso e scaricai due moduli per la richiesta del test del DNA, e uno per il test radiometrico. Il molare anomalo apparteneva a un individuo diverso rispetto alle ossa e agli altri denti dello scheletro, quindi volevo che venisse considerato separatamente per il test del DNA. E per questo assegnai al molare un numero di campione distinto. Assegnai un secondo numero di archivio a uno dei campioni che avevo tagliato dal femore dello scheletro di Morissonneau e a uno dei molari estratti da Bergeron dalla mandibola. Registrai il secondo molare estratto dal nostro odontologo e il secondo campione tagliato dal femore per la datazione al carbonio 14. Quando ebbi finito con i moduli, chiesi a Denis di spedire con un corriere espresso i denti e i campioni di osso ai rispettivi laboratori. Voilà. Per il momento non avrei potuto fare altro.
I giorni passarono. Il ghiaccio sigillò le mie finestre. La neve seppellì il mìo giardinetto interno. Il mio lavoro assunse un tìpico andamento invernale. Niente autostoppisti né campeggiatori. Pochi bambini nei parchi. Neve sul terreno, ghiaccio sul fiume. Animali in letargo, in attesa che l'inverno finisse. Con la primavera, i cadaveri spuntano come bucaneve sui prati di montagna. Ma per il momento, la situazione era tranquilla. Il martedì mattina comprai il famoso libro di Yadin su Masada. Splendide fotografie, capitoli e capitoli su palazzo, terme, sinagoghe e pergamene. Ma Jake aveva ragione. Yadin dedicò una paginetta scarsa agli scheletri della grotta, e illustrò quella paginetta con una sola fotografia. Era difficile credere che il libro avesse scatenato tante discussioni al momento della pubblicazione, nel '66. Nel pomeriggio, Ryan scoprì che Kaplan era entrato in Israele il 27 febbraio. Ma non era dato sapere dove risiedesse. La polizia di Stato israeliana lo stava cercando. Ryan mi chiamò il mercoledì pomeriggio per sapere se volevo accompagnarlo da Courtney Purviance e poi andare a cena con lui. «Perché devi andare da Courtney Purviance?» «Niente di particolare. Giusto qualche domanda su uno dei clienti di Ferris. Un certo Klingman dice di essere passato quel venerdì per vedere Ferris ma non ha trovato nessuno. Volevo solo mettere qualche puntino sulle "i".» Ma sì. Anche perché non avevo niente di meglio da fare. Ryan passò a prendermi verso le quattro. Purviance viveva in un tipico quartiere della vecchia Montréal. Pietra grigia. Infissi blu. Scalette di ferro esterne che salivano al primo piano. L'atrio era molto piccolo, il pavimento di piastrelle coperto da neve sciolta mista a sale. Accanto al portone d'ingresso notammo quattro buche per le lettere, ciascuna contrassegnata con una targhetta scritta a mano e un campanello. Purviance abitava nell'appartamento 2 B. Ryan suonò il campanello. Rispose una voce femminile. Ryan si presentò. La donna rispose con una domanda. Mentre Ryan rassicurava la donna circa la sua identità, io studiai le targhette degli altri inquilini. Purviance disse a Ryan di aspettare. Lui si voltò verso di me. Stavo sorridendo.
«Cosa c'è di tanto divertente?» «Guarda questi nomi.» Indicai la targhetta dell'1 A. «Questo in francese che cosa significa?» «Pino.» Indicai l'1 B. «Questo invece significa olivo in italiano.» 2 A. «E questo quercia in lettone. Pare che qui si sia riunito il club arboreo internazionale.» Ryan sorrise e scosse la testa. «Non riuscirò mai a capire come funziona il tuo cervello, Brennan.» «Sorprendente, vero?» Il portoncino si aprì. Salimmo al primo piano. Quando Ryan bussò alla porta, Purviance gli chiese ancora una volta di identificarsi. Ryan la accontentò. Un milione di serrature lentamente si aprirono. Un naso spuntò dalla porta semiaperta. Il battente si richiuse. Una catena fu tolta. La porta si aprì definitivamente. Ryan mi presentò come una collega. Purviance annuì e ci accompagnò in un minuscolo soggiorno stipato di mobili. E non solo. Ogni scaffale, ripiano e superficie orizzontale era carico di ninnoli e soprammobili. Purviance stava guardando una replica del serial Law & Order. Briscoe stava dicendo a un sospettato che non capiva niente. Dopo aver spento il televisore, Purviance si sedette di fronte a Ryan. Era bassa, bionda, e una decina di chili in sovrappeso. Supposi che avesse superato la quarantina. Mentre i due parlavano, mi guardai intorno. Il soggiorno dava sulla sala da pranzo, a sua volta affacciata sulla cucina. Immaginai che il bagno e la camera da letto fossero collegati da un corridoio che iniziava alla nostra destra. A parte la sala in cui eravamo seduti, calcolai che l'appartamento non fosse illuminato dalla luce naturale per più di un'ora al giorno. Tornai a concentrarmi su Ryan e Purviance. La donna appariva affaticata, ma di tanto in tanto qualche raggio di sole le illuminava il viso. E quando ciò accadeva, Purviance era sorprendentemente bella. Ryan le stava chiedendo di Harold Klingman. Purviance spiegava che Klingman era il proprietario di un negozio a Halifax, mentre con le dita non smetteva di tormentare la frangia di un cuscino del divano. «Questa visita di Klingman a Ferris era inconsueta?» «Il signor Klingman passava spesso in ditta quando era a Montréal.» «Lei era a casa malata quel venerdì, vero?»
«Sì. Avevo qualche problema di sinusite.» Non fu difficile crederle. Purviance tirava frequentemente su col naso e si schiariva spesso la gola. La sua mano lasciava continuamente il cuscino con la frangia per asciugare il naso. Ebbi più volte l'impulso di passarle un fazzoletto. «Lei ci ha detto in precedenza che Ferris sembrava di cattivo umore subito prima della sua morte. Ci può dire qualcosa di più in merito?» Purviance scrollò le spalle. «Non lo so. Era più silenzioso.» «Silenzioso?» «Non scherzava come al solito.» Purviance prese a giocherellare con la frangia con maggiore intensità. «Se ne stava sempre in disparte.» «Ha qualche idea sul perché si comportasse così?» Purviance sbuffò, poi abbandonò il cuscino per asciugarsi il naso. «Forse discuteva con Miriam.» «Dunque lei pensa che avesse problemi in famiglia?» Purviance sollevò le sopracciglia e i palmi delle mani in segno di sfida. «Ferris ha mai accennato a momenti di crisi con la moglie?» «Non direttamente.» Ryan fece ancora qualche domanda sui rapporti tra Purviance e Miriam, poi passò ad altre questioni. Nel giro di un quarto d'ora Ryan aveva finito. Lasciata la casa di Purviance, andammo a cenare in boulevard SaintLaurent. Mi chiese che impressione avevo avuto di Purviance. Gli dissi che la signora aveva urgente bisogno di uno spray nasale. Il giovedì mi arrivò il libro di Donovan Joyce The Jesus Scroll. Lo aprii verso mezzogiorno per dargli una scorsa veloce. Mentre leggevo, iniziò a nevicare, e quando alzai lo sguardo dal libro mi accorsi che il cielo si era incupito e che i paletti del mio recinto erano coperti da graziosi cappelli di neve. La teoria di Joyce era più ardita di quella del romanzo letto in aeroporto. Più o meno recitava così. Gesù era figlio illegittimo di Maria e non morì sulla croce ma sposò Maria Maddalena, visse ben oltre la maturità, fece in tempo a scrivere il proprio testamento e le ultime volontà e rimase ucciso nell'assedio di Masada. La versione di Jake riguardo ai rapporti tra Joyce e Max Grosset era stata puntuale. Secondo Joyce, Grosset era un professore americano con accento britannico che aveva lavorato come volontario a Masada. Grosset, nel corso di un incontro casuale con Joyce all'aeroporto Ben Gurion nel dicembre 1964, aveva raccontato a quest'ultimo di aver dissotterrato il rotolo di Gesù
durante la precedente stagione di scavi, di averlo nascosto e poi di essere tornato a Masada per recuperarlo. Joyce aveva dato un'occhiata al rotolo di Grosset nelle toilette dell'aeroporto. Secondo lui le scritte erano in ebraico; Grosset invece sosteneva fosse aramaico, e aveva tradotto la prima riga. Yeshua ben Ya'akob Gennesareth. Gesù di Gennesareth, figlio di Giacobbe/Giacomo. L'autore aveva aggiunto la sconvolgente informazione che si trattava dell'ultimo discendente dei re maccabei di Israele. Malgrado un'offerta di cinquemila dollari, Joyce aveva rifiutato di aiutare Grosset a portare clandestinamente il rotolo fuori da Israele. Grosset era riuscito comunque nel suo intento e il rotolo era arrivato in Russia. In seguito, non riuscendo a completare il libro che aveva in progetto a causa del divieto di visitare Masada, e incuriosito da ciò che aveva visto nelle toilette dell'aeroporto, Joyce aveva eseguito delle ricerche sul nome letto sul rotolo. L'appellativo di «figlio di Giacomo» era stato utilizzato, aveva concluso Joyce, perché Giuseppe era morto senza generare figli, e secondo la legge ebraica il figlio illegittimo di Maria sarebbe stato allevato dal fratello di Giuseppe, Giacomo. Gennesareth era uno dei molti nomi dati al Mare di Galilea. Joyce era così convinto dell'autenticità del rotolo che dedicò otto anni alle ricerche sulla vita di Gesù. Stavo ancora leggendo quando Ryan arrivò con una scorta di cibo sufficiente a sfamare l'intera Guadalajara. Aprii una Diet Coke, Ryan aprì una Moosehead. Mentre gustavamo le nostre enchiladas gli riassunsi i punti salienti del libro. «Gesù si considerava un discendente della dinastia asmonea.» Ryan mi guardò con aria interrogativa. «I re maccabei. Che non si occupavano solo di religione, ma erano in lizza per il potere politico.» «Oh santo cielo. Un'altra teoria della cospirazione.» Ryan intinse il dito nel guacamole. Gli passai una tortilla. «Secondo Joyce, Gesù voleva diventare re di Israele. La cosa aveva fatto incazzare Roma, che aveva risposto decretando la massima punizione, cioè la morte. Ma Gesù non fu tradito, bensì si arrese alle autorità dopo un patteggiamento condotto da un intermediario.» «Lasciami indovinare. Giuda?» «Il patto era che Pilato avrebbe liberato Barabba e che Gesù si sarebbe consegnato al suo posto.»
«E perché avrebbe dovuto farlo?» «Perché Barabba era suo figlio.» «Ah...» Ryan era decisamente scettico. «Lo scambio di prigionieri in realtà prevedeva anche un piano di fuga, che dipendeva perlopiù da uno stretto controllo dei tempi.» «Già... La vita è solo questione di tempi...» «Ti va di ascoltare o no?» «Per caso è prevista anche l'opzione "sesso subito"?» Lo guardai con gli occhi socchiusi. «Okay. Mi va di ascoltare.» «Ai tempi c'erano due tipi di crocifissioni: lenta e veloce. Se era lenta, il condannato poteva sopravvivere fino a sette giorni. Con la crocifissione veloce, invece, moriva nel giro di ventiquattro ore. Secondo Joyce, Gesù e i suoi seguaci avevano organizzato la cosa in modo tale che l'unica possibilità fosse quella veloce.» «Anch'io avrei scelto quella veloce.» «Lo Shabbat era vicino. E anche la Pasqua ebraica. Secondo la legge ebraica, nessun cadavere in quel periodo poteva rimanere esposto sulla croce.» «Ma la crocifissione era un macabro gioco romano.» Ryan prese un'altra enchilada. «Gli storici concordano sul fatto che Pilato era un tiranno strafottente. Cosa diavolo poteva importargli della legge ebraica?» «Era nell'interesse di Pilato far contenta la popolazione locale. In ogni caso, il piano prevedeva l'uso di sostanze che inducevano una morte apparente. Papaver somniferum oppure Claviceps purpurea.» «Mi piace quando dici le cose zozze.» «In altre parole, il papavero da oppio e il fungo della segale cornuta, che produce un acido lisergico. Tradotto in termini più moderni, eroina e LSD. Sostanze già note nell'antichità e in Giudea. Le due droghe avrebbero dovuto essere somministrate con la spugna sulla canna. Secondo i Vangeli, Gesù dapprima rifiutò la spugna, ma in un secondo momento l'accettò, bevve e morì immediatamente.» «Solo che tu stai dicendo che non morì.» «Non lo dico io. Lo dice Joyce.» «E come fai a tirar giù un corpo ancora in vita da una croce di fronte a soldati e testimoni?» «Per esempio tieni i testimoni a distanza e corrompi le guardie. Di sicuro non c'era il coroner a controllare...»
«Fammi capire bene. Gesù sembra morto, lo sbattono nel sepolcro, in seguito lo recuperano, lo rimettono in sesto, e alla fine di tutto il nostro ricompare a Masada?» «Più o meno Joyce dice così.» «Ma questo stordito di Joyce che ci faceva in Israele?» «Sono felice di notare che cerchi di avere una mente aperta. Joyce andò in Israele per fare delle ricerche per un libro su Masada che intendeva scrivere. Ma le autorità israeliane gli negarono l'accesso.» «Forse l'incontro casuale con Grosset è solo frutto della fantasia di Joyce. Oppure una storiella inventata per ripicca.» «Forse.» Finii la salsa rimasta. «O forse è vero.» Nei giorni seguenti non successe nulla di particolare. Terminai di leggere il libro di Joyce. E anche quello di Yadin. Jake aveva ragione anche su questo. Yadin descriveva i resti del periodo di Erode; parlava dei romani, che avevano occupato brevemente Masada dopo il 73 E.C., e dei monaci bizantini che vi si erano stabiliti nel V e nel VII secolo. Forniva informazioni esaurienti sul periodo della ribellione ebraica, compresa una dettagliata disamina dei tre scheletri trovati nel palazzo di Erode. Primi piani, panoramiche, grafici, cartine. Ma sugli scheletri della grotta soltanto una fotografia e pochi paragrafi di testo. Curioso. La domenica andai a pattinare con Ryan sul Beaver Lake, e poi ci regalammo una raffinata cenetta a L'Actual, in rue Peel. Io ordinai la casserole marinière au vin blanc. Ryan prese la casserole al'ail. Devo riconoscere che il mio accompagnatore regge l'aglio come poche persone al mondo. Il lunedì controllai la mia casella di posta elettronica e trovai un documento del laboratorio che aveva eseguito l'esame radiometrico. Esitai. E se lo scheletro aveva solo un centinaio di anni? Oppure era medioevale, come la Sindone di Torino? E se invece risaliva ai tempi di Cristo? Insomma, se era così, era così. Secondo l'età da me stimata, quell'individuo era troppo vecchio per essere Gesù. Oppure troppo giovane, se si riteneva attendibile la tesi di Joyce. Cliccai due volte per aprire il file. Il laboratorio aveva trovato sufficiente materiale organico per testare tre volte ciascun campione. I risultati erano presentati come semplici dati, poi tradotti in una data espressa in anni prima del presente (BP), e poi espressi
con un lasso di tempo compreso tra a.E.C. ed E.C. L'archeologia era politicamente corretta. Guardai le date derivate dal dente. Campione 1: data media 1970 +/- 41 anni BP Ampiezza anni calendario 6 a.E.C. - 76 E.C. Campione 2: data media 1937 +/- 54 anni BP Ampiezza anni calendario 14 a.E.C - 122 E.C. Campione 3: data media 2007 +/- 45 anni BP Ampiezza anni calendario 47 a.E.C - 43 E.C. Controllai le date relative ai campioni femorali. Totale corrispondenza con le date relative ai denti. Due millenni. La scheletro quindi risaliva ai tempi di Cristo. Provai un attimo di vuoto totale. Poi una raffica di domande mi esplose nel cervello. Che cosa significava? Chi dovevo chiamare? Iniziai a telefonare a Ryan. Mi rispose la sua casella vocale e gli lasciai detto che le ossa avevano duemila anni. Chiamai Jake. Casella vocale. Stesso messaggio. E adesso? Sylvain Morissonneau. L'urgenza cancellò tutte le momentanee incertezze. Presi giaccone e borsetta e volai a Montérégie. Nel giro di un'ora arrivai all'abbazia di Sainte-Marie-des-Neiges. Questa volta oltrepassai subito il portoncino arancione e mi ritrovai nell'atrio che separava la biblioteca dal corridoio dell'ufficio di Morissonneau. Non arrivò nessuno. Udii un vago suono di canti provenire dalla mia destra. Lo seguii. Dopo una decina di metri, una voce mi fermò. «Arrêtez!» Più che un ordine, un sussurro. Mi voltai. «Signora, non le è permesso entrare qui.» Nella luce fioca del corridoio, gli occhi del monaco sembravano senza pupille.
«Sono venuta per vedere padre Morissonneau.» La faccia incappucciata si irrigidì. «Lei chi è?» «Sono la dottoressa Temperance Brennan.» «Per quale motivo viene a disturbare il nostro dolore?» Gli occhi senza pupille si fermarono sui miei. «Mi dispiace. Ma devo assolutamente parlare con padre Morissonneau.» Qualcosa brillò nello sguardo del religioso, come un fiammifero acceso dietro un vetro dipinto di scuro. Il monaco si fece il segno della croce. Le parole che seguirono mi fecero congelare la spina dorsale. 16 «Morto?» Non un fremito negli occhi di basilisco che avevo di fronte. «Quando?» balbettai. «Come?» «Perché è venuta qua?» La voce del monaco non era né fredda né intensa. Solo neutra, priva di ogni emozione. «Ho incontrato padre Morissonneau non molti giorni fa» replicai. «E mi sembrava in perfetta salute.» Non cercai di nascondere il mio sconcerto. «Quando è successo?» «Circa due settimane fa.» Indifferente. «Come?» «Lei è una parente?» «No.» «Una giornalista?» «No.» Presi un biglietto da visita dalla borsetta e glielo porsi. Gli occhi del monaco si abbassarono. Poi si rialzarono. «Mercoledì 2 marzo l'abate non è rientrato dalla sua passeggiata mattutina. L'abbiamo cercato su tutta la proprietà. Infine, il suo cadavere è stato trovato lungo un sentiero.» Inspirai a fondo. «Il suo cuore aveva ceduto.» Ripensai al mio incontro con padre Morissonneau. Il religioso sembrava in forma. Persino robusto. «L'abate era in cura presso uno specialista?» «Non ho il permesso di fornire questo genere di informazioni.»
«Che lei sappia, soffriva di disturbi cardiaci?» Il monaco ignorò la mia domanda. «Avete avvertito il coroner?» «Nostro Signore regna sulla vita e sulla morte. E noi accettiamo la Sua volontà.» «Ma il coroner non è tenuto a farlo» ribattei piccata. Una serie di immagini mi attraversarono la mente. Il cranio frantumato di Ferris. Morissonneau che accarezzava una cassetta piena di vecchie ossa. Frasi che riguardavano Hjihad. La parola «omicidio». Iniziavo a provare una vaga sensazione di paura. E di rabbia. «Adesso dove si trova padre Morissonneau?» «Con nostro Signore.» Rivolsi al monaco un'occhiata piuttosto eloquente. «Dov'è il cadavere?» Il monaco aggrottò la fronte. Io feci altrettanto. Un braccio coperto dalla tonaca si mosse in direzione dell'uscita. Mi stava gentilmente mettendo alla porta. Avrei potuto ribattere che la morte del religioso doveva essere notificata alle autorità competenti, e che non farlo significava infrangere la legge. Ma forse non era il momento. Borbottai qualche parola di condoglianze e rapidamente lasciai il monastero. Durante il tragitto di ritorno, la mia paura aumentò. Che cosa aveva detto Jake riguardo allo scheletro che Morissonneau mi aveva consegnato? Che la sua scoperta poteva essere esplosiva. In che senso esplosiva? Avram Ferris aveva custodito lo scheletro ed era stato ammazzato. Sylvain Morissonneau aveva custodito lo scheletro ed era morto. Adesso ero io quella che aveva in custodia quelle antiche ossa. Dovevo considerarmi in pericolo? I miei occhi scrutavano in continuazione lo specchietto retrovisore. Padre Morissonneau era davvero morto di morte naturale? In fondo era un uomo di cinquant'anni. Era stato ucciso? Mi sentii stringere il petto. D'un tratto la mia automobile mi sembrò angusta e bollente. Nonostante il freddo, abbassai il finestrino. Ferris era morto durante il fine settimana del 12 febbraio. Kessler/Kaplan era entrato in Israele il 27 febbraio. Morissonneau era stato
trovato cadavere il 2 marzo. Se la morte di Morissonneau in realtà era un omicidio, Kaplan non avrebbe dovuto esservi coinvolto. A meno che Kaplan nel frattempo non fosse rientrato in Canada. Di nuovo, controllai lo specchietto. Niente, a parte una statale deserta. Ero stata da Morissonneau sabato 26 febbraio. E l'abate era morto quattro giorni dopo. Una coincidenza? Forse. Una coincidenza grande quanto il lago Titicaca. Era tempo di contattare le autorità israeliane. Per essere un lunedì, l'Istituto di medicina legale era relativamente tranquillo. Nel seminterrato stavano eseguendo solo quattro autopsie. Su da noi, invece, LaManche stava lasciando l'ufficio per recarsi a Ottawa, dove avrebbe tenuto una conferenza presso il Canadian Police College. Lo fermai in corridoio e gli parlai dei miei dubbi riguardo alla morte di Morissonneau. LaManche mi assicurò che se ne sarebbe occupato. Quindi gli parlai dei risultati della datazione al carbonio 14 effettuata sullo scheletro. «Visto che l'età stimata è di almeno duemila anni, l'autorizzo a consegnare le ossa alle autorità competenti.» «Bene. Allora procederò in questo senso» dissi. «Il più rapidamente possibile. Sa bene che qui da noi lo spazio è scarso, e prezioso.» LaManche si interruppe, ripensando, forse, all'autopsia di Ferris e alle persone che vi avevano assistito. «Credo sia meglio cercare di non offendere nessuna comunità religiosa.» Un'altra pausa. «Inoltre, per quanto sia una possibilità remota, dobbiamo anche tenere conto che gli incidenti internazionali possono scaturire dalle circostanze più innocue. E di certo non vogliamo che questo possa accadere proprio a causa nostra. Quindi, le suggerisco di sbrigare questa faccenda con la massima celerità.» Prestando fede alla promessa data, chiamai Jake. Di nuovo, non ottenni risposta. Lasciai un messaggio per informarlo che stavo per contattare le autorità israeliane per concordare la restituzione dello scheletro di Morissonneau. Rimasi seduta per qualche istante, riflettendo su quale istituzione chia-
mare. Non avevo domandato a Jake perché mi aveva chiesto di richiamarlo prima di telefonare agli israeliani. E adesso lui non era raggiungibile e LaManche voleva che chiudessi il caso il più presto possibile. D'un tratto i miei pensieri divagarono. Perché Jake era così a disagio rispetto al fatto che volessi parlare con le autorità israeliane? Di che cosa aveva paura? Per caso voleva evitare di coinvolgere una persona in particolare? Ma poi tornai rapidamente al problema principale. Ero sicura che la polizia israeliana non avesse alcun interesse per uno scheletro vecchio di duemila anni. Anche se l'archeologia israeliana non era il mio forte, sapevo che in quasi tutti i Paesi esistevano enti preposti alla tutela dei beni culturali, reperti archeologici inclusi. Mi collegai a Internet, e inserii le parole «archeologia» e «Israele» in un motore di ricerca. In quasi tutti i siti compariva un riferimento all'Autorità archeologica israeliana. Cinque minuti di navigazione in rete e trovai un numero di telefono. Controllai l'ora. Le undici e venti. Cioè le sei e venti, del pomeriggio in Israele. Probabilmente non avrei trovato nessuno. Digitai il numero. Al secondo squillo mi rispose una voce femminile. «Shalom.» «Shalom. Sono la dottoressa Temperance Brennan. Mi spiace, ma non parlo ebraico.» «Parla con la sede dell'Autorità archeologica israeliana.» Inglese con forte accento mediorientale. «Chiamo dal Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale di Montréal, in Canada.» «Prego?» «Sono un'antropologa forense e lavoro per l'Istituto di medicina legale di Montréal.» «Mi dica.» Noia con una punta di impazienza. «Da una serie di circostanze che definirei inusuali sono venuti alla luce alcuni resti.» «Resti di che genere?» «Uno scheletro umano.» «E quindi?» «Esistono elementi che lasciano supporre che questo scheletro potrebbe appartenere ai reperti archeologici rinvenuti a Masada negli anni Sessanta
durante gli scavi compiuti da Yigael Yadin.» «Mi può ripetere il suo nome?» «Temperance Brennan.» «Attenda in linea, prego.» Attesi. Per cinque minuti buoni. Finché la donna non tornò alla cornetta, questa volta con un tono decisamente meno annoiato. «Potrei sapere come è entrata in possesso dello scheletro?» «No.» «Prego?» «Sono disponibile a spiegare la situazione alle autorità competenti.» «L'autorità competente è l'Autorità archeologica israeliana.» «Potrebbe dirmi il nome del vostro direttore?» «Tovya Blotnik.» «Forse allora dovrei parlare con il signor Blotnik.» «Oggi ha già lasciato l'ufficio.» «Non sarebbe possibile chiamare...» «Il dottor Blotnik non vuole essere disturbato quando è a casa.» Qualcosa che non riuscivo a capire mi trattenne dal raccontare la storia dello scheletro. Forse la raccomandazione di Jake di non chiamare Israele prima di aver parlato con lui? Quel riferimento di LaManche alle relazioni internazionali? Una mia reazione irrazionale? Non so, ma anche se il motivo non mi era chiaro, il risultato fu che decisi di non parlare. «Spero di non essere fraintesa, ma preferirei parlare direttamente con il direttore.» «Sono un'antropologa fisica e se le ossa dovranno arrivare qui da noi, il dottor Blotnik darà disposizione che sia io a gestire il passaggio.» «Lei è?» «Ruth Anne Bloom.» «Mi scusi, dottoressa Bloom, ma ho bisogno di una conferma da parte del vostro direttore.» «È una richiesta decisamente inconsueta.» «Tuttavia sono costretta a farla. Anche perché si tratta di uno scheletro decisamente inconsueto.» Silenzio. «Potrei avere i suoi dati?» Glaciale. Dettai a Ruth Bloom i numeri del mio cellulare e del mio ufficio in istituto. «Va bene. Trasmetterò il suo messaggio.»
La ringraziai e conclusi la telefonata. Dopodiché mi ricollegai a Internet e inserii nel motore di ricerca le parole Tovya e Blotnik. Dopo qualche secondo, il nome comparve sullo schermo collegato quasi sempre ad articoli attinenti un sarcofago di pietra chiamato «Ossario di Giacomo». In ciascuno, Blotnik veniva menzionato come il direttore generale dell'Autorità archeologica israeliana. Okay. Blotnik era kasher. Allora perché il mio cervello mi mandava segnali subliminali che suggerivano di essere cauta con Ruth Bloom? Forse perché Lerner e Ferris pensavano che lo scheletro che avevo nel mio laboratorio fosse quello di Gesù Cristo? Oppure perché Jake mi aveva chiesto di non fare ciò che stavo facendo? Non ne ero certa. Ma, ancora una volta, così stavano le cose. Mentre scattavo le ultime fotografie dello scheletro, Ryan comparve dietro la porta del mio laboratorio con l'aria di un gatto che ha appena catturato il topo. Gli feci cenno di entrare con la mano. «L'hanno beccato» mi disse. «Chi?» «Hershel Kaplan.» «Come hanno fatto?» «Il genio ha dimenticato di pagare un ciondolo.» «Nel senso che ha rubato qualcosa?» «Una catenina gli è caduta in tasca. Un terribile errore. Ovviamente non aveva nessuna intenzione di non pagare.» «Ovviamente. E adesso?» «Mi piacerebbe fargli riportare il culo qui in Canada.» «Puoi farlo?» «No. A meno che non lo si possa accusare di qualcosa. A quel punto potremmo richiedere l'estradizione attraverso il ministero degli Esteri.» «Ci sono elementi sufficienti per accusarlo di qualcosa?» «No.» «E comunque lui si opporrebbe...» «Già.» Ryan indicò lo scheletro con un cenno del mento. «Che mi dici del nostro eroe?» «Secondo la datazione al carbonio 14, dovrebbe essere nato ai tempi in cui è comparsa la cometa nel cielo di Betlemme.» «Ah...»
«Sto cercando di rispedirlo in Israele.» Dopodiché raccontai a Ryan la telefonata con l'antropologa dell'Autorità archeologica israeliana. «Secondo te perché hai sentito quel campanello d'allarme?» Riflettei qualche secondo. «Jake mi ha detto di non contattare nessuno in Israele prima di aver parlato con lui.» «Allora perché hai chiamato?» «LaManche vuole che chiuda il caso dello scheletro il prima possibile.» «Allora perché non ne hai voluto parlare con questa Ruth Bloom?» «Immagino per ciò che mi ha detto Jake. Non ne sono sicura. Ma una vocina mi ha detto di aspettare e di parlare con Blotnik.» «Probabilmente un buon suggerimento.» «C'è dell'altro.» Gli riferii di Morissonneau. Ryan alzò le sopracciglia. Ma prima di poter commentare, il suo cercapersone e il mio cellulare trillarono insieme. Ryan si tolse l'apparecchio dalla cintura, controllò il numero e si avvicinò al telefono della mia scrivania. Io andai nel laboratorio attiguo. «Pronto? Temperance Brennan.» «Sono Tovya Blotnik, chiamo da Gerusalemme.» Voce da Babbo Natale. Profonda e allegra. «Sono lieta di sentirla, professore. Non aspettavo la sua chiamata prima di domattina.» «Ruth Anne Bloom mi ha telefonato a casa.» E meno male che non voleva essere disturbato! «La ringrazio molto» dissi. «Di nulla. È un piacere parlare con una collega straniera» rispose Blotnik in tono cordiale. «Se ho capito bene, lei lavora in Canada, per l'ufficio del coroner, giusto?» Gli spiegai la mia posizione. «Bene. Allora, mi dica di questo scheletro di Masada.» Gli descrissi la fotografia da cui era partita l'intera vicenda. Poi, omettendo nomi e riferimenti personali, raccontai a Blotnik che lo scheletro era stato sottratto dal Musée de l'Homme, e in seguito custodito prima da una persona e poi da un'altra. Gli parlai anche dei risultati della datazione al carbonio. Evitai invece di nominare Hershel Kaplan, e non accennai nemmeno al
libro di Joyce, né alla ragione che aveva portato al furto e all'occultamento delle ossa. Tralasciai anche di precisare che avevo prelevato dei campioni per l'esame del DNA. Come pure il fatto che le due persone che avevano avuto in custodia le ossa fossero entrambe morte. «Ma come ha avuto quella fotografia, dottoressa?» mi domandò Blotnik. «Mi è stata consegnata da un membro della comunità ebraica locale.» Abbastanza veritiera. «Probabilmente tutta questa storia è priva di fondamento.» Il tono gioviale di Blotnik a questo punto mi sembrò leggermente forzato. «Ma neppure possiamo ignorarla, giusto, dottoressa?» «Credo di no.» «Inoltre sono sicuro che lei sarà impaziente di liberarsi di questa gatta da pelare...» «Sono stata autorizzata a consegnare le ossa. Se vuole fornirmi un indirizzo dove poter spedire lo scheletro, contatterò al più presto un corriere internazionale per...» «No!» Scomparsa ogni traccia di giovialità e cortesia. Attesi in silenzio. «Dottoressa, non mi sento di darle tutto questo disturbo. Le mando qualcuno.» «Vuole mandare qualcuno qui in Québec da Israele?» «Per me non sarebbe un problema.» «Dottor Blotnik, oggi i reperti archeologici vengono spediti in tutto il mondo senza particolari rischi. Sarei felicissima di imballare in modo adeguato il materiale e spedirlo in Israele secondo le modalità che lei vorrà indicare.» «Devo insistere, dottoressa...» Non replicai. «Di recente si sono verificati alcuni episodi spiacevoli. Per caso ha sentito parlare dell'Ossario di Giacomo?» L'Ossario di Giacomo era l'antico sarcofago in pietra citato nei siti Internet legati al professor Blotnik. Ricordavo vagamente di aver sentito qualcosa al telegiornale qualche anno prima riguardo ad alcuni danni subiti da un sarcofago in prestito temporaneo al Royal Ontario Museum. «L'Ossario di Giacomo è il reperto che rimase danneggiato durante il trasporto a Toronto?»
«Fracassato sarebbe un termine più appropriato. Mentre veniva spedito da Israele al Canada.» «Come preferisce, professore.» «Mi creda, dottoressa. È la cosa migliore. La richiamo a breve per farle sapere il nome della persona che manderò in Canada.» Prima che potessi replicare, Blotnik mi anticipò con una domanda. «Lo scheletro naturalmente è custodito in un posto sicuro, vero?» «Naturalmente.» «Il problema della sicurezza è di primaria importanza. La prego di fare in modo che nessuno possa avere accesso a quelle ossa.» Tornai nel mio laboratorio mentre Ryan stava abbassando la cornetta del mio telefono. «Kaplan non parla» mi disse. «Quindi?» «Il collega che si sta occupando della cosa laggiù dice che cercherà di torchiarlo meglio.» Ryan si accorse che non lo stavo seguendo. «Che succede, splendore?» «Non lo so.» Ryan mi rivolse uno sguardo sottilmente interrogativo. «Ci sono troppi intrighi dietro questo scheletro» dissi. «Anche se fosse davvero lo scheletro mancante di Masada. Sempre ammesso che uno scheletro mancante esista.» Gli riferii la mia conversazione telefonica con Blotnik. «Un viaggio di quasi settemila chilometri mi sembra un tantino eccessivo» concordò Ryan. «Un tantino. Anche perché i reperti archeologici vengono spediti in tutto il mondo in continuazione. Ci sono spedizionieri specializzati proprio in questo.» «Ti faccio una proposta» mi disse Ryan posandomi le mani sulle spalle. «Ci regaliamo una bella cenetta, poi andiamo a casa tua e magari scivoliamo in qualcosa di molto piacevole e molto simile all'arte della danza. Che ne dici?» «Non ho ancora comprato le culottes.» Guardai fuori dalla finestra. Mi sentivo inquieta e nervosa e non capivo perché. Ryan mi accarezzò il viso. «Tempe, non può cambiare niente nel giro di una notte.»
Ma Ryan aveva maledettamente torto. 17 Quella notte sognai un uomo di nome Tovya Blotnik. Portava occhiali scuri e cappello nero, tipo John Belushi e Danny Aykroyd in The Blues Brothers. Blotkin, accovacciato a terra, scavava con un raschietto e a ogni movimento un raggio di luna scintillava sulle lenti brillando nel buio della notte. Nel mio sogno, Blotnik raccoglieva qualcosa dal terreno, si alzava e passava l'oggetto a un'altra persona, girata di schiena. Poi la persona di voltava e riconoscevo Sylvain Morissonneau, che reggeva un teschio. Morissonneau puliva il teschio dalla terra finché la superficie dell'osso non era perfettamente candida sotto la luna. Piano piano, una faccia prendeva forma sopra le orbite e gli orifizi. Era il volto di Gesù Cristo, come appariva nel quadro appeso sopra il letto di mia nonna. Un Gesù dallo sguardo inquietante, che sembrava seguirti in ogni movimento e che mi aveva terrorizzata per tutta l'infanzia. Nel sogno cercavo di scappare, ma non riuscivo a muovermi. La bocca di Gesù si apriva. Usciva un dente. Il dente iniziava a fluttuare e veniva verso di me. Mentre tentavo di difendermi e di allontanarlo, mi svegliai. La stanza era immersa nel buio, spiccavano solo le cifre verdine della radiosveglia. Ryan, accanto a me, russava leggermente. I miei sogni in genere non sono grandi esempi di rompicapi freudiani. Il mio inconscio infatti si limita a ricomporre gli eventi della mia giornata in una sorta di arazzo psichedelico. Questo invece era una vera bellezza. Guardai l'ora. Le 5.42. Cercai di riprendere sonno. Alle sei e un quarto desistetti. Birdie mi seguì in cucina. Preparai il caffè. Charlie attirò l'attenzione con uno dei suoi fischi e poi iniziò a frugare con il becco nella vaschetta dei semi. Versai il caffè in una tazza e andai a sedermi sul divano. Birdie mi si accoccolò in grembo. Fuori, due passerotti beccavano infruttuosamente nella neve del cortile. Sapevo come si sentivano in quel momento. Sullo scheletro di Masada più domande che risposte. Nessuna spiegazione sulla morte di Sylvain Morissonneau. Nessun progresso sul caso Ferris.
Nebbia totale sul motivo per cui Jake non rispondeva alle mie chiamate. O forse l'aveva fatto? Andai in camera da letto in punta di piedi, presi la borsetta e tornai a sedermi sul divano. Quando controllai il cellulare, mi accorsi che Jake in effetti aveva richiamato. Due volte. Accidenti! Come mai non l'avevo sentito? Forse perché ero impegnata con Ryan... Jake aveva lasciato un telegrafico messaggio. Entrambe le volte. Richiamami. Digitai il suo numero. Mi rispose subito. «È una fortuna che tu sia abilitato alle chiamate internazionali. Perché con tutte queste chiamate con operatore a Gerusalemme sarò costretta a chiedere un'ipoteca sulla mia casa di St. Bart's.» «Hai una casa a St. Bart's?» «No. Ma mi piacerebbe.» Birdie tornò al suo posto, sulle mie gambe. «Ho ricevuto i risultati della datazione al carbonio. Lo scheletro ha almeno duemila anni.» «Hai già contattato qualcuno?» «L'Autorità archeologica israeliana. Ho dovuto farlo.» «Con chi hai parlato?» Secco. «Con Tovya Blotnik. Lui vorrebbe mandare una persona a Montréal a prendere le ossa.» «Blotnik sa che hai prelevato i campioni per l'esame del DNA?» «No. Ma tu sai, vero, che per i risultati di quell'esame bisognerà aspettare un po'?» Jake ignorò la mia domanda. «Gli hai parlato di quel dente anomalo?» «No. Ho pensato che avresti voluto parlarne tu per primo. Jake, ascolta, c'è un'altra cosa che devi sapere.» E gli dissi di Morissonneau. «Porca merda. Secondo te, è possibile che il cuore del vecchio si sia veramente fermato?» «Non lo so.» Silenzio. Poi: «Blotnik per caso ti ha parlato di una tomba, o di un ossario?». «Ha accennato all'Ossario di Giacomo.» Altro silenzio. Che Charlie riempì con un verso di Strokin'. Pensai per un attimo a ciò che il cacatua poteva aver visto la sera prima. Ma poi la
voce di Jake mi riportò al presente. «Sei sicura che ti abbia parlato dell'Ossario di Giacomo?» «Sì. Si può sapere perché questo benedetto ossario è tanto importante?» «Ne parliamo in un altro momento. Ascolta, Tempe. Ascoltami bene, perché quello che sto per dirti è molto importante. Non parlare per nessun motivo dei campioni per l'esame del DNA. D'accordo? Ce la fai a mantenere il segreto per un po'?» «Perché?» «Per favore, Tempe, promettimi che per adesso non parlerai di quell'esame.» «Al momento non c'è niente di cui parlare.» «E non devi neppure consegnare quello scheletro a Blotnik.» «Jake, ascolta...» «Te lo chiedo per piacere. Puoi farmi questo favore, Tempe?» «No, se non mi dici che cosa sta succedendo. Perché non dovrei collaborare con l'Autorità archeologica israeliana? Me lo vuoi spiegare sì o no?» «Non posso parlarne al telefono.» «Se il luogo di origine di quelle ossa è Masada, per legge devo restituire lo scheletro a Israele. Non ho scelta, Jake.» «Allora portalo tu. Ti pagherò io tutte le spese.» «In questo momento non posso mollare tutto e farmi un viaggetto in Israele.» «Perché no? Con Blotnik parlo io.» «Insomma, mi stai chiedendo di venire lì con lo scheletro?» Che cosa avrei detto a LaManche? E a Ryan? Chi si sarebbe occupato di Birdie e di Charlie? Gesù, stavo ragionando come mia madre. «Ci devo pensare, Jake.» «Tempe, ti prego. Prendi un aereo e portami quello scheletro.» «Per caso non penserai davvero che siano le ossa di Gesù Cristo?» Lunga pausa. Quando Jake riprese a parlare, la sua voce era diversa, più bassa e più cauta. «Ti posso dire soltanto che c'è in ballo qualcosa di grosso.» «Grosso?» «Se ho ragione, questa è una cosa enorme, gigantesca. Per favore, Tempe, salta sul primo volo disponibile. Se vuoi te lo prenoto io. Ti vengo a prendere all'aeroporto Ben Gurion. E non dire a nessuno che stai venendo qui.»
«Non vorrei rovinare il tuo piano, Jake, ma...» «Dimmi solo che verrai qui con il primo aereo.» «Ti dico che ci penserò.» E in effetti ci stavo pensando, quando Ryan comparve in salotto. Si era infilato i jeans. Solo i jeans. E i jeans avevano la vita bassa, molto bassa. La mia libido si impennò di colpo. E Ryan se ne accorse. «Se vuoi, posso aiutarti a dare un'occhiatina alle parti più interessanti.» Alzai gli occhi al soffitto. «Ho fatto il caffè» dissi. Ryan mi diede un bacio sui capelli, sbadigliò e scomparve. Birdie saltò giù dal divano e lo seguì. Sentii una serie di rumori, poi l'anta del frigorifero aprirsi e richiudersi. Quindi vidi Ryan tornare in salotto con in mano una tazza. Il tenente dagli occhi blu si accomodò sulla poltrona e allungò le gambe. Charlie fischiettò qualche nota di una tipica canzone del caro vecchio Sud, poi gracchiò i versi di Strokin'. «Sbaglio, o ti ho sentito parlare?» «Era Jake. Vuole che vada in Israele per portare lo scheletro di Morissonneau di persona. Ha insistito parecchio.» «La terra del sole e del divertimento.» «Già. E dei kamikaze che si fanno esplodere.» «E dei kamikaze.» Ryan soffiò sul caffè bollente. «Hai voglia di andare fin là?» «Sì e no.» «Amo una donna che ha sempre le idee chiare.» «Ho sempre desiderato fare un viaggio in Terra Santa.» «Qui non c'è molto da fare in questo periodo. Non credo che l'Istituto di medicina legale precipiterebbe nel caos se ti prendessi una settimana di ferie.» «E che mi dici di loro?» Indicai Birdie e Charlie. «E se Katy ha bisogno di me?» D'un tratto mi sentii infinitamente stupida. Mia figlia aveva ventiquattro anni e in quel momento si trovava a quasi duemila chilometri di distanza. E molto vicina a suo padre. «La violenza ti rende nervosa?» «Ho visitato luoghi anche più rischiosi.» «E allora perché non vuoi partire?»
Non seppi cosa rispondere. Più tardi, quel mattino, in istituto c'era bisogno di me. Due bambini avevano trovato delle ossa in una cassa custodita nella soffitta di uno zio. I familiari avevano chiamato la polizia. Erano ossa umane. Di una donna bianca, tra i trenta e i quarant'anni al momento del decesso. Particolare importante. Tutte le ossa presentavano dei forellini. E in alcuni forellini c'erano ancora brandelli di cavo metallico. Le ossa del ginocchio erano collegate a quelle della caviglia. E queste erano collegate alle ossa del piede. Morale: lo zio era un medico in pensione. E la sconosciuta ritrovata dai bambini era uno scheletro utilizzato a scopo didattico. Alle 9.05 avevo già finito di compilare il verbale. Dopo pranzo, i miei pensieri tornarono alla telefonata di Jake e alla sua cauta ammissione di aver scoperto qualcosa di grosso. Ma che cosa? E perché era tanto preoccupato per lo scheletro di Morissonneau? Quelle ossa non potevano di certo essere quelle di Gesù, visto che appartenevano a un uomo troppo vecchio per essere il Cristo. O troppo giovane, secondo la tesi del libro di Joyce. Sia Jake sia Blotnik avevano parlato dell'Ossario di Giacomo. Di cui si parlava anche in molti articoli che avevo trovato in Internet. Incuriosita, feci una rapida ricerca in rete. Che produsse i seguenti risultati. Un ossario è un piccolo sarcofago di pietra. Durante il I secolo, in Israele gli ossari assolvevano a una funzione molto importante nei riti funebri ebraici. Le salme venivano dapprima sepolte per un anno. Al termine di questo periodo, il processo di decomposizione era completo e le ossa venivano esumate e interrate definitivamente all'interno di questi ossari. In Palestina e in Israele erano stati scoperti migliaia di antichi ossari, ed era possibile acquistarli sul mercato dei reperti antichi per poche centinaia di dollari. L'Ossario di Giacomo è una cassetta di pietra calcarea del I secolo lunga circa cinquanta centimetri. Su di essa sono incise in aramaico le parole GIACOMO, FIGLIO DI GIUSEPPE E FRATELLO DI GESÙ. Nel 2002, il ritrovamento dell'Ossario di Giacomo fece molto scalpore. A detta di parecchi studiosi, prima della sua scoperta non esisteva nessuna
prova dell'esistenza di Gesù al di là dei testi scritti, e la cassetta fu considerata il primo segno concreto della sua esistenza. Okay. Questa in effetti è una cosa grossa, pensai. Nel 2003 fu nominato un cosiddetto comitato di autenticazione, il quale dichiarò che la cassetta era autentica, ma che l'iscrizione era un falso: responso basato essenzialmente sulle analisi dell'isotopo dell'ossigeno eseguite sulla patina, un'incrostazione causata dall'ossidazione della superficie. I risultati innescarono una vivace polemica e molti esperti si trovarono in disaccordo dichiarando i lavori del comitato poco accurati e le conclusioni affrettate. Morale: nessuno discuteva l'età del reperto; alcuni dubitavano dell'autenticità dell'iscrizione, in toto o in parte; altri accettavano tutta la storia. Ryan arrivò alle due. Appoggiò una natica sulla mia scrivania e sollevò le sopracciglia con aria interrogativa. Io feci altrettanto. «Giusto per curiosità, sono andato a fare un sopralluogo al tuo monastero. E ne è uscito qualcosa di interessante.» Mi appoggiai alla sedia. «Padre André Gervais è passato al comando di polizia di SaintHyacinthe un paio di settimane fa.» «Gervais è un monaco dell'abbazia di Sainte-Marie-des-Neiges?» Ryan annuì. «Pare che i monaci fossero preoccupati per una macchina con due uomini a bordo parcheggiata all'interno delle mura del convento. Il comando di Saint-Hyacinthe ha mandato una pattuglia per un sopralluogo.» Ryan fece una pausa a effetto e poi riprese. «I due uomini sono nazionalisti palestinesi.» «Gesù.» Ryan lesse gli appunti di un taccuino a spirale. «Jamal Hasan Abu-Jarur. Muhammed Hazman Shalaideh. L'auto era noleggiata.» «Che cosa facevano là fuori?» «I due hanno dichiarato che stavano visitando il luogo e si sono persi. Avevano passaporti validi. Nessun precedente penale. I colleghi li hanno invitati ad andarsene.» «Che giorno era?» «Il I marzo.» Sentii uno strano formicolio sul cuoio capelluto. «Tre giorni dopo la mia visita. Un giorno prima della morte di Morissonneau.»
«Potrebbero essere semplici coincidenze.» «Ultimamente ne stiamo incontrando parecchie, di coincidenze.» «Adesso passiamo alle buone notizie.» «Wow...» «Nei due anni precedenti il suo ultimo viaggetto a Bordeaux, Hershel Kaplan è stato in Israele quattordici volte. È saltato fuori che il cugino di Kaplan è uno dei mercanti di antichità con meno scrupoli di tutta Gerusalemme.» «Sputa il rospo!» «Ira Friedman è il più importante funzionario della polizia israeliana con cui mi è capitato di lavorare. Friedman ha torchiato Kaplan per bene, accusandolo di ogni genere di reato, dalla violazione della legge sui reperti archeologici e della legge che protegge i luoghi sacri, alla profanazione di tombe, senza dimenticare la distruzione di beni culturali, l'evasione fiscale, il contrabbando, la violazione di proprietà privata, l'ammutinamento del Bounty, l'affondamento del Titanic, l'assassinio di Kennedy, l'avvelenamento di Biancaneve e il furto del vello d'oro.» «Ha detto così?» «Sto parafrasando. Friedman ha suggerito a Kaplan di pensare seriamente al suo futuro. Gli ha anche fatto il mio nome, dicendo che in Canada la polizia vuole discutere con lui il contenuto di certi assegni.» «Astuto.» «La strategia ha funzionato. Kaplan si è fatto cogliere da un grandissimo desiderio di parlare con qualcuno di casa.» «In che senso?» «Vuole me, e soltanto me.» «Se non altro il tizio ha un ottimo istinto.» Ryan mi rivolse un sorriso a sessantaquattro denti. «Friedman mi vuole a Gerusalemme. E il comando ha dato l'okay.» «Vuoi dire che la Squadra Omicidi paga le spese?» «Incredibile, vero? Il ministero degli Esteri ha passato tutto alla Royal Canadian Mounted Polke. E loro hanno passato la patata bollente a noi. La persona che si sta occupando dell'omicidio Ferris sono io, quindi sarò io il fortunato viaggiatore.» «Pare che in Israele noi due siamo molto richiesti» dissi. «Dobbiamo deluderli?» «E perché mai?»
18 Se c'è un vantaggio nel volare verso una zona di guerra, è che in aereo c'è sempre una grande disponibilità di posti. Mentre prenotavo un volo con Air Canada, Denis imballò lo scheletro di Masada e lo infilò in una sacca da hockey. Dopodiché corsi a casa per sistemare Charlie e Birdie. Winston, il custode del mio palazzo, accettò di occuparsi di loro. Stavo preparando la valigia, quando Ryan suonò al citofono. Chiusi la zip del borsone, presi un topo di pezza da un cesto, lo lanciai a Birdie e uscii di casa. Conosco Ryan da anni e ho viaggiato con lui in diverse occasioni. Il tenente ha molte qualità, ma la pazienza negli aeroporti non è tra queste. Prendemmo la navetta delle sette per Toronto, e Ryan per tutto il tragitto non smise un attimo di borbottare sulle partenze troppo anticipate e per le fermate intermedie troppo lunghe. Ma non c'era motivo di preoccuparsi. Il nostro volo per Tel Aviv era un volo El Al, una compagnia che aveva adottato procedure di sicurezza più severe di quelle usate a Los Alamos negli anni Quaranta. Nel tempo necessario a spiegare e rispiegare il contenuto del mio bagaglio a mano e la documentazione che lo accompagnava, a superare il minuzioso controllo dei bagagli calzino per calzino, e a raccontare la storia della nostra vita e i nostri progetti per il futuro durante l'interrogatorio personale, arrivarono le dieci di sera. Ryan approfittò dei minuti rimasti per civettare con l'agente addetta agli ultimi controlli prima dell'imbarco, la quale, tra un sorrisetto e una risatina, gentilmente ci passò in business class. Ci imbarcammo in perfetto orario. Decollammo in perfetto orario. Un vero miracolo. Raggiunta la quota prevista e la velocità di crociera, Ryan accettò il suo secondo bicchiere di champagne, oltre a un intenso scambio di sorrisi da pubblicità di dentifricio con l'assistente di bordo. Dal canto mio, mi dedicai al mio rituale da volo internazionale. Fase uno. Succo di frutta e lettura fino all'ora di cena. Fase due. Pasto frugale. Rapida scorsa alla rivista «Airplane». Fase tre. Cartello NON DISTURBARE sul sedile, schienale in posizione di riposo, visione di tutti i film necessari a prendere sonno. Iniziai dalla fase uno e presi dalla borsetta una guida alla Terra Santa che
il custode Winston mi aveva prestato. Non chiedetemi perché ne fosse in possesso, visto che non mi risulta che l'uomo sia mai uscito dal Québec. Ryan si mise a leggere Gente di Dublino di Joyce e mangiò tutto quello che gli veniva servito. Ai titoli di testa del suo primo film stava già russando. Io mi guardai tutto La maledizione della prima luna, tutto Shrek e arrivai alla scena della vetrina di Arsenico e vecchi merletti. Verso l'alba finalmente mi appisolai ma non sono sicura di essere veramente riuscita a scollegare il cervello. Almeno, così mi era sembrato. Quando riaprii gli occhi, una hostess stava ritirando il vassoio della colazione di Ryan. Risollevai lo schienale. «Dormito bene, pasticcino?» Ryan cercò di togliermi i capelli dalle guance. Erano appiccicati. Li staccai dal loro impasto di saliva e li spostai dietro le orecchie. «Caffè?» Ryan mi sistemò i capelli, che non dovevano essere al loro meglio. Annuii. Ryan agitò la sua tazza davanti alla hostess e indicò verso di me. Io porsi il mio vassoio e nel giro di un attimo ebbi il mio caffè. «Grazie, Audrey.» Audrey? «È un piacere, tenente.» Il sorriso di Audrey era smagliante. I controlli di sicurezza all'aeroporto Ben Gurion non furono severi quanto in Canada. Forse grazie al distintivo di Ryan. Forse per la dettagliata documentazione del coroner. Forse per la consapevolezza che se avessimo nascosto dell'esplosivo nei fazzoletti a quest'ora qualcuno l'avrebbe già trovato. Usciti dalla dogana, notai un uomo appoggiato a una parete alla nostra sinistra. Aveva i capelli spettinati e indossava un maglione verde argilla, jeans e scarpe da tennis. A parte le foltissime sopracciglia e qualche anno in più, l'uomo era identico a Gilligan. E Gilligan ci seguiva passo passo con lo sguardo. Sferrai una gomitata a Ryan. «L'ho visto» mi disse il mio compagno di viaggio, senza fermarsi. «Hai visto che è il ritratto di Gilligan?» Ryan mi guardò.
«Quello dei telefilm. L'isola di Gilligan.» «Odiavo quei telefilm.» «Però conosci il personaggio.» «Li odiavo tutti. Tranne Ginger. Lei era un vero talento.» Gilligan si staccò dalla parete, continuando a fissarci. L'uomo non faceva nessuno sforzo per mimetizzare il suo interesse per noi. Quando fummo a pochi metri da lui, si avvicinò. «Shalom.» La voce era più profonda di quella che ci si sarebbe aspettato da un uomo della sua taglia. «Shalom» rispose Ryan. «Lei è il tenente Ryan?» «Con chi ho il piacere di parlare?» «Sono Ira Friedman.» Friedman tese la mano. Ryan la strinse. «Benvenuti in Israele.» Ryan mi presentò. Anch'io strinsi la mano a Friedman. La sua stretta era più poderosa di quanto ci si sarebbe aspettato da un uomo della sua taglia. Friedman ci accompagnò all'esterno, fino a una Ford Escort bianca parcheggiata abusivamente nella zona riservata ai taxi. Ryan caricò i nostri bagagli, aprì la portiera anteriore e mi lasciò il sedile del passeggero. Ryan è alto più di un metro e ottantacinque. Io un metro e sessanta abbondante. Optai per il sedile posteriore. Spostai una serie di scartoffie, un manuale, un paio di stivali, un casco, un cappellino e una giacca a vento. Notai qualche patatina fritta sparsa nel posto accanto al mio. Le ignorai. «Scusate il disordine» disse Friedman. «Nessun problema» risposi. Tolsi le briciole rimaste sul sedile e mi infilai al mio posto, pensando che forse rifiutare l'offerta di Jake di venire a prendermi all'aeroporto era stato un errore. Durante il tragitto, Friedman aggiornò Ryan sulla situazione. «Qualcuno all'inizio della vostra catena alimentare ha contattato una persona del vostro ministero degli Esteri, la quale ha contattato uno dei nostri funzionari di polizia addetti alle relazioni con il Canada e gli Stati Uniti. Pare che il vostro uomo abbia incontrato il nostro uomo al consolato di New York.» «Un ambiente accogliente a volte può significare davvero molto.» Friedman rivolse uno sguardo perplesso al suo collega d'oltreoceano. Era chiaro che non aveva dimestichezza con il senso dell'umorismo di Ryan.
«Il nostro uomo a New York ha spedito una richiesta ufficiale alla sede centrale dell'International Relations Unit qui a Gerusalemme. L'IRU ha rimbalzato la richiesta al nostro comando, e i miei superiori hanno assegnato il caso a me.» Friedman imboccò la statale numero 1. «In genere questo tipo di richieste non approda a nulla. Non avremmo avuto niente da chiedere al vostro sospetto, nessuna cognizione dei suoi reati. Sempre ammesso che fossimo riusciti a trovarlo. Una volta che un turista entra nel nostro Paese, diventa praticamente invisibile. E se anche lo avessimo trovato, a termini di legge avrebbe potuto rifiutarsi di parlare.» «Ma Kaplan è stato così gentile da fare un passo falso» disse Ryan. «Già. Si è lasciato scivolare in tasca una catenina. E la cosa divertente è che non era nemmeno d'oro.» «Per quanto tempo potete trattenerlo?» «Ventiquattr'ore, e sono già passate. Con un po' di chiacchiere posso arrivare fino a quarantotto. Ma dopo o lo rilasciamo o dobbiamo formalizzare l'accusa.» «Secondo lei il negoziante sporgerà denuncia?» Friedman scrollò le spalle. «E chi lo sa? Del resto, ha riavuto indietro la merce. Ma se dovremo rilasciare Kaplan, è sicuro che non lo mollerò un minuto.» Di tanto in tanto Friedman controllava lo specchietto retrovisore. I nostri occhi una volta si incontrarono. Ci scambiammo un sorriso. Tra un convenevole e l'altro cercai di guardare il panorama. Sulla guida di Winston avevo letto che la strada che collegava Tel Aviv a Gerusalemme ci avrebbe portati dalla pianura costiera attraverso la Shefela, o bassopiano centrale, fino ai monti della Giudea e poi alle montagne. Nel frattempo era scesa le sera, e non riuscivo a vedere granché. Superammo una curva dopo l'altra, poi di colpo le luci di Gerusalemme brillarono davanti a noi. Una luna di vaniglia accarezzava la cima delle colline illuminando la Città Vecchia di una luce ambrata. Mi era capitato poche volte di avere una reazione fisica di fronte a un paesaggio. Il vulcano di Haleakala all'alba. Il Taj Mahal al tramonto. Il Masai Mara durante la migrazione degli gnu. Gerusalemme illuminata dal chiaro di luna mi lasciò senza fiato. Friedman se ne accorse, e i nostri sguardi si incrociarono ancora. «Una vista incredibile, vero?» Annuii nel buio in cui era immersa la nostra automobile.
«Vivo qui da quindici anni, eppure questa vista mi fa venire ancora la pelle d'oca.» Non lo stavo ascoltando. La mia mente stava elaborando altre immagini. Attentati suicidi. Processioni natalizie. Coloni nei territori occupati. Lezioni di catechismo nella mia vecchia parrocchia. Scene di cinegiornale con rabbiosi giovanotti. Israele è un luogo dove la meraviglia del passato si scontra ogni giorno con la dura realtà del presente. Durante il nostro viaggio notturno, non riuscivo a staccare gli occhi da quegli antichi insediamenti da sempre al centro di tutto. Dopo un quarto d'ora dal primo scorcio su Gerusalemme, eravamo in centro. Le auto si allineavano lungo i marciapiedi, paraurti contro paraurti, simili a cani congelati in un'anomala parata. Veicoli di ogni tipo riempivano le strade, i pedoni affollavano i marciapiedi, le donne portavano un semplice hijab oppure erano completamente coperte dal burka, gli uomini avevano cappelli neri, i giovani Levi's ultimo modello. Proprio come in Québec, pensai, con il suo costante incontro-scontro di religioni, culture, lingue diverse. Francese e inglese. A Gerusalemme i gruppi sono tre: arabi, cristiani ed ebrei. Tutti vicini, tutti lontani. Abbassai il finestrino. L'aria era densa di odori. Cemento. Gas di scarico. Aroma di fiori, di spezie, zaffate di rifiuti e di grasso di cucina. Ascoltai il familiare carosello della vita notturna cittadina. Clacson. Traffico. Il suono di un pianoforte proveniente da una porta aperta. Era la stessa melodia di migliaia di centri urbani. Ryan aveva prenotato due stanze all'American Colony, una villa in stile turco trasformata in hotel nella zona orientale di Gerusalemme. La sua idea era stata: settore arabo, niente bombe. Friedman lasciò Nablus Road e imboccò una strada fiancheggiata da aiuole di fiori e di alberi. Superata una piccola bottega di oggetti d'antiquariato, si fermò sotto un pergolato di rampicanti. Friedman scese dall'auto e scaricò le nostre valigie. «Avete fame?» Annuimmo entrambi. «Vi aspetto al bar.» Friedman chiuse il bagagliaio. «Al piano terra.» La scelta di Ryan si rivelò felice. L'American Colony era un albergo pieno di oggetti antichi, di candelabri, di arazzi e di bronzi. Il pavimento era in pietra levigata. Le finestre e le porte erano ad arco e il piano si svi-
luppava intorno a un cortile fiorito. C'era tutto, come da copione. Mancava solo il pascià. Ci stavano aspettando. Le formalità dell'arrivo furono molto rapide. Mentre Ryan faceva qualche domanda, io scorsi velocemente i nomi incisi su una piccola targa di marmo. Saul Bellow. John Steinbeck. Jimmy Carter. Winston Churchill. Jane Fonda. Giorgio Armani. La mia stanza era perfettamente adeguata a quanto promesso dalla hall. Armadi coperti di specchi. Scrittoio intarsiato. Tappeto persiano. Bagno illuminato da specchi anticati e coperto da piastrelline a mosaico in bianco e nero. Avevo voglia di fare una doccia e di infilarmi nel mio letto a baldacchino. Invece, mi spazzolai i denti e i capelli, mi cambiai e scesi al piano di sotto. Ryan e Friedman erano già seduti di fronte a un tavolino basso in una delle alcove. Avevano stappato una bottiglia di birra Taybeh a testa. Friedman chiamò con un cenno il cameriere. Io ordinai una Perrier e un'insalata araba. Ryan scelse una porzione di spaghetti. «Questo albergo è meraviglioso» dissi. «Fu costruito nel 1860 da un ricco grassone arabo. Non ricordo più il suo nome. La stanza numero 1 era la sua. Le altre stanze del pianterreno erano riservate alle mogli durante l'estate. In inverno, le signore salivano di un piano. Il nostro voleva un figlio maschio a tutti i costi, ma nessuna delle consorti lo accontentò, così decise di sposarsi una quarta volta, e fece costruire altre due stanze. Ma anche l'ultima sposa lo deluse, e l'uomo soffrì al punto da morirne.» Friedman sorseggiò la sua birra. «Nel 1873, un certo Horatio Spafford, avvocato di Chicago, spedì la moglie e le quattro figlie in viaggio di piacere in Europa. Il piroscafo affondò e sopravvisse solo la madre.» Altro sorso di birra. «Un paio di anni, e arrivarono un altro paio di figlie. Poi gli Spafford persero un figlio maschio. Poiché erano persone assai devote, decisero di cercare consolazione in Terra Santa. Nel 1881 arrivarono qui e presero alloggio con altri amici nella Città Vecchia. Il gruppo ben presto divenne noto con il nome di American Colony, e si fece conoscere per la disponibilità ad aiutare i poveri. «Per farla breve, altre persone si unirono al gruppetto iniziale e fu neces-
sario trovare un'altra abitazione. Gli Spafford prima presero in affitto e poi acquistarono proprio questo posto. Avete mai sentito parlare di Peter Ustinov?» Ryan e io facemmo cenno di sì. «Nel 1902 il nonno di Peter iniziò a mandare qui i visitatori che non trovavano posto nel suo albergo di Jaffa. La casa diventò l'American Colony Hostel, e in seguito fu trasformata in un hotel vero e proprio. Al momento, l'albergo è sopravvissuto a quattro guerre e a quattro diversi regimi.» «I turchi, gli inglesi, i giordani e gli israeliani» elencai. «Esatto. Ma mi rendo conto che non siete venuti per ascoltare una lezione di storia. Quindi spiegatemi perché questo Kaplan è diventato tanto importante in Canada.» Ryan mise al corrente il collega delle indagini sul caso Ferris. «Dai furtarelli a un omicidio direi che è un bel salto» commentò Friedman. «Proprio un bel salto» concordò Ryan. «Ma la vedova ha dei trascorsi con Kaplan.» «Che però si è scordata di raccontare» concluse Friedman. «Esattamente» affermò Ryan. «E Kaplan ha lasciato il Paese.» «Esattamente.» «La vedova è la beneficiaria di quattro milioni di dollari» aggiunse Friedman. «Esattamente.» «Quattro milioni di dollari sono un bel movente.» «Non le sfugge proprio niente, signor Friedman.» «Quindi, se ho ben capito lei vorrebbe parlare con Kaplan, giusto?» «Quando lui è disponibile, sì, vorrei farlo.» «Diciamo domattina appena sveglio?» «Sì, ma lasciamogli prima lavare i denti.» Friedman si rivolse a me. «Mi scusi la domanda, ma mi sfugge quale sia il suo ruolo in questa vicenda.» Gli spiegai come avevo ottenuto la fotografia da Kaplan e dello scheletro di Morissonneau, e gli accennai anche della mia telefonata con l'Autorità archeologica israeliana. «Con chi ha parlato?» «Con Tovya Blotnik e con Anne Ruth Bloom.» «Bloom è la signora delle ossa, giusto?»
Trattenni un sorriso. Anch'io spesso venivo chiamata così. «Sì.» «Le hanno parlato di quella cassetta di pietra?» mi domandò Friedman. «Dell'Ossario di Giacomo?» Friedman annuì. «Sì. Me ne ha parlato Blotnik. Perché?» Friedman ignorò la mia domanda. «Quel suo amico, Jake Drum, le ha consigliato di tenere un basso profilo, una volta arrivata qui, giusto?» «Jake mi ha consigliato di non prendere nessun contatto in Israele prima di averlo incontrato.» Friedman finì la sua birra. Quando riprese a parlare, la sua voce suonò neutra, quasi volesse impedire ai suoi veri pensieri di filtrare in qualche modo all'esterno della sua mente. «Il consiglio del suo amico è molto saggio.» Saggio. Ma, visto come sarebbero andate le cose, inutile. 19 Le cinque e venti del mattino. Davanti alla mia finestra, le chiome degli alberi erano ancora nere, il minareto della moschea una lunga ombra proiettata sulla strada. Ero stata svegliata dal suo altoparlante che invitava alla preghiera del mattino, il fajr. Allah è grande, predicava il muezzin in arabo. Pregare è meglio che dormire. Non ne ero poi così sicura. Mi sentivo fiacca e stordita, come un malato che si risveglia dall'anestesia. Il cantilenante richiamo si concluse. Il canto dei primi uccellini riempì il silenzio. Un cane abbaiava. Qualcuno chiuse la portiera di un'automobile. Me ne stavo sdraiata sul mio letto, paralizzata dall'informe sensazione che una qualche tragedia stesse per compiersi. Ma cosa? E quando? Osservai la stanza colorarsi lentamente d'argento, e poi di rosa, mentre ascoltavo i rumori del traffico fondersi e amplificarsi. Cercai di sollecitare il mio inconscio. Qual era la ragione di quella sensazione così inquietante? Il fuso orario? Il timore per la mia incolumità? Il senso di colpa per la morte di Morissonneau? Alt. Ecco un aspetto su cui non avevo ancora riflettuto. Quattro giorni dopo la mia visita al monastero, Morissonneau era stato trovato cadavere lungo un sentiero. Per caso il mio comportamento aveva determinato la morte dell'abate? Avrei dovuto capire che lo stavo
mettendo in pericolo? Ma era così? Avevo effettivamente messo in pericolo Morissonneau? Che cosa diavolo si nascondeva dietro quello scheletro? Se non altro avevo capito che la mia ansia era dovuta in parte al fatto che altri sembravano sapere qualcosa di cui io invece non ero a conoscenza. Blotnik. Friedman. Perfino Jake sembrava volermi nascondere qualcosa. O avrei dovuto dire: soprattutto Jake? Forse il mio amico aveva un piano di cui non voleva mettermi a parte? Non ne ero molto convinta. E poi, che cosa avrebbe dovuto nascondermi? Per esempio, cos'era questa storia dell'Ossario di Giacomo? Tutti giravano attorno all'argomento senza mai entrare nel merito. Mi ripromisi di non far passare quella giornata senza aver svelato il mistero. Mi sentivo già meglio. Stavo finalmente entrando in azione. O almeno, stavo decidendo di entrare in azione. Alle sei mi alzai, feci la doccia e scesi al ristorante, nella speranza che anche Ryan si fosse alzato presto. Speravo anche che si fosse riconciliato con l'idea che lui stava nella stanza 307, al piano terreno, e io nella 304, al primo piano. Avevamo parlato della nostra sistemazione notturna prima di lasciare Montréal. Io avevo insistito per avere due stanze separate, argomentando che il nostro viaggio in Israele era un viaggio ufficiale di lavoro. Ryan aveva obiettato che nessuno sarebbe venuto a controllare dove dormivamo, ma io avevo ribattuto che sarebbe stato divertente sgusciare furtivamente da una stanza all'altra. Ryan non era d'accordo, ma alla fine avevo vinto io. Ryan era già seduto al tavolo, e stava cercando di raccogliere qualcosa dal piatto. «Secondo te perché servono le olive per colazione?» Dal tono di Ryan capii che il fuso orario aveva stordito più lui di me. «Non ti piacciono le olive?» «Sì, ma dopo le cinque del pomeriggio.» Ryan spostò il frutto ribelle sul lato del piatto e lo seppellì sotto una montagna di uova strapazzate. «E in un bicchiere di gin.» Intuendo che il livello della nostra conversazione non sarebbe migliorato, mi concentrai sul mio formaggio con salsa hummus. «Tu e Friedman andate da Kaplan?» domandai, quando vidi che la montagna d'uovo si era ridotta a un piccolo dosso. Ryan annuì e controllò l'orologio. «Lo scheletro sta andando da Blotnik?» domandò a sua volta.
«Sì. Ma ho promesso a Jake che avrei incontrato lui prima di contattare chiunque altro. Sarà qui a minuti. Poi andremo insieme alla sede dell'Autorità archeologica israeliana.» Finita la sua tazza di caffè, Ryan si alzò e puntò il dito verso di me. «Mi raccomando, agente Brennan. Fai attenzione quando sei là fuori.» Mi toccai la fronte con due dita. «Okay capo. Ricevuto.» Ryan restituì il saluto e attraversò il salone del ristorante. Jake arrivò alle sette. Indossava un paio di jeans, un gilet mimetico pieno di tasche e una camicia hawaiana azzurra aperta sopra una T-shirt bianca. Una precisa scelta di stile per un sessantenne di un metro e ottanta dalla testa rasata e dalle sopracciglia a cespuglio. «Hai portato gli scarponcini?» mi domandò Jake, sedendosi sulla sedia appena liberata da Ryan. «Per incontrare Blotnik?» «No. Per venire con me a vedere una cosa.» «Sono qui per consegnare uno scheletro, Jake.» «Prima voglio che tu veda una cosa, Tempe.» «Prima voglio che tu mi spieghi che cosa diavolo sta succedendo.» Jake annuì. «Voglio saperlo oggi» la mia voce uscì più sonora di quanto avrei voluto. O forse no. «Ti spiego tutto durante il tragitto.» «A partire dalla storia dell'ossario?» Due uomini passarono accanto al nostro tavolo parlando in arabo. Jake li guardò finché non scomparvero oltre l'arco di pietra che conduceva fuori dal salone ristorante. «Puoi chiudere le ossa nella cassaforte della tua stanza?» La voce di Jake era poco più che un sussurro. «No. Troppo piccola.» «Allora portale con te.» «Spero che sia la cosa migliore» dissi, posando il tovagliolo sul tavolo. «Gli scarponcini.» Mentre attraversavamo la città a bordo del suo furgoncino, Jake mi raccontò la storia dell'Ossario di Giacomo. «Nessuno mette in discussione l'autenticità della cassetta. Le polemiche riguardano l'iscrizione. L'Autorità archeologica ha dichiarato che l'iscrizione è falsa. Altri dicono che le parole FRATELLO DI GESÙ sono au-
tentiche, e sostengono che le parole GIACOMO, FIGLIO DI GIUSEPPE invece sono state aggiunte in un secondo momento.» «Perché?» «Per alzare il valore dell'ossario sul mercato dei reperti archeologici.» «Ma il comitato dell'Autorità non ha considerato il problema da tutti i possibili punti di vista?» «Sì. Appunto. Innanzitutto, sono stati nominati due sotto-comitati. Uno si è occupato di iscrizione e contenuto. L'altro dei materiali. Il comitato che ha analizzato l'iscrizione comprendeva al suo interno un esperto in antica scrittura ebraica, ma non uno straccio di epigrafista.» «Che sarebbe un esperto nell'analisi e nella datazione delle epigrafi, cioè delle iscrizioni che commemorano i defunti, giusto?» «Giusto. Uno dei geni del comitato ha indicato come prova della contraffazione le variazioni nello stile e nella profondità e spessore delle lettere. Non voglio tediarti con dettagli tecnici, ma è evidente che quando si tratta di iscrizioni incise in modo non meccanico, le variazioni sono esattamente quello che ti aspetti di trovare. L'uniformità delle lettere sarebbe stata la prova inconfutabile che si trattava di un falso. E la compresenza di parole in tondo e in corsivo è un fenomeno molto ben conosciuto nelle iscrizioni antiche. «Un'altra questione era l'ortografia. Giuseppe era scritto con le lettere YWSP, mentre Giacomo con le lettere Y'OB. Un membro del comitato ha dichiarato che il nome Giuseppe avrebbe dovuto essere scritto YHWSP, e che la parola Y'OB per indicare Giacomo non era mai comparsa su nessun ossario del periodo del Secondo Tempio.» «Il periodo del Secondo Tempio è l'epoca di Gesù Cristo, giusto?» Jake annuì. «Così ho fatto le mie ricerche. La forma delle parole incisa sull'ossario di Giacomo compare in più del dieci per cento delle iscrizioni che ho trovato su Giuseppe. Mentre ho trovato cinque occorrenze relative al nome Giacomo, di cui tre, la maggioranza, riportavano la stessa forma che compare sull'Ossario di Giacomo.» «Questo comitato era al corrente dell'esistenza di queste altre iscrizioni?» «Mah... chi lo sa.» Gli occhi di Jake continuavano a spostarsi sul traffico intorno a noi. «Tra le altre cose, bisogna anche dire che il comitato non comprendeva nessun esperto di fede cristiana, né di altre religioni ispirate al Nuovo Testamento.»
«Che mi dici delle analisi dell'isotopo di ossigeno?» domandai. Jake mi guardò. «Vedo che hai fatto i compiti.» «No, ho semplicemente fatto qualche ricerca in rete.» «Le analisi dell'isotopo di ossigeno sono state commissionate dal sottocomitato incaricato dei materiali. L'esame ha rivelato la mancanza di patina nei solchi delle lettere, ma ha riscontrato la presenza di una pasta grigiastra composta da acqua e gesso che non avrebbe dovuto esserci. Il comitato ha quindi concluso che la pasta era stata applicata intenzionalmente per imitare l'usura del tempo. Ma le cose non sono così semplici.» Jake sistemò lo specchietto retrovisore e gli specchietti laterali. «Risulta che la patina sulla parola GESÙ è identica alla patina che ricopre il resto della cassetta. E visto che in aramaico la parola GESÙ sarebbe comparsa alla fine della frase, e dal momento che quella parola viene considerata autentica - anche dall'Autorità - questo significa che tutta l'iscrizione è autentica. Anche perché, se ci pensi bene, che senso avrebbe avuto incidere su un ossario che una persona era solo il fratello di qualcuno?» «Come ti spieghi la presenza di quella pasta?» «La patina nei solchi delle lettere potrebbe essere stata asportata per effetto dello strofinamento. Che potrebbe anche aver alterato la composizione chimica della patina producendo particelle di carbonato. Il proprietario dell'ossario ha dichiarato che il reperto è stato pulito molte volte nel corso degli anni.» «Chi è il proprietario?» «Un collezionista israeliano, un certo Oded Golan. Pare abbia affermato che al momento dell'acquisto gli fu detto che l'ossario proveniva da una tomba di Silwan.» Jake puntò l'indice verso il mio finestrino. «Ora stiamo quasi per entrare a Silwan.» Di nuovo, Jake guardò gli specchietti. La sua agitazione iniziava a preoccuparmi. «Il problema è che questo ossario non è stato registrato come reperto archeologico né presso gli scavi di Silwan né presso alcun altro scavo in Israele.» «Credi che sia stato trafugato?» «Tu che ne dici, Tempe?» mi domandò in tono ironico. «Golan sostiene che possiede l'ossario da più di trent'anni, il che lo mette dalla parte della legalità, visto che i reperti archeologici acquisiti prima del 1978 sono caccia libera.» «Secondo te mente?»
«Pare che Golan abbia fissato il prezzo della sua cassetta a due milioni di dollari. Tu che ne pensi?» Pensai che due milioni di dollari erano un sacco di soldi. Jake indicò una collina che si ergeva ripida a fianco della strada che stavamo percorrendo. «Quello è il monte degli Ulivi. Siamo arrivati dalla parte del versante orientale, e adesso stiamo fiancheggiando quello meridionale.» Jake svoltò a destra e imboccò una stradina su cui si affacciava una serie di edifici bassi color sabbia, molti dei quali erano decorati con approssimativi disegni di automobili o aeroplani, per indicare che gli occupanti avevano compiuto il loro haj alla Mecca. I ragazzini giocavano a palla. I cani rincorrevano i ragazzini. Le donne sbattevano i tappeti, trasportavano borse di verdure, spazzavano la veranda. Gli uomini chiacchieravano su sedie a sdraio arrugginite. La mia mente produsse l'immagine dei due palestinesi parcheggiati fuori dall'abbazia di Sainte-Marie-des-Neiges. Raccontai a Jake di quella strana vicenda e gli riferii alcune delle cose dette da Morissonneau. Jake fece per dire qualcosa, poi però ci ripensò e lasciò perdere. «Cosa volevi dire?» domandai. «Non è possibile.» «Che cosa non è possibile?» «Niente.» «Mi vuoi dire che cosa mi stai nascondendo, Jake?» Ma ottenni semplicemente un no con la testa. Ancora una volta, mi sentii avvolgere dalla sensazione di imminente tragedia che avevo provato al risveglio. Jake svoltò di nuovo e si fermò in uno spiazzo dietro il paese. Davanti a noi e sulla sinistra una scalinata di pietra portava a quella che sembrava una scuola. Sui gradini, numerosi ragazzi maschi sedevano, chiacchieravano o si spingevano. «La morte di Morissonneau è legata a...» A che cosa? Non avevo idea di quello che stavamo facendo. «A quei due uomini?» Con un gesto della mano indicai il borsone da hockey, il paese, e la vallata davanti a noi. «A tutto questo?» «Lascia perdere i musulmani. L'Islam se ne frega alla grande di Masada e di Gesù Cristo. Per i musulmani, Gesù non è una divinità ma solo un uomo sacro.» «Un profeta come Abramo o Mosè?»
«Se vuoi, anche un Messia. Secondo i musulmani, Gesù non è morto sulla croce, ma è salito direttamente in cielo, da dove un giorno ritornerà.» Quella storia mi suonava vagamente familiare. «Che mi dici dei Guerrieri Sacri di Allah? Di questa frangia radicale?» «In che senso?» «Secondo te i fanatici del jihad non vorrebbero mettere le mani sulle ossa di Gesù Cristo?» «E perché?» «Per ricattare il mondo della cristianità.» Mentre parcheggiavamo, un corvo planò sul terreno. Lo osservammo saltellare in mezzo ai rifiuti, le ali semispiegate, come se fosse incerto sul da farsi. Jake rimase in silenzio. «Ho una brutta sensazione riguardo alla morte di Morissonneau» dissi. «Te lo ripeto un'altra volta, lascia perdere i musulmani.» «E a chi dovrei pensare, allora?» «Vuoi una risposta seria?» Jake si voltò verso di me. Annuii. «Il Vaticano.» Non riuscii a trattenere una risata. «Sembri un personaggio del Codice da Vinci.» Jake non replicò. Accanto al furgoncino, il corvo beccava il terreno. Pensai a Poe. E il pensiero non risollevò il mio spirito. «Ti ascolto» dissi infine. «Tu sei un prodotto della cultura cattolica, giusto?» «Giusto.» «Le suore ti hanno insegnato il Nuovo Testamento?» «Diciamo che andavano forte sul pentimento, ma erano piuttosto carenti sulle Scritture.» «Le brave suorine ti hanno insegnato che Gesù aveva fratelli e sorelle?» «No.» «Ovviamente. Ecco perché la scoperta dell'Ossario di Giacomo ha scompigliato le vesti del papa.» Non capii la metafora ma più o meno colsi il senso del messaggio. «La Chiesa cattolica romana da sempre ha una vera passione per la dottrina dell'immacolata concezione.» Anche questa affermazione mi suonò poco chiara.
«Ma è una cosa stupida. Il Nuovo Testamento è pieno di riferimenti ai fratelli e alle sorelle di Gesù. In Matteo 13:55 si legge: "E sua madre non si chiama ella Maria, e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?". In Marco 6:1-3 si ripete la stessa cosa. Nell'Epistola ai Galati, 1:18-19, Paolo riferisce di un suo incontro con "Giacomo fratello del Signore". Mentre in Matteo 13:56 e in Marco 6:3 si dice anche che Gesù aveva delle sorelle.» «Non potrebbe qualche studioso della Bibbia aver interpretato questi versetti come riferimenti a una parentela acquisita, magari generata da una precedente moglie di Giuseppe, prima del suo matrimonio con Maria?» «Sia Matteo 1:24-25, sia Luca 2:7 affermano che Gesù era il figlio primogenito di Maria, anche se questo non esclude l'esistenza di eventuali figli precedenti di Giuseppe. Ma non è solo la Bibbia a fare riferimento ai fratelli di Gesù. Lo storico Giuseppe Flavio parla di un "fratello di Gesù, detto il Cristo, che si chiamava Giacomo".» Jake sembrava nel mezzo di una predica. «Ai tempi di Gesù, la verginità dopo il matrimonio era impensabile, anche perché avrebbe comportato una violazione della legge ebraica.» «Quindi Giacomo e gli altri potevano essere figli successivi di Maria» osservai. «Il vangelo di Matteo afferma chiaramente che dopo la nascita di Gesù Giuseppe conobbe Maria.» Jake sottolineò con il tono di voce la parola «conobbe». «E Matteo non parlava certo di una stretta di mano e una tazza di tè. Utilizzò la parola in senso biblico, appunto.» «Anche se bisogna dire che Giuseppe non era il solo candidato alla paternità dei fratelli di Gesù. Infatti, una volta che Gesù diventa adulto, la figura di Giuseppe scompare, e di lui non si sente più parlare.» «Quindi Maria potrebbe essersi risposata?» «Se Giuseppe fosse morto, o se ne fosse andato, questo era quello che ci si sarebbe aspettato da lei.» Mi sembrò di capire quale dilemma potesse essere questo per la Chiesa cattolica. «In ogni caso, l'implicazione è che Maria diede alla luce altri figli, o con Giuseppe o con altri uomini. E uno di questi figli era Giacomo. Perciò, se l'ossario è autentico, la sua scoperta mette in dubbio il fondamento della perpetua verginità di Maria e forse, per associazione, anche la dottrina dell'immacolata concezione.» Jake fece una smorfia di disapprovazione.
«San Gerolamo e i suoi accoliti confezionarono questa versione nel IV secolo: l'amica di Gesù, Maria Maddalena, diventò una prostituta, e la madre di Gesù una vergine perpetua. Della serie: le brave ragazze non fanno sesso, quelle cattive sì. Del resto, l'idea piacque talmente tanto al misogino ego maschile che divenne un dogma, da sempre difeso e promosso dal Vaticano.» «Quindi, se l'Ossario di Giacomo è autentico, e se contiene effettivamente le spoglie del fratello di Gesù, il Vaticano si troverebbe nella situazione di dover dare qualche spiegazione.» «Ci puoi scommettere. L'idea di Maria madre di tanti figli è un problema non indifferente per il Vaticano. E anche se l'esistenza di quell'ossario prova solo che Giuseppe ebbe altri figli, resta comunque un problema. Perché implicherebbe il fatto che Giuseppe fecondò la moglie. E anche in questo caso la scoperta non gioverebbe alla credibilità del Vaticano.» Nel frattempo, il corvo era stato raggiunto da altri amici. Per qualche istante li osservai gracchiare sui loro diritti di precedenza ai rifiuti. Okay. L'Ossario di Giacomo ha fatto esplodere la bomba della verginità della Madonna. Non mi era difficile immaginare che questo potesse suscitare preoccupazione in Vaticano. E neppure mi era difficile immaginare che tanto i cristiani quanto i musulmani radicali volessero mettere le mani su quella cassetta. Stesse argomentazioni avanzate da Morissonneau. Salvare la fede. Distruggere la fede. Ma qual era il legame tra l'ossario e lo scheletro di Masada? Ammesso che questo legame esistesse. Possibile che i due reperti siano venuti alla luce nello stesso momento per pura coincidenza? «Che cosa c'entra l'Ossario di Giacomo con lo scheletro che mi ha dato Morissonneau?» Jake ebbe un attimo di esitazione. «Non ne sono sicuro. Per il momento. Ma c'è un particolare piuttosto interessante. Oded Golan lavorò come volontario durante gli scavi di Masada.» «Per Yigael Yadin?» domandai. Jake annuì, e ancora una volta si guardò intorno. Avrei voluto insistere sul legame tra lo scheletro e l'ossario, ma Jake mi anticipò. «Andiamo.» «Dove?» domandai. «Alla tomba di famiglia di Gesù.»
20 Prima che potessi obiettare, Jake scese dal furgoncino, spaventando i corvi, che si alzarono in volo gracchiando la loro protesta. Il mio amico quindi allungò la mano dietro il sedile e trasferì una serie di oggetti dal suo zaino a una tasca del mio borsone da hockey, dopodiché si mise il borsone in spalla, scrutò la zona e dopo aver chiuso la portiera si avviò. Io non potei fare altro che seguirlo, con in testa un turbine di domande prive di risposta. La tomba di famiglia di Gesù? Se fosse stata riconosciuta autentica, una simile scoperta avrebbe scatenato il finimondo. La CNN e la BBC si sarebbero buttate a pesce sull'evento mondiale. Che prove aveva Jake? Perché aveva aspettato proprio quel momento per dirmelo? Perché non me ne aveva parlato prima? Qual era la relazione tra quella tomba e le ossa che avevo portato dall'abbazia di Sainte-Marie-des-Neiges? E con l'Ossario di Giacomo? Iniziavo ad avere paura. Mi sentivo intimorita dalla situazione. E completamente stordita. Dopo una discesa di una decina di metri, Jake si fermò. «Siamo ai margini della valle del Kidron» mi spiegò Jake, indicando la gola sotto di noi. «Il Kidron incontra lo Hinnom a sud di qui, e poi piega verso ovest.» Immagino di aver avuto un'aria piuttosto confusa. «La vallata dello Hinnom si estende a sud della Porta di Giaffa, nella zona occidentale della Città Vecchia, e poi a est lungo le pendici meridionali del monte Sion fino a raggiungere il Kidron. È proprio il Kidron a separare il monte degli Ulivi dal monte del Tempio, conosciuto anche come Spianata delle Moschee, nella zona est della città.» Jake indicò un punto. «Laggiù. Cosa sai dello Hinnom?» «Poco o niente.» «Ha una storia piuttosto interessante. In epoca precristiana, la valle dello Hinnom era il luogo dove i bambini venivano sacrificati alle divinità Moloch e Baal. Gli ebrei trasformarono la vallata in una discarica, dove bruciavano tutto ciò che veniva considerato impuro, compresi i cadaveri dei criminali mandati a morte. In seguito, nei testi della letteratura ebraica il
luogo fu chiamato Ge Ben Hinnom, mentre nel Nuovo Testamento diventò, in greco, Geenna. A causa dei grandi roghi che vi venivano accesi, la valle dello Hinnom fornì l'immagine di un feroce inferno dipinto nel Libro di Isaia e nel Nuovo Testamento. Non a caso, Geenna è anche il luogo all'origine della parola inglese hell, inferno.» Jake indicò poi un vecchio albero alle mie spalle. «Pare che Giuda si sia impiccato proprio lì. Secondo la leggenda, il corpo cadde dall'albero e fu smembrato.» «Non crederai davvero che quell'albero sia...» D'un tratto un uccellino saettò tra di noi, con un movimento così rapido che non riuscii a vederne il colore. Jake istintivamente cercò di ripararsi il viso con un braccio, e perse leggermente l'equilibrio producendo una piccola frana di sassi. Io fui attraversata da una scarica di adrenalina. Jake, imperturbabile, recuperò l'equilibrio e proseguì la conversazione con una domanda. «Secondo la Bibbia, Gesù Cristo dove andò dopo la crocifissione?» «In un sepolcro.» «Discese negli inferi, e il terzo giorno risuscitò, giusto?» Annuii. «All'epoca, nella valle dello Hinnom bruciavano costantemente dei roghi, e la gente comune prese a definirla come "laggiù", il luogo dove i cattivi avrebbero conosciuto le fiamme della distruzione. La valle dell'inferno. Il riferimento biblico indica una zona di sepoltura all'interno o nei pressi della valle dello Hinnom.» Jake non mi lasciò spazio per commentare. «Queste vallate erano la zona dove venivano sepolti i ricchi.» «Come Giuseppe d'Arimatea?» «Esatto.» Jake indicò alla nostra sinistra e dietro di noi, poi spostò il braccio ad arco. «Il villaggio alle nostre spalle si chiama Silwan, o città di Davide. Di fronte, invece, vedi Abu Tor.» Jake chiuse il cerchio disegnato dal suo braccio sulle colline alla nostra destra. «Lì, a nord, c'è il monte degli Ulivi.» Gerusalemme sorgeva sulle cime a ovest del monte e le sue cupole spiccavano di fronte ai minareti di Silwan. «Dentro queste colline nel corso dei secoli hanno scavato infinite tombe antiche.» Jake tirò fuori dalla tasca una bandana e si asciugò il sudore dalla testa. «Ti sto portando a visitare una tomba emersa durante i lavori di co-
struzione di una strada palestinese alcuni anni fa.» «È distante?» «Piuttosto distante.» Jake infilò di nuovo la bandana in tasca, si aggrappò a un arbusto e saltò oltre il sentiero. Io lo osservai mentre scendeva il pendio: la sua testa pelata scintillava come un paiolo di rame. Aggrappandomi allo stesso arbusto, mi piegai sulle gambe, allungai un piede oltre il sentiero e quando trovai il terreno, lasciai la presa, iniziando a mia volta la discesa. Scivolai su qualche pietra e più di una volta dovetti afferrarmi a un provvidenziale cespuglio per non cadere. Il sole intanto stava salendo in un cielo blu cobalto. Chiusa nella giacca a vento, iniziai a sudare. Il pensiero andò ripetutamente ai due uomini fuori dall'abbazia di SainteMarie-des-Neiges. I miei occhi continuarono a spostarsi dal terreno sotto i miei piedi al paese che avevo alle spalle. La discesa aveva una pendenza di almeno sessanta gradi nel punto che Jake aveva scelto per scendere a valle. Se qualcuno avesse voluto vederci, quello era sicuramente il punto migliore. Con una delle mie occhiate all'indietro, notai un uomo che camminava sul sentiero in cima alla collina. Sentii un tuffo al cuore. Un sicario? Una persona che si stava godendo una passeggiata? Guardai in basso. Jake continuava a procedere verso il fondovalle. Accelerai il passo. Dopo cinque metri, scivolai e mi ferii a un polpaccio. Non riuscii a trattenere le lacrime. Ma subito ripresi il controllo. Al diavolo. Se qualcuno avesse voluto ucciderci, a quest'ora l'avrebbe già fatto, pensai. Rallentai e adottai un'andatura meno pericolosa. Jake si era fermato. La tomba era poco più avanti, in una radura erbosa punteggiata di pietre e di massi. Quando lo raggiunsi, Jake si era accovacciato per osservare meglio un buco rettangolare grande quanto il mio microonde. Mentre lo guardavo, lui prese una torcia per illuminare l'apertura. Oh, mio Dio. Chiusi gli occhi, e cercai di calmarmi. Di lasciar scorrere le sensazioni. Il vento sulla faccia.
L'erba scaldata dal sole. L'odore dei rifiuti. Il fumo di carbone. Cercai di sentire i sapori. Polvere sulla lingua e sui denti. Di ascoltare i suoni. Il ronzio di un insetto. Marce scalate su qualche strada lontana. Inspirai a fondo. Una. Due. Tre volte. Aprii gli occhi. Una macchia di fiori rossi accanto ai miei piedi. Un altro respiro. Contai i fiori. Sei. Sette. Dieci. Quando alzai lo sguardo, notai che Jake mi guardava stranito. «Soffro leggermente di claustrofobia.» Dire che stavo minimizzando il problema era l'eufemismo del secolo. «Ma non siamo obbligati a entrare» cercò di tranquillizzarmi Jake. «Ormai siamo qui.» Jake mi guardò con aria scettica. «Sto bene» dissi. Un altro eufemismo. «L'aria circola bene, là sotto.» «E allora, che cosa possiamo chiedere di più?» «Scendo per primo» propose Jake. Si lasciò scivolare leggermente lungo la fine del pendio ed entrò nella stretta fessura con i piedi avanti. «Passami le ossa.» La sua voce mi arrivò cavernosa e attutita. Mentre passavo a Jake il borsone, sentii il cuore battere forte. Cercai di calmarmi ricorrendo ancora una volta alla respirazione. «Adesso scendi anche tu.» Ennesimo lungo respiro. Mi voltai e infilai i piedi nel buio. Jake mi afferrò le caviglie. Io mi calai all'indietro finché non sentii le mani di Jake stringermi la vita. A quel punto mi lasciai andare. Penombra. Oscurità. Un rettangolo distorto di luce filtrava dall'esterno. «Tutto okay?» domandò Jake. «Sì.» Jake accese la torcia. La spazio all'interno era di circa tre metri quadrati, e il soffitto era così basso che dovevamo stare accucciati. Per terra, cartacce, lattine e vetri rotti. Graffiti sulle pareti. Nell'aria, un odore misto di fango e ammoniaca.
«Pessime notizie, Jake. Qualcuno è arrivato prima di noi.» Indicai un preservativo usato. «Sì, lo so. Queste tombe sono molto popolari tra ragazzi e vagabondi.» Jake spostò qui e là il fascio di luce della torcia. Era giallo e incerto, e non illuminava niente di rassicurante. Via via che i miei occhi si abituavano alla penombra, riuscivo a mettere a fuoco qualche particolare in più. L'entrata delle tombe era rivolta verso est, di fronte alla Città Vecchia. Nelle tre pareti rimanenti si aprivano una serie di nicchie oblunghe, ciascuna larga all'incirca mezzo metro. L'apertura di alcune di queste nicchie era occlusa da pietre, ma la maggior parte era libera. Nella debole luce ambrata della torcia vidi che all'interno le nicchie non erano vuote. «Quelli sono dei loculi» spiegò Jake. «Kokim in ebraico. Nel corso del I secolo, i cadaveri venivano avvolti in un sudario e lasciati nei loculi fino alla decomposizione. Poi le ossa venivano recuperate e chiuse in modo permanente negli ossari.» Sentii un leggero prurito a una mano. Abbassai lo sguardo. Jake se ne accorse e puntò la torcia verso di me. Un ragno con il corpo piccolo e tondo e le zampe lunghissime si stava arrampicando sulla mia manica. Lo presi delicatamente per una zampa e lo posai per terra. Ho paura dei luoghi angusti, ma con i ragni non ho problemi. «Questo sepolcro ha due livelli.» Jake si spostò verso un angolo della tomba. Lo seguii. Jake puntò la torcia su quello che mi sembrava un loculo. Ma il fascio di luce fu risucchiato dall'oscurità. «Se prometto di starti vicino, pensi di riuscire a entrare qui dentro?» «Vai» risposi, senza dar tempo alla mia amigdala di reagire. Jake si allungò sulla pancia, inserì le gambe nell'apertura e si lasciò scivolare verso il basso. Chiusi gli occhi e lo imitai. Sentii un paio di mani. Sentii i miei piedi toccare il terreno. Riaprii gli occhi. Non c'era un pixel di luce. Jake era così vicino che le nostre spalle si toccavano. Di colpo il mio unico interesse fu la torcia. «Niente luce?» Subito una lama giallastra lacerò il buio.
«Le pile sono nuove, vero?» domandai. «Relativamente nuove.» Là sotto l'odore di ammoniaca era molto più forte. Non era difficile individuarne l'origine. Orina. Dovevo evitare di mettere le mani per terra. Jake puntò la torcia sulla parete che avevamo di fronte, e poi su quella alla nostra sinistra. La camera inferiore, quella in cui eravamo appena entrati, era più piccola della precedente, ma appariva del tutto simile. Il che significava due loculi nella parete nord. Due in quella sud. E tre in quella ovest. «Hai detto che esistono migliaia di tombe come questa?» La mia voce risuonò smorzata in quello spazio sotterraneo. «La maggior parte è stata depredata molto tempo fa. Questa l'ho trovata per caso nell'autunno del 2000, mentre facevo un sopralluogo con degli studenti. Sono stati proprio loro a notare l'apertura e una serie di manufatti sparsi tutti intorno. Era chiaro che i saccheggiatori erano passati da poco, così chiamammo l'Autorità archeologica israeliana.» «Avete proceduto con uno scavo completo?» «Non direi. L'archeologo dell'Autorità non rimase granché impressionato dal sito, e dichiarò che non era rimasto niente che valesse la pena proteggere, lasciando la tomba a noi e alle nostre attrezzature. Abbiamo salvato ciò che abbiamo potuto.» «Come mai tanto disinteresse?» «Secondo quella persona, il sito non era niente di speciale. Non so se il tipo avesse un appuntamento galante quella sera, o qualcosa di simile, fatto sta che di certo aveva molta fretta di andarsene.» «Tu non sei d'accordo con la sua valutazione?» «Quattro mesi dopo la scoperta di questa tomba, Oded Golan, il collezionista di reperti antichi di cui ti ho parlato, annunciò l'esistenza dell'Ossario di Giacomo.» «Credi che l'ossario venga da lì?» «Potrebbe essere. Si dice in giro che l'ossario provenga da una zona vicino a Silwan. Qualche mese dopo il saccheggio di questa tomba, l'ossario fu presentato al mondo.» «Se l'Ossario di Giacomo proviene da qui, ciò significa che questo è il luogo in cui fu sepolto Gesù Cristo.» «Proprio così.» «E quindi questa sarebbe la tomba di famiglia di Gesù.» «Incredibile, vero?»
Non sapevo cosa dire. Così non dissi nulla. «Abbiamo trovato dodici cassette in pietra, tutte frantumate, e i resti sparpagliati in giro.» «Resti?» «Ossa.» Jake si abbassò e appoggiò un ginocchio a terra. Il suo movimento produsse una girandola di luci sulle pareti. «Ma non è ancora tutto. L'Ossario di Giacomo di Golan presenta dettagli molto elaborati, e il motivo decorativo è molto simile a quello delle cassette trovate qui. Inoltre...» Jake alzò la testa di scatto. «Cosa c'è?» Sentii le dita di Jake stringere il mio braccio. «Cosa c'è?» sibilai. Jake spense la torcia e mi toccò le labbra con un dito. Mi sentii gelare il sangue nelle vene. Ripensai all'uomo che avevo visto sul sentiero in cima alla collina. Ci aveva seguiti? In fondo sarebbe stato facilissimo bloccare l'entrata della tomba. E chiuderla per sempre... Accanto a me, Jake era perfettamente immobile. Mi sforzai di imitarlo. Con il cuore che mi martellava nel petto, cercai di cogliere il minimo suono. Niente. «Falso allarme» sussurrò Jake dopo un milione di anni. «Però abbiamo lasciato il borsone con le ossa nella camera superiore. Devo andare a prenderlo.» «Ma non potremmo semplicemente andare all'Autorità archeologica israeliana?» «Quando ti avrò detto cos'altro abbiamo trovato qua sotto, vorrai fare il giro completo. È davvero una cosa sensazionale.» Jake mi passò la torcia. «Un secondo e sono qui.» «Dai un'occhiata in giro, mentre sei là» sussurrai. «E accertati che non ci siano guardie svizzere accovacciate davanti all'entrata.» La battuta suonò inconsistente perfino a me. «Agli ordini.» Osservai Jake risalire il tunnel a forza di muscoli, sperando di avere la stessa forza nelle braccia per poter fare altrettanto. Quando i suoi piedi
scomparvero, strisciai fino alla parete che avevo di fronte e puntai la luce all'interno del primo loculo. Vuoto, ma lo strato accumulato sul fondo appariva smosso e segnato. Gli studenti di Jake? Gli sciacalli che erano penetrati nella tomba? Avanzai di qualche passo, poi svoltai oltre un angolo. All'interno di ogni loculo la situazione era la stessa. Tornai, sempre strisciando, fino al punto in cui iniziava il tunnel dell'entrata. Dall'alto non arrivava il minimo rumore. L'aria dentro la tomba era umida e fredda. Sotto il giubbotto, la camicia intrisa di sudore aderiva perfettamente alla schiena. Iniziai a tremare. Dove diavolo era finito Jake? «Jake» chiamai. Nessuna risposta. «Probabilmente sta controllando i paraggi» mormorai per rompere il silenzio. Stavo avanzando lungo la parete di fondo, quando il fascio di luce si indebolì, si intensificò, si indebolì ancora e poi si spense. Buio pesto. Agitai la torcia. Niente. La agitai ancora. Niente. Sentii un rumore alle mie spalle. L'avevo immaginato? Trattenni il respiro. Uno. Due. Tr... Lo sentii di nuovo. Sembrava una cosa morbida che raschiava la pietra. Dio santo! Là dentro c'era qualcuno! Mi paralizzai. Un attimo dopo avvertii, più che sentire, un altro impercettibile movimento. Avevo la pelle d'oca. Ero immobile come una statua di sale. Passò un secondo. Che mi sembrò un anno. Un altro suono. Diverso. Più inquietante. D'un tratto mi ritrovai in preda al panico. 21 Miagolio? Ringhio? Sibilo? Prima che potessi individuarlo, il suono si interruppe. Il mio cervello cercò un'immagine familiare che spiegasse che cosa ave-
vo sentito. Non la trovò. Spinsi l'interruttore della torcia. Niente. Spinsi nella direzione opposta. Niente. Spalancai gli occhi e scrutai l'ambiente che mi circondava. Oscurità. La claustrofobia iniziava a prendere il sopravvento: mi sentivo intrappolata sottoterra, circondata da pietre. Era buio. Era tutto umido. E non ero sola! Qua dentro c'è qualcosa!, mi urlava una voce nelle orecchie. Mi sentivo opprimere il petto. Respirai a fondo con il naso. Adesso il tanfo di orina sembrava più intenso. Ed era mischiato ad altro. Feci? Carne putrefatta? Cercai di respirare con la bocca. La mente turbinava in mille direzioni. Voltati! Grida! Scappa verso il tunnel! Ero pietrificata. Avevo paura di muovermi. E paura di non farlo. Poi lo sentii ancora. Una via di mezzo tra un ringhio e un gemito. Strinsi forte la torcia tra le dita. Almeno poteva servirmi per colpire. Qualcosa grattò la pietra. Artigli? Un brivido gelido mi attraversò la schiena. Agitai la torcia. Le pile si mossero ma non offrirono il loro sostegno. L'agitai più forte. Un debole cono di luce gialla lacerò il buio. Sempre accovacciata, mi girai lentamente e illuminai l'angolo alle mie spalle. E colsi un movimento nell'ultimo loculo! Esci di qui!, gridò la voce nella mia testa. Stavo arretrando verso il tunnel, quando il ringhio riprese. Il messaggio mi arrivò sommesso e selvaggio; diceva: non muoverti! Di nuovo mi bloccai. Con mano tremante puntai nuovamente la torcia sull'ultimo loculo. Dal buio di quel recesso brillarono due occhi dalle pupille tonde e rosse come lampioni al neon. Sotto, il profilo di un muso appuntito segnato dalle ferite. Cane selvatico? Volpe? Iena? Sciacallo! L'animale mi fissava con la testa bassa. Notai le scapole ossute sporgere
dietro le orecchie. Il pelo era rado e arruffato. Mossi qualche passo indietro, con grande cautela. Le zampe anteriori dello sciacallo si tesero, e la testa scattò in avanti. Digrignò i denti, che erano giallastri e scintillanti. Sentii tutti i miei muscoli irrigidirsi. Lo sciacallo oscillò il muso a destra e a sinistra, annusando l'aria. Il movimento produsse una scia di ombre sulla sua scarna gabbia toracica. Nonostante la magrezza, la pancia era piuttosto gonfia. Santo cielo! Ero intrappolata sottoterra con uno sciacallo affamato! Probabilmente una femmina incinta! Dov'era Jake? Che cosa dovevo fare? Il mio cervello produsse una serie di informazioni raccolte in qualche dimenticato documentario sulla natura. Gli sciacalli sono animali notturni nelle zone popolate dagli esseri umani. Probabilmente questo sciacallo stava dormendo. E io e Jake l'avevamo svegliato e spaventato. Male. Molto male. Gli sciacalli sono animali territoriali e segnano il territorio con il loro odore. L'odore di orina. Lo sciacallo considerava la tomba come proprio territorio, e me come un invasore. Male. Molto male. Gli sciacalli vivono e cacciano in coppie monogame. Quindi il mio sciacallo aveva un compagno. Gesù santo! Il maschio poteva tornare in qualsiasi momento. Anzi, poteva essere nel loculo insieme alla sua compagna! Non potevo aspettare che tornasse Jake. Dovevo fare qualcosa. Subito! Mi infilai la torcia nella cintura, mi voltai e strisciai verso l'imboccatura del tunnel. Dietro di me, sentii di nuovo il caratteristico grido dell'animale, e poi qualcosa raschiare le pietre. Ebbi la sensazione che l'aria si muovesse. Mi fermai e impugnai di nuovo la torcia. Se non altro, avrei potuto colpire lo sciacallo sul muso, impedendogli di mordermi. Oppure potevo colpirlo in testa. Ma lo sciacallo non attaccò. Esci di qui prima di ritrovarti sola contro due sciacalli! Infilai di nuovo la torcia nella cintura, mi alzai in piedi, sollevai le braccia e afferrai le pietre che sporgevano dalla parete opposta del tunnel.
Spingendo con le gambe e tirando con le braccia, riuscii con grande sforzo a sollevarmi. Dopo aver sistemato meglio i piedi, cercai un altro appiglio e di nuovo tentai di salire verso l'alto. L'appiglio del piede destro tenne. L'altro no. Persi l'equilibrio e caddi a terra pesantemente. Una terribile fitta di dolore mi trapassò la spalla arrivando fino alla guancia. La tomba ripiombò nell'oscurità. Il mio cuore sembrava impazzito. Rimasi immobile, cercando di ascoltare ogni più piccolo rumore. Il sangue mi pulsava nelle orecchie. Le pietre ancora franavano dal tunnel. Il tic tic tic della torcia che rotolava. Il ting del metallo che urta la pietra. In sottofondo, un ringhio minaccioso e basso. Dopo qualche secondo, le pietre smisero di cadere e la torcia smise di rotolare. Rimasero solo il battito del mio cuore e il verso dello sciacallo. Il ringhio non proveniva più dallo stesso loculo. O forse sì? Nella tomba i suoni rimbalzavano da una parete all'altra, al punto che era difficile capire esattamente da dove provenissero. Mi sforzai, ma non riuscii a capire dove fosse l'animale. Il buio incombeva. Le opzioni a mia disposizione erano finite. E adesso lo sciacallo aveva il vantaggio di potermi vedere, sentire e annusare senza essere visto. Non avevo idea di dove potesse essere. Nonostante fosse molto debole, il cono di luce della mia torcia era stato sufficiente per confondere l'animale e farlo rimanere al suo posto. Forse poteva funzionare ancora. E se i miei movimenti avessero scatenato l'aggressività dello sciacallo? E se le pile si fossero esaurite definitivamente? Decisi di correre il doppio rischio. Allungai il braccio sinistro e tastai il pavimento con la mano. Senza trovare nulla. Il mio giubbotto frusciò, risuonando come un tuono in quello spazio angusto. Lo sciacallo ringhiò più forte, poi il verso si interruppe. Sentii un respiro affannato. Che mi sembrò più terrificante del rumore precedente. Si stava preparando ad attaccare?
Immaginai due occhi rossi osservarmi nel buio. La mia ricerca si fece disperata e la mia mano si mosse convulsamente a destra, a sinistra, in avanti... Finalmente, le dita si chiusero intorno a un cilindro metallico. Raccolsi la torcia e spinsi l'interruttore. Una luce giallognola illuminò il mio corpo. Fui quasi sul punto di piangere per il sollievo. Nel frattempo il ringhio riprese. E si fece più forte. Con il cuore in gola, mi alzai sui gomiti e puntai la torcia contro la parete di destra e quella di fronte. Niente sciacalli. Parete alle mie spalle. Niente. Infine, puntai verso la parete di sinistra. Tutti i loculi erano pieni di terra e di pietre, e non presentavano alcuna cavità dove uno sciacallo potesse nascondersi. Stavo osservando il loculo più vicino, quando una scia di terra precipitò lungo la parete. La torcia scelse proprio quel momento per spegnersi. Poi sentii un movimento sopra la testa. Trattenendo a stento le lacrime, agitai la torcia. Che si riaccese. Sollevai il cono di luce. Sulla parete di sinistra i loculi erano disposti gli uni sugli altri. Lo sciacallo era accovacciato in una nicchia della fila più alta. Quando il debole fascio di luce lo colpì, l'animale digrignò i denti e ringhiò. Vidi il suo corpo tendersi, le zampe pronte a scattare. I nostri sguardi si incontrarono. Gli occhi dello sciacallo erano tondi e brillanti. D'un tratto capii. Anche lo sciacallo si sentiva intrappolato. E come molti animali costretti in una situazione sconosciuta, voleva uscire. Solo che io stavo bloccando l'unica uscita. Che era il tunnel. Ci fissammo. Io lo guardai per una frazione di secondo in più. Ringhiando, l'animale si avventò sopra di me. Reagii senza avere il tempo di pensare. Mi lasciai cadere a terra, coprendomi la testa con le mani e raccogliendomi in posizione fetale. Il peso dello sciacallo mi colpì il fianco e la coscia sinistra. Sentii un ennesimo ringhio, poi il peso si spostò. Sollevai un gomito e cercai di trascinarmi lontano dall'imboccatura del
tunnel. Quattro zampe mi premettero il petto e si mossero verso la mia gola. Piegai il mento e incrociai le braccia, temendo che in un attimo una fila di denti sarebbe affondata nella mia carne. Invece la pressione che sentivo sul petto si alleggerì, sentii il pelo dell'animale strisciarmi sulla testa e poi più niente. Lo sciacallo era diretto altrove. Sentii di nuovo ansimare, e un rumore di artigli che raschiavano la pietra. Voltai la torcia verso il tunnel. Lo sciacallo voleva uscire. Mi alzai a sedere, dando all'animale il tempo di allontanarsi. E dando a me stessa il tempo di riprendermi. Incredibilmente, la torcia continuava a funzionare, sia pur sempre più debolmente. Valutai la situazione. Avevo dato allo sciacallo tutto il tempo per uscire. Adesso era il mio turno. Strisciai verso il tunnel. La frana che avevo provocato era di proporzioni limitate. Niente che non potessi risolvere. Per un paio di minuti sollevai e spostai pietre. Poi, quando lo spazio fu sufficiente, posizionai i piedi come nel precedente tentativo e mi piegai per potermi sollevare verso l'alto. In quel momento capii di aver preso un brutto colpo al fianco sinistro. Fantastico. Ci mancava solo un'altra caduta, e poi sarei rimasta là sotto per molto, molto tempo. Tornai a terra, mi piegai in avanti e mi controllai le gambe. Mentre spostavo il peso da un piede all'altro, il fascio di luce illuminò una cavità da cui erano state asportate delle pietre. Lasciai che la torcia esaminasse la nicchia. Era profonda. Troppo profonda. Mi alzai e mi infilai nel tunnel per guardare meglio. In realtà la nicchia non era una semplice nicchia. Ma una fenditura. Posizionai meglio la torcia e dopo aver avvicinato la faccia sbirciai nel vuoto oltre la fenditura. Ci volle qualche secondo prima che gli occhi riuscissero a vedere. E altri secondi affinché la mia mente capisse. Oh mio Dio! Dovevo mostrare a Jake quello che stavo vedendo. Dimenticai le ammaccature e mi issai verso l'alto. Quando fui sotto l'imboccatura del tunnel, mi fermai e sbirciai fuori, come un cane delle praterie. La camera superiore sembrava vuota. Niente Jake. Niente sciacallo. «Jake!» sibilai. Nessuna risposta.
«Jake!» ripetei più forte che potei, senza l'ausilio delle corde vocali. Silenzio. Raccolsi i piedi, alzai le braccia e mi spinsi nella camera superiore. Jake non si fece vedere. Ignorando il dolore alla spalla e al fianco, mi accovacciai e mi guardai intorno con l'aiuto della torcia. Ero sola. Mi misi in ascolto. Da fuori non arrivava alcun suono. Ruotai lentamente la torcia puntando la luce nel buio vellutato che mi circondava. Una macchia azzurra spiccò nel buio di un loculo. Che cosa diavolo era? Poi capii. Spostai la luce. Avevo ragione. Era il borsone da hockey. Ma perché era lì? E Jake dov'era? «Jake!» gridai a pieni polmoni. Strisciando, mi avvicinai al loculo. Jake aveva nascosto il borsone per qualche ragione. Mi voltai e raggiunsi l'entrata della tomba. A quel punto sentii i primi suoni. E mi fermai, tendendo le orecchie. Una voce soffocata. Un'altra. Delle grida. Era la voce di Jake. Parole che non riuscivo a capire. Ebraico? Altre parole incomprensibili. Toni rabbiosi. Un colpo. Un altro. Persone che correvano. Il buio si fece ancora più fitto. Mi voltai verso l'entrata. Due gambe ostruivano il piccolo quadrato di luce. 22 Dopo una frazione di secondo, nella tomba sprofondarono un paio di stivali. Seguiti da un corpo. Un grosso corpo. D'istinto mi buttai all'indietro e mi appiattii contro la parete. Sotto le ginocchia sentii il metallo delle lattine accartocciate, e sotto le mani i bordi affilati delle linguette che chiudono le lattine. La mente tornò in un lampo all'uomo che avevo visto sul sentiero in ci-
ma alla collina. Il cuore mi batteva forte. Santo cielo! Sarei mai sopravvissuta a quella giornata? Serrai la presa sulla torcia e alzai il braccio, pronta a colpire. Dopo la caduta, il corpo era rimasto accovacciato, con la schiena rivolta verso di me. Lo illuminai con la torcia. Quando vidi le gambe, ripresi a respirare. Fuori, intanto, qualcuno continuava a gridare. «Che diavolo sta succedendo?» «Hevrat Kadisha.» Jake mi parlò voltando solo la testa, e senza distogliere lo sguardo dall'entrata della tomba. «Non parlo ebraico.» «Sono i maledettissimi poliziotti delle ossa.» Jake ansimava per la fatica. Attesi una spiegazione. «Dati'im.» «Adesso è tutto più chiaro.» «Gli ultra-ortodossi.» «Sono qui?» Ripensai all'uomo che ci seguiva sul sentiero in cima alla collina. «In forze.» «Perché?» «Perché secondo loro abbiamo delle ossa umane.» «Infatti è così. E allora?» «Se le vogliono prendere.» «Che cosa facciamo?» «Aspettiamo che se ne vadano.» «E se ne andranno?» «Prima o poi, sì.» Non era molto rassicurante. «Mi sembra una cosa assurda» dissi, dopo aver ascoltato per qualche secondo le grida che provenivano da fuori. «Ogni volta che viene aperto un cantiere di scavi, spuntano questi cretini.» «E perché?» «Per rompere le scatole. Spesso dobbiamo chiamare la polizia per farci proteggere e poter continuare il nostro lavoro.» «Ma l'accesso ai siti archeologici non dovrebbe essere consentito solo previa autorizzazione?» «Questi imbecilli se ne fregano. Sono contrari al dissotterramento dei
morti per qualsiasi ragione, e fanno tutto questo casino per interrompere gli scavi.» «Le loro idee sono condivise da molte persone?» Nella mente, vidi l'uomo che ci seguiva carico di poster elettorali e di cartelli. «Dio santo, no.» Fuori le grida finalmente si placarono. Per qualche ragione, trovai il silenzio più inquietante delle urla. Raccontai a Jake dello sciacallo. «Sei sicura che fosse uno sciacallo?» «Sicura» confermai. «Non l'ho visto uscire dalla tomba.» «Era molto veloce» dissi. «Anche perché ero decisamente concentrato sugli imbecilli là fuori. Tu stai bene?» «Bene, grazie.» «Scusami, Tempe» disse Jake. «Avrei dovuto controllare prima di farti scendere.» Concordai con tutto il cuore. Fuori dalla tomba, il silenzio perdurava. Puntai la torcia sull'orologio. Segnava le 9.17. «Che cosa dice la legge israeliana riguardo ai resti umani?» domandai, senza smettere di sussurrare. «Le ossa possono essere dissotterrate se stanno per essere distrutte a causa di edificazioni o furti. Una volta studiate, devono essere consegnate al ministero per gli Affari religiosi, che provvederà a una nuova sepoltura.» Mentre parlavamo, Jake continuava a tenere d'occhio la piccola apertura in cui si era appena lasciato cadere. «Sembra ragionevole. Nel Nord America esistono leggi simili per proteggere i luoghi di sepoltura dei nativi americani.» «Questi fanatici non sono per niente ragionevoli. Credono nella halakhah, la legge ebraica, che proibisce qualsiasi intervento sui morti di origine ebraica. Punto e basta.» «E se un sito archeologico viene minacciato dai bulldozer?» «Se ne fregano.» Jake indicò l'apertura con la mano. «Quella gente dice: costruite pure il ponte, scavate la galleria, ripavimentate la strada, fate quello che volete e chiudete queste maledette tombe nel cemento.» «Sono sempre là fuori?»
«È probabile.» «Chi decide se i resti umani sono di origine ebraica?» Avevo ancora lo stomaco annodato a causa dell'incontro con lo sciacallo. Parlavo solo per cercare di calmarmi. «Gli stessi paladini dell'ortodossia. Ovvio, no?» «E se le origini non sono chiare?» Stavo pensando alle ossa nel borsone alle mie spalle. Jake fece una smorfia di disapprovazione. «Il ministero per gli Affari religiosi offre un migliaio di shekel per ogni risepoltura. Secondo te quanti scheletri vengono dichiarati non-ebrei?» «Ma...» «Gli uomini della Hevrat Kadisha recitano qualche preghiera sulle ossa e voilà, il gioco è fatto, cioè i morti vengono convertiti d'ufficio al giudaismo.» Non afferrai il senso, ma lasciai perdere. Un silenzio sinistro filtrava dall'esterno. Controllai di nuovo l'orologio. Le 9.22. «Quanto dobbiamo aspettare?» domandai. «Finché la situazione non sarà tranquilla» disse Jake. Scese il silenzio anche nella tomba. Di tanto in tanto ci spostavamo, per cercare di trovare una posizione più comoda. Avevo male al fianco. Alla spalla. Avevo freddo e pativo l'umidità. Ero seduta in mezzo ai rifiuti in una buca sottoterra in attesa che due tizi che avrebbero fatto impallidire persino l'Inquisizione si allontanassero. E non erano ancora le dieci del mattino Più tardi, illuminai di nuovo il quadrante del mio orologio. Erano passati venti minuti. Stavo per suggerire a Jake di controllare se fuori era tutto tranquillo, quando un uomo gridò. «Asur!» Un altro ripeté lo stesso grido. «Asur!» Di nuovo, sentii un nodo serrarmi lo stomaco. Adesso gli uomini erano vicini, probabilmente sul fianco della collina che sorgeva appena fuori dalla tomba. Guardai Jake. «Proibito» tradusse per me. «Chilul!» «Profanazione.» Qualcosa rimbalzò sul terreno che circondava l'entrata della tomba.
«Che cosa diavolo era?» «Probabilmente una pietra.» «Ci stanno tirando le pietre?» dissi in un sussurro. Sentii un altro sasso rimbalzare sulla pietra superiore della tomba. «B'nei Bliya'al!» «Dicono che siamo figli del demonio» spiegò Jake. «Quanta gente c'è là fuori?» domandai. «Qualche macchina.» Una pietra grande quanto un pugno colpì il bordo dell'entrata. «Asur! Asur la'asot et zeh!» Adesso era diventata una specie di cantilena. «Asur! Asur!» Rivolto verso di me, Jake sollevò le sopracciglia. Nel buio, mi fecero pensare a una siepe nera come la pece che lievitava verso il cielo. «Do un'occhiata.» «Stai attento, Jake» dissi, non potendo contribuire in altra maniera. Jake sollevò un ginocchio, ci appoggiò sopra la mano e sbirciò fuori. La cantilena si frammentò in grida individuali. «Shalom alechem.» Jake aveva augurato la pace a quegli uomini. Per tutta risposta, fu travolto da un coro di urla. «Lo!» Il pochissimo ebraico che sapevo bastò a farmi capire che quella parola era un no. Altre grida. «Reik.» Sentii un rumore terribile, e capii che era quello di una pietra che colpisce un osso. Jake inarcò la schiena, una gamba schizzò all'indietro e ricadde a terra. «Jake!» Mi avvicinai a lui muovendomi carponi. La testa di Jake era ancora all'esterno, mentre le spalle e il corpo erano dentro la tomba. «Jake!» Nessuna risposta. Posai le dita tremanti sulla gola di Jake. Sentii un battito, debole ma regolare. Mi alzai in ginocchio e cercai di infilarmi nell'apertura per vedere meglio la testa di Jake. Era abbassata, ma riuscivo a vedere la parte laterale e posteriore del cranio. Uno schizzo di sangue gli macchiava l'orecchio, e una serie di mac-
chioline rosse luccicavano sull'erba inondata di sole. Erano già arrivate le mosche per un primo rapido sopralluogo. Sentii il gelo del terrore scorrermi nelle vene. Prima uno sciacallo e adesso questo. Che cosa dovevo fare? Muovere Jake con il rischio di peggiorare la ferita? Lasciarlo lì e andare a chiedere aiuto? Impossibile senza rischiare di farmi rompere la testa a mia volta. Fuori, la cantilena riprese. E se avessi dato a quei bastardi quello che volevano? Avrebbero risepolto lo scheletro. E la verità su quelle ossa sarebbe andata perduta per sempre. Un'altra pietra saettò all'esterno della tomba. Poi ancora un'altra. Pezzi di merda! Nessun antico mistero valeva la perdita di una vita umana. Jake aveva bisogno di cure mediche. Posai la torcia sul fondo della tomba, strisciai all'indietro e dopo aver afferrato gli stivali di Jake, iniziai a tirare. Non si muoveva. Tirai ancora. Più forte. Un centimetro alla volta, portai Jake al riparo, all'interno della tomba. Poi strisciai intorno al suo corpo e gli voltai la testa di lato. Se gli fosse venuta la nausea, era meglio evitare che si soffocasse con il suo stesso vomito. Poi mi venne in mente una cosa. Il cellulare di Jake! Ce l'aveva addosso? Chissà se riuscivo a prenderlo. Mi avvicinai al taschino della camicia e controllai. Niente. Passai alle tasche dei jeans, e poi alle mille tasche del suo giubbotto mimetico. Niente cellulare. Accidenti! Forse era nel borsone da hockey. Mi spostai fino al loculo dove Jake l'aveva nascosto. Mentre strisciavo verso il borsone, mi guardai le mani. Erano bianche, rigide. Non sembravano neppure le mie. Le osservai armeggiare con le cerniere, sparire in una tasca dopo l'altra. Il mio cervello riconobbe la forma di un oggetto familiare. Presi rapidamente il telefono e lo aprii. Il piccolo schermo mi salutò con un benvenuto blu neon. Che numero dovevo digitare? Il 911 come in Canada? Non avevo idea di quale fosse il numero delle emergenze in Israele.
Aprii la rubrica di Jake e selezionai un numero locale. Sullo schermo lampeggiò la scritta CHIAMA. Sentii una serie di bip brevi, poi un bip lungo, poi lo schermo mi salutò di nuovo con il suo benvenuto blu neon. Riprovai. Stesso risultato. Accidenti! Avevo troppe pietre intorno per ricevere il segnale. Stavo per riprovare quando Jake emise un gemito. Infilai in tasca il suo cellulare e mi avvicinai a lui. Quando arrivai, Jake si era voltato sulla pancia e aveva ritirato le mani sotto il petto. «Fai piano, Jake» dissi, prendendo la torcia. Con grande cautela, Jake riuscì a mettersi a sedere. Un filo di sangue gli colava da una ferita sulla fronte. Si pulì con il dorso della mano, creando una macchia scura sul mento e sulla guancia destra. «Che cosa è successo?» mi domandò, un po' stordito. «Hai fermato una pietra con la testa.» «Dove siamo?» «In una tomba, nella valle del Kidron.» Per un attimo Jake sembrò confuso, poi: «Sì, mi ricordo. Gli uomini della Hevrat Kadisha». «Almeno uno di loro ha un futuro nel campionato di baseball.» «Dobbiamo uscire da questo posto.» «Fosse anche l'ultima cosa che facciamo nella nostra vita.» «Il borsone è ancora nel loculo?» «Sì.» Jake si alzò in ginocchio, oscillò, abbassò la testa e si appoggiò a braccia tese contro il pavimento. Mi avvicinai per aiutarlo. «Sei sicuro di riuscire a risalire la collina?» gli domandai. «Sì. È stato solo un breve giramento di testa.» Impegnando tutti i suoi muscoli allo spasimo, Jake riuscì a mettersi carponi. «Fammi luce, Tempe.» Mentre io illuminavo il pavimento della tomba, Jake si spostò non verso l'entrata ma verso la parete di fondo e fece rotolare una grossa pietra verso il loculo che conteneva lo scheletro di Masada, in modo da chiudere l'apertura. «Adesso possiamo andare» disse, riavvicinandosi a me. «Pensi che verranno qui?»
«Forse. Ma di sicuro non riusciremo ad arrivare al mio furgoncino prima di loro.» «Vedranno il borsone?» «Pensi che sia meglio spostarlo nella camera inferiore?» Per la prima volta da quando ero salita nella camera superiore, ripensai a ciò che avevo scoperto di sotto. Non volevo che la Hevrat Kadisha scendesse e lo vedesse. Perdere lo scheletro di Masada sarebbe stato un danno molto grave. Ma perdere ciò che avevo visto oltre quella fenditura nella pietra sarebbe stata una vera calamità. «Lasciamo il borsone nel loculo e speriamo che non lo trovino» dissi. «Se davvero torneranno qui, non voglio per nessun motivo che si mettano a curiosare in giro. Quando siamo nel furgoncino, ti spiego tutto. Allora, come facciamo a uscire di qui?» «Usciamo.» «Sei sicuro?» «Quando vedranno che sono ferito, probabilmente si ritireranno.» «Sì, ma si accorgeranno anche che siamo a mani vuote.» «Già, vedranno anche questo.» «Pensi che abbiano visto il borsone?» «Non ne ho idea. Sei pronta?» Annuii e spensi la torcia. Jake infilò la testa nell'apertura e gridò. Sorpresi? Stanchi? Non so. In ogni caso tra i fanatici della Hevrat Kadisha era sceso il silenzio. Jake allungò le braccia, piegò le gambe e torcendo il busto uscì infine dalla tomba. Una volta che gli stivali di Jake furono scomparsi dall'apertura, lo seguii. Mentre attraversavo il passaggio sentii una mano issarmi dalla cintura. Poi mi ritrovai fuori. Il sole era così forte che accecava. Dovetti chiudere gli occhi per proteggermi. E quando li riaprii, mi trovai di fronte a una delle scene più strane a cui avessi mai assistito. 23 I nostri assalitori indossavano cappelli a tesa larga e abiti neri con giacche lunghe. Erano tutti barbuti con due riccioli di capelli ai lati del viso, e sembravano l'uno più violento e infuriato dell'altro.
È vero. L'idea che mi ero fatta era precisa. Quanto al numero, ero completamente fuori strada. Mentre Jake augurava loro di nuovo la pace e cercava il dialogo, feci un rapido conteggio. Quarantadue, compresi un paio di ragazzini sotto i dodici anni e un'altra mezza dozzina di ragazzi apparentemente adolescenti. A quanto sembrava l'ultra-ortodossia era un'industria in espansione. In un lampo, gli ebrei mi furono intorno. Grazie al nuovo vocabolario appena acquisito, capii che Jake e io venivamo accusati di aver preso o fatto qualcosa di vietato e che qualcuno ci riteneva figli di Satana. Supposi che Jake rifiutasse entrambe le accuse. Uomini e ragazzi, impolverati fin sugli occhiali, urlavano. Alcuni chinavano il capo facendo rimbalzare i riccioli come pupazzi a molla tenuti al guinzaglio. Dopo diversi minuti di discussione animata, Jake si rivolse a un uomo dai capelli grigi che sembrava il capo, probabilmente un rabbino. Mentre i due parlavano, gli altri restavano in silenzio. Il rabbino, rosso in volto, urlava agitando il dito puntato contro il sole. Colsi la parola ashem. Vergogna. Jake ascoltava e replicava tranquillo con la voce della ragione. Alla fine i soldati dell'ortodossia si fecero sempre più irrequieti. Alcuni ripresero a urlare. Altri agitavano i pugni. Alcuni dei più giovani, probabilmente studenti delle yeshiva, raccolsero delle pietre. Il mio sguardo indugiò su questi ultimi. Dopo una decina di minuti senza risultati, Jake alzò le mani in segno di resa. Rivolgendosi a me disse: «È inutile. Ce ne andiamo». Lo raggiunsi e insieme prendemmo a sinistra. Il rabbino gridò un comando. Il battaglione si divise. Il fianco destro rimase vicino alla tomba, quello sinistro venne verso di noi. A grandi passi, Jake cominciò ad arrampicarsi per uscire dalla valle del Kidron. Lo seguii, facendo due passi per ciascuno dei suoi. Metro dopo metro mi inerpicai, ansimante, sudata, trascinandomi attraverso rocce, rampicanti e boscaglia. Il fianco mi faceva male da morire. Le gambe diventavano pesanti. Di tanto in tanto guardavo verso il basso. Una dozzina di cappelli neri seguiva le mie tracce. Collo e schiena mi si irrigidivano sempre di più, anticipando l'impatto dei sassi sulla testa. Per fortuna i nostri inseguitori passavano le giornate nei templi e nelle yeshiva anziché in palestra. Jake e io lasciammo la valle con notevole van-
taggio su di loro. Una mezza dozzina di veicoli era adesso parcheggiata nella radura dietro Silwan. Il camioncino di Jake era dove l'avevamo lasciato, ma non il finestrino del lato del guidatore. A terra, minuscole schegge di vetro riflettevano i raggi del sole. Entrambe le portiere erano aperte, mentre carte, libri e abiti erano sparsi dappertutto. «Merda!» Jake percorse in volata gli ultimi metri, agguantò tutte le sue cose e le gettò nel retro del camion. Lo raggiunsi. Nel giro di pochi secondi raccogliemmo tutto, ci infilammo nel mezzo e chiudemmo le sicure. I primi cappelli neri raggiunsero la cima proprio mentre Jake girava la chiave, afferrava la leva del cambio e dava gas. Le ruote sgommarono e fummo sbalzati in avanti, due pennacchi di polvere si alzarono nella nostra scia. Guardai indietro. Gli uomini si asciugavano la fronte, si sistemavano i copricapo, agitavano i pugni. Sembravano un gruppo di nere marionette traballanti, momentaneamente in trappola, ma salde nella loro convinzione che era Dio a tirare i fili. Jake curvò a sinistra, poi a destra e uscì dal villaggio. Io tenevo gli occhi fissi al lunotto posteriore. Arrivati sulla strada asfaltata, Jake rallentò e mi mise una mano sul braccio per calmarmi. «Pensi che ci seguiranno?» chiesi. Le dita di Jake si chiusero in una morsa. Mi voltai a guardarlo. E fui di nuovo assalita dalla paura. La mano sinistra di Jake teneva stretto il volante. Troppo stretto. Le sue nocche sporgevano bianche come ossa. Il volto era pallido e il respiro fuoriusciva in brevi, deboli rantoli. «Stai bene?» Il furgoncino perdeva velocità, come se Jake non fosse in grado di pensare ad accelerare e guidare contemporaneamente. Si girò verso di me. Una pupilla era un puntino, mentre l'altra un vacuo buco nero. Afferrai il volante nel momento stesso in cui Jake crollò in avanti su di esso, mentre il piede dava tutto gas. Il furgoncino sbandò. La velocità aumentava. Trenta. Trentacinque. Quaranta all'ora.
La mia prima reazione fu di panico. Naturalmente questo non fece rallentare il furgoncino. Il cervello si rimise in moto. Tenendo Jake con un braccio contro lo schienale, afferrai il volante. Il furgoncino continuava a prendere velocità. Mentre guidavo con la sinistra, con la destra tentavo in tutti i modi di sollevare la gamba di Jake. Ma questa era un peso morto. Non riuscivo ad alzarla né a spostarla di lato. Il furgoncino aveva imboccato una discesa e accelerava sempre di più. Quarantacinque. Cinquanta. Cercai di spostare la gamba di Jake, dandogli calci con il tacco. I miei movimenti strattonarono il volante. Il veicolo scartò e una ruota finì sul margine della strada. Sterzai sollevando la ghiaia e il veicolo si riportò in carreggiata. Gli alberi sfrecciavano sempre più veloci. Toccammo i cinquantacinque. Dovevo fare qualcosa. Il monte degli Ulivi sulla sinistra formava una roccia a picco. Circa trenta metri più avanti, vidi una rientranza davanti alla quale si stendeva una radura ricoperta di rovi. Lottai contro l'impulso di sterzare. Non ancora. Un attimo. Dio, ti prego! Ferma il traffico! Adesso! Sterzai a sinistra. Il furgoncino cambiò direzione e procedette sbandando su due ruote. Abbandonando ogni tentativo di guidare, infilai le mani sotto la coscia di Jake e la sollevai. Lo stivale si spostò di qualche millimetro. Il motore cominciò a zoppicare e il veicolo rallentò. Il veicolo distrusse un guardrail di legno, si piantò di traverso e slittò, vomitando terriccio e ghiaia. Eravamo circondati da rovi e fredda roccia cambriana. Tirai Jake verso di me. Poi mi gettai su di lui riparando le nostre teste con le braccia. I rami laceravano le fiancate. Qualcosa colpì il parabrezza. Udii un forte scricchiolio metallico, sentii uno scossone, Jake e io ci aggrappammo al volante. Il motore si spense. Non si sentivano voci. Né il sibilo di un'auto che passava o altri rumori. Solo il silenzio del monte e il mio respiro affannato. Rimasi immobile per parecchi secondi, sentivo l'adrenalina circolare nel
mio corpo. Alla fine un uccello gracchiò. Mi misi seduta e controllai Jake. Sulla fronte aveva un bernoccolo grande quanto un'ostrica. Le palpebre livide e la pelle unticcia. Aveva bisogno di un medico. Immediatamente. Potevo spostarlo? Il furgoncino si sarebbe capovolto? Vincendo la resistenza dei rovi, aprii lo sportello, scivolai a terra e procedetti a stento intorno al camioncino. Tirare fuori Jake? Spostarlo su un lato? Jake è alto quasi due metri e pesa circa ottanta chili. Io sono uno e sessantasette e peso, be', decisamente meno. Aprendomi a fatica un varco tra la vegetazione, raggiunsi lo sportello del guidatore ed entrai. Stavo infilando un braccio sotto la schiena di Jake, quando un veicolo rallentò e lasciò la strada dietro di me. Si fermò facendo scricchiolare la ghiaia. Samaritani? Zeloti? Ritirai il braccio e mi voltai. Una Corolla bianca. Due uomini seduti davanti. Che mi guardarono attraverso il parabrezza. Io guardai loro. Gli uomini confabularono tra loro. Il mio sguardo cadde sulla targa. Numeri bianchi su fondo rosso. Fui pervasa da un senso di sollievo. I due scesero dall'auto. Uno indossava una giacca sportiva e una divisa cachi. L'altro una camicia blu sbiadita con spalline e gradi neri, mentre una corda nera intrecciata passava sotto l'ascella e andava a infilarsi nel taschino sinistro. Una spilla d'argento sulla tasca destra proclamava in ebraico quello che ritenevo dovesse essere il nome del poliziotto. «Shalom.» Il poliziotto aveva la fronte alta coperta da una rada capigliatura bionda tagliata a spazzola. Doveva essere sulla trentina. Tempo due anni e avrebbe cominciato a informarsi sui prezzi dei trapianti di capelli. «Shalom» replicai. «Geveret, HaKol beseder?» Tutto bene, signora? «Il mio amico ha bisogno di assistenza medica» dissi in inglese. L'uomo con i capelli a spazzola si avvicinò. Il suo compagno rimase dietro la portiera aperta del loro veicolo, la mano dritta sul fianco. Strappando via i cespugli, mi allontanai dal camioncino, in modo affabile.
«E lei sarebbe?» «Temperance Brennan. Sono un'antropologa forense. Americana.» «Ah!» «L'uomo al volante è il dottor Jacob Drum. È un archeologo americano che lavora qui in Israele». Jake emise uno strano gorgoglio con la gola. Lo sguardo di Capelli a spazzola si spostò su di lui e poi su ciò che rimaneva del finestrino frantumato del lato del guidatore. Jake scelse quel momento per riprendere conoscenza. O forse era rimasto sveglio e aveva ascoltato lo scambio di battute. Si sporse in avanti per recuperare gli occhiali da sole caduti tra i pedali e, dopo averli inforcati, si raddrizzò. Spostando lo sguardo dal poliziotto a me e di nuovo al poliziotto, Jake scivolò sul sedile del passeggero, da dove era più facile seguire la conversazione. Il poliziotto girò intorno e gli si avvicinò. Si scambiarono parecchi shalom. «È ferito, signore?» «Solo un bernoccolo.» Il sorriso di Jake era convincente, l'ostrica sulla fronte meno. «Vuole che le chiami un'ambulanza?» «Non ce n'è bisogno.» La faccia di Capelli a spazzola esprimeva diffidenza. Forse a causa dell'incongruenza tra la ferita di Jake e quella del suo finestrino. O forse quell'uomo era sempre così. Era sembrato diffidente fin da quando aveva messo i piedi fuori dalla Corolla. «Davvero» disse Jake. «Sto bene.» Avrei dovuto obiettare. Ma non lo feci. «Devo aver preso una buca, o perso una ruota o qualcosa del genere.» Jake emise una risata di autorimprovero e poi esclamò: «Che idiota!». Capelli a spazzola diede una rapida occhiata all'asfalto, poi tornò da Jake. «Sto lavorando agli scavi di un sito nei pressi di Talpiot con una squadra del Museo Rockefeller.» Allora Jake mi aveva sentita. «Stavo solo portando un po' in giro la signorina.» Signorina? La bocca di Capelli a spazzola si mosse per dire qualcosa, ci ripensò e
chiese soltanto i soliti documenti. Jake mostrò un passaporto americano, una patente israeliana e il libretto del furgoncino. Io consegnai il mio passaporto. Capelli a spazzola esaminò tutti i documenti. Poi disse: «Arrivo subito». E rivolgendosi a Jake: «La prego di rimanere nel veicolo». «Le dispiace se provo a far ripartire questo trabiccolo?» «Non sposti il veicolo.» Mentre Capelli a spazzola esaminava i nostri nomi, Jake provò e riprovò a mettere in moto, ma invano. Il trabiccolo ferito era arrivato al capolinea. Passò un autoarticolato rimbombando. Un autobus. Una jeep dell'esercito. Li vidi allontanarsi uno alla volta, le luci posteriori sempre più piccole e ravvicinate. Jake si accasciò contro lo schienale e deglutì varie volte. Pensai che avesse la nausea. Capelli a spazzola ritornò e ci restituì i documenti. Controllai lo specchietto laterale. Il poliziotto in borghese adesso era stravaccato dietro il volante. «Volete un passaggio, dottor Drum?» «Sì, grazie.» Jake aveva smesso di fare bravate. Scendemmo. Jake chiuse a chiave il furgoncino, anche se la cosa non aveva molto senso. Poi seguimmo Capelli a spazzola e saltammo sul sedile posteriore della Corolla. Il poliziotto in borghese ci osservò, annuendo. Indossava un paio di occhiali cerchiati d'argento e aveva la faccia stanca. Capelli a spazzola ci presentò il sergente Schenck. «Dove andiamo?» chiese Schenck. Jake cominciò a dare le indicazioni per il suo appartamento a Beit Hanina. Lo interruppi. «All'ospedale.» «Sto bene» protestò Jake, debolmente. «Ci porti in un pronto soccorso.» Il mio tono non dava il minimo spazio a repliche. «Alloggia all'American Colony, dottoressa Brennan?» chiese Schenck. I due avevano fatto un bel lavoro. «Sì.» Schenck fece un'inversione a U sull'asfalto. Durante il tragitto, Jake rimase sveglio, ma sempre più passivo. Su mia richiesta, Schenck avvertì via radio il pronto soccorso.
Al nostro arrivo, due inservienti prelevarono Jake dall'auto, lo legarono su una barella e lo condussero via in tutta fretta per fargli una TAC o una radiografia o qualunque altra diavoleria tecnologica a cui si ricorre in caso di trauma cranico. Schenck e Capelli a spazzola mi porsero un modulo, e sparirono non appena lo ebbi firmato. Un'infermiera mi chiese informazioni su Jake. Dissi quanto potevo. Firmai altri moduli. Appresi che mi trovavo all'Hadassah Hospital, nel campus di monte Scopus dell'Università ebraica, a pochi minuti a nord della centrale della Polizia nazionale israeliana. Dopo aver terminato di compilare moduli, mi accomodai nella sala di attesa, conscia che vi sarei rimasta a lungo. Ero lì da dieci minuti quando un uomo alto con occhiali da aviatore spinse la porta a doppio battente. Che cosa provai? Sollievo? Gratitudine? Imbarazzo? Mentre si avvicinava, Ryan si sollevò gli occhiali sulla testa. «Tutto bene, soldato?» Gli occhi blu elettrico erano colmi di preoccupazione. «Benissimo.» «Sei reduce da una rissa?» «Sono scivolata in una tomba.» «Detesto queste cose.» Sul volto di Ryan vidi la smorfia nervosa che fa sempre quando ho un aspetto orribile. «Non dirmelo» ammonii. Avevo i capelli bagnati per il sudore a causa delle arrampicate per entrare e uscire dalla valle del Kidron. Il volto graffiato e gonfio in seguito all'immersione nel tunnel. La giacca imbrattata di impronte di zampe. Ero tutta macchiata di terriccio, graffiata dai rovi e avevo jeans e unghie coperti da tanto di quel fango da poter rivestire una capanna. Ryan si lasciò cadere sulla sedia accanto alla mia. «Che cosa è andato storto laggiù?» Gli raccontai della tomba, dello sciacallo e delle visite degli uomini della Hevrat Kadisha. «Jake ha perso conoscenza?» «Solo per poco.» Tralasciai i dettagli della corsa con il furgoncino. «Forse una leggera commozione cerebrale.» «Forse.» «Dov'è Max?» Glielo dissi.
«Speriamo che quei tipi si attengano alle loro leggi e lascino in pace i morti.» Spiegai la teoria di Jake secondo la quale l'Ossario di Giacomo era stato trafugato proprio da quel sito, che quindi sarebbe stato la tomba di famiglia di Gesù. «Questa ipotesi è basata su dettagli decorativi presenti su antichi ossari?» «Jake afferma di avere altre prove nel suo laboratorio. Dice che sono esplosive.» Entrò una donna con un bambino che piangeva. La donna mi osservò, continuò a camminare e prese posto nella fila di sedie più lontana. «Ho visto qualcosa, Ryan.» Con un'unghia grattai via del fango da un'altra unghia. «Quando mi trovavo nella camera inferiore.» «Qualcosa?» Descrissi quanto ero riuscita a intravedere attraverso la fenditura creata dal crollo della roccia. «Ne sei sicura?» Annuii. Dall'altra parte della stanza il bambino cominciava ad agitarsi. La madre si alzò e si mise a camminare su e giù. Pensai a Katy. Mi tornò in mente la notte in cui la febbre schizzò a 40, e la corsa in ospedale con Pete. All'improvviso, mia figlia mi mancava moltissimo. «Come sapevi che eravamo qui?» chiesi riportando i pensieri al presente. «Grazie al comando di polizia di Schenck. Sapeva che Friedman si stava lavorando Kaplan e che io ero venuto in Israele con una certa antropologa americana. Schenck ha fatto due più due e ha spifferato tutto a Friedman.» «Novità su quel fronte?» «Kaplan nega di aver rubato la collana.» «Tutto qui?» «Non esattamente.» 24 «È emerso che l'accusato, Kaplan, e la vittima, il signor Litvak, sono amici di vecchia data.» «Kaplan è amico del negoziante che ha derubato?» «Lontano cugino e talvolta fornitore. Kaplan fornisce a Litvak le - come
le ha chiamate? - curiosità occasionali.» «Litvak si occupa di antiquariato?» Ryan annuì. «Illegale?» «No di certo!» «No di certo...» «Litvak e Kaplan avevano avuto un'accesa discussione poco prima della sparizione della collana.» «Discussione su che cosa?» «Kaplan aveva promesso qualcosa che non aveva poi consegnato. Litvak era molto seccato. L'atmosfera si è surriscaldata e Kaplan se n'è andato inferocito.» «Nascondendo nella mano la collana mentre usciva.» Ryan annuì. «Litvak era talmente infuriato che ha chiamato i poliziotti.» «Stai scherzando?» «Litvak non è certo un mostro di intelligenza. Ed è una testa calda.» Il bambino si preparava a dare il meglio di sé. La donna camminava dandogli dei colpetti sulla schiena. Ryan e io sorridemmo al suo passaggio. «E che cosa avrebbe dovuto consegnare Kaplan a Litvak?» chiesi dopo che madre e figlio si furono allontanati. «Una "curiosità".» Ruotai gli occhi. Mi facevano male. Ryan ripiegò gli occhiali e li infilò nel taschino della camicia. Allungandosi sulla schiena, stese le gambe e intrecciò le dita sullo stomaco. «Una vera reliquia di Masada.» Stavo per dire qualcosa di gentile come «No, merda!» quando l'infermiera dell'accettazione entrò nella sala di attesa e si diresse a grandi passi verso di noi. Ryan e io ci alzammo. «Il signor Drum ha subito una lieve commozione cerebrale. Il dottor Epstein ha deciso di trattenerlo qui per la notte.» «Lo ricoverate?» «Per tenerlo in osservazione. È la prassi. A parte un mal di testa e forse un po' di irritabilità, il signor Drum starà bene in uno o due giorni.» «Quando posso vederlo?» «Ci vorranno un'ora o due prima che lo trasferiscano al piano superiore.» Quando l'infermiera se ne fu andata, Ryan si risedette. «E se andassimo a mangiare?»
«Buona idea.» «Che ne dici di un pranzo a base di liquore forte e poi sesso?» «Sai essere persuasivo come un demonio.» Il volto di Ryan si illuminò. «Ma... no, non è il caso.» Il volto di Ryan si spense. «Devo raccontare a Jake ciò che ho visto in quella tomba.» Due ore più tardi, Ryan e io eravamo nella stanza di Jake. Il paziente indossava uno di quei camici legati alla nuca sottoposti a troppi candeggi. Al braccio destro era collegata una flebo, mentre il sinistro era appoggiato sulla fronte con il palmo della mano rivolto verso l'alto. «Non è stato per la tomba» scattò Jake, la voce rauca e il volto più pallido del camice. «Allora perché quella protesta?» «Eri tu l'obiettivo degli uomini della Hevrat Kadisha!» «Io?» «Sanno perché sei in Israele.» «Come fanno a saperlo?» «Hai chiamato l'Autorità archeologica israeliana.» «Non da quando sono qui.» «Hai contattato Tovya Blotnik da Montréal!» Jake sbraitava inferocito. «Sì, ma...» «I telefoni dell'Autorità archeologica israeliana sono sorvegliati.» «Da chi?» non ci credevo. «Dagli ultra-ortodossi.» «Che ti credono figlia del demonio» intercalò Ryan. Gli rivolsi uno sguardo eloquente: non era affatto divertente. Jake ignorò lo scambio. «Questa gente è pazza» continuò. «Lanciano sassi in modo che le persone non possano guidare durante lo Shabbat. Affiggono manifesti in cui condannano gli archeologi elencando i loro nomi. Io ricevo telefonate su telefonate nel cuore della notte, messaggi registrati che mi augurano di morire di cancro e auspicano cose orribili alla mia famiglia.» Jake chiuse gli occhi infastidito dalle lampade fluorescenti accese in alto. «Non è stato per la tomba» ripeté. «Sanno che la tomba è vuota. E non hanno un solo indizio riguardo alla sua vera importanza.»
«Ma allora che cosa volevano?» chiesi, confusa. Jake riaprì gli occhi. «Te lo dico io che cosa volevano. Il rabbino continuava a chiedere i resti dell'eroe di Masada.» Lo scheletro. Che noi avevamo lasciato in un loculo a non più di cinque o sei metri da loro. «Cercheranno nella tomba?» «Tu che dici?» Jake sembrava un ragazzetto bisbetico. Mi rifiutai di lasciarmi coinvolgere dal suo cattivo umore. «Bisogna capire se ci hanno visti con la borsa da hockey.» «Date alla signora una bella medaglia d'oro.» La signorina. Jake abbassò il braccio e fissò il pugno serrato. Per alcuni secondi nessuno parlò. Fui io a rompere il silenzio. «C'è dell'altro, Jake.» Jake mi guardò. Notai che le sue pupille erano di nuovo uguali. «Mentre salivo dalla camera inferiore ho spostato una roccia. Dietro la parete del tunnel c'è un recesso completamente chiuso.» «Esatto.» Sprezzante. «Un loculo nascosto.» «Quando ho acceso la torcia elettrica all'interno, ho visto qualcosa che somigliava a un vecchio tessuto.» «Parli sul serio?» Jake si sedette a fatica. Annuii. «Non vi sono dubbi che quella tomba risalga al I secolo. Gli ossari ne sono la prova. Tessuti di quel periodo sono stati ritrovati nel deserto, ma mai a Gerusalemme.» «Se prometti di non staccarmi la testa, ti racconto il resto.» Jake si ridistese sul cuscino. «Credo che il tessuto possa essere un sudario.» «Senza dubbio.» «Ho visto anche delle ossa.» «Umane?» Assentii. In quel preciso momento entrò un'infermiera, le suole di gomma stridevano sulle mattonelle grigie tirate a lucido. Dopo aver controllato Jake si rivolse a me.
«Ora dovete andarvene, il paziente ha bisogno di riposo.» A fatica Jake si sollevò sui gomiti. «Dobbiamo tornare laggiù» mi disse. «Si stenda, signor Drum.» L'infermiera premette con le mani sulle spalle di Jake. Ma lui oppose resistenza. L'infermiera gli rivolse un'occhiata minacciosa: poi sarebbe passata alle maniere forti. Jake si arrese. L'infermiera mi guardò. «Dovete andarvene adesso.» Il suo tono minacciava maniere forti anche per i visitatori. Diedi una pacca sul braccio di Jake. «Domattina per prima cosa andrò di nuovo sul posto.» «Troppo tardi.» Lo sguardo dell'infermiera mi folgorò. Mi allontanai dal letto. Jake sollevò la testa dal cuscino e sputò un'ultima parola. «Adesso!» tuonò proprio come l'infermiera. Dall'atrio dell'ospedale, Jake telefonò al comando centrale della polizia nazionale israeliana. Io ero troppo preoccupata per prestare attenzione. Come sarei riuscita a tornare nella valle del Kidron? Chi mi avrebbe aiutata una volta raggiunta la tomba? Non potevo chiederlo a Ryan. Era in servizio. Friedman gli stava dedicando tempo fuori dal suo orario di lavoro per aiutarlo. Ryan doveva concentrarsi su Kaplan. «Friedman sta arrivando» disse Ryan, chiudendo con uno scatto il suo cellulare preso a noleggio. «Ha finito con Kaplan?» «Sta dando al brav'uomo il tempo di riflettere.» «Kaplan pensa di essere stato arrestato a causa della collana di Litvak?» «E per degli assegni scoperti in Canada.» «Non l'avete ancora interrogato su Ferris?» Ryan fece cenno di no con la testa. «Friedman segue un metodo interessante. Parla poco, lascia parlare il sospettato e intanto fa molta attenzione a dettagli e incongruenze, su cui si tuffa in un momento successivo.» «Dai abbastanza corda al bugiardo...» «Kaplan ne sta avendo così tanta da potersi dondolare dalla vetta del K2.» «Quando tirerà in ballo Ferris?»
«Domani.» «Mostrerai a Kaplan la foto che mi ha dato durante l'autopsia?» «Dovrebbe dargli una scossa.» Avvertii io stessa una scossa improvvisa. «Oddio, Ryan! Pensi che lo scheletro possa essere la vera reliquia di Masada? Credi che Kaplan abbia avuto sentore dello scheletro da Ferris?» Ryan mi fece un largo sorriso. «Vuoi venire con me e chiederglielo di persona?» «Potrei aiutare Friedman a "tuffarsi".» «Sono sicuro che acconsentirebbe.» «Sono una tuffatrice formidabile, io.» «Ti ho vista, sei spaventosa.» «È un dono di natura.» Mentre aspettavamo, Ryan mi chiese come pensavo di ritornare alla valle del Kidron. Ammisi qualche incertezza di carattere logistico. Eravamo nell'atrio da dieci minuti, quando Friedman arrivò. Lungo la strada per l'American Colony, aggiornò Ryan riguardo all'interrogatorio di Kaplan. Non c'era molto da aggiornare. Kaplan continuava a ripetere che intendeva pagare la collana. Litvak adesso diceva che forse era stato un po' avventato. Ryan mise al corrente Friedman su quanto mi era successo la mattina. «Crede che il tessuto sia davvero del I secolo?» mi chiese Friedman guardando nello specchietto retrovisore. «È sicuramente antico» dichiarai. «E il loculo pare non sia stato toccato.» «E i saccheggiatori si precipiteranno sulla tomba come mosche su una carcassa.» Friedman rimase un momento a pensare. Poi disse: «Wow!». Ebraico? «Saremo noi i saccheggiatori di tombe!» Friedman aveva visto troppi film. «Dove si trova?» «È sicuro di volerlo fare?» chiesi. «Assolutissimamente» esclamò Friedman. «Prendo molto sul serio l'eredità culturale di questo Paese.» «Non avremo bisogno di un permesso? O almeno di un'autorizzazione?»
«Siamo coperti.» Bene. «All'hotel, per favore, prendo la macchina fotografica» dissi. «Nient'altro?» chiese Ryan. «Una pala e qualcosa per spostare le pietre.» Mi venne in mente come un lampo il buio totale nella camera inferiore. «E potenti torce con pile nuove.» Friedman mi accompagnò all'American Colony, poi lui e Ryan ripartirono in missione di rifornimento. Io mi precipitai al terzo piano. Jake si sarebbe ripreso! Avrei recuperato lo scheletro e, forse, un sudario del I secolo! Che avvolgeva i resti di chi? Provenienti da quale tomba? Ero talmente eccitata che feci le scale due gradini alla volta. Nel mio futuro c'era il sapone! Una spazzolata ai capelli! Una camicia pulita! Ryan e Friedman mi avrebbero aiutata! La vita era bella! Un'avventura! Poi aprii la porta. E osservai incredula lo spettacolo davanti ai miei occhi. 25 La stanza era a soqquadro. Il letto disfatto, le lenzuola ammucchiate per terra, il materasso spostato. Il gabinetto e l'armadio erano spalancati; grucce, scarpe e maglioni erano sparsi dappertutto. L'euforia andò in frantumi. «C'è qualcuno?» Che stupida. Ovviamente quel qualcuno se n'era andato o se fosse stato ancora lì non si sarebbe certo presentato. Controllai la porta, per vedere se vi erano segni di effrazione. La serratura era intatta. Il legno non era stato scalfito. Con il cuore che batteva all'impazzata mi precipitai nella stanza. I cassetti erano tutti aperti. La valigia era stata rovesciata e il contenuto sparpagliato ovunque. Il portatile era ancora sulla scrivania. Non era stato toccato. Cercai di capire che cosa significasse tutto ciò.
Ladri? Evidentemente no! Perché lasciare il computer? Un avvertimento? Da parte di chi? E a che proposito? Con le mani tremanti, afferrai biancheria, magliette, jeans. Come Jake mentre raccoglieva le sue cose sparse intorno al camioncino. Poco a poco la mia mente si rilassò. Ci sono! L'attenzione creò un cuneo e la rabbia vi si seppellì dentro. «Viscidi, piccoli bastardi!» Richiusi i cassetti sbattendoli. Ripiegai i pullover. Riappesi i pantaloni. Gli abusi mi rendono rigida, impedendomi di piangere. Sistemata la camera da letto, mi diressi in bagno. Rimisi in ordine i trucchi. Mi sciacquai il viso. Mi spazzolai i capelli. Mi ero appena cambiata la camicia, quando squillò il telefono. Ryan era all'ingresso. «La mia stanza è stata messa sottosopra» dissi senza preamboli. «Figli di...» «Forse la Hevrat Kadisha cercava lo scheletro.» «Non è certo una mattinata splendida.» «No.» «Proverò a interrogare il direttore.» «Scendo subito.» Nel frattempo Friedman aveva raggiunto Ryan e insieme avevano appurato due fatti: nessun visitatore aveva chiesto di me; nessun operatore della reception aveva consegnato la chiave della mia stanza. O aveva ammesso di averlo fatto. Ci credevo. L'American Colony era gestito da arabi e il personale era tutto arabo. Era improbabile che vi fossero simpatizzanti degli Hevrat Kadisha tra di loro. La direttrice, signora Hanani, mi domandò se desideravo sporgere una denuncia ufficiale presso la polizia. La sua voce trasmetteva una totale mancanza di entusiasmo. Dissi di no. Chiaramente sollevata, la signora Hanani promise di avviare un'indagine interna, intensificare le misure di sicurezza e che mi avrebbe indennizzata dei furti e danni subiti. Friedman le assicurò che era un'ottima idea.
Io feci una richiesta. La signora Hanani corse in cucina per esaudirla. Quando tornò, infilai gli oggetti nello zaino, la ringraziai e le assicurai che non mi era stato sottratto niente di valore. Saltando sull'auto di Friedman, mi chiedevo se in seguito avrei rimpianto la mia decisione di prendere stanze separate. Dannata professionalità. Distesa nel letto, sola al buio, sapevo che avrei voluto Ryan accanto. Ci volle almeno un'ora per tornare alla valle del Kidron. La polizia di Gerusalemme aveva avuto una soffiata secondo cui un attentatore suicida era sulla strada proveniente da Bedemme. Erano stati organizzati ulteriori check-point, perciò si formavano continuamente ingorghi di traffico. Lungo la strada chiesi a Friedman del permesso. Tastandosi una tasca, mi assicurò che aveva ottenuto il documento. Gli credetti. A Silwan, indicai a Friedman la radura dove aveva parcheggiato Jake. Mentre lui e Ryan prendevano gli attrezzi dal bagagliaio, io osservai la valle. Nessun cappello nero in vista. Mi avviai verso il pendio. Ryan e Friedman mi seguirono. Giunta davanti alla tomba, mi fermai un momento a osservare l'entrata. La piccola apertura nera mi guardava, inespressiva. Sentii una stretta al cuore. La ignorai, mi voltai. I miei due compagni sudavano respirando affannosamente. «E lo sciacallo?» chiesi. «Lo avviso che siamo venuti a trovarlo.» Friedman estrasse la pistola, si accovacciò ed esplose un colpo nella tomba. «Se è là dentro, uscirà.» Aspettammo. Non apparvero sciacalli. «Probabilmente è a molti chilometri da qua» suggerì Friedman. «Vado a controllare il livello inferiore» disse Ryan tendendo la mano. Friedman gli porse la pistola. Ryan lanciò una pala e un piede di porco attraverso l'apertura, poi si infilò strisciando nella tomba. Sentii un secondo sparo, poi stivali che raschiavano. Silenzio. Ancora gli stivali, poi sull'entrata apparve la faccia di Ryan. «Niente sciacalli» disse, porgendo l'arma a Friedman. «Farò io il primo turno di guardia.» Le labbra di Friedman sembravano tese. Chissà se condivideva la mia avversione per i luoghi chiusi. Avanzai a grandi passi, spinsi la sacca, poi i piedi nel buio e mi lasciai scivolare. Ero nella tomba prima che il mio cervello si accorgesse del mo-
vimento. Accanto a me Ryan aveva acceso una torcia. I nostri volti sembravano zucche di Halloween, le nostre ombre scuri ritagli sulle pareti bianche dietro di noi. «Puntala laggiù.» Indicai il loculo a nord. Ryan diresse il fascio luminoso. La roccia era stata spostata. Nell'oscurità non si intravedeva traccia della borsa da hockey blu. Strisciai verso il loculo. Ryan mi seguì. Il piccolo recesso era vuoto. «Maledizione!» «L'hanno preso?» chiese Ryan. Annuii. Non ero sorpresa. Ma rimasi profondamente colpita. Lo avevano preso! «Mi dispiace» disse Ryan. Contegno da uomo del sud. Di riflesso stavo per dire «Non importa», ma mi trattenni. Non era vero che non mi importava. Lo scheletro era sparito. Mi accovacciai sui talloni, sentivo il peso opprimente della tomba. La fredda roccia. Il silenzio vellutato. Avevo davvero avuto un incontro ravvicinato con un morto di Masada? L'avevo perso per sempre? Ero seduta nel luogo della Sepoltura? Ero sorvegliata? Dagli Hevrat Kadisha? Dalle anime di coloro che popolavano il catechismo della mia giovinezza? Chi era stato quello scheletro? Chi aveva riposato in questa tomba? Chi ancora vi riposava? Sentii una mano sulla spalla. Il mio cervello tornò alla realtà. «Andiamo giù» sussurrai. Strisciando verso il tunnel, usai la stessa tecnica che mi aveva portato nella tomba. Dentro e in basso. Ryan mi fu accanto in pochi istanti. Non avevo forse ammassato a destra tutte le rocce cadute?
Alcune ora si trovavano a sinistra. La memoria m'ingannava? Anche queste rocce erano state spostate? Dio mio, fa' che sia ancora qui! Ryan diresse la torcia verso il varco che avevo provocato cadendo. Una freccia di luce bianca penetrò nel nero assoluto. E cadde su qualcosa di rossastro. Come prima, i miei occhi si sforzarono di vedere nell'oscurità. Il mio cervello lottò per discernere. Consistenza grossolana. Profilo irregolare. Da un'estremità, appena visibile, sporgeva un sottile cilindro bruno con una protuberanza sul fondo. Una falange umana. Afferrai il braccio di Ryan. «È qua!» Non c'era tempo per seguire un vero protocollo archeologico. Dovevamo portare fuori i resti prima che gli Hevrat Kadisha ne venissero a conoscenza. Mentre io tenevo la torcia, Ryan incuneò il piede di porco in una fenditura che delineava una roccia immediatamente sopra il varco. Ryan fece leva, provocando una pioggia di sassi. La roccia oscillò, poi ritornò al suo posto. Ryan spinse più forte. La roccia si mosse, tornò di nuovo a posto. Rimasi a guardare Ryan che dava una dozzina di colpi, grata a Friedman di sorvegliare l'entrata in alto. Speravo che non ci sarebbe stato bisogno di lui laggiù. Ryan lasciò il piede di porco e prese la pala. Inserì la lama e fece leva all'indietro sul manico con tutte le sue forze. La roccia sbalzò in avanti e cadde con un tonfo. Mi arrampicai sull'apertura allargata. Era grande a sufficienza. Il cuore cominciò a battere a ritmo più serrato. Calma. Ryan è qui. Friedman fa la guardia all'entrata. Gettandomi a capofitto, mi spinsi nel loculo e strisciai fino all'estremità opposta, muovendomi con circospezione lungo la parete. Ryan mi faceva luce. Quello che avevo individuato era proprio tessuto. Ne rimanevano due parti, entrambe imputridite e sbiadite. La parte più grande si trovava verso l'apertura del loculo, la zona dei piedi. La più piccola era in fondo, vicino a
quello che ritenevo essere il punto in cui giaceva la testa. Sporgendomi ulteriormente, riuscii a scorgere una rozza stoffa a scacchi. I brandelli avevano gli orli logori, era chiaro che gran parte dell'originale era andata perduta. Accanto al sudario vi erano delle ossa. Altre erano disposte tutt'intorno. Oltre alla falange, riconobbi frammenti di ulna, femore, bacino e cranio. Come recuperare ciò che rimaneva senza lacerare il sudario? Pensai a diverse possibilità. Nessuna era priva di rischi. Infilando la punta delle dita, sollevai un angolo della porzione più grande. Il tessuto si alzò in una morbida grinza, rumore di foglie secche calpestate. Feci varie prove. Alcune partì si sollevavano facilmente. Altre restavano attaccate. Estrassi la mia fotocamera digitale dalla sacca. Mentre Ryan illuminava il loculo come un minuscolo set cinematografico, posizionai il mio coltellino svizzero come grandezza di riferimento e scattai diverse foto da varie angolazioni. Fatte le foto, tirai fuori i contenitori ermetici e la spatola che avevo chiesto alla signora Hanani. Con la lama della spatola e la punta delle dita, separai meticolosamente il tessuto dalle ossa e dalle rocce sottostanti. Dopo averli staccati, arrotolai con cautela ogni brandello di tessuto e sigillai ciascun rotolo in un contenitore. Non era la procedura ottimale, ma date le circostanze, era il meglio che potessi fare. Una volta tolto il sudario, potevo vedere chiaramente i resti umani. La falange e un calcagno erano le uniche ossa intatte. Il resto dello scheletro era frammentato e in pessime condizioni. Con le ombre che, simili a marionette, imitavano i miei gesti sui muri intorno, trascorsi l'ora seguente a raccogliere ossa, denti e il sottostante materiale di riempimento. Avevo schiena e articolazioni doloranti per aver lavorato accovacciata in quello spazio ristretto. I piedi mi si erano intorpiditi. A un certo punto, Friedman chiamò da sopra: «Tutto bene?». «Perfetto» rispose Ryan. E poi: «Per quanto ne avrete ancora?». «Arriviamo.»
«Devo piantare le tende?» «Arriviamo» ripeté Ryan. Il tardo pomeriggio si spegneva nel crepuscolo quando finalmente tornammo in superficie. Ryan saltò fuori per primo. Io gli porsi la pala, il piede di porco e lo zaino contenente i resti del sudario e della persona che un tempo quel sudario aveva avvolto. I primi erano arrotolati in un paio di contenitori poco profondi. Gli altri riempivano a malapena due piccole vaschette. Una terza vaschetta conteneva materiale di riempimento prelevato dal pavimento del loculo. Friedman era seduto per terra, le caviglie incrociate, le spalle alla collina. Non pareva seccato, né annoiato. Sembrava Gilligan in attesa del Capitano. Nel vederci, Friedman finì di bere la sua bottiglia d'acqua e si rimise in piedi a fatica. «Trovato il suo uomo?» Bella domanda. Avevo dato una sbirciatina. I frammenti del bacino presentavano marcatori sessuali misti. Feci un cenno di approvazione, poi mi sfregai le mani per far cadere lo sporco. «Saliamo?» chiese Ryan a Friedman con una voce simile a quelle che si sentono da dentro gli ascensori. Friedman annuì, prese la pala e cominciò a salire. Lo seguimmo in fila indiana. A circa venti metri dalla vetta facemmo tutti una sosta per prendere fiato. Il volto di Friedman era color cremisi. Ryan aveva la fronte imperlata di sudore. E neanch'io ero pronta per una bella foto ricordo. Dopo alcuni minuti, raggiungemmo l'auto di Friedman. «Cena con noi?» chiese Ryan mentre Friedman usciva da Silwan. Friedman scosse la testa. «Devo tornare a casa.» Da chi o da che cosa? Mi domandai. Una moglie? Un canarino? Una bistecca che intanto si stava scongelando nel lavandino della cucina? Giunti in albergo, Ryan e Friedman si trattennero fuori. Io mi recai subito alla reception. L'impiegato mi riconobbe, ma evitò pietosamente di guardarmi. Dovevo sembrare appena scampata da un disastro ferroviario. Con le chiavi in mano, tornai verso l'esterno. Ryan aveva lasciato Friedman e camminava verso di me attraverso il portico. Dietro di lui, vedevo Friedman che conversava con la signora Hanani.
La direttrice dell'hotel se ne stava rigida, gli occhi bassi, le braccia lungo i fianchi. Friedman disse qualcosa. La signora Hanani alzò bruscamente la testa scuotendola in segno di no. Mentre Friedman riprendeva a parlare, la signora Hanani tirò fuori dalla tasca una sigaretta e cercò di accenderla. Dopo qualche tentativo, la testa del fiammifero colpì infine il suo bersaglio. La signora Hanani aspirò fumo, espirò e scosse nuovamente la testa. Friedman se ne andò. La signora Hanani fece un'altra tirata ed espirò lentamente, guardando di sbieco, attraverso il fumo, le spalle di lui. Non riuscivo a leggere l'espressione sul suo volto. «Che cosa c'è?» chiese Ryan. «Niente.» Gli porsi la sua chiave. «Che cosa preferirebbe mangiare, signora?» Sapevo che volevo una doccia. Sapevo che volevo abiti puliti. Sapevo che volevo mangiare, e poi dodici ore di sonno. Non avevo idea di quale cucina preferissi. «Hai in mente qualcosa?» «Da Fink.» «Fink.» «Su Histadrut. Era qui prima ancora che Israele diventasse Israele. Friedman mi ha detto che Mouli Azrieli è un'istituzione.» «Mouli sarebbe il proprietario?» Ryan annuì. «Mouli è famoso per aver mandato via Kissinger pur di non chiudere le porte ai suoi clienti abituali. Meglio ancora, pare che Mouli rimedi un eccellente goulash di manzo.» Rimedi? Ryan stava riprendendo le sue abitudini da cowboy. «Trenta minuti.» Alzai un dito sporco di fango. «A una condizione.» Ryan allargò le braccia. Che c'è? «Niente linguaggio da caserma.» Mi girai verso le scale. «Metti bene al sicuro il bottino in camera tua» disse Ryan alle mie spalle. «Girano i ladri da queste parti.» Mi fermai. Ryan aveva ragione. Ma la mia stanza era stata svaligiata. Non era sicura. Avevo già perso una serie di ossa e non volevo rischiare di perderne un'altra. Mi voltai.
«Pensi che Friedman terrebbe al sicuro le ossa negli uffici della polizia stanotte?» «Senza dubbio.» Gli porsi il pacco. Ryan lo prese. Sapone e shampoo. Fard e mascara. Mezz'ora dopo, nella luce soffusa e dalla giusta angolazione, apparivo decisamente attraente. Fink vantava in totale sei tavoli. E un milione di esemplari di cianfrusaglie. Nonostante l'arredo datato, il goulash era ottimo. E Mouli si unì a noi con la sua pila di album di ritagli. Golda Meir. Kirk Douglas. John Steinbeck. Shirley MacLaine. La sua collezione di celebrità rivaleggiava con quella dell'American Colony. Nel taxi, Ryan mi chiese: «Che ne pensi, ragazzina?». «Mouli deve cambiare le tende. Tu che ne dici?» Ryan si aprì in un sorriso radioso ampio quanto la baia di Galway. «Ah, è questo» dissi. «Questo» ripeté lui. Non avrei dovuto preoccuparmi di trascorrere una notte insonne sola nel buio. 26 Continuai a dormire anche dopo il richiamo del muezzin alla preghiera. Dopo l'ora di punta del mattino, il cui ronzio giungeva fino alla mia finestra. E dopo che Ryan sgattaiolò fuori dalla mia stanza. Mi svegliai al suono dei jeans che cantavano A hard day's night. Farneticavo. I should be sleepin' like a log... La musica finì. Strano sogno. Distesa sulla schiena, ripensai alla sera prima. Le parole si riproducevano veloci nella mia mente. You know I feel all right... Ancora il suono metallico della musica. Il cellulare di Jake! Saltai giù dal letto, estrassi il telefono dalla tasca e lasciai cadere di nuovo i jeans sul pavimento. «Jake?» «Tu hai il mio cellulare.» «Come stai?»
Guardai l'orologio. Le sette e quaranta. «Ottimamente. Adoro essere dissanguato e avere dita infilate nel didietro.» «Ben detto.» «Sarò fuori di qui prima che facciano un altro giro.» «Ti hanno dimesso?» «Già» sbuffò Jake. «Jake, devi...» «Sei riuscita a recuperarlo?» «Il borsone non c'era più.» «Maledetti figli di...!» Mi aspettavo l'esplosione. «E l'altro?» «Ho il sudar...» «Non dire nulla al cellulare! Puoi venire da me?» «Quando?» «Devo occuparmi del furgoncino, e procurarmi un altro veicolo che lo sostituisca.» Pausa. «Alle undici?» «Come ci arrivo?» balzai alla scrivania. Jake mi diede le indicazioni. Punti di riferimento e nomi di vie non mi dicevano niente. «Devo assolutamente chiamare l'Autorità archeologica israeliana, Jake.» Per dirgli che avevo perso lo scheletro. Non ne avevo il coraggio. «Prima ti devo mostrare che cos'altro ho recuperato in quella tomba.» «Sono in Israele da due giorni. Devo chiamare Blotnik.» «Dopo che avrai visto ciò che ho visto io.» «Oggi» ribadii. «Sì, sì» scattò. «E portami quel dannato telefono.» L'aria era pesante. Era evidente che Jake non aveva ancora superato i suoi problemi di irritabilità. O di paranoia? Credeva davvero che gli avessero messo il telefono sotto controllo? Ero là, nuda, il telefono in una mano e la penna nell'altra, quando qualcuno bussò alla porta. Uffa. Che c'è adesso? Guardai dallo spioncino. Ryan era tornato con ciambelle e caffè. Si era rasato e aveva i capelli ancora bagnati dopo la doccia.
Mentre mi rivestivo, gli parlai della telefonata di Jake. «Finiremo con Kaplan ben prima delle undici. Dove abita Jake?» «Beit Hanina.» «Ti accompagno.» «Ho tutte le indicazioni.» «Come sta?» «È inferocito.» Kaplan era trattenuto in una stazione di polizia nel Russian Compound, uno dei primi quartieri edificati fuori dalla Città Vecchia. Originariamente destinato ad accogliere pellegrini russi, era adesso una zona scalcinata del centro che necessitava di interventi urbanistici. La direzione distrettuale e l'attigua camera di sicurezza erano costituite da una serie di edifici incuneati tra Jaffa Street e la chiesa russa. Pareti di pietra, grate di ferro alle finestre. Squallida e decrepita, la costruzione si amalgamava bene con tutto il quartiere. I poliziotti avevano armi puntate in tutte le direzioni. Friedman parcheggiò in mezzo a loro, nei pressi di una barriera che fiancheggiava la zona recintata. Lì vicino giaceva una massiccia colonna di pietra in parte nascosta nella terra. La colonna era circondata da un recinto di ferro, dentro il quale si ammassavano mozziconi di sigarette. Immaginai poliziotti e nervosi prigionieri che prendevano un'ultima boccata d'aria prima di dirigersi o essere condotti all'interno. Friedman notò che osservavo la colonna. «I secolo» disse. «Erode colpisce ancora?» osservò Ryan. Friedman annuì. «Dicono che era destinata alla stoa reale del monte del Tempio di Erode.» «Niente male come costruttore.» «Gli uomini che lavoravano nelle cave notarono una crepa, così la lasciarono nel terreno. Dopo due millenni è ancora qui.» Passammo attraverso uno stretto posto di guardia dove ci controllarono elettronicamente e ci rivolsero delle domande. Dentro la stazione, fummo di nuovo interrogati da un agente che doveva aver finito la scuola superiore da un anno o poco più. L'aria era satura di fumo. La scrivania ingombra di documenti, su cui svettava una tazza di caffè bevuta a metà. Pile di rapporti. Uno schedario
girevole aperto alla lettera T. Notai un nome sulla tazza. Solomon. Mi chiedevo come si fosse sentito il vecchio Sol a essere scacciato dal suo ufficio. Aleggiava l'odore tipico delle stazioni di polizia. Un piccolo ventilatore faceva del suo meglio, ma non bastava. Friedman scomparve, poi rientrò. Dopo qualche minuto, un poliziotto in divisa scortò il detenuto nell'ufficio. Kaplan indossava pantaloni neri e una camicia bianca. Niente cintura. Niente stringhe. Il poliziotto rimase di guardia fuori dalla porta. Ryan si appoggiò a una parete. Io a un'altra. Kaplan rivolse a Friedman un sorriso da leccapiedi. Era ben rasato e aveva le borse sotto gli occhi più di quanto ricordassi. «Confido che il signor Litvak abbia recuperato la ragione.» You picked a fine time to leave me, Lucille. La voce stridula lo inchiodava. Kessler e Kaplan erano la stessa persona. Friedman indicò una sedia. Kaplan si sedette. «È stato solo uno stupido malinteso» disse Kaplan con una risatina maliziosa. Friedman prese la sedia di Sol e cominciò a guardarsi le unghie. Kaplan si voltò e mi diede la prima occhiata benevola. Qualcosa gli balenò negli occhi, un battito rapido. Riconosciuta? Il primo sentore del perché fosse lì? Ryan fece qualche passo avanti. Senza pronunciare una parola, gli mostrò la fotografia. Il sorriso di Kaplan vacillò, rimase sospeso. «Ricorda la dottoressa Brennan?» Ryan fece cenno con la testa nella mia direzione. Kaplan non rispose. «Avram Ferris?» continuò Ryan. «Tutta quella brutta faccenda dell'autopsia?» Kaplan deglutì. «Mi racconti tutto» ordinò Ryan. «Cosa vuole che le racconti?» «Non sono venuto in Israele per parlare di assegni, signor Kaplan.» La voce di Ryan avrebbe spaccato il ghiaccio polare. «O devo chiamarla Kessler?» Kaplan incrociò le braccia. «Sì, detective. Conosco Avram Ferris. È ve-
nuto qui apposta per chiedermelo?» «Dove ha preso questa?» Ryan sventolò la fotografia. «Me l'ha data Ferris.» «Capisco.» «È vero.» Ryan rimase in silenzio. Kaplan assicurò: «Davvero». Kaplan rivolse un'occhiata a Friedman. Friedman era sempre intento ad ammirare la sua manicure. «Ferris e io facevamo affari di tanto in tanto.» «Affari?» «C'è aria viziata qua dentro.» L'arrendevolezza di Kaplan andava rapidamente dileguandosi. «Ho bisogno di bere.» «Signor Kaplan.» Profondo disappunto nella voce di Friedman. «Risponda alla domanda.» «Per favore.» Sospiro esagerato. Friedman andò alla porta e parlò con qualcuno in corridoio. Ritornato al suo posto, sorrise a Kaplan. Il suo sorriso esprimeva tutto il calore di un protozoo. «Affari?» ripeté Ryan. «Compravo e vendevo cose per lui.» «Che genere di cose?» Arrivò un tizio piccoletto con un grosso naso e porse a Kaplan un bicchiere sudicio. L'uomo lo guardò con cipiglio. Dov'era Sol? Kaplan trangugiò un sorso d'acqua, poi guardò in su, senza parlare. «Che genere di cose?» ripeté Ryan. Kaplan si strinse nelle spalle. L'acqua nel bicchiere tremò. «Cose.» «Segreto professionale, signor Kaplan?» Kaplan si strinse di nuovo nelle spalle. «Cose relative a scheletri?» Ryan sventolò la fotografia. Kaplan si irrigidì in volto. Scolò l'acqua, appoggiò delicatamente il bicchiere sul registro di Sol e si allungò sulla sedia intrecciando le dita. «Voglio un avvocato.» «Le serve un avvocato?» «Lei non mi spaventa.» «Nasconde qualcosa, signor Kaplan?» Ryan si rivolse a Friedman. «Che ne pensa, Ira? Ritiene che il signor Kaplan fosse invischiato in un
piccolo mercato nero?» «Lo trovo possibile, Andy.» La faccia di Kaplan rimase impassibile. «O forse ha deciso che il traffico illecito di pezzi di antiquariato era roba da ragazzi e ha intrapreso una carriera più ambiziosa.» Kaplan aveva le dita affusolate. Le stringeva talmente forte che le nocche divennero bianche. «Può essere, Andy.» Ryan si rivolse a Kaplan. «È così? Ha deciso di alzare la posta?» «Non capisco di cosa stia parlando.» «Parlo di omicidio, Hersh. È questo il nome, no?» «Cristo santo!» Kaplan arrossì, dal colletto fino alla fronte. «Lei è matto.» «Che ne pensa, Ira? Crede che Hersh abbia eliminato Avram Ferris?» «No!» Kaplan scattò in avanti, guardando prima Ryan e poi Friedman. «No!» Ryan e Friedman si scambiarono una scrollata di spalle. «È pazzesco.» La faccia di Kaplan diventò ancora più rossa. «Non ho ucciso nessuno. Non avrei potuto.» Ryan e Friedman aspettarono. «D'accordo» Kaplan alzò le mani. «Vedete...» Kaplan scelse le parole con molta cautela. «Saltuariamente procuro oggetti di dubbia provenienza.» «L'ha fatto anche per Ferris?» Kaplan annuì. «Ferris mi telefonò e mi chiese di trovare un compratore per qualcosa di speciale.» «Speciale?» «Straordinario. Una cosa che capita una volta nella vita.» Attesa. «Qualcosa che avrebbe portato lo scompiglio nel mondo cristiano. Furono queste le sue parole.» Ryan sollevò la fotografia. Kaplan annuì. «Ferris mi diede la fotografia e mi disse di non rivelare a nessuno come me la fossi procurata.» «Quando è successo?» «Non lo so. Quest'inverno.» «Piuttosto vago, Hersh.»
«All'inizio di gennaio.» Ryan e io ci scambiammo delle occhiate. Ferris era stato ucciso verso la metà di febbraio. «Che cosa accadde?» «Feci circolare la notizia, scoprii che destava interesse, dissi a Ferris che avrei concluso l'affare, ma avevo bisogno di qualcosa in più della sua parola e di una fotografia a conferma della notizia. Disse che mi avrebbe dato le prove dell'autenticità dello scheletro. Ma morì prima che potessimo incontrarci.» «Che cosa le riferì Ferris riguardo allo scheletro?» chiesi. Kaplan si voltò verso di me. Per un attimo i suoi occhi espressero qualcosa, poi tornarono neutri. «Proveniva da Masada.» «Come se lo era procurato?» «Non me lo disse.» «Altro?» «Disse che era di un personaggio di rilevanza storica e affermava di avere delle prove.» «Nient'altro?» «Nient'altro.» Riflettemmo tutti sulle sue parole. Quali prove poteva mai avere Ferris? Dichiarazioni di Lerner? Il Musée de l'Homme? Il dossier che Lerner aveva fatto sparire dal museo? Forse l'originale che si trovava in Israele? Sentii nel corridoio qualcuno che parlava con il poliziotto. Il povero Sol, messo alla porta? «E che mi dice di Miriam Ferris?» Ryan cambiò rotta. «Che cosa sa di lei?» «Conosce la signora Ferris?» Kaplan si strinse nelle spalle. «È un sì?» «La conosco.» «In senso biblico?» «È disgustoso.» «Le riformulo la domanda, Hersh. È questo il suo nome, vero? Ha una relazione con Miriam Ferris?» «Prego?» «Le ho chiesto di confermare il suo nome di battesimo e poi le ho domandato se ha una relazione con Miriam. Una domanda in due parti è
troppo difficile per lei?» «Miriam è stata sposata con il fratello della mia ex moglie.» «Dopo la morte di suo cognato, siete rimasti in contatto?» Kaplan non rispose. Ryan aspettò. Kaplan cedette. «Sì.» «È così che ha agganciato Ferris?» Di nuovo silenzio. Di nuovo attesa. Di nuovo Kaplan crollò. «Miriam è una brava persona.» «Risponda alla mia domanda, Hersh.» «Sì.» Amaro. «Perché tirar fuori la foto durante l'autopsia di Ferris?» Kaplan alzò le spalle. «Cercavo solo di dare una mano nelle indagini.» Ryan tornò e ritornò sull'argomento. Kaplan cominciava a stancarsi, ma rimaneva saldo nella sua versione dei fatti. Conosceva Miriam attraverso l'ex cognato e Ferris tramite Miriam. Di tanto in tanto faceva commercio di bassa lega acquistando e vendendo merce illegale. Aveva acconsentito a vendere lo scheletro per conto di Ferris. Prima che potesse dargli informazioni complete riguardo alle ossa, Ferris fu ucciso. Non era stato lui. La coscienza lo aveva spinto a consegnare la fotografia. Kaplan non cambiò mai versione. Quella volta. 27 Alle 10.30, Ryan e io recuperammo ossa e sudario, poi montammo sull'auto privata di Friedman, una Ford Tempo dell'84 con una K di nastro adesivo, quello usato per le tubature, sul finestrino posteriore destro. Friedman rimase con Kaplan. «Come intende procedere?» chiesi a Ryan. «Gli darà il tempo di rivedere la sua storiella.» «E poi?» «Gli chiederà di ripeterla.» «La ripetizione fa bene» sottolineai. «Fa emergere le incongruenze.» «E i dettagli tralasciati.» «Come la madre di Ferris» disse Ryan. «È stata lei a parlare di Yossi Lerner e di Sylvain Morissonneau» convenni.
Beit Hanina è un villaggio arabo che ha avuto la provvidenziale fortuna di trovarsi entro i nuovi confini municipali della moderna Gerusalemme. Adesso si chiama Beit Hanina Hadashah o Nuova Beit Hanina. Jake aveva un appartamento qui da quando lo conoscevo. Seguendo le sue indicazioni giungemmo in un territorio appartenuto alla Giordania dal 1948 al 1967. Dieci minuti dopo aver lasciato il Russian Compound, arrivammo al check-point di Neve Yakov sulla Ramallah Road, ex Nablus Road. Giusto in tempo. La coda non era più lunga di un isolato e mezzo. Ryan seguì la fila e procedemmo a passo d'uomo. Durante la nostra spedizione alla valle del Kidron, Jake mi aveva spiegato che, con la costruzione del muro destinato a proteggere Israele dal resto del mondo, il centro della strada che stavamo percorrendo sarebbe stato eliminato. Osservai i negozi che la fiancheggiavano. Pizzerie. Lavanderie. Negozi di dolciumi. Fiorai. Avremmo potuto trovarci in una qualsiasi cittadina dell'Illinois. Del Missouri. O dello Stato di New York. Ma eravamo in Israele. Alla mia sinistra c'erano quelli che sarebbero rimasti all'interno, i cui affari avrebbero continuato a prosperare nonostante il muro. A destra quelli lasciati allo sbando, che avrebbero visto sfiorire le loro attività a causa del muro. Che tristezza, pensai. Erano loro, la gente comune che si spaccava la schiena per procurare da vivere alla famiglia, i veri vincitori e i veri sconfitti in questa terra contesa. In assenza di Friedman, Ryan e io ci aspettavamo un interrogatorio. Au contraire. Il poliziotto diede uno sguardo ai nostri passaporti e al distintivo di Ryan, si chinò per una sbirciata nell'auto, e ci fece segno di procedere. Entrammo nella zona ovest, girammo subito a sinistra, poi ancora a sinistra e imboccammo la strada di Jake. Jake aveva preso in affitto l'ultimo piano di una casa decorata a stucco, di proprietà di un'archeologa italiana, Antonia Fiorelli. Jake occupava il piano superiore. La Fiorelli abitava al piano di sotto insieme a sette gatti. Ryan annunciò il nostro arrivo da un citofono gracchiante fissato sulla parete esterna. Dopo pochi secondi, Jake aprì il cancello, ci fece strada passando vicino a un recinto di rete metallica che ospitava conigli e capre, giù per un tortuoso vialetto di ghiaia e su per una scala esterna. Raggiungemmo il secondo piano scortati da tre gatti. Esistono vari tipi di felini. Il gatto «coccolami, ti adoro, lasciami arrotolare sul tuo grembo». Il gatto siamese, «nutrimi, non mi disturbare, ti
chiamo io». Il feroce gatto maschione, «guardo io se il tuo torace si muove mentre dormi». Il nostro trio rientrava benissimo nella terza categoria. Gran parte dell'appartamento di Jake era occupato da un'ampia stanza centrale con pavimento di piastrelle marroni, pareti intonacate di bianco e finiture di mattoni ad arco su porte e finestre. Su un lato erano disposti armadi di legno che curvavano formando un'isola che separava la cucina dalla zona soggiorno e pranzo. La camera da letto di Jake non era più grande di uno sgabuzzino contenente un letto disfatto, una toeletta e una scatola di cartone per la biancheria sporca. Tutto il resto era «ufficio». Un'anticamera era stata trasformata in sala computer e mappe. Un portico recintato serviva per il lavaggio e la pulizia dei manufatti. Una stanza da letto sul retro era attrezzata per catalogazioni, registrazioni e analisi. Lo stato d'animo di Jake era migliorato dalla nostra telefonata. Ci salutò e ci chiese notizie sulla nostra mattinata prima di voler vedere il sudario. Chiedeva addirittura per favore. E sorrideva. «Era il massimo che potessi fare date le circost...» «Avanti, dai» fece Jake agitando entrambe le mani. D'accordo. Non aveva recuperato del tutto il buonumore. Misi i contenitori ermetici della signora Hanani sul tavolo. Jake aprì la prima vaschetta e ne ispezionò il contenuto. «Oh mio Dio!» Fece leva sul coperchio della seconda vaschetta. «Oh mio Dio!» Ryan mi guardò. Jake passò ai contenitori del sudario. «Oh mio Dio» mimò Ryan sopra la schiena curva di Jake. Guardai Ryan per ammonirlo di smetterla. Ammutolito, Jake guardò la parte più ampia del sudario. «Oh mio Dio!» Sparì nella camera da letto sul retro, tornò con una lente di ingrandimento ed esaminò il frammento di stoffa più grande. «Nel pomeriggio lo porto da Esther Getz» disse. Jake studiò il sudario per circa un minuto, poi si raddrizzò. «Getz è un'esperta di tessuti al Museo Rockefeller. Hai esaminato le ossa?»
Feci cenno di no. «Non c'è molto da esaminare.» Jake ripose la lente, indietreggiò e fece un ampio gesto con il braccio teso. Ryan imitò squilli di tromba con le labbra. Andai al tavolo e con delicatezza rovesciai il contenuto di ciascuna vaschetta sul relativo coperchio. «Hai un paio di guanti?» Jake ripartì per la stanza sul retro. «E delle pinzette» dissi mentre tornava. «E uno specillo o uno stuzzicadenti.» Jake mi portò tutto. Mentre Jake e Ryan osservavano, selezionai, chiamandolo per nome, ogni singolo frammento. «Falange. Calcagno.» Questi erano quelli facili. Nessuno degli altri frammenti era più grande di un lobo delle mie orecchie. «Ulna, femore, bacino, cranio.» «Allora, che cosa ne pensi?» chiese Jake quando ebbi finito. «Credo che non ci sia molto da esaminare.» «Maschio o femmina?» «Sì» affermai. «Dannazione, Tempe. Parlo sul serio.» Ispezionai una grossa porzione di osso occipitale. La cresta nucale era prominente, ma non tanto da stabilire un record. Idem per la linea aspra su alcune schegge dell'asta del femore. Tutto ciò che rimaneva della pelvi era la parte spessa e robusta che aveva formato l'articolazione con il sacro. Non vi erano altre caratteristiche sessuali distintive. «I legamenti muscolari sono robusti. Lo qualificherei come "maschio", ed è forse il massimo che sarei in grado di fare. Non vi è niente di abbastanza completo da consentire una misurazione.» Presi il calcagno e lo girai. La mia attenzione fu attratta da un piccolo difetto circolare. Jake notò il mio interesse. «Che cosa c'è?» Indicai la fine scanalatura nella parte esterna dell'osso. «Non è normale.» «Che cosa vuol dire, non è normale?» domandò Jake. «Non dovrebbe esserci.» Jake ripeté il suo gesto d'impazienza. «Non è un forame per il passaggio di un vaso sanguigno o un nervo. L'osso è parecchio abraso, ma, da quanto posso vedere, i margini del foro sono affilati.» Riposi il calcagno e porsi la lente a Jake. Lui si chinò e mise a fuoco la
parte centrale dell'osso. «Che cosa pensi che sia?» chiese Ryan. Prima che potessi rispondere, Jake corse nella stanza delle mappe. Aprì e chiuse cassetti sbattendoli, poi riapparve, scorrendo dei fogli tenuti insieme da una graffetta. Buttò il plico sul tavolo e puntò il dito su una pagina. Guardai. Jake indicava un articolo dal titolo Osservazioni antropologiche sui resti di scheletri di Giv'at ha-Mivtar. Il dito era puntato su una pagina di fotografie. Gran parte dei dettagli era andata perduta a causa della fotocopiatura, ma l'argomento era ovvio. Quattro immagini riproducevano frammenti di un calcagno e altre ossa del piede, alcune prima e altre in seguito al processo di separazione e ricostruzione. Sebbene fossero ricoperte da una spessa crosta calcarea, si vedeva un chiodo di ferro che attraversava il calcagno da parte a parte. Sotto la testa del chiodo, sporgeva una placca di legno. Una quinta fotografia mostrava un osso moderno come termine di paragone. Su di esso si notava una lesione circolare esattamente nello stesso punto del difetto del calcagno trovato nel nostro sudario. Rivolsi a Jake uno sguardo interrogativo. «Nel '68 furono trovati quindici ossari di pietra calcarea in tre grotte per sepoltura. Tredici erano pieni di resti di scheletri e si erano conservati ottimamente. Mucchi di fiori selvatici. Spighe di grano. Cose del genere. Traumi presenti sulle ossa indicavano che parecchi individui avevano subito violenza. Una ferita da freccia. Un trauma da corpo contundente.» Jake diede dei colpetti sulle fotografie. «Questo povero bastardo è stato crocifisso.» Jake mise un secondo articolo accanto al primo e passò a indicare il disegno di un corpo su una croce. Le braccia della vittima erano completamente aperte sulla traversa, ma contrariamente alle immagini moderne, i polsi erano legati e non fissati con chiodi. Le gambe erano divaricate, con i piedi inchiodati ai lati e non sul davanti del palo. «Sappiamo da Giuseppe Flavio che il legno scarseggiava a Gerusalemme, quindi i romani lasciavano il palo fisso e facevano trasportare solo la traversa. Entrambe le parti erano riutilizzate varie volte.» «Quindi le braccia venivano legate, non fissate con i chiodi» rimarcò Ryan. «Sì. La crocifissione ha origini egizie. Gli egiziani legavano i condanna-
ti. Ricorda, la morte non era causata dai fori dei chiodi. La posizione sulla croce indebolisce i due gruppi di muscoli interessati nella respirazione, i muscoli intercostali e il diaframma, causando la morte per asfissia. «La vittima veniva sistemata con le gambe a cavallo del palo verticale con ciascun piede fissato lateralmente mediante chiodi. Il calcagno è l'osso più grande del piede. Perciò il chiodo veniva infilato attraverso il calcagno, dall'esterno verso l'interno.» La tomba di famiglia di Gesù. Un uomo crocifisso in un sudario. Rendendomi conto di dove Jake volesse arrivare, afferrai con una mano il tallone sul tavolo. «Non c'è modo di sapere se questo sia dovuto a un trauma. Il difetto potrebbe essere la conseguenza di un processo degenerativo dovuto a una malattia. Potrebbe essere successivo alla morte. La tana di un verme o di una lumaca.» «Potrebbe essere stato provocato da un chiodo?» Gli occhi di Jake erano rossi di eccitazione. «È possibile» dichiarai con una voce poco convinta. Crocifissione? Di chi? Avevamo già escluso un candidato. Lo scheletro era troppo vecchio all'epoca della sua morte, se crediamo alle scritture tradizionali. O troppo giovane, se ci atteniamo alla teoria di Joyce fondata sulla pergamena di Grosset. Jake stava forse insinuando che quelle erano le ossa di Gesù di Nazareth? Una minuscola parte del mio cervello voleva crederci. L'altra no. «Hai detto di aver prelevato altre ossa dalla tomba del Kidron?» chiesi. «Sì. Ai saccheggiatori non importa un bel niente dei resti di scheletri. Quando si portano via gli ossari intatti, rovesciano le ossa sul pavimento della tomba. Abbiamo queste. E abbiamo altre ossa rimaste all'interno delle scatole rotte e abbandonate.» «Spero che quei resti siano in condizioni migliori di questi» dissi indicando il contenuto delle vaschette ermetiche. Jake scosse la testa. «Erano tutte frammentate e in uno stato di conservazione non proprio ottimale. Ma le ossa rovesciate erano ancora in mucchi rilevanti mischiati a frammenti di ossari. Questo ne ha facilitato la selezione per ricomporre i singoli scheletri.» «Il materiale è stato analizzato?» «Un antropologo fisico insieme a un gruppo di scienziati dell'Università ebraica è riuscito a identificare tre donne adulte e quattro maschi adulti. Non c'era niente di misurabile, quindi non ha potuto calcolare le stature né
fare alcun tipo di confronto con la popolazione. Non ha trovato indizi relativi all'età, né caratteristiche individuali tipiche.» «Ha identificato lesioni simili a questa?» «Ha parlato di osteoporosi e artrite. Questo per quanto concerne traumi o malattie.» «Le altre ossa, o parte di esse, sono state trovate dentro loculi come questi?» mi informai. Jake fece cenno di no. «Volevano ossari, non ossa. Grazie al cielo i bastardi non hanno battuto contro le pareti. Ancora non riesco a credere che tu abbia trovato un loculo nascosto. E un sudario. Oh mio Dio! Duemila anni. Hai idea di quante persone sono entrate e uscite da quella tomba? E tu hai trovato un sepolcro intatto. Oh mio Dio!» Alle spalle di Jake, Ryan ripeteva con le labbra: «Oh mio Dio». «Dove sono adesso le altre ossa?» chiesi. «Sono tornate sul suolo sacro» Jake fece il gesto tremolante di E.T. con le dita. «E gli Hevrat Kadisha non ti diranno dove. Ma io ho il rapporto dell'antropologo.» Ryan imitò il gesto. Un ghigno si fece strada sul volto di Jake. «Almeno la maggior parte di esse.» «Come?» sollevai un sopracciglio. «Alcuni brandelli possono essere finiti nel posto sbagliato.» «Nel posto sbagliato?» «Ti ricordi la nostra telefonata a proposito del test del DNA sullo scheletro di Masada?» Annuii. «Gente simpatica in quel laboratorio.» «L'Autorità archeologica israeliana acconsentì all'invio di campioni?» «Non proprio.» «Hai spedito tu i campioni?» Jake si strinse nelle spalle. «Blotnik rifiutò. Che cosa avrei dovuto fare?» «Mossa coraggiosa» intervenne Ryan. «Ti chiedo adesso ciò che ti chiesi allora» dissi. «Che senso ha determinare il profilo genetico se non lo si può confrontare?» «Andrebbe comunque fatto. Adesso seguitemi.» Jake ci condusse nella stanza sul retro, dove aveva sparpagliato delle fotografie su un tavolo da lavoro. Alcune riproducevano interi ossari. Altre
solo frammenti. «I saccheggiatori hanno trafugato parecchi ossari, altri li hanno rotti» disse Jake. «Ma ne hanno lasciato un buon numero che è stato possibile ricostruire.» Jake prese una fotografia dal mucchio e me la porse. Rappresentava otto ossari. Tutti esibivano crepe. Molti anche punti vuoti. «Gli ossari si distinguono per stile, dimensioni, forma, spessore della pietra, modo in cui si incastra il coperchio. La maggior parte è piuttosto liscia, ma alcuni hanno decorazioni elaborate. Come quello di Caifa, per esempio.» «L'anziano del Sinedrio che processò Gesù prima di Ponzio Pilato» osservò Ryan. «Sì. Anche se il suo nome ebraico era Yehosef bar Qayafa. Caifa fu sommo sacerdote a Gerusalemme dal 18 al 37 E.C. Il suo ossario è stato rinvenuto nel 1990. È splendido, intagliato con iscrizioni incredibilmente belle. Intorno a quell'epoca fu scoperto anche un ossario che riportava l'iscrizione ALESSANDRO, FIGLIO DI SIMONE DI CIRENE. Anche quell'ossario è riccamente decorato.» «Simone è l'uomo che aiutò Gesù a portare la croce lungo la strada per il Golgota.» Ryan, studioso della Bibbia. «Lo conosci bene il Nuovo Testamento» disse Jake. «Simone e suo figlio Alessandro sono nominati in Marco 15:21.» Ryan sorrise con modestia, poi prese la fotografia con le ricostruzioni fatte da Jake. «Mi piacciono quelle con i petali di fiori.» «Rosette.» Jake prese altre due stampe. «Adesso guarda qua.» Porse le fotografie a Ryan. Mi chinai per osservare più da vicino. Rappresentavano un ossario pressoché rettangolare, con un coperchio che combaciava perfettamente e una superficie irregolare. Nella prima si intravvedevano tracce di rosette intagliate. Le figure a cerchi concentrici mi ricordavano i disegni che facevamo da ragazzini con il compasso. Nella seconda, scattata da un'angolazione diversa, una crepa partiva da un'estremità, girava bruscamente a destra e procedeva a sinistra verso l'alto sul lato inquadrato dalla macchina fotografica. Il piccolo cofanetto per ossa sembrava perfettamente identico a quelli che Jake aveva ricostruito. «È l'Ossario di Giacomo?» domandai. «Osservate l'iscrizione.» Jake porse una lente d'ingrandimento a ciascu-
no di noi. «Leggi l'aramaìco?» chiese a Ryan. Ryan fece cenno di no. Lo guardai fingendomi sorpresa. Jake si perse lo scambio, o lo ignorò. «Ciò che sorprende dell'Ossario di Giacomo è l'insolita raffinatezza delle iscrizioni. Si accorda molto di più con iscrizioni riscontrate su ossari dallo stile più pomposo.» Stavo per crederci. Perfino ingrandita, l'iscrizione sembrava lo scarabocchio di un bambino. Il dito di Jake si posò sul gruppo di simboli all'estremità destra. «Il nome ebraico, Jacob, o Ya'akov, corrisponde a Giacomo.» «Da qui il nome di giacobiti assunto dai sostenitori del re Giacomo II d'Inghilterra.» «Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù.» Indicò il gruppo di simboli all'estremità sinistra. «Yeshua, o Joshua, corrisponde a Gesù.» Jake prese le fotografie e le ripose sul tavolo. «Adesso venite con me.» Ci condusse dietro il portico recintato, aprì un ampio armadietto e spalancò l'anta a doppio battente. Frammenti di pietra calcarea riempivano le due mensole superiori. Gli ossari ricostruiti occupavano le sei sottostanti. «A quanto pare non erano i più brillanti saccheggiatori del pianeta. Si sono lasciati dietro parecchi frammenti con iscrizioni.» Jake mi porse un frammento triangolare dalla mensola in alto. Le lettere intagliate non erano molto profonde e pressoché invisibili. Le misi a fuoco con la lente d'ingrandimento. Ryan avvicinò la testa alla mia. «Marya.» Jake tradusse: «Maria». Jake indicò l'iscrizione su uno degli ossari ricostruiti. I simboli si somigliavano. «Matya. Matteo.» Jake fece scorrere il dito lungo la scritta su un ossario più grande che si trovava sulla mensola sottostante. «Yehuda, figlio di Yeshua. Giuda, figlio di Gesù.» Jake passò alla terza mensola. «Yose. Giuseppe.» Andò alla mensola accanto a quella di Giuseppe. «Yeshua, figlio di Yehosef. Gesù, figlio di Giuseppe.» Mensola numero quattro. «Mariamene. Colei che si chiama Maria.» «Questa scritta sembra diversa» osservò Ryan. «Occhio fine. È greco. Ebraico. Latino. Aramaico. Greco. Il Medio O-
riente era un mosaico di lingue già a quei tempi. Marya, Miriam e Mara sono lo stesso nome, che corrisponde fondamentalmente a Miriam o Maria. E si usavano i soprannomi, proprio come oggi. Mariamene era il diminutivo di Miriam.» Jake indicò la mensola numero tre. «E Yehosef e Yose sono lo stesso nome, Giuseppe.» Ritornando alla mensola in alto, Jake scelse un altro frammento e lo scambiò con quello che avevo in mano io. Questa iscrizione sembrava diversa da Marya. La scrittura era difficile da distinguere, pressoché invisibile. «Il nome è probabilmente Salomé» dichiarò Jake. «Ma non ne sono sicuro.» Ripercorsi i nomi nella mente. Maria. Maria. Salomé. Giuseppe. Matteo. Giuda. Gesù. La famiglia di Gesù? La tomba di famiglia di Gesù? Calzavano tutti, tranne Matteo. Ci pensai, ma non ne feci parola. Oh... mio... Dio. 28 «Come viene interpretata la famiglia di Gesù dagli storici o dagli studiosi della Bibbia?» domandai cercando di mantenere un tono di voce fermo. «Il punto di vista dello storico è che Gesù, i suoi quattro fratelli - Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda - e le sue due sorelle - Maria e Salomé - fossero i figli biologici di Giuseppe e Maria. Secondo la visione protestante, Gesù non aveva un padre umano, ma Maria ebbe altri figli da Giuseppe.» «Il che farebbe di Gesù il fratello maggiore» disse Ryan. «Sì» confermò Jake. «Il Vaticano considera Maria sempre vergine» dissi io. «Dunque, niente fratelli» aggiunse Ryan. Jake annuì. «La visione del cattolicesimo occidentale è che gli altri fossero primi cugini, figli del fratello di Giuseppe, Cleofa, anche lui sposato con una donna di nome Maria. Secondo la visione ortodossa orientale, Dio è il padre di Gesù, Maria rimase sempre vergine e i fratelli e le sorelle erano figli di prime nozze di Giuseppe, in seguito rimasto vedovo.» «Il che farebbe di Gesù il più giovane.» Ryan aveva la mania dell'ordine di nascita. «Sì» disse Jake.
Feci mentalmente l'elenco. Due Maria. Salomé. Giuda. Giuseppe. E un tizio di nome Matteo. Qualcosa mi sfarfallò nelle budella. «Ma questi nomi non erano piuttosto comuni, come Joe o Tom oggi?» domandai. «Comunissimi» disse Jake. «Avete fame?» «No» dissi io. «Sì» disse Ryan. Tornammo in cucina in fila indiana. Jake tirò fuori affettati, formaggio, fette di pane, arance, sottaceti e olive. I gatti restarono a guardare mentre ognuno di noi si serviva. Ryan evitò le olive. Ci preparammo dei sandwich e ci spostammo su un tavolo da picnic nella zona pranzo. Continuammo a parlare mangiando. «Maria era il nome femminile più comune nella Palestina romana del I secolo» disse Jake. «Per gli uomini era Simone, seguito da Giuseppe. Scoprire degli ossari con questi nomi non è gran cosa. Ma è gran cosa la compresenza, il ritrovamento di tutti i nomi in un'unica tomba. Questo è lo sballo.» «Ma Jake...» «Ho studiato i cataloghi pubblicati degli ossari giudaici. Delle migliaia di cassette conservate nelle raccolte in tutto lo Stato di Israele, solo sei riportano il nome Gesù nell'iscrizione. Di queste sei, solo una reca l'iscrizione "Gesù, figlio di Giuseppe". E adesso la nostra.» Jake scacciò un gatto col piede. «Mai sentito parlare di onomastica o prosopografia?» Ryan e io scuotemmo il capo. «L'analisi statistica dei nomi.» Jake si ficcò in bocca un'oliva e continuò a parlare durante l'operazione di snocciolatura. «Per esempio, nella sua catalogazione degli ossari pubblicati, un archeologo israeliano di nome Rahmani ha trovato diciannove Giuseppe, dieci Joshua e cinque Giacobbe o Giacomo.» Jake sputò il nocciolo nel palmo della mano e passò all'oliva successiva. «Un altro esperto ha studiato i nomi documentati nella Palestina del I secolo, ottenendo una percentuale del 14 per cento per Giuseppe, del 9 per cento per Gesù e del 2 per cento per Giacobbe. Rielaborando queste cifre, il paleoepigrafista francese André Lemaire ha calcolato che solo lo 0,14 per cento della popolazione maschile di Gerusalemme poteva chiamarsi
"Giacobbe, figlio di Giuseppe".» Fuori il nocciolo. Dentro l'oliva. «Partendo dal presupposto che ogni individuo di sesso maschile aveva approssimativamente due fratelli, Lemaire ha calcolato che grosso modo il 18 per cento degli uomini chiamati "Giacobbe, figlio di Giuseppe" avrebbe avuto un fratello di nome Gesù. Perciò, nel corso delle generazioni, solo lo 0,05 per cento della popolazione avrebbe potuto chiamarsi "Giacobbe, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù".» «Quante persone vivevano nella Gerusalemme del I secolo?» domandai. «Lemaire parlava di circa ottantamila abitanti.» «Di cui circa quarantamila di sesso maschile» disse Ryan. Cenno di conferma. «Lemaire ha concluso che a Gerusalemme, durante le due generazioni precedenti il 70 E.C., non più di venti persone avrebbero potuto corrispondere all'iscrizione sull'Ossario di Giacomo.» «Ma non tutti finivano in un ossario» dissi io. «No.» «E non tutti gli ossari avevano un'iscrizione.» «Acuta osservazione, dottoressa Brennan. Ma la menzione di un fratello nelle iscrizioni è rara. Quanti Giacobbe figli di Giuseppe avevano un fratello di nome Gesù abbastanza famoso perché tale parentela fosse posta in evidenza sul loro ossario?» Non avevo una risposta, perciò replicai con una domanda. «Gli altri esperti di nomi concordano con la stima di Lemaire?» Jake sbuffò. «Naturalmente no. Alcuni dicono che è troppo alta, altri che è troppo bassa. Ma quante probabilità ci sono di trovare quell'intero gruppo di nomi in una sola tomba? Le due Maria, Giuseppe, Gesù, Giuda, Salomé. Di certo un numero infinitesimale.» «Questo è lo stesso Lemaire a cui Oded Golan rivelò per primo l'esistenza dell'Ossario di Giacomo?» domandai. «Sì.» I miei occhi si spostarono su quel calcagno con una lesione così peculiare. Pensai a Donovan Joyce e alla sua bizzarra teoria secondo cui Gesù avrebbe continuato a vivere per combattere e morire a Masada. Pensai a Yossi Lerner e alla sua bizzarra teoria sulle ossa di Gesù che finiscono al Musée de l'Homme a Parigi. Convinto che si trattasse proprio di Gesù, Lerner aveva trafugato lo scheletro. Ma l'età al momento della morte dimostrava che Lerner era in errore. Secondo la mia stima, lo scheletro si collocava tra i quaranta e i
sessant'anni; sulla base di quella stessa stima dunque era troppo giovane per essere l'ottuagenario autore del rotolo di Gesù di Grosset. Ora Jake suggeriva un'altra bizzarra teoria e un altro candidato. Gesù era morto crocifisso, ma il suo corpo non era risorto, era rimasto nel sepolcro. Quella tomba era divenuta il luogo dell'ultimo riposo di tutta la sua famiglia. Quella tomba era nel Kidron. Dei ladri di tombe l'avevano trovata e avevano rubato l'Ossario di Giacomo. Jake l'aveva riscoperta e avevo recuperato i resti di ossari e singole persone che ì profanatori avevano tralasciato. Io ero incappata per caso in un loculo nascosto, rivelando una sepoltura fino ad allora sconosciuta. Le ossa di Gesù, avvolte in un sudario. Il mio stomaco passò dallo sfarfallio al nodo. Posai il mio sandwich. Uno dei gatti cominciò una lenta manovra di avvicinamento. «Giacomo era conosciuto ai suoi tempi?» domandò Ryan. «Ci puoi giurare. Facciamo un passo indietro. I dati storici suggeriscono che Gesù apparteneva alla stirpe di Davide, i discendenti diretti di Davide, re di Israele nel secolo che precedette l'Era Comune. Secondo i profeti dell'Antico Testamento, il Messia, l'ultimo re di una restaurata nazione di Israele, doveva scaturire da quella stirpe reale. I discendenti di Davide, con il loro potenziale rivoluzionario, erano ben noti alla famiglia di Erode, che regnava in quel tempo in Palestina, ai romani e perfino all'imperatore. Questi "reali" erano tenuti d'occhio molto da vicino e, in determinati periodi, anche braccati e uccisi. «Quando Gesù fu crocifisso intorno al 30 E.C. per la sua rivendicazione del regno messianico, suo fratello Giacomo, secondo nella discendenza di Davide, divenne la figura dominante nel movimento cristiano di Gerusalemme.» «Non Pietro?» chiese Ryan. «Non Pietro. Non Paolo. Giacomo il Giusto. Questo fatto non è noto ai più e raramente riceve la considerazione che merita. Quando Giacomo morì lapidato nel 62 E.C., fondamentalmente per le stesse ragioni di Gesù, venne alla ribalta il fratello Simone. Braccato per quarantacinque anni, Simone fu crocifisso sotto l'imperatore Traiano, specificamente a causa della sua appartenenza alla stirpe reale. Indovinate chi raccolse il testimone?» Ryan e io scuotemmo il capo. «Un terzo parente, Giuda, si pose alla testa del movimento a Gerusalemme.»
Ci pensai un attimo. Gesù e i suoi fratelli che aspirano al titolo messianico di re dei giudei? Okay. Mi poteva andar bene in una diversa prospettiva politica. Ma che cos'altro stava suggerendo Jake? Che Gesù fosse ancora nella tomba? «Come puoi essere sicuro che il sepolcro nella valle del Kidron risalga proprio a quel periodo?» La mia voce suonò tesa. Improvvisamente mi sentivo nervosa. «Gli ossari furono in uso solo dal 30 prima dell'E.C. al 70 E.C.» «Una delle iscrizioni è in greco.» Agitai la mano in direzione delle vaschette per alimenti disposte sul ripiano. «Forse questi non erano nemmeno ebrei.» «Il misto di greco ed ebraico è comunissimo nelle tombe del I secolo. E gli ossari erano utilizzati solo per la sepoltura degli ebrei.» Jake anticipò la successiva domanda: «E quasi esclusivamente a Gerusalemme e dintorni». «Credevo che la tomba di Cristo si trovasse sotto la chiesa del Santo Sepolcro, fuori dalla Città Vecchia» disse Ryan, arrotolando una fetta di Münster intorno a un sottaceto. «Un sacco di gente lo crede.» «Ma tu no.» «Io no.» «Gesù veniva da Nazareth» dissi. «Come mai non era là il terreno di famiglia per la sepoltura?» «Secondo il Nuovo Testamento, Maria e i suoi figli presero residenza a Gerusalemme dopo la crocifissione. La tradizione vuole che Maria sia morta e sia stata sepolta lì, non nel nord della Galilea.» Ci fu un lungo silenzio durante il quale il gatto arrivò furtivamente a pochi centimetri dal mio piede. «Fammi capire.» Il gatto scattò indietro al suono della mia voce. «Sei convinto che l'iscrizione sull'ossario di Giacomo sia vera.» «Sì» disse Jake. «E che l'ossario sia stato trafugato dalla tomba che abbiamo visitato.» «Varie voci hanno sempre individuato là l'origine dell'ossario.» «E che quella tomba sia il luogo di sepoltura dei familiari di Gesù.» «Sì.» «E che, come indicherebbe la lesione sul calcagno, uno degli occupanti era stato crocifisso.» Jake annuì in silenzio. I miei occhi incontrarono quelli di Ryan. Non vi trovarono l'ombra di un
sorriso. «Hai raccontato a Blotnik la tua teoria sulla tomba?» «Sì, tranne, naturalmente, la parte che riguarda il calcagno del crocifisso. L'avete appena trovato. Non riesco ancora a crederci.» «E?» «Mi ha liquidato in quattro e quattr'otto. Quell'uomo è un cretino ed è cocciuto come un mulo.» «Jake?» «Vedrai quando lo conoscerai.» Lasciai perdere e cambiai argomento. «Hai sottratto alcuni campioni delle ossa contenute negli ossari fracassati e di quelle sparse sul pavimento della tomba, e hai richiesto il test del DNA. Quando?» «Ho trattenuto i campioni quando ho consegnato la raccolta perché fosse analizzata e riseppellita. Li ho mandati a esaminare dopo la nostra conversazione telefonica. I tuoi commenti erano una conferma a ciò che speravo. Il DNA mitocondriale poteva mostrare un rapporto di maternità tra gli individui presenti nella tomba e il DNA antico poteva dirci almeno il sesso.» Di nuovo i miei occhi corsero alle ossa sul ripiano. Una domanda prese forma nella mia mente, ma non ero ancora pronta a formularla. «Normalmente, si lasciavano i corpi a decomporre per un anno, poi le ossa venivano raccolte e chiuse negli ossari, giusto?» chiese Ryan. «Allora perché la persona avvolta nel sudario rimase nel loculo?» «Secondo la legge rabbinica, le ossa di un morto dovevano essere raccolte da suo figlio. Forse quest'uomo non aveva alcun figlio. Forse c'entra il modo in cui era morto. Forse qualche evento critico impedì alla famiglia di tornare.» Evento critico? Come l'esecuzione di un dissidente e la soppressione del suo movimento, in modo tale da costringere seguaci e familiari a nascondersi? Era molto chiaro dove Jake volesse arrivare. Ryan sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi ci rinunciò. Mi alzai e recuperai l'artìcolo con le foto dell'osso del piede. Riattraversando la stanza per tornare al tavolo, notai l'intestazione in cima a ogni pagina. N. Haas. Dipartimento di anatomia, Università ebraica - Hadassah Scuola di medicina. La mia mente colse al volo l'occasione. Pensa a Max. A Masada. A tutto tranne che al calcagno e alla sua strana lesione. «È lo stesso Haas che lavorò a Masada?»
«Sissignora.» Diedi una scorsa all'articolo. Età. Sesso. Misure del cranio. Trauma e patologia. Disegni. Tabelle. «È piuttosto dettagliato.» «Con qualche imprecisione, ma dettagliato» concesse Jake. «E tuttavia, Haas non scrisse mai niente sugli scheletri della Grotta 2001.» «Non una parola.» Dello scheletro di Masada, trafugato da Israele, rubato da un museo, portato di nascosto in Canada, non si era mai data notizia. Secondo Kaplan, Ferris era convinto che appartenesse a un personaggio di importanza storica, rinvenuto a Masada. Jake aveva ammesso che circolavano voci sull'esistenza di quello scheletro. Uno dei volontari che lavoravano agli scavi ne aveva confermata la scoperta. La foto di Kaplan aveva spinto Jake a volare a Montréal e poi a Parigi. A causa di questo scheletro, io stessa mi ero fatta persuadere a venire in Israele. Lerner pensava che lo scheletro fosse quello di Gesù. Si sbagliava. L'età non corrispondeva. A sentire Jake, il reperto veramente importante stava sul ripiano dietro di me. Allora perché decenni di intrighi intorno allo scheletro di Masada? Chi era quest'uomo? Rividi lo scheletro, rubato e probabilmente perso per sempre. Rividi la mia folle corsa sul furgoncino di Jake. Rividi la mia camera setacciata palmo a palmo. La rabbia esplose. Bene. Usalo. Concentrati su di lui. Evita le impossibili ossa scoperte per caso in una tomba del Kidron. Le impossibili ossa che giacciono in vaschette da frigo sul ripiano di una cucina. «Lo scheletro di Masada è definitivamente andato, vero?» domandai. «Non se potrò impedirlo.» Qualcosa attraversò il volto di Jake. Non seppi dire che cosa. «Parlerò con Blotnik, oggi.» «Blotnik è colluso con gli Hevrat Kadisha?» domandò Ryan. Jake non rispose. Fuori si udì il belato di una capra. «A che cosa pensi?» chiesi. Jake aggrottò la fronte. «Cosa?» insistetti. «C'è in ballo qualcosa di più grosso.» Jake si sfregò gli occhi con i palmi delle mani. Aprii la bocca. Ryan attirò il mio sguardo, scuotendo quasi impercetti-
bilmente la testa. Richiusi la bocca. Jake lasciò cadere le mani e gli avambracci crollarono sul piano del tavolo con il rumore di uno schiaffo. «Qui c'è sotto ben più delle solite stronzate sulla risepoltura. Gli Hevrat Kadisha dovevano essere stati allertati. Ci hanno seguito nel Kidron a causa delle ossa di Masada.» Un lungo dito cominciò a tormentare le briciole di pane. «Credo che Yadin sapesse qualcosa sullo scheletro che lo spaventò a morte.» «Qualcosa di che genere?» «Non ne sono sicuro. Ma inviare qualcuno da Israele fino in Canada? Mettere a soqquadro una camera d'albergo? Forse perfino commettere un omicidio? Qui non si tratta solo degli Hevrat Kadisha.» Guardai Jake trasformare un mucchietto di briciole in una lunga linea sottile. Pensai a Yossi Lerner, Avram Ferris e Sylvain Morissonneau. Pensai a Jamal Hasan Abu-Jarur e Muhammed Hazman Shalaideh, i palestinesi parcheggiati fuori dall'abbazia di Sainte-Marie-des-Neiges. Non conoscevo i giocatori. Non conoscevo il campo. Ma il mio istinto mi diceva che Jake aveva ragione. Il gioco era mortale, la meta era lo scheletro di Masada e gli avversari erano determinati a vincere. Sempre la stessa domanda. Chi era stato quello scheletro? «Jake, ascolta.» Buttando i piedi in fuori, Jake si appoggiò completamente indietro sullo schienale, incrociò le braccia e guardò Ryan, poi me. «Avrai i risultati del DNA. Avrai le analisi del tessuto. Quella è la tomba. È importante. Ma per ora, concentriamoci su Masada.» In quel momento il cellulare di Ryan si mise a squillare. Lui controllò il display e si diresse a grandi passi fuori dalla stanza. Mi voltai di nuovo verso Jake. «Haas non ha mai comunicato la scoperta degli scheletri nella grotta, giusto?» «Giusto.» «Che mi dici delle annotazioni sul campo?» Jake scosse la testa. «Qualcuno degli addetti agli scavi teneva un diario, ma annotazioni come le intendiamo tu e io non rientravano nel protocollo a Masada.» «Mi sembra poco professionale» osservai. «Yadin si riuniva tutte le sere con i principali membri del suo staff per discutere gli sviluppi della giornata. Le sessioni venivano registrate e poi
sbobinate.» «Dove sono le trascrizioni?» «All'Istituto di archeologia dell'Università ebraica.» «Sono accessibili?» «Posso fare qualche telefonata.» «Come ti senti?» chiesi. «Al massimo.» «Che ne dici di fare un salto all'università e spulciare vecchi archivi?» «Che ne dici di portare il sudario a Esther Getz e poi raggiungere l'università?» «Dov'è il laboratorio della Getz?» «Al Museo Rockefeller.» «Non è anche la sede dell'Autorità archeologica israeliana?» «Sì» sospiro drammatico. «Perfetto» dissi. «È giunto il momento che io mi presenti a Tovya Blotnik.» «Non ti piacerà.» Mentre sparecchiavo il tavolo, Jake fece le sue chiamate. Stavo avvitando il tappo dei sottaceti quando ricomparve Ryan. Dalla sua faccia si capiva che non aveva ricevuto la migliore delle notizie. «Kaplan ha cambiato versione» disse. Restai in attesa. «Sostiene che qualcuno lo assoldò per far fuori Ferris.» 29 Sbattei le palpebre, posai il vasetto, mi ripresi dallo shock quel tanto che bastava per porre una domanda. «Kaplan era stato pagato per uccidere Ferris?» Rapido cenno di conferma. «Da chi?» «Ci deve ancora confidare questo dettaglio trascurabile.» «Sosteneva di essere innocente. Perché parlare adesso?» «E chi lo sa?» «Friedman gli crede?» «Per ora lo ascolta.» «Sembra la trama di un episodio dei Soprano.» «Puoi ben dirlo.» Ryan diede un'occhiata all'orologio. «Devo tornare
là.» Se n'era andato da cinque minuti quando Jake riemerse dalle sue telefonate. Buone notìzie. Potevamo accedere alle trascrizioni di Masada. E la Getz ci avrebbe ricevuto. Aveva parlato del sudario, ma non delle ossa. Personalmente, nutrivo qualche dubbio sull'opportunità di una simile reticenza, ma quella era Israele, la sua zona, non la mia. E Jake mi assicurò che stava solo guadagnando qualche giorno. E qualche campione osseo preso di straforo, sospettai. Mentre Jake buttava giù due aspirine e io impacchettavo nuovamente il sudano, discutemmo di che cosa fare con le ossa. Gli Hevrat Kadisha non erano evidentemente al corrente della loro esistenza e, dal momento che si erano presi lo scheletro di Masada, non avevano più alcun motivo per tenermi sotto sorveglianza o per pedinarmi. Decidemmo che l'appartamento di Jake era sicuro. Dopo averle riposte sotto chiave nell'armadio degli ossari ce ne andammo. Benché la tipica tensione mascellare tradisse un mal di testa in corso, Jake insisté per mettersi al volante della sua Honda a noleggio. Riattraversando il check-point di Nablus Road, si immise nel traffico in direzione di Sultan Suleiman Street, a Gerusalemme Est. Di fronte all'angolo nord-est delle mura della Città Vecchia, davanti alla Porta Fiorita, imboccò un viale d'accesso che saliva fino a due porte di metallo. Un cartello malandato identificava il Museo Rockefeller in inglese e in ebraico. Jake scese e parlò in un citofono arrugginito. Qualche minuto dopo, le porte si aprirono e facemmo il giro fino al giardino antistante, dalla splendida architettura paesaggistica. Tornammo indietro a piedi fino a un'entrata laterale e io notai un'iscrizione sulle mura esterne dell'edificio: GOVERNO PALESTINESE. MINISTERO DELLE ANTICHITÀ. I tempi cambiano. «Quando è stato costruito l'edificio?» domandai. «Il museo è stato inaugurato nel 1938. Contiene perlopiù antichità riportate alla luce all'epoca del Mandato britannico.» «1919-1948.» L'avevo letto sulla guida di Winston. «È molto bello.» Lo era, in effetti. Pietra calcarea bianca, torrette, giardini e archi. «Ci sono anche dei reperti preistorici. E alcuni ossari da urlo.» Da urlo o no, il posto era deserto. Jake mi guidò attraverso vari saloni fino a una rampa di scale. Il suono
dei nostri passi rimbalzava sordo sui muri di pietra. L'aria era impregnata dell'odore di disinfettante. Al piano di sopra, attraversammo vari ingressi ad arco e girammo a destra in una rientranza. Una targa annunciava l'ufficio di Esther Getz. Jake bussò leggermente, poi aprì la porta. All'altro capo della stanza c'era una donna più o meno della mia età, robusta, con una mandibola che avrebbe potuto spaccare le noci. Appena ci vide, lasciò il microscopio e ci venne incontro con andatura solenne. Jake fece le presentazioni. Io sorrisi e tesi la mano. Esther Getz me la strinse come se potessi essere contagiosa. «Avete portato il sudario?» Jake annuì. La Getz fece spazio su un tavolo. Jake mise al centro i due contenitori da cucina. «Spero che non smentirà...» «Mi rinfreschi la memoria sulla provenienza» tagliò corto lei. Jake descrisse la tomba, senza nominare la località. «Qualunque cosa dirò oggi avrà carattere puramente indicativo.» «Naturale» disse Jake. La Getz sollevò il coperchio di uno dei due contenitori e studiò il sudario. Lo stesso fece con la seconda vaschetta. Poi si mise i guanti e rimosse delicatamente ogni frammento. Quindici minuti dopo era riuscita a svolgere il reperto più piccolo. Li scorgemmo contemporaneamente e, come ragazzini nell'ora di chimica, ci chinammo tutti a guardare. «Capelli.» Non stava parlando con noi, pensava ad alta voce. Un altro quarto d'ora e aveva inserito con le pinzette quasi tutti i capelli in una provetta, tranne una dozzina, che collocò sotto un microscopio. «Tagliati di fresco. Una certa lucentezza. Niente segni di pidocchi o uova.» La Getz sostituì i capelli con il segmento più grande di tessuto. «Semplice tessitura uno a uno.» «Tipico I secolo» esultò Jake alzando il pugno. La Getz riposizionò il frammento e rimise a fuoco: «Le fibre hanno subito una degradazione, ma non vedo l'appiattimento e l'alterazione che mi aspetterei con il lino». «Lana?» chiese Jake.
«Da quel che vedo, dovrei rispondere di sì.» Spostò il reperto avanti e indietro. «Niente imperfezioni del tessuto. Niente buchi. Nessun rammendo.» Pausa. «Strano.» «Che cosa?» il braccio di Jake si fermò a mezz'aria. «La filatura è stata eseguita nel senso opposto a quello tipico in Israele nel I secolo.» «Vale a dire...» «È un filato importato.» «Da?» «Italia o Grecia, direi.» Mezz'ora dopo, stava esaminando il frammento più piccolo. «Bende di lino.» Sollevò la testa. «Perché i due reperti sono stati riposti separatamente?» Jake si voltò verso di me. Replicai senza esitazione. «Il reperto più piccolo proveniva dall'estremità più profonda del loculo ed era associato a frammenti di cranio. Quello più grande proveniva da un punto più vicino all'apertura ed era associato ad altri frammenti.» «Un involucro per la testa, un altro per il corpo» disse Jake; «È esattamente quello che descrive Simon Pietro in Giovanni 20:6-7. "E vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte."» La Getz guardò l'orologio. «Vi rendete conto, naturalmente, che l'Autorità archeologica israeliana deve prendere in custodia i campioni. Potete lasciarli a me.» Non usava mezzi termini. «Naturalmente. La nostra scoperta è documentata» con l'accento sul «nostra». Nemmeno Jake usava mezzi termini. «Richiederò una datazione al carbonio 14.» Jake le rivolse il suo sorriso più disarmante. «Nel frattempo starò sui carboni ardenti in attesa del suo referto.» Contro ogni previsione, la Getz riuscì a resistere al suo fascino. «Come tutti noi» disse, accennando alla porta. Ci stava congedando. Trascinai Jack in corridoio. Prossima fermata, Tovya Blotnik. L'ufficio del direttore dell'Autorità archeologica israeliana era quattro porte più avanti di quello della Getz. Blotnik si alzò in piedi quando entrammo, ma non si mosse da dietro la scrivania. È buffo. Le voci al telefono evocano immagini. A volte indovinano in
pieno, altre volte nemmeno lontanamente. Il direttore dell'Autorità archeologica israeliana era un uomo piccolo, asciutto, col pizzetto e ciuffi di capelli grigi che circondavano uno yarmulke di seta blu. Mi ero immaginata Babbo Natale: somigliava più a una specie di elfo ebreo. Jake mi presentò. Blotnik sembrò stupito; dopo essersi ripreso, si sporse in avanti per stringermi la mano. «Shabbat shalom.» Sorriso nervoso. Voce da Babbo Natale. «Prego, sedetevi.» La scelta era limitata, perché su tutte le sedie tranne due c'erano pile di libri e di giornali. Jake e io prendemmo posto. Blotnik sedette alla sua scrivania. Per la prima volta sembrò notare la mia faccia. Blotnik aprì la bocca, poi la richiuse, incerto su che cosa dire. Poi: «È sopravvissuta al jet lag?». «Sì» dissi «grazie.» Chinò la testa e allargò entrambe le mani sul piano della scrivania. Tutti i suoi movimenti erano bruschi e rapidi. «È stato squisitamente gentile da parte sua venire fin qui a portarmi lo scheletro. Davvero più di quanto era tenuta a fare.» Sorriso da elfo a trentadue denti. «L'avete con voi?» «Non esattamente» disse Jake. Blotnik lo guardò. Jake descrisse l'incidente con gli Hevrat Kadisha, omettendo tutti i particolari riguardanti la tomba. La faccia di Blotnik si afflosciò. «Da non credere.» «Già» glaciale. «Sa come sono gli Hevrat Kadisha.» «Veramente no.» Jake aggrottò le sopracciglia, ma non disse niente. «Dov'è questa tomba?» Blotnik congiunse la punta delle dita. Sulla carta assorbente rimasero due perfette impronte dei palmi. «Nel Kidron.» «E provengono da lì i tessuti di cui mi ha parlato Esther?» «Sì.» Blotnik fece varie altre domande sulla tomba. Jake rispose in termini vaghi e con tono gelido. Blotnik si alzò.
«Sono spiacente, ma siete arrivati proprio mentre stavo per andarmene.» Ci rivolse quello che certamente considerava un sorriso imbarazzato. «Shabbat. Si cerca di sgattaiolare via presto.» «Shabbat shalom» dissi. «Shabbat shalom» disse lui. «E grazie di cuore per aver tentato, dottoressa Brennan. L'Autorità archeologica israeliana è profondamente in debito con lei. Un viaggio così lungo. Una tale perdita. Il suo gesto è davvero rimarchevole.» Ci ritrovammo in corridoio. Sulla strada per l'Università ebraica, Jake e io discutemmo del nostro incontro con Blotnik. «Proprio non ti piace quel tipo» dissi. «È uno snob egoista che pensa solo ai suoi interessi.» «Parla pure liberamente, Jake.» «E non mi fido di lui.» «Perché?» «È professionalmente disonesto.» «In che senso? «Usa il lavoro degli altri, fa pubblicazioni senza tributare il giusto riconoscimento. Devo continuare?» Jake aborriva gli scienziati arrivati che sfruttavano i giovani colleghi o gli studenti. Mi ero già sorbita altre volte le sue filippiche. Lasciai cadere il discorso. «La Getz aveva già riferito a Blotnik del sudario.» «L'avevo previsto, ma era un rischio che ero disposto a correre. Esther è la migliore in fatto di tessuti antichi e ho bisogno della sua autenticazione. Inoltre, se passiamo dalla Getz, diventa impossibile per Blotnik accaparrarsi la scoperta.» «Ma per le ossa non ti fidi di nessuno dei due.» «Nessuno vedrà quelle ossa finché io non avrò in mano una documentazione completa.» «Blotnik non sembrava poi così dispiaciuto per lo scheletro di Masada» dissi. «E non mi è parso sorpreso come mi sarei aspettata.» Jake mi rivolse uno sguardo. «Quando ho chiamato da Montréal, non ho mai menzionato la data del mio arrivo.» «No?» Jake curvò a sinistra. «E il commento sul jet lag?»
«Eh?» «È come se Blotnik sapesse esattamente da quanto sono qui.» Jake fece per parlare, ma io lo interruppi. «E poi gli Hevrat Kadisha. Chiunque si occupi di archeologia in Israele dovrebbe conoscerli bene, no?» «Già!» sbuffò Jake. «L'hai notato anche tu?» «Potrebbe darsi che non sembrasse preoccupato perché lo scheletro in realtà ce l'ha lui?» «Non esageriamo. Quel tizio è un senza palle.» Mi diede un'occhiata. «Ma se è davvero così, lo prenderò a calci in culo da qui a Tel Aviv.» Parlammo anche dei commenti della Getz. «Non è esattamente una donna di spirito, vero?» «Esther è diretta.» Non era il termine che avrei scelto io per definirla. «Però ti è piaciuto quello che ha visto» dissi. «Altroché. Capelli puliti. Niente parassiti. Tessuto importato. E la lana era un lusso a quei tempi. La maggior parte dei cadaveri era avvolta soltanto nelle bende. Chiunque fosse quest'uomo, aveva una certa posizione sociale.» Mi rivolse un'altra occhiata. «E un buco nel calcagno. E parenti con nomi usciti direttamente dai Vangeli.» «Jake, devo ammetterlo, sono scettica. Prima lo scheletro di Masada, ora queste ossa nel sudario. Non è che ti stai convincendo di qualcosa solo perché vuoi disperatamente che sia vero?» «Non ho mai creduto che lo scheletro di Masada appartenesse a Gesù. Quella era l'interpretazione di Lerner, sulla base del pensiero contorto di Donovan Joyce. Sono però convinto che le sue ossa siano di qualcuno che non avrebbe dovuto essere in quella rocca. Qualcuno per la cui presenza gli israeliani, e forse anche il Vaticano, suderanno freddo.» «Un non zelota.» Jake annuì. «Chi?» «È ciò che scopriremo.» Procedemmo in silenzio per un po'. Poi tornai al sudario. «Il sudario che ho trovato nella tomba è simile alla Sindone di Torino?» domandai. «Il lenzuolo di Torino è di lino, e ha una tessitura diagonale più complicata, di tipo tre a uno. Il che ha senso: quel sudario risale al Medio Evo, in un periodo compreso tra il 1260 e il 1390.»
«Datazione al carbonio 14?» Jake annuì. «Sì, è confermata dai laboratori di Tucson, Oxford e Zurigo. E si tratta di un unico sudario per tutto il corpo. Il nostro è diviso in due parti.» «Che cosa si pensa attualmente dell'immagine di Torino?» chiesi. «Probabilmente è il risultato dell'ossidazione e della disidratazione delle fibre di cellulosa del panno stesso.» Un altro colpo per il Vaticano. Impiegammo meno a raggiungere l'università che a trovare un parcheggio. Finalmente, Jake riuscì a far entrare la sua Honda a noleggio in uno spazio concepito per uno scooter e ci dirigemmo a piedi verso l'estremo est del campus. Il sole splendeva in un cielo blu e terso. L'aria sapeva di erba appena tagliata. Camminammo attraverso zone d'ombra e di luce, oltrepassando aule, uffici, dormitori e laboratori. Studenti bevevano caffè ai tavolini all'aperto o girellavano indossando bandane, zaini e zoccoli Birkenstock. Un ragazzino lanciava un frisbee al suo cane. Avremmo potuto essere in qualunque campus di qualunque città del mondo. In cima alla sua collina, il monte Scopus, l'Università ebraica era un'isola di tranquillità in un mare urbano di sentinelle, barricate, smog e cemento. Ma niente in questa terra è immune. Mentre camminavamo, la mia mente sovrapponeva immagini a quel pacifico quadro. Documentario filmato: 31 luglio 2001. Una giornata molto simile a questa. Studenti che davano esami o si iscrivevano ai corsi estivi. Un pacco lasciato su un tavolino del bar. Sette morti, ottanta feriti. Hamas rivendicò la responsabilità: ritorsione per l'assassinio israeliano di Salah Shehadeh a Gaza. Vi avevano perso la vita quattordici palestinesi. E avanti così. La custode all'Istituto di archeologia era una donna di nome Irena Porat. Con una decina d'anni di più e un gusto nel vestire tendente al lanoso e al floreale, aveva un'aria notevolmente meno minacciosa di Esther Getz. Ci fu il consueto scambio di shalom. La Porat parlò con Jake in ebraico. Jake rispose e, presumibilmente, le ricordò la sua telefonata. Mentre le spiegava lo scopo della nostra visita, lei ispezionò una cosa friabile che si era trovata nell'orecchio. Colsi la parola «Masada» e il nome
di Yadin. Quando Jake ebbe finito, la Porat gli pose una domanda. Jake rispose. La donna disse qualcosa, poi accennò a me con la testa. Jake replicò. Chinandosi in avanti, lei gli parlò a bassa voce. Jake annuì con espressione solenne. Mi rivolse il suo miglior sorriso di benvenuto. Io ricambiai, fiduciosa co-cospiratrice. Guidati dalla Porat, scendemmo due rampe di scale e ci ritrovammo in una stanza senza finestre dall'aspetto sinistro. Le pareti e il pavimento erano grigi, il mobilio era costituito da tavoli sgangherati, sedie pieghevoli e file di scaffali dal pavimento al soffitto. Due angoli del locale erano occupati da grandi scatole. «Prego.» La custode puntò il dito-sonda auricolare verso di me, poi verso uno dei tavoli. Mi sedetti. Scomparve insieme a Jake tra gli scaffali. Quando riemersero, Jake reggeva tre grossi raccoglitori marroni di cartone ondulato. La Porat ne trasportava un altro. Lasciò cadere il suo sul tavolo, fornì qualche indicazione, ci rivolse un ultimo sorriso e se ne andò. «Una signora simpatica» dissi. «Ci va un po' pesante con l'angora» disse Jake. Ogni raccoglitore era contrassegnato in ebraico con inchiostro indelebile nero. Jake li mise in fila, scelse il primo e tolse i blocchi per gli appunti che conteneva. Lui ne prese uno, io un altro. Carta semplice, misure europee. Caratteri ebraici su un lato. Sfogliai qualche pagina. Non ci capivo niente. Corso di ebraico d'emergenza. Jake mi scrisse una lista di parole che mi sarebbero servite a individuare i passaggi interessanti: Yoram Tsafrir, Nicu Haas, Grotta 2001, scheletro, osso. Mi mostrò anche come leggere le date. Lui cominciò con il blocco di appunti più vecchio. Io presi il successivo in ordine cronologico. Usando la mia lista, procedetti alla perlustrazione dei fogli, un po' stile «trovate l'intruso»: che cosa sembrava lo stesso? Che cosa appariva diverso? Più volte mi esaltai a vuoto e dovette passare un'ora buona perché mettessi davvero a segno il primo centro.
«Che cos'è questo?» domandai, spingendo il blocco davanti a Jake. Jake diede una scorsa al testo, si chinò in avanti. «È la riunione del 20 ottobre 1963. Parlano della Grotta 2001.» «Che cosa dicono?» «Yoram Tsafrir riferisce sui suoi progressi in un'altra grotta, la 2004. Senti questa.» Pendevo dalle sue labbra. «Tsafrir dice che i reperti sono "... molto più belli dei pezzi trovati nella Grotta 2001 e nella 2002".» «Perciò la Grotta 2001 è stata esplorata prima del 20 ottobre» dissi. «Sì.» «Ma lo scavo non cominciò proprio all'inizio di ottobre?» Jake annuì. «Allora la grotta deve essere stata scoperta durante le prime due settimane di lavori.» «Ma non ne ho trovata menzione fin qui.» Jake aggrottò la fronte. «Tu vai avanti, io riguardo le pagine che ho già fatto.» Il successivo riferimento alla Grotta 2001 era in data 26 novembre 1963, più di un mese dopo. Haas era stato invitato a unirsi al gruppo. «Haas riferisce dei tre scheletri del Sito 8 - che è l'area settentrionale del palazzo - e del Sito 2001 - le ossa della grotta.» Il dito di Jake seguiva le righe di testo. «Dice che ci sono da ventiquattro a ventisei persone e un feto di sei mesi. Quattordici maschi, sei femmine, quattro bambini e alcuni individui non riconoscibili.» «Sappiamo che le cifre non quadrano» dissi. «Giusto» Jake alzò lo sguardo. «Ma soprattutto: dove sono le eventuali discussioni precedenti, sulla grotta e il suo contenuto?» «Forse le abbiamo saltate» dissi. «Forse.» «Rileggiamo tutto ciò che viene prima del 20 ottobre» proposi. Rileggemmo. Non c'era una sola menzione dello scavo o dell'esplorazione della grotta. Ma mi accorsi di una cosa. I fogli erano numerati. In cifre arabe. Quelle potevo leggerle. Tornai a ritroso al periodo in questione. Nella sezione corrispondente alle prime settimane di ottobre mancavano delle pagine.
Con angoscia crescente, ricontrollammo tutti i block-notes di tutti i raccoglitori. Le pagine non erano state archiviate nel posto sbagliato. Erano scomparse. 30 «È permesso portare fuori il materiale d'archivio?» domandai. «No. E la Porat mi ha assicurato che nella raccolta non manca niente.» «Se qualcuno ha preso le pagine, deve essere stato un interno.» Riflettemmo in silenzio. «Yadin annunciò la scoperta degli scheletri del palazzo in una conferenza stampa nel novembre del '63» dissi. «Chiaramente, era interessato ai resti umani.» «Certo. Che cosa ci poteva essere di meglio per convalidare la teoria dei suicidi di Masada?» «Così Yadin parlò delle tre persone trovate sulla cima, nell'area occupata dal gruppo principale. La sua piccola, coraggiosa "famiglia" di zeloti» pronunciai la parola mimando le virgolette «ma ignorò i resti del Sito 2001, le venti e più persone trovate nella grotta sotto la cinta difensiva, sulla punta meridionale della vetta. Su quel gruppo, silenzio stampa totale.» «Non una parola.» «Che cosa disse Yadin ai media?» Jake si massaggiò le tempie con la punta delle dita. Le vene gli pulsavano, blu sotto la pelle bianca. «Non ne sono sicuro.» «Poteva avere dei dubbi circa l'età delle ossa?» «Nel suo primo rapporto della stagione, Yadin aveva dichiarato che nulla di ciò che era contenuto nella grotta indicava un'epoca più tarda del periodo della prima rivolta. E aveva ragione. Le datazioni al carbonio radioattivo - comunicate all'inizio degli anni Novanta - dei pezzi di tessuto frammisti alle ossa, si collocavano tra il 40 e il 115 E.C.» Carte d'archivio mancanti. Scheletri rubati. Un commerciante assassinato. Un prete morto. Era come affacciarsi su una sala tappezzata di specchi inclinati. Che cosa era reale? Che cosa era una distorsione? Che cosa portava a che cos'altro? Di un fatto, però, ero certa.
Un filo invisibile riconduceva tutto alle ossa della grotta. E allo scheletro. Mi accorsi che Jake sbirciava furtivamente l'orologio. «Adesso tu te ne vai a dormire» dissi, facendo scivolare gli appunti nei raccoglitori. «Sto bene.» Ma il suo corpo diceva esattamente il contrario. «Stai cadendo a pezzi davanti a me.» «Ho un dannatissimo mal di testa. Ti spiacerebbe lasciarmi a casa e riconsegnare tu la macchina?» Mi alzai. «Nessun problema.» Jake mi diede una cartina, varie indicazioni e le chiavi della Honda. Non avevo ancora messo piede fuori dal suo appartamento che si era già addormentato. Me la cavo piuttosto bene con le indicazioni e con le cartine. Ma sono un disastro a interpretare segnali sconosciuti in lingue straniere. Per andare da Beit Hanina all'American Colony, avrei dovuto impiegare non più di venti minuti. Un'ora dopo mi ero irrimediabilmente persa. In qualche modo ero arrivata sullo Sderot Yigael Yadin. E mi ritrovai a Sha'arei Yerushalaim senza avere fatto una curva. Verificando il nome di una traversa, mi fermai, distesi la cartina di Jake sul volante e cercai di localizzare la mia posizione. Nel retrovisore, notai una macchina che si accostava al cordolo del marciapiede, una decina di metri dietro di me. La mia mente creò automaticamente un data log. Sedan. Blu scuro. Due occupanti. Un cartello indicava che ero vicina a Tel Aviv Road, ma quale? Sulla mia cartina ce n'erano due. Cercai altri punti di riferimento. Data log. Dalla Sedan non scendeva nessuno. Vidi cartelli che indicavano la stazione centrale degli autobus e un Holiday Inn. Due posti in cui avrei potuto ricevere indicazioni. Finalmente avevo un piano. Ripartii decisa a raggiungere il primo dei due che avessi incontrato sulla mia strada. Data log. La Sedan si mise in moto dietro di me. Sentii una punta di apprensione. Era venerdì e si avvicinava il tramonto. Le strade erano vuote per lo Shabbat.
Svoltai a destra. La Sedan svoltò a destra. In vita mia, mi avevano seguita due volte. In nessuna delle due occasioni lo scopo era stato promuovere la mia buona salute. Andai a destra, poi a sinistra all'isolato successivo. La Sedan fece lo stesso. La cosa non mi piacque. Afferrando il volante con due mani, accelerai. La Sedan mi tenne dietro. Piegai a sinistra. La Sedan girò l'angolo dietro di me. Svoltai ancora. Ormai mi ero persa in un labirinto di strade secondarie. Solo un furgone in vista. La Sedan accorciò le distanze. Un pensiero si impose: scappa! Accelerai rapidamente e sterzai intorno al furgone, guardando avanti in cerca di un rifugio. Un segno familiare. Una croce rossa. Pronto soccorso. Una clinica? Un ospedale? Non importava, andava bene comunque. Gli occhi tornarono di scatto al retrovisore. La Sedan si stava avvicinando. Scorsi una clinica in mezzo a un piccolo complesso commerciale lungo la strada. Entrando nel parcheggio, posteggiai velocemente e mi gettai sulla portiera. La Sedan mi sfrecciò accanto. Attraverso il finestrino alzato, colsi un'istantanea. Bocca corrucciata. Occhi da vipera. Barba non spuntata da mujahiddin. Mi incontrai con Ryan nella hall dell'albergo, alle sette. A quell'ora, ormai, non ero più nemmeno sicura che mi avessero seguita. La mia stanza era stata rivoltata. Mi aveva aggredita uno sciacallo. Io e Jake eravamo stati presi a sassate. Lo scheletro era stato rubato. Avevamo avuto un incidente col furgone. Durante un lungo bagno caldo, cominciai ad accettare l'idea che i miei poveri nervi avessero una percezione alterata degli eventi. Forse la Sedan faceva semplicemente la mia stessa strada. Forse il guidatore si era perso proprio come me. Forse gli occupanti erano una versione israeliana dei campagnoli imbottiti di testosterone che girano di venerdì sera per le strade di casa nostra. «Non essere ingenua» dissi a me stessa, con un respiro profondo. Quella
macchina aveva un interesse specifico per la mia. Né io né Rayan avevamo voglia di un pasto sostanzioso. L'impiegata della reception ci indicò un ristorante arabo non lontano dall'albergo. Mentre parlava, gli occhi della donna si spostavano di continuo su di me. Quando li incrociavo, si posavano subito altrove. Ebbi la sensazione che volesse dirmi qualcosa. Le rivolsi sguardi amichevoli, d'incoraggiamento, ma qualunque cosa avesse in mente la tenne per sé. Il ristorante era indicato da un'insegna grande come la mia saponetta per il viso. Lo trovammo dopo esserci fermati a chiedere tre volte. Sulla porta, l'addetto, armato, ci fece entrare. L'ambiente era cupo e raccolto. C'erano séparé lungo due pareti e tavoli al centro della sala. La clientela era perlopiù maschile. Le poche donne presenti indossavano lo hijab. Il proprietario non era un fautore delle aree per non fumatori. Ci accompagnarono a un séparé così buio che era impossibile leggere la lista. Diedi un'occhiata al menù, poi feci a Ryan un gesto di frustrazione. Il cameriere indossava camicia bianca e pantaloni neri. I denti erano ingialliti e il volto segnato da anni di sigarette. Ryan disse qualcosa in arabo. Colsi la parola «Coca». Il cameriere fece una domanda. Ryan mostrò il pollice in su. Il cameriere scribacchiò sul blocchetto e se ne andò. «Che cosa hai ordinato?» domandai. «Pizza.» «Vocabolario à la Friedman?» «So anche chiedere dov'è la toilette.» «Che tipo?» «American Standard?» «Intendevo la pizza.» «Non ne sono sicuro.» Dissi a Ryan della mia visita al Rockefeller. «La Getz pensa che il sudario sia del I secolo, composto da una parte di lino e da una parte di lana, probabilmente importata.» «Vale a dire costosa.» «E i capelli erano puliti, tagliati di fresco e senza parassiti.» Ryan capì al volo. «Filati pregiati. Cura della persona. Il tizio nel sudario era altolocato e aveva un osso del calcagno perforato. Jake pensa che sia Gesù Cristo.»
Gli raccontai la spiegazione che Jake dava della storia del Kidron e dello Hinnom, la valle dell'inferno. Poi ricapitolai i punti salienti, contando sulle dita: «Un individuo di condizione sociale elevata, trovato nel Kidron in un sepolcro che, secondo Jake, era sicuramente la tomba di famiglia di Gesù. Gli ossari contenuti nella tomba recavano incisi nomi che sembrano usciti direttamente dalle Sacre Scritture. Jake ritiene che la tomba sia il luogo d'origine dell'Ossario di Giacomo, ovvero, la probabile cassetta mortuaria del fratello di Gesù». Abbassai la mano. «Jake è convinto che l'uomo nel sudario sia Gesù di Nazareth.» «Tu che cosa ne pensi?» «Andiamo, Ryan. Quante probabilità ci sono? Pensa alle implicazioni.» Lo facemmo entrambi per un istante. Ryan parlò per primo. «Come si colloca lo scheletro di Masada in tutta questa storia della tomba del Kidron?» «Non credo che c'entri. E questa è un'altra storia. Quante solo le probabilità che due scheletri associati a Gesù Cristo compaiano nello stesso preciso momento?» «Questo non è proprio vero. Lo scheletro fu ritrovato negli anni Sessanta. È solo riemerso di recente.» «Ferris viene ucciso. Kaplan mi mostra la foto. Io lo localizzo, poi escludo che possa essere Gesù. Tre settimane dopo trovo un tizio nel sudario e lui è Gesù Cristo? È assurdo.» «Jake era così ansioso di vedere lo scheletro di Masada che ti ha pagato il viaggio in Israele. Chi pensa che fosse?» «Un qualche personaggio importante che non avrebbe dovuto trovarsi a Masada.» Raccontai a Ryan della mia visita all'Università ebraica e gli riferii delle pagine mancanti dalle trascrizioni degli scavi. «Curioso» disse. Descrissi anche il mio incontro con Tovya Blotnik e menzionai le perplessità di Jake nei confronti di quell'uomo. «Curioso.» Ero incerta se dire a Ryan della Sedan. E se l'intera faccenda fosse stata il prodotto della mia immaginazione? E se non lo era? Meglio sbagliare che beccarsi una sassata in testa. O peggio. Descrissi l'accaduto.
Ryan mi ascoltò. Stava sorridendo? Troppo buio per dirlo. «Probabilmente non era nulla» conclusi. Ryan allungò una mano e la pose sulla mia. «Stai bene?» «Più o meno.» Sfregò il pollice avanti e indietro sulla mia pelle. «Sai che preferirei che non ti avventurassi da sola.» «Lo so» dissi. Il cameriere lasciò cadere sul tavolo due sottobicchieri e parcheggiò su ciascuno una lattina di Coca-Cola ultrazuccherata. Apparentemente, le lezioni di ebraico di Ryan non includevano la parola «Diet». «Niente birra?» chiesi. «Non ce n'è.» «Come lo sai?» «Niente cartelli della birra.» «Non smetti mai di investigare, tu» dissi, sorridendo. «Il crimine non dorme mai.» «Credo che andrò al "Jerusalem Post" domani, a spulciare gli archivi per vedere che cosa diceva Yadin negli anni Sessanta sugli scheletri della grotta di Masada.» «Perché non alla biblioteca dell'università?» «Jake dice che il "Post" conserva i vecchi articoli in raccoglitori divisi per argomenti, dovrebbe essere molto più rapido che stare a perdere la vista sulle microfiches.» «Il "Post" sarà chiuso di sabato» commentò Ryan. Ovviamente aveva ragione. Cambiai argomento. «Come è andato il tuo interrogatorio?» domandai. «Kaplan insiste di essere stato assoldato per uccidere Ferris.» «Da chi?» «Kaplan sostiene che lei non gli ha mai detto il nome» rispose Ryan. «Lei?» Sembrò annuire. «E che cosa gli ha detto questa donna misteriosa?» «Aveva bisogno di un tiratore.» «Perché voleva che Kaplan uccidesse Ferris?» «Perché lo voleva morto.» Alzai gli occhi al cielo. Uno spreco di energie in quel buio. «Quando ha richiesto il suo aiuto?» «Gli pare che fosse la seconda settimana di gennaio.»
«Più o meno all'epoca in cui Ferris ha chiesto a Kaplan di vendere lo scheletro.» «Già.» «Ferris è stato ucciso a metà febbraio.» «Già.» Il cameriere dispose tovaglioli, piatti e posate, poi collocò tra noi una pizza. Era guarnita di olive, pomodori e piccoli affarmi verdi. Decisi che erano capperi. «Come ha fatto la donna a contattarlo?» chiesi, dopo che il cameriere se ne fu andato. «Ha chiamato il negozio di animali.» Ryan si servì una fetta di pizza. «Fammi capire. Un'estranea ha telefonato al negozio, si è informata sui porcellini d'India, poi ha detto: "Oh, a proposito, vorrei che mi facesse fuori un tizio".» «È la sua versione.» «Be', questo sì è curioso.» «È la sua versione.» «La donna ha lasciato un nome?» «No.» «Kaplan non ha saputo dire niente di lei?» «Aveva una voce da cocainomane.» La pizza era eccellente. Dedicai un momento a gustarne i sapori. Pomodoro, cipolla, pepe verde, olive, feta e un aroma che non riuscii a identificare. «Che cosa ha offerto?» «Tre testoni.» «E Kaplan che cosa ha detto?» «Dieci testoni.» «Ha avuto i diecimila dollari?» «La donna ha contrattato: tremila subito, tre dopo il colpo.» «E Kaplan che cosa ha fatto?» «Dice di avere preso i soldi e poi di averle dato buca.» «Le ha tirato il bidone?» «Tanto che cosa poteva fargli, chiamare la polizia?» «Be', ha ancora in mano tre testoni per farlo ammazzare.» «Giusta osservazione.» Ryan si servì il secondo giro. «Kaplan e questa donna si sono mai incontrati faccia a faccia?»
«No. Il denaro è stato lasciato sotto un bidone dell'immondizia a Jarry Park.» «Molto James Bond.» «Lui insiste nel dire che è andata così.» Mangiammo e osservammo la gente intorno a noi. Di fronte avevo una donna, il suo viso sembrava un uovo pallido nella semioscurità. Era tutto ciò che riuscivo a vedere. Il suo hijab le nascondeva i capelli ed era puntato sotto il mento. La camicetta era scura, le maniche lunghe, i polsini abbottonati stretti ai polsi. I nostri occhi si incrociarono. Lei non distolse lo sguardo. Io sì. «Pensavo che Kaplan fosse rigorosamente un colletto bianco» dissi. «Forse si è stufato e ha deciso per un cambiamento di carriera.» «Potrebbe avere inventato l'intera storia per depistarti.» Di nuovo, mangiammo in silenzio. Quando finii, mi appoggiai alla parete. «Poteva essere Miriam Ferris, quella donna?» «Ho fatto la stessa domanda a Kaplan. Quel signore ha risposto negativamente, dicendo che la buona vedova è al di sopra di ogni sospetto.» Ryan appallottolò il tovagliolo e lo gettò sul suo piatto. «Qualche idea?» «Madonna. Katie Couric. La vispa Teresa. Un sacco di donne chiamano ladruncoli da quattro soldi senza precedenti di omicidio e gli offrono del denaro per commetterne uno.» «Sempre più curioso» dissi. 31 «Allah akbar...» Preghiere registrate esplosero fuori dalla mia finestra. Aprii un occhio. L'alba filtrava dalle persiane, avvolgendo ogni cosa nella mia stanza. Una di queste era Ryan. «Sveglio?» «Hamdulillah.» La sua voce era impastata e confusa. «Ah...» dissi. «Sia ringraziato il Signore.» Traduzione bofonchiata. «Quale?» domandai. «Troppo profondo per le cinque del mattino.»
Era una questione profonda. Su cui avevo meditato a lungo dopo che Ryan si era addormentato. «Sono convinta che sia lo scheletro di Masada.» «Il muezzin?» Colpii Ryan con un cuscino. Si rigirò nel letto. «Qualcuno voleva quello scheletro a tal punto che era pronto a uccidere per lui.» «Ferris?» «È stato il primo.» «Vai avanti.» Gli occhi blu di Ryan erano velati di sonno. «Jake ha ragione. Questo va oltre gli Hevrat Kadisha.» «Pensavo che quei ragazzi volessero tutti.» Scossi la testa. «Qui non si tratta di generici morti ebrei, Ryan. Si tratta dello "Scheletro".» «Allora, chi è?» «Chi era» la mia voce era carica di biasimo nei confronti di me stessa. «Non è stata colpa tua.» «L'ho perso.» «Che cosa avresti potuto fare?» «Consegnarlo direttamente all'Autorità archeologica israeliana, invece di trascinarmelo in giro nel Kidron. O perlomeno, prendere qualche misura di sicurezza.» «Non avresti dovuto lasciare la tua mitraglia sul carro armato.» Lo colpii di nuovo. Ryan confiscò il cuscino, si sollevò di scatto e se lo infilò dietro la testa. Mi accoccolai accanto a lui. «I fatti, prego, signora» disse. Era un gioco che facevamo tra noi quando non riuscivamo a raccapezzarci su qualcosa. Cominciai io, elencando i fatti in ordine cronologico. «Nel I secolo E.C. alcune persone morirono e furono sepolte in una grotta a Masada, probabilmente durante i sette anni di occupazione della fortezza da parte degli zeloti. Nel 1963, Yigael Yadin e la sua squadra intrapresero degli scavi in quella grotta, ma non diedero notizia delle ossa che vi trovarono. Nicu Haas, l'antropologo fisico incaricato di analizzare quelle ossa, dichiarò verbalmente a Yadin e ai suoi collaboratori che i resti rappresentavano da ventiquattro a ventisei individui frammischiati. Haas non fece menzione di uno scheletro isolato, articolato e completo, descritto successivamente a Jake Drum da un volontario addetto agli scavi che aveva aiutato a recuperare i resti dalla grotta.»
Ryan raccolse il filo del mio discorso. «Quello scheletro isolato, articolato e completo, che d'ora in poi chiameremo Max, finì al Musée de l'Homme di Parigi. Mittente sconosciuto.» «Nel 1973» ripresi «Yossi Lerner trafugò Max dal museo e lo consegnò ad Avram Ferris.» Ryan proseguì: «Ferris fece entrare Max di nascosto in Canada e, successivamente, lo affidò a padre Sylvain Morissonneau, all'abbazia di Sainte-Marie-des-Neìges». «Il 26 febbraio, Morissonneau ha consegnato Max alla dottoressa Temperance Brennan. Dopo qualche giorno è stato trovato morto.» «Stai saltando dei pezzi» disse Ryan. «È vero.» Ripensai alle date. «Il 15 febbraio, Avram Ferris è stato trovato ucciso a colpi d'arma da fuoco, a Montréal.» «Il 16 febbraio, un uomo di nome Kessler ha consegnato alla dottoressa Brennan la fotografia di uno scheletro che si è scoperto essere Max» disse Ryan. «Si è scoperto che Hirsch Kessler era in realtà Hershel Kaplan, piccolo truffatore e trafficante di antichità.» «Kaplan è fuggito dal Canada ed è stato arrestato in Israele. Tale fuga ha avuto luogo solo qualche giorno prima della morte di padre Morissonneau, il 2 marzo.» «Il 9 marzo» aggiunsi «Ryan e Brennan arrivano in Israele. Il giorno dopo Drum porta Brennan a esplorare una tomba e Max viene sottratto dagli Hevrat Kadisha. Probabilmente. Quello stesso giorno la camera di Brennan viene frugata da cima a fondo.» «Il giorno seguente, 11 marzo, nel corso di un abile interrogatorio» Ryan sfoderò il suo sorriso più umile «Kaplan ammette che Ferris gli aveva chiesto di vendere Max. Sostiene di avere sparso la voce circa la disponibilità dello scheletro tra l'inizio e la metà di gennaio.» «Quello stesso giorno» continuò «Brennan viene seguita da due uomini, all'apparenza musulmani. Oh, e ci stavamo dimenticando di Jamal Hasan Abu-Jarur e Muhammed Hazman Shalaideh.» «Avvistati in macchina mentre sostavano fuori dall'abbazia di SainteMarie-des-Neiges» dissi io. «"Turisti"» Ryan mimò le virgolette. «Cronologicamente, questo è avvenuto circa due settimane dopo l'assassinio di Ferris.» «Giusto» concordò Ryan. «Nel corso di un interrogatorio ancor più abi-
le, quello stesso giorno, Kaplan ammette che una donna lo ha pagato per uccidere Ferris, ma nega di conoscere la donna e di essere effettivamente l'esecutore dell'omicidio.» «L'affare è stato concluso all'inizio di gennaio, alcune settimane prima dell'uccisione di Ferris.» Riflettei per un momento. «C'è altro?» «Questi sono i fatti, madame. A meno che tu non voglia includere le ossa nel sudario. Ma non sembra esserci un nesso con Max o Ferris.» «Vero.» Diedi inizio alla fase due del gioco. «Protagonisti?» Cominciò Ryan. «Yossi Lerner, ebreo ortodosso e liberatore di Masada Max.» «Avram Ferris, vittima di omicidio ed ex possessore di Max» aggiunsi io. «Hershel Kaplan, noto anche come Hirsch Kessler, sospettato di omicidio e aspirante venditore di Max.» «Miriam Ferris, vedova inconsolabile legata a Hershel Kaplan.» «E beneficiaria dei quattro milioni di dollari dell'assicurazione.» «Già.» «Sylvain Morissonneau, possibile vittima di omicidio ed ex possessore di Max.» «La donna misteriosa di Kaplan.» «Brava» disse Ryan. «Personaggi minori?» Ryan ci pensò su. «Il signor Litvak, contatto israeliano e accusatore di Kaplan.» «Che cosa c'entra?» domandai. «È un'altra comparsa con un interesse per Max» disse Ryan. «Okay, allora Tovya Blotnik.» «Il direttore dell'Autorità archeologica israeliana?» «Stesso ragionamento.» «Jake Drum» disse Ryan. «Neanche per sogno» dissi io. Alzò le spalle. «Altri personaggi?» «Dora Ferris, madre della vittima.» «Courtney Purviance, dipendente della vittima.» «Questo gioco sta diventando un po' stupido.» «Vero» concordai. «Ma una cosa è chiara. In un modo o nell'altro si arriva sempre a Max.»
«Ipotesi?» Ryan aprì la fase tre. Cominciai io. «Proposta numero uno. Un gruppo di ebrei ultra-ortodossi ha scoperto l'identità di Max e teme che la sua presenza a Masada possa macchiare l'immagine del luogo sacro del giudaismo.» «Ma sappiamo che Max non è Gesù Cristo, perciò, chi potrebbe essere?» «Un nazareno. Supponi che questo gruppo di ultra-ortodossi abbia saputo che le persone nella grotta non stavano con il grappo principale degli zeloti. Di fatto, erano seguaci ebrei di Gesù, magari perfino membri della sua famiglia.» «Yadin sapeva questo? E l'Autorità archeologica israeliana?» «Così si spiegherebbe la riluttanza di Yadin a parlare dei resti della grotta e il rifiuto del governo di approfondire l'esame dei reperti.» «Dimmelo un'altra volta. Perché i seguaci di Gesù a Masada sarebbero un male?» «Gli israeliani hanno fatto di Masada un simbolo della libertà degli ebrei e della resistenza alle forze esterne. E adesso salta fuori che ci vivevano dei cristiani, ebrei o meno? Credevano di avere riseppellito le ossa degli ultimi difensori di Masada, e invece sotto il loro monumento ci sono alcuni dei primi cristiani? Sarebbe un'idea davvero insopportabile, specialmente per gli ebrei di Israele.» «La prima proposta suggerisce che qualche frangia di cappelli neri sia decisa a fare di tutto per passare la vicenda sotto silenzio?» «La sto solo buttando lì.» Mi tornò in mente la strana teoria di Donovan Joyce e la reazione di Lerner. «Ricordi il libro che stavo leggendo, quello intitolato The Jesus Scroll?» «Quello su Gesù che raggiunge una veneranda età?» «Sì» dissi. Alzai due dita. «Proposta numero due. Un gruppo di militanti cristiani di destra ha saputo dell'esistenza di Max e crede che sia Gesù. Ha paura che lo scheletro possa essere usato per invalidare le Scritture.» «Yossi Lerner ne era convinto» disse Ryan. «Sì» gli risposi. «E forse Ferris. E, un tempo, perfino Morissonneau.» «Ma Max non è Gesù Cristo.» «Noi sappiamo che Max non può essere Gesù. Ma Lerner era sicuro che lo fosse, e guarda come ha reagito. Forse lo pensano anche altri e adesso sono disposti a giocare pesante per far sparire quelle ossa.» «Proposta numero tre.» Ryan ribaltò la prospettiva del mio scenario.
«Un gruppo di fondamentalisti islamici ha saputo dell'esistenza di Max ed è convinto che sia Gesù. Vuole usare le ossa per minare la teologia cristiana.» «Come?» «La presenza di Gesù a Masada scardinerebbe il concetto centrale della resurrezione. Che cosa vuoi di più per fare lo sgambetto al cristianesimo?» «E quei fanatici musulmani non si fermeranno davanti a niente per mettere le mani su Max. Il ragionamento fila.» Immaginai Sylvain Morissonneau nel suo ufficio all'abbazia di SainteMarie-des-Neiges. Annotai mentalmente di chiamare LaManche per sapere se erano state ordinate esumazione e autopsia. «Proposta numero quattro.» Un ibrido della mia numero due e della numero tre di Ryan. «Un gruppo di fondamentalisti islamici ha saputo dell'esistenza di Max ed è convinto che sia un nazareno, forse perfino un membro della famiglia di Gesù. Teme che cristiani ed ebrei possano entrambi far propria questa scoperta, reinterpretando Masada in termini di zeloti e nazareni che combattono fianco a fianco contro il nemico comune. Teme che lo scheletro possa essere usato per dar vita a una recrudescenza di fervore religioso nel mondo giudaico-cristiano.» «E ha giurato di impedirlo» aggiunse Ryan. «Fila anche così.» Dedicammo un momento a considerare le nostre ipotesi. Fanatici cristiani, ebrei o musulmani convinti che le ossa siano quelle di Gesù o di uno dei suoi familiari o seguaci? Le supposizioni erano tutte ugualmente spaventose. Fu Ryan a rompere il silenzio. «Allora chi è la donna misteriosa di Kaplan?» domandò. «E come si ricollega a Ferris? E a Max?» «Ottime domande, detective.» «Aspetto i tabulati telefonici per questo pomeriggio.» Ryan mi trasse a sé. «Friedman vuole tenere Kaplan sulle spine per un giorno.» «Le spine possono dare buoni risultati» osservai. Mi baciò la guancia. «Credo che siamo sulla strada giusta, Ryan.» «Anche se sei sulla strada giusta, verrai travolto se te ne resti lì seduto.» «Will Rogers» riconobbi la citazione. Un altro gioco. Ryan mi passò la mano dietro al collo. «Non c'è molto da fare durante lo Shabbat.»
Le sue labbra mi sfiorarono l'orecchio. «Giorno di riposo» concordai. «C'è ben poco su cui potremmo indagare in questo momento.» «Mmh» dissi. «Mi sa che hai ragione.» «Ma ho un'altra ottima domanda» bisbigliò Ryan. Io avevo un'ottima risposta. Si! All'aeroporto di Toronto avevo notato un libro sul tao del sesso, della salute e della longevità. Non l'avevo comprato, ma a quel ritmo, pensai, sarei arrivata a centottant'anni. Soltanto la respirazione profonda doveva avermi allungato la vita di una decina d'anni. Dopo la colazione e una discussione sull'opportunità che andassi da sola fino a Beit Hanina, Ryan si diresse alla centrale di polizia mentre io riconsegnai la Honda di Jake all'autonoleggio e poi presi un taxi per Beit Hanina. Jake era di umore migliore di quando l'avevo lasciato. «Ho qualcosa che ti piacerà» disse, sventolando un foglio sopra la sua testa. «La ricetta di James Beard per il pasticcio di pernice.» Jake abbassò la mano. «Le tue abrasioni stanno migliorando.» «Grazie.» «Stai usando qualche trattamento cutaneo o di altro tipo?» «Crema idratante.» Accennai al foglio con un'alzata del mento. «Che cos'hai lì?» «Un promemoria di Haas a Yadin, che contiene appunti sulle ossa della Grotta 2001.» Jake si sporse in avanti e mi guardò socchiudendo gli occhi. «Solo l'idratante?» Restituii lo sguardo. «Linea Pelle Radiosa.» «Nessuna cura?» Nessuna di cui mi andasse di parlare. «Fammi vedere il promemoria.» Allungai la mano. Jake lasciò andare il foglio. Le annotazioni erano scritte a mano in ebraico. «Da quanto tempo lo hai?» «Un paio d'anni.» Lo fulminai con lo sguardo. «Arrivò in mezzo a tutta una serie di materiali che avevo richiesto su
quella sinagoga del I secolo che sto scavando. Probabilmente perché a Masada c'è una sinagoga del I secolo. Mi è venuto in mente mentre facevo colazione. Ricordavo vagamente di avere avuto sotto gli occhi un promemoria di Haas. Non c'entrava minimamente con il sito di Talpiot, perciò l'avevo messo da parte. Ho cercato a ritroso nei miei archivi ed eccolo lì. Non l'avevo mai veramente letto fino a stamattina.» «Haas nomina lo scheletro isolato?» «No. In effetti, dal promemoria appare chiaro che non ha mai visto lo scheletro.» Sorriso a trentadue denti. «Però cita delle ossa di maiale.» «Ossa di maiale?» Cenno di conferma. «Che cosa dice?» Jake tradusse, leggendo: «"Questo non ha niente a che vedere con l'enigma del tallit del maiale"». «Che significa?» «Non lo so, ma fa riferimento a un "enigma" o "problema" del tallit del maiale per ben due volte.» «Che cosa ci facevano delle ossa di suino a Masada? E che cosa ha a che vedere questo con la Grotta 2001?» Jake ignorò le mie domande. «Un'altra cosa. Yadin stimò che ci fossero più di venti scheletri nella grotta, ma Haas classifica solo 220 singole ossa. Le pone in due categorie: quelle di cui si può dire con esattezza l'età e quelle la cui età è meno chiara.» Tradusse ancora dal promemoria. «Nella prima categoria elenca 104 ossa di vecchio, 33 di adulto in età matura, 24 di giovane e 7 di bambino» Jake alzò lo sguardo. «Dice che sei delle ossa appartenevano a donne.» Nello scheletro umano adulto ci sono 206 ossa. Feci qualche rapido calcolo. «Haas ha catalogato 220 ossa. Ciò vorrebbe dire che il 96 per cento del totale mancava.» Guardai Jake che si masticava una pellicina alla base del pollice. «Hai una copia della foto contenuta nel libro di Yadin?» Jake andò all'archivio e tornò con una stampa 13x8 in bianco e nero. «Cinque crani» dissi. «Un'altra incoerenza» disse Jake. «Tsafrir, nel suo diario sul campo, scrisse che c'erano da dieci a quindici scheletri nella grotta, non più di venti, non cinque.»
Non lo stavo veramente ascoltando. Qualcosa, nella foto, aveva attirato la mia attenzione. Qualcosa di familiare. Qualcosa di sbagliato. «Si può vedere ingrandita?» Jake mi accompagnò nella stanza sul retro. Mi sedetti a un microscopio stereoscopico, accesi la luce, e misi a fuoco il cranio centrale. «Che mi venga un colpo.» «Cosa?» Aumentai l'ingrandimento, mi posizionai sull'angolo in alto a sinistra della foto e, lentamente, la feci scorrere da un capo all'altro. A un certo punto, Jake disse qualcosa. Gli risposi di sì. Un momento dopo, mi accorsi che non c'era più. A ogni dettaglio sgranato sentivo crescere la mia apprensione, la stessa che avevo avvertito notando il dente sproporzionato di Max. Non se n'era accorto nessuno? Gli esperti si erano sbagliati? Mi sbagliavo io? Ricominciai da capo, partendo dall'angolo in alto a sinistra. Venti minuti dopo, ricaddi sulla sedia. Non mi sbagliavo. 32 Jake era in cucina, che buttava giù aspirine. «Questi corpi non sono stati semplicemente gettati nella grotta». Indicai la foto di Yadin. «Sono stati sepolti. Dentro tombe.» «Non ci credo!» Posai la foto sul banco. «Guarda i piedi e le mani.» «Le ossa sono articolate» disse Jake. «Sono disposte in posizione anatomica.» «Il che indica che almeno alcuni di questi sono stati inumati.» «Nessuno ha mai interpretato il sito in questo modo. Perché tutto il resto è sottosopra?» «Guarda le ossa lunghe. Qui.» Con una penna, indicai un forellino. «E qui.» Ne indicai un altro. «Impronte di denti?» «Ci puoi scommettere.» Picchiettai alcune ossa e dei lunghi frammenti seghettati. «Questi sono stati frantumati per estrarre il midollo. E guarda
questo.» Spostai la penna su un foro alla base di uno dei crani. «Qualche creatura deve aver cercato di mangiare il cervello.» «Cosa stai dicendo?» «Questa non era una fossa comune. Era un piccolo cimitero visitato da animali. I soldati romani non si limitavano a gettare i cadaveri nella grotta dopo l'assedio. Si premuravano di scavare tombe e di seppellire i corpi. Poi gli animali li dissotterravano.» «Se la grotta veniva usata come cimitero, allora perché le pentole, le lampade e i resti di oggetti domestici?» «È possibile che il sito sia stato abitato in un certo periodo, e che sia stato poi trasformato in cimitero. O forse la gente viveva in una grotta adiacente e utilizzava questa per seppellire i morti e gettare i rifiuti. Insomma, che ne so. Sei tu l'archeologo. Ma la presenza di un cimitero fa pensare che l'ipotesi secondo la quale furono i soldati romani a gettare i cadaveri sia sbagliata.» Jake sembrava ancora scettico. «La predazione a opera di iene e sciacalli è stato un problema per secoli. Nell'antichità, sia le tombe ebraiche, sia quelle cristiane nel nord del Negev venivano coperte da lastroni per evitare che gli animali dissotterrassero i corpi. Ancora oggi i beduini usano le pietre.» «Guardando questa fotografia, credo che ci fossero due o tre tombe singole e magari una fossa comune di cinque o sei individui» dissi io. «È probabile che gli assalti siano avvenuti poco dopo le inumazioni. Per questo tutto è così caotico.» «È noto che le iene trascinano i resti fino alle loro tane.» Sembrava un po' meno scettico. «Questo spiegherebbe il gran numero di ossa mancanti.» «Esattamente.» «Okay. La grotta conteneva delle tombe. E allora? Non sappiamo ancora a chi appartenessero.» «No» ammisi. «Il promemoria di Haas fa riferimento a ossa di maiale. In tal caso le tombe potrebbero non essere ebraiche?» Jake scrollò le spalle ossute. «Haas parla di un enigma del tallit del maiale, qualunque cosa significhi, ma non è chiaro dove furono rinvenuti il maiale e lo scialle per la preghiera. Le ossa di maiale trovate nella grotta potrebbero indicare che i cadaveri sono quelli di soldati romani. Quest'interpretazione ha dei sostenitori. Oppure potrebbero suggerire che le ossa appartenevano a monaci bizantini. I monaci avevano costituito una piccola colonia a Masada nel V e VI secolo.»
«Secondo Haas, i resti rinvenuti nella grotta comprendevano sei donne e un feto di sei mesi. Non mi sembrano soldati romani, né monaci» obiettai. «E ricorda: la stoffa trovata insieme alle ossa risaliva a un periodo compreso fra il 40 e il 115 E.C. Decisamente troppo presto per i monaci.» Jake si concentrò nuovamente sulla foto. «La tua teoria che si tratti di un cimitero visitato da animali ha senso, Tempe. Ti ricordi gli scheletri del palazzo?» Certo che me li ricordavo. «Nel suo libro, Yadin lascia intendere di aver trovato tre diversi individui, un ragazzo, una donna e un bambino. E conclude, molto drammaticamente direi, che gli scheletri del palazzo erano quelli degli ultimi difensori di Masada.» «Ed è inesatto?» «È un po' azzardato. Non molto tempo fa ho avuto la possibilità di esaminare prove di archivio relative ai siti del palazzo del nord, compresi tutti i diari e le foto. Mi aspettavo di vedere tre scheletri distinti, e invece le ossa erano sparpagliate e molto frammentate. Aspetta un attimo.» Jake posò la foto e prese il promemoria di Haas. «Lo sapevo. Anche Haas parla degli scheletri del palazzo. Descrive entrambi i maschi come adulti, uno di circa ventidue anni, l'altro sulla quarantina.» «Non il bambino descritto da Yadin.» «No. E, se ricordo bene, un maschio era rappresentato solo da gambe e piedi.» Feci per parlare, ma Jake mi interruppe. «E un'altra cosa. Il diario di campo di Yadin menzionava la presenza di sterco animale sul sito del palazzo.» «È possibile che le iene o gli sciacalli abbiano trascinato fin lì tre cadaveri incompleti prelevati da qualche altra parte.» «Un quadro ben diverso da quello della famigliola coraggiosa che si sacrifica per una nobile causa.» Tutt'a un tratto, capii cosa non mi quadrava a proposito degli scheletri del palazzo. «Rifletti, Jake. Dopo la presa di Masada, i romani vi abitarono per trentotto anni. Secondo te, avrebbero lasciato dei cadaveri sparsi qua e là in uno dei lussuosi palazzi di Erode?» «Può darsi che i palazzi siano caduti in rovina durante l'occupazione zelota. Ma hai ragione. Non è possibile.»
«Yadin voleva a tutti i costi che gli scheletri del palazzo fossero una famiglia ebrea ribelle. Si è preso delle libertà nell'interpretare le ossa, e poi ha annunciato la scoperta alla stampa. Quindi perché tanta cautela riguardo agli scheletri della grotta?» «Forse Yadin era a conoscenza delle ossa di maiale sin dall'inizio» disse Jake. «Forse la loro presenza minava le sue certezze sull'identità degli scheletri della grotta. Forse sospettava che potessero non essere ebrei. Forse pensava che fossero soldati romani. O qualche gruppo esterno che viveva a Masada durante l'occupazione ma non faceva parte del gruppo zelota principale.» «Forse Yadin era consapevole di altro» osservai, pensando a Max. «Forse era proprio il contrario. Forse Yadin, o qualcuno del suo staff, sapeva esattamente chi era sepolto nella grotta.» Jake indovinò il mio pensiero. «L'unico scheletro articolato.» «Quello scheletro non è mai stato spedito a Haas con il resto delle ossa.» «È stato fatto uscire di nascosto da Israele e inviato a Parigi.» «Dove è stato dimenticato fra le collezioni del Musée de l'Homme, e scoperto da Yossi Lerner dieci anni dopo.» «Dopo essersi imbattuto nello scheletro, Lerner si è imbattuto anche nel libro di Donovan Joyce, ed era così convinto del potenziale esplosivo dello scheletro che lo rubò.» «E adesso lo scheletro è stato rubato di nuovo. Haas fa riferimento a uno scheletro completo in qualche punto del suo promemoria?» Jake scosse la testa. «Credi che il riferimento alle ossa di maiale sia rilevante?» «Non lo so.» «Che cosa intendeva Haas con "l'enigma del tallit del maiale"?» «Non lo so.» Altre domande senza risposta. E quella più importante di tutte. Chi diavolo era Max? Ryan passò a prendermi alle undici con l'auto di Friedman. Ringraziandomi di nuovo per aver restituito la sua macchina a noleggio, Jake si trascinò a letto. Io e Ryan tornammo all'American Colony. «L'umore è migliorato» disse Ryan. «Ma è ancora un po' intontito.» «Non sono ancora passate quarantott'ore. Dagli tempo.»
«Il fatto è che era un po' intontito già pr...» «Ricevuto.» Dissi a Ryan del promemoria di Haas e del suo riferimento a un enigma del tallit del maiale e che dal suo inventario emergeva che non aveva mai visto Max. Confidai a Ryan la mia convinzione che i corpi fossero stati sepolti, non gettati nella grotta, e che le tombe fossero state in seguito visitate da animali. Mi chiese cosa volesse dire. Io non ero in grado di rispondere se non mettendo in discussione le tradizionali interpretazioni di Masada. «Sei riuscito a procurarti i tabulati telefonici?» «Sissignora.» Ryan si batté la mano sul taschino della giacca. «Ci vuole sempre così tanto per avere dei tabulati?» «Devi avere un mandato. Una volta ottenuto, la compagnia telefonica canadese va avanti come un carro armato. Ho chiesto le chiamate in entrata e in uscita fino allo scorso novembre, e ho detto di conservare le liste finché non avessero identificato ogni chiamata.» «Quindi?» «La casa e l'ufficio di Ferris. Il negozio e l'appartamento di Kaplan.» «E i cellulari?» «Per fortuna, non abbiamo a che fare con i cellulari.» «Il che semplifica le cose.» «Decisamente.» «E?» «Ho dato solo un'occhiata al fax. Ho pensato che potremmo lavorare qui oggi pomeriggio.» «Vuoi che lo esaminiamo insieme?» «Che ne dici?» Perché no? Novanta minuti dopo capii. In un mese un individuo medio fa e riceve abbastanza chiamate da riempire fra i due e i quattro fogli. Stampati in caratteri minuscoli. Noi dovevamo esaminare due ditte e due residenze private, e un periodo di quattro mesi e mezzo. Un'impresa non da poco. Come procedere? Dopo qualche discussione, avevamo deciso di comporre la disputa scientificamente. Testa: per ordine di tempo. Croce: per abbonato. La moneta aveva optato per l'approccio cronologico.
Cominciammo da novembre. Io presi la casa di Ferris e Les Imports Ashkenazim, Ryan prese l'appartamento di Kaplan e le Centre d'Animaux Kaplan. Nella prima ora scoprimmo quanto segue. Hersh Kaplan non era l'uomo più popolare della città. L'unica persona che lo chiamò a casa a novembre fu Mike Hinson, il funzionario addetto alla sua sorveglianza. Idem per le chiamate in uscita. Al Centre d'Animaux Kaplan quasi tutti coloro che avevano chiamato erano venditori di animali, di cibo e prodotti per animali o gente del quartiere, probabilmente clienti. A casa Ferris, c'erano chiamate in entrata e in uscita fra Dora, i fratelli, un macellaio, un alimentari kosher, un tempio. Nessuna sorpresa. A Mirabel, c'erano chiamate da e verso fornitori, negozi e templi in tutto il Canada orientale. C'erano anche diverse chiamate in Israele. Courtney Purviance chiamava il magazzino, o riceveva telefonate a casa. Miriam si faceva viva, ma meno spesso. Avram chiamava raramente il suo appartamento a Côte-des-Neiges. Dopo tre ore scoprimmo che l'andamento di dicembre deviava leggermente da quello di novembre. Verso la fine del mese, i Ferris avevano effettuato numerose chiamate da casa verso un'agenzia di viaggi locale. Avevano contattato anche l'Hotel Renaissance Boca Raton. Il Renaissance era stato chiamato due volte anche dal magazzino. Alle tre, mi appoggiai allo schienale della sedia, con un mal di testa che cominciava a pulsarmi nelle tempie. Ryan, seduto accanto a me, posò il pennarello e si strofinò gli occhi. «Pausa pranzo?» Io annuii. Scendemmo di sotto e andammo al ristorante. Nel giro di un'ora eravamo seduti di nuovo alla mia scrivania. Io ripresi in mano i tabulati di Ferris e Ryan quelli di Kaplan. Mezz'ora dopo trovai qualcosa. «È strano.» Ryan alzò la testa. «Il 4 gennaio, Ferris ha chiamato l'abbazia di Sainte-Marie-des-Neiges.» «Il monastero?» Girai il foglio di traverso perché Ryan potesse dargli un'occhiata. «Hanno parlato per quattordici minuti» osservò, poi mi chiese: «Morissonneau ha mai accennato a contatti con Ferris?». Io scossi la testa. «Neanche una parola.»
«Che occhio di lince, soldato.» Ryan sottolineò la riga con l'evidenziatore. Dieci minuti. Quindici. Mezz'ora. «Bingo.» Indicai una chiamata. «Il 7 gennaio, Ferris ha chiamato Kaplan.» Ryan passò dal tabulato del negozio di animali a quello del telefono di casa di Kaplan. «Ventìdue minuti. Magari Ferris ha chiesto a Kaplan di vendere Max al mercato nero?» «La chiamata è stata fatta tre giorni dopo la conversazione tra Ferris e Morissonneau.» «Tre giorni dopo che Ferris ha parlato con qualcuno al monastero.» «Giusto.» «Ma la chiamata del 4 gennaio è durata quasi un quarto d'ora. Ferris deve aver parlato con Morissonneau.» Ryan alzò un dito come sempre quando faceva una citazione. «La supposizione è la madre delle cantonate.» «L'hai inventata te.» «No! Angelo Donghia.» «Che sarebbe...?» «Ho trovato la sua celebre frase sul libro delle citazioni di James Simpson su Google.» Mi riproposi di farlo. «L'autopsia a Ferris è stata fatta il 16 febbraio» disse Ryan. «Quando Kaplan ti ha dato la foto, ti ha detto da quanto tempo la aveva?» «No.» Tornammo ai tabulati. Alcune righe più giù notai un numero vagamente familiare preceduto da un prefisso israeliano. Mi alzai e controllai sull'agenda. «L'8 gennaio Ferris ha chiamato qualcuno dell'Autorità archeologica israeliana.» «Chi?» «Non lo so. È il numero del centralino.» Ryan si appoggiò allo schienale della sedia. «Hai idea del perché lo abbia fatto?» «Forse si è offerto di restituire lo scheletro di Masada.» «O di venderlo.» «O forse cercava della documentazione.» «A cosa poteva servirgli?»
«A rassicurarlo sull'autenticità dello scheletro.» «O ad aumentarne il valore.» «L'autenticazione avrebbe fatto proprio questo.» «La prima volta che vi siete parlati, Blotnik ha fatto cenno di essere a conoscenza delle ossa?» Io scossi la testa. Ryan fece un appunto. Passò un'altra mezz'ora. Il fax era sfocato, e i numeri e le lettere erano quasi illeggibili. Avevo il collo indolenzito e mi bruciavano gli occhi. Mi alzai, insofferente, e andai su e giù per la stanza. Mi dissi che era ora di smettere. Ma non seguo quasi mai i miei consigli. Tornai alla scrivania e mi rimisi al lavoro, sentendo la testa pulsare a ogni respiro. Fui la prima ad accorgermene. «Ferris ha telefonato di nuovo a Kaplan il 10.» «Qualcuno ha telefonato di nuovo a Kaplan il 10 dal magazzino di Ferris» puntualizzò Ryan. Forse era il mal di testa. Forse era la noia. Ma la pignoleria di Ryan non mi divertiva più. «Sono un peso, per caso?» Fui più tagliente di quanto volessi. Gli occhi di Ryan si alzarono, azzurri e sorpresi. Mi fissarono per un lungo momento. «Scusa. Vuoi qualcosa?» chiesi. Ryan scosse la testa. Io andai al minibar e presi una Diet Coke. «Kaplan ha ricevuto un'altra chiamata da Ferris il 19» disse Ryan alle mie spalle. Lasciandomi cadere sulla sedia, trovai la chiamata in uscita sul tabulato del magazzino di Ferris. «Ventiquattro minuti. Per preparare il colpaccio, immagino.» Ormai mi sentivo scoppiare la testa. Ryan mi vide premere le dita sulle tempie. Mi mise una mano sulla spalla. «Stacca, se non ce la fai più.» «Sto bene.» Gli occhi di Ryan vagarono sul mio viso. Mi scostò la frangetta dalla fronte. «Non è eccitante quanto la sorveglianza?» «Neanche quanto la mitosi.»
«Ma abbiamo fatto alcune importanti scoperte.» «Ah sì?» Ormai ero un fascio di nervi. «In cinque ore abbiamo scoperto cosa? Che Kaplan ha chiamato Ferris. Che Ferris ha chiamato Kaplan. Capirai. Lo sapevamo già. Ce lo aveva detto Kaplan.» «Ma non sapevamo che Ferris aveva chiamato Morissonneau.» Io sorrisi. «Non sapevamo che Ferris aveva chiamato il monastero.» Ryan alzò una mano. «Siamo grandi.» Io gli diedi un cinque privo di entusiasmo. E con un gomito rovesciai la Coca-Cola, che fece un disastro, inzuppando la scrivania e sgocciolando allegramente sul pavimento. Balzammo in piedi e, mentre io correvo a prendere degli asciugamani, Ryan afferrò i tabulati, li scrollò e li tamponò, e poi mettemmo i fogli ad asciugare sul pavimento del bagno. «Mi dispiace» dissi debolmente. «Aspettiamo che si asciughino e intanto mangiamo qualcosa.» «Non ho fame.» «Devi mangiare.» «No.» «Sì.» «Sembri mia madre.» «L'alimentazione è fondamentale per una buona salute.» «Una buona salute è solamente il modo più lento per morire.» «L'hai rubata.» Forse sì. George Carlin? «Devi mangiare» ripeté Ryan. Decisi di lasciar perdere. Cenammo al ristorante dell'hotel, ma l'atmosfera del nostro piccolo tavolo alcova era fredda e innaturale. Colpa mia. Mi sentivo oppressa, coi nervi a fior di pelle. Parlammo di altre cose: di sua figlia, della mia. Non dell'omicidio, e neanche degli scheletri. Sebbene Ryan ce la mettesse tutta, la conversazione languiva. Una volta tornati di sopra, Ryan mi baciò fuori dalla porta della mia stanza. Io non gli chiesi di entrare e lui non insistette. Rimasi sveglia a lungo quella notte. Non per il mal di testa, né per il muezzin, né per i gatti che si azzuffavano per strada. Non sono un tipo socievole. Non mi sono mai iscritta a un'associazione di volontariato, né a un club di giardinaggio, né a un corso di cucina. Sono
un'ex alcolizzata che non si è mai rivolta all'Alcolisti Anonimi. Non ho niente contro le alleanze. È che mi piace sbrigarmela da sola. Leggo. Assorbo. A poco a poco, penetro il mistero di me stessa. Per esempio, perché, in quel momento, avrei voluto scolarmi una bottiglia di Merlot. L'Alcolisti Anonimi ci definisce vecchi e futuri alcolisti. Altri ci chiamano, ingenuamente, recuperati. Si sbagliano. Non basta tappare la bottiglia per uscirne. Non c'è niente da fare. È scritto nella doppia elica del DNA. Un giorno ti senti la regina del mondo. Il giorno dopo non riesci a trovare un motivo per alzarti dal letto. Una notte dormi come una bambina. Quella dopo rimani sveglia e ti rigiri nel letto, in preda all'ansia, senza sapere perché. Quella era una di quelle notti. Le ore passavano e io restavo lì distesa a fissare il minareto fuori dalla mia finestra buia, chiedendomi chi volesse raggiungere la guglia. Il dio del Corano? Della Bibbia? Della Torah? Della bottiglia? Perché ero stata così brusca con Ryan? Certo, avevamo lavorato per ore e non avevamo scoperto quasi nulla. Certo, avrei preferito risolvere il mistero di Max. Ma perché prendermela con Ryan? Perché desideravo così tanto bere? E perché ero stata così maldestra con la Coca-Cola? Ryan mi avrebbe preso in giro per secoli. Finalmente mi assopii e feci dei sogni sconnessi. Telefoni. Calendari. Numeri, nomi e date incongruenti. Ryan su una Harley. Jake che cacciava degli sciacalli da una grotta. Alle due mi alzai per bere dell'acqua, poi mi sedetti stancamente sul letto. Cosa volevano dire quei sogni? Erano semplicemente una rielaborazione causata dal mal di testa e dalla noia del pomeriggio? O il mio subconscio stava cercando di mandarmi un messaggio? Alla fine, mi addormentai. Mi svegliai più volte, con le lenzuola attorcigliate nei pugni. 33 Non posso dire che mi alzai con il muezzin, ma quasi. Era l'alba. Gli uccelli cantavano. Il mal di testa era sparito, insieme ai miei demoni.
Dopo aver raccolto i fogli dal pavimento del bagno, mi feci una doccia, e mi misi addirittura un po' di fard e di mascara. Alle sette chiamai Ryan. «Mi dispiace per ieri.» «Magari potresti iscriverti a un corso di danza classica.» «Non parlo della Coca-Cola. Parlo di me.» «Sei un fiore profumato, un folletto affascinante, una creatura adorabile e...» «Perché mi sopporti?» «Non sono forse l'essere più galante e più meraviglioso della tua vita?» «Oh, sì.» «E il più sexy.» «Sono proprio una rompiballe.» «Sì. Ma sei la mia rompiballe.» «Mi farò perdonare.» «Culottes?» Ryan è davvero ammirevole. Non molla mai. Mentre facevamo colazione, chiamò Friedman. Kaplan voleva parlare di Ferris. Friedman si offrì di passare a prendere Ryan e di lasciarmi la sua auto. Accettai. Quando tornai di sopra, chiamai Jake, ma non mi rispose. Pensai che stesse ancora dormendo. Aspettare? Neanche per sogno. Erano due giorni che aspettavo. La sede del «Jerusalem Post» si trova nei pressi di Yirmeyahu Street, un'arteria principale che inizia all'altezza dell'autostrada di Tel Aviv e si snoda nei quartieri religiosi del nord di Gerusalemme per poi confluire in Rabbi Meir Bar Ilan Street, celebre per la violenta intifada del sabato. Che tu fossi ebreo o meno, quella gente non voleva che guidassi nel loro giorno sacro. Ironia della sorte, nel mio vagabondare di venerdì ero passata a pochi metri dal «Post». Parcheggiai e mi diressi verso l'edificio, guardandomi le spalle da poliziotti e jihadisto. Dalla cartina di Friedman, sapevo di essere nel quartiere di Romema, all'estremità occidentale di Gerusalemme ovest. Il quartiere non si poteva certo definire turistico, anzi: era orribile, tutto officine e terreni recintati pieni di pneumatici e pezzi di auto arrugginiti. Entrai in un lungo rettangolo basso con la scritta JERUSALEM POST incisa sul lato. Dal punto di vista architettonico, l'edificio aveva il fascino di un hangar. Dopo molti addetti alla sicurezza e molti shalom, mi fu detto di scendere
nel seminterrato. L'archivista era una donna sulla quarantina, con dei baffetti chiari e delle tracce di rossetto agli angoli della bocca. Aveva i capelli di un biondo giallastro e una ricrescita di due centimetri. «Shalom.» «Shalom.» «Mi hanno detto che conservate vecchi articoli divisi per argomento.» «Sì.» «C'è per caso un dossier Masada?» «Sì.» «Vorrei consultarlo, se è possibile.» «Oggi?» Il suo tono lasciava intendere che, piuttosto che darli a me, avrebbe preferito lasciare i documenti nelle mani di bambini dell'asilo muniti di pennarelli. «Sì, grazie.» «Il compito principale del mio staff consiste nel trasferire l'archivio online.» «Dev'essere un lavoro enorme» osservai, curvando le spalle per esprimere la mia solidarietà. «Ma così prezioso.» «Abbiamo del materiale che risale all'epoca in cui il giornale si chiamava "Palestinian Post".» «Capisco» dissi, con un sorriso smagliante. «Io non ho fretta.» «Non può prenderlo in prestito.» «Certo che no» dissi, con un'espressione adeguatamente scandalizzata. «Ha due documenti d'identità?» Le mostrai il passaporto e il tesserino della facoltà di UNCC. Lei li studiò. «Sta facendo ricerche per un libro?» «Più o meno.» Indicò uno dei lunghi tavoli di legno. «Attenda lì.» Poi, facendo il giro del banco, la signora archivista si diresse verso una fila di schedari di metallo, aprì un cassetto e ne estrasse un corposo dossier. Lo depose sul mio tavolo con l'ombra di un sorriso. «Faccia pure con calma.» I ritagli erano stati incollati su pagine bianche. Erano decine. Accanto a ciascun articolo, era stata scritta una data e, in molti, era stata cerchiata la parola «Masada», sia nei titoli sia nel corpo del testo. Per mezzogiorno, avevo scoperto tre cose importanti. Primo, Jake non stava esagerando. Fatta eccezione per un breve accenno
nel corso di una conferenza stampa indetta in occasione della seconda stagione di scavi, i ritrovamenti della grotta non furono mai riportati dai media. Nel novembre del '64 il «Jerusalem Post» aveva persino una «Sezione Masada» in cui Yadin descriveva tutte le sensazionali scoperte della prima stagione: mosaici, pergamene, la sinagoga, i mikveh, gli scheletri del palazzo. Ma non una parola sulle ossa della grotta. Secondo, Yadin sapeva delle ossa di inaiale. Un articolo del marzo '69 riportava una sua dichiarazione secondo la quale a Masada fra i vari resti umani erano state rinvenute anche ossa animali, comprese quelle di maiali. Altrove, Yadin sosteneva che, secondo i funzionari del ministero per gli Affari religiosi, era possibile che i maiali venissero allevati a Masada per contribuire allo smaltimento dei rifiuti. A quanto pareva, era una pratica diffusa anche negli anni Quaranta nel ghetto di Varsavia. Non capivo. Se gli zeloti avevano dei problemi con i rifiuti, avrebbero potuto buttarli via e lasciare che se ne occupassero i romani. Yadin, inoltre, non smentì la dichiarazione resa nel '69. In un'intervista del 1981 disse a un cronista del «Post» che nel 1969 aveva informato il rabbino capo Yehuda Unterman che non poteva garantire che i resti della Grotta 2001 fossero ebrei, poiché erano misti a ossa di maiale. Terzo, Yadin affermò che sui resti della grotta non fu mai effettuata la datazione al carbonio 14. Nella stessa intervista dell'81 in cui aveva accennato alle ossa di maiale, dichiarò che il test non era stato richiesto, e che non spettava a lui effettuarlo. Un antropologo imputò quella scelta ai costi elevati. Era quella l'intervista di cui si ricordava Jake. Mi appoggiai allo schienale, riflettendo. Era evidente che Yadin dubitava che gli scheletri della grotta appartenessero a zeloti ebrei. Tuttavia, non aveva mai prelevato campioni di ossa perché venissero sottoposti alla datazione al carbonio. Perché? Il test non era poi così costoso. Cosa sospettava Yadin? O cosa sapeva? Lui o qualche membro del suo staff avevano forse indovinato l'identità degli scheletri? E di Max? Cominciai a rimettere le pagine nella cartellina. Forse Yadin o qualche membro del suo staff aveva effettivamente sottoposto alcuni campioni alla datazione al carbonio? Forse qualcuno aveva utilizzato una richiesta di datazione al carbonio o di qualche altra analisi come copertura per far uscire dal Paese prove scomode? Prove scomode come Max? Era possibile che qualcuno avesse spedito Max a Parigi per nasconderlo?
O per farlo sparire? Sapevo già quale sarebbe stata la mia prossima tappa. Come in occasione della mia prima visita, rimasi colpita da quanto il monte Scopus somigliasse agli altri campus universitari. La domenica pomeriggio era deserto. Ciononostante, era più facile essere ricevuti dal papa che trovare un parcheggio. Parcheggiai l'auto nello stesso punto in cui la volta precedente Jake aveva infilato la Honda e mi diressi speditamente verso la biblioteca. Dopo aver passato i controlli degli addetti alla sicurezza, chiesi dove fosse la sezione periodici, individuai la rivista «Radiocarbon» e presi tutti i numeri pubblicati nei primi anni Sessanta. Quando riemersi dalle scaffalature, trovai un posto a sedere e cominciai a cercare, numero per numero. Mi ci volle meno di un'ora. Mi appoggiai allo schienale della sedia, fissando i miei appunti, come un'allieva brillante che ha avuto un'intuizione e non ha idea di cosa significhi. Riposi le riviste sugli scaffali e me ne andai in tutta fretta. Jake ci mise una vita ad aprire il cancello. Aveva gli occhi socchiusi e, sulla guancia sinistra, ancora i segni del cuscino. Entrò nell'appartamento e io lo seguii, fremendo di eccitazione per la scoperta. Lui andò dritto in cucina. Mentre riempiva la teiera e la metteva sul fuoco, io mi sentivo esplodere. «Tè?» «Sì, sì. Conosci la rivista "Radiocarbon"?» Jake annuì. «Ho fatto una rapida ricerca alla biblioteca universitaria. Fra il '61 e il '63 Yadin ha inviato del materiale rinvenuto nel corso degli scavi del sito di Bar Kochba, qui in Israele, al laboratorio di Cambridge.» «Che sito?» «Le grotte di Bar Kochba vicino al Mar Morto? La rivolta fallita degli ebrei contro i romani? II secolo dell'Era Comune? Ma il sito specifico non è importante.» «Ah-ah» disse Jake, mettendo le bustine del tè nelle tazze. «Secondo me Yadin ha spedito quel materiale a Cambridge perché ve-
nisse sottoposto alla datazione al carbonio.» «Ah-ah.» «Mi stai ascoltando?» «Sono tutto orecchi.» «Ho anche letto il dossier Masada negli archivi del "Jerusalem Post".» «Brava, brava.» «In un'intervista del 1981, Yadin disse a un cronista del "Post" che non spettava a lui effettuare una datazione al carbonio.» «Quindi?» «Yadin si è contraddetto.» Jake si portò una mano alla bocca per coprire un rutto. «Yadin ha sempre sostenuto di non aver sottoposto nessun campione di Masada alla datazione al carbonio 14, giusto?» «A quanto ne so.» «Ma Yadin ha spedito all'estero del materiale proveniente da altri siti. E non c'era solo Yadin a Bar Kochba. Nello stesso periodo altri archeologi israeliani usavano laboratori. Come lo U.S. Geological Survey di Washington D.C.» «Latte o zucchero?» «Latte.» Cercavo di resistere all'impulso di scuotere Jack dal suo torpore. «Tu hai detto che negli anni Sessanta un membro della Knesset aveva affermato che gli scheletri di Masada erano stati mandati all'estero.» «Shlomo Lorinez.» «Capisci? Forse Lorinez aveva ragione. È possibile che alcune ossa della Grotta 2001 siano state fatte uscire da Israele.» Jake riempì entrambe le tazze e me ne porse una. «Lo scheletro articolato?» «Esatto.» «Ma è solo una congettura.» «Nel suo promemoria Haas riportava un totale di 220 ossa, giusto?» Jake annuì. «Uno scheletro adulto normale ha 206 ossa. Quindi il conteggio di Haas non poteva comprendere Max.» «Chi è Max?» «Max di Masada. Lo scheletro articolato.» «Perché Max?» «A Ryan piace l'allitterazione.»
Jake alzò un sopracciglio cespuglioso, ma non fece commentì. «È evidente che Haas non vide mai lo scheletro» dissi. «Perché no?» Jake smise di immergere la bustina del tè. «Perché fu mandato al Musée de l'Homme di Parigi?» «Benvenuto nel mondo dei vivi, Jake.» «Spiritosa.» «Ma perché l'hanno tenuto segreto?» chiesi e, prima che Jake potesse rispondere, continuai: «E perché proprio il Musée de l'Homme? Non fanno la datazione al carbonio lì. E perché uno scheletro completo? Serve solo un piccolo frammento di ossa. E perché hanno scelto proprio quello scheletro? Yadin non ne parlò mai e Haas non lo vide mai». «Io l'ho detto fin dall'inizio: in quello scheletro c'è più di quanto non dicano.» «Mi hai detto che avevi intenzione di chiedere esplicitamente agli Hevrat Kadisha se avevano preso Max. Li hai chiamati?» «Due volte.» «E?» «Aspetto che mi richiamino.» Sarcastico. Avvolsi il cordoncino e strizzai la bustina del tè contro il cucchiaino. «Così viene amaro» osservò Jake. «Mi piace forte.» «Ma così viene amaro.» Jake era ormai perfettamente sveglio e aveva ritrovato la sua vena polemica. «Ti preferisco quando sei assonnato.» Aggiungemmo entrambi del latte e mescolammo. «Hai saputo qualcosa sul DNA?» chiese Jake. «Non scarico la posta da giorni. Collegarsi a Internet dall'hotel è un incubo.» Era vero, ma in realtà non aspettavo i risultati così presto. E, a essere sincera, sospettavo che i dati relativi al DNA di Max o del suo dente in più sarebbero stati di scarsa utilità, non potendoli confrontare con nulla. «Quando, dopo aver parlato con te al telefono a Montréal, ho portato i campioni provenienti dal Kidron ai due laboratori, ho chiesto che inviassero i risultati a te. Pensavo che avrei avuto bisogno di un interprete.» Di nuovo la paranoia di Jake? Non feci alcun commento. «Perché non fai un tentativo? Usa il mio computer.» Jake indicò col mento lo studio. «Io intanto mi faccio una doccia.» Perché no? Presi la tazza, mi sedetti davanti al suo portatile e mi collegai a Internet.
Nella mia casella di posta trovai le e-mail di entrambi i laboratori. Prima aprii i risultati relativi alle ossa della tomba del Kidron. C'erano alcune informazioni, ma non mi dicevano granché. Immaginai che ogni numero di campione corrispondesse a un ossario o a un insieme di ossa sul pavimento della tomba. Poi aprii i risultati sul DNA mitocondriale di Max e del suo dente. All'inizio rimasi sorpresa. Poi mi sentii confusa. Lessi più volte la sezione finale. Non riuscivo a immaginare cosa significasse. Ma una cosa la sapevo. Avevo perfettamente ragione su Max. E mi ero completamente sbagliata sull'importanza del DNA. 34 Dovevo sembrare un cervo illuminato dai fari di una macchina. «Cosa stai fissando?» I segni del cuscino erano spariti e il viso di Jake era bagnato. Si era tolto la tuta e si era messo un paio di jeans e una camicia hawaiana rossa. «I risultati del DNA.» «Ah, sì?» Jake accese la stampante e io feci una copia cartacea. Jake esaminò i risultati, con espressione neutra. Poi disse: «Molto bene». Sistemò una sedia vicino alla mia e vi si lasciò cadere sopra. «Ora. Cosa vuol dire?» «Il DNA mitocondriale...» «Lentamente.» Io feci un respiro. «E dall'inizio.» «Dall'inizio?» Non ero in vena di lezioni di biologia. «Dall'ABC.» Profondo respiro. Calma. Vai. «Conosci il DNA nucleare?» «È la struttura a doppia elica che si trova nel nucleo della cellula.» «Esatto. Gli studiosi lavorano da anni alla mappatura della molecola del DNA. Buona parte del processo di mappatura si è concentrato su un'area che codifica proteine specifiche della nostra specie.» «Sembra la dieta Atkins. Niente carboidrati, niente grassi.» «Ti interessa o no?»
Jake sollevò le mani. Io cercai di pensare a un modo più semplice per spiegarglielo. «Alcuni ricercatori stanno lavorando alla mappatura della regione del DNA che ci rende tutti simili, i geni che ci danno due orecchie, pochi peli corporei, un bacino fatto per camminare. I medici ricercatori, invece, stanno cercando di identificare i geni che possono mutare e causare malattie come la fibrosi cistica o il morbo di Huntington.» «Quindi gli studiosi cercano i geni che ci rendono tutti uguali, mentre i medici ricercatori cercano i geni che mandano tutto a rotoli.» «Non è un brutto modo di vedere la cosa. I medici legali, invece, cercano le parti della molecola del DNA che rendono le persone geneticamente diverse. Essi studiano il DNA spazzatura, o filler, che contiene i polimorfismi, cioè le variazioni che distinguono una persona dall'altra. Ma queste differenze non sono fisicamente evidenti. «Detto questo, ci sono medici legali che sono passati dal DNA spazzatura e dalle sue variazioni ai geni che controllano le caratteristiche fisiche, le differenze che notiamo quando guardiamo una persona. Questi ricercatori stanno cercando di scoprire il modo per prevedere, a partire dai geni, tratti individuali come la pelle o il colore degli occhi.» Jake sembrò confuso. Non aveva tutti i torti. Ero talmente elettrizzata che stavo facendo una gran confusione. «Mettiamo che la polizia trovi sulla scena di un delitto un campione lasciato da un criminale sconosciuto. Magari del sangue o dello sperma. Se non si ha nessun sospetto, non è possibile confrontare il campione con nessuno. Ma se quel campione può essere utilizzato per ridurre il numero di potenziali sospetti, può diventare uno strumento investigativo estremamente utile.» Jake capì dove volevo andare a parare. «Se riesci a stabilire il sesso, il numero dei sospettati si dimezza.» «Esattamente. Esistono già dei programmi in grado di prevedere l'ascendenza biogeografica. Quando mi hai telefonato a Montréal, stavamo discutendo di un caso in cui erano stati utilizzati quei programmi.» «Quindi il vantaggio è che non sei limitato al confronto di un campione sconosciuto con uno conosciuto, ma puoi effettivamente prevedere l'aspetto fisico di un uomo.» «O di una donna.» «Fantastico. Un uomo come Max o come gli altri che erano nella mia tomba?»
«Esatto. Finora ho parlato di DNA nucleare. Conosci il DNA mitocondriale?» «Rinfrescami la memoria.» «Il DNA mitocondriale non si trova nel nucleo, bensì nella cellula.» «E cosa fa?» «Vedilo come una fonte d'energia.» «Potrei consumare un pieno. Che ruolo ha nell'ambito della medicina legale?» «La regione che codifica il DNA mitocondriale è limitata. Sembra sia composta da circa undicimila coppie di basi, e mostra scarse variazioni. Ma, come nel caso del DNA nucleare, c'è una parte del genoma che sembra non fare molto, ma presenta un sacco di polimorfismi.» «Qual è il vantaggio rispetto al DNA nucleare?» «Nelle nostre cellule ci sono solo due copie del DNA nucleare, a fronte di centinaia di migliaia di copie del DNA mitocondriale. Quindi le probabilità di recuperare il DNA mitocondriale da campioni piccoli o degradati sono molto più alte.» «Piccoli e degradati come l'osso del Kidron. O come Max, che ha duemila anni.» «Già. Più vecchio è l'osso, più basse sono le probabilità di estrarre un campione analizzabile di DNA nucleare. Un altro vantaggio del DNA mitocondriale è che si trasmette solo per linea femminile, quindi i geni non vengono mischiati e ricombinati ogni volta che avviene un concepimento. Ciò significa che se non è disponibile nessun individuo per un confronto diretto, qualsiasi membro della famiglia imparentato per parte di madre può fornire un campione di riferimento. Il tuo DNA mitocondriale è identico a quello di tua madre, delle tue sorelle e di tua nonna.» «Ma le mie figlie avrebbero il DNA mitocondriale della madre, non il mio.» «Esatto.» «Fammi mettere tutto questo in relazione con la nostra tomba, visto che è quello che mi interessa. Da un osso vecchio e degradato è più probabile estrarre il DNA mitocondriale che quello nucleare.» «Sì.» «Sia il DNA mitocondriale sia quello nucleare possono essere utilizzati per confrontare campioni sconosciuti con campioni conosciuti. Per esempio, possono collegare un sospetto a una scena del crimine o inchiodare il paparino in un processo per determinare la paternità. Entrambi possono es-
sere usati per evidenziare legami di parentela in modi diversi. Ma ora il DNA nucleare può essere usato per prevedere i tratti di un individuo.» «In misura molto limitata» precisai. «Il sesso, e alcuni indicatori della razza.» «Okay. Passiamo alla tomba.» Presi i risultati del laboratorio. «Non tutti i tuoi campioni hanno dato risultati. Ma il DNA nucleare ci dice che hai quattro donne e tre uomini. Ricordati che non è vangelo.» «Pessima battuta. Spiega.» «Il sistema codis standard comprende i marker amelogenina per X e Y. Semplificando, se in un campione ci sono entrambi gli indicatori, è un maschio, se non c'è l'indicatore Y, è una femmina. «Tuttavia, le cose sono sempre più complicate con le ossa vecchie. Nei campioni degradati, gli alleli, o geni, effettivamente presenti potrebbero non essere rilevati. Ma se ripeti il test più volte, e continui a ottenere solo X, ci sono buone probabilità che il campione appartenga a una femmina.» «Cos'altro?» disse Jake, dando un'occhiata alla porta da sopra la spalla. I miei occhi lo seguirono, come se fossero comandati dal suo movimento. «Almeno sei degli individui trovati nella tomba sono imparentati» dissi. «Ah sì?» Jake si avvicinò, gettando un'ombra sulla stampa. «Ma è piuttosto normale in una tomba di famiglia. La cosa sorprendente è...» «Quali sei?» La leggerezza di Jake era svanita. «Non lo so. I tuoi individui sono identificati solo da numeri di campione.» Jake si mise una mano davanti alla bocca per uno o due secondi. Poi afferrò i fogli, balzò in piedi e attraversò la stanza con tre falcate delle sue gambe magre. «Jake. Non è la cosa più importante.» Ma era come parlare al muro. Io volevo lasciar perdere le ossa della tomba e parlare di Max. Quello sì che era importante. Poi mi venne in mente il risultato dell'analisi del dente. No, mi dissi. Ormai era tutto importante. Trovai Jake nella camera da letto sul retro che disponeva delle foto su un tavolo da lavoro. Mi avvicinai e vidi che si trattava delle foto dell'ossario che io e Ryan avevamo esaminato. Mentre lo osservavo, Jake scrisse un nome sul bordo inferiore di ciascuna foto. Accanto a ciascun nome, aggiunse il numero di riferimento del la-
boratorio di analisi. Io verificai il rapporto relativo al DNA nucleare. «Femmina» lessi. «Marya» disse. Maria. Jake disegnò un simbolo femminile sulla foto dell'ossario di Maria, poi sfogliò una serie di foto graffettate. «L'antropologo fisico ha stimato che questa ragazza aveva più di sessantacinque anni.» Scarabocchiò la cifra, poi lesse il numero di laboratorio seguente. «Femmina» dissi io. «Mariamene. Colei che si chiama Maria.» Jake consultò il rapporto dell'antropologo fisico. «Anziano.» Lo annotò sulla foto, poi lesse il terzo numero. «Maschio» dissi. «Yehuda, figlio di Jeshua.» Giuda, figlio di Gesù, tradussi mentalmente. «Tra i venticinque e i quarant'anni.» Jake lesse il numero successivo. «Femmina» dissi. «Salomé. Anziana.» Io e Jake verificammo uno a uno i resti che erano stati associati agli ossari che recavano un'iscrizione. Maria. Maria. Giuseppe. Matteo. Giuda. Salomé. Gesù. In ciascun caso, l'iscrizione corrispondeva al genere determinato dal DNA nucleare. O viceversa. L'analisi del DNA nucleare si rivelò infruttuosa per Gesù e Matteo, e per gli altri campioni rinvenuti sul pavimento della tomba. Niente risultati. Nessuna informazione su quegli individui. Io e Jake ci guardammo. Fu come se aspettassimo la conferma definitiva. Nessuno di noi lo espresse a parole. Ma, malgrado le lacune, tutto tornava. La famìglia di Gesù. «Quindi chi è parente con chi?» chiese Jake. «Di chi». Riflesso nervoso. Passai dal rapporto sul DNA nucleare a quello sul DNA mitocondriale. «Ricordati che questi risultati evidenziano la presenza o l'assenza di legami per linea femminile. Madre-figlia, madre-figlio, fratelli figli della stessa madre, cugini le cui madri avevano la stessa madre, e così via. Okay. Qui dice che Mariamene e Salomé sono imparentate.» Parlavo ad alta voce mentre univo i numeri dei campioni ai nomi. «Anche Marya, la Maria più anziana.» Jake prese appunti sulle tre foto. «Giuseppe fa parte della stessa stirpe. Anche Giuda.»
Altri appunti. «Il maschio trovato sul pavimento della tomba è imparentato.» «Il che significa che evidenzia la stessa sequenza di DNA mitocondriale di Mariamene, Salomé, Marya, Giuseppe e Giuda.» «Esatto» dissi io. «La donna ritrovata sul pavimento della tomba, invece, è unica. Non è così strano. Magari era sposata con un membro della famiglia. In quanto parente solo per matrimonio e non per sangue, lei e i suoi figli, se ne aveva, avrebbero avuto il DNA mitocondriale della sua linea materna.» «Niente del padre.» «Il DNA mitocondriale non si ricombina. Viene tutto dalla madre.» Continuai a leggere la stampa. «Matteo è unico. Ma anche qui, se sua madre apparteneva a un'altra famiglia, lui avrebbe avuto il DNA mitocondriale di lei, non quello del padre.» «Potrebbe essere un cugino.» «Sì. Il figlio di un fratello e della moglie.» Alzai gli occhi. «Il materiale su Gesù era troppo degradato per essere analizzato. Non è stato possibile effettuare il sequenziamento.» Jake cominciò ad abbozzare un albero genealogico, la mano rapida come un colibrì. «Tutto torna. La Maria più anziana è la madre.» Jake disegnò un cerchio, lo battezzò Maria, e ne fece partire alcuni raggi diretti verso il basso. «Salomé. Maria. Giuseppe. Gesù. Secondo le Scritture, questi sono quattro dei sette figli di Maria.» L'iscrizione diceva YEHUDA, FIGLIO DI YESHUA. Giuda, figlio di Gesù. La folle teoria di Donovan Joyce. Gesù sopravvisse alla crocifissione, si sposò ed ebbe un bambino. Eravamo di nuovo lì? La mia mente non voleva accettarlo. Al diavolo la conferma definitiva. Mi tuffai nell'analisi. «Dove si inserisce Giuda?» chiesi. Jake sollevò le sopracciglia e abbassò il mento. Dovevo spiegare l'ovvio? «Gesù che ha dei fratelli, sopravvive e diventa papà? Stai parlando dei tre fondamenti principali della Chiesa cattolica: l'immacolata concezione, la resurrezione e il celibato.»
Jake scrollò le spalle. Era talmente agitato che il movimento sembrò più uno spasmo che un'alzata di spalle. «No, Jake. Stai inferendo qualcosa che non può essere. Questo Giuda ha un DNA che lo lega alle altre donne della tua tomba, alla Maria più anziana, a Salomè e a Mariamene. Se Gesù avesse avuto un figlio, il bambino avrebbe avuto il DNA mitocondriale della famiglia della madre, non di quella del padre.» «D'accordo. Gesù potrebbe essere lo zio di Giuda, e Maria la nonna.» Jake aggiunse un cerchio all'estremità di un raggio e fece partire un altro raggio, sempre diretto verso il basso. «Una delle sorelle avrebbe potuto sposare un altro uomo di nome Gesù e avere un figlio di nome Giuda.» «Donovan Joyce affermava di aver visto una pergamena scritta da un Gesù figlio di Giacomo» dissi, quasi contro la mia volontà. «Non poteva essere il Giacomo dell'ossario, il fratello di Gesù. La moglie di Giacomo non sarebbe stata imparentata e il figlio di Giacomo avrebbe avuto il DNA mitocondriale della madre, non della nonna, giusto?» «Sì.» Una folla di pensieri mi mulinava in testa. «Jake, c'è quale...» Ma lui mi interruppe di nuovo. «La donna trovata sul pavimento della tomba non è imparentata con nessuno. Potrebbe essere...» Jake si fermò, folgorato da un'idea. «Porca miseria, Tempe. Donovan Joyce pensava che Gesù avesse sposato Maria Maddalena. Altri hanno sostenuto questa ipotesi. La donna potrebbe essere Maria Maddalena.» Jake quasi non respirava. «Ma non è così importante chi sia. E neanche Matteo è imparentato, no? Potrebbe essere uno dei discepoli che, per qualsiasi motivo, è stato sepolto nella tomba. O un figlio di uno dei fratelli, un altro nipote.» «Tanti magari. Troppi forse.» Cercai di non lasciarmi trascinare dall'euforia di Jake, ma lui non ci fece caso. «Giacomo manca perché le sue ossa sono state rubate. E Simone morì alcuni decenni dopo. Cazzo, Tempe, c'è praticamente tutta la famiglia.» Lo stesso pensiero ci attraversò la mente nello stesso istante. Fu Jake a esprimerlo. «Allora chi è l'uomo crocifisso nel sudario?» «Forse crocifisso» puntualizzai. «Okay, il Gesù dell'ossario potrebbe essere un altro nipote. Accidenti! Perché il laboratorio non è riuscito a sequenziario?»
Tutt'a un tratto, Jake si diresse a grandi passi verso l'armadietto in cui custodiva le ossa. Aprì il lucchetto, sbirciò dentro, poi richiuse l'anta con aria soddisfatta. Gesù vivo e con una discendenza? Gesù morto e abbandonato in una tomba, avvolto in un sudario? Ogni scenario sembrava peggiore dell'altro. «Sono solo congetture» dissi. Quando Jake si voltò, i suoi occhi indugiarono nei miei. «No, se riesco a provare che l'Ossario di Giacomo si trovava in quella tomba.» Presi il rapporto sul DNA mitocondriale. Marya, Mariamene, Salomé, Yose, Yehuda e il maschio sconosciuto discendevano dalla stessa linea materna. Matteo discendeva da un'altra linea, e la donna sconosciuta trovata sul pavimento della tomba da un'altra ancora. I resti dell'ossario che portavano l'iscrizione YESHUA, FIGLIO DI YEHOSEF erano troppo degradati perché si riuscisse a estrarne il DNA. Gesù, figlio di Giuseppe. Ma quale Gesù? Quale Giuseppe? Jake aveva davvero trovato la tomba della Sacra Famiglia? Se era così, chi era l'uomo avvolto nel sudario che avevo trovato nel loculo nascosto? «C'è qualcos'altro, Jake.» «Cosa?» Feci per parlare, ma il telefono di Jake mi interruppe. «Miracolo! Non saranno mica gli Hevrat Kadisha che mi richiamano a proposito di Max?» disse, dirigendosi a lunghi passi verso l'ufficio. Mentre Jake era al telefono, rilessi i rapporti su Max e sul suo dente. Secondo il DNA nucleare, Max era maschio. Niente di nuovo. Lo sapevo già dalle ossa. Stessa cosa per il molare in più conficcato nella mascella di Max: apparteneva a un maschio. Secondo il DNA mitocondriale, Max non discendeva dalla stessa linea materna degli altri individui della tomba del Kidron. Il suo sequenziamento era unico. Se quella era veramente la famiglia di Gesù, Max era un estraneo. O comunque non era un discendente di una di quelle donne. Sempre secondo il DNA mitocondriale, il molare in più conficcato nella mascella di Max apparteneva a qualcun altro. Okay. Bergeron l'aveva detto. Era certo che appartenesse a un individuo più giovane. Era l'affermazione seguente che non aveva senso. Ero alla terza rilettura quando Jake tornò. «Stronzi.» «Gli Hevrat Kadisha?» Lui annuì, teso.
«Cos'hanno detto?» «Baruch Dayan ha-emet.» Con un gesto della mano, sollecitai una spiegazione. «Sia benedetto l'unico vero Giudice.» «E poi?» «Che siamo la progenie di Satana. Loro stanno seguendo il mitzvah più grande. E ora quelle ipocrite mezze seghe vogliono usare le maniere forti con il mio sito di Talpiot.» «Hai disseppellito resti di scheletri in una sinagoga del I secolo?» «Certo che no. Gliel'ho detto, ma non mi ha creduto. Ha detto che lui e i suoi reparti d'assalto sbarcheranno in forze oggi stesso.» «Gli hai chiesto se hanno preso Max?» «Il buon rabbino si è rifiutato di parlarne.» Jake esitò. «Ma ha detto anche una cosa strana.» Aspettai. «Voleva che la smettessimo di fare tutte quelle telefonate.» «E?» «Io ho contattato gli Hevrat Kadisha solo due volte.» «Allora chi è che fa le telefonate?» «A quanto pare, il rabbino non lo sa.» Seguì uno strano silenzio. Fui io a romperlo. «Avevi ragione, Jake» dissi, sventolando i rapporti sul DNA mitocondriale di Max e del dente. «La cosa potrebbe essere più grossa di quanto pensassimo.» «Spiegami.» Lo feci. Stavolta era Jake che sembrava un cervo illuminato dai fari di una macchina. 35 L'avevo ripetuto due volte, ma Jake continuava a non capire. «Il dente e lo scheletro evidenziano un diverso sequenziamento del DNA mitocondriale. Ciò significa che il dente non era di Max. Ma questo lo sapevamo già. Il dentista che collabora con il mio laboratorio a Montréal ce l'aveva già detto. Il dente apparteneva a un individuo più giovane di Max. «E il DNA mitocondriale di Max è unico, diverso sia da quello del proprietario del dente, sia da quello degli altri occupanti della tomba, che di-
scendono dalla stessa linea materna. Se Max era un membro di quella famiglia, sua madre era un'estranea.» «Una donna che aveva sposato un membro della famiglia.» «È possibile. Ma la cosa più sconvolgente è che il DNA mitocondriale del molare è identico al DNA mitocondriale della famiglia della tomba del Kidron.» «Il DNA lega il dente, ma non lo scheletro, ai discendenti di Maria?» «Il sequenziamento collega il dente di Max agli individui della tua tomba che discendono dalla stessa linea materna.» «Il dente che è stato reinserito nella mascella di Max?» «Sì, Jake. Vuol dire che il proprietario del dente era imparentato con gli occupanti della tua tomba. Era un membro di quella famiglia, un parente per parte di madre.» «Ma il dente non era di Max. Come è arrivato lì?» «Secondo me il trasferimento fu un semplice errore. Forse il dente scivolò dalla mascella di uno degli individui dell'ossario e fu erroneamente aggiunto ai resti dello scheletro articolato. Magari durante il recupero. O durante il trasporto. Non può essere successo al laboratorio di Haas. Haas non ha mai visto Max.» «Quindi almeno una persona della Grotta 2001 era sicuramente imparentata con gli individui della tomba del Kidron. Cosa diavolo ci faceva un membro di quella famiglia a Masada?» Jake si avvicinò alla finestra, si infilò le mani in tasca e abbassò gli occhi. Io lo lasciai vagare fra i suoi pensieri. «La reticenza di Yadin nel parlare degli scheletri della grotta... Il fatto che Haas non li menzionò...» La voce di Jake era un sussurro. «Ma certo. Quelli non erano zeloti. Nella grotta viveva un gruppo di nazareni.» Sebbene Jake non stesse parlando con me, ero tutta orecchi. «In cosa ci siamo imbattuti? Chi era questo Max? Perché quello scheletro non fu consegnato a Haas? Chi era nascosto nel loculo della tomba del Kidron? Perché quelle ossa non sono mai state raccolte e sistemate in un ossario?» Jake stava seguendo un ragionamento. «Seguaci di Gesù a Masada, di cui uno era biologicamente legato alla tomba del Kidron e un altro era membro della Sacra Famiglia. E per dimostrarlo devo provare che l'Ossario di Giacomo proveniva da quella tomba.» Jake si voltò con uno sguardo che mi gelò. «Pensavo che avessimo a che fare con due ritrovamenti del I secolo, en-
trambi sconvolgenti, ma senza alcun nesso. E invece no, è tutto collegato. Lo scheletro mancante di Masada e la tomba del Kidron fanno parte della stessa storia. Ed è incredibile. Potrebbe trattarsi della più grande scoperta del secolo. Ma che dico, del millennio!» Jake tornò al tavolo, prese il rapporto dell'antropologo fisico, lo posò, toccò una foto dell'ossario, poi un'altra, radunò le foto, posò il rapporto in cima alla pila e passò il dito lungo il bordo. «È una cosa più grossa di quanto anch'io potessi immaginare, Tempe. E più pericolosa.» «Pericolosa? Ma non abbiamo più Max. E nessuno sa delle ossa avvolte nel sudario.» «Non ancora.» «Dovremmo dirlo a Blotnik.» Jake mi si rivoltò contro. «No!» Io sobbalzai come se avessi preso la scossa. Jake sollevò una mano mortificato. «Scusa. Mi sta scoppiando di nuovo la testa. È solo che... io... Non a Blotnik.» «Jake, non ti starai mica facendo influenzare dai tuoi sentimenti personali?» «Blotnik appartiene al passato. Anzi, no» sbuffò Jake, «così è troppo generoso da parte mia. Blotnik non è mai esistito. Ed è un grandissimo stronzo.» «Blotnik sarà anche Caligola, ma è a capo dell'Autorità archeologica israeliana. Avrà pur fatto qualcosa per guadagnarsi quella posizione.» «Negli anni Sessanta ha pubblicato alcuni artìcoli molto brillanti, di fronte ai quali il mondo accademico se l'è fatta nelle sue eleganti mutandine francesi, ha ricevuto un sacco di offerte allettanti, poi si è adagiato e non ha più scritto niente che fosse degno di nota.» «Malgrado la tua opinione su Blotnik, in questo Paese è l'Autorità archeologica israeliana ad avere voce in capitolo sulle antichità.» Si udì sbattere una portiera. Gli occhi di Jake corsero alla finestra, all'armadietto chiuso a chiave, poi si posarono di nuovo su di me. Sospirando, prese una biro e cominciò ad aprirla e a chiuderla. «Andrò a parlare con Ruth Anne Bloom oggi pomeriggio.» «La Bloom è l'antropologa fisica che lavora per l'Autorità archeologica israeliana?» Jake annuì.
«Le dirai delle ossa avvolte nel sudario?» «Sì.» Con la mano libera, Jake si strinse il naso. «Non lo dici tanto per dire?» «No, non lo dico tanto per dire.» Jake sbatté giù la penna. «Hai ragione. È troppo rischioso tenere le ossa qui.» Rischioso per chi?, mi chiesi, mentre Jake tornava alla finestra. Per le ossa? Per Jake? Per la sua futura carriera? Lo conoscevo bene. Anche lui aveva ambizioni accademiche. «Vuoi che ti accompagni al Rockefeller?» Jake scosse la testa. «Devo fare un salto al sito degli scavi e avvertire la mia squadra degli Hevrat Kadisha. Conoscono la prassi, ma non voglio che gli ultra-ortodossi li colgano di sorpresa.» Guardai l'orologio. «Io ho appuntamento con Ryan all'hotel alle quattro. Ma posso posticipare.» «Non è necessario. Ti chiamo fra un paio d'ore.» «Ceni con noi stasera?» Jake annuì, assorto, e capii che non mi ascoltava più. Ero appena rientrata all'hotel quando Ryan bussò alla porta della mia stanza. Dovevo avere l'aria triste. «Tutto bene?» Io annuii, non volendo entrare nei dettagli della mia discussione con Jake. «Come sta il tuo amico?» «Gli fa male la testa, ma sta bene.» Sbattei l'anta del minibar. «Censorio come sempre.» Ryan passò oltre. «Hai scoperto qualcosa al "Post"?» Mentre aprivo una Diet Coke, dissi a Ryan degli articoli in cui Yadin si contraddiceva sul ricorso alla datazione al carbonio. «Quindi il vecchio Yadin ha fatto uscire del materiale dal Paese. Perché non avrebbe dovuto farlo anche con gli scheletri di Masada?» «Già.» «Ma senti questa. Mi hanno spedito i risultati del DNA. Diversi individui della tomba del Kidron avevano lo stesso sequenziamento.» «Il che vuol dire che sono imparentati.» «Sì. Ma non è così strano, visto che è una tomba di famiglia. È normale
che chi è sepolto lì abbia legami di parentela. La cosa sconvolgente è che il DNA mitocondriale collega il dente in più di Max a quella famiglia.» «Il che significa che uno degli individui ritrovati nella Grotta 2001 era un membro della famiglia sepolta nella tomba del Kidron.» Adoro l'acume di Ryan. «Esatto. Jake è convinto che la tomba del Kidron ospitasse i membri della Sacra Famiglia e, se così fosse, vorrebbe dire che a Masada all'epoca dell'assedio c'erano dei cristiani.» «Wow!» «Già. Gli israeliani non accetteranno mai un'ipotesi del genere.» «Dei cristiani a Masada, forse persino un membro della Sacra Famiglia.» «Esatto. Ma continuo a non avere la più pallida idea di chi sia Max.» Bevvi un sorso. «Di chi fosse. Il sequenziamento del suo DNA era unico. Se era imparentato con gli occupanti della tomba del Kidron, non lo era tramite le donne ritrovate da Jake.» «Kaplan ha accennato all'argomento stamattina.» La cosa attrasse la mia attenzione. «Ha affermato che Ferris aveva scoperto il nome di battesimo di Max.» «Aveva prove della sua identità?» «Secondo Kaplan ne aveva parecchie.» Un brivido di eccitazione mi corse lungo la schiena. Avevo passato quasi un mese a cercare di etichettare lo scheletro di Masada. Ma era come inseguire un fantasma. Nei momenti di lucidità, sospettavo che, con il tempo, fosse svanita ogni speranza di identificarlo. «Per l'amor di Dio, Ryan. Dimmi cos'ha detto Kaplan.» «Kaplan sostiene di non averlo mai scoperto. Ma tra la gente del giro correva voce che le ossa fossero di grande valore.» «In quale giro? Quello del traffico illecito?» Ryan annuì. «La brutta notizia è questa: Friedman ha dovuto rilasciare Kaplan.» «Stai scherzando?» «Kaplan si è rivolto a un avvocato il quale ha suggerito, molto gentilmente, che i diritti del suo cliente erano stati violati in quanto era stato tenuto in carcere ben oltre i limiti della legge. Credo che l'espressione "incurante della legge" fosse diretta a Friedman.» «E che mi dici del furto?» «Litvak ha ritirato la denuncia. E io non ho niente per collegare Kaplan all'assassinio di Ferris.»
«Kaplan ha ammesso di essere stato ingaggiato per sparargli.» «Dice che non è stato lui.» «Aveva intenzione di vendere uno scheletro rubato.» La mia voce suonava stridula nella stanza silenziosa. «L'intenzione non è un reato. E poi adesso sostiene di non aver mai pensato di venderlo davvero. Ha fatto solo qualche telefonata per curiosità.» «Porca puttana.» «C'è un altro sviluppo interessante. Courtney Purviance è scomparsa.» «La segretaria di Ferris?» «Quando Kaplan ci ha parlato per la prima volta dello scheletro di Masada, gli abbiamo chiesto perché Ferris aveva deciso di venderlo dopo averlo tenuto nascosto per trent'anni.» Me lo ero chiesto anch'io. «Lui ci ha spiegato che la ditta di Ferris era in crisi.» «Non è quello che ti ha detto la Purviance.» «No, infatti. Quindi qualcuno mente. È per questo che volevamo fare qualche altra domanda alla Purviance. Ho fatto delle ricerche. C'è un certo Birch che se ne sta occupando insieme a me.» «Il detective biondo che ho visto all'autopsia di Ferris.» Ryan annuì. «Sono diversi giorni che Birch cerca di contattare la Purviance. Ma non è al magazzino di Ferris, né a casa. Sembra svanita nel nulla.» «Nessuno le ha detto di non lasciare la città?» «Non è fra i sospettati. Non potevo ordinarle di non muoversi. Le ho fatto capire che sarebbe stato utile se fosse rimasta a disposizione, ma ho l'impressione che la Purviance rispetti solo le sue regole.» «Nessuna traccia di un viaggio programmato?» Ryan scosse la testa. «Molto male» dissi. «Già. Se ne sta occupando Birch.» Ryan mi si avvicinò e mi posò le mani sulle spalle. «Io e Friedman seguiremo Kaplan come la sua ombra. Sapremo tutto di lui: dove va, cosa fa, chi vede.» «La corda la porta Friedman.» «Vedrai che Kaplan si farà il cappio da solo.» Ryan mi attirò a sé. «Rimarrai sola per un po'.» «Me la caverò.»
«Hai il mio numero di cellulare.» Io mi divincolai e feci a Ryan un sorriso fintamente allegro. «Aspetta e spera, caro! Stasera vado a cena con un uomo alto e simpatico.» «Un po' pelato.» «I pelati vanno di moda.» Ryan sorrise. «Non sopporto di vederti così affranta.» «Vai» dissi, girandolo verso la porta. «L'eccitante sorveglianza ti aspetta.» Quando Ryan se ne fu andato, chiamai Jake per scegliere un ristorante. Nessuna risposta. Il mio orologio segnava le cinque. Ero in piedi dall'alba, e ormai stava cominciando a imbrunire. Un pisolino? Perché no. Jake mi avrebbe chiamato entro un'ora. Mi ero appena addormentata quando fui svegliata da un rumore dietro la porta. Una chiave? Una maniglia che si girava? Disorientata, guardai l'orologio. Le 19.32. Mi precipitai alla porta. «Jake?» Nessuna risposta. «Ryan?» Sentii qualcosa frusciare sulle mattonelle ai miei piedi. Abbassai gli occhi e vidi un foglio piegato scivolare da sotto la porta. Aprii e vidi una giovane donna correre lungo il corridoio. Portava uno hijab, un vestito scuro e un paio di scarpe basse. «Signorina?» Lei, senza fermarsi, disse: «È quello l'uomo che ha messo sottosopra la tua stanza». Dopodiché la donna girò l'angolo e il suono dei suoi passi si spense giù per le scale di pietra. Chiusi la porta a chiave. Fuori si udiva il rombo del traffico. Dentro, il silenzio era assordante. Mi chinai, raccolsi il foglio e lo aprii. C'erano scritte le stesse parole che aveva detto la donna. E un nome: Hossam al-Ahmed. La donna era una cameriera? Aveva assistito all'irruzione nella mia stanza? Perché farsi avanti ora? E perché in quel modo? Afferrai il ricevitore e chiesi della signora Hanani. Mi dissero che la di-
rettrice era fuori tutto il giorno. Allora lasciai un messaggio, chiedendo di essere richiamata. Infilai il biglietto nella borsa e telefonai a Jake. Nessuna risposta. Era ancora fuori? Aveva provato a chiamarmi ma dormivo? Riprovai alle sette e tre quarti, alle otto e alle otto e un quarto. Alle 20.30 mi arresi e scesi al Celiar Bar. Benché la cena fosse ottima, ero troppo agitata per apprezzare gli sforzi dello chef. Continuavo a chiedermi perché Jake non mi avesse richiamato. Possibile che fosse ancora al Rockefeller? Ma Jake non aveva detto che, prima di andare al Rockefeller per parlare con la Bloom, avrebbe fatto un salto al sito? Aveva cambiato idea sulla Bloom? Forse aveva preferito non andare in giro da solo con le ossa del sudario? Ma non poteva essere ancora agli scavi. Era buio, ormai. Forse mi aveva chiamato in camera, non aveva avuto risposta e aveva deciso di cenare con la sua squadra. Ero così stanca da non aver sentito il telefono? Ne dubitavo. Più ci pensavo, più mi preoccupavo. Dall'altra parte del bar, vidi due uomini dalla pelle scura seduti a un tavolo. Uno era basso e robusto, con i capelli tirati all'indietro e un buco fra gli incisivi superiori. L'altro sembrava un beluga, con dei lunghi ciuffi sottili raccolti in una coda di cavallo. Pensai a Hossam al-Ahmed. Chi era? Aveva davvero messo a soqquadro la mia stanza? Perché? I due uomini sorseggiavano un drink in silenzio. Una candela gialla illuminava il loro tavolo. Le ombre si allungavano verso l'alto, trasformando i loro volti in maschere di Halloween. Mi stavano guardando? O era solo frutto della mia immaginazione? Rivolsi loro un'occhiata furtiva. Il beluga tirò fuori da una tasca un paio di occhiali da sole, se li infilò e mi fece un viscido sorriso. Io incollai gli occhi al mio piatto. Dopo aver firmato il conto della cena, tornai in fretta in camera e chiamai di nuovo Jake. Nessuna risposta. Forse il suo mal di testa era peggiorato, per cui aveva staccato il telefono ed era crollato. In mancanza di un piano migliore, mi feci un bagno. Il mio consueto ri-
medio contro l'agitazione. Niente da fare. Chi erano i due uomini al bar? Chi era Hossam al-Ahmed? Cos'era successo a Courtney Purviance? Dov'era Jake? Come stava Jake? Aveva avuto una ricaduta? Aveva avuto un'embolia? Aveva sviluppato un ematoma subdurale? Dio mio! Stavo diventando matta. Mentre mi asciugavo, mi cadde l'occhio sui tabulati telefonici di Ryan, ormai asciutti, ma marroni e increspati per via dell'incontro ravvicinato con la Coca-Cola. Perché no? Così mi sarei distratta e avrei smesso di preoccuparmi per Jake. Mi sedetti sul letto con la schiena appoggiata alla testiera, accesi la lampada e guardai fuori dalla finestra. La sommità del minareto era velata da sottili banchi di nebbia. La vista, pur non abbracciando completamente la maestosa Gerusalemme, era rassicurante. Un cielo notturno. Infinito. Lo stesso cielo che era lì da sempre. La mia attenzione si spostò all'interno della stanza. Sul soffitto immerso nell'oscurità danzavano lingue di luce. La calura del giorno era scemata e la stanza era piacevolmente fresca. Un'umidità profumata permeava l'aria. Chiusi gli occhi e rimasi in ascolto, con i fogli appoggiati sulle ginocchia piegate. Il traffico. Il tintinnio del campanello di un negozio. I gatti nel cortile. L'antifurto di una macchina squarciò la notte con il suo ululato. Riaprii gli occhi e presi i tabulati di Ryan. Ero più veloce a esaminarli rispetto al giorno precedente. Ormai riconoscevo gli andamenti e i numeri. Ma il bagno era stato più rilassante di quanto avessi pensato. Sentivo le palpebre pesanti. Più di una volta, persi il segno. Stavo per spegnere la luce quando un numero attirò la mia attenzione. Era la sonnolenza o c'era effettivamente qualcosa di strano? Rilessi più volte la sequenza. Sentivo il sangue pulsarmi nelle tempie. Afferrai il ricevitore e chiamai Ryan.
36 «Pronto?» «Sono Tempe.» «Com'è andata la cena?» Mogio. «Jake non si è fatto vivo.» Breve pausa. Sorpresa. «Farò frustare quella canaglia.» «È stato meglio così. Forse ho trovato qualcosa nei tabulati telefonici.» «Sono tutto orecchi.» «Quand'è che Ferris ha portato Miriam a Boca?» chiesi. «Verso la metà di gennaio.» Ryan continuava a darmi risposte brevi. Mi immaginavo lui e Friedman rannicchiati in un'auto immersa nell'oscurità. «Okay. Ecco come ho ricostruito la sequenza. Il 28 e il 29 dicembre sono state effettuate alcune chiamate dal magazzino di Mirabel all'Hotel Renaissance Boca Raton. Era Ferris che faceva i preparativi.» «Okay.» «Il 4 gennaio è stata effettuata una chiamata all'abbazia di Sainte-Mariedes-Neiges. Era Ferris che informava Morissonneau del suo piano per recuperare Max.» «Continua.» «Il 7 gennaio è stata effettuata una chiamata a casa di Kaplan. Era Ferris che contattava l'intermediario. Kaplan è stato chiamato di nuovo il 10 gennaio. Poi, dal 16 al 23, c'è un netto calo di chiamate in uscita da Mirabel.» «Ferris era a Boca con Miriam.» «Esatto. Sono state effettuate due chiamate a Boca. Probabilmente era la Purviance che doveva chiedere qualcosa al capo. Ma senti qua. Il 19 gennaio è stata effettuata un'altra chiamata dal magazzino a casa di Kaplan.» Ryan capì al volo. «Ferris era in Florida. Non può essere stato lui. Allora chi ha chiamato Kaplan?» «La Purviance?» suggerii. «Certo, quando Ferris non c'era era lei a occuparsi della ditta. Ma perché avrebbe dovuto chiamare Kaplan? Non è né un cliente né un fornitore. E i rapporti tra Ferris e Kaplan non erano esattamente kasher. La Purviance non poteva essere al corrente dei loro affari.» Pausa. «Magari ha risposto a un messaggio?» «Ci avevo pensato anch'io, ma i tabulati del magazzino non evidenziano alcuna chiamata in entrata dalla casa o dal negozio di Kaplan.»
«Quindi qualcuno ha telefonato a casa di Kaplan dal magazzino di Ferris mentre lui era in Florida. Ma Kaplan non aveva telefonato al magazzino, né da casa né dal negozio, quindi era improbabile che la Purviance chiamasse Kaplan per rispondere a un messaggio che aveva lasciato per Ferris. Quindi chi diavolo ha fatto quella telefonata? E perché?» «Qualcun altro che aveva accesso al magazzino? Un membro della famiglia?» «Sì, ma perché?» «Domande astute, detective.» «Vaffanculo.» «Vaffanculo anche te. Notizie da Birch?» Udii un fruscio e immaginai che Ryan cercasse una posizione più comoda. «La Purviance non si trova.» «Non è un buon segno, vero?» «Se ha sentito o visto qualcosa, può darsi che l'assassino l'abbia fatta fuori per impedirle di parlare.» «Cristo.» «Ma la balistica ha avuto un colpo di fortuna con la Jericho calibro 9 che ha ucciso Ferris. Un idraulico settantaquattrenne di nome Ozols ne ha denunciato il furto quando gli hanno scassinato la macchina a SaintLéonard.» «Quando?» «Il 22 gennaio, meno di tre settimane prima dell'uccisione di Ferris. Birch pensa che siano stati dei teppisti di strada. Rubano una pistola, svaligiano un negozio, le cose si mettono male, Ferris ci rimane secco.» Qualcosa si mosse nel mio inconscio. «La Purviance ha detto che non è stato rubato niente di valore» osservai, distratta dagli avvertimenti del mio rombencefalo. «Magari i delinquenti si sono fatti prendere dal panico e si sono separati.» «Il furto della pistola potrebbe anche far pensare a un omicidio premeditato. Qualcuno voleva far fuori Ferris e aveva bisogno di un'arma. E poi, Ferris si è beccato due proiettili nella nuca. Sembra opera di un professionista, non di un balordo in preda al panico.» «Miriam era in Florida.» «Già» confermai. Sentii una voce sullo sfondo.
«Kaplan si sta muovendo» disse Ryan, e riattaccò. Visto che non avevo più sonno, tornai ai tabulati. Stavolta cominciai con i dati relativi al telefono di casa di Kaplan. Le liste di gennaio e febbraio erano brevi. Quasi immediatamente, feci un'altra scoperta sconvolgente. I febbraio. Nove-sette-due. Il prefisso internazionale di Israele. Zerodue. Il prefisso di Gerusalemme e Hebron. Conoscevo il numero. Il Rockefeller. E non il centralino, stavolta. Kaplan aveva chiamato l'ufficio di Tovya Blotnik. La chiamata era durata ventitré minuti. Blotnik era al corrente di tutto da almeno dieci giorni quando Ferris morì. Avevo visto il numero di Blotnik da qualche altra parte? Era quello il sussurro che avevo sentito dal mio inconscio? Esaminai i tabulati di febbraio relativi al magazzino di Ferris. Bingo. L'8 gennaio Ferris aveva chiamato il centralino del Rockefeller. Un mese dopo aveva chiamato la linea diretta di Blotnik. Era quello il segnale che mi aveva mandato il mio rombencefalo? Sentivo confusamente che c'era qualcos'altro. Ma cosa? Rifletti. Era come un miraggio. Più mi concentravo, più mi sfuggiva. Al diavolo. Cominciai a digitare il numero di Ryan, poi mi fermai. Lui e Friedman stavano pedinando Kaplan. Lo squillo di un telefono poteva far saltare la loro copertura. Oppure il telefono poteva essere spento. Allora chiamai Jake. Ancora nessuna risposta. Frustrata, sbattei giù il ricevitore. 23.10. Dove diavolo era? Provai a rimettermi al lavoro, ma non riuscivo a concentrarmi. Mi alzai e andai avanti e indietro per la stanza, vagando con lo sguardo sulla scrivania, sulla finestra, sui disegni del tappeto. Che storia raccontavano? Che storia racconterebbe Max se potesse parlare? Blotnik e Kaplan si erano parlati. Perché? Kaplan aveva chiamato l'Autorità archeologica israeliana per ricavare il più possibile dallo scheletro? No, quello era compito di Ferris. Kaplan era solo l'intermediario. Blotnik
era un potenziale compratore? Jake stava male? Giaceva privo di sensi sul pavimento della sua stanza? Era arrabbiato? Se l'era presa per i miei commenti su Blotnik più di quanto avesse dato a vedere? Il giudizio di Jake su Blotnik era giusto? Un pensiero terribile. Blotnik era più che ambizioso? Era forse pericoloso? Chiamai di nuovo Jake, ma c'era ancora la segreteria telefonica. «Maledizione!» Mi infilai un paio di jeans e una giacca a vento, presi le chiavi della macchina di Friedman e mi precipitai giù per le scale. Le finestre dell'appartamento di Jake erano tutte buie. La nebbia si era infittita, cancellando quasi completamente le case circostanti. Fantastico. Scesi dalla macchina e attraversai di corsa la strada, chiedendomi come diavolo avrei fatto a entrare nella proprietà di Jake. Sopra al muro di cinta si vedevano le cime degli alberi, con i rami come artigli contro il cielo notturno. Non avrei dovuto preoccuparmi: il cancello era socchiuso. Colpo di fortuna? Brutto segno? Lo spinsi ed entrai. Nel cortile, un'unica lampadina proiettava un cono di luce giallastra sul recinto delle capre. Passando, sentii qualcosa muoversi. Diedi un'occhiata di lato e, nel buio, vidi delle sagome cornute. «Beee» sussurrai. Nessuna risposta. Gli odori degli animali si mescolavano a quelli umidi della città. Escrementi. Sudore. Lattuga marcia e torsoli di mela. La scala di Jake era uno stretto tunnel nero. Le ombre si fondevano tra loro, formando un roseto di forme. La salita durò un'eternità. Continuavo a guardarmi indietro. Giunta davanti alla porta, bussai piano. «Jake?» Perché stavo sussurrando? «Jake» chiamai, battendo con il palmo della mano. Tre tentativi, nessuna risposta. Girai la maniglia e la porta si aprì.
Ebbi un brivido di paura. Prima il cancello, ora la porta. Possibile che Jake avesse lasciato tutto aperto? Mai, se fosse uscito. Ma si chiudeva dentro quando era in casa? Non mi ricordavo. Esitai. Se Jake era in casa, perché non rispondeva? Perché non mi aveva telefonato? Nella mia testa si affollarono delle immagini: Jake disteso sul pavimento, Jake a letto privo di sensi. Qualcosa mi sfiorò la gamba. Feci un salto e mi portai una mano alla bocca. Col cuore in tumulto, abbassai gli occhi. Uno dei gatti guardò in su, gli occhi come sfere lucenti nell'oscurità. Prima che potessi reagire, la porta si aprì verso l'interno. I cardini cigolarono leggermente, e il gatto sparì. Sbirciai attraverso l'apertura. All'estremità opposta della stanza vidi degli oggetti appoggiati accanto al computer. Malgrado il buio, sapevo cos'erano. Gli occhiali da sole di Jake. Il portafoglio di Jake. Il passaporto di Jake. E cosa significavano. Spinsi la porta. «Jake?» Cercai a tastoni un interruttore della luce, ma non lo trovai. «Jake, sei qui?» Avanzai a tentoni e girai l'angolo entrando nel soggiorno. Stavo tastando la parete quando udii uno schianto alla mia sinistra. Sentii una scarica di adrenalina e le mie dita trovarono finalmente l'interruttore. Tremando, accesi la luce. Il gatto era sul banco della cucina, con le gambe flesse e i muscoli in tensione, pronto a scattare. Sul pavimento c'era un vaso in frantumi, con l'acqua sporca che fluiva lentamente come sangue da un cadavere. Il gatto saltò giù e annusò la pozza. «Jake!» Il gatto alzò di scatto la testa, poi si bloccò, con una zampa alzata e piegata. Squadrandomi, emise un miagolio incerto. «Dove diavolo è Jake?» chiesi. Il gatto ammutolì come un evasore a una verifica fiscale. «Jake!»
Allarmato, il gatto mi sfrecciò accanto e se ne uscì da dove era entrato. Jake non era in camera. Neanche in laboratorio. Mentre passavo in rassegna l'appartamento, la mia mente registrava i particolari. Tazza nel lavandino. Aspirina sul banco. Foto e rapporti scomparsi da sopra il tavolo. A parte quello, la casa era esattamente come l'avevo lasciata. Jake aveva portato le ossa a Ruth Anne Bloom? Uscii nella veranda sul retro e cercai un interruttore. Quando lo trovai e accesi la luce, non accadde nulla. Frustrata, andai in cucina e rovistai nei cassetti finché non trovai una torcia. La accesi e tornai nella veranda. L'armadietto era all'estremità opposta. Nel punto in cui le ante si toccavano, vidi una striscia nera. Ebbi un tuffo al cuore. Tenendo la torcia sopra a una spalla, avanzai lentamente. C'era odore di colla, di polvere e di fango vecchio di millenni. Al di fuori del mio cono di luce, le ombre si sovrapponevano creando strane forme. A due metri dall'armadietto, mi fermai. Il lucchetto era sparito, e un'anta pendeva di traverso. Ossa o non ossa, Jake avrebbe chiuso il lucchetto. E il cancello. Mi girai di scatto. Buio. Sentivo il mio respiro entrare e uscire dalla bocca. Con due falcate, fui davanti all'armadietto e lo illuminai. Controllai ogni scaffale, con la polvere che mulinava nel fascio di luce bianca. Gli ossari ricostruiti erano lì. I frammenti anche. Le ossa avvolte nel sudario erano sparite. 37 Jake aveva portato le ossa dalla Bloom? Impossibile. Non avrebbe mai lasciato l'armadietto aperto, e non sarebbe mai uscito senza chiudere la porta e lasciando lì passaporto e portafoglio. Le ossa erano state rubate? Jake le avrebbe protette a costo della vita. Oddio. Jake era stato rapito? O peggio?
La paura mi travolse. Una serie di nomi mi tormentava la mente. Hevrat Kadisha. Hershel Kaplan. Hossam al-Ahmed. Tovya Blotnik! Un rumore fece irruzione nelle mie paure. Dei passi sulla ghiaia? Spensi velocemente la luce, trattenni il respiro e rimasi in ascolto. Il fruscio di una giacca, un ramo che sfrega contro l'intonaco del muro, il belato di una capra. Soltanto rumori innocui, niente di ostile. Mi abbassai per cercare il lucchetto, ma non lo trovai. Ritornai in cucina e riposi la torcia elettrica. Chiudendo il cassetto notai la segreteria telefonica posata sulla mensola sovrastante. Il display indicava dieci messaggi non ascoltati. Contai il numero delle telefonate fatte a Jake. Otto: la prima intorno alle cinque, l'ultima prima di uscire dall'hotel. Uno dei messaggi avrebbe potuto indicarmi dove si trovava. Invadere la privacy di Jake? La situazione sembrava maledettamente complicata. Premetti il pulsante. Il primo messaggio era mio. Il secondo di un uomo che parlava ebraico. Colsi le parole Hevrat Kadisha, e isha, donna. Nient'altro. Fortunatamente era stato conciso. Premetti più volte il pulsante fino a quando non riuscii a trascrivere la fonetica. La telefonata successiva era di Ruth Anne Bloom. Disse soltanto il suo nome e che avrebbe lavorato fino a tardi. Gli ultimi sette messaggi erano di nuovo miei. La segreteria telefonica smise di lampeggiare. Che cosa avevo scoperto? Assolutamente niente. Jake era già uscito quando l'avevo chiamato la prima volta? Aveva ignorato o non aveva sentito i miei messaggi? Stava monitorando la situazione? Era uscito dopo avere sentito il messaggio dell'uomo? O di Ruth Anne Bloom? Oppure era uscito senza un particolare motivo? Guardai la scritta indecifrabile sulla mano. Guardai l'orologio. Era mezzanotte passata. A chi telefonare? Ryan rispose al primo squillo. Gli raccontai dove mi trovavo e cosa avevo scoperto. Il respiro di Ryan comunicava un senso di fastidio per essermi avventurata lì da sola. Sapevo cosa mi avrebbe atteso e non ero dell'umore adatto
per un interrogatorio. «Jake potrebbe essere in pericolo» dissi. «Aspetta un momento.» La voce accanto era quella di Friedman. Spiegai cosa volessi e scandii uno a uno i fonemi annotati. Occorsero diversi tentativi e alla fine Friedman riuscì a tradurre il messaggio in ebraico. L'uomo che aveva chiamato faceva parte della Hevrat Kadisha e telefonava in seguito a una richiesta di Jake. Bene. L'avevo immaginato. La parte successiva della traduzione di Friedman invece mi sorprese. Una donna aveva fatto parecchie telefonate «assillanti». «Tutto qua?» «L'uomo che ha chiamato spera che le mani del tuo amico si secchino e cadano se dovesse profanare un'altra tomba.» Una donna aveva chiamato la Hevrat Kadisha? Udii un fruscio mentre Friedman ripassava il ricevitore a Ryan. «Sai cosa voglio che tu faccia.» Secco. «Sì» risposi. «Tornerai all'American Colony?» «Sì.» Più tardi. Ryan non ci cascò. «Ma prima?» «Rovisterò tra le carte di Jake. Potrei trovare delle informazioni utili e la lista dei nomi delle persone che lavorano allo scavo di Talpiot.» «E poi?» «Chiamarli.» «E poi?» L'adrenalina mi stava salendo. I paternalismi di Ryan non l'aiutavano a scendere. «Presentarmi davanti all'ex quartiere generale di Arafat, mettere in bella mostra le gambe e strappare un appuntamento per sabato sera.» Rayan ignorò quelle parole. «Ovunque tu vada, per favore telefona.» «Lo farò.» «È un ordine.» «Chiamerò.» Una pausa. Fui io a rompere il silenzio.
«Cosa sta facendo Kaplan?» «Si è ritirato presto.» «Lo avete in pugno?» «Sì. Tempe. È probabile che Kaplan non sia il nostro uomo. In quel caso lo è qualcun altro.» «Va bene. Non andrò a Ramallah.» Ryan proseguì il discorso secondo i suoi parametri. «Alle volte sei davvero insopportabile, Brennan.» Io secondo i miei. «Ci lavorerò su.» Riagganciai e mi precipitai nell'ufficio di Jake. Gli oggetti di fianco al computer attrassero la mia attenzione. L'ansia era salita alle stelle. Lo scavo di Jake si trovava nel deserto. Non ci sarebbe andato senza gli occhiali da sole. Non sarebbe andato da nessuna parte senza la carta d'identità. Le chiavi della macchina? Cominciai a frugare tra le carte, aprendo e chiudendo i cassetti. Niente chiavi. Controllai in camera da letto, in cucina, nello studiolo. Niente chiavi. E nessuna informazione sulla squadra degli scavi di Talpiot. Nessuna lista di nomi. Nessun foglio dei turni. Nessun registro con le matrici degli assegni. Zero assoluto. Ritornando al computer, notai un post-it giallo spuntare da sotto la tastiera. Lo afferrai. Uno scarabocchio di Jake. Il nome di Esther Getz e un numero di telefono a quattro cifre di Blotnik, al Museo Rockefeller. Un pensiero improvviso. Potrebbe essere la Getz la donna che aveva telefonato alla Hevrat Kadisha? Non avevo uno straccio di prova che me lo confermasse. Niente. A eccezione del sesso. E comunque cosa c'entravano le chiamate alla Hevrat Kadisha in tutta questa storia? Riflettiamo. Jake aveva forse intenzione di vedere la Getz? O la Bloom? O entrambe? Fissai lo sguardo sul numero. Chiamare a quest'ora sarebbe stato inutile. E anche maleducato. Ma volevo che la Bloom sapesse che stavo cercando Jake. Quattro squilli. Segreteria telefonica. Messaggio. Rimasi immobile per un momento, le dita premute sul ricevitore.
La Getz? Perché no? Segreteria telefonica. Messaggio. E adesso? Chi altro chiamare? Sapevo che era del tutto inutile telefonare, ma nello sconforto era difficile elaborare idee migliori. Il cursore lampeggiante del mio cervello iniziò a trasmettere dei segnali. Acceso. Spento. Acceso. Spento. Quando ragionare non porta a nulla, spesso riepilogo i fatti certi nella speranza che emerga uno schema, un disegno. Pensa. Lo scheletro di Masada. Rubato. Le ossa nel sudario. Scomparse. Jake. Scomparso. Courtney Purviance. Scomparsa. Avram Ferris. Deceduto. Hershel Kaplan. Assoldato per eliminare una persona. Da una donna. Forse. Adesso è in Israele. Stava cercando di vendere le ossa? La mia stanza di albergo era stata messa a soqquadro. La mia macchina pedinata. Le telefonate di Ferris-Kaplan-Blotnik. Ruth Anne Bloom. Non mi fido di lei. Perché? L'ammonizione iniziale di Jake di non contattare l'Autorità archeologica israeliana? Tovya Blotnik. Jake non si fida di lui. Le ossa rinvenute nella Grotta 2001 sono collegate alle tombe del Kidron. C'era un comune denominatore? Sì. Tutto era riconducibile a Max. Perché quel prurito nel mio cervello? C'era un tassello mancante? Forse, ma io non lo vedevo. Lo sguardo cadde su una fotografia sopra il monitor. Jake, sorridente, teneva in mano un vaso. La mia mente era diventata un intricato groviglio di pensieri. Jake. Scomparso. Composi un altro numero di telefono. Mi sentivo disorientata quando una voce rispose. «Sono qui» rispose in tono soffocato, come se stesse tenendo la mano a coppa intorno alla bocca.
Mi presentai. «L'americana?» Sorpreso. «Mi scusi se la chiamo a quest'ora, dottor Blotnik.» «Sto... sto lavorando.» Colto alla sprovvista, impreparato. Non era la voce che si aspettava di sentire. «Come al solito.» Ricordai la mia prima telefonata all'Autorità archeologica israeliana. Quella volta Blotnik non stava certamente lavorando fino a tardi. Saltai i convenevoli. «Avete visto Jake Drum oggi?» «No.» «Ruth Anne Bloom?» «Ruth Anne?» «Sì.» «Ruth Anne è andata in Galilea.» Bloom aveva lasciato a Jake un messaggio dicendo che avrebbe lavorato fino a tardi. Ma dove? A casa? Al Rockefeller? In un laboratorio qualsiasi? Aveva cambiato programma? Stava mentendo? O stava mentendo Blotnik? Oppure aveva semplicemente frainteso? Presi rapidamente una decisione. «Devo parlarle.» «Stanotte?» «Adesso.» «È impossibile. Sono...» Blotnik era chiaramente innervosito. «Sarò lì tra mezz'ora. Mi aspetti.» Non ascoltai la risposta. In macchina pensai a Ryan. Avrei dovuto chiamarlo e comunicargli la mia nuova destinazione; mi ero scordata di farlo prima di uscire e non avevo con me il cellulare. Gli avrei telefonato da Blotnik. Doveva essere la mia notte fortunata. Trovai il cancello aperto. In realtà avrei dovuto leggerlo come un monito. Mi convinsi invece che Blotnik fosse arrivato prima. Entrai con l'auto nell'edificio recintato, girai intorno al cortile, parcheggiai velocemente e percorsi a piedi il vialetto di accesso. La nebbia stava lasciando il posto alla foschia. L'aria odorava di terra umida, di fiori e di foglie morte. Il Rockefeller si ergeva come una gigantesca fortezza nera, i contorni si confondevano con la notte vellutata. Girato l'angolo gettai lo sguardo verso
il cancello da cui ero appena entrata. Oltre la strada, la Città Vecchia dormiva profondamente. Un luogo di sassi scuri e silenziosi, dove i fattorini, le casalinghe, le ragazzine appena uscite da scuola erano soliti farsi largo tra la folla stipata nei vicoli. Mentre osservavo, un'auto da Sultan Suleiman curvò in direzione di Derech Jericho, i fari bianchi spazzarono via la foschia. Mi diressi verso la porta secondaria, un'entrata utilizzata solamente dal personale del museo. Era aperta, come il cancello. Appoggiai la spalla contro lo stipite, spinsi piano ed entrai. Un'antica struttura dominava il piccolo vestibolo color ocra. Davanti, un breve corridoio terminava con delle porte che si affacciavano sulle sale del museo. Sulla destra, una scala a chiocciola di ferro conduceva agli uffici del personale. L'altra volta io e Jake eravamo entrati dall'interno. Vicino alle porte, su uno scaffale di legno, individuai un telefono. Mi avvicinai all'apparecchio e sollevai il ricevitore. Il segnale di linea risuonò come un corno francese nel silenzio generale. Composi il numero di Ryan. Non rispose. Forse Kaplan era di nuovo in movimento? Lasciai un messaggio. Respirai profondamente, salii la scala, la mano sulla balaustra. Il peso sulla punta delle dita dei piedi. Giunta in cima, procedetti verso il lungo corridoio, l'eco dei passi risuonava tra le pareti e il pavimento. Un'unica lampada salvava l'ambiente dalla totale oscurità. A destra, la balconata a ringhiera dava sulle stanze del primo piano. A sinistra, alcune nicchie scomparivano nel buio. Davanti, l'ingresso da dove eravamo entrati io e Jake quando avevamo fatto visita alla Getz. Dalla quarta rientranza si diffondeva un chiarore soffuso. Addentrandomi capii il motivo. Una pallida luce gialla filtrava attraverso le fessure della porta di Blotnik. Così come delle voci, a stento udibili, ma apparentemente serene. Era l'una di notte. In nome di Dio, chi ci poteva essere con Blotnik? Jake? Bloom? Getz? Bussai delicatamente alla porta. La conversazione non s'interruppe. Bussai di nuovo, decisa. Nessuna variazione di tono, nessuna esitazione. «Dottor Blotnik?» Gli uomini continuavano a parlare. Erano uomini? Mi avvicinai e appoggiai l'orecchio alla porta. «Dottor Blotnik?» Più forte. «È lì?»
Buffo come la mente riesca a scattare un'istantanea. Vedo ancora il pomello, vecchio, verdastro. Sento ancora l'ottone freddo sul palmo della mano. La ragione s'illumina, veloce, traccia delle mappe mentre i sensi cercano un punto di riferimento. I cardini cigolarono mentre la porta si apriva. Le voci. L'odore. Una parte del mio cervello registrò. Senza sapere, sapevo. 38 Sprazzi di realtà. Data byte che scorrevano nelle mie orecchie, nel naso, negli occhi. Una conversazione pacata. Le voci della BBC. La radio sul mobile di fianco alla scrivania di Blotnik. Un odore di cordite nell'aria. Qualcosa d'altro. Del rame, del sale. Pelle d'oca sulla nuca, sulle braccia. Cercai con gli occhi la scrivania. Una lampada da tavolo diffondeva un'inquietante luce verde. Carte ammucchiate e strappate nel libro contabile. Libri e penne disseminati dappertutto. Un vasetto rovesciato, rotto in due pezzi, il piccolo cactus con le radici fuori dalla terra. La sedia di Blotnik aveva assunto una strana inclinazione, mancava la parte superiore. Dietro e sopra intravedevo delle goccioline di sangue, come se il muro fosse stato ferito a morte. Schizzi ad alta velocità. Mio Dio. A chi avevano sparato? A Jake? A Blotnik? Non volevo guardare. Dovevo guardare. Con passo lento mi diressi verso la scrivania. Con la coda dell'occhio non persi di vista l'entrata. Nessun cadavere. Sollievo? Confusione? In fondo, sulla destra, notai un ripostiglio. Una fessura tra lo stipite e l'anta irradiava un debole chiarore. Mi avvicinai e con la punta delle dita sospinsi la porta. Assimilazione di altre immagini. Legno scuro, liscio da generazioni di troppa vernice. Scaffali di metallo ricolmi di materiale di cancelleria, scatole, recipienti con l'etichetta. La zona di luce proveniva dall'angolo e si propagava sulla
sinistra. Avanzai con cautela, sfiorando con la mano il bordo di un ripiano. Cinque passi avanti e il mio piede scivolò su qualcosa di appiccicoso e bagnato. Guardai in basso. Un rivolo scuro serpeggiava intorno all'angolo. Come il grido prima dello schianto. L'ombra prima dell'attacco del falco. L'allarme mentale suonò. Era troppo tardi. Troppo tardi per chi? Costrinsi me stessa a procedere oltre. Blotnik giaceva supino, lo yarmulke intriso di sangue conficcato dentro il cranio. Aveva una ferita sulla schiena e un'altra sulla spalla. La pozza di sangue intorno al corpo si stava coagulando. Portai la mano alla bocca. Mi girava la testa, avvertii un senso di nausea. Mi accasciai contro il muro, un pensiero vorticava nella mia mente. Non Jake, non Jake. Dimmi che non sei stato tu, Jake. Allora chi? Gli estremisti ultra-ortodossi? I fanatici cristiani? I fondamentalisti islamici? Un secondo. Cinque. Dieci. Ritornai in possesso delle mie facoltà mentali. Evitando il sangue, mi accovacciai e appoggiai le dita sul collo di Blotnik. Polso assente. La pelle era tiepida, non fredda. Non era morto da molto tempo. Certo che no. Lo sapevo. Gli avevo parlato meno di un'ora prima. L'assassino si trovava ancora qui? Ritornai barcollando nell'ufficio e alzai il ricevitore del telefono. Muto. Percorsi con gli occhi il tragitto del filo. Un taglio netto a tre pollici dall'apparecchio. Tensione massima. Lo sguardo scivolò rapido sulla scrivania e l'attenzione cadde su un foglio. Perché proprio quello? Messo al centro del libro contabile, ordinato, pulito. Malgrado la confusione. Prima della confusione. Prima della confusione? Blotnik lo stava leggendo? Avrebbe potuto condurmi da Jake? Luogo del delitto! Non toccare!, ordinò l'emisfero sinistro del cervello.
Trova Jake!, controbatté l'emisfero destro. Presi il foglio. Era il rapporto di Esther Getz sul sudario. Indirizzato a Jake. Blotnik era autorizzato a leggere il rapporto della Getz? Lo aveva rubato dall'ufficio della Getz? O questo tipo di rapporti gli veniva consegnato abitualmente? La Getz lavorava per il Rockefeller, non per l'Autorità archeologica israeliana. Non era questa la ragione per cui Jake era andato da lei rifiutandosi di parlare con Blotnik? La Getz si era offerta di prendere il sudario per conto dell'Autorità archeologica israeliana? O faceva parte dello staff di Blotnik? Lavorava sia per l'Autorità archeologica israeliana sia per il Rockefeller? Non avevo mai chiesto a Jake di chiarire la questione. La Getz aveva stretto un patto segreto con Blotnik? Complici le ossa del sudario? Jake però non aveva raccontato alla Getz delle ossa nel sudario. Oppure sì? Il nome e il numero di telefono della Getz erano sul post-it, nell'ufficio di Jake. Si erano parlati dopo che le avevamo consegnato il sudario? Jake odiava Blotnik. Non gli avrebbe mai consegnato il rapporto. Un pensiero orribile. Qualcuno aveva rubato le ossa nel sudario. Sospettando di Blotnik, Jake si era precipitato qui per riaverle indietro. Jake possedeva una pistola. Le cose erano sfuggite di mano? Aveva ucciso Blotnik in un impeto di rabbia? Scorsi rapidamente il rapporto. Tre parole balzarono agli occhi. «Resti di scheletro.» Lessi il capoverso. La Getz aveva rinvenuto dei frammenti microscopici di ossa nel sudario e indicava la possibile esistenza di frammenti più grandi. Blotnik sapeva! Scandagliai rapidamente l'ufficio. Le ossa non c'erano. Stavo controllando il ripostiglio quando udii un leggero scricchiolio. Il respiro mi si congelò in gola. Il cardine della porta! Qualcuno era entrato nell'ufficio di Blotnik! Dei passi attraversarono la stanza. Fruscio di carte. Ancora passi. Verso il mobile? Senza riflettere, indietreggiai e mi nascosi nell'angolo. Una scarpa scivolò sulla pozza di sangue. Caddi in avanti. L'istinto prese il controllo. Con le mani cercai un'ancora di salvezza.
Con le dita afferrai un montante. Lo scaffale traballò. Frammenti di tempo. Un pacco di asciugamani di carta vacillò per poi cadere sul pavimento. Tump. Un silenzio improvviso scese nell'ufficio. Silenzio assoluto nel ripostiglio. Predatore e preda annusavano l'aria. Poi dei passi frettolosi. Fuori? Sollievo? Poi paura, come un pugno che preme sul petto. I passi si dirigevano nella mia direzione. Mi rannicchiai, paralizzata, concentrata su ogni rumore. La mente recuperò un ammonimento dimenticato. Non concedere mai il vantaggio della luce. L'ospite invitato da Blotnik mi avrebbe visto meglio di quanto io avrei visto lui. Afferrai un libro e mirai alla struttura alle mie spalle. La lampadina si frantumò cadendo a pioggia sul corpo di Blotnik. Una sagoma in controluce riempì il vano della porta. Una borsa voluminosa pendeva dalla spalla sinistra, il braccio destro, flesso all'altezza del torace, puntava verso di me un oggetto scuro. Un cappello a tesa larga oscurava il viso e non riuscii a distinguere i lineamenti. Schiarimento di voce, poi: «Mi sham?». Chi c'è laggiù? La voce era femminile. Rimasi immobile, rigida. La donna si schiarì di nuovo la voce e provò in arabo. Nell'ufficio una voce metallica annunciò il notiziario della BBC. La donna fece un passo indietro. Tra i riflessi di luce intravidi un paio di stivali, dei jeans e una camicia color kaki. Le ascelle bagnate. Un ricciolo biondo pendeva a lato del cappello. La donna era pesante, troppo bassa per assomigliare alla Getz. E bionda. Ruth Anne Bloom? Avvertii del sudore sul viso. Un calore freddo nel petto. Questa donna aveva ucciso Blotnik? Avrebbe ucciso me? Un pensiero emerse nel mio cervello. Ferma!
«Chi sei?» «Sono io che faccio le domande.» La donna rispose al mio inglese in inglese. Non era Ruth Anne Bloom. L'inglese della Bloom era fortemente accentato. Non risposi. «Rispondi o mi costringerai a farti del male.» Dura, ma agitata. Insicura. «Chi sono io non ha alcuna importanza.» «Decido io cosa ha importanza.» Voce sonora. Minaccia di violenza. «Il dottor Blotnik è morto.» «E io ti farò saltare le cervella.» Un poliziotto in servizio? O una delle tante donne che guardavano troppa televisione? Prima che potessi rispondere, parlò di nuovo. «Aspetta un attimo. Ho già sentito il tuo accento. Io ti conosco.» Anche la sua voce era familiare. Ma quando? Dove? Le nostre strade si erano già incrociate? All'hotel? Al museo? Alla centrale di polizia? Non avevo incontrato molte donne in Israele. Un pensiero improvviso. Uno dei messaggi nella segreteria di Jake era stato lasciato da una donna che vessava la Hevrat Kadisha. Una donna aveva fatto parecchie telefonate «assillanti». Avrebbe potuto essere lei quella donna? Aveva un suo personale piano su Max? Aveva rubato le ossa del sudario? Non avevo idea di quale potesse essere il suo movente. Parlava inglese, ebraico e arabo. Era cristiana? Ebrea? Musulmana? «Confiscare ossa in nome di Dio?» buttai là. Nessuna risposta. «La questione è: quale Dio?» «Oh, per favore.» Respiro umido. La mano libera della donna si affrettò a raggiungere il viso. Ero incerta su come indagare. «So dello scheletro di Masada.» «No che non lo sai.» Respiro da raffreddore. «In piedi.» Mi alzai. «Mani sulla testa.» Mi alzai e ubbidii. Sensazione di smarrimento. Provai in un altro modo. «Perché uccidere Blotnik?»
«Danno collaterale.» Ferris? Perché no? «Perché assassinare Ferris?» La donna si irrigidì. «Non ho tempo per le chiacchiere.» Intuii di avere toccato il tasto giusto. Scavai più a fondo. «Due proiettili nel cranio. Che crudeltà.» «Taci!» La donna tirò su col naso e si schiarì la gola. «Avresti dovuto vedere cosa gli hanno fatto i gatti.» «Piccoli bastardi puzzolenti.» Quando le cose s'inseriscono al posto giusto, spesso lo fanno rapidamente. Non saprei dire cosa intuii. L'intonazione delle frasi. Lo sgocciolamento del naso. I capelli biondi. Il trilinguismo. Il fatto che mi conoscesse, che sapesse dei gatti. All'improvviso un nesso tra fatti disgiunti. Una donna ha commissionato a Hersh Kaplan l'omicidio di Avram Ferris. Kaplan ha detto che sembrava una cocainomane. Il respiro da raffreddore. Lo schiarimento della gola. «Ho la sinusite.» Avevano telefonato a Kaplan dal magazzino nei pressi dell'aereoporto Mirabel la settimana in cui Ferris era andato in vacanza con Miriam. «Quindi qualcuno ha telefonato a casa di Kaplan dal magazzino di Ferris mentre lui era in Florida. Ma Kaplan non aveva telefonato al magazzino, né da casa né dal negozio, quindi era improbabile che Purviance chiamasse Kaplan per rispondere a un messaggio che aveva lasciato per Ferris. Quindi chi diavolo ha fatto quella telefonata? E perché?» Ferris era stato assassinato con una Jericho calibro 9 semiautomatica. Un certo Ozols aveva denunciato il furto di quella pistola. A Saint-Léonard. «E questo significa "quercia" in lettone. Pare che qui si sia riunito il club arboreo internazionale.» Ozols. Quercia. Il nome lettone l'avevo visto scritto nell'atrio del palazzo di Courtney Purviance. «C'è un altro sviluppo interessante. Courtney Purviance è scomparsa.» Il mio subconscio elaborò una mappa mentale dettagliata. Courtney Purviance aveva ucciso Avrarn Ferris. Non era stata sequestrata. Era di fronte a me e mi puntava una pistola dritta al petto. Era così. Purviance conosceva il magazzino e ciò che conteneva. Proba-
bilmente sapeva di Max. Viaggiare in Israele era una costante del suo lavoro. Volare qui una routine. Ma perché uccidere Ferris? E Blotnik? Convinzione religiosa? Cupidigia? Folle vendetta personale? Mi ucciderebbe con il medesimo cinismo? Avvertii un fremito di paura, poi pericolo, poi un senso di calma, come fossi in stato di trance. Avrei dovuto rassegnarmi. Con una pistola puntata non sarei andata molto lontano. «Cosa è successo Courtney? Ferris non ti ha concesso una fetta di torta abbastanza grande?» Abbassò la pistola e aggiustò il tiro. «O ne volevi semplicemente di più?» «Falla finita.» «Hai dovuto rubare un'altra pistola?» Purviance si irrigidì di nuovo. «O è più facile procurarsela in Israele?» «Ti avverto...» «Povero signor Ozols... non si tratta così un vicino di casa.» «Perché ti trovi qui? Perché sei coinvolta in questa storia?» Purviance era nervosa, sul punto di premere il grilletto. Decisi di bluffare. «Sono della Squadra Omicidi.» «Vieni avanti.» Agitò la pistola. «Lentamente.» Feci due passi. Mentre mi avvicinavo Purviance retrocedeva. Ci squadrammo l'un l'altra sotto la fioca luce verde. «Sì. Sei venuta a casa mia insieme a quel detective.» «La polizia ha gradito l'assassinio di Ferris.» Mi adeguai al linguaggio da poliziotto hollywoodiano adottato da Purviance. «E tu sei una di loro.» Sarcastica. «Sei in arresto.» «Sul serio?» Respiro umido. «C'è una squadra in attesa di una tua telefonata oppure aspettiamo che facciano irruzione nel museo?» Il bluff non aveva funzionato. Continuai a utilizzare un gergo da poliziotto e provai una nuova tattica. «Dai parla. Rischi una condanna coi fiocchi. Ferris vendeva della merce che non avrebbe dovuto vendere. Maledizione, parla.» Purviance si inumidì le labbra, ma non disse una parola. «Ti sei fatta furba, giusto? Gli hai consigliato di non vendere tutte le os-
sa. Almeno non senza averti incluso nell'affare. Lui invece ti ha tagliato fuori.» Sul volto di Purviance passavano sentimenti contrastanti. Era arrabbiata e ferita. I nervi a fior di pelle. Una pessima combinazione. «Ma chi credi di essere? Sei soltanto la segretaria. La cameriera. Una pollastrella che gli stira le mutande. L'imbecille ti trattava come una pezza da piedi.» «È falso.» Insistetti. «Quel Ferris era una carogna, fredda come il marmo.» «Avram era una brava persona.» «Certo. Anche Hitler amava i cani.» «Avram amava me» le sfuggì di bocca. Mi ricordai di un'altra cosa. Purviance viveva da sola. Tutte quelle telefonate dal magazzino Mirabel a casa sua. Ferris e Purviance non erano soltanto colleghi, ma amanti. «Te lo ha fatto credere. La carogna si stava prendendo gioco di te. Probabilmente ti diceva anche che presto avrebbe lasciato la moglie.» «Avram mi amava.» Ripeté. «Sapeva che ero diecimila volte meglio di quella sgualdrina.» «Ecco perché è andato a svernare al sud in compagnia della cara Miriam. Non sei una stupida. Avevi capito che non l'avrebbe mai lasciata.» «Lei non lo amava.» Amara. «Lui era troppo debole per reagire.» «Atto primo. Miriam che gli spalma la crema e tu che te ne stai da sola nel tuo appartamento mentre fuori si gela. Sarai anche la sua preferita, ma chi ha lasciato a rispondere al telefono? E per di più quel vigliacco non vuole neanche includerti nell'affare dello scheletro.» Purviance si asciugò il naso con il dorso della mano che impugnava la pistola. «Atto secondo. Kaplan ti ha imbrogliato. Prima ti frega il tuo amante e poi anche il sicario che hai assoldato. Una vera sfortuna.» Purviance con uno scatto fulmineo mi puntò la pistola in faccia. Calma. Non provocarla. «Ferris era in debito con te. Kaplan pure. Sapevi che lo scheletro valeva parecchi soldi. Perché non prenderlo?» «Perché no.» Provocatoria. «Poi le ossa sono sparite. Atto terzo. Fregata di nuovo.» «Zitta.»
«Sei tornata in Israele per rubarle a tua volta. Non le hai trovate. Atto quarto. Fregata di nuovo.» «Fregata? Penso proprio di no.» Purviance diede un colpetto alla borsa. Udii il rumore sordo di un contenitore di plastica. «Hai fegato. Hai già ammazzato il tuo principale. Perché non Blotnik?» «Blotnik era un ladro.» «Ti ha evitato la seccatura di forzare l'entrata dell'edificio.» Un sorriso affilato le attraversò il volto. «Non avevo idea di dove fossero le ossa, fino a quando Blotnik non me lo ha rivelato. Poveraccio, le ha possedute soltanto per un paio di ore.» «Come era venuto a sapere della loro esistenza?» «Qualche vecchio ricercatore ha trovato dei frammenti mentre esaminava il sudano. Accidenti.» Purviance diede un altro colpetto alla borsa. «Questa roba potrebbe valere meno di niente o più del Santo Graal. Questa volta non corro rischi.» «Cosa ti ha offerto Blotnik? Credeva che avessi lo scheletro di Masada?» Il freddo sorriso apparve nuovamente. «Soltanto truffare il truffatore.» Lei aveva ucciso Blotnik, aveva rubato le ossa nel sudario ed era fuggita. Perché era tornata indietro? «Un piano perfetto. Perché tornare sui propri passi?» «Sappiamo entrambe che una reliquia vale zero senza un documento...» Lo sentimmo nello stesso istante. Il cigolio di una suola di gomma. La mano di Purviance tremò sulla pistola. Lei esitò, indecisa. «Cammina!» Sibilò. Indietreggiai verso il ripostiglio, gli occhi puntati sulla pistola di Purviance. La porta del ripostiglio sbatté. Una chiave la chiuse. Passi veloci, poi il silenzio. Accostai l'orecchio allo stipite. Un fruscio, coperto dal brusio di un commentatore radiofonico. Stare calmi? Richiamare l'attenzione? Maledizione. Iniziai a battere i pugni. Gridai. Alcuni istanti più tardi la porta dell'ufficio si spalancò andando a urtare il muro.
Il cuore batteva forte. Mi nascosi nell'angolo. Una striscia di luce sotto la porta del ripostiglio. Suole di gomma. La serratura scattò. La porta si aprì. 39 Non ero mai stata così felice di vedere qualcuno in vita mia. «Che diavolo ci fai tu qui?» Il tono di Jake era scioccato. «L'hai vista?» «Chi?» «Purviance.» «Chi è Purviance?» «Non importa.» Avanzai con determinazione verso di lui e lo afferrai per un braccio. «Dobbiamo fermarla.» Lo strattonai. Iniziammo a correre. «Non ha più di tre minuti di vantaggio.» Fuori dall'ufficio. Giù nell'ingresso. «Chi è Purviance?» «La donna che ha le tue ossa.» Aggrappandomi al corrimano saltavo tre gradini alla volta. Jake mi stava dietro. «Sei venuto in macchina?» esclamai. «Con il furgone della squadra degli scavi. Tempe...» «Dov'è?» Avevo il fiato corto. «Nel vialetto, all'entrata.» Mentre ci precipitavamo fuori dalla porta, un'auto ci passò davanti. «È lei» dissi ansimando. La vettura sfrecciò fuori dal cancello. «Andiamo!» Aprimmo con uno strattone le portiere e ci catapultammo nel furgone. Jake girò la chiave, inserì la marcia e con rapide manovre imboccò l'uscita. In quel momento la macchina di Purviance stava scomparendo dalla nostra vista. «Ha girato a sinistra sulla Sultan Suleiman.» Jake dette gas. La ghiaia scricchiolò sotto le gomme e ci lanciammo al-
l'inseguimento. «Che modello è?» «Citroën C-3, credo. L'ho solamente intravista.» Ci tuffammo giù per la strada ripida. Più avanti, la Città Vecchia era avvolta nella foschia. Senza quasi toccare il freno, Jake sterzò velocemente a sinistra. Venni scaraventata a destra e urtai con la spalla contro il finestrino. Di fronte, i fanali di coda della Citroën svoltarono di nuovo a sinistra. Jake premette il piede sull'acceleratore. Allungai la mano e con un movimento rapido allacciai la cintura di sicurezza. Jake girò in Derech Jericho. La Citroën guadagnava vantaggio. I fanali di coda erano ora due luci rosse sfuocate. «Dove sta andando?» «Siamo in HaEgoz Street, più indietro, però, si chiama Jericho Road. Potrebbe dirigersi a Gerico. Maledizione, potrebbe dirigersi in Giordania.» La strada era semideserta. I lampioni a lato del marciapiede avvolti nella nebbia. Purviance toccò gli ottanta chilometri all'ora. Jake le stava dietro. Purviance toccò i cento. «Aspetta.» Appoggiai le mani sul cruscotto. Jake spinse a fondo l'acceleratore. Il distacco tra le due macchine si ridusse. L'aria nel furgone era umida e odorava di chiuso. Il parabrezza si era appannato. Jake azionò i tergicristalli, io abbassai il finestrino. Sul ciglio della strada s'intravedevano delle luci. Appartamenti? Stazioni di servizio? Locali notturni? Sinagoghe? Le costruzioni rassomigliavano a tanti mattoncini neri, come quelli del Lego, ammassati l'uno contro l'altro. Non capivo dove fossimo. Una torre prese forma alla mia destra, delle insegne al neon luccicavano nella foschia. L'Hotel Hyatt. Stavamo per intersecare Nablus Road. Purviance curvò. «Sta andando a nord» dissi con voce nervosa. Jake lo sapeva. Il semaforo divenne rosso. Jake lo ignorò e sterzò bruscamente facendo sbandare l'auto. I fanali di coda della Citroën si ridussero a due puntini. Purviance aveva
guadagnato una cinquantina di metri. Il cuore mi batteva forte. Le mani, salde sul cruscotto, sudavano. Di tanto in tanto un cartellone pubblicitario compariva come un'ombra nel buio. Procedevamo velocemente. All'improvviso dei cartelli stradali emersero dalla nebbia. Ma'aleh Adumin. Gerico. Mar Morto. «Si sta immettendo sull'autostrada numero uno.» La voce di Jake era tesa come un cavo d'acciaio. Accadde qualcosa. I fanali di coda della Citroën s'ingrandirono. «Sta rallentando» dissi. «Posto di blocco.» «La fermeranno?» «Di solito lasciano passare.» Jake aveva ragione. Dopo una breve sosta, la Citroën superò la guardiola. «Dovremmo chiedergli di fermarla?» «Nemmeno per sogno.» «La farebbero accostare.» «Questi ragazzi pattugliano la zona di confine, non sono poliziotti.» Jake frenò. Il furgone rallentò. «Tentiamo.» «No.» «È un errore.» «Non dire una parola.» Ci arrestammo allo stop. La guardia ispezionò l'abitacolo con aria annoiata, poi ci fece cenno di proseguire. Prima che potessi parlare, Jake accelerò. Un pensiero improvviso. Al museo Jake non mi aveva chiesto di Blotnik. Non gli avevo dato il tempo di farlo? Sapeva già che Blotnik era morto? Mi voltai a guardarlo. Era una sagoma scura, il collo lungo corrugato dalla cannula ossuta della gola. Mio Dio. Forse Jake aveva un suo piano? Jake aumentò la velocità. Il furgone traballò. Le mie mani sbatterono contro il cruscotto. La strada era di nuovo vuota, il mondo ridotto alle due macchie rosse e sfuocate della Citroën.
Purviance sfiorò i centodieci, poi i centotrenta. Sfrecciavamo attraverso il deserto, un luogo più antico del tempo. Lungo i bordi dell'autostrada si estendevano colline di terracotta, vallate fiammeggianti, gli accampamenti dei beduini con i loro capanni malandati e il bestiame che riposava beato. La terra desolata di Giudea. Un paesaggio lunare di ossa bianche e di sabbia immerso nella nebbia. Chilometri e chilometri di silenzio. Il nulla. Di quando in quando, un fanale rarefatto inondava di luce artificiale la Citroën. Qualche secondo dopo avrebbe illuminato il nostro furgone, tingendo le mie mani allungate sul cruscotto di un surreale color salmone. Purviance aveva toccato i centoquaranta all'ora. Jake le teneva testa. Curva dopo curva, i fanali di coda della Citroën comparivano e scomparivano alla nostra vista. Il furgone era sotto sforzo. Riducemmo la velocità. La tensione nell'abitacolo era palpabile. Nessuno di noi due parlava mentre concentravamo l'attenzione su quegli occhi rossi pulsanti. Urtammo una cunetta. Jake inserì una marcia più bassa. Le ruote anteriori spiccarono il volo, poi fu la volta di quelle posteriori. Il furgone ricadde pesantemente al suolo facendomi oscillare violentemente la testa. Guardai avanti e vidi i fanali di coda scomparire nella foschia. Jake inserì la quarta e puntò dritto nella loro direzione. Le luci s'ingrandirono. Sbirciai nello specchietto laterale. Nessuno dietro. Nei miei ricordi ciò che successe dopo si svolse al rallentatore, come in un replay, anche se in realtà la scena durò probabilmente un minuto e mezzo. La Citroën imboccò una curva. Noi dietro. Ricordo il luccichio dell'asfalto. Il tachimetro segnava centotrenta chilometri orari. Le mani di Jake incollate al volante. A un tratto, dall'altra corsia sbucò una macchina, fasci di luce velata fendevano la foschia. Un bagliore, poi i fari si infransero contro la Citroën. Purviance sterzò. Istintivamente si buttò a destra, due ruote si bucarono. Purviance sterzò nuovamente. La Citroën rimbalzava sull'asfalto. La macchina percorreva la corsia centrale illuminando la Citroën. Vidi la testa di Purviance ciondolare avanti e indietro come se stesse lottando con il volante. La luce rossa fissa indicava che aveva il piede schiacciato sul freno. La macchina cambiò direzione, allontanandosi dalla Citroën. Azione e reazione. Anche la Citroën cambiò direzione e sbandò finendo di nuovo sul ghiaino depositatosi ai bordi dell'autostrada. Purviance sterzò rapidamente verso il centro della carreggiata ritornando
sull'asfalto. La macchina riemerse inspiegabilmente sulla destra. La Citroën sbatté contro il guardrail producendo una pioggia di scintille. In preda al panico Purviance cercò in tutti i modi di dirigersi a sinistra. La Citroën centrò una pozzanghera, planò e iniziò a roteare vorticosamente. La macchina si stava ora dirigendo a gran velocità verso di noi, le ruote tra le due corsie. Intravidi la testa dell'autista. Intravidi un passeggero. Mi preparai all'impatto. Jake sterzò. Ci lanciammo a destra e uno pneumatico anteriore si bucò. La macchina ci superò rombando. Uno pneumatico posteriore si bucò. La gamba di Jake pulsava, le mani inchiodate al volante. Perdemmo la direzione, sassi e ghiaia colpivano ripetutamente il guardrail. Puntai le mani contro il cruscotto cercando di tenere piegati i gomiti. Abbassai il mento verso il busto. Sentivo il metallo urtare il metallo. Sollevai lo sguardo e vidi i fari della Citroën roteare di lato. Rimasero sospesi per un attimo per poi inabissarsi nel buio. Udii un'esplosione metallica mista a sabbia e terra. Un'altra. Il lamento di un clacson. Continuo. Terribile. La velocità diminuì. Lo sfregamento contro il guardrail era sempre più lento. Il furgone si era appena fermato quando Jake afferrò il cellulare. «Accidenti.» «Non c'è segnale?» «Maledizione.» Jake gettò il telefono sul cruscotto e diede un colpo per aprire il portaoggetti. «Torce elettriche.» Trovai le Mag-Lite e Jake tirò fuori i razzi di segnalazione dal furgone. Nel guardrail si era aperto un varco. Guardammo giù. La nebbia era come un oceano denso che inghiottiva il nostro segnale luminoso. Mentre Jake posizionava i razzi di segnalazione, io scavalcai e scesi lungo il dirupo. Giunta in fondo individuai alcuni oggetti. Un cerchione, una parte di cruscotto e un frammento dello specchietto laterale. La Citroën era una montagnola immersa nel buio. La illuminai con la Mag-Lite. All'impatto l'auto si era capottata, i vetri dei finestrini frantumati. Vapore
e fumo uscivano dal cofano accartocciato. Purviance giaceva per terra, il busto immobile, riversa come una bambola di pezza gettata sul pavimento. Aveva il viso talmente imbrattato di sangue che era impossibile vedere la pelle. La giacca era impregnata. Udii uno scricchiolio, poi al mio fianco comparve Jake. «Dio mio!» «Dobbiamo tirarla fuori» dissi. Insieme, io e Jake cercammo di liberarla. Il suo corpo era viscido per l'umidità e il sangue. Continuavamo a perdere la presa. Sopra di noi, un furgone frenò. Uscirono due uomini e iniziarono a rivolgerci delle domande. Li ignorammo e ci concentrammo su Purviance. Cambiammo lato. Non funzionava. Mancava la giusta angolazione. Purviance gemette piano. Afferrai la torcia e la feci scorrere lungo il suo corpo. Schegge di vetro brillavano sui vestiti e nei capelli intrisi di sangue. «Ha un piede incastrato tra i pedali» dissi. «Entrerò dall'altra parte.» «Scordatelo.» Non c'era tempo per le discussioni. Girando intorno alla Citroën, esaminai i resti del finestrino del passeggero. Lo spazio era sufficiente. Appoggiai la torcia, mi piegai e senza riflettere mi infilai dentro. Strisciando sui gomiti, riuscii a raggiungere il posto del guidatore. Come un cieco che va a tentoni, stabilii di avere ragione. Uno dei piedi di Purviance si era fratturato ed era rimasto intrappolato dietro un pedale. Allungai le braccia e tentai una leggera torsione. Il piede non si mosse. Spinsi più forte. Niente da fare. Un odore acre mi irritava le narici. Mi lacrimavano gli occhi. Gomma bruciata! Il cuore risuonò sordo nella gabbia toracica. Strisciando sull'addome, allungai il busto sul sedile e con uno strattone aprii la chiusura lampo dello stivale di Purviance, afferrai il tacco e tirai. Qualcosa si mosse. Un altro forte strattone e il tacco di Purviance era libero. Poi con le dita sfilai il piede. «Ora!» urlai. Mentre Jake tirava, spinsi il piede lontano dal pedale. Poi uscii dal finestrmo facendomi largo a spintoni. Del fumo fuoriusciva dal motore. Qualcuno dall'autostrada urlava. Non avevo bisogno di un traduttore. «State lontano!» «Sta per saltare in aria!»
Girai intorno alla Citroën e afferrai Purviance per un braccio. Jake teneva l'altro. Insieme la trascinammo via e la adagiammo per terra. Jake si lanciò verso l'auto. «Dobbiamo andarcene da qui!» Jake era avvolto nel fumo. Vidi la sua figura smilza saltare avanti e indietro. «Jake!» Jake sembrava impazzito mentre correva da un finestrino all'altro. «Non ce la faccio da sola!» Jake si allontanò dall'auto e mi aiutò a trascinare Purviance un po' più indietro. Poi corse di nuovo verso la Citroën e cominciò a colpire il bagagliaio. «Sta per esplodere!» urlai in quell'istante. Il piede di Jake non si fermava e lo colpiva ripetutamente. Qualcosa esplose. Il sibilo si fece più rumoroso, il fumo più denso. Eravamo fuori dal raggio d'azione? Una potente esplosione avrebbe trasformato le parti dell'auto in un'arma micidiale. Afferrando Purviance per le braccia, mi voltai e cominciai ad allontanarmi. Il suo corpo era un peso morto. Era già morta? Le stavo procurando più male che bene? Passo dopo passo la trascinai via. Tre metri. Le mie mani erano sempre più intrise di sangue. I palmi e le dita tagliati dalle schegge di vetro. Quattro metri e mezzo. Sirene in lontananza. Le dita mi dolevano. Mi cedevano le gambe. Ma l'adrenalina mi impediva di fermarmi. Una tenace energia interiore mi obbligava a proseguire senza desistere. Decisi infine che mi ero allontanata a sufficienza. Adagiai Purviance per terra. Mi inginocchiai e le tastai il polso. Debole? Non ne ero certa. Aprii la giacca di Purviance e cercai il punto in cui la ferita pompava fuori il sangue. Una mezzaluna le squarciava il ventre. Ci premetti sopra la mano. In quel momento un'esplosione straziò la notte. Udii l'orribile suono della lamiera tranciare altra lamiera. Non appena alzai la testa la Citroën esplose producendo una sfera di lu-
ce. Il fuoco avviluppava il motore proiettando geyser bianchi nella nebbia bluastra. Oddio! Dov'era Jake? Corsi verso la Citroën. A cinque o sei metri le fiamme mi fermarono come se fossero un muro. Alzai un braccio. «Jake!» L'auto era un inferno. Lingue di fuoco lambivano l'abitacolo e sprizzavano fuori dai finestrini. Nessun segno di Jake. «Jake!» Sentivo la cenere mista a sudore scendere lungo il viso. Foschia. Le lacrime sgorgavano sulle guance. «Jake!» Un secondo scoppio scaraventò altri pezzi metallici in aria. Le fiamme bruciavano alte. Un nodo mi cresceva in gola. Le mani strette alle spalle. Qualcuno all'improvviso mi spinse indietro. 40 Sarò diretta e concisa: sopravvissero tutti. Non proprio. Sopravvissero tutti tranne l'uomo nel sudario. Le sue ossa sono ormai cenere. Jake si era ustionato le mani e bruciacchiato le sopracciglia. Niente di serio. Purviance aveva perso parecchio sangue, si era fratturata alcune costole e un piede. La milza, pressoché spappolata, le era stata asportata, e aveva subìto un piccolo intervento chirurgico alla caviglia. Ma si era ristabilita. E scontava la pena in prigione. La Citroën invece non si era ristabilita. Valeva a stento la pena portarla a rottamare. Purviance era rimasta priva di conoscenza per un giorno, poi l'intera vicenda era stata ricostruita. Lentamente. Mentre Ryan forniva dei dettagli basati sulle informazioni ottenute da Kaplan e Birch. La mia mappa mentale si era rivelata esatta. Ferris e Purviance avevano una relazione. Birch aveva trovato le solite cose nel suo appartamento a Saint-Léonard: una veste da camera maschile nel ripostiglio, un rasoio usa e getta e uno spazzolino da denti per ospiti in bagno.
La relazione era iniziata subito dopo che Purviance aveva cominciato a lavorare per Les Imports Ashkenazim. Col passare del tempo iniziò a fare sempre più pressioni su Ferris affinché divorziasse da Miriam. Lui, ogni volta un nuovo pretesto, rimandava sempre. Lei nel frattempo aveva preso in mano le redini dell'azienda. Purviance conosceva bene il genere di operazioni che ruotava intorno al magazzino. In pratica: sapeva tutto ed era coinvolta in tutto. Per caso aveva ascoltato la telefonata di Ferris a Kaplan in cui gli chiedeva di fare da mediatore per lo scheletro di Masada. Per caso aveva ascoltato la sua conversazione con padre Morissonneau e Tovya Blotnik, venendo così a conoscenza della storia dello scheletro. Si risentì perché Ferris gestiva l'affare da solo, escludendola. Non molto prima aveva sentito Ferris parlare con l'agente di viaggi. Ferris stava programmando un viaggio in Florida insieme alla moglie. Fu la goccia che fece traboccare il vaso: Ferris stava organizzando un colpo senza di lei e allo stesso tempo cercava di recuperare il suo matrimonio. Purviance costrinse il suo amante a prendere una decisione. Stanco dei sensi di colpa o dello stress di tenere in piedi la commedia con numeri da equilibrista, Ferris decise di liberarsi di Purviance. Les Imports Ashkenazim stava attraversando un momento difficile, ma dopo tutto gli affari non andavano così male. Il suo rapporto con Miriam migliorava, non aveva quindi più bisogno di Purviance e la vendita dello scheletro lo avrebbe aiutato a superare il momento di crisi. La cosa migliore era licenziare Purviance. Ferris le promise sei mensilità di indennità chiedendole di sparire dalla circolazione. La prima telefonata a Boca durante la vacanza al mare era di Purviance che lo implorava di ripensarci. Ferris troncò bruscamente la conversazione. L'aveva scaricata. Lei era rimasta sola e senza lavoro. La seconda telefonata a Boca era di Purviance e lo minacciava. Era a conoscenza del valore dello scheletro. Voleva partecipare all'operazione, altrimenti avrebbe raccontato a Miriam della loro relazione e informato le autorità dello scheletro. Ferris non le credette. Più Purviance rifletteva su quello che le stava succedendo, più si adirava. Gestiva la società di Ferris e lo aveva accolto nel suo letto. Era stata usata e poi gettata come uno straccio vecchio. Rivelando tutto a sua moglie e alla polizia lo avrebbe ferito, ma non ci avrebbe guadagnato niente. Ferris doveva pagare un prezzo più alto. Liberamente ispirandosi a CSI, Law & Order e NYPD Blue, Purviance decise di assoldare un sicario per disfar-
si di Ferris e impadronirsi dell'azienda. Una brava ragazza ebrea, totalmente estranea al giro malavitoso. Non conosceva nessun sicario. Chi poteva contattare? Kaplan era un ex detenuto che viveva di espedienti. Purviance aveva trascritto il suo numero apparso sul display del telefono del magazzino. Kaplan era sì un delinquente, ma non un assassino. Capì di avere a che fare con un'ingenua e se ne approfittò. Prese i soldi senza portare a termine l'incarico. Derisa, messa in disparte e ingannata, Purviance ribolliva di rabbia e in un impeto d'ira decise di reagire. Sapendo che il suo vicino teneva una pistola in macchina, la rubò e uccise Ferris. La furia ossessiva, tuttavia, le aveva offuscato la capacità di ragionare. Dopo avergli sparato due colpi, Purviance mise la Jericho nel palmo della mano di Ferris e sparò in alto. I telefilm polizieschi mostrano esattamente come fare. Con una ferita da arma da fuoco autoinflitta, il medico rinviene dei segni sulla mano. Purviance però commise un errore madornale: aveva lasciato la pistola, ma aveva raccolto i proiettili, eliminando così l'ipotesi di suicidio. Poi la Scientifica aveva ritrovato una scheggia di proiettile nel ripostiglio, proveniente dal primo colpo che gli aveva trapassato il cranio. Un altro proiettile era stato estratto dal muro in corridoio. Quindi il proiettile conficcato nel soffitto del ripostiglio e le schegge recuperate dalla testa di Ferris dimostrarono che i colpi sparati furono tre. La ricostruzione balistica dichiarava che Ferris era stato ucciso mentre si trovava di fronte alla porta, probabilmente ignaro delle intenzioni omicide di Purviance, che entrò nel ripostiglio e si mise alle sue spalle. Cosa fece poi Purviance? Stupita di avere ucciso Ferris a sangue freddo, fuggì con l'intenzione di riscuotere il prezzo dello scheletro. Purviance prenotò un volo per Israele, usando il nome di Channah Purviance, la versione pre-canadese sul suo passaporto tunisino. La discrepanza le permise di sfuggire ai controlli. Sapendo che Ferris aveva telefonato a Blotnik, Purviance si presentò all'Autorità archeologica israeliana, sostenendo di essere stata mandata dal suo principale per accordarsi sul metodo di pagamento. Un'altra ingiustizia l'attendeva. Blotnik non aveva ricevuto lo scheletro di Masada. Purviance bluffò, affermando di sapere chi lo aveva preso. Glielo avrebbe consegnato se Blotnik le avesse dato dei soldi o barattato la reliquia con un oggetto di valore. Blotnik le mostrò le ossa del sudario. Convenendo sul fatto che si
trattava di potenziali contanti, Purviance premette il dito sul grilletto e infilò le ossa nella borsa. La storia di Kaplan era semplice. Ai suoi occhi, Miriam Ferris si era dimostrata una vera amica, anche quando era finito in prigione. Miriam era gentile, gli mandava scatole di cioccolatini. Gli scriveva molte lettere. Il messaggio che avevamo trovato nell'appartamento di Kaplan era semplicemente un modo incoraggiante di tener fede alle proprie promesse. Kaplan seppe da Purviance della sua relazione con Ferris. Era stata la prima domanda che le aveva posto quando lei lo aveva contattato per uccidere il suo principale. Durante la contrattazione intuì che Purviance era infida, pericolosa e incosciente. Messa all'angolo, Kaplan immaginava che avrebbe alzato una cortina di fumo pur di salvarsi. Chi è più vulnerabile di una moglie tradita? Temendo che Purviance puntasse il dito contro Miriam, Kaplan mi diede la fotografia di Max per depistare le indagini. Kaplan, inoltre, temeva che Purviance lo coinvolgesse. O peggio. Lei aveva pianificato di uccidere il suo amante. Se fosse passata all'azione, perché non eliminare anche l'imbroglione che le aveva portato via tremila dollari? Per di più Litvak era furioso perché Kaplan gli aveva promesso lo scheletro di Masada ma era poi venuto meno all'impegno. Come Purviance, anche Kaplan vide l'occasione di un duplice guadagno. Rendersi irreperibile e recuperare la situazione in Israele. Anche lui prenotò un volo. Ma perché Blotnik aveva rubato le ossa del sudario? Su questo punto aveva probabilmente ragione Jake. Durante gli anni universitari a New York, Blotnik si era rivelato un vero prodigio di cultura. Prima di terminare il dottorato aveva già pubblicato diversi articoli su importanti riviste. Poi scrisse il suo capolavoro, trecento pagine sulla Ecclesiaste Rabbah, un commentario rabbinico del periodo talmudico. Le proposte di lavoro si succedevano a flusso continuo, come il vino durante le nozze di Cana. Blotnik si trasferì in Israele, si sposò e, una volta ottenuti i permessi, iniziò le sue tanto agognate opere di scavo. Il mondo era suo. Anche una giovane collega decise di essere sua. Elettrizzante all'inizio, il loro amore si spense tristemente. La moglie lo lasciò. La sua amante lo lasciò. Forse fu imbarazzo, forse solitudine, o forse depressione. Dopo il divorzio, Blotnik progressivamente si disinteressò al lavoro. Organizzò qualche scavo, pubblicò alcuni articoli. Un piccolo lavoro sulle terme di HammatGader. Poi, per vent'anni, più nulla.
La chiamata di Ferris doveva essere caduta come manna dal cielo. Le ossa di Masada erano scomparse ormai da decenni. Correva voce dell'esistenza dello scheletro e Blotnik ne aveva sentito parlare. Si può soltanto ipotizzare cosa altro Kaplan e Ferris gli raccontarono o cosa si mormorava tra gli archeologi. Le ossa appartenevano a un'importante figura vissuta nella Palestina romana del I secolo? Un famoso personaggio della Bibbia? Blotnik doveva avere visto il suo futuro brillare come un'insegna di Hollywood. Con la morte di Ferris la manna finì e si spensero le luci. Non molto tempo dopo ricevette la mia telefonata. Avevo lo scheletro di Masada. Una nuova alba! Onori! Fama! Intravedendo un modo per ridare vigore alla sua carriera o per alimentare il suo conto in banca, come credeva Ryan, Blotnik aveva cercato lo scheletro di Masada e la Grotta 2001. Poi Max gli fu, ancora una volta, portato via. Io e Jake annunciammo che lo scheletro era stato rubato. Blotnik si demoralizzò. Il suo potenziale ritorno sulle scene era finito nel nulla. Come Purviance, l'aspirante genio non tollerava le frustrazioni e si sentiva amareggiato. Poi di nuovo la manna. Un documento abbandonato sulla fotocopiatrice. Blotnik lesse il rapporto della Getz e ne fece una copia. Lenzuolo funebre risalente al I secolo? Con la possibilità di resti umani? Scoperto da Jake Drum? Qual era quella teoria di Drum sulla tomba di famiglia di Gesù? Le implicazioni esplosive della teoria di Jake e del ritrovamento da parte mia del sudario non sarebbero andate sprecate con Blotnik. Se non avesse ritrovato lo scheletro si sarebbe riscattato con il sudario. Munito di un tagliabullone, si diresse a Beit Hanina e aspettò che Jake uscisse di casa. Era facile. E Jake? Aveva raccontato la verità. Si era diretto allo scavo in macchina per cercare la Hevrat Kadisha causando uno scompiglio ancora maggiore. Alla fine fu chiamata la polizia. Era troppo tardi per andare dalla Getz o dalla Bloom. La polizia, inoltre, gli aveva chiesto di mostrare i permessi che autorizzavano gli scavi. Jake li aveva in casa. Tornato nel suo appartamento, come d'abitudine, aveva svuotato le tasche nel solito posto e tirato fuori le fotocopie dei permessi dello scavo di Talpiot. Poi aveva visto che l'armadietto era aperto e le ossa del sudario sparite. Infuriato, si era precipitato fuori senza chiudere la porta a chiave. Volendosi occupare subito di entrambe le questioni, come prima cosa ave-
va fatto tappa alla stazione di polizia per consegnare i documenti, poi si era diretto da Blotnik. Ero arrivata al Rockefeller prima di lui e mi aveva trovato nel ripostiglio. Quindi. Le ossa del sudario si erano tramutate in cenere. Blotnik era morto. Kaplan era libero. Purviance sarebbe stata giudicata in Israele per l'assassinio di Blotnik. Più avanti sarebbe stata chiesta l'estradizione? Forse. E Max? I rappresentanti della Hevrat Kadisha ammisero, grazie alle pressioni di Friedman, che avevano sottratto lo scheletro di Masada per poi sotterrarlo nuovamente. Né sotto tortura, né con la minaccia di avviare un procedimento giudiziario avrebbero svelato il luogo della sepoltura. Si erano già trovati in una situazione come questa. Per loro era una questione di sacra legge ebraica. Halakhah. Richieste di accesso temporaneo sotto la loro supervisione furono rifiutate senza appello. Quindi. Erano rimaste soltanto tre cose. La fotografia originale di Kaplan. I campioni di ossa prelevati per il test del DNA. Le foto da me scattate al laboratorio di Montréal. Altrimenti Max sarebbe scomparso per sempre. 41 Giovedì, quattro giorni dopo l'incidente, io e Ryan saremmo ritornali a Montréal con il volo di mezzanotte. Prima di lasciare Israele aveva deciso di fare un'ultima telefonata. Mi trovai nuovamente a percorrere Jericho Road. Io e Ryan oltrepassammo Qumran, celebre per gli esseni, le grotte e le pergamene, ed Ein Gedi, nota per le spiagge e le stazioni termali. Sulla sinistra, il verde cobalto del Mar Morto si estendeva fino in Giordania. Sulla destra, un paesaggio aspro, composto da colline scoscese e altopiani rocciosi. Infine eccola, completamente rossa, in contrasto con il blu perfetto del cielo. La fortezza di Erode, al confine con il deserto della Giudea. Ryan curvò. Due chilometri più avanti posteggiammo l'auto in un parcheggio. I cartelli rassicuravano i turisti: ristoranti, negozi, toilette. «Funivia o sentiero del serpente?» chiesi.
«È dura la salita?» «Facilissima.» «Perché si chiama così?» «Il sentiero è leggermente tortuoso.» Mi avevano avvertita che il percorso sarebbe stato faticoso e polveroso e che ci avremmo impiegato più di un'ora. Ma mi sentivo pronta. «Perché non prendiamo la funivia e poi valutiamo?» «Smidollato.» Sorrisi. «Ci sono voluti una legione romana e sette mesi per raggiungere la cima.» «Stavano combattendo contro gli zeloti.» «Quisquilie.» Masada era il luogo più visitato di Israele, ma non quel giorno. Ryan acquistò i biglietti e prendemmo la funivia. Era vuota. Giunti in cima, dopo avere percorso un breve tratto sinuoso, l'antico sito si aprì davanti ai nostri occhi in tutta la sua magnificenza. Suscitava soggezione. Romani, zeloti, bizantini, nazareni? Stavo calpestando la loro terra. Una terra popolata molto prima che gli europei vedessero il Nuovo Mondo. Contemplai i resti delle mura della fortezza, i vecchi sassi bianchi consumati dal tempo. Scorsi il pianoro all'interno della cinta muraria. Piante di Mojave secche, qui e là delle viti. Fiori color porpora. Meravigliosi. La bellezza nel mezzo della brutale desolazione. Pensai ai soldati, ai monaci e alle famiglie. Dedizione e sacrificio. La mia mente si interrogò. Come? Perché? Di fianco a me Ryan studiava la cartina. In alto, una bandiera israeliana sventolava al vento. «Il giro a piedi parte da qui.» Ryan mi prese la mano e mi portò verso nord. Visitammo i depositi, gli alloggi degli ufficiali, il palazzo settentrionale nel quale Yadin aveva ritrovato la sua «famiglia». La chiesa bizantina, il mikveh, la sinagoga. Incontrammo poche persone. Una coppia di tedeschi. Un gruppo di studenti sorvegliati da genitori-guardie. Dei ragazzi in uniforme con le mitragliette Uzi in spalla. Terminato il circuito standard, io e Ryan percorremmo il sentiero in senso inverso e proseguimmo verso la punta più a sud della cima. Nessun turista osò seguirci.
Controllai la cartina. La parte meridionale della fortezza e il muro erano segnati. Una cisterna d'acqua. Il grande stagno. Nessun cenno alle grotte. Mi fermai nei pressi delle mura e, davanti a quella distesa di sabbia e roccia che svaniva nella foschia luccicante del giorno, provai lo stesso sbigottimento di prima. Di fronte, le gigantesche e silenziose formazioni erose dal vento incessante. Indicai un perimetro quadrato vagamente visibile nel paesaggio lunare sottostante. «Vedi quelle linee?» Ryan annuì, con i gomiti che sporgevano oltre la ringhiera a cui era appoggiato. «Era un campo romano.» Mi sporsi in fuori, a sinistra. Eccola. Una ferita scura perforava la carne della collina. «Ecco la grotta.» La voce si ruppe per l'emozione. La fissavo immobile, ipnotizzata. Ryan sapeva cosa stessi provando. Tirandomi indietro con delicatezza mi cinse le spalle. «Nessuna teoria?» Feci un gesto che voleva dire «Chissà». «Qualche supposizione?» «Max era un uomo defunto duemila anni fa. Aveva tra i quaranta e i cinquant'anni. È stato seppellito insieme ad altre venti persone nei pressi di quella grotta laggiù.» Indicai oltre la cinta muraria. «Nella sua mascella è stato rinvenuto il dente di una persona più giovane. Probabilmente per errore. Un errore fortunato. Altrimenti non saremmo mai venuti a conoscenza del legame esistente tra le persone sepolte nella grotta e la famiglia nella tomba rinvenuta da Jake.» «Quella che Jake crede essere la cripta della famiglia di Gesù.» «Quindi Max potrebbe benissimo essere stato un nazareno e non uno zelota.» «Jake è sicuro che quella tomba appartenga alla famiglia di Cristo.» «I nomi coincidono. Le decorazioni degli ossari. L'età del sudario.» Colpii una pietra. «Jake è convinto che l'Ossario di Giacomo provenga da quella tomba.» «Anche tu lo sei?» «Sono curiosa.» «E cosa significa?» Riflettei un momento. Cosa intendevo dire?
«Potrebbe avere ragione. Si tratterebbe di una scoperta rivoluzionaria. Le tre principali religioni che si sono intrecciate nella storia della Palestina si basano più sul mistero divino e sulla fede che sulla scienza e sulla ragione per determinare la propria legittimità. I fatti storici hanno avuto diverse interpretazioni per renderli compatibili con l'ortodossia favorita. E i fatti incompatibili sono rinnegati. «Potenzialmente, i postulati di Jake riguardo alla tomba del Kidron possono minare alcuni elementi della dottrina cristiana. Forse Maria non era vergine. Forse Gesù aveva dei fratelli, persino un discendente. Forse Gesù era rimasto nel suo loculo, avvolto nel sudario, dopo la crocifissione.» Inclinai il capo verso la grotta sottostante. «Lo stesso vale per la Grotta 2001 e alcuni elementi di venerata storia ebraica. Forse Masada non venne occupata solamente da zeloti ebrei durante la rivolta del I secolo. Forse anche i primi cristiani si trovavano qui. Chi lo sa? Quello che so è che purtroppo dalle ossa del sudario non è stato ottenuto il DNA. Soprattutto dal momento che certamente almeno una delle persone sepolte in questa caverna era imparentata con quelle ritrovate laggiù nella tomba di Jake.» Ryan rifletté su quelle parole. Poi mi chiese: «Quindi, nonostante il DNA associ un dente proveniente da Masada alla tomba del Kidron, tu pensi che la ricomparsa di Max e la scoperta delle ossa avvolte nel sudario, nel giro di poche settimane una dall'altra, sia soltanto una coincidenza?». «Assolutamente. Il dente proveniva senza alcun dubbio dalla Grotta 2001, e per errore venne attribuito a Max. Ma in tutta questa vicenda, Max deve essere stato soltanto il messaggero, non il messaggio. Stranamente sono molto più curiosa di sapere a chi appartenesse il dente che di sapere chi fosse davvero Max.» «Non ti seguo.» «Tutto è cominciato con Max, ma Max può essere stato seppellito soltanto per caso in una posizione ottimale.» «Continuo a non capire.» «Dato che la tomba di Max si trovava in fondo alla caverna, il suo corpo non è stato profanato dagli animali. È possibile che sia rimasto intatto non perché seppellito in un modo diverso dagli altri, o perché la sua posizione sociale fosse più elevata, ma per il semplice fatto di essere stato messo lontano dall'entrata della caverna. Dal momento che era l'unico scheletro rimasto integro, la gente ha cominciato a considerarlo speciale. Qualcuno lo ha trasportato fuori da Israele. Lerner lo ha trafugato. Ferris e Morissonne-
au lo hanno nascosto. Alla fin fine, il contributo principale di Max è stato quello di essere rimasto intatto e di averci condotto a quell'unico molare.» «Collegando la tomba del Kidron a Masada. Jake aveva idea di chi potesse essere il proprietario di quel dente?» «C'erano tanti corpi in quella caverna. Jake pensa a un nipote di Gesù, forse il figlio di una delle sorelle. Il DNA mitocondriale mostra un legame per via materna.» «Non un fratello?» «È improbabile. Le iscrizioni includono Giuda, Giuseppe, Giacomo, se l'ossario è vero, le due Maria e Salomé. Simone morì anni dopo.» Restammo qualche istante in silenzio. Io parlai per prima. «Strano, Max ha dato il via a tutto. Lerner lo trafugò dal Musée de l'Homme perché credeva alla storia di Joyce sul rotolo di pergamena e alla sua teoria che Gesù avesse vissuto a Masada. Sembra che Joyce avesse ragione in merito a Gesù, un Gesù qualsiasi, ma che si fosse sbagliato riguardo a Max. Max non può essere Gesù di Nazareth, che, secondo le Scritture, morì a trentatré anni. La sua età non combacia e il suo DNA mitocondriale lo rende estraneo al matrilignaggio della tomba del Kidron. Ma Max poteva essere un nipote di Gesù.» «La pergamena di Grosset pare che fosse stata scritta da qualcuno chiamato Gesù, figlio di Giacomo.» «Esatto. Ma il dente poteva anche essere di un nipote di Gesù. Secondo Bergeron, l'uomo a cui apparteneva il dente morì tra i trentacinque e i quarant'anni. Se una delle sorelle di Gesù avesse sposato un uomo di nome Giacomo e avesse avuto un figlio, quel bambino avrebbe avuto il suo DNA mitocondriale. Se questi eventi fossero accaduti all'epoca della crocifissione, l'età corrisponderebbe. Il dente sarebbe potuto appartenere a Gesù, figlio di Giacomo. Al diavolo, Ryan. In quel caos, qualsiasi individuo di sesso maschile avrebbe potuto avere quel nome. Non lo sapremo mai.» «Chi era il settuagenario della Grotta 2001 nel rapporto e nel libro di Yadin?» «Stessa risposta. Non era Max, non era neanche l'uomo del dente, ma potrebbe essere stato un qualsiasi uomo in quel mucchio.» Il commento successivo di Ryan andò dritto al cuore del problema. «Il punto è questo, di chiunque fosse quel dente, se Jake ha ragione a proposito dell'Ossario di Giacomo, e di conseguenza della tomba del Kidron e della Sacra Famiglia, la presenza del dente nella caverna dimostrerebbe la presenza dei nazareni a Masada al tempo dell'assedio. Un fatto in-
compatibile con la ricostruzione storica di Masada elaborata da Israele.» «Esattamente, e i teologi israeliani lo giudicherebbero sacrilego. Pensa alla loro riluttanza nel dovere esaminare gli scheletri della caverna o compiere ulteriori accertamenti.» Mi girai e indicai l'estremità settentrionale della cima. «C'è un piccolo monumento sul lato occidentale, in cima al campo romano, dove tutti i resti di Masada furono sotterrati nel '69. Le ossa della Grotta 2001 potrebbero essere esumate, ma gli israeliani non lo vogliono fare.» «E le ossa avvolte nel sudario?» «Non lo sapremo mai. Se Jake avesse potuto prelevare del DNA o eseguire altri test, magari esaminando le lesioni del calcagno con il microscopio elettronico, avremmo potuto saperne di più. Per come stanno le cose, abbiamo soltanto le pessime foto che ho scattato nel loculo.» «E cosa mi dici dei capelli e dei frammenti di ossa rinvenuti dalla Getz?» «I capelli potrebbero rivelarci qualcosa in futuro. Le particelle d'osso sono poco più che polvere. Mi stupisce che la Getz le abbia viste.» «Jake non aveva messo da parte le ossa del sudario?» «Non ne ha mai avuto l'opportunità.» «Ha intenzione di chiedere un test del DNA sull'Ossario di Giacomo?» «Ha inoltrato la richiesta. Gli israeliani glielo hanno negato e si sono tenuti le ossa. Conoscendo Jake, continuerà a provarci.» «L'Ossario di Giacomo potrebbe essere un falso.» «Potrebbe» convenni. «La teoria di Jake potrebbe essere sbagliata.» «Potrebbe.» Ryan mi attirò a sé abbracciandomi. Sapeva che ero divorata dai sensi di colpa e provavo un senso di sconforto. Max se n'era andato, seppellito per sempre in una tomba anonima. Le ossa della Grotta 2001 sotterrate sotto uno dei monumenti più sacri a Israele. Le ossa avvolte nel sudario distrutte in un olocausto di benzina e di fuoco. Per un momento restammo a guardare l'orizzonte melanconico. Vuoto. Morto. Per anni avevo letto e sentito parlare di questa zona martoriata del nostro pianeta. Era impossibile evitarlo. Il libro dei Salmi chiamava Gerusalemme la Città di Dio. Zaccaria la chiamava la Città della Verità. Quale Dio? Quale Verità?
«LaManche ha chiamato oggi.» Ritornai subito in un mondo nel quale sembrava possibile esercitare qualche controllo sulla propria vita. «Come sta la vecchia canaglia?» «È contento che ritorni lunedì.» «Sei stata via soltanto una settimana e mezza.» «Aveva delle novità. C'è stata un'esumazione. Sylvain Morissonneau soffriva di collasso congestivo cardiaco.» «Il prete dell'abbazia?» Annuii. «È morto di trombosi coronaria.» «Nessuno jihadista assatanato?» «Soltanto un cuore debole. Forse affaticato dalle questioni riemerse intorno allo scheletro.» «A proposito. Friedman ha delle notizie sensazionali. Ha dato il biglietto della cameriera alla signora Hanani e ha finalmente ricostruito l'intera storia. Hossam al-Ahmed è un cuoco dell'American Colony che importunava una delle cameriere dell'hotel. La signorina ha deciso di sistemare il molestatore. Ha distrutto una stanza e poi lo ha accusato. La tua porta non era chiusa a chiave.» «È ironico. Tutte le nostre super teorie per spiegare l'omicidio di Ferris e il furto di Max. Gli ebrei ultra-ortodossi sono colpevoli. I cristiani zeloti sono colpevoli. I fondamentalisti islamici sono colpevoli.» «Alla fine, si trattava solo di vendetta e avidità. Una vecchia storia. Nessun segreto di Stato. Nessuna Guerra Santa. Nessuna questione di dottrina o di fede. Abbiamo scoperto il metodo di un delitto e abbiamo identificato un assassino. Dovrei essere euforica, ma per qualche ragione, in un contesto come quello che ho vissuto nelle ultime due settimane, uccidere è diventato banale, quasi come Charles Bellemare.» «Il Cowboy incastrato nel camino?» «Sì. Nel rincorrere i nostri piccoli personaggi su e giù per il palcoscenico, sono rimasta sopraffatta dal contesto più ampio. L'omicidio sembrava quasi insignificante.» «Ci siamo lasciati prendere entrambi.» «Ho letto una cosa che si chiama Gallup International Millennium Survey. I ricercatori hanno campionato le popolazioni di sessanta Paesi, ovvero un miliardo e duecentomila persone, per cercare di capire quello che la gente prova nei confronti di Dio. L'ottantasette per cento di coloro che hanno risposto sente di appartenere a qualche religione. Il trentuno per cento crede che l'unica vera fede sia la propria.»
Ryan aveva cominciato a parlare. Io non avevo concluso il discorso. «Ma hanno torto, Ryan. Nonostante i riti, la retorica, e perfino le bombe, ogni religione dice più o meno le stesse cose. Buddhismo. Taoismo. Zoroastrismo. La dottrina sikh. Sciamanesimo. Non ha importanza. Scegli tu.» «Mi sono perso.» «La Torah, la Bibbia, il Corano. Ognuno offre una ricetta per la felicità spirituale, per l'amore, per la speranza e per controllare le passioni umane fondamentali, e ognuno sostiene di aver ricevuto la ricetta direttamente da Dio, ma attraverso un diverso messaggero. Stanno semplicemente cercando di fornire una formula per una vita spirituale ordinata, ma per qualche motivo il messaggio viene distorto, come le cellule in un corpo canceroso. Degli uomini autonominatisi portavoce dichiarano i limiti delle giuste credenze, chi trasgredisce viene dichiarato eretico, e i fedeli vengono incitati alla lotta. Non credo che fossero queste le intenzioni originarie.» «Hai ragione, ma questo poliziotto ha abbandonato da tempo la speranza di liberare la belle province dal crimine. A casa, ci sono dei cadaveri all'obitorio che richiedono la nostra attenzione. Si fa quel che si può. E sai una cosa? Siamo abbastanza bravi.» Un ultimo sguardo alla pianura. Così sorprendentemente bella, così piena di conflitti. Poi, con riluttanza, lasciai che Ryan mi separasse dal muro. Addio Israele. Ti auguro la pace. Dalla scrivania della dottoressa Kathy Reichs La maggior parte dei romanzi che vedono Temperance Brennan come protagonista prendono spunto dai miei veri casi che seguo presso l'Istituto di medicina legale. Comincio dal corpo di un bambino ritrovato nel campo di un contadino, ci aggiungo dei resti rinvenuti nello scantinato di un grattacielo e mescolo. Questa storia è iniziata con dei ritagli di giornale ingialliti, una rivista femminile in bianco e nero, tante fotocopie fatte male e una storia molto strana. Il dottor James Tabor, un collega della University of North Carolina a Charlotte, ha due specializzazioni. E sia un archeologo biblico, sia un esperto dei nuovi movimenti religiosi apocalittici. Nella sua seconda veste, è stato consulente dell'FBI durante lo scontro con la setta dei davidiani a Waco, in Texas, e mi ha dato preziosi suggerimenti mentre scrivevo Cadaveri innocenti. Nelle vesti di studioso della Bibbia, ha lavorato sui Rotoli
del Mar Morto e ha compiuto scavi archeologici a Qumran, dove sono stati ritrovati, ha scavato presso la grotta di «Giovanni Battista» a ovest di Gerusalemme e ha fatto ricerche a Masada, il sito archeologico più famoso di Israele. Morte di lunedì era alle mie spalle nell'autunno del 2003, e stavo cominciando il lavorio mentale che sarebbe alla fine culminato nel mio ottavo libro. Una mattina Tabor mi telefonò e mi parlò di tombe saccheggiate e scheletri rubati. Stava scrivendo un saggio, The Jesus Dynasty, nel quale intendeva presentare i fatti storici riguardanti la famiglia di Gesù, basandosi sulle più recenti scoperte archeologiche. Mi sarebbe piaciuto ascoltare la storia per un eventuale romanzo con protagonista Temperance Brennan? Ci puoi scommettere! Ho cominciato la mia carriera come archeologa. E anche Tempe. Perché non coinvolgere il vecchio amico in un intrigo a sfondo archeologico? Decidemmo di incontrarci e, durante il pranzo, Tabor mi mostrò immagini e frammenti di giornale, spiegandomi a grandi linee quanto segue. Dal 1963 al 1964, l'archeologo israeliano Yigael Yadin e una squadra internazionale di volontari intraprendono una campagna di scavo a Masada, in Israele. In una grotta sotto le mura della fortezza, nella punta più a sud della collina, vengono trovati venticinque scheletri e un feto. Yadin non parla alla stampa del ritrovamento di queste ossa, ma soltanto del ritrovamento di tre scheletri rinvenuti dalla sua squadra tra le rovine nella parte più a nord della cima. Le ossa ritrovate nella caverna non vengono documentate nemmeno dall'antropologo e anatomista Nicu Haas. A parte un accenno nell'appendice, né le ossa né il contenuto della caverna vengono descritti nei sei volumi di Masada, la pubblicazione finale riguardante gli scavi. Passano trent'anni. Compare una foto di uno scheletro integro nella stessa caverna in cui la squadra di Yadin aveva esumato i resti scomposti di venticinque corpi. Yadin non aveva mai parlato di uno scheletro intatto nei suoi rapporti o nelle interviste. Incuriosito, Tabor recupera le copie degli appunti scritti dalla squadra durante gli scavi di Masada. Mancano però le pagine riguardanti il periodo della scoperta dello scheletro e della relativa rimozione dalla grotta. Tabor entra in possesso degli appunti originali di Nicu Haas. L'inventario delle ossa rivela che Haas non ha mai visto lo scheletro completo. Tabor studia gli articoli di giornale che risalgono al periodo degli scavi di Masada. Trova una dichiarazione di Yadin, rilasciata a un giornalista
verso la fine degli anni Sessanta, in cui dichiara che non è suo compito richiedere il test della datazione al carbonio 14. Tabor controlla la rivista «Radiocarbon» e scopre che negli anni Sessanta Yadin aveva invece inviato dei campioni provenienti da altri siti affinché fossero sottoposti al test della datazione al carbonio 14. Guardai la piccola foto in bianco e nero dello scheletro. Esaminai le fotocopie degli appunti di Haas e quelle delle riunioni della sua squadra. Mi stavo entusiasmando. Ma Tabor non aveva finito. Salto in avanti all'estate del 2000. Mentre faceva un'escursione nella valle di Hinnom insieme ad alcuni studenti, Tabor, accompagnato dall'archeologo israeliano Shimon Gibson, s'imbatte in una tomba saccheggiata di recente. Scavano e trovano un ossario ridotto in frantumi e i resti di uno scheletro avvolti in un lenzuolo funebre. Il test al carbonio 14 data il sudario al I secolo. La sequenza del DNA mostra una parentela tra i corpi sepolti nella tomba. I frammenti dell'ossario portano i nomi di Maria e Salomé. Un altro salto in avanti all'ottobre del 2002. Un collezionista di antichità annuncia l'esistenza di un ossario del I secolo che reca l'iscrizione GIACOMO, FIGLIO DI GIUSEPPE, FRATELLO DI GESÙ. Il collezionista sostiene che il reperto sia stato acquistato nel 1978, ma Tabor ha le prove che sia stato trafugato dalla tomba scoperta da lui due anni prima. Stessa fabbricazione, stessa decorazione. A Gerusalemme circolano delle voci a riguardo. Tabor comincia a credere seriamente che si tratti della tomba di famiglia di Gesù. Nel 2003 chiede che dei frammenti di ossa dall'Ossario di Giacomo vengano sottoposti al test del DNA mitocondriale. Vuole confrontare la sequenza genetica di quell'osso con quella del lignaggio del suo ossario. Il direttore generale dell'Autorità archeologica israeliana respinge la richiesta, spiegando che sul caso è stata aperta un'inchiesta e che se ne sta occupando la polizia. Scheletri misteriosi. Pagine mancanti. Tombe saccheggiate. La cripta della famiglia di Gesù? Accidenti! Avrei studiato nuovamente archeologia e avrei mandato Tempe in Terra Santa! La mia mente stava già tessendo trame mentre esaminavo le foto e le cartine del monte Tabor. Ma come portare Ryan e gli altri con me? A volte, i magistrati che indagano sui casi di morte violenta o sospetta e i medici legali sono costretti a richiedere l'esecuzione di autopsie, nonostante le proteste dei familiari. Talvolta le obiezioni sono motivate da cre-
denze religiose. Durante il mio periodo al Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, sono state eseguite numerose autopsie di ebrei ortodossi morti in modo violento. Il protocollo è stato modificato, per quanto possibile, per renderlo compatibile con le esigenze religiose. Ecco! Sarei partita da un omicidio a Montréal, poi avrei mandato Tempe a Gerusalemme e nei Territori Occupati. Per un anno studiai attentamente trascrizioni, cataloghi e articoli di giornale. Esaminai foto di ossari e gli scavi di Masada. Lessi libri sulla Palestina romana e su Gesù come personaggio storico. Con Tabor volai in Israele e visitai musei, scavi, tombe, e i principali luoghi storici. Parlai con commercianti di antichità, archeologi, scienziati e membri della polizia nazionale israeliana. E, come si suol dire, il resto è storia. I fatti Tra il 1963 e il 1965, l'archeologo israeliano Yigael Yadin e un grappo di volontari internazionali condussero una campagna di scavi a Masada, dove nel I secolo d.C. aveva avuto luogo una rivolta dei giudei contro i romani. Gli operai di Yadin recuperarono i resti frammentari e sparsi di circa venticinque scheletri da un complesso di grotte, indicato con il nome di Sito 2001/2002, situato sotto il muro di cinta costruito nella zona sud della vetta. Contrariamente agli altri resti umani rinvenuti nel complesso di rovine principale nella zona nord di Masada, la notizia del ritrovamento di queste ossa non fu data immediatamente alla stampa. Negli anni Novanta fu portata all'attenzione pubblica la fotografia di un solo scheletro intatto, anch'esso proveniente dagli scavi di Sito 2001/2002, condotti tra il 1963 e il 1965. Questo scheletro non era mai stato menzionato o descritto dall'antropologo fisico incaricato del progetto, Nicu Haas. Né era stato discusso da Yadin nei suoi resoconti o interviste pubblicati. Durante gli scavi di Masada non furono mai redatte note formali sul campo, ma Yadin e il suo staff tenevano regolarmente riunioni informative le cui trascrizioni si trovano negli archivi dell'Università ebraica, al campus del monte Scopus. Mancano le pagine relative alla scoperta e allo sgombero di Sito 2001/2002. Nei sei volumi di cui si compone la pubblicazione finale di tutto lo scavo di Masada non vi sono tracce né delle ossa dei venticinque individui, né
dello scheletro completo, né del contenuto di Sito 2001/2002. Nonostante Nicu Haas sia rimasto in possesso delle ossa per oltre cinque anni, non ha pubblicato nulla sui resti degli individui e sullo scheletro completo rinvenuti presso il Sito 2001/2002. Gli appunti manoscritti di Haas, compreso un inventario completo delle ossa, indicano che egli non ha mai ricevuto lo scheletro completo. Verso la fine degli anni Sessanta, in occasione di interviste pubblicate sui giornali, Yigael Yadin affermò che la datazione al carbonio 14 veniva effettuata raramente e che non era compito suo richiederla. La rivista «Radiocarbon» afferma che in quel periodo Yadin aveva inviato dei campioni per la datazione al carbonio 14 provenienti da altri scavi eseguiti in Israele. Malgrado le incertezze relative all'età dei resti di Sito 2001/2002, Yadin non ha mai inviato campioni per la datazione al carbonio. Nel 1968, durante la costruzione di una strada a nord della Città Vecchia di Gerusalemme, furono rinvenuti i resti dello scheletro di un «uomo crocifisso». La vittima, Yehochanan, aveva circa venticinque anni ed era vissuta nel I secolo. In un osso del calcagno di Yehochanan erano incastrati frammenti di chiodo e legno. Nel 1973, il giornalista australiano Donovan Joyce pubblicò The Jesus Scroll (Dial Press). Joyce sosteneva di aver conosciuto, durante una visita in Israele, uno dei volontari che avevano partecipato allo scavo condotto da Yadin e di aver visto una pergamena del I secolo, proveniente da Masada, contenente le ultime volontà di «Gesù figlio di Giacomo». Secondo Joyce la pergamena fu contrabbandata fuori da Israele, probabilmente in Unione Sovietica. Nel 1980, alcuni operai che lavoravano sulla strada portarono alla luce una tomba a Talpiot, poco a sud della Città Vecchia di Gerusalemme. La tomba conteneva ossari con incisi i nomi Mara (Maria), Yehuda, figlio di Yeshua (Giuda, figlio di Gesù), Matya (Matteo), Yeshua, figlio di Yehosef (Gesù, figlio di Giuseppe), Yose (Giuseppe) e Marya (Maria). La compresenza dei nomi in una tomba è un evento raro. I materiali di origine scheletrica furono sottoposti al test del DNA. Nel 2000, l'archeologo americano James Tabor e la sua équipe scoprirono una tomba appena saccheggiata nella valle di Hinnom, poco fuori Gerusalemme. La tomba conteneva venti ossari, tutti distrutti tranne uno. Nella camera bassa fu rinvenuto un sudario funebre che avvolgeva i frammenti di uno scheletro e capelli umani. Il test al carbonio 14 dimostrò che il sudario risaliva al I secolo. L'esame al microscopio rivelò che i capelli erano
puliti e privi di parassiti, segno che il deceduto apparteneva a una classe sociale elevata. Le analisi antropologiche determinarono che i resti appartenevano a un maschio adulto. Il sequenziamento del DNA dimostrò una relazione di parentela con la maggior parte degli altri individui sepolti nella tomba. Nel 2002, il collezionista di antichità israeliano Oded Golan rivelò l'esistenza di un ossario del I secolo con l'iscrizione GIACOMO, FIGLIO DI GIUSEPPE, FRATELLO DI GESÙ. Quell'autunno, l'ossario fu reso pubblico. Sebbene gli esperti concordino circa il fatto che il cofanetto di pietra risalga al I secolo, l'autenticità dell'iscrizione è controversa. Prove circostanziali indicano che l'ossario proviene dai dintorni di Hinnom, probabilmente dalla tomba del sudario di Tabor. Fu presentata una richiesta formale all'Autorità archeologica israeliana per l'esame del DNA sul materiale osseo rinvenuto nell'Ossario di Giacomo. Il sequenziamento del DNA avrebbe consentito di confrontare i resti nell'Ossario di Giacomo con quelli rinvenuti a Hinnom nella tomba del sudario di Tabor. La richiesta venne negata. Nel gennaio 2005, è stata presentata un'accusa formale nei confronti di Oded Golan e di parecchie altre persone per contraffazione di oggetti antichi. Golan continua a dichiararsi innocente e a insistere sul fatto che l'Ossario di Giacomo è autentico. Gli esperti sono tuttora divisi. FINE