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JAN BURKE OSSA (Bones, 1999) A Judy Myers Suchey e Paul Sledzik e alla facoltà di antropologia forense (AFIP) per lo straordinario lavoro e per avermi insegnato a vedere cosa c'è oltre le ossa. In memoria di Shadow e Siri. Il cancello era aperto e il ponte levatoio abbassato. Parsifal lo attraversò al galoppo ma quando arrivò alla fine, qualcuno dietro di lui tirò la fune tanto forte che fu quasi scaraventato nel fossato insieme al suo destriero. Parsifal si voltò per vedere chi gli avesse fatto un simile affronto. Lì, davanti al cancello aperto, c'era il paggio che aveva tirato la fune e che ora gli agitava contro il pugno nella sua direzione. «Possa Dio maledire la luce che cade sul tuo cammino!» gridò il ragazzo. «Sciocco! Maledetto sciocco! Perché non hai fatto la domanda?» «Cosa vuoi dire?» gli rispose Parsifal urlando. «Quale domanda?» Parsifal, Alla ricerca del cavaliere del Graal di Wolfram von Eschenbach rivisitato da Katherine Paterson Pagò in contanti. Ormai aveva tutti i libri sull'argomento. Non parlò con nessuno, non fece niente per cui i commessi o i clienti potessero ricordarsi di lui. C'era molta gente: per i suoi acquisti sceglieva sempre i momenti in cui le librerie erano affollate. Anche se il negozio fosse stato vuoto, non avrebbe comunque avuto di che preoccuparsi. Quando decideva di celare il suo potere si trasformava in un uomo qualunque in un mondo pieno di gente che di rado riusciva a descrivere più di ciò che vedeva la mattina nello specchio. O forse si potevano descrivere gli amici più intimi, i figli, le mogli, i colleghi di lavoro. Con qualche sforzo, persino i vicini di casa. Non certo un estraneo silenzioso intravisto in una libreria. Un estraneo che non vi era mai entrato prima e che non sarebbe mai più tornato.
Provava una leggera eccitazione nel comprare quei libri, come chi acquista materiale pornografico. Nel vedere il libro nella busta, in macchina, appoggiato sul sedile del passeggero mentre guidava verso casa sapeva che l'argomento lo avrebbe eccitato. Non come l'azione in sé; non c'era niente che lo eccitasse quanto farlo veramente. Questo parlava di Dahmer. Non abbiamo gli stessi gusti, pensò, trattenendo a stento una risata alla battuta. Dopo aver letto con cura il libro, lo avrebbe messo accanto agli altri dedicati ai suoi simili. Libri su Bianchi, Speck e Bundy; sui loro predecessori - Mors, Lucas e Pomeroy - e su altri; libri sugli assassini e le loro menti, sugli assassini e le loro vittime, sugli assassini e chi dava loro la caccia. Dapprima li aveva letti perché voleva comprendere la pulsione, il bisogno che, temeva, lo avrebbe consumato. Adesso lo faceva per puro divertimento. Ormai, molti anni dopo aver messo insieme la sua piccola biblioteca, aveva capito tutto ciò che c'era da capire: sapeva che soltanto un genio come lui poteva venire a patti con i desideri più pressanti. Non gli mancavano né il coraggio né la creatività. Ogni nuovo aspetto, ogni esperienza confermava ciò che già sapeva: era un caso unico nella storia. Si rammaricava del fatto che non lo avrebbero mai catturato. Non avrebbe provato quell'emozione, l'unica che gli veniva negata. La soddisfazione del riconoscimento. Era attratto dalla notorietà e si perdeva in ardite fantasie, come gli succedeva per gli omicidi. Perché uccide? Tutti avrebbero voluto sapere. Perché uccide? Tutti avrebbero chiesto. E lui avrebbe parlato, con calma, con autorevolezza, e tutti sarebbero stati a sentire la risposta. 1 QUATTRO ANNI DOPO Lunedì 15 maggio, pomeriggio Li ero sentita osservata per tutta la durata del viaggio. Cercai di ignorare
la sensazione, di concentrarmi sul libro che stavo leggendo; inutile. Sollevai gli occhi e guardai in direzione del prigioniero, tre file più avanti, convinta di sorprenderlo con lo sguardo fisso su di me. Si era addormentato, nonostante il frastuono dei motori dell'aereo. Non mi spiegavo come un uomo del genere di Nicholas Parrish potesse riuscire a dormire, ma doveva essere uno dei vantaggi della totale mancanza di coscienza. Se non era Parrish a fissarmi, allora chi era? Mi guardai intorno. La maggior parte degli uomini, peraltro non affetti da sociopatie, dormiva. Due delle guardie di Parrish erano sveglie, ma non guardavano nella mia direzione. Le altre due si erano appisolate. Mi voltai e vidi che Ben Sheridan, uno degli antropologi legali, guardava fuori dal finestrino. L'altro, David Niles, era seduto dalla parte opposta del corridoio e leggeva. Accanto a lui era seduto il responsabile di quegli sguardi. Mi stava studiando. Senza ostilità. A dire il vero era stato l'unico del gruppetto dell'aeroplano, tutto maschile, a non opporsi alla mia presenza. Mentre gli altri mi ignoravano, a lui ero andata subito a genio, e il sentimento era reciproco. Era bello, intelligente e prestante. Peccato che il suo maggior divertimento fosse quello di trovare carne in decomposizione. Era un cane da cadaveri. Bingle, che doveva il nome all'abitudine di emettere una specie di nenia ogni volta che il suo istruttore cantava, era un pastore tedesco di tre anni, nero focato, addestrato a trovare resti umani. Quello era, in effetti, lo scopo della spedizione sulle montagne: trovare resti umani. Dei resti ben precisi. Guardai Bingle negli occhi castano scuro, ma il mio pensiero si era già spostato a quelli celesti di una ragazza di nome Gillian Sayre, che da ormai quattro anni aspettava di ritrovare ciò che restava di sua madre. Erano passati quattro anni da quella calda giornata estiva in cui, dopo il mancato rientro della madre, Gillian Sayre si era messa ad aspettare davanti all'edificio dell'Express. Stavo andando a pranzo con un gruppo di colleghi. La notai subito: era alta e magra, capelli molto corti color melanzana, le labbra marcate da un rossetto marrone scuro spiccavano sul viso pallido e gli occhi cerulei erano evidenziati da un trucco piuttosto pesante. Un anellino d'argento scintillava all'estremità del sopracciglio sinistro. Sette, otto orecchini risalivano la curva di entrambe le orecchie e alle dita chiare e sottili portava anelli d'oro di varie dimensioni e fogge. Le unghie erano corte ma laccate di nero. Indossava abiti sgualciti e scarpe pesanti. «Qualcuno di voi è un reporter?» ci chiese.
Pronto ad approfittare dell'occasione, il mio amico Stuart Angert puntò il dito verso di me e disse: «Soltanto questa signora. Noi abbiamo appena concluso un'intervista con lei. È tutta tua». Gli altri si misero a ridere e io stavo già per dire «chiamami se vuoi un appuntamento», ma qualcosa in lei mi fece esitare. Non aveva preso in considerazione la battuta di Stuart, e dall'espressione sul suo viso capii che si aspettava un rifiuto, come se fosse abituata a riceverne. «Andate avanti», dissi agli altri. «Vi raggiungo subito.» Protestarono un po', poi mi lasciarono sola con la ragazza. «Mi chiamo Irene Kelly», mi presentai. «Che cosa posso fare per te?» «Non hanno nessuna intenzione di cercare mia madre.» «A chi ti riferisci?» «Alla polizia. Credono che se ne sia andata di casa, ma non è così.» «Da quanto tempo manca?» «Dalle quattro di ieri, o almeno quella è l'ultima volta che l'ho vista.» Distolse lo sguardo e aggiunse: «È andata al centro commerciale. L'hanno vista lì». All'inizio ebbi la sensazione di parlare con una ragazzina destinata ad apprendere che la mamma aveva abbandonato il focolare domestico, ma ascoltando la sua storia cominciai a cambiare idea. Julia Sayre aveva quarant'anni e non era rientrata. Il padre di Gillian, Giles Sayre, aveva chiamato la moglie poco prima delle quattro per annunciarle che era riuscito a procurarsi due biglietti per il concerto dell'orchestra sinfonica. Il debutto del nuovo direttore era previsto per la sera stessa. Dopo aver affidato il piccolo Jason alla figlia maggiore, Julia era uscita con la sua Mercedes-Benz per andare a comprare una sottoveste al centro commerciale che distava circa quindici chilometri dal quartiere residenziale dove vivevano. Da allora non l'avevano più vista. Quando, più tardi, Giles tornò a casa e scoprì che la moglie non c'era, si preoccupò più di far tardi al concerto che di dove si trovasse la moglie. Con il passare del tempo però cominciò a impensierirsi e andò a cercarla al centro commerciale. Perlustrò il parcheggio vicino al Nordstrom, il negozio preferito di Julia, ma la berlina blu non c'era. Entrò nel negozio e dopo aver fatto qualche domanda alle commesse del reparto biancheria intima scoprì che in effetti era stata lì, ma intorno alle quattro, diverse ore prima. Quando Giles Sayre denunciò la scomparsa della moglie, la polizia gli prestò l'attenzione che è solita dedicare alla scomparsa di un adulto che
manca da casa solo da cinque ore, cioè nessuna. Andarono a cercare la sua auto nel parcheggio del centro commerciale. Giles avrebbe potuto benissimo dir loro che non c'era, visto che era già passato di là ben due volte. «A volte capita che...» cominciai, ma lei m'interruppe. «Non tenti di raccontarmi le solite fesserie sul fatto che potrebbe trattarsi di una fuga e che se la fa con un altro», replicò. «I miei sono molto attaccati, felicemente sposati e tutto il resto. Vederli insieme dà quasi la nausea.» «Sì, ma...» «Lo chieda a chi vuole... lo chieda ai vicini, glielo diranno: Julia Sayre ha problemi con una sola persona al mondo.» «Tu.» Sembrò sorpresa che avessi indovinato, ma si limitò a stringersi nelle spalle. Incrociò le braccia, appoggiò la schiena al muro e rispose: «Sì». «Perché?» «Lei non ha l'aria di una santarellina che non ha mai sgarrato. Non le è mai capitato di litigare con sua madre quando era adolescente?» Scossi la testa. «No, mia madre è morta quando avevo dodici anni, prima che fossi adolescente. Ho sempre invidiato quelle che...» Mi ripresi. «Non importa.» Gillian rimase in silenzio. «Se fosse vissuta», proseguii, «probabilmente avremmo litigato. Mi sono messa in un sacco di guai ancora prima di diventare adolescente.» Mentre lei si studiava un'unghia io mi domandavo quanto sarebbero stati diversi i ricordi che avevo di mia madre se solo fosse vissuta altri cinque anni. A un tratto Gillian domandò: «Si ricorda l'ultima cosa che ha detto a sua madre?» «Sì.» Aspettò che proseguissi e quando si rese conto che non l'avrei fatto distolse lo sguardo, poi: «L'ultima cosa che ho detto alla mia è stato 'Vorrei che fossi morta'». «Gillian...» «Pretendeva che tenessi Jason e annullassi i miei programmi per fare quello che voleva lei, per andare a quello stupido concerto! Mi sono arrabbiata molto e si è arrabbiato anche il mio ragazzo quando gli ho detto che non potevo uscire con lui, perciò le ho urlato contro. E le ho detto quelle cose.» «Non le è successo niente», la rassicurai. «A volte ci si può sentire un
po' confusi e si ha bisogno di restare soli.» «Non mia madre.» «Dico soltanto che non sono ancora passate ventiquattr'ore. Non pensare che..,» Mi fermai giusto in tempo. «Non devi pensare che le abbiano fatto del male.» «Allora ho bisogno che lei mi aiuti a trovarla», ribatté. «Nessuno mi prenderà sul serio. Sono tutti come i suoi amici.» Fece un cenno in direzione di Stuart e gli altri. «Mi considerano solo una ragazzina, e nessuno ascolta i ragazzini.» Tirai fuori il taccuino e dissi: «Lo capisci, vero, che non sarò io a decidere se l'articolo uscirà sul giornale?» Sorrise. Dopo aver discusso con il direttore perché mi permettesse di seguire il caso, raggiunsi la villetta a due piani dei Sayre in una silenziosa strada privata. Venne ad aprirmi Giles con un irrequieto pechinese in braccio. Consegnò il cane a Gillian perché lo portasse al piano di sopra. Jason era dalla nonna. Prima di conoscere Giles Sayre temevo si fosse infastidito per il fatto che la figlia aveva contattato una reporter per aiutarla in quella che poteva rivelarsi un'imbarazzante questione di famiglia. Invece si complimentò con lei e disse che avrebbe dovuto pensarci lui stesso a chiamare l'Express. «Che farò se è successo qualcosa a Julia?» mormorò. Come Gillian, era alto e magro e aveva gli occhi celesti, ma i capelli erano di un rosso scuro naturale. Si vedeva che non aveva dormito: aveva gli occhi gonfi per le lacrime che continuavano a rigargli il viso. Si affrettò a mostrarmi un'infinità di foto recenti della moglie. Aveva i capelli castano scuro e gli occhi di un azzurro intenso. Attraente e sicura di sé, sembrava perfettamente in ordine persino negli scatti più informali. Gillian somigliava di più al padre, ma Jason, che vidi in una foto di gruppo, aveva preso da entrambi: i capelli scuri e i tratti aristocratici dalla madre, gli occhi celesti dal padre. «Qual è la più recente?» domandai. Giles ne scelse una scattata durante una serata di beneficenza. «Posso tenerla? Cercherò di fargliela riavere, ma non le prometto niente.» «Non importa, ho il negativo.» La collaborazione proseguì per l'intera giornata. Lui accolse il mio inte-
ressamento con un certo sollievo, ansioso di fare qualunque cosa mi fosse d'aiuto per l'articolo. Il vantaggio era reciproco: io gli davo l'opportunità di agire, di usare l'energia che fino ad allora aveva sprecato andando avanti e indietro per la stanza con una sensazione di impotenza; lui mi semplificava il lavoro. Un uomo che teme di essere stato tradito e abbandonato difficilmente è così ansioso di diffondere la notizia. Parlai con i vicini di casa e con gli amici di Julia Sayre, poi con gli altri membri della famiglia. Più sapevo di lei, più mi ritrovavo d'accordo con la figlia: Julia Sayre non era il tipo che sparisce di sua spontanea volontà. Sembrava soddisfatta della propria vita, tranne per il rapporto con la figlia. L'opinione generale su quell'argomento era che la fase turbolenta di Gillian prima o poi sarebbe finita. Stando a quanto sostenevano gli amici, Julia era la prima a esserne convinta. Se la signora Sayre aveva una relazione extraconiugale, era stata estremamente discreta. Non avevo ancora escluso del tutto la possibilità che avesse lasciato il marito per un altro, ma non era più la mia teoria prediletta. Chiesi di nuovo a Gillian cosa indossava la madre quel pomeriggio: un completo nero di seta, gonna e giacca, una camicia bianca sempre di seta, scarpe décolleté nere e una borsetta di pelle in tinta. Gli unici gioielli erano una catenina d'oro, due orecchini di brillanti e la fede. «Non proprio la fede», spiegò il padre. «Per il nostro quindicesimo anniversario le abbiamo rifatte.» Sollevò la mano. «La sua è d'oro, come questa, e ha tre rubini.» Mi accompagnò al centro commerciale dove era stata vista l'ultima volta. Con il suo aiuto convinsi il direttore del Nordstrom a controllare l'ora esatta dell'acquisto. Il giorno prima, alle 16.18, Julia aveva usato la MasterCard per pagare una sottoveste nera. Ringraziammo il direttore e uscimmo. Mentre passavamo da un negozio all'altro mostrando la foto a tutti i commessi, nessuno dei quali l'aveva vista, Giles chiamò l'assistenza clienti della MasterCard con il cellulare. Quando la persona incaricata rispose le chiese di ripetermi le informazioni. La donna confermò che dopo l'acquisto al Nordstrom Julia Sayre non aveva più usato la carta. A quel punto chiamai l'ufficio persone scomparse del dipartimento di polizia e comunicai a un impegnatissimo detective che stavo scrivendo un articolo sulla scomparsa di Julia Sayre. Non fece commenti sull'articolo, ma, in via ufficiosa, mi disse che avrebbe cercato di smuovere le acque.
Quando la Mercedes-Benz fu ritrovata in uno dei piani superiori del parcheggio dell'aeroporto di Las Piernas, gli agenti giunsero alla conclusione che la donna aveva deciso di sottrarsi ai doveri familiari. Più tardi però fecero una scoperta che mi valse gli elogi del direttore del giornale, fiero di aver battuto la concorrenza, ma mi rivoltò lo stomaco. Nel vano portaoggetti del cruscotto fu trovato il pollice sinistro di Julia Sayre. 2 Quando il caso di Kara Lane raggiunse l'onore delle cronache, aspettai l'ennesima telefonata di Gillian che mi chiedeva di «cercare di scoprire». Nei quattro anni successivi alla scomparsa di Julia, si era fatta viva ogni volta che l'Express dava una notizia del genere: se veniva ritrovato il corpo di una donna non identificata, Gillian mi chiedeva di cercare di scoprire se poteva trattarsi di sua madre e mi ribadiva puntualmente i vari dettagli: altezza, colore di occhi e capelli, abiti e gioielli. Per caso la vittima era una brunetta con gli occhi azzurri? Aveva un anello d'oro con tre rubini? Se un uomo veniva arrestato con l'accusa di omicidio, mi chiedeva di indagare per sapere se aveva ucciso anche la madre. Se in un altro stato arrestavano un sospetto serial killer, voleva che indagassi per sapere se era mai stato a Las Piernas. Gillian era riuscita a rintracciarmi anche quando avevo lasciato il giornale per lavorare in un'agenzia di pubbliche relazioni. O'Connor, il mio mentore all'Express, era molto sensibile ai casi di persone scomparse, e le aveva detto dove trovarmi. Le spiegai che avrebbe dovuto chiedere a lui di occuparsi di quei casi, ma mi rispose citando le parole di O'Connor, e cioè che mi avrebbe fatto bene ricordare che cosa significasse avere un lavoro vero. Avrei potuto rifiutare, naturalmente, ma pur restando una semplice spettatrice, nel corso degli anni mi ero lasciata coinvolgere dalla sofferenza dei Sayre. Vedevo di rado Giles e mai al di fuori dell'ufficio, dove si tratteneva a lungo per distrarsi dal dolore. Sua madre si era trasferita da loro per occuparsi dei ragazzi. Due mesi dopo la scomparsa di Julia, Giles mi aveva confessato di essere indeciso se far celebrare o meno una funzione in memoria, «Non ho idea di cosa comporti dichiararla morta», mi aveva detto. «Mia madre sostiene che dovrei aspettare. La gente potrebbe pensare che
non vedo l'ora di sbarazzarmi di lei. Crede che qualcuno penserebbe una cosa del genere?» Gli consigliai di fare ciò che riteneva fosse meglio per la sua famiglia e di non ascoltare l'opinione degli altri, ma non mi sembrò molto convinto. Com'era prevedibile, Jason ebbe problemi a casa e a scuola. La nonna mi confidò che i suoi voti erano calati, che aveva abbandonato lo sport, era diventato molto solitario ed evitava la compagnia dei soliti amici. Soltanto Gillian aveva continuato con la sua vita di sempre, e dava alla nonna i problemi che aveva dato alla madre. Aveva lasciato la scuola ed era andata a vivere per conto suo in un piccolo appartamento. Per mantenersi lavorava in un negozio di abbigliamento di Allen Street, soprannominata Glamour Street dal mio amico Stuart Angert. E aveva trascorso quattro anni ricordando alla polizia e alla stampa, con calma e tenacia, che qualcuno avrebbe dovuto cercare sua madre, costringendoci, con la sua stoica determinazione, a vergognarci del poco che eravamo in grado di fare. Il giorno in cui venne diffusa la notizia sul caso di Kara Lane, Gillian mi aspettava fuori dal Wrigley Building, sede dell'Express. Mi diede la stessa impressione del giorno in cui l'avevo vista per la prima volta: nonostante le probabilità di ricevere un rifiuto, non avrebbe mai ammesso la sconfitta, il che mi colpiva più delle lacrime o di una scenata isterica. Il suo atteggiamento non era cambiato. Era spesso brusca, ma non si mostrava mai debole. Ostentava abiti, pettinature e trucco eccentrici, ma non lasciava trasparire i sentimenti. In tutti quegli anni avevo sempre cercato di reperire informazioni, fare telefonate, ma non c'erano stati sviluppi. Fino al giorno della scomparsa di Kara Lane. A causa del mio matrimonio con Frank Harriman, detective della squadra omicidi, non potevo più seguire la cronaca nera, ma né io né Frank eravamo troppo preoccupati delle beghe dei nostri rispettivi impieghi. Per pura coincidenza Frank faceva parte della squadra che indagava sul caso Lane, ed ero a conoscenza di dettagli che non potevo rivelare al responsabile della cronaca nera, né tantomeno a Gillian. Ma non ci volle molto prima che quasi tutti i particolari diventassero di dominio pubblico. Kara Lane aveva quarantatré anni, capelli scuri, occhi azzurri, era divorziata e madre di due ragazzine. Una sera era uscita alle otto per andare dal droghiere. Quando, alle undici, non era ancora rientrata, le figlie avevano cominciato a preoccuparsi. Troppo giovani per guidare avevano chiamato
un vicino. A mezzanotte, dopo aver setacciato tutti i parcheggi dei negozi della zona, il vicino aveva avvisato l'ex marito di Kara. Dopo altre ricerche vane si erano decisi a chiamare la polizia. Le indagini vere e proprie avevano avuto inizio il mattino seguente. Alcuni elementi costrinsero la polizia a muoversi con maggior sollecitudine rispetto a quanto non avesse fatto per il caso di Julia Sayre: innanzitutto Kara soffriva di diabete e aveva bisogno di iniezioni giornaliere di insulina che non aveva con sé. Non aveva mai lasciato sole le figlie di notte e infine, durante la riunione mattutina, il detective Frank Harriman aveva notato che per altezza, età, corporatura e colore dei capelli Kara Lane somigliava a Julia Sayre, una donna la cui figlia di tanto in tanto si metteva in contatto con la moglie giornalista. Suggerì al collega di pattuglia, Pete Baird, di andare a dare un'occhiata al parcheggio dell'aeroporto di Las Piernas. Il vecchio furgone Volkswagen di Kara era parcheggiato esattamente nello stesso posto in cui quattro anni prima era stata ritrovata la MercedesBenz di Julia Sayre. Poco dopo il ritrovamento, il furgone fu perquisito a dovere: nel vano portaoggetti del cruscotto venne trovato l'anulare sinistro della donna. Il dipartimento di polizia fece arrivare sul posto il dottor David Niles, un antropologo legale che aveva due cani addestrati al ritrovamento e al recupero dei cadaveri. Ottennero risultati sorprendenti, a tal punto che quando Frank e Pete me ne parlarono la sera stessa, ero convinta che stessero esagerando. «Uno dei due cani, Bingle, è estremamente intelligente», disse Pete. «Riesce a trovare qualunque cosa. Al confronto i tuoi bastardini sembrano dei veri ritardati, Irene.» «Aspetta un attimo...» replicai guardando Deke, un mezzo labrador nero, e Dunk, un mezzo pastore, che dormivano lì vicino. «Anche i nostri cani sono intelligenti», intervenne Frank per evitare la lite, «ma Bingle è... insomma, dovresti vederlo in azione per crederci. È addestrato molto bene...» «Dimentichi Boole», lo interruppe Pete. «Il bracco. David lavora con due cani: quando il primo dà segno di aver trovato qualcosa, il secondo gli dà conferma.» «Bingle ha persino individuato dei cadaveri sott'acqua», disse Frank. «Com'è possibile?» mi stupii. «Gli mettono la muta e le bombole?» «Molto divertente», commentò Pete.
«I cani sono in grado di farlo», spiegò Frank. «Non è incredibile come sembra. I batteri di un corpo in decomposizione causano l'espulsione di gas. L'odore si diffonde attraverso l'acqua e il cane lo avverte quando raggiunge la superficie. Da una barca Bingle può fiutare un cadavere sul fondo di un lago.» «D'accordo», feci io, «questo è sensato. Ma...» «Aspetta di sentire che cosa è successo», intervenne Pete. Il succo della storia era che Bingle aveva guidato un gruppo di uomini lungo un sentiero che dal parcheggio dell'aeroporto conduceva fino a un hangar. «Era come impazzito», aggiunse Pete tentando un'imitazione del cane. «Grattava furioso una delle pareti posteriori», spiegò ancora Frank. Avevano dovuto attendere di scoprire chi fosse il proprietario e un regolare mandato prima di poter entrare. Sembrava tutto in ordine. Il proprietario l'aveva affittato a Nicholas Parrish, un uomo tranquillo che pagava l'affitto regolarmente e non aveva mai creato problemi. Era un meccanico di aerei. Da una ricerca era risultato che Parrish non aveva carichi pendenti, né tantomeno precedenti penali. David Niles aveva fatto annusare a Bool un capo di vestiario di Kara Lane. Il bracco, che aveva bisogno di sentire l'odore per seguire una traccia, si era portato sulla stessa pista del pastore tedesco. Frank aveva suggerito di chiamare un'unità della squadra omicidi per perlustrare l'hangar con il luminol, una sostanza chimica in grado di individuare tracce minime di sangue, ma gli scettici del gruppo avevano cominciato a lamentarsi, soprattutto i detective Reed Collins e Vìnce Adams, responsabili del caso Lane. «Collins ha cominciato a dire che era solo una perdita di tempo e l'altro sosteneva che la ricerca non avrebbe portato ad alcun risultato», continuò Pete, «quando all'improvviso Bingle alza il muso e si mette a cantare.» Pete emise un acuto che risvegliò l'attenzione dei nostri cani. «David dà un altro comando e il cane riparte.» Attraversata la pista il cane si era diretto verso un campo e aveva cominciato a saltare e a scavare con foga in un punto preciso. Poi aveva emesso lo stesso verso acuto di poco prima. Completamente preso dal racconto, Pete stava miniando tutte le azioni del cane. David si era avvicinato al cane e aveva gridato: «Credo che l'abbia trovata!» Subito gli altri si erano precipitati e avevano visto la fossa poco profon-
da, la terra smossa di fresco e una scarpa di donna che fuoriusciva da quello che sembrava un telo di plastica verde. Frank aveva chiamato via radio gli agenti rimasti nell'hangar perché chiudessero l'accesso all'area, avvisassero un'unità della squadra omicidi e diffondessero un comunicato radio alle altre stazioni di polizia per far arrestare Nicholas Parrish. «Mentre lui parla alla radio io mi avvicino», proseguì Pete, «e vedo ciò che il cane sta scavando. Ha scoperto una mano, la sinistra, quella a cui manca l'anulare.» Guardai Frank. «Gillian Sayre...» «Non puoi ancora dirglielo», rispose fermo. «A nessuno. Niente. Non ancora.» Ma il giorno dopo il caso Kara Lane era in prima pagina e Gillian mi aspettava fuori dal giornale con l'aria un po' più inquieta del solito. Quando la raggiunsi sollevò una copia spiegazzata dell'Express e indicò la foto di Parrish. «È lui che ha preso mia madre.» «Sembra che i due casi abbiano molto in comune», concordai. «No, intendo dire che lo conosco. Molto tempo fa abitava nella nostra via.» «Cosa? Quanto tempo fa?» «Prima che mia madre sparisse.» «L'hai detto alla polizia?» Scosse la testa e non ne fui sorpresa. Ammesso che in passato ne avesse avuta, la sua fiducia nella polizia aveva subito un duro colpo quando il dipartimento di Las Piernas aveva rallentato le ricerche della madre, per poi disinteressarsi del tutto quando non l'avevano trovata. Sia io sia Gillian nutrivamo una profonda antipatia per Bob Thompson, il detective della squadra omicidi della polizia locale che aveva indagato sul caso. Gillian aveva tentato di mettersi in contatto con la polizia dopo il ritrovamento di un cadavere, ma di solito per queste cose si affidava a me. «Pensavo che potrebbe dirlo a suo marito», disse. «Ma certo», replicai ancora turbata. «Parrish abitava da solo?» «No, credo che la casa fosse della sorella.» «Hai mai notato niente di strano?» «No, era gente tranquilla. Lei se ne andò, non ricordo esattamente quando, e non ho idea di dove stia adesso: non era un tipo socievole.» «Davvero?» «Lui se ne stava per conto suo. Mi sembra che fosse gentile con tutti, sorrideva e salutava, ma aveva il vizio di fissare mia madre.»
Ora, aggrappata con forza ai braccioli del sedile per contrastare gli scossoni dell'aereo che vibrava nell'aria al di sopra delle montagne della Sierra Nevada meridionale, guardavo l'assassino che si stava svegliando non lontano da me. Non mi fu difficile immaginare Nicholas Parrish che si avvicinava furtivo alla sua preda, fissava Julia Sayre mentre usciva di casa per andare a sbrigare qualche commissione, mentre lavorava in giardino o tornava dal centro commerciale. Fissava una donna che si credeva al sicuro da qualsiasi pericolo. La fissava nello stesso modo in cui ora stava fissando me. 3 LUNEDÌ 15 MAGGIO, POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale Dopo un atterraggio piuttosto brusco su una striscia di terreno accidentato che fungeva da pista, restammo in attesa che ci fosse accordato il permesso di sbarcare. Bob Thompson impartì ordini a uno degli agenti di custodia il cui nome doveva essere Earl. Scese per primo; fu di ritorno poco dopo con il «via libera», e aiutò gli altri tre agenti a far scendere Parrish dall'aereo. Quindi toccò a Thompson, seguito da un giovane silenzioso che aveva l'aria di essere il suo assistente, non il suo partner. Thompson e Phil Newly, il legale di Parrish, erano gli unici membri del gruppo che conoscevo già: qualche anno prima mi ero occupata di alcuni casi di cronaca nera e avevo visto Newly in tribunale. Conoscevo Thompson da una decina d'anni e ci detestavamo reciprocamente. Forse era anche per questo che mi spettava il terzo posto nella corsa alla conquista dell'ostilità da parte degli altri passeggeri: Parrish era in vantaggio di una lunghezza seguito da Newly mentre io, in qualità di rappresentante della stampa, occupavo la terza posizione. Newly e Bill Burden detto «Flash», un fotografo della squadra omicidi, scesero dopo gli agenti. Il pilota entrò nella cabina e si fermò nel corridoio. «Gli altri devono aspettare che Parrish sia sistemato», annunciò prima di lasciare l'aereo. Passarono vari minuti. «Chi verrà con noi del Corpo Forestale?» chiese David Niles. «J.C.», gli rispose Ben Sheridan, l'altro antropologo. «Insieme ad Andy.»
«Andy chi?» domandai. Sheridan mi raggelò con un'occhiata, poi si girò verso il finestrino. Dopo un istante di silenzio David Niles disse: «Andy Stewart, un botanico che a volte lavora con noi». «Grazie, dottor Niles.» «Chiamami pure David.» Sheridan sospirò rumorosamente; David sembrò piuttosto divertito, ma non aggiunse altro. Sapevo che su quella pista avremmo incontrato un paio di persone che arrivavano da un altro posto; Thompson aveva soltanto detto che facevano «parte della squadra di Sheridan». «Ci siamo, gente», gridò Earl. Mi alzai, ma feci cenno a David di precedermi con Bingle, che sembrava piuttosto irrequieto. Mi ringraziò e seguì il cane. Rimasi sola con Ben Sheridan ancora corrucciato e intento a fissare fuori dal finestrino. «Mi scusi», esordii, «non vorrei...» «Non ho intenzione di lasciarla da sola nell'aereo a ficcanasare», mi interruppe. «Vada pure.» Cercai di controllare un improvviso scatto d'ira e scesi dall'aereo senza ribattere. Una volta a terra mi stiracchiai e mi guardai in giro: ci trovavamo su una lunga striscia di prato, quasi al centro di una stretta valle fresca e ombreggiata; l'odore di pino dei vicini boschi si mescolava alla fragranza di gemme, erba e terra. Quando notai quanto fosse inesistente il tappeto d'erba sul quale eravamo atterrati, provai un rinnovato rispetto per il pilota. Lì avremmo piantato il campo base. Dopo essersi liberato, Bingle cominciò a scorrazzare sul prato; si muoveva a piccoli balzi, fermandosi di tanto in tanto per invitare l'istruttore a giocare con lui. Tuttavia David, Sheridan e quelli a cui non spettava sorvegliare Parrish erano occupati a scaricare l'attrezzatura dall'aereo. Presi la mia roba e andai ad aiutare gli altri. Avevo fatto solo qualche passo quando una voce alle mie spalle mi chiese: «Sei tu la reporter?» Mi voltai e vidi un giovane magro e solare che mi sorrideva, doveva avere sui venticinque anni e portava i capelli corti, come un porcospino; era abbronzato e aveva i polpacci muscolosi di chi cammina molto, va in bicicletta, corre o fa escursioni. Notai la barba ben curata e un orecchino al lobo destro. «Sì.» Appoggiai lo zaino e gli tesi la mano. «Irene Kelly.» «Andy Stewart», si presentò con una stretta vigorosa. «Sono il botanico della squadra. J.C. e io siamo arrivati a mezzogiorno e ci siamo già siste-
mati. Vuoi una mano?» «No, grazie, ma credo che il dottor Sheridan invece ne abbia bisogno.» Andy afferrò una sacca di tela e continuò a chiacchierare con me; mi disse che l'elicottero del Corpo Forestale li aveva portati in anticipo. «Scusami se te lo chiedo, ma come mai in questa spedizione è necessaria la presenza di un botanico?» «Perché quando qualcuno come il signor Parrish scava una fossa, ci butta dentro quello che in definitiva risulta essere un bel po' di fertilizzante e poi ricopre il tutto, la natura fa sì che il suo lavoro non passi inosservato. Un botanico esperto è in grado di leggere certi segni: le piante sradicate, quelle nate da poco, il suolo circostante e tutto ciò che crea un'alterazione nel sistema.» «Quindi sei pagato per registrare i cambiamenti della vita naturale?» Mi guardò con un sorrisetto. «Pagato? No, nessuno di noi è pagato: Ben, David e io siamo volontari. Io sono laureato in biologia mentre Ben e David insegnano al dipartimento di antropologia... David si paga anche l'addestramento e l'attrezzatura di Bingle; J.C. ha il suo stipendio di guardia forestale, ma non riceve altri extra.» Fece una pausa. «Se non ti dispiace, ti farei anch'io la stessa domanda: che ci fa qui una reporter?» «Ottima domanda. Molti tra i presenti, e non solo, sostengono che io non c'entri nulla.» M'interruppi e cercai di allontanare il ricordo della lite con Frank prima di partire. «Non m'importa di quanti agenti ci sono: non voglio che tu vada lassù con lui.» «Neanche a me va di trovarmi lassù con lui, ma non posso tirarmi indietro, Frank.» «Rifiuta l'incarico. Maledizione, Irene! Le amputazioni sono state effettuate ante mortem... sai che significa?» «Basta!» «Significa che quelle donne erano vive quando ha cominciato a mutilarle, Irene. Vive!» «Ma alla fine sei venuta lo stesso», stava dicendo Andy. «Sì. Conosco la famiglia di Julia Sayre...» spiegai. «È la vittima dalla quale lui dice che ci porterà?» «Sì.» Sono qui per mettere fine al loro ultimo barlume di speranza, pensai. Quel piccolo, insopportabile tarlo che batte nelle loro teste come un sassolino in una scarpa.
Anni di esperienza come reporter mi avevano insegnato che le famiglie si aggrappano anche alla minima speranza, a qualsiasi remota possibilità. Se precipita l'aereo sul quale doveva essere il figlio, confidano fino all'ultimo che non l'abbia preso o che abbia ceduto il biglietto a un amico. Sapevo che i Sayre volevano credere a tutti i costi a un'eventualità del genere, anche se Gillian non l'avrebbe mai confessato. L'annuncio di Parrish aveva quasi messo fine a quell'idea. Doveva essere stato un duro colpo per la ragazza; eppure la famiglia continuava a chiedersi se non fosse un bluff dell'assassino. Ora eravamo arrivati al momento dell'identificazione finale. Avremmo disseppellito i resti di Julia Sayre e dissolto le ultime speranze della famiglia. «È bello, da parte tua, fare questo per loro», disse Andy svegliandomi dalle mie fantasticherie. «No, non c'è niente di nobile», replicai. «Sono qui perché il mio capo ha insistito e non ho certo accolto con piacere l'incarico: mi sono ritrovata coinvolta in una sorta di manovra politica. Il dipartimento di Las Piernas ha di recente perso credibilità...» «Ti riferisci al tentativo di occultare gli errori di quell'indagine interna rivelato da un reporter dell'Express?» «Sì. Perciò, per dimostrare alla gente che stanno facendo un buon lavoro e che è tutto alla luce del sole, i pezzi grossi hanno deciso di concedere a un reporter locale di partecipare a un evento importante, la soluzione di un vecchio caso a cui la stampa aveva dato molto peso. L'Express stava già insistendo perché mi permettessero di unirmi al gruppo e io non immaginavo che avrebbero detto di sì, altrimenti avrei tentato di evitare la cosa prima che si arrivasse a questo punto.» «Credevo che fosse il sogno di ogni reporter.» «La montagna non è esattamente la mia passione.» «Non è la tua passione?» commentò esterrefatto, come se la mia fosse un'affermazione sacrilega. Deglutii a fatica. «Un tempo mi piaceva, ma... ho avuto una brutta esperienza.» «Durante un'escursione?» «No, in uno chalet.» Avevo la bocca secca e faticai a pronunciare la semplice, breve parola chalet. Andy sembrò non accorgersene. «Però non è la tua prima volta», disse perplesso.
«No. Sono stati i vestiti a tradirmi?» «Sì! Non hai uno stile da principiante; non certo come l'assurda tenuta dell'avvocato. Prendi gli scarponi, per esempio: i tuoi sono già rodati; i suoi sono nuovi di zecca, e scommetto che presto sarà pieno di vesciche. Tu hai solo poche cose nuove e non certo per esibizionismo.» «È passato molto tempo dall'ultima volta che ho usato questa roba.» Non avevo voglia di pensare al motivo. «Allora tieni separata questa esperienza da quello che ti è successo nello chalet», ribatté Andy con la logica semplice della gioventù. Prima che potessi rispondergli sentii una voce profonda giungere dall'altra parte del prato. «Il vostro botanico sta importunando la signora Kelly.» Era Parrish. Mi sentii avvampare per l'improvvisa attenzione dei componenti del gruppo. Uno degli agenti stava intimando al prigioniero di stare zitto. «È vero?» mi chiese Andy. «Niente affatto. Anzi, mi stai facendo sentire a mio agio.» Un altro sorrisetto. In un certo senso gli avevo detto la verità. Almeno lui mi rivolgeva la parola e si dimostrava più cordiale degli altri. Aveva ragione a proposito delle escursioni con lo zaino: forse le mie paure non si sarebbero risvegliate; invece se, per esempio, fossi arrivata lì in macchina o avessi dovuto dormire in uno chalet... «Una volta sapevo riconoscere qualche fiore selvatico», dissi cercando di non pensare a chalet, a vani portaoggetti di cruscotti e a Nicholas Parrish. «Perché non mi aiuti a ricordare i nomi di qualche varietà?» 4 LUNEDÌ 15 MAGGIO, POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale Purtroppo fummo costretti a rinviare la lezione di botanica: bisognava allestire il campo prima che fosse buio, e c'era molto da fare. Piantai la tenda, sistemai lo zaino, poi mi guardai intorno per vedere se qualcuno aveva bisogno di aiuto. Notai che Earl, l'unico agente del quale conoscevo il nome, stava prendendo una medicina. Era un uomo sulla cinquantina; il suo partner doveva essere un po' più anziano. «Non si sente bene?» chiesi. «Io?» replicò nascondendo in fretta le pillole. «Sto bene, grazie.» Notò il
mio sguardo indagatore e aggiunse: «Mi sto riprendendo da un'infezione all'orecchio. Se l'avessero saputo non mi avrebbero affidato l'incarico». «Non lo dirò a nessuno.» «In special modo a Thompson», suggerì con un sorriso malizioso. «Certo. Credo che sia piuttosto evidente che fra noi non corre buon sangue.» «Signora, è raro che corra buon sangue tra Thompson e qualsiasi altra persona.» Mi tese la mano. «Comunque sono Earl Allen. Ho notato che il detective Caco-ma-non-Puzzo non si è curato delle presentazioni.» «Piacere, Earl. Mi chiamo Irene.» «Noi la conosciamo, sa? È la moglie di Harriman.» «Sì.» «Brav'uomo, quel Frank. Se qualcuno di questi tizi le crea problemi, me lo faccia sapere.» «Grazie.» «Ehi, Earl!» gridò un poliziotto, il più tarchiato della comitiva e forse anche il più anziano. «Il mio partner, Duke Fenly», disse Earl allontanandosi. «Pare che abbia bisogno di aiuto con la tenda.» «Duke ed Earl - un duca e un conte - sembra uno scherzo.» «No, siamo veri aristocratici, noi», replicò Earl voltandosi. «Ecco perché ci affidano tutte le teste di cazzo blasonate.» Nonostante il suo aiuto, i due ebbero qualche problema a piantare l'enorme tenda, perciò decisi di dar loro una mano. Mentre lavoravamo, Earl mi indicò altri due agenti, Merrick e Manton, e un poliziotto di nome Jim Houghton che stava sistemando la tenda di Thompson. «Giovane, per essere un detective», osservai. Earl sbuffò. «Non è un detective, è un agente come noi. Al momento Thompson non ha un partner regolare.» «Perché?» chiesi. «Detto fra noi, perché nessuno sopporta quel figlio di puttana. Il povero Houghton è stato reclutato come suo assistente.» «Come suo lacché», ringhiò Duke. «Ma Houghton è un tipo tranquillo, nulla lo turba... starà benone.» Avevamo appena rizzato la tenda quando, all'improvviso, Thompson interruppe la discussione con Newly e gridò: «Che diavolo avete voi due?» Le nostre mani si fermarono all'istante. Earl si voltò, rifiutando di credere che la frase fosse diretta a lui.
«Che c'è, detective Thompson?» chiese Duke gelido. «Allontanate immediatamente quella dannata reporter! Non voglio che tocchi niente di ciò che appartiene al dipartimento di polizia!» «Perbacco, Bob», lo derise Earl. «Harriman non la prenderà bene quando Irene tornerà a casa.» Risero tutti, compreso Houghton, ma la battuta non contribuì a calmare Thompson. «È un problema suo. Qui il responsabile sono io, intesi?» Duke ed Earl non sembrarono del tutto convinti; io mi imposi di mantenere la calma. Dapprima fui tentata di mollare la presa e lasciar cadere la tenda, poi però notai che Nick Parrish mi fissava. Distolsi lo sguardo in cerca di un alleato: Andy stava spostando la cassa con le provviste verso la zona cucina e decisi di offrirmi di dargli una mano, ma, prima che potessi aprire bocca, Ben Sheridan mi raggiunse e afferrò il picchetto che reggevo. «Vada pure», disse. La mia tenda si trovava al limite della radura, a ridosso di alcuni alberi. Esaminai il cielo e decisi di mettere il telo per la pioggia, poi scelsi un momento in cui neppure Nick Parrish mi stava guardando per ritirarmi. Sistemai la roba con lo sguardo rivolto verso l'esterno: si rivelò un'operazione piuttosto complicata, ma avevo bisogno di vedere il cielo e di respirare aria fresca. Cercai di non pensare che mi trovavo in uno spazio angusto e chiuso. Mi coprii bene e uscii con il fornellino da campeggio. Phil Newly mi vide e si avvicinò. Osservandolo mentre avanzava con quell'andatura tesa mi venne in mente che forse una bella passeggiata sui monti sarebbe servita a rilassarlo, ma tornai subito alla realtà... non era una vacanza, né un'escursione di piacere; ci trovavamo lì per dissotterrare la vittima mutilata di Nick Parrish. In piedi davanti a me, il suo legale mi sorrideva. Era un tipo carismatico: capelli castani, lineamenti fini e occhi scuri, intensi, che si diceva fossero in grado di disorientare un testimone d'accusa molto prima di avergli rivolto la domanda, eppure in quella tenuta da campeggio nuova di zecca e griffata sembrava un innocuo damerino. «Irene, non vorrai privarci della tua compagnia a cena!» «Privarvi non è esattamente il termine che userebbe il tuo avversario.» Gli altri erano, per così dire, ospiti del dipartimento di polizia di Las Piernas, io ero stata invitata a occuparmi delle mie provviste. Per la prima sera, Newly aveva comprato delle bistecche. «Fregatene», replicò lui. «Se riesco io a sopportare il loro disprezzo per la mia professione, puoi farcela anche tu... Unisciti alla compagnia.»
«Grazie per l'invito, Phil, ma se stasera non mangio la mia roba, domani mi toccherà caricarmela di nuovo in spalla. E poi non ho voglia di vedere Parrish che mangia bistecche.» «Credo che Earl darà al mio cliente un panino con la mortadella.» Sorrisi. «E tu non hai obiettato?» «Non esattamente.» Esitò un momento prima di aggiungere: «Non è necessario che i miei clienti mi piacciano, Irene. Devo solo garantire loro una difesa». «Parrish non sembrava volerla, la difesa.» «Mi sono opposto a questo accordo.» «C'erano prove concrete contro di lui.» «Ti prego, Irene...» «D'accordo, non sono così ingenua da non sapere che cosa succede alle prove concrete quando tu ci metti le mani sopra.» Rise. «Lo prendo come un complimento, e ora dimmi che ti unirai a noi.» «Mi dispiace, Phil. La giornalista che è in me sa che scriverei un articolo migliore se tentassi di socializzare, ma passeremo moltissimo tempo insieme nei prossimi due o tre giorni.» «Va bene, non insisto! Spero solo che non te ne rimarrai in disparte tutta la sera... penseranno che ti sei offesa.» «Hai ragione», ammisi, anche se non avevo troppa voglia di mettermi i guantoni e tornare sul ring. «Ci vediamo più tardi.» Il cibo disidratato aveva lo stesso sapore dei tempi in cui facevo campeggio; mi domandavo se altri aspetti della vita all'aperto potevano invece essere migliorati nel frattempo. Misi tutto a posto e mi unii al gruppo seduto intorno a un piccolo falò. Earl e Duke avevano portato Parrish nella sua tenda e stavano di guardia. Uno degli altri agenti, Manton, fu molto cordiale con me, come pure Flash Burden, il fotografo; fatta eccezione per Bob Thompson e Ben Sheridan, il dopocena fu piuttosto piacevole. Poco dopo il mio arrivo il detective annunciò che sarebbe andato a dormire e suggerì agli altri di fare lo stesso: nessuno prese in considerazione la proposta. Manton notò le mie occhiate preoccupate in direzione della tenda di Parrish e disse: «Non si preoccupi, non lo perderemo di vista. Andrà tutto bene». «Grazie», risposi, senza però riuscire a liberarmi dal pensiero che lui si
trovava lì vicino, sveglio nella sua tenda, che ascoltava ogni parola, ogni suono. Fui distratta da un rumore secco: era Ben Sheridan che spezzava dei ramoscelli. Non ero l'unica del gruppo che non riusciva a rilassarsi. Poi gli altri si misero a scherzare sulle ottime bistecche che mi ero persa. «Ci è voluto meno a cuocere le bistecche di quanto David non ci abbia messo a preparare la cena al cane», borbottò Merrick lanciandosi in una colorita descrizione della scena. «Ehi, devo prendermi cura di Bingle», intervenne David. «¿Estas bien, Bingle?» Il cane, seduto fra lui e Ben, gli si avvicinò per leccargli l'orecchio. «Che schifo», commentò Manton, «ti fai leccare da quel cane che va in giro a leccare cadaveri?» «Ti sta insultando, Bingle!» protestò David con un tono di voce che fece abbaiare il cane. «Bingle lecca solo i vivi. Certo, un alito come il tuo potrebbe confonderlo... non credo che lo farebbe.» «Che cosa gli dai da mangiare?» chiese Flash Burden. «È la formula segreta del Mega-ERoe-Dell'Addestramento.» «Le iniziali della tua formula sono tutto un programma», intervenne Andy. «Ti consiglio di non calpestarla, come stai facendo con la mia battuta», ribatté lui senza cattiveria. Bingle se ne stava accucciato in silenzio, orecchie dritte e occhi puntati verso il suo istnittorc; anche David lo guardò a lungo. Andy chiese di Bool, e David spiegò che si era ferito a una zampa durante le ricerche di Kara Lane. «Bool segue l'odore e non sta molto attento a dove mette le zampe; guarirà presto, ma non era ancora pronto per una spedizione come questa, quindi l'ho lasciato a un amico.» «Questo pastore dev'essere il più in gamba dei due», disse Manton. David sorrise. «Bingle è sicuramente un cane molto istruito, persino bilingue. ¿Correcto, Bingle?» Il cane si drizzò a sedere ed emise un latrato acuto. «Oltre all'addestramento con i cadaveri ha anche ricevuto l'addestramento vocale.» «L'addestramento vocale?» si stupì Manton. «Cántame, Bingle», ordinò David, e intonò una ballata popolare. Bingle si unì al coro in perfetto unisono, tanto che lo sentimmo addirittura pronunciare le parole. Nessuno riuscì a rimanere serio. Quasi nessuno. «Basta, David», ordinò secco Ben.
Silenzio. Ci guardammo intorno, un po' a disagio. Tutti eccetto David e Bingle: il cane piegò la testa di lato, perplesso. «Così ci scoraggi», mormorò David, senz'ombra di rabbia, mentre lodava il cane. Ben si alzò e se ne andò. 5 MARTEDÌ 16 MAGGIO, 2.25 DEL MATTINO Montagne della Sierra Nevada meridionale Niente riesce a tenere sveglia una persona più del pensiero di come sarà distrutta l'indomani se non chiude occhio. Dalle altre tende proveniva un leggero russare, compresa quella in cui Bingle dormiva acciambellato accanto a David e dalla quale giungeva una doppia armonia. Sentii i passi di Manton e Merrick, più tardi quelli di Duke ed Earl. Il senso di claustrofobia mi tormentava, e non riuscii a rimanere a lungo nella tenda. Mi ritrovai seduta all'aria aperta a guardare le stelle, ad ascoltare gli insetti, a chiedermi quali fossero gli animali che emettevano gli altri suoni, isolati fruscii e crepitii. Il cibo era stato appeso in alto dentro sacchi a prova d'orso, a una distanza di sicurezza di un centinaio di metri dal campo, eppure non ero sicura che quello stratagemma fosse sufficiente a tenere lontani gli orsi. Pensavo a Frank e mi chiedevo se anche lui fosse sveglio, se avesse ricevuto dal pilota il messaggio radio del nostro arrivo. Pensai a mio cugino Travis, che stava da noi. Pensai ai miei cani e al gatto. Cercai disperatamente di tenere lontano il ricordo di una precedente esperienza sulle montagne, chiusa nella stanzetta di uno chalet, prigioniera di ospiti violenti. Gli incubi suscitati da quanto era accaduto lassù ormai non mi tormentavano quasi più, ma sapevo bene cosa poteva farli ritornare... spazi chiusi, stress, posti nuovi. Dovevo pensare a qualcos'altro. Pensai a Gillian Sayre e a sua madre. Rimasi sveglia. Forse dovevo arrendermi ai brutti ricordi della prigionia: rievocarli avrebbe potuto servirmi a sciogliere la tensione. In quel momento il mio viso fu illuminato dal rapido bagliore di una torcia abbassata in fretta. Il raggio di luce e il rumore dei passi non lasciavano dubbi: qualcuno stava venendo verso di me. Quando fu più vicino, vidi che era Ben Sheridan. Mi
alzai. «Come mai è sveglia?» sussurrò con il fiato che si condensava nell'aria fredda. «Sono le tre del mattino.» «Aspettavo la mia grande occasione per mettere il naso nella vostra attrezzatura e toccare tutto quello che appartiene alla polizia di Las Piernas», replicai sempre sussurrando. Rimase in silenzio per un istante e poi ripeté: «Come mai è sveglia?» «La disturbo?» «No.» «Bene. Allora come mai lei è già in piedi?» «Ssh, non parli così forte o sveglierà anche gli altri.» Attesi. «Io ho dormito», disse. «Non molto», commentai. «Lei non ha dormito affatto.» «Se ha dormito come fa a sapere che io non l'ho fatto?» Cominciò ad allontanarsi. «Ho qualche problema con gli spazi chiusi», spiegai. Si fermò: «Soffre di claustrofobia? Le dà fastidio la tenda?» «Sì.» «Dorma fuori.» «Non è solo quello.» Ma non riuscii ad aggiungere altro. A quel punto fummo interrotti. Bingle ci aveva sentiti ed era emerso dalla tenda scrollandosi come se fosse appena uscito dall'acqua. Alcuni ciuffi di pelo dritti intorno alle orecchie gli davano un'aria frastornata; era buffo. David uscì dietro di lui. Prima che potessi scusarmi, mormorò mezzo addormentato: «Ciao, Ben, Vuoi che ti presti Bingle?» «Prestalo a lei», rispose Ben. «Che cosa?» chiesi sorpresa. «D'accordo», mi avvisò David rivolgendosi poi al cane. «Duerme con ella», gli ordinò in spagnolo puntando il dito verso di me. Dormi con lei. Bingle mi raggiunse trotterellando e si accucciò ai miei piedi. «Un attimo...» «Tienilo al caldo e starà benone», mi consigliò David, e rientrò nella tenda. Rivolsi un'occhiata irritata a Ben. «Se ha un incubo la sveglierà», disse allontanandosi. «Chi ha parlato di incubi?»
Lui si voltò e rispose: «Nessuno». Bingle mi guardò con occhi speranzosi. Sospirai e mi infilai nel sacco a pelo mentre il cane, dopo una rapida ispezione dell'ambiente, si stese accanto a me. Si mosse un po', poi finalmente sembrò trovare la posizione preferita, con il muso sulla mia spalla. «Comodo?» domandai. Emise un sospiro. Affondai una mano nel pelo folto e mi ritrovai a sorridere. Qualche minuto dopo mi addormentai. Al mattino aprii un attimo gli occhi quando Bingle uscì, ma rimasi a sonnecchiare un altro po', finché i rumori del campo che si risvegliava me lo permisero. Finita la colazione partimmo, lasciando il pilota con l'equipaggiamento più pesante. A detta di Parrish Julia Sayre era sepolta ad almeno un giorno di cammino dalla pista d'atterraggio. Zaino in spalla, cominciammo il nostro viaggio nel bosco. Procedevamo molto lentamente, anche perché stavamo seguendo un uomo ammanettato e sorvegliato che probabilmente voleva godersi gli ultimi giorni di libertà. Oltre alla solita attrezzatura da campeggio, Ben e David trasportavano anche un equipaggiamento extra ed erano piuttosto carichi. Il gruppo era numeroso e i livelli di esperienza variavano. Credo che a me toccasse una posizione intermedia: avevo fatto molte escursioni, anche se ormai era passato tanto tempo. J.C., la guardia forestale, era decisamente il più esperto, seguito da Andy; Flash, Houghton, David e Ben lo erano un po' meno, ma si trovavano a loro agio all'aria aperta; Bob Thompson e Phil Newly erano i principianti. Duke era l'agente più anziano - mi aveva mostrato una foto del nipotino, e da un racconto dei suoi giorni di scuola calcolai che dovesse avere da poco superato i cinquanta -, tuttavia era più in forma di Merrick e Manton, entrambi di vent'anni più giovani. Earl, una via di mezzo quanto a età, lo era anche per forma fisica. Flash Burden dava dei punti a tutti: non faceva che scattare foto ai fiori selvatici, chiedendo ad Andy conferma dei nomi prima di scriverli nel taccuino. Il botanico dovette correggerlo soltanto un paio di volte, e i due si misero a chiacchierare dei luoghi in cui avevano fatto escursioni o arrampicate. Era difficile giudicare l'esperienza di Parrish, ma in quella foresta sembrava essere a suo agio... e forse non solo in quella. Gli scarponi, per esempio, erano i suoi, ben fatti, piuttosto logori, e non mostrò nessuna pau-
ra, al contrario di Phil Newly, quando un serpente attraversò veloce il sentiero. Neppure Bingle sembrava turbato dalla fauna locale, infatti non dava la caccia agli scoiattoli né ad altri animaletti che sicuramente notava. Per quasi tutto il viaggio rimase accanto a David, con un atteggiamento fra il regale e il claunesco. Di tanto in tanto si avvicinava a Ben; David mi spiegò che quel particolare attaccamento era dovuto al fatto che, da qualche tempo, Ben viveva con loro. Non si dilungò sui particolari, ma intuii che Ben aveva rotto con la fidanzata e si era trasferito da lui, dove sarebbe rimasto fino alla fine del semestre. «Poi si cercherà un posto per conto suo, anche se gli ho detto che può rimanere ancora. Ai cani e a me fa piacere la sua compagnia.» «Scusa, ma mi riesce davvero difficile crederlo», dissi. «Be', penso che Ben non abbia fatto una buona impressione a nessuno, qui. Non è nella sua forma migliore», replicò con un sorriso. «Come mai?» «Per varie ragioni», fu la vaga risposta che ricevetti. Ci fermammo a mangiare in una piccola radura che non ci consentì di sparpagliarci come avevamo fatto la sera precedente. Nick Parrish ne approfittò per riprendere a fissarmi e Bingle, forse ricordando la notte passata insieme, s'irrigidì risentito e cominciò a ringhiare. «Tranquilo, mi centinela», borbottò David, e il cane obbedì. «Che cosa gli ha detto?» chiese Parrish. Lui non rispose. «Pare che abbia un protettore, signora Kelly», osservò Parrish. «Almeno per ora.» «Lasciala in pace», intervenne Earl. «Io credo che la signora Kelly dovrebbe intervistarmi, no?» L'ultimo membro della spedizione arrivò nella radura e mi risparmiò la risposta. Si trattava di Phil Newly che raggiunse con cautela una grande roccia piatta sedendosi con un sospiro. Gli scarponi dovevano fargli male. Aveva percorso l'ultimo chilometro come sui carboni ardenti. Mi misi a cercare dei cerotti nello zaino quando Ben Sheridan lo raggiunse e gli ordinò: «Si tolga gli scarponi». Newly arrossì e disse: «Prego?» «Si tolga gli scarponi! Dev'essere pieno di vesciche. Avrebbe dovuto dircelo prima.» «Non ho intenzione di toglierli, grazie», rispose Newly cercando di man-
tenere il contegno. «Non sia testardo», ribatté Ben. «Se si rovina i piedi mette a repentaglio l'intera spedizione, o forse è proprio quello che ha in mente?» «Senta, io...» «Ignora i suoi modi, Phil», intervenni. «Certo che ha ragione sulle vesciche: se s'infettano diventano pericolose.» Non si arrese. Estrasse un GPS e cominciò a fare una lettura. Ben si allontanò senza mascherare la sua rabbia. «Hai mai usato uno di questi lettori di posizione portatili?» mi chiese. «No», risposi. «Me la cavo piuttosto bene con bussola, altimetro e carta geografica.» E un aiutino di J.C., aggiunsi fra me e me. Più di una volta la sua familiarità con la zona mi aveva aiutata a individuare le caratteristiche del terreno. «Questi aggeggi sono davvero incredibili.» Me lo porse e dedicò qualche minuto a spiegarmi il funzionamento base. Quando sul display comparve la lettura di longitudine e latitudine, puntualizzò: «Naturalmente non funziona nelle valli strette, nelle foreste fitte, né nei luoghi in cui è difficile captare il segnale satellitare. Ho notato che anche il detective Thompson ne ha uno». Glielo restituii, e lui lo ripose; quando si alzò si lasciò sfuggire un'imprecazione. «Scusa», disse rimettendosi a sedere. «Perché non mi fai dare un'occhiata alle vesciche? Se non sono ridotte troppo male i cerotti potrebbero fare qualcosa.» Quando si tolse le scarpe, mi resi conto che la situazione era abbastanza grave. Conoscevo le basi del pronto soccorso, ma per fortuna J.C., molto più esperto di me, venne in aiuto. Ripartimmo. Newly procedeva lentamente ma non si era arreso. Quando, un'ora dopo, ci fermammo per orientarci, non esitò a togliersi nuovamente scarpe e calze. Vidi che si stavano formando nuove vesciche. Mi apprestavo a tagliare un altro pezzo di cerotto quando sentimmo Parrish gridare: «Voglio parlare con il mio avvocato, da solo». «Ci hai presi per idioti?» urlò di rimando Duke. «Non puoi prendere e andare in giro per il bosco con il tuo avvocato.» Phil Newly sospirò e, con una smorfia di dolore, si alzò a piedi nudi. «Gli parlerò qui, rimarremo bene in vista. Circondateci pure, se volete, ma lasciateci un po' di spazio per consultarci.» Vista l'occhiata scettica di Duke, aggiunse: «Non ho alcuna intenzione di 'andare in giro per il bosco' con nessuno».
Duke guardò Bob Thompson, il quale annuì. «Però voglio che siano circondati», precisò il detective. «E non voglio nessun altro vicino. Signora Kelly, si allontani subito dal signor Newly.» Non dovevo certo essere pregata per allontanarmi da Parrish, che nel frattempo mi sorrideva. «Oh», disse fingendo delusione. «Speravo che avrebbe giocato anche con i miei piedi.» Quella frase gli valse un violento strattone di Earl. Gli agenti non si allontanarono troppo da lui. «Newly», disse Bob Thompson, «voi due potete soltanto sussurrare.» Parrish guardò i piedi nudi del legale. «Sta camminando troppo lentamente, avvocato», disse senza abbassare la voce. «Ormai non posso farci niente», replicò Newly. «Che cosa vuole?» «Procedere più in fretta», replicò Parrish abbattendo con violenza il massiccio scarpone sul piede sinistro dell'avvocato. Newly urlò per il dolore, Bingle cominciò ad abbaiare; gli agenti nel frattempo si erano già avvicinati spingendo e immobilizzando il prigioniero, faccia a terra, sul terreno pietroso. Houghton li copriva a breve distanza con la pistola in mano. Earl teneva la faccia del prigioniero schiacciata contro il suolo, deformandogli il sorriso soddisfatto. J.C. soccorse Newly che sembrava sul punto di svenire. Dopo un rapido esame al piede la guardia forestale annunciò: «Credo che gli abbia rotto qualche osso: si sta gonfiando in fretta». Prese del ghiaccio sintetico dal kit di pronto soccorso e lo applicò al piede. Di certo l'avvocato non avrebbe potuto rinfilarsi la scarpa, né tantomeno camminare. Nacque un'accesa discussione sull'opportunità o meno di concludere lì la spedizione. Thompson era favorevole alla resa. Gli altri ponevano l'accento sul tempo e le spese già sostenute. «Se lo portiamo con noi senza il suo avvocato...» attaccò il detective, ma Parrish lo interruppe. «Lo sollevo dall'incarico.» «E io ti riporto comunque a Las Piernas», ribatté il detective. «Credi che il procuratore distrettuale non chiederà la pena di morte se scopre come hai mandato all'aria questa costosa spedizione, che fra l'altro potrebbe rivelarsi un'inutile caccia?» «Posso giurarle», replicò Parrish con un sorriso gelido, «che non sarà assolutamente 'inutile'.» Ci fu un lungo silenzio, poi ricominciarono a discutere. Newly era d'accordo a lasciare che il prigioniero li guidasse alla sepoltura della donna an-
che senza di lui. «Portarvi da lei gli salva la vita», mormorò a denti stretti, col viso pallido e contratto. Thompson cedette e stabilì che J.C. e Houghton avrebbero riportato Newly all'aereo. «Houghton, tu accompagnalo all'ospedale e mettiti subito in contatto con il procuratore: raccontagli esattamente quello che è successo e digli che Newly era d'accordo con la decisione che abbiamo preso.» Dopo essersi divisi il contenuto dello zaino dell'avvocato, J.C. e Houghton lo sostennero da entrambi i lati. Newly, ancora pallido per il dolore, mi offrì il suo lettore GPS dicendomi: «Potresti segnarmi la posizione di tutti i luoghi che mi possono interessare?» «Mi dispiace, non so usarlo», risposi. Non volevo essere coinvolta in alcun modo nella difesa di Parrish. Lui abbozzò un debole sorriso e domandò: «Userai la tua bussola?» «Sì, anche se sono convinta che nessun giudice sano di mente ti lascerebbe usare i miei appunti... però sappiamo che anche Bob Thompson usa un GPS.» Newly annuì; il dolore al piede gli impedì di continuare a parlare. J.C. chiese ad Andy di tenere sotto controllo la situazione per lui. «Lasciami dei segni sul sentiero», raccomandò, «e fa' in modo che non distruggano troppi ettari di foresta, se puoi evitarlo.» Tutti rimanemmo a guardare il trio che si allontanava. Parlavo con Andy ogni volta che si fermava per segnare un cambio di direzione con un pezzo di stoffa su un cespuglio o con dei sassi disposti a forma di freccia. «Credi che J.C. ci ritroverà?» gli domandai. «È in gran forma e in un giorno riesce a percorrere distanze che ridurrebbero allo stremo la maggior parte di noi.» Nel tardo pomeriggio cominciai a chiedermi se saremmo mai arrivati in una zona dove accamparci, per non parlare della tomba di Julia Sayre. Avevamo perso tempo e l'aria si stava rinfrescando in fretta. Sulle nostre teste si stavano addensando delle nubi: presto sarebbe arrivato un temporale. Anche Thompson sembrava preoccupato. Fermò la processione e si lamentò con Parrish: «Non sembra che ci stiamo dirigendo nella direzione della valle che ci hai indicato sulla carta». «Mi ero sbagliato», disse Parrish, «ma adesso so esattamente dove sto andando.» Proprio in quel momento la direzione del vento cambiò. Bingle alzò il
muso ed emise una sorta di sbuffo, poi cominciò a gemere e guardò David con le orecchie ritte. «È un segnale di allarme?» mormorò Ben. David era concentrato sul cane. «¿Qué te pasa?» domandò. «Che c'è?» Il cane cominciò ad avanzare e David lo seguì. Mi accodai anch'io, ignorando il rabbioso ammonimento di Thompson che urlò: «Torni subito qui!» Il cane correva sempre più veloce e presto lo perdemmo di vista. «Bingle! ¡Alto!» gridò David. Bingle si era già fermato. Era davanti a noi e abbaiava, poi iniziò a guaire. Quando lo raggiungemmo non riuscimmo a trattenere un urlo di disgusto. Bingle era ai piedi di un pino che a prima vista sembrava ornato di uno strano muschio grigio. Ma non era muschio. Gli oggetti che pendevano dai rami erano animali. Coyote. Una decina o più di carcasse, appese a testa in giù e in vari stadi di decomposizione, inchiodati ai rami più bassi a decorare un macabro albero di Natale. Mi portai la mano alla bocca trattenendo un conato di vomito. David cercava di calmare Bingle con voce tremante, facendogli le coccole. Gli altri si stavano facendo strada fra gli alberi alle nostre spalle. Nicholas Parrish sollevò lo sguardo verso l'albero e sorrise: «Ve l'avevo detto che era questa, la direzione giusta». 6 MARTEDÌ 16 MAGGIO, TARDO POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale Flash cominciò a scattare foto. Merrick, rosso in viso per la rabbia, urlava contro Parrish chiamandolo «fottuto malato» mentre Manton lo tratteneva per le braccia per impedirgli di prenderlo a pugni. Parrish continuava a sorridere. Avevo visto gli altri arrivare all'albero dei coyote con espressioni che passavano dall'orrore alla furia. Dopo lo sgomento iniziale Ben Sheridan cominciò a esaminare attentamente quell'abominio e disse: «Ci serviranno delle foto, signor Burden». Vedendo che Ben prendeva appunti, Merrick gridò: «Le piace lo spettacolo, eh, Sheridan?» «Sta' zitto, Merrick», intervenne Bob Thompson impassibile, avvicinan-
dosi anche lui all'albero per studiarlo meglio. «Per favore, lo riprenda da varie angolazioni, signor Burden», proseguì Ben, e, lanciando un'occhiata a Merrick, aggiunse: «Quando usa la videocamera la prego di togliere l'audio». Poi si rivolse a David: «Forse sarebbe meglio allontanare Bingle». «C'è una piccola radura a una cinquantina di metri, lungo quel sentiero», disse Parrish indicandolo. Nessuno lo ringraziò per l'aiuto. Rimasi un altro po'; nessuno parlava. Vidi Thompson estrarre il GPS; io ricorsi alla bussola per annotare la posizione dell'albero. Mi chiesi se, di fronte a quella scena, il detective avrebbe mosso ulteriori accuse contro Parrish. Forse J.C. avrebbe potuto parlare a nome del Corpo Forestale. Mi sforzai di contare i coyote: erano dodici e sembravano ricoperti da qualcosa. Per quanto tentassi di farmi forza, la vista mi dava il voltastomaco. «Perché?» domandai rivolta a Parrish. Rispose con un sogghigno: «Le piacciono? Non vorrebbe che appendessi anche lei fra loro? Sentirebbe quei corpi che ondeggiano contro il suo nella brezza». Provai un violento impeto d'ira, mi accorsi però che la mia reazione gli procurava piacere. Serrai i denti per non controbattere. Thompson, con calma, mi chiese di allontanarmi, e per una volta fui lieta di soddisfare una sua richiesta. Raggiunsi Andy e David che stavano giocando con Bingle al tiro alla fune con una corda logora. Il cane la scuoteva con forza, e ogni volta che riusciva a strapparla di mano a qualcuno, si pavoneggiava saltellando per la radura, come se volesse rendere nota a tutti la sua vittoria; poi ci guardava con occhi furbi sfidando il prossimo. Quel gioco servì ad allontanare per un po' l'immagine dell'albero dalle nostre menti, ma non fu sufficiente. «David», disse Andy, «tu che hai già avuto modo di conoscere soggetti del genere, perché credi che lo abbia fatto?» «Possono esserci moltissime spiegazioni», rispose, «ma se vuoi cercare di dare un senso al suo gesto, allora è pane per i denti di uno psicologo penale.» «Per me è pazzo», commentò Andy. «Non dal punto di vista legale», ribatté David, «visto che è stato ritenuto capace di sostenere un processo.» «Newly ritiene che Parrish sia stato vittima di gravi maltrattamenti nell'infanzia», intervenni. «Davvero?» osservò David. «Sarà... la madre è morta e la sorella è
scomparsa misteriosamente, perciò abbiamo soltanto la sua parola. Anzi, forse è l'unico al mondo a sapere dove si trova la sorella. Credete che sia ancora viva?» Silenzio. «Ha ucciso lui la madre?» chiese Andy. «No», risposi. «È morta per cause naturali, ma uno degli psicologi che ha parlato con Parrish ritiene che la sua morte lo abbia destabilizzato.» David scosse la testa. «Il mestiere degli psicologi è quello di sforzarsi di capire gente del genere, ma, per quanto mi riguarda, penso che non capirò mai un uomo come Nick Parrish. Molti subiscono maltrattamenti, eppure conducono vite normali, senza torturare donne e animali. Il comportamento di quell'uomo esula da qualsiasi tipo di spiegazione. Trovo molto più logiche le azioni di Bingle.» «Perché Ben è rimasto a studiare quel... quell'albero?» domandò Andy. «In modo che quando il prossimo Nick Parrish si farà avanti, verrà catturato al primo coyote. Ben è molto più esperto di me, in questo genere di lavoro, forse anche troppo.» Mi lanciò un'occhiata. «Di recente ha avuto una serie di casi difficili e un paio di IMM uno dopo l'altro: fa parte dell'unità DMORT regionale.» «Che cos'è un IMM?» chiesi. «Oh, scusa! Sta per Incidente Mortale di Massa, cioè un evento che toglie la vita a molte persone; può essere naturale o di altro genere, come un terremoto, una sommossa, un bombardamento...» «Un incidente aereo?» «Sì. Qualche settimana fa Ben è stato chiamato in Oregon proprio per quel motivo.» «Per l'aereo passeggeri finito nelle cascate?» «Esatto. Ottantasette morti. Eravamo appena tornati dai luoghi dell'inondazione a Sacramento quando è stata mobilitata la DMORT.» «Che cos'è?» chiesi mentre tiravo la fune di Bingle. «È un progetto federale, un'unità di intervento per i casi di disastro. Prova a immaginare cosa succede quando il patologo legale o l'impresa di pompe funebri di una zona rurale che hanno a che fare con, diciamo, al massimo qualche cadavere la settimana, si trovano di fronte a duecento corpi in seguito a un incidente aereo nei paraggi. Di solito, in un disastro di massa le strutture mortuarie locali non sono in grado di gestire la situazione. Se c'è bisogno di aiuto per l'identificazione delle vittime, l'unità DMORT interviene con un obitorio mobile e degli esperti. Esistono dieci
unità, organizzate per regione, e Ben fa parte della nostra.» «Ma qui è diverso», osservò Andy. «Anche se ha lavorato a casi penali, scommetto che è la prima volta che vede un albero di coyote.» David si strinse nelle spalle. «Forse. Molte cose che abbiamo visto ti sorprenderebbero, Andy, cose che...» La voce gli si spense, scosse la testa e chiamò Bingle. Dopo un attimo aggiunse: «Ben non sarebbe rimasto lì, se non pensasse che potrebbe servire a qualcosa». «A che cosa?» insistette Andy. «Potrebbe essere un modo per tenere il conto», azzardai. «Del numero delle vittime?» indagò David. «Forse. Oppure i coyote fanno parte di un rituale propiziatorio, una sorta di preparazione agli omicidi... forse ha ucciso un coyote ogni volta che non è riuscito a trovare la vittima che cercava.» «Questo vorrebbe dire che si trovano lì da molto tempo», osservai. «Sarebbero stati in condizioni peggiori.» David annuì. «A meno che non li abbia trattati con qualche sostanza chimica in grado di conservarli. Forse è proprio quello che Ben sta cercando di stabilire.» All'improvviso Bingle drizzò le orecchie e s'irrigidì. Fiutò l'aria e si avvicinò a David, con il pelo ritto, pronto a proteggerlo. «Tranquilo, Bingle, sto bene», disse David. Il cane lo guardò e gli si accucciò ai piedi. Presto capimmo quello che aveva sentito e fiutato: i quattro agenti e Parrish ci raggiunsero e, subito dietro, Flash e Bob Thompson. Ben Sheridan arrivò per ultimo, assorto nei suoi pensieri. Il detective diede un'occhiata all'orologio e sospirò irritato. «Ci restano soltanto un paio d'ore di luce. Riusciremo ad arrivare alla tomba prima del tramonto?» «Certo», rispose Parrish. Ci guidò lungo un ripido sentiero nel cuore della foresta fino a uno stagno. Thompson stava segnando le coordinate sul GPS quando Parrish lo avvertì: «No, non è qui». Si allontanò in un'altra direzione, di nuovo fra gli alberi, oltre un ruscello. Dopo aver vagato ancora un po' nella foresta giungemmo in un lungo prato. «Non è neppure qui», annunciò, e ripartimmo. Chiesi a Thompson quale posizione stesse leggendo sul GPS e la confrontai con quella che avevo preso con la bussola. Stavo per dirgli ciò che avevo notato quando David lo chiamò.
«Bingle sta mostrando un certo interesse per questo prato», comunicò. «Credo che valga la pena fermarci un po'...» «L'ho segnato sul GPS», tagliò corto Thompson. «Darò a Parrish un'altra occasione... Se l'ultimo tentativo fallisce, possiamo sempre ritornarci.» «Guardi la carta», gli dissi mostrandogli i segni che avevo fatto. «Ci sta facendo girare in cerchio: il crinale verso cui si sta dirigendo è quello dell'albero dei coyote.» «Sì, si è divertito un po'», ribatté Thompson. «L'ho avvisato che se il prossimo posto non è quello giusto, l'accordo salta.» Oltrepassammo di nuovo il crinale seguendo un sentierino a una certa distanza dall'albero, e una volta giunti in fondo ci ritrovammo in un altro prato lungo e stretto. Ormai era quasi buio, l'aria fredda e immobile. «Questo posto mi mette i brividi», commentò Manton. «Non importa», replicò Thompson. Poi, rivolto a David domandò: «Che cosa dice il cane?» «Le condizioni di lavoro non sono le migliori», rispose l'antropologo. «Se si alza un po' di brezza, saprò dirti di più.» «Dov'è il prato in cui l'hai sepolta, Parrish?» domandò il detective. «Non lo ricordo esattamente, ma è per questo che avete portato il cane, no?» Thompson socchiuse gli occhi e sembrò sul punto di scagliarsi su Parrish. Serrò i pugni, poi gli volse le spalle e si allontanò da lui di un paio di passi prima di dire: «Accampiamoci qui. La cercheremo domani mattina». Ci mettemmo tutti al lavoro con le tende. Quella sera non parlammo molto; niente battute e nessuno scherzo. Bingle rimase con David e per me andava bene. Non avrei comunque chiuso occhio. Di certo non fui l'unica che quella notte rimase sveglia a pensare a Julia Sayre trascinata in quel prato e costretta a scavare la sua stessa fossa. Era un peccato che Parrish avesse trasformato quel paradiso in un inferno. E di certo non fui l'unica a chiedersi quanto quella donna fosse distante dall'accampamento. 7 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, MATTINA Montagne della Sierra Nevada meridionale Il mattino seguente, appena spuntata l'alba, andai a fare una breve passeggiata e comunicai a Manton, di guardia con Merrick, quale direzione
avrei preso. Poco lontano scoprii una grotta profonda non più di tre metri: poteva essere la tana di qualche animale, abbandonata ormai da tempo. All'interno infatti non c'erano resti di cibo né oggetti, escrementi, ossa di piccole prede, ciuffi di pelo; a dire il vero, più ci pensavo più la grotta mi sembrava un po' troppo in ordine. Nessun animale avrebbe lasciato così poche tracce del suo passaggio. Decisi di parlarne a J.C. quando ci avrebbe raggiunti. Pensai che poteva averla usata Parrish, nel qual caso gli esperti del gruppo avrebbero potuto individuarvi le tracce della sua attività. Cominciai a sentirmi a disagio: era in arrivo un attacco di claustrofobia. Mi precipitai fuori e cercai di distrarmi con bussola e altimetro per prendere nota della posizione della grotta, poi feci ritorno al campo. Quando raggiunsi il prato, erano quasi tutti in piedi nonostante fosse ancora presto. Manton stava esaminando la foto di una bionda dai capelli lunghi, ma il pollice ne copriva buona parte. «Sua moglie?» chiesi. «Sì.» «È bella.» «Grazie.» Feci per allontanarmi ma lui, come se si fosse reso conto solo allora della cosa, disse: «Ehi, senta un po', Irene, lei che è una donna...» Mi voltai. Quale donna potrebbe resistere a una simile osservazione? Di solito la frase che segue suppone un ragionamento del tipo: «Tu che parli arabo, prova un po' a tradurmi questo». A nome delle sorelle di lingua araba restai ad ascoltare. «Mi dica una cosa», proseguì. «Crede che stia meglio così?» «Ci ha messo sopra il pollice.» «Sì, perché se li è tagliati fin qui prima che io partissi. Mi sono arrabbiato e abbiamo litigato.» «Mi faccia vedere», dissi prendendo la foto. La esaminai un momento e osservai: «Sta bene in entrambi i modi, non crede?» Si riprese la foto. «Sì, credo di sì. Devo solo farci l'abitudine.» Sbadigliò. «In ogni caso non c'è altra soluzione», concluse dirigendosi verso la sua tenda. Qualche metro più in là, Ben e Andy erano saliti su un enorme masso rotondo con i binocoli in mano. Andy guardava verso il campo e sembrava indicare un punto preciso; anche Ben seguì la direzione, poi segnarono il punto su un pezzo di carta. Ripeterono l'operazione varie volte.
Mi avvicinai a loro e quando Andy mi vide mi salutò. «Vieni su», urlò. «Voglio mostrarti alcuni dei segni che stiamo cercando.» Ben non sembrò contento dell'invito e si allontanò prima che raggiungessi il masso. «Tieni», disse Andy porgendomi il suo binocolo. «Guarda laggiù, appena a destra di quell'albero.» Attese che individuassi il punto che m'indicava e domandò: «Che cosa vedi?» Studiai il prato che saliva dolcemente oltre l'accampamento. «Vedo erba e fiori di campo», risposi. «L'erba è tutta della stessa altezza?» La esaminai di nuovo, questa volta con maggiore attenzione. «No! C'è una chiazza dove è più corta.» «Esatto», si congratulò lui. «Probabilmente perché è cresciuta dopo. Abbiamo scoperto vari punti come quello, nel prato, e li abbiamo segnati; adesso è necessario dare un'occhiata più da vicino per farci un'idea di quale può essere la causa della diversa altezza.» «Sono i punti in cui David cercherà insieme a Bingle?» «Forse. Di solito lui preferisce cominciare dando al cane la possibilità di fiutare la zona da solo, senza nessuna indicazione, per vedere se è lui a darci il segnale.» «Come ha fatto con l'albero dei coyote?» «Non esattamente: Bingle dà un segnale inconfondibile quando fiuta sangue o resti umani. È addestrato per cercare resti umani, non animali. Il modo in cui ha reagito davanti all'albero dei coyote... credo che fosse semplicemente agitato.» «Non aveva tutti i torti.» «Già.» Rimase un istante in silenzio poi aggiunse: «Comunque, mentre David lavorerà con Bingle, io e Ben controlleremo i punti in cui la vita vegetale è stata alterata. Qualunque fattore naturale può causare un cambiamento nella vita delle piante, ma un paio delle zone che abbiamo intenzione di esaminare presentano le caratteristiche tipiche di un luogo di sepoltura». «E sarebbero?» «Sono stati effettuati degli studi sul modo in cui i serial killer scelgono i luoghi in cui seppellire le loro vittime. Nonostante Parrish sostenga il contrario, noi riteniamo che sappia esattamente dove si trova la tomba della sua vittima. Ben è convinto che gli piaccia organizzare le cose in modo preciso... e teatrale; anche il detective Thompson è dell'opinione che Par-
rish abbia visitato altre volte il luogo della sepoltura e che ne abbia scelto uno facile da ritrovare. Secondo Ben questo rito lo aiuta a rivivere il piacere dell'omicidio.» «Il piacere...» scossi la testa. «Lo so», disse Andy con una smorfia. «Ma se vogliamo trovare quella donna sforziamoci di pensare come Parrish.» «Quindi bisogna cercare dei punti di riferimento?» «Giusto. Qualunque elemento che potesse aiutare Parrish a ritrovare il posto.» In quel momento Ben chiamò Andy. Gli restituii il binocolo e lo ringraziai per la spiegazione. Mentre ritornavo verso il campo, notai che Bingle e David non erano nei paraggi. Bob Thompson raggiunse Ben e Andy. Sentii un latrato felice provenire dal bosco; cercai il cane e lo vidi correre avanti e indietro vicino a David, talmente concentrato sul padrone che a stento mi degnò di un'occhiata. David stava aprendo una borsa con l'attrezzatura del cane. Mi salutò, ordinò a Bingle di sedersi e lui obbedì, ma si vedeva che si stava sforzando per mantenere il controllo: il corpo era in tensione, gli occhi fissi sul padrone, le orecchie in avanti, le mascelle vibravano per il respiro affannoso. David mi sorrise. «Non piacerebbe anche a te sentirti così all'inizio di una giornata di lavoro?» Estrasse un collare di cuoio e Bingle cominciò a muovere la coda spostando gli aghi di pino. «Per lui è un gioco, un gran bel gioco. Il suo preferito.» Sostituì il collare di nylon dai colori vivaci che il cane portava di solito con quello di cuoio. «¿Eslás listo?» gli chiese. «Pronto?» Bingle si alzò e abbaiò. «Posso venire con voi?» domandai. «O sarebbe una distrazione per lui?» «No, è abituato ad avere gente intorno. Nella maggior parte delle ricerche sono presenti anche i detective, i soccorritori e altra gente, quindi Bingle ha imparato a non lasciarsi distrarre.» Mentre ci dirigevamo verso il limitare del prato, l'attenzione del cane era talmente concentrata su David che temevo potesse sbattere contro un albero. «Condizioni perfette», mi avvisò. «Vedi come si muove l'erba?» Estrasse un minuscolo oggetto rotondo di plastica dal quale lasciò uscire una nuvoletta di polvere fine. Studiò il movimento della polvere che si spargeva nell'aria. «La brezza viene verso di noi», osservò soddisfatto. «Aria umida.
Mettiamoci al lavoro prima che faccia troppo caldo. ¿Está bien, Bingle?» Il cane abbaiò impaziente. «¡Busca al muerto, Bingle!» ordinò David con un movimento lento e orizzontale della mano. «Cerca il morto.» Il cane si allontanò disegnando un percorso tortuoso, senza correre ma con un'andatura costante e sostenuta. David lo seguiva a poca distanza, io in terza posizione. Di tanto in tanto Bingle si fermava a fiutare l'aria. Talvolta ritornava sui suoi passi, ma quasi sempre avanzava. Il padrone gli parlava per incoraggiarlo mentre procedevamo lungo il prato. Ero perplessa, non riuscivo a smettere di osservare: quel metodo mi sembrava sbagliato, almeno stando a tutti i film che avevo visto in cui i cani si mettevano sulle tracce di evasi. Come faceva a sapere cosa doveva cercare e dove? Teneva il muso verso l'alto e non a terra; non abbaiava, ma si muoveva a zigzag, in silenzio. Era chiaramente felice di essere al lavoro, e certo il suo comportamento non suggeriva che fosse sul punto di scoprire qualcosa. Dopo circa venti minuti David gli ordinò di fermarsi e gli diede da bere. Quando li raggiunsi estrassi il mio taccuino e uno di quegli oggetti utili ai giornalisti che lavorano sul campo: una penna impermeabile. Feci qualche domanda a David sul metodo di ricerca del cane. «Le scene dei cani che abbaiano sono tipiche del cinema hollywoodiano. Credo che mettano insieme la caccia alla volpe e la caccia all'uomo», rispose. «Bingle abbaia già più della media dei cani da ricerca e io lo lascio fare, anche se alcuni istruttori lo considerano un indice di scarso addestramento, e pretendono che l'animale abbai soltanto quando trova la persona scomparsa ancora viva. Poi esistono varie teorie nel campo dell'addestramento: un cane poliziotto che abbaia di continuo potrebbe spaventare un bambino che si è perso o mettere in guardia un assassino nascosto in un bosco. «D'altra parte Bingle non è un cane poliziotto, e quasi tutte le persone che cerca sono morte. Credo di conoscerlo e di sapere che ha bisogno di lasciarsi andare a qualche latrato di tanto in tanto. È un chiacchierone, e finora nessun cadavere si è mai lamentato... Se però gli chiedo di lavorare in silenzio, lo fa.» «D'accordo, quindi niente latrati. Ma come farà a sentire l'odore di Julia Sayre? Non gli hai mai dato nessun indumento con cui lavorare o...» «Dovresti conoscere Bool, il mio bracco. Lui sì che è uno di quei segugi che seguono le tracce! Ha un olfatto incredibile, forse più acuto di quello
di Bingle, però, a differenza di Bingle, non è intelligente. Devo tenerlo sempre al guinzaglio, altrimenti se la persona che sta cercando è caduta in un burrone sarebbe capace di seguirla... E come se diventasse cieco.» Si fermò e fece un sorriso nostalgico. Pensai a tutte le volte che i miei cani avevano seguito qualche odore interessante e irresistibile, ai buchi scavati in giardino e alle immondizie sparse dappertutto. «Il tuo mestiere è quello di perlustrare possibili teatri di un crimine», osservai. «Immagino che la polizia non permetta a qualunque tizio che crede di avere un cane intelligente di mettergli il guinzaglio e di portarlo in giro ad annusare.» «Giusto. È probabile che il padrone e il suo fedele amico distruggano le prove, per non parlare delle decine di altri problemi legali e sanitari. I cani da ricerca sono cani da lavoro perfettamente addestrati. Cane e addestratore devono sottoporsi a duri allenamenti che richiedono anni di pratica, ma direi che si tratta di qualcosa di più di un lavoro... è un legame in cui bisogna imparare a capire il proprio cane. È difficile da spiegare. Bool e Bingle lavorano in modo diverso.» «Diverso in che senso?» «Bool ha bisogno di annusare un oggetto appartenuto alla vittima. Segue l'odore muso a terra. Bingle annusa essenzialmente l'aria ed è addestrato al ritrovamento dei cadaveri.» «Potresti essere un po' più preciso?» «Ciascun essere umano ha un odore unico - con la possibile eccezione dei gemelli identici -, generalmente ognuno di noi ha il proprio odore che emette di continuo. È stato calcolato che tutti gli esseri umani vivi diffondono ogni minuto quattromila cellule morte della cute, che potremmo definire come conduttori, cioè particelle che trasportano batteri ed emettono il loro vapore unico.» «Anche se ci si lava e si usa il deodorante?» David sorrise. «È proprio questo il punto! Lo si può nascondere agli altri esseri umani, ma non ai cani.» «D'accordo, e se non mi trovo vicino a un cane?» «Torniamo ai conduttori: ogni minuto, queste decine di migliaia di particelle lasciano il nostro corpo come una nuvola, ci circondano e si allontanano non appena ci muoviamo, per quanto la più grossa concentrazione resti molto vicina al corpo. Quando ci muoviamo questa si diffonde in un cono sempre più ampio, conosciuto come cono dell'odore. Mentre galleggiano nell'aria, alcuni di questi conduttori si appoggiano su altri oggetti,
soprattutto sulle piante.» «E Bingle fiuta queste particelle?» «Sì. L'olfatto di un cane è un milione di volte più sensibile di quello dell'uomo. E si pensa che il loro cervello elabori le informazioni olfattive in modo molto diverso dal nostro.» «Quindi lui è in grado di seguire il cono dell'odore?» «Certo, ed è anche addestrato a trovare l'odore di sangue umano, liquidi corporei, tessuti, resti ossei, resti in decomposizione... E ci riesce anche quando si tratta di quantità minime.» «So che mi pentirò di questa domanda, ma come hai fatto ad addestrarlo a ritrovare i corpi e a riconoscere l'odore di cadavere?» «Per questo lavoro ho accesso alle ossa e ad altro materiale biologico proveniente dai cadaveri. Alcuni istruttori preferiscono invece usare un'apposita sostanza sintetica.» Non riuscii a mascherare la mia sorpresa. «Falso odore di cadavere?» «Sì. Formule diverse per diversi stadi di decomposizione.» «Un genere di articolo che non è il caso di versare accidentalmente sul tappeto, immagino.» Rise. «No, ma non credo che a Bingle importerebbe. Quelle che noi consideriamo orribili puzze, ai cani non danno fastidio. Quanto più un odore è terribile, tanto più per loro è interessante. Bingle associa l'olezzo di cadavere alle lodi e al premio che riceve quando ne trova uno.» «Eppure, anche i corpi in decomposizione avranno un odore... unico, giusto? Se non altro a seconda di dove vengono lasciati: nelle foreste, nei deserti, nell'acqua...» «In un certo senso è così. Naturalmente Bingle è addestrato a riconoscere più odori e, inoltre, ha un paio d'anni di esperienza, perciò conosce ciò che sta cercando. Il suo naso è talmente sensibile da poter individuare una sola goccia di sangue. Se lo si lascia annusare un'auto è in grado di confermare se nel portabagagli è stato trasportato un corpo.» «Mio marito e il suo partner mi hanno descritto Bingle come un vero e proprio supercane.» «No, anche lui ha dei limiti. Per una ricerca ha bisogno di condizioni ottimali, e ci sono cose che possono mandarlo fuori strada. Ma il limite più grosso è decisamente la parola.» «Che intendi dire?» Sorrise. «Se fossi in grado di capire al cento per cento quello che tenta di dirmi, otterremmo risultati migliori. Non riesco neppure a immaginare
quali siano le sue reali potenzialità. Ripensando a episodi passati mi sono reso conto che spesso lui tentava di mostrarmi qualcosa, ma io insistevo per fare a modo mio. A volte sembra infastidito, quando tenta di comunicare con il suo ottuso istruttore. Bene, socio», disse quindi a Bingle che subito drizzò le orecchie, «pronto a fare un altro giro?» Il cane si alzò e continuò a guardare David fiducioso. «¡Búscalos!» ordinò ripetendo anche il gesto della mano. «Trovali!» Il cane si rimise al lavoro. Continuarono per altri venti minuti, poi il padrone gli diede da bere e lo fece riposare. Al quarto giro il percorso tortuoso si fece meno casuale. Si spostava ancora da un lato all'altro, ma sempre più veloce. A un tratto si fermò e si voltò a guardare David, le orecchie in avanti e lo sguardo attento. «È un allarme», mormorò David elettrizzato. «Che c'è?» chiese a Bingle. «Mostrami dov'è. Muéstrame dónde está. Sigue, va' avanti.» Bingle ricominciò a muoversi, quasi in linea retta. «Come hai fatto a capire che è un allarme?» domandai. «Lo conosco», rispose semplicemente lui affrettandosi dietro al cane. «Punta le orecchie in avanti per avere conferma da me. Mi considera un suo simile e mi chiede: 'Riesci a sentirlo?'» Parlava con lo sguardo fisso sul cane, poi: «Ha trovato qualcosa! L'odore è rimasto sull'erba». Bingle stava strofinando il muso sull'erba e la mordeva. «¡Búscalo, Bingle!» lo spronava David. «Trovalo!» La brezza si alzò di nuovo; il cane si fermò, tenne alta la testa e annusò con un leggero movimento del naso, come se cercasse di inalare un particolare odore. «Che c'è?» chiese di nuovo David. «Che c'è, Bingle? Mostrami! ¡Muéstramelo! ¡Adelante!» Bingle emise un'unica nota acuta, poi ci fece strada. Si fermò una ventina di metri più avanti: lo vidi correre in cerchio, inquieto, lo sentii sbuffare. All'improvviso si sedette sulle zampe posteriori, allungò la testa all'indietro e cominciò a cantare con il muso puntato in aria. «È un allarme finale», mi spiegò David correndo da lui. Bingle gli andò incontro a metà strada e diede un colpetto alla borsa che David portava appesa in vita. «¿Dónde está? Dov'è?» gli chiese mentre il cane correva veloce verso il punto cruciale e abbaiava. David lo raggiunse prima di me. «Bingle, bravo il mio bastardone!» Bingle emise un lungo latrato di assenso.
8 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, MATTINA Montagne della Sierra Nevada meridionale Se Andy non mi avesse dato in precedenza spiegazioni, non avrei capito l'entusiasmo di David che lodava il cane porgendogli quello che sembrava il suo giocattolo preferito. Nel punto in cui Bingle aveva indicato la scoperta, riuscivo a distinguere nettamente le tracce che rivelavano la presenza di una sepoltura: per un lungo tratto il terreno aveva un colore leggermente diverso da quello circostante: era meno compatto, cosparso di sassi e ciottoli; la vegetazione che vi cresceva era più giovane rispetto alle zone vicine. Era uno spazio leggermente più ampio di quello di una tomba, i contorni non erano netti e definiti, e il terreno era decisamente diverso da quello circostante. «Andiamo via di qui», esortò l'addestratore. «Non dobbiamo alterare le prove.» Ci spostammo su un tratto pianeggiante più vicino all'albero, dove David continuò a giocare con Bingle e a lodarlo. Gli altri membri del gruppo dovevano averci visto perché, prima ancora che David li chiamasse, Ben e Andy si stavano dirigendo verso di noi zaino in spalla, con Thompson e Flash Burden al seguito. Duke ed Earl procedevano più lentamente insieme a Parrish; Merrick e Manton tentavano di dormire nonostante il trambusto. «Un allarme finale?» chiese Ben quando fu a portata d'orecchio. David sorrise. «Sì, e il mio cane non mente.» «Dove?» Andy aveva già notato la vegetazione vicino al punto indicato da Bingle. «Proprio qui.» Dopo essersi avvicinato, ci mostrò vari fiori di campo e spiegò: «Vedete? Molti sono più corti di quelli della stessa specie che crescono accanto. Succede quando qualcosa impedisce alle radici di svilupparsi... un ostacolo sotterraneo, per esempio». David ordinò a Bingle di restare dov'era e raggiunse Andy insieme agli altri. Confabulò con Bob Thompson e Ben, poi mi chiese: «Ti dispiacerebbe tenere compagnia al cane mentre noi facciamo qualche indagine? Puoi seguire le operazioni da lassù. È più riparato e vedrai e sentirai tutto.» «Bingle mi è molto simpatico, ma anch'io sono qui per lavorare. Non
voglio essere esclusa...» «Questo è il luogo del delitto...» attaccò Thompson; Ben lo interruppe. «Credo che alla signora Kelly si debba permettere di stare il più vicino possibile», disse e, nonostante non stesse sorridendo, la sua voce tradì un certo divertimento. «Ben...» protestò David. Le ragioni dell'improvvisa disponibilità del dottor Sheridan in effetti mi insospettivano. Ben lo ignorò. Con toni calmi e ponderati il collega mi spiegò: «In realtà non ci limiteremo a prendere la pala e a scavare. Dovremo esaminare lentamente, con attenzione e in modo sistematico l'area della sepoltura, metteremo a punto una griglia e via dicendo. Forse non ti dispiacerà stare con Bingle mentre facciamo i lavori preparatori. Ti avvertirò quando avremo trovato il corpo, sempre che sia qui». «È qui», sentii una voce confermare. Mi voltai e vidi Parrish che mi guardava sorridendo. «Sì», disse lentamente, strascicando le parole. «Il suo bel corpo è proprio qui.» «Tranquilo», intimò David a Bingle. Non aveva ringhiato né abbaiato, ma si era irrigidito all'arrivo di Parrish. «Darò un'occhiata a Bingle», acconsentii. Parrish rise. «Meglio che sia lui a darle un'occhiata.» «Ne ho abbastanza», borbottò Earl allontanandolo dal gruppo. «Ve con ella», comandò David al cane, e mi diede una pallina da tennis, accompagnando le parole con un gesto che suggeriva a Bingle di rivolgermi le sue attenzioni. Il cane fissò la pallina con la stessa concentrazione di un telepatico che tenta di piegare una forchetta. Giocammo un po', poi ci sedemmo e restammo a osservare Flash che riprendeva e fotografava il luogo, Thompson che parlava con Parrish, e David, Andy e Ben che controllavano le mappe ed esaminavano l'area per delimitare un perimetro esterno di qualche metro più ampio della zona di terreno smosso. Come aveva assicurato David il nostro punto d'osservazione era il migliore: eravamo a pochi metri da loro, all'ombra, la brezza era cambiata e soffiava nella nostra direzione. L'ombra e il vento calmarono Bingle che si era accucciato ansimante, gli occhi chiusi per la soddisfazione. Ben estrasse dei guanti da una sacca di tela, poi prese delle bacchette di metallo spesse circa un centimetro con l'estremità piegata ad angolo retto. Cominciarono ad affondare le sonde nel terreno partendo da direzioni diverse. Se la sonda non scendeva in profondità si spostavano leggermente in avanti, verso il punto indicato da Bingle. L'operazione proseguì finché la
sonda di Ben non sprofondò agevolmente nel terreno. «Qui», disse. Non appena la estrasse, il cane sollevò la testa con le orecchie tese in avanti, si alzò e fece per dirigersi verso Ben. «Fermo», ordinai. Lui mi ignorò, ma David mi aveva sentito e ripeté il comando in tono brusco, stavolta in spagnolo. Bingle obbedì, ma protestò con un latrato secco. «Sente l'odore», spiegò. Arricciò il naso e aggiunse: «Lo sento anch'io». Frugò nella sacca di tela e ne estrasse un vasetto. Vi immerse il dito e si spalmò una sostanza lucente sotto il naso. Porse il vasetto ad Andy che fece lo stesso. Non lo offrì a Ben. Ben era intento ad apporre un segno - una bandierina gialla attaccata a un filo metallico - accanto al punto dove aveva infilato la sonda. Continuarono così finché non ebbero contrassegnato un ovale irregolare, lungo circa due metri. Bingle era piuttosto inquieto, ma obbediva al comando di David di non muoversi. Di tanto in tanto mi arrivava una zaffata della puzza che lo innervosiva: un tanfo inconfondibile, dolce e pungente allo stesso tempo, di cui si afferra all'istante il significato anche se non lo si è mai sentito prima. Dev'essere una reminiscenza primordiale che lo rende ripugnante all'uomo che riconosce l'odore della morte e della decomposizione di un suo simile. «Se vuoi, ti illustro ciò che stiamo facendo», mi propose David, che ci aveva raggiunti per calmare Bingle. Mentre si avvicinava, esclamai: «Vìcks VapoRub!» Lui mosse la mano ma si fermò in tempo prima di toccarsi il labbro superiore. «Assomiglia... è una pomata a base di mentolo e canfora che si usa per coprire l'odore di decomposizione. Ne vuoi un po'?» «Non ancora.» «Non aspettare troppo», mi ammonì. «Una volta che quell'odore ti entra nel naso...» S'interruppe e poi ripeté: «Non aspettare troppo». Cominciò a mostrarmi le cartine dell'area che stavano via via disegnando. Le cime delle montagne vicine erano i punti di triangolazione per segnalare la posizione dell'albero; sulle linee della griglia erano indicati la tomba, il perimetro esterno e un insieme di massi. «Se fosse necessario testimoniare in tribunale, disporremo di una documentazione precisa del punto esatto in cui abbiamo ritrovato le prove o i resti, del modo in cui erano sistemati e così via.» Bob Thompson ci raggiunse. «Come mai ci vuole tanto? Parrish sostiene che si trova lì, circa settanta centimetri sotto terra. Ha già confessato. Mi
serve solo un'identificazione preliminare.» «E se dovesse trattarsi di un'altra vittima, signor Thompson?» ipotizzò Ben. Il detective esitò, poi rispose: «D'accordo, ma non perdiamo tempo. Non possiamo restare qui per l'eternità». Ben si allontanò. Da una delle sacche di tela estrasse due rotoli di rete metallica, uno a maglia di mezzo centimetro e l'altro circa il doppio, con cui costruirono dei setacci. Ogni tanto Bingle richiamava l'attenzione del padrone che gli rispondeva in spagnolo: «Tutto bene, Bingle, sta' con Irene». E ogni volta ricevevo una rapida leccata dal cane. In qualunque istante guardassi Parrish, notavo che mi stava fissando con un sorriso sornione stampato sul viso. Repressi l'istinto di distogliere rapidamente lo sguardo, di dimostrargli quanto mi facessero sentire a disagio le sue occhiate. Eppure ero sempre la prima a interrompere quei contatti. A un certo punto fui percorsa da un fremito involontario e lo sentii ridere piano. Con l'aiuto di Andy, gli antropologi raschiavano la superficie del terreno delimitato dalle bandierine e spostavano la terra nei setacci. Proseguirono in questo modo, pochi centimetri per volta, nonostante le impazienti proteste di Thompson. Non sembrava che le operazioni dessero grandi risultati, ma a poco a poco vidi chiaramente l'ovale segnato dalle bandierine e avvertii l'odore intenso. Ben si fermò un attimo per stiracchiarsi. Quando mi raggiunse per salutare Bingle, dissi: «Non ha per caso con sé quella pomata al mentolo?» «Non la uso.» «Ma come fa a sopportare...» «Sono un professionista del settore... a dire il vero credo sia una questione di scelta, io comunque non le consiglio di usare nessuna sostanza per coprire il tanfo. Cerchi di affrontarlo affidandosi alla natura.» «Che intende dire?» «Prima o poi, dopo che il cervello avrà ricevuto ripetutamente il messaggio di qualcosa di sgradevole dalle cellule olfattive, smetterà di registrare il segnale. Sui suoi abiti resteranno comunque tracce di odore che in seguito sentirà nuovamente, quando non si troverà più vicino alla tomba.» «Delizioso.» «Lo avvertirà più tardi, qualsiasi cosa faccia adesso; ma se usa una sostanza che le apre i condotti nasali, questa continuerà a stimolarle le cellule
olfattive che le faranno sentire il tanfo di decomposizione per tutto il giorno. È anche possibile che il suo cervello colleghi il buon odore con quello cattivo.» «Significa che tutte le volte che userò qualcosa a base di mentolo, canfora o eucalipto...» «Sì, il suo cervello potrebbe aggiungervi il tanfo della decomposizione.» Guardai David. Lui aveva usato la pomata, perché non avrei dovuto farlo anch'io? «Naturalmente», aggiunse, «non mi aspetto che lei sia in grado di affrontare questa situazione, perciò faccia come crede.» Quella frase risolse la questione. David pensò che fossi matta, ma non lo disse. Si limitò a lanciarmi occhiate di tanto in tanto per controllare come me la cavavo. Offrì la pomata agli altri: Ben e io eravamo gli unici a non aver colto l'invito. Mentre la faceva passare evitò di proposito Parrish, il quale sorrise e inspirò profondamente. «Riportatelo al campo», ordinò Thompson agli agenti. Man mano che i contorni della tomba si delineavano, gli scavi procedevano ancora più lentamente. Ben era concentrato nella scrupolosa operazione di delimitazione del perimetro; David raschiava via gli strati di terra; Andy controllava che non ci fossero oggetti, riponeva porzioni di suolo rimosso in buste di plastica, vi apponeva un'etichetta e prendeva nota. Di tanto in tanto il fetore si faceva improvvisamente più intenso. Ben mi guardava con una smorfia divertita e io ricambiavo con un sorriso soddisfatto pensando che, ogni volta che mi fissava in quel modo, ne aveva respirato un bel po' anche lui. Flash continuava a riprendere l'operazione e a scattare foto su richiesta di Ben o David, anche se i due avevano una macchina e scattavano a loro volta foto. «Perché fotografa il perimetro della tomba?» domandai a Ben. Dopo un istante di esitazione rispose: «Possono esserci tracce di un attrezzo». «Della pala che è stata usata per scavare, intende?» «Forse.» «Se sapete chi è stato, perché è necessario raccogliere le prove?» «Non è detto che sappiamo chi ha scavato la tomba. In questo posto dobbiamo comportarci come in tutti gli altri... In modo obiettivo.» «Ma Parrish ha confessato...» «Le confessioni si possono ritrattare, così come per le condanne si può
ricorrere in appello. Gli accordi possono saltare, signora Kelly. Non si sa mai ciò che sarà necessario dimostrare, quali prove acquisteranno importanza, ed è per questo che lavoriamo con il massimo scrupolo.» S'interruppe, poi aggiunse: «Le regole che definiscono le prove sono molto più rigide nei tribunali che nelle redazioni dei giornali». Mi voltai perché non vedesse la mia espressione furibonda. Dopo che i primi strati di terra furono rimossi, comparve un esteso tappeto di sassi. Thompson chiese cosa significassero. «Immagino che servano per impedire che gli animali depredino la tomba», rispose Ben senza smettere di lavorare. «I coyote?» chiese il detective. Sheridan sollevò lo sguardo: «Sì, sappiamo che ha pensato ai coyote». Dopo aver rimosso anche le pietre, la lenta operazione di raschiatura riprese. All'improvviso David, che lavorava sulla porzione di terra più prossima al centro dell'area delimitata, fece segno di fermarsi. Ben e Andy esaminarono la zona che David aveva ripulito. Indietreggiarono di un passo e chiamarono Flash perché scattasse qualche foto. Poi avvertirono Thompson. Mi alzai e mi avvicinai un po'. L'oggetto di tanta attenzione era un pezzo di plastica verde scuro. Capimmo tutti all'istante ciò che l'antropologo legale sospettava. Era il sudario della vittima. 9 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, MATTINA Las Piernas Frank Harriman riattaccò il ricevitore e si voltò verso il cugino della moglie. «L'avvocato è tornato, ed è in ospedale.» Fece un respiro lento e profondo. «Un gesto di cortesia da parte del suo cliente.» «Cos'è successo?» chiese Travis. «Parrish ha pestato il piede a Newly provocandogli fratture multiple. Non è stato facile riportarlo indietro: è svenuto un paio di volte per il dolore.» «Irene non avrà problemi», aggiunse Travis che intuiva la preoccupazione di Frank, e gli ripeté il ritornello che voleva sentirsi dire. «Gli agenti di custodia erano lì», proseguì Frank. «Lo sorvegliavano! Eppure è riuscito a ferire il suo stesso avvocato!» Si fermò e scosse il ca-
po. «Non sarebbe dovuta andare.» «Non avresti potuto fermarla.» «Non sarebbe dovuta andare», ripeté senza ascoltare, camminando avanti e indietro. «Frank...» disse Travis. Ma Frank si era perso in ricordi sgradevoli. Ripensò al giorno in cui avevano trovato il corpo di Kara Lane, a ciò che le era stato fatto. Per alcuni interminabili secondi vide sua moglie nelle mani di Parrish, con lo stesso dolore, la stessa paura, la stessa solitudine che aveva provato Kara Lane durante le sue ultime ore di vita. Un crampo gli serrò lo stomaco. «Frank», lo sollecitò Travis. Lui sollevò lo sguardo. «Con lei ci sono un sacco di persone... sai bene che lo ucciderebbero se tentasse di farle del male.» Frank non rispose. Il suo era un presentimento irrazionale. Lo conosceva. Non era semplice preoccupazione. Talvolta provava la stessa sensazione sul lavoro: istinto, sensazione viscerale, fifa... qualunque nome andava bene. Ogni poliziotto la conosceva, e in quel momento lo stava tormentando. Lui credeva, si fidava, anche se non si trattava di una prova concreta... «Devi trovarti qualcosa da fare», stava dicendo Travis. «Non puoi restare qui seduto e lasciare che il terrore ti consumi.» Perso nei pensieri su Parrish, per un attimo Frank rimase a fissare Travis. Quel suggerimento ridicolo forse non era del tutto insensato. Prese le chiavi della macchina. «Dove vai?» chiese Travis. «A trovare il signor Newly.» 10 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale J.C. ci raggiunse quando metà della plastica era ormai stata scoperta. Doveva essere stanco per la passeggiata fuori programma o per aver aiutato Newly a raggiungere l'aereo, ma non lo diede a vedere. Bingle notò la sua presenza dall'altra parte del prato molto prima di me, ma mi accorsi subito che l'oggetto della sua attenzione era mutato. Avevo infatti trascorso le ultime ore a fare in modo che il cane non sgattaiolasse vicino alla tomba aperta: dopo un tentativo quasi riuscito, David mi aveva
insegnato a pronunciare «¡Quédale!», che significa «sta' fermo», con un tono di voce al quale Bingle avrebbe obbedito. Mentre J.C. si avvicinava, Bingle aveva proteso le orecchie in avanti e lo osservava con attenzione. I cani, cacciatori per istinto, sono più abili a distinguere un oggetto in movimento che non i dettagli. Bingle era concentrato sulla figura in arrivo, vigile. Alla fine riconobbe l'odore familiare di J.C., nonostante il tanfo che proveniva dallo scavo fosse sempre più intenso, ed emise un allegro latrato di benvenuto. I lavori furono interrotti per qualche istante. Ci riunimmo per salutare J.C., che si spalmò la pomata al mentolo e ascoltò i dettagli del ritrovamento mentre Bingle si godeva le meritate attenzioni. J.C. aveva visto l'albero dei coyote: era disgustato. Trovava giusto incriminare Parrish anche per quello, «Non farà una gran differenza per uno che è già accusato di duplice omicidio, tuttavia...» Scosse la testa come per liberarsi del ricordo dell'albero e si chinò ad accarezzare il cane. «E così hai trovato la signora Sayre, eh, bello?» «Non sappiamo ancora chi o che cosa sia», gli ricordò Ben porgendogli un paio di guanti. «Non abbiamo ancora aperto la plastica.» «Be'», disse J.C. divertito, «la plastica esclude che si tratti di una tumulazione indiana, e vi garantisco che questo prato non è né un cimitero né un terreno di caccia, perciò chiunque o qualunque cosa sia, non appartiene al luogo.» «Quando tornerà l'aereo?» gli chiesi. «Domani, tempo permettendo. Le previsioni annunciano pioggia, quindi potrebbe ritardare di un giorno o due. Sei attrezzata per la pioggia?» Annuii. «Meglio rimettersi al lavoro», suggerì Ben. «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una tomba allagata.» Nonostante il contributo di J.C., che conosceva già il lavoro, le operazioni procedettero lentamente. Alla fine fu completamente visibile una superficie di plastica verde opaca che sembrava più spessa dei normali sacchi da immondizie e più simile a quella usata dagli imbianchini per coprire il suolo. Thompson camminava nervosamente avanti e indietro. Si lamentava a voce non troppo bassa di chi pensava di lavorare sulla tomba di un faraone e non sul luogo di un delitto, chiedeva un escavatore e malediceva Parrish per aver seppellito un cadavere in capo al mondo. Il tutto senza risparmiarsi osservazioni inutili che servivano solo a innervosire chi si trovava a por-
tata di orecchio. Ben non si degnò di rispondere anche se gli si avvicinò, mentre Andy, J.C. e David si scostavano dallo scavo per permettere al fotografo di riprendere la plastica increspata. «Vorremmo scavare ancora un po' sui lati», annunciò, «per trovare il lembo del telo di plastica... sarebbe bene che restasse intatto, ma se non riuscissimo a trovarlo saremmo costretti a tagliare.» Thompson alzò gli occhi al cielo e disse: «Signore ti ringrazio!» «Sono dispiaciuto che la nostra prudenza la irriti», osservò Ben. «Credo che l'involucro di plastica, le temperature rigide, l'altitudine e la mancanza dell'azione di disturbo di animali...» «Che sta cercando di dire?» lo interruppe brusco Thompson. «In termini che lei possa comprendere?» replicò Ben. Rosso in viso il detective rispose: «Per la verità sì, gradirei la versione terra terra». Ben distolse lo sguardo per un istante, nel tentativo di calmarsi. «Questo corpo potrebbe essere... vediamo, in termini terra terra? Potrebbe essere un po' molliccio. Con tutto questo tanfo, dubito fortemente che troveremo soltanto ossa. È una delle ragioni per cui non sono certo che i resti siano vecchi di quattro anni... forse lo sono, forse no. Nel secondo caso potrebbe trattarsi di un'altra vittima.» «Sì, l'ha già detto prima, ma...» Ben alzò una mano e Thompson, con uno sforzo visibile, si fermò. «Ci sono molti 'se', detective. Se i resti sono umani, se si tratta di omicidio e se non è Julia Sayre: se tutte queste condizioni vengono soddisfatte, avrebbe una nuova serie di accuse contro Parrish.» Visto che si era conquistato l'interesse di Thompson, proseguì: «Naturalmente può presentare nuove accuse soltanto se siamo in grado di dimostrare che è stato lui a seppellire qui il cadavere. Stiamo procedendo lentamente perché le prove che collegheranno Parrish, o chiunque altro, a questo delitto possono essere nel suolo circostante, e se è così vogliamo trovarle». Si fermò e fece un sorriso non troppo cordiale, poi aggiunse: «Ci rifletta, detective: se si tratta di un'altra vittima, tornerà a Las Piernas da eroe». «L'accordo del procuratore con Parrish non è stato molto apprezzato, vero?» constatò Thompson. «Da parte nostra non eravamo assolutamente soddisfatti.» «Non si è indignata soltanto la polizia per il fatto che Parrish sia stato di-
spensato dalla pena di morte... credo che pure il procuratore se ne sia pentito. È anche per questo che è stato concesso alla signora Kelly di unirsi a noi, non è così?» Il detective mi lanciò un'occhiata e annuì. «Tutti sanno che il procuratore confida in lei perché la sua decisione appaia giusta. La signora si occupa del caso Sayre da molto tempo.» Sapevo che Thompson non apprezzava i miei articoli sul caso Sayre: alle sue orecchie suonavano sempre come imbarazzanti proclami di fallimento. «Con un nuovo caso su cui indagare», aggiunse Ben, «il procuratore potrebbe riabilitarsi agli occhi della pubblica opinione: da un lato sosterrà di aver tentato di trovare Julia Sayre, dall'altro non potrà evitare di chiedere la pena di morte, alla luce di un terzo omicidio. E se si risolvesse un altro caso di persona scomparsa, sono certo che il dipartimento di polizia di Las Piernas sarebbe molto fiero di lei.» Thompson lanciò un'occhiata al campo dal quale Parrish, circondato dagli agenti di custodia, ci stava fissando. Era troppo lontano per vederci o per essere visto chiaramente, ma sembrava alquanto interessato alle nostre attività. Persino da quella distanza era impossibile non notare il suo atteggiamento di sfida. Quando mi voltai verso Thompson, però, mi accorsi che le parole di Ben avevano prodotto l'effetto opposto a quello desiderato. All'idea di un ritorno da eroe il detective si era fatto ancora più impaziente. «Chi altri potrebbe aver lasciato qui il corpo?» chiese. «È stato Parrish a condurci qui!» Ben sospirò. «Mi creda, signor Thompson, anch'io desidero quanto lei sapere che cosa c'è sotto quella plastica, ma ricorda ciò che le ho detto circa le possibili condizioni dei resti? Sollevare la plastica potrebbe causare lo spostamento dei resti e danneggiarli, quindi dobbiamo procedere con cautela.» «Cristo, Sheridan, si è trascinato intorno a quella tomba come una tartaruga a tre zampe! Se ciò che avete fatto finora non era 'procedere con cautela', saremo tutti scheletri quando sarà pronto a tirar fuori di lì il corpo!» «Se volete continuare senza di me...» «Non sia ridicolo!» esclamò Thompson ricredendosi. «Non voglio spingerla...» David rise. «Non voglio spingerla a fare niente che possa distruggere le prove», proseguì il detective, «ma non ho né il tempo, né le risorse per permetterle di trasformare la spedizione in uno scavo archeologico.» Lanciò un'altra oc-
chiata al campo evitando gli sguardi beffardi. «Fra le altre cose voglio riportare in cella Parrish il più presto possibile.» «Se ci consente di riprendere i lavori», replicò Ben in tono eloquente, «avrà presto le sue risposte.» E ribadì: «Non è possibile scoprire il corpo senza rischiare di danneggiarlo. Siamo pronti a tagliare la plastica». David notò che mi stavo alzando e disse: «Se vuoi avvicinarti posso fare in modo che Bingle resti lì, almeno per il tempo di dare un'occhiata». «Se non è Julia Sayre», obiettò Ben, «potrebbero esserci dei particolari che non è il caso di far sapere al pubblico.» Esasperato, Thompson disse: «È disposta a non rivelare ciò che vedrà, Kelly? Se non si tratta della Sayre, può limitarsi a dire che è stata trovata un'altra vittima. Il resto se lo tenga per sé e lo scriva soltanto dopo che lo avremo reso pubblico.» «Però l'Express dovrà essere il primo giornale a divulgare la notizia», replicai. «D'accordo. Sheridan, proceda pure.» Ben non tentò nemmeno di nascondere il disprezzo nei miei confronti, d'altra parte ero ormai più che vaccinata a reazioni di quel tipo: non sarebbe stata un'offesa a uccidermi. Prima capiva che il suo desiderio di mandarmi al diavolo non mi avrebbe impedito di fare il mio lavoro, meglio sarebbe stato per entrambi. «Acuéstate», ordinò David, e il cane si accucciò. «Bien, Bingle. No te muevas.» David mi offrì nuovamente il vasetto di mentolo e una maschera; presi quest'ultima con riluttanza dopo aver saputo che chiunque si avvicinasse alla tomba era tenuto a indossarla. La misi sulla testa ma, consapevole dell'effetto che mi avrebbe fatto, aspettai ad abbassarla su naso e bocca. Lui mi guardò e chiese calmo: «Non sarà piacevole. Hai già visto resti in decomposizione?» «Sì.» «Stavolta è probabile che sia peggio, molto peggio. Credo che sarà dura anche per i poliziotti. Sono abituati a vedere cose terribili, ma di solito i corpi che trovano sono... più freschi.» Fece una pausa e aggiunse: «Se dovessi sentirti male, allontanati il più possibile». Notando il mio sguardo preoccupato, mi spiegò: «Ben detesta l'odore del vomito». Risi, mi sentivo già meglio, e assicurai che avrei cercato qualche altro modo per vendicarmi con il dottor Sheridan. Sorrise. «Andrà tutto bene.»
Quando però incisero il telo di plastica con un taglio trasversale e scostarono i lembi ebbi qualche problema. Cercai di tenere duro e di pensare a quella strana massa distesa davanti a me come a un oggetto da esaminare per scoprirne i segreti. Era una sagoma priva di forma, e in alcuni punti si riconoscevano ossa, peli, liquido e tessuto incartapecorito. Non riuscii a comportarmi da spettatrice. Pareva che i classici trucchi per non pensare alla vittima in termini di essere umano con me non funzionassero affatto. Persino sul viso di Ben e di David, abituati a vedere quel genere di cose, non scorsi freddezza, ma solo muta compassione. Dopotutto, quella massa informe era stata un essere umano, qualcuno il cui orribile destino non sarebbe rimasto segreto. Ben si accorse che lo stavo osservando. Poi in realtà mi resi conto che era lui che stava studiando me, così come avevano fatto gli altri. «Signor Burden, ce la fa a continuare?» chiese al fotografo, che era diventato bianco come un cencio. «Signor Burden?» Flash distolse lo sguardo sbigottito dai resti e rispose tremando: «Sissignore». «La videocamera?» lo invitò con garbo. Flash si guardò sorpreso la mano destra: aveva abbassato meccanicamente la videocamera che penzolava al suo fianco. «Ricomincio subito le riprese», rispose un po' più calmo. «Scrivi tu, J.C.?» chiese Ben. «Sì», confermò la guardia forestale con voce malferma. «Allora cominciamo.» Ben annunciò data e ora, elencò i nomi dei presenti e fornì le coordinate dello scavo. Mentre dettava con calma le informazioni, mi accorsi che stavo riprendendo il controllo dei nervi e sentii che lo choc iniziale stava passando. Tentai di esaminare di nuovo i resti. Il corpo giaceva supino. La parte sottostante, a quanto potevo vedere, era una massa appiccicosa. La parte superiore era una sagoma in parte mummificata, in parte scheletro, in parte cera: quest'ultima, mi dissero, era dovuta alla formazione di adipocera, una sostanza simile al sapone prodotta durante una delle fasi di decomposizione. «Queste sono osservazioni preliminari», stava dicendo Ben, «e soggette a verifica di laboratorio. Abbiamo una donna adulta sconosciuta, di ceppo indoeuropeo, età e statura da determinare, nessun vestito; la posizione è supina, le braccia leggermente divaricate, la testa è a ovest rispetto a una linea est-ovest, i capelli sono castano scuro.» S'interruppe e poi aggiunse: «Per favore, riprenda la mano destra, signor Burden... Il soggetto indossa
un anello di metallo giallo ornato da tre pietre rosse sul quarto dito della mano sinistra... Il pollice sinistro, apparentemente reciso ante mortem all'altezza della diafisi della falange prossimale, non è presente». «È lei», sussurrò Bob Thompson, e si allontanò. 11 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale A beneficio della registrazione, Ben dichiarò che il detective Thompson non era più presente e proseguì con qualche altra osservazione riguardo l'apparente «trauma ante mortem» e alcuni commenti sui danni avvenuti probabilmente peri-mortem - all'incirca al momento del decesso - e post mortem. Fece una pausa, scrutò a lungo il corpo e aggiunse: «Per adesso può bastare». Chiese a Flash di scattare qualche foto, spiegandogli esattamente i particolari di cui aveva bisogno, disse a David di indicare lui stesso al fotografo altri scatti che riteneva necessari e di coprire le mani e i piedi del cadavere con sacchetti di plastica in modo che si preservassero. Quindi mi invitò a seguirlo e, mentre si toglieva la maschera, si spostò verso il luogo dov'erano appoggiati i suoi attrezzi. Fui contenta di liberarmi dalla maschera. Probabilmente Ben aveva intuito i miei problemi di claustrofobia e sospettava il mio disagio nell'avere parte del viso coperto. Tuttavia non ne fece parola e si limitò a chiedermi di aiutarlo a montare una barella leggera che trasportammo alla sepoltura insieme a un sacco nero. Nel frattempo Thompson era tornato e Ben, dopo essersi brevemente consultato con lui, gli diede un paio di guanti e una maschera. «Anche lei, signora Kelly, se non le dispiace», mi disse indicando la maschera e porgendomi un paio di guanti. Li presi con una certa ansia. «Cosa vuole che faccia?» «Ci sarà bisogno dell'aiuto di tutti per tirarla fuori dalla fossa e infilarla nel sacco», spiegò. Mi si seccò la gola. «È così pesante?» «Forse no, sarà una cinquantina di chili, ma vorrei ridurre al minimo i danni.» S'inginocchiò sul bordo della fossa, si chinò in avanti e afferrò il lembo della plastica vicino al cranio, quindi tirò con delicatezza per provarne la resistenza. A quel punto diede a tutti istruzioni precise: Bob Thompson e Andy alla destra del corpo, David e J.C. a sinistra. Lui sareb-
be stato alla testa e io ai piedi. La barella e il sacco nero erano accanto a Bob e Andy. Flash si rimise al lavoro con la videocamera e sperai ardentemente che non gli capitasse di riprendere qualcosa che schizzava dal telo di plastica sui miei scarponi. Seguendo l'esempio degli altri m'inginocchiai. David e Ben ripiegarono con cura la plastica nella posizione originale e coprirono il corpo. «State attenti a non alterare i bordi della fossa, per favore», ammonì Ben. «Pronti? Afferrate.» Sentii la plastica fredda e rigida attraverso i guanti. Mi convinsi che ero in grado di controllare il mio fiato caldo nella maschera, che non sarei caduta nella tomba. Indietreggiai di qualche centimetro. «Conterò fino a tre», proseguì Ben. «Al mio tre solleviamo tutti insieme, molto lentamente, con estrema cautela e senza strattoni: i resti sono fragili e potrebbero spostarsi nella plastica; il telo stesso potrebbe non essere abbastanza resistente da sostenerli, in questo caso dovremo riappoggiarla a terra. So che è una posizione scomoda per alzare: cercate di non fare forza sulla schiena. Chiunque abbia problemi avverta subito. Arriveremo al livello del suolo, e a quel punto vi darò istruzioni per procedere. Dovete agire al rallentatore: non limitatevi a guardare soltanto davanti a voi ma accertatevi che ci stiamo muovendo insieme. Tutti pronti?» Annuimmo. «Con delicatezza. Uno, due, tre...» Non appena iniziammo a sollevare si udì uno scricchiolio. «Piano... piano...» Quando cominciammo ad avvertire il peso, Ben mi guardò e io cercai di nascondere il mio disagio. Il peso non era eccessivo, ma pensare che si trattava di resti umani mi innervosiva. «Lentamente... Che ne pensi, David?» «Regge», rispose. Si udì uno sciacquio: la plastica si mosse e s'increspò nella mia direzione come fosse viva. «Un po' più in alto, Andy e J.C.», disse calmo Ben. «Piano...» Continuammo ad alzare guidati da Ben. Ci guardavamo a vicenda e ascoltavamo attenti i fruscii della plastica. Arrivati al limite della fossa, raddrizzammo lentamente la schiena in modo da ritrovarci in ginocchio: tendemmo leggermente il carico. Ben attese un momento, poi chiese a Bob
Thompson e ad Andy di fare un passo indietro. In quattro allontanammo il corpo dalla fossa con molta prudenza, quindi Ben e David lo sistemarono nel sacco, chiusero la cerniera e la assicurarono con un fermaglio metallico. La barella era già stata sistemata sotto il sacco. Mi voltai verso la tomba e non riuscii a trattenere un urlo. Gli altri si precipitarono e guardarono in giù. Sporchi e coperti di muffa, ma disposti con cura, c'erano vari indumenti femminili: giacca e gonna nera, una camicia che un tempo era stata bianca, scarpe e borsa nere. Biancheria intima: un reggiseno, uno slip. E poi candele, fil di ferro, un coltello. Una catenina d'oro. Alcuni oggetti erano sciolti, altri riposti in buste di plastica trasparenti. Le polaroid erano nelle buste di plastica. Quelle erano foto che non avrebbero mai dovuto essere scattate, fotografie di cose che non dovrebbero mai accadere a nessuno, non riuscivo a fare a meno di fissarle e al tempo stesso desideravo che non fossero mai esistite. Anche loro mi fissavano. Lei mi fissava. Avvertii la pressione di una mano energica sulla spalla e qualcuno che diceva: «Venga via. Venga a sedersi accanto a Bingle. È preoccupato per lei». Era Ben. Mi tolse la maschera e continuò a parlarmi. Non so cosa disse, ma lasciai che mi accompagnasse dal cane. Quando mi fui seduta, Bingle prese a strofinare il muso contro di me. Affondai le mani nel suo pelo e tornai a voltarmi verso la tomba, verso il sacco nero. Pensai a una ragazzina che aveva desiderato la morte della madre e a Julia Sayre, che aveva di certo voluto che il desiderio della figlia si avverasse molto più in fretta di quanto non fosse accaduto. 12 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, SERA Montagne della Sierra Nevada meridionale Quella sera rimasi seduta accanto alla mia tenda ad ascoltare. All'inizio il gruppetto intorno al fuoco era rimasto in silenzio, serio; dopo una lunga giornata di lavoro trascorsa a fotografare, disegnare mappe, raccogliere ed etichettare il macabro contenuto, la squadra era stanca e abbattuta.
Era il turno di guardia di Duke ed Earl che si occupavano di tenere Parrish lontano da noi. Era stato portato in tenda dopo un'ennesima discussione con Merrick che aveva anche provocato al prigioniero qualche livido. Tutto era cominciato quando Parrish, ammanettato, aveva visto una falena che gli svolazzava non lontano dal viso. L'aveva osservata e all'improvviso aveva spalancato la bocca, ingoiandola con gesto plateale. «Perché diavolo l'hai fatto?» aveva chiesto Merrick schifato. Parrish l'aveva fissato poi, con aria sorridente, aveva rivolto lo sguardo verso il sacco nero. «Mi ricordava qualcuno.» Merrick gli fu addosso prima che Manton riuscisse a fermarlo. Più tardi, lo stesso Merrick ammise che Parrish sembrava soddisfatto per avergli fatto perdere il controllo. Nessuno biasimava il nervosismo della guardia, e, se fino al giorno prima Parrish era stato trattato con una certa educazione, adesso veniva spinto e strattonato ogni volta che dovevano cambiare posizione. Era stato oltrepassato un limite. Nessuno protestava. Dopo aver visto la foto di Parrish che versava cera bollente in un orecchio della vittima neanch'io ero più disposta a difendere le sue libertà civili. Per tutto il giorno Parrish aveva dovuto fare i conti con una crescente ostilità. Se da un lato cercavamo di mantenere il controllo, dall'altro nessuno voleva ritrovarselo accanto. Guardai il sacco, che era stato trasportato all'accampamento. J.C. faceva la guardia seduto lì accanto. David mi aveva spiegato che il corpo sarebbe stato sorvegliato fino all'arrivo in laboratorio, e non soltanto per paura di Parrish, al quale era stata negata la richiesta di vederlo, ma anche degli eventuali animali che potevano essere attirati dall'odore. «Inoltre è una prova», aggiunse, «perciò dobbiamo essere in grado di documentare ogni istante del tempo in cui è rimasta in nostro possesso.» La vicinanza del sacco mi innervosiva. Il mio sguardo ne era attratto. Nonostante tentassi di pensare ad altro mi ritrovavo sempre a riflettere su ciò che conteneva. Duke era indaffarato a intagliare un cavallino di legno per il nipote; di tanto in tanto si fermava, guardava in direzione della lunga sagoma nera e si rimetteva all'opera con rinnovato vigore. Anche gli altri vi gettavano frequenti occhiate. Fu David a darci una scossa. Durante la cena, mentre Ben era di guardia accanto alla barella, ordinò a Bingle di fare la verticale. Il cane tentò di obbedire: piegò la testa tra le zampe anteriori e rimase in quella buffa posi-
zione senza peraltro sollevare le zampe posteriori. Per rendere più esilarante la scena il cane «parlò» durante tutto l'esercizio, emettendo un suono a metà fra l'ululato e il latrato. Fu davvero spassoso. «Bien», disse David. Bingle tirò su la testa, osservò la compagnia con un'espressione che poteva sembrare soddisfatta e scodinzolò, divertito dallo scherzo quanto noi. La scenetta diede lo spunto per una serie di battute sui cani, poi una sui poliziotti e gli antropologi legali, infine una serie di grottesche storielle sugli omicidi. Era un umorismo piuttosto macabro, e nessuno avrebbe mai azzardato battute del genere in mezzo a un pubblico, per così dire, di civili. Non ci furono battute sulla giornata appena trascorsa o sulla vittima: erano argomenti tabù. Notai che Ben sorrideva appena. Ne ebbi abbastanza molto prima degli altri. Seduta in disparte, mi chiedevo se sarei riuscita a togliermi quell'odore di decomposizione dai capelli, dalla pelle, se un altro giorno passato vicino al corpo mi avrebbe segnata per sempre con il suo odore di morte. Sentii dei passi nel buio e trasalii. «Signora Kelly...» Liberai un sospiro di sollievo. «Mi ha spaventata a morte, dottor Sheridan.» «Mi dispiace», si scusò lui dopo un attimo di esitazione. La cosa sembrò costargli enormemente. Si avvicinò e mi chiese: «Suo marito è un detective della squadra omicidi, vero?» «Sì, Frank Harriman, dipartimento di Las Piernas.» «Allora immagino che capisca... immagino che lo abbia sentito raccontare delle storielle o fare battute su cose...» «Dottor Sheridan, non solo l'ho sentito fare quel genere di battute, ma le ho fatte insieme a lui. Se crede che inorridisca di fronte a quello che sta accadendo intorno al fuoco, allora è lei a giudicarmi male... e a dire il vero, mi sembra la sua specialità.» Seguì un lungo silenzio. «Stanno solo tentando di allentare la tensione», ripresi, «lo so. In simili circostanze credo sia la cosa migliore da fare.» «Sì», sussurrò lui. «So che pensa che io appartenga a un'altra specie, una forma di vita insensibile strisciata fuori dal mare un po' più tardi rispetto a quella degli antropologi legali, però, miracolosamente, a un certo punto del Paleozoico, anche i reporter hanno sviluppato il senso dell'umorismo: un giorno la farò
entrare di nascosto in una redazione così potrà ascoltare le nostre crudeli freddure. Diventiamo sempre più bravi: dovrebbe vedere come nascono in fretta le battute ogni volta che arriva una storia particolarmente scioccante. Quasi come sta accadendo ora intorno al falò.» «Be', sì, ma io ho solo...» «Lei ha solo pensato che potessi scrivere che questi uomini non mostrano il dovuto rispetto per Julia Sayre. Pensa che io non capisca che quella donna non c'entra niente e che stia in agguato, aspettando che qualcuno commetta un errore o tradisca la propria debolezza per strombazzarlo al mondo intero. Che non avverto l'orrore e la tensione...» All'improvviso li sentii, l'orrore, la tensione, e smisi di parlare. Lui rimase immobile, in silenzio. «Le chiedo scusa. Non volevo farle una predica», dissi. «E devo anche ringraziarla.» «Perché?» chiese, visibilmente sorpreso. «Vicino alla fossa, quando sono... sono rimasta a bocca aperta. Non mi aspettavo di vedere... ciò che ho visto.» «La sua reazione è perfettamente comprensibile, signora Kelly. E non deve ringraziarmi di niente. Sono io a dovermi scusare... sono stato crudele a chiederle di aiutarci.» «Vi ho aiutati volentieri», replicai. «Solo che non ero pronta a...» «Nessuno lo è mai», sussurrò. «Nessuno.» Fece per allontanarsi, poi aggiunse: «David vorrà dormire con Bingle, stanotte. Crede di cavarsela?» «Sì.» Scrutò il cielo. «Meglio coprire la tenda con il telo per la pioggia.» 13 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, POMERIGGIO Las Piernas Frank entrò nella stanza d'ospedale e trovò un Phil Newly dall'aria piuttosto abbattuta. «Brutte notizie per il piede, signor Newly?» si informò. L'avvocato aveva un'espressione torva, ma quando riconobbe Frank lo salutò con un bel sorriso. Il poliziotto non si aspettava certo quel genere di accoglienza. A parte un paio di processi in cui aveva testimoniato contro alcuni suoi clienti, non aveva mai parlato con il legale; sapeva che non c'era niente di personale nei tentativi di Newly di screditare le sue testimo-
nianze; era uno dei migliori quando si trattava di controinterrogatori, ma contro le testimonianze di Frank i suoi sforzi si erano rivelati sempre vani. Entrambi facevano il loro lavoro, e il detective sperava che l'avvocato fosse dello stesso parere. «Signor Harriman!» esclamò il ferito. «Lei mi è costato il caso Beringer e un altro, se non sbaglio.» Non sembrava affatto seccato. «Ed è anche il marito di Irene Kelly, giusto?» «Sì, ed è per questo che sono venuto. Spero che possa dirmi come sta.» Prima di rispondere, Newly ebbe un attimo di esitazione. «Sta bene, o almeno stava bene quando ho lasciato il gruppo. Ascoltami, Frank... posso darti del tu?» L'altro ne fu sorpreso, ma annuì. «Certo.» «Splendido. Chiamami pure Phil.» Sorrise di nuovo, questa volta in modo volutamente disarmante. «Adesso che siamo amici», proseguì, «posso chiederti un favore?» «Si tratta di qualcosa che potrebbe spedirmi dritto dritto a dirigere il traffico?» chiese Frank circospetto. «No, niente del genere. Ho solo bisogno di un passaggio a casa.» «Ti hanno già dimesso?» «Sì, mi hanno tenuto qui ventiquattr'ore in osservazione. Se non fossi un avvocato, mi avrebbero spedito a casa ieri... credo temano una citazione per danni. Dovrò portare il gesso per un po', ma non ho motivo di restare in un letto di ospedale.» Frank pensò che avrebbe potuto parlargli durante il viaggio in macchina, quindi accettò. «Bene! Potresti... i miei vestiti sono in quello zaino. Ti dispiace passarmelo?» Immaginò che Newly fosse in grado di prenderlo da sé, ma lo assecondò. L'avvocato cominciò a svuotare lo zaino sul letto. Estrasse un fornellino da campeggio, un set da cucina, una torcia, un poncho, una bottiglia d'acqua, fiammiferi, un rotolo di carta igienica e ogni genere di equipaggiamento, compreso un incredibile assortimento di vestiti. Doveva essere stata una faticaccia camminare sulle montagne con tutta quella roba in spalla, pensò il detective cercando di non ridere. Newly gli sorrise in mezzo a quel caos. Reggeva in mano un paio di jeans. «Ti dispiace cercare un'infermiera e chiederle di tagliare la metà inferiore della gamba sinistra? Altrimenti non riuscirò mai a farci passare il
gesso. Io, intanto, comincio a vestirmi.» Frank cercò di sopprimere il desiderio di dirgli che cosa avrebbe dovuto fare con la gamba dei suoi pantaloni. Dopotutto aveva bisogno dell'aiuto di quell'uomo. «Il suo amico deve avermi scambiato per una sarta», borbottò l'infermiera prendendo i jeans. Era una donna giovane, slanciata, con i capelli rossi, e sembrava sapere il fatto suo. «Non si compatisca troppo», replicò Frank. L'infermiera sollevò lo sguardo. «Ha scambiato me per il suo autista e lacché pur sapendo che non sono suo amico.» Lei piegò la testa di lato, lo studiò un istante e gli sorrise. «In effetti è difficile pensare che sia suo amico. Come mai le ha affidato i pantaloni, se posso chiederlo?» «Sto cercando di farlo uscire di qui. Gli do un passaggio a casa.» «Grazie! Non vediamo l'ora che quel rompiscatole se ne vada.» «Posso capire», disse Frank restituendole il sorriso. Dopo una rapida occhiata alla fede che l'uomo portava all'anulare sinistro, la donna riprese a tagliare i pantaloni. Frank fece del suo meglio per infilare tutto nello zaino mentre Newly finiva di vestirsi. Era riuscito a sistemare il set da cucina quando vide una cosa che, a prima vista, scambiò per un cellulare. «È per caso un lettore GPS?» domandò. Newly sollevò lo sguardo. Stava faticosamente cercando di infilare il calzino al piede destro, che per quanto non fosse rotto né ingessato era coperto di vesciche. Vedendolo così malconcio, a Frank non dispiacque occuparsi dello zaino. «Sì», rispose Newly allungando una mano. «Dammelo. Ti mostro come funziona.» Dopo una breve dimostrazione chiese a Frank di aiutarlo a infilare il piede destro nello scarpone, l'unico tipo di calzature che avesse con sé. L'infermiera che il poliziotto aveva conosciuto poco prima portò una sedia a rotelle e si offrì di accompagnarli fino all'androne. «Allora è proprio vero che non permettete ai pazienti di andarsene se non in sedia a rotelle», osservò Newly. «Sicuramente grazie a lei e ai suoi colleghi», replicò la donna. L'avvocato rise e ammise che forse era proprio così. Mentre l'infermiera lo aiutava a scendere dal letto, Newly le appoggiò un braccio intorno alla
spalla e strizzò l'occhio a Frank. Lui lo ignorò e rispose all'infermiera che gli aveva chiesto che mestiere facesse. Fu lo spunto per una conversazione che proseguì fino alle porte dell'ingresso dell'ospedale, dove il detective li lasciò per andare a prendere l'auto. Quando fu di ritorno capì che la donna non avrebbe resistito a lungo prima di lanciare paziente e sedia a rotelle in mezzo al traffico. Sistemò lo zaino sul sedile posteriore e aprì la portiera mentre l'infermiera era china ad abbassare il freno della sedia. «Frank è sposato con una bella brunetta, ma io sono disponibile!» disse Newly. «Phil», ribatté lei aiutandolo a mettersi in piedi, «per quanto questa notizia mi sorprenda le dirò una cosa: moltissime donne sarebbero disposte a dar la caccia a Frank malgrado sia sposato. Invece anche se lei è scapolo... be', spero che almeno sia ricco.» Si era già allontanata quando lui le urlò: «Lo sono!» Lei non si voltò. Quando fu in auto con Frank, l'avvocato fece qualche battuta sulla storia delle vesciche ai piedi. «La parte peggiore è la quantità di lezioni che mi sono dovuto sorbire dall'ortopedico dell'ospedale!» Proseguì con l'imitazione del medico e fece ridere Frank, che acconsentì a fermarsi in una farmacia vicino a casa di Newly: l'avvocato volle a tutti i costi tentare di raggiungerla da solo. «Ti dispiace mettere un po' d'ordine nelle mie cose? Ho lasciato il GPS in cima allo zaino e temo che possa cadere e rompersi: mi è costato seicento dollari, e mi seccherebbe molto farlo cadere.» Frank gli lanciò un'occhiata tagliente, ma non vide davanti a sé il pagliaccio maldestro con cui aveva parlato fino a quel momento, bensì lo scaltro membro della categoria forense che aveva conosciuto in tribunale. Newly sorrise e aggiunse: «Divertiti pure con il GPS, se ti va. Potrei metterci un po'«. Prima che Frank potesse rispondergli, era già arrivato alla farmacia. Il detective sapeva riconoscere un invito esplicito, ma esitò un istante. L'avvocato voleva in qualche modo incastrarlo o, peggio, creargli problemi al dipartimento? Tuttavia non riuscì a capire in che modo Newly potesse fregarlo; e comunque, pur di sapere dov'era Irene, avrebbe corso il rischio. Non aveva alcuna intenzione di ignorare l'istinto: avrebbe raggiunto sua moglie. Se non avesse avuto bisogno di lui, tanto meglio... avrebbe persino potuto arrabbiarsi. A quel pensiero sorrise fra sé e sé: non sarebbe stata la prima volta. Tornò alla realtà. Un conto era immaginare di andare a tro-
varla senza motivi reali; un altro era pensarla in pericolo. Se fosse stata davvero nei guai e lui fosse rimasto a casa, non se lo sarebbe mai perdonato. Prima che Newly facesse ritorno, Frank si era già appuntato tutte le coordinate registrate nel GPS durante i due giorni sulle montagne e aveva riposto il lettore nello zaino. «Hai trovato tutto quello che ti serve?» chiese a Phil. «Sì, e tu?» Frank esitò, poi rispose: «Sì, ma vorrei sapere perché mi stai aiutando». «Potrei sforzarmi di sembrare ingenuo e dirti che sto ricambiando un favore... Tua moglie è stata molto gentile con me, durante la spedizione: si è persino offerta di medicarmi i piedi, nonostante il cattivo odore e le vesciche, ma non sarebbe la verità.» S'interruppe. Frank si chiese se avrebbe aggiunto altro. L'avvocato proseguì: «Un poliziotto che non è legato al caso viene a trovarmi in ospedale e mi confessa di essere preoccupato per la moglie... Io lo coinvolgo in stupidaggini personali per poter riflettere sviila situazione. Non ho difficoltà a credere che sia in buona fede: è disposto a esaudire richieste umilianti pur di parlare con me. È sinceramente preoccupato per la moglie... e lo sono anch'io». «Perché?» chiese Frank. «È successo...» «Niente! Non c'è niente di cui preoccuparsi. Non ancora.» Frank strinse le mani sul volante. «Credi che Parrish abbia in mente qualcosa?» «Ne sono certo.» Allo sguardo allarmato del detective, Newly si affrettò ad aggiungere: «Non ho idea di cosa sia né se abbia a che fare con tua moglie, ma... no, non so proprio che cosa abbia in mente». «Sei il suo avvocato!» «È vero, eppure non si è mai aperto con me. Mai. Te lo giuro. Se non fossi certo che sta per combinare qualcosa che gli costerà davvero la pena di morte, non starei qui a parlare con te.» Nel frattempo erano arrivati nella strada di Newly, che gli indicò l'indirizzo preciso. Frank si concentrò sui numeri civici. Era un quartiere residenziale, adatto a un penalista di successo. Individuò la grande casa in stile spagnolo, si infilò nel vialetto e spense il motore. «Sei convinto che abbia in mente qualcosa circa Irene?» disse a Phil. «Nick Parrish... la studia. La fissa.» Frank imprecò. «Sì», concordò Newly. «Hai ragione.»
«Ho bisogno di sapere... ho bisogno di sapere dove sono diretti. Ho segnato le coordinate, ma dove andavano dopo il punto indicato dall'ultima lettura?» «Non lo so.» «Newly...» «Non lo so, e darmi un pugno sul naso non servirà a niente!» L'altro distese le mani e si costrinse a pensare. «La guardia forestale che ti ha riportato indietro li avrebbe raggiunti?» «Sì.» «E dove? Ha nominato qualche posto?» «No...» l'avvocato rifletté. «Non ero molto lucido, ma... Ora ricordo! Ha detto qualcosa ad Andy, il botanico, a proposito di lasciargli dei segnali. Credi che possa servirti?» «Sì», rispose Frank quasi ridendo, sollevato. «Lascia che ti aiuti a entrare in casa. Devo farti qualche altra domanda.» Newly sospirò. «Ne ero certo, ma tutto ha un prezzo.» «Come?» disse Frank di nuovo sospettoso. «Non hai idea di quanto sia impaziente di buttare questi scarponi... Non guarirò mai se sarò costretto a vederli in giro per casa. Quando saremo entrati, ti dispiacerebbe prenderli e buttarli nell'immondizia?» «Con piacere», acconsentì il poliziotto. 14 MERCOLEDÌ 17 MAGGIO, NOTTE Montagne della Sierra Nevada meridionale Era disteso supino e respirava profondamente. Ammise con modestia di non aver neppure immaginato quanto sarebbe stato meraviglioso. L'eccitazione era quasi incontenibile. Un uomo più debole sarebbe stato costretto a cercare una forma di sfogo. Ma non lui. No, non lui. Prima che aprissero la plastica aveva osato toccarsi, una volta sola, ma in quel momento ebbe il buonsenso di non farlo. L'odore di morte aleggiava su tutti loro, specialmente su chi era stato più a contatto con la fossa durante il giorno. Gli agenti di custodia avevano fatto un giretto ed erano andati a vederla. Non avevano saputo resistere, naturalmente. Come pellegrini attratti da un luogo sacro, pensò, e rievocava il piacere provato un tempo ogni volta che qualcuno faceva ritorno avvolto
nell'incenso di lei. Quella sottile provocazione, tuttavia, non era niente se paragonata al momento in cui l'avevano tirata fuori. La magia del tempo passato insieme... l'incantesimo del ricordo l'aveva quasi stordito. Sheridan e Niles erano quelli più impregnati dell'aroma di lei, naturalmente. Era meraviglioso. Invidiava Sheridan, ne era quasi geloso: lui l'aveva toccata. Il pensiero della mano guantata dell'antropologo su quella di lei... oh! Era troppo teso: decise di distrarsi. Pensò all'aggressione di Merrick. Infantile! Niente avrebbe potuto farlo sentire meglio. Conosceva bene i tipi come lui. Un bullo, come i bulli che c'erano a scuola, come Harvey Heusman. Sapeva come prenderli. Lo aveva già fatto. Harvey era stato una delle sue prime vittime. Si chiese con indolenza se lo avessero mai trovato. Erano passati molti anni, dall'ultima volta in cui era andato a far visita alla sua tomba, e provò rimorso. Non per averlo ucciso, naturalmente, ma per non aver rispettato le visite programmate. Come i racconti che si leggono e rileggono all'infinito, il ricordo dell'omicidio del nemico d'infanzia aveva da tempo perso il potere di eccitarlo, pur non essendo per questo meno caro. Visitare le vecchie tombe lo rendeva piuttosto nostalgico, e non era il tipo da ignorarle. Era bravo a rendere omaggio a... a se stesso, a dire il vero! Il pensiero lo divertiva. Quel breve intermezzo bastò ad allentare la tensione. Tornò a ripercorrere col pensiero i momenti di quel pomeriggio, quelli più belli. Lei era lì, pallida e un po' stanca per non aver dormito bene. Avrebbe voluto essere lui la causa della sua irrequietezza notturna, ma la prima sera aveva sentito il rumore di uno dei suoi incubi e sapeva che erano altri orrori a visitarla. Pazienza. A tempo debito, avrebbe individuato la natura delle sue paure. Per il momento gli bastava vedere gli occhi azzurri cerchiati di nero e i capelli che le ricadevano sul viso mentre guardava a terra. Si stava avvicinando, era sempre più vicina e... sì! Aveva il profumo. Lo aveva respirato con voluttà mentre gli era passata accanto, annusando quel profumo insieme a quello della donna morta, mescolati, irresistibili, irresistibili, irresistibili. Il solo pensiero lo fece tremare. Era talmente perfetto, delizioso! Pregustava il momento, e sentì il corpo vibrare come se fosse attraversato da una scarica elettrica. Stava funzionando tutto alla perfezione, perciò non gli restava che rimanere immobile, disteso supino nella sua tenda, e ascoltare il sangue che scorreva nelle vene
e i nervi che pulsavano di desiderio. 15 GIOVEDÌ 18 MAGGIO, MATTINO PRESTO Montagne della Sierra Nevada meridionale Non piovve fino a poco prima dell'alba. Erano brevi rovesci intermittenti, ma mi svegliai non appena le prime gocce fredde mi colpirono il viso. Durante il mio sonno irrequieto dovevo essere uscita dal sacco a pelo, e ora mi trovavo a faccia in su, per metà fuori dalla tenda: la parte rimasta sul materassino isolante stava bene, ma il restante trenta per cento non era per niente comodo, specialmente i punti bersagliati dall'acqua gelida. Rientrai, mi vestii e sistemai la mia roba. Quando fui pronta vidi che gli altri avevano quasi smantellato il campo. Nessuno voleva trattenersi in quel posto. Anche nel caso in cui il maltempo avesse ritardato l'arrivo dell'aereo, la sera prima era stato deciso di far ritorno alla pista d'atterraggio e di aspettare lì. Improvvise folate di vento isolate rendevano complicate le operazioni di smontaggio, soprattutto per la tenda più grande che aveva ospitato Parrish. Chissà se il sentiero sarebbe stato fangoso. All'andata avevamo camminato lentamente, e ora, al ritorno, nonostante gli zaini più leggeri, svuotati dal cibo, l'andatura sarebbe stata rallentata dal cadavere. A poco a poco la pioggia attenuò le esalazioni provenienti dal corpo, a cui mi ero quasi abituata, e sollevò quello della terra e del legno bagnato. Passato il primo temporale l'aria tornò ferma, e il tanfo si fece sentire di nuovo, forse accentuato dall'umidità; o forse era bastata una breve pausa per acuire la consapevolezza di quell'odore che ora ci circondava nuovamente, senza scampo. Ci mettemmo in marcia subito dopo una colazione veloce. Malgrado non avessi assolutamente fame, mi costrinsi a mangiare qualcosa in vista della sfacchinata che ci aspettava. Ero sollevata alla prospettiva di tornare a casa, di rivedere Frank, di mettere fine a quel triste incarico. Ma avrei dovuto pazientare, perché i Sayre stavano aspettando me e il direttore il mio articolo. Appena partiti notai il terreno e l'erba bagnati, ma non c'era ancora molto fango; il vento si era calmato. Alla testa del gruppo c'era J.C. che ci avrebbe riportati all'aereo seguendo un percorso diretto. Bob Thompson e gli agenti seguivano con Parrish, assorto nei suoi pensieri. Lo immaginavo
rassegnato a una vita in carcere. Bingle procedeva insieme a me, mentre a David e a Ben era toccato il primo turno con la barella. Raggiungemmo il crinale fra i due prati, non lontano dall'albero dei coyote, e ci fermammo a riposare; Andy e J.C. avrebbero fatto il secondo turno con la barella. Nonostante il programma fosse di fermarci soltanto qualche minuto, non appena David e Ben ebbero posato a terra con cautela il loro fardello, accaddero due cose che cambiarono il corso del viaggio. La prima fu che Nicholas Parrish disse a Thompson: «Pensavo che avrebbe mostrato più spirito d'iniziativa, detective. Ha trovato un solo cadavere quando è evidente che il mio bell'albero suggerisce che ce ne sono molti altri». Dopo un istante di silenzio Thompson replicò: «Ti stai offrendo di fornirci delle prove, Parrish?» «C'è bisogno che aggiunga altro? Non tutte le mie opere sono incantevoli come la cara Julia. Vorrei tanto che mi consentiste di darle un'occhiata... la sua fragranza è talmente eccitante!» «E fuori discussione», rispose Thompson. Poi ci ripensò. «Se mi mostri le altre tombe, vedrò cosa posso fare.» Parrish rise. «Ha contrariato i suoi antropologi legali, detective.» «Sta solo prendendo tempo», si lagnò Duke. Thompson annuì. «Parleremo delle altre vittime quando sarai di nuovo in cella.» «No», ribatté Parrish. «Ora o mai più.» Il detective cominciò a camminare avanti e indietro. «Sa contare, non è vero?» proseguì Parrish. «Conti i coyote.» «Dodici. Lo so, lo so», borbottò Thompson ancora indeciso. «Se sapevi che ce n'erano altri, perché ti sei liberato del tuo avvocato? Sai che possiamo usare qualsiasi cosa tu dica contro di te.» «Era noioso. E anche lei comincia a diventarlo. Le mostrerò un'altra tomba, signor Thompson», disse Parrish, «ma se riprendiamo il cammino ci allontaniamo. Sappiamo entrambi che non mi verrà concesso di accompagnarla in un'altra spedizione; perciò, ora o mai più!» «E un trucco!» urlò Manton. «Se ci fossero altri cadaveri avrebbe negoziato per ottenere il massimo vantaggio quando c'era ancora il suo avvocato.» «Signora Kelly», lo interruppe Parrish, «riesce a capire perché non voglio che i miei cari siano lasciati qui?» Pensai di conoscere la risposta e di sapere perché avesse fatto la doman-
da all'unica rappresentante della stampa presente, ma non volevo ritrovarmi coinvolta nella decisione. Ero lì in veste di osservatrice, e le cose che avevo visto nella tomba di Julia Sayre erano sufficienti per convincermi a non aiutarlo in nessun modo e per nessun motivo. Gli altri mi guardarono e attesero. Ben Sheridan prese la parola e rispose più o meno come avrei fatto io. «Parrish è molto fiero del suo lavoro e non vuole restare anonimo. Ecco perché ci troviamo qui.» «Sì!» esclamò quello con calore. «Lei mi sorprende. Ha capito perfettamente.» Thompson era diviso tra argomentazioni favorevoli e contrarie; perlopiù contrarie in verità. Fu allora che accadde la seconda cosa; quella che portò alla decisione. Il vento cambiò. In seguito, ripensando a quella giornata, mi sarei chiesta che cosa ne sarebbe stato del gruppo se il vento avesse soffiato in un'altra direzione. Però cambiò e soffiò verso di noi: era una forte brezza che proveniva dall'altro prato, ne risalì l'estremità fino al crinale sul quale ci trovavamo e proseguì. Bingle sollevò il muso e puntò le orecchie in avanti. Si voltò a guardare David: lo stesso sguardo attento del giorno prima. «¿Qué pasa?» gli chiese il padrone. Il cane puntò nuovamente il naso verso la corrente d'aria e cominciò a fiutare con gli occhi semichiusi, poi drizzò le orecchie e fissò di nuovo David. Questa volta, scodinzolava. «Che succede?» fece Thompson. «Bingle sta dando il segnale di allarme», rispose Ben. Con un lampo negli occhi, il detective si rivolse a Parrish: «Forse non sarà necessario che ci mostri il cadavere! Sarà il cane a portarci dritti da lui!» Parrish sollevò le spalle con aria indifferente. «Credevo che dovessimo raggiungere la pista», commentò Manton. «Andate avanti», replicò Ben. «Penseremo noi a seguire il cane.» «Forse ha solo fiutato il cadavere che J.C. e Andy trasportano», insistette Manton. «No», assicurò David. «È qualcosa che proviene da quel prato, un odore portato dal vento che soffia nella direzione opposta. È sicuramente eccitato per qualcosa di nuovo.» Thompson era titubante. «E se fosse un cervo morto o qualcosa del ge-
nere?» «Non darebbe questo tipo di allarme», spiegò David dopo aver ordinato a Bingle di restare seduto, tranquillo. Il cane muoveva irrequieto le zampe anteriori come un bambino che deve correre in bagno, ma obbedì. «Anche due giorni fa era stato attratto da quel prato: voglio andare a controllare.» «Vengo con te», si offrì Ben; quindi si rivolse a Thompson: «Andate verso l'aereo. Vi raggiungeremo». «Raggiungerci?» si stupì il detective. «E se doveste trovare qualcosa? Come farete a tirarlo fuori?» «Segneremo il punto e torneremo un'altra volta», rispose Ben. Il giorno prima Thompson si era crogiolato nel sogno della gloria di cui avrebbe goduto per il ritrovamento di un cadavere diverso e non avrebbe rinunciato all'opportunità di trasformarlo in realtà, soprattutto ora che lo stesso Parrish aveva lasciato intendere che vi fossero altre undici fosse nei paraggi. «Assolutamente no. Se restate voi, restiamo tutti.» «Come vuole», replicò Ben. Nel frattempo David aveva messo il collare di cuoio a Bingle che lo fissava attento e cominciò ad abbaiare. Andy e J.C. parlavano animatamente vicino alla barella. Andy annuì. Mentre David tentava di calmare il cane, J.C. disse a Thompson: «Ci lasci portare il corpo alla pista d'atterraggio». «È un tragitto piuttosto lungo da fare in due», considerò Ben. «È vero, ma ce la caveremo. E ho un'idea; l'aereo dovrebbe arrivare presto, sempre che non ci stia già aspettando: il tempo non è stato cattivo al punto da impedire l'atterraggio. Quando saremo lì chiamerò via radio il Corpo Forestale e chiederò un elicottero. Possono venire a prendermi alla pista e mostrerò loro dove siete. Non avranno problemi a scendere qui. Inoltre il viaggio in elicottero non fornirà al prigioniero molte occasioni di fuga. Sicuramente meno di una camminata nel bosco.» L'idea di evitare la scarpinata fino alla pista d'atterraggio andò a genio a Thompson, che però non era del tutto sicuro. «Sei certo che l'elicottero sarà qui prima che faccia buio?» «Nessun problema. Senza Parrish e il suo stupido itinerario tortuoso non ci metteremo molto ad arrivare. Prima di sera sarà di nuovo chiuso in cella.» Il detective sollevò lo sguardo e notò che Parrish sembrava corrucciato. Accortosi di quello sguardo, il prigioniero gli rivolse un sorriso melenso. Thompson continuava a esitare.
«Gli agenti hanno l'aria stanca», disse J.C. «Non è stato un compito facile. In questo modo non dovranno portare lo zaino, stare attenti al sentiero e tenere d'occhio Parrish, contemporaneamente.» «D'accordo», acconsentì Thompson. Ben si fece promettere da Andy che sarebbe rimasto con il cadavere mentre J.C. sarebbe tornato a prenderli. «Nessuno deve poter dire che il corpo è rimasto incustodito anche solo per un istante.» David e Bingle raggiunsero il prato per primi; Ben e io li seguivamo con l'attrezzatura aiutati da Flash, che aveva anche la videocamera. Thompson, Parrish e gli agenti si muovevano più lentamente. Il vento si calmò, David però non sembrò preoccupato. Ne approfittò per far riposare il cane, poggiò a terra zaino e attrezzatura, scegliendo un posto dove aspettare l'elicottero. «J.C. è stato piuttosto ottimista riguardo al tempo», borbottò guardando il cielo. «Adesso non è male, ma credo che pioverà di nuovo.» «Credo anch'io», disse Ben. «Ho la sensazione che passeremo la notte qui. D'altro canto J.C. conosce queste montagne meglio di noi: se l'aereo li sta già aspettando quando raggiungeranno la pista e l'elicottero arriva in fretta, potrebbe andare tutto liscio. Comunque non ho voglia di fare le cose in fretta se Bingle trova qualcosa.» «Resterò con te anche se Thompson e gli altri vorranno tornare», intervenne David. Si interruppe, tirò fuori la boccetta con la polvere e testò l'aria. La polvere volò verso il crinale. «Un venticello perfetto. È molto meglio questo per lavorare. Il vento di prima avrebbe potuto portare il tanfo da più di un chilometro.» Poco distante Bingle stava nuovamente dando l'allarme. «¿Quieres trabajar?» gli chiese. Ci mettiamo al lavoro? Bingle scodinzolò e abbaiò. «Trova un angolino riparato, Ben», consigliò David avviandosi verso il cane. «Non ho ancora sentito tuoni, ma se scoppia un temporale non voglio certo ritrovarmi nel bel mezzo di un prato a fare da parafulmine.» Poi rivolto a Bingle: «¡Búscalo! ¡Busca al muerto!» Cane e istnittorc cominciarono a zigzagare sul prato, più o meno come li avevo visti fare il giorno prima. Il bosco era più fitto rispetto a quello accanto al prato dove era stata sepolta Julia Sayre. Oltre il prato c'era un ruscello e più in là uno stagno. Flash, Ben e io montammo una delle tende più piccole fra gli alberi per dare a Duke e a Earl la possibilità di fare un pisolino. Se fosse stato necessario avremmo piantato un campo lì. Dato che ripararsi sotto un unico albero, o anche in un boschetto, sarebbe già stato estremamente pericoloso
in caso di temporale, una foresta di quelle dimensioni era molto più sicura del prato aperto. Ci affrettammo verso il prato. David stava lodando il cane. «¡Qué inteligente eres! ¡Qué guapo eres!» «Sì, è bello e intelligente», mormorai, «ma che cosa ha trovato?» David ordinò al cane di restare dov'era e ci condusse qualche metro più in là. «È tutto più recente.» In quel punto le piante erano più basse e più rade, e non fu difficile individuare il contorno ovale dello scavo: la terra con cui era stato riempito si era assestata e la superficie appariva lievemente concava. I bordi della depressione avevano ceduto, mettendola in risalto. «Fantastico!» esclamò il detective. «Ce l'avete fatta! Il bastardo è in trappola!» «Signor Thompson», disse gelido Ben, «non c'è proprio niente di cui gioire. Non abbiamo ancora idea di chi o che cosa sia sepolto qui, figuriamoci di chi ne sia responsabile.» Per Thompson non fu facile reprimere lo sconforto. Nonostante l'antipatia che nutrivo per lui, sapevo che non esultava per il ritrovamento in sé, ma per l'idea di vedere Nicholas Parrish condannato alla pena di morte. Parrish, che di certo sapeva che quel nuovo ritrovamento avrebbe modificato la condanna, ci guardava sereno. Posò gli occhi su di me e sorrise. «A presto, tesoro», disse, «a presto.» Bingle rizzò il pelo e cominciò ad abbaiare. Avremmo dovuto dar retta a quell'avvertimento. 16 GIOVEDÌ 18 MAGGIO, MATTINA Montagne della Sierra Nevada meridionale Ben e David diedero subito inizio alla fase successiva del lavoro, con la stessa meticolosità adottata per la tomba di Julia Sayre; Duke ed Earl decisero di concedersi un sonnellino, e si fecero promettere da Thompson che li avrebbe svegliati se effettivamente si fosse trovato qualcosa. Merrick e Manton allontanarono il prigioniero dalla fossa e il detective tentò di interrogarlo sulla vittima. Parrish non diede alcuna risposta, pur non rimanendo in silenzio. «Sa perché sono morti quei coyote?» chiese fissandomi di nuovo. «No, dimmelo», lo stuzzicò Thompson.
«Perché disturbavano la quiete», replicò Parrish sempre con gli occhi fissi su di me. «Guardi il dottor Sheridan e il dottor Niles: crede che siano migliori dei coyote?» «Che vuoi dire?» chiese Thompson. «Requiescat in pace.» «Che significa?» «Lo chieda alla signora Kelly. Lei ha sentito il latino... almeno la domenica.» Thompson si voltò verso di me. «Significa riposi in pace», tradussi. «È la sigla RIP che si trova sulle lapidi.» «Vede?» commentò Parrish. «Conosce le usanze dei coyote, signora Kelly?» Non risposi. «Saccheggiano le tombe. Rubano le ossa e le rosicchiano.» «I coyote non sono gli unici animali a farlo», ribatté Thompson. «I coyote non mi piacciono», replicò Parrish sorridendo. Mi allontanai diretta verso la tomba. Bingle fu contento di vedermi, così come David. «Ti dispiacerebbe fargli di nuovo da balia? È particolarmente irrequieto.» Me ne ero accorta anch'io: Bingle tentava in continuazione di avvicinarsi a David e, di quando in quando, abbaiava furiosamente a Parrish. «Se continua così Duke ed Earl mi ammazzeranno», borbottò David. «Avranno fatto giusto in tempo ad addormentarsi. Non riesco a capire che cosa abbia.» «Ieri avevi l'aiuto di J.C. e Andy e gli hai dedicato più attenzioni.» «Ho lavorato ad altri casi. Di solito se ne sta buono, non è così indisciplinato; è raro che si comporti come con Nick Parrish.» «Dovrebbero farlo giudice», commentai. David rise. Mi fece vedere che avevano già raggiunto lo strato di grosse pietre e che si intravedeva la plastica verde. «Se questa tomba non è stata fatta da Parrish deve avere un imitatore», disse. «David!» lo riprese Ben esasperato. Era di pessimo umore, ma non mi rimproverò per essermi avvicinata troppo. Era già qualcosa, pensai. Bingle si mise di nuovo ad abbaiare al prigioniero. «Forse dovrei portarlo a fare un giro alla larga da Parrish. Dio solo sa quanto mi fa piacere allontanarmi da lui.» E dall'odore di decomposizione, pensai, ma non lo dissi.
«Ottima idea», approvò David. Smise di lavorare e andò a prendere un guinzaglio dalla sacca del cane. «Sì, davvero una bella idea, signora Kelly», aggiunse Ben spostando con cura la terra dalla plastica. «Questa volta preferirei lavorare senza cacciatori di curiosità tra i piedi.» «Cacciatori di curiosità?» ripetei offesa. «Sono una professionista che fa il suo mestiere. Se solo riuscisse a infilarsi questo concetto nel cranio...» «Bella professione... approfittare delle sofferenze altrui...» «Chiedo scusa, Santo Ben delle Ossa, ma...» «...vendere a poco prezzo le miserie della gente a chiunque si fermi in un'edicola...» «Ben», sentii una voce alle mie spalle. «Ti prego.» David era tornato con il guinzaglio. Ben distolse lo sguardo, ma non riuscì a nascondere la rabbia. Rimase a fissarsi le mani guantate, accigliato, poi ritornò a grattare la terra. David legò il cane al guinzaglio e si assicurò che seguisse i miei ordini, quindi ci accompagnò verso la foresta. Sembrava preoccupato. «Non verrebbe con me anche senza guinzaglio?» gli domandai. «Come? No, no. È che quando do a qualcuno il suo guinzaglio sa che deve stare con quella persona. Non posso avere la totale certezza che capisca che non deve venire a vedere cosa sto facendo. Potrebbe fuggire e abbandonarti nel bel mezzo del bosco.» Sorrise, «Riuscirebbe di sicuro a ritrovarti, ma è più facile per tutti se gli diamo il messaggio in anticipo.» «Capisco, quindi il guinzaglio serve perché io non mi perda.» Rise. «Esatto.» Credevo che si sarebbe fermato al limitare della foresta, ma proseguì con noi. «Per quanto riguarda Ben», aggiunse all'improvviso, «ha qualche problema con i giornalisti. Mi rendo conto che alle volte è un po' brusco...» «Brusco?» «Villano.» «Sì.» «D'accordo, villano», ammise. «Ma non devi considerarla una questione personale. So che, a parte la tua professione, gli vai a genio.» «Che magnifica notizia.» «Non me la sto cavando molto bene, eh?» «No, scusa... non avrei dovuto sfogare la mia rabbia su di te. Se stai cercando di dirmi che è una brava persona, me ne sono già accorta.» «Davvero?» si stupì David.
«Sì, e non solo in confronto a Parrish. L'ho capito la prima notte, quando ti ha chiesto di far dormire Bingle con me... credo che anche lui avesse bisogno del cane per cacciare i suoi incubi.» David annuì. «E poi piace al giudice Bingle», aggiunsi. David si inginocchiò e lo accarezzò dietro le orecchie. Il cane appoggiò la testa sul petto del padrone e restò in quella posizione emettendo un sordo mugolio di piacere. «Bingle è un bravo giudice», disse. «Anche tu gli piaci.» «Il sentimento è reciproco! Ho come la sensazione che stessi cercando di trovare scuse per il tuo amico, non è così?» «Per la verità non sono scuse. Pensavo solo che sapessi... Ben ha le sue buone ragioni per diffidare della stampa.» «Per esempio?» «Proprio quest'anno ha...» si fermò, scosse la testa e rifletté un istante prima di continuare. «Un paio di anni fa, quando lavorava a un incidente aereo, una reporter TV intercettò una sua conversazione con uno di quei microfoni che usano le spie.» «Un microfono parabolico.» «Esatto. Quando il servizio andò in onda la giornalista citò in modo scorretto le sue parole. Capita a tutti, ma in quel caso l'informazione errata diede alle famiglie la speranza che le vittime fossero... che i resti fossero relativamente intatti. Sai che cosa accade in uno scontro violento?» «Sì», risposi. «La fisica non. è a favore di nessuno.» «Esatto. La maggior parte delle volte effettuiamo l'identificazione su frammenti.» «Quindi le famiglie si arrabbiarono con lui.» «Sì, ma non era quella la cosa che gli diede più fastidio. Non sopportava che quella gente venisse tormentata: erano persone distrutte dal dolore, incapaci di accettare ciò che era successo... alle quali veniva data una speranza. Ben la definì una forma di tortura pubblica. Credo che avesse ragione.» «Perciò dopo quell'episodio ha fatto di tutta l'erba un fascio?» «Vorrei poterti dire che si è trattato di un episodio isolato. Sono state scattate foto da telecamere nascoste in obitori d'emergenza. Sono state diffuse informazioni false su persone scomparse... non puoi immaginare quanto tutto ciò sia doloroso per le famiglie delle vittime.» «Se vuoi che ti dica che sono fiera di chiunque eserciti la mia professio-
ne...» «No, certo che no. Anche noi abbiamo colleghi che lasciano molto a desiderare. Volevo solo aiutarti a capire Ben. Come ti ho già detto, non c'è niente di personale.» «Ho capito», lo rassicurai. «Alla lunga, però, la sua aperta ostilità nei confronti della stampa non vi sarà d'aiuto.» «C'è dell'altro... ma immagino che non dovrei parlare così di lui. Piuttosto, farei meglio ad aiutarlo.» «Aspetta un attimo David, per favore.» Mi guardò con aria interrogativa. «Non ho particolari interessi nei confronti dei componenti di questo gruppo», cominciai. «Ma tu e Andy siete stati davvero gentili con me. Volevo ringraziarti di cuore per il tempo che hai perso a illustrarmi il tuo lavoro, e se adesso mi dici che devo dare un'altra chance a Ben Sheridan, lo farò. Gliene darò altre dieci.» Mi sorrise. «Ben mi è stato vicino nei momenti più bui. Per me non è difficile avere pazienza con lui, ora che è lui a passare un brutto momento.» Accarezzò Bingle con vigore e disse: «Abbi cura di lei». «Anch'io avrò cura di lui.» «Lo so!» ribatté ridendo mentre si allontanava. Mi avviai con calma. Le nuvole si erano addensate e scendeva una pioggia leggera, che comunque non ci scoraggiò. Bingle si divertiva a saltare nelle pozzanghere, ma a parte questo mi seguiva senza problemi. Era attratto dai rumori e dagli odori del bosco e, di tanto in tanto, gli permettevo di fermarsi a esaminare i dintorni: lui non faceva mai resistenza e non dava strattoni al guinzaglio. Era un cane molto ben educato. Durante quella passeggiata dovetti ammettere che stavo fuggendo. Non avevo alcuna voglia di assistere all'apertura di un altro sacco di plastica per vedere altri resti in decomposizione, né tantomeno ciò che poteva esserci sul fondo della fossa. D'altra parte, come mi ero premurata di spiegare a Ben, ero lì per lavoro e non aveva senso che me ne stessi in disparte. Decisi di tornare indietro. Mi fermai quando il prato fu in vista. Non ero ancora pronta a lasciare la quiete del bosco per unirmi agli uomini. Bingle sollevò il naso e fiutò l'aria, ma rimase tranquillo al mio fianco. Flash stava filmando la tomba; Merrick e Manton erano sempre di guardia a Parrish, ma Thompson doveva aver svegliato Duke ed Earl, visto che
i due agenti, David e il detective indossavano maschere e guanti ed erano inginocchiati sul ciglio dello scavo. David dava istruzioni. Ben Sheridan non c'era. Sapevo che dovevo fare il mio lavoro da giornalista. Avrei pensato in seguito alle mie reazioni. Se Parrish si era attenuto alla prassi, presto avrei visto le foto della vittima. Era quella la cosa più importante, mi dissi: scoprire chi c'era sepolto. Avrei dovuto fare come Manton, che si stava avvicinando per vedere meglio. «Al mio tre», sentii la voce di David. Fui distratta dal rumore di uno spruzzo. Mi voltai e mi resi conto della presenza di Ben. «Cristo!» esclamò sistemandosi e tirando su la cerniera dei pantaloni. «Uno...» contava David. «Mi... mi dispiace!» mi scusai. «Non sapevo che fosse qui!» Ben era rosso per l'imbarazzo. «Naturalmente finirà sul giornale, no?» «...due...» «Sì, certo», risposi mentre il mio imbarazzo si tramutava in rabbia. «Con una bella foto e un titolo tipo 'Antropologo legale all'opera'.» Con mia grande sorpresa si mise a ridere. «Tre!» Il rumore ci sorprese come il destro di un peso massimo: una terribile esplosione fece tremare la terra e ci assordò. Rimasi immobile senza capire che cosa fosse successo. Una nube di polvere e detriti si alzò sul prato mentre l'eco dell'esplosione risuonava fra le montagne e il rumore sembrava provenire da tutte le parti. Riuscii a distinguere altri suoni: urla e spari. Bingle guaì e si precipitò verso la nuvola di polvere facendomi perdere l'equilibrio. Caddi faccia a terra e il cane mi trascinò per un tratto, ma non mollai il guinzaglio. Se non si fosse impigliato nei cespugli dubito che il mio peso sarebbe stato sufficiente a fermarlo. Anche Ben partì di corsa. Lo chiamai, ma era già lontano, quasi a metà strada tra me e il luogo dell'esplosione, e rispondeva con le sue urla a quelle degli altri che si spegnevano una dopo l'altra. Mentre correva gridava il nome di David, gridava «No!», gridava parole che non riuscii a capire e poi... e poi Nicholas Parrish emerse dalla polvere. Cercando di mantenere l'equilibrio si faceva scudo con il cadavere di Merrick. La mano ammanettata stringeva una pistola, quella dell'agente morto. Parrish sollevò il braccio. Ben era allo scoperto, in mezzo al prato. All'improvviso non gridò più, non emise altri suoni, cadde.
Per non rialzarsi. 17 GIOVEDÌ 18 MAGGIO, PRIMO POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale Rimasi dov'ero. Bingle continuava ad abbaiare, rivelando così la nostra posizione a Parrish. Per un orribile momento restai paralizzata dalla paura. Tutte le parole spagnole che conoscevo si erano volatilizzate e non riuscivo a pensare a nessun comando per calmare il cane. «¡Cállate!» ricordai finalmente. Bingle si calmò immediatamente. Sperando che Parrish non mi sentisse sussurrai: «Ven acá, Bingle. Ven acá». Il cane obbedì, mi raggiunse e si accucciò ai miei piedi, ansimando forte, con le orecchie abbassate, la coda tra le zampe. Era spaventato. «Muy bien», gli sussurrai con voce malferma. Mi abbassai e mi distesi accanto a lui. Stava tremando. Tremavo anch'io. Gli passai una mano sul pelo. «Calmate, tranquilo», gli mormorai nell'orecchio. Cercai Parrish con lo sguardo per sapere dove si trovasse. Lo vidi sprofondare nell'erba legato all'agente morto. Trascorsero lunghi momenti durante i quali restammo nel nostro nascondiglio. Poco dopo lo vidi riemergere: si era liberato del sinistro ingombro e si liberò della manetta ancora attaccata al polso con la chiave, poi la lasciò cadere a terra. L'aria era ancora satura di fumo e dell'odore di carne e sangue. Tutt'intorno c'era un silenzio inquietante come lo erano state le urla. In quel silenzio sarebbe stato impossibile nascondergli il mio tremito. Temevo che la paura si sarebbe propagata nel terreno fino ad arrivare a lui. Il fumo cominciò a diradarsi. Il vento riprese a soffiare e lui rise, sollevando le braccia verso il cielo che imbruniva, con i pugni chiusi e l'aria trionfante, quasi volesse invocare gli dei a testimoni della sua vittoria. Si fermò e scrutò la foresta. Ero sicura che ci avesse scorti. All'improvviso cominciò a correre nella nostra direzione. Bingle drizzò il pelo. «Quieto», sussurrai. Il cane rimase muto. Parrish continuava ad avvicinarsi, diretto verso gli alberi. Avevo la bocca secca. Allungai la mano nello zaino, afferrai il coltello e feci scattare la lama: non avrebbe fatto molto, contro una pistola carica, ma avrei preferito essere uccisa piuttosto che condividere il destino di Julia Sayre. Parrish,
però, si allontanò da noi. Cercai di capire dove si stesse dirigendo. Temevo di vedermelo spuntare alle spalle all'improvviso, pronto ad aggredirmi. Avrei dovuto fidarmi delle reazioni del cane. Poco dopo lo sentii che armeggiava nell'accampamento, per nulla preoccupato di fare silenzio. Ricominciò a piovere. Non dovevo cedere. Forse l'elicottero avrebbe aspettato che il tempo migliorasse, ma J.C. e Andy ce l'avevano fatta. Potevo farcela anch'io. In un modo o nell'altro qualcuno sarebbe tornato. Dovevo solo riuscire a evitare Parrish per qualche ora. Non pioveva forte... l'elicottero poteva volare. Quelli erano i miei pensieri quando sentii il boato di un tuono in lontananza. Continuavo a tremare. Mi convinsi che era colpa dell'umidità. Nello zaino avevo il poncho. Avrei fatto un po' di rumore per tirarlo fuori, ma decisi di rischiare. I suoi colori scuri si sarebbero confusi tra quelli della foresta circostante. Era sicuramente meglio dei vestiti che indossavo. Il rumore della pioggia rendeva più difficile sentire i movimenti di Parrish, ma dal tintinnio dei tegami capii che stava svuotando gli zaini. Pensai che avrebbe potuto prendere tutto quel che voleva, che avrebbe distrutto quel che non gli interessava e che mi avrebbe lasciata morire col cane in quei boschi di montagna. Smettila. Avevo i crampi per la tensione più che per lo sforzo di restare ferma; avevo freddo. Pazienza, potresti stare peggio, dopotutto sei viva. Avresti potuto trovarti a sollevare quel corpo dalla tomba. Avevo il coltello in una mano, il guinzaglio nell'altra. Bingle sollevò la testa. Era in ascolto e non tremava più. Sentii un rumore di passi nella foresta. Verso di me. «Quieto», sussurrai di nuovo. Il cane mi guardò e abbassò la testa. Muoveva le orecchie avanti e indietro, sempre in ascolto. Pregai. I passi si fermarono da qualche parte davanti a me. Bingle s'irrigidì. Ti prego, non ringhiare. I passi proseguirono. Finalmente riuscii a vederlo: stava andando verso il crinale con uno zaino in spalla e il fucile di Duke in mano. Camminava di buon passo, quasi di corsa. Si era allontanato un po'. Sempre nascosta fra gli alberi, cercai una posizione migliore. Bingle voleva raggiungere il prato, e anch'io, poi-
ché nutrivo una debole speranza che qualcun altro fosse sopravvissuto e potesse avere bisogno del mio aiuto. Ma se Parrish si fosse voltato per controllare il suo lavoro, ed ero certa che lo avrebbe fatto, ci avrebbe visti. Lo persi di vista per un po', poi lo intravidi in cima al crinale sollevare di nuovo i pugni in segno di vittoria. Nonostante le mie accorate richieste, nessun fulmine lo colpì. Passò oltre e scomparve. Bingle e io partimmo insieme, correndo nella pioggia verso la fossa, dove ci aspettava la devastazione più totale: la tomba era un cratere enorme, profondo e nero. Bingle diede uno sguardo nervoso e si allontanò. Non avevo idea di quale tipo di esplosivo Parrish avesse usato, ma era evidente che per innescare l'esplosione era bastato sollevare il corpo. Una rapida occhiata mi confermò ciò che già sospettavo. Erano morti tutti, e di quelli che erano chini sulla tomba non era rimasto molto. Bingle andava di frammento in frammento guaendo. In seguito, sarebbe forse arrivato un antropologo legale per esaminare i resti e stabilire a chi fossero appartenuti. Quando raggiunse uno scarpone con i brandelli di un piede Bingle cominciò a guaire più forte; capii di chi fossero. Il cane si accucciò accanto allo scarpone, con il muso sulle zampe; non voleva muoversi. Non lo rimproverai. Non sapevo quanto ancora avrei potuto resistere io stessa. Il mio cervello era come spento: mi rendevo conto di ciò che stavo vedendo, ma al tempo stesso non capivo. Lasciai andare il guinzaglio e continuai a camminare, attenta a dove mettevo i piedi. Le suole delle scarpe erano sempre più scivolose. Mi muovevo meccanicamente, in attesa di scorgere qualcosa che sarei riuscita a comprendere. Poco distante da lì vidi dell'altro. Erano i corpi di Manton e Merrick, che non erano morti a causa dell'esplosione. Parrish li aveva colpiti al volto con numerosi proiettili. A quella vista emisi un suono e Bingle mi raggiunse. Mi accorsi che aveva in bocca la scarpa di David. «¡Déjala!» gli ordinai brusca. «Lasciala!» Mi lanciò un'occhiata ribelle e non mollò. «¡Déjala!» ripetei. Con delicatezza la lasciò andare, ma le rimase accanto. «Bien, muy bien.» Mi guardò diffidente, come se volessi sottrargliela. Sembrava pronto a riprenderla; gli chiesi: «¿Dónde está Ben, Bingle?» Sollevò la testa e la piegò da un lato.
«Dov'è Ben? Su, portami da lui. ¿Dónde está Ben, Bingle?» La domanda non era così semplice come poteva sembrare. Non ricordavo dove fosse caduto e l'erba e i fiori del prato erano abbastanza alti da nasconderlo. La pioggia si era calmata, ma sarebbe comunque stato difficile per Bingle fiutare l'aria e captare qualche odore. Per nulla scoraggiato, seguì la mia ricostruzione del percorso fra il punto in cui giacevano Merrick e Manton e il bosco dal quale era uscito Ben. Dopo pochi metri Bingle partì di corsa, per ritornare subito da me abbaiando. «Bien, bien... cállate, Bingle», sussurrai temendo che Parrish' potesse sentirlo. «¿Dónde está Ben?» chiesi di nuovo, e il cane ripartì, fermandosi di tanto in tanto per voltarsi. Ero certa che mi stesse chiedendo di far presto. Lo lodai anche se ero terrorizzata all'idea di vedere un altro cadavere da vicino. Il corpo immobile di Ben Sheridan era disteso prono accanto a un grosso masso. Aveva il viso e la gamba sinistra coperti di sangue. Bingle cominciò a leccarlo, ma non notai alcuna reazione. Ricordai una cosa che David aveva detto a proposito del cane: Bingle non leccherebbe mai un cadavere. M'inginocchiai accanto a Ben, gli poggiai le dita sul collo per sentire il battito. «Bingle», dissi con le lacrime agli occhi. «¡Qué inteligente eres!» Ben Sheridan era vivo. Ero decisa a farlo restare tale, cascasse il mondo. Ce l'avevamo fatta entrambi. 18 GIOVEDÌ 18 MAGGIO, POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale Dovevo organizzarmi. Di certo non potevo chiamare un'ambulanza, e il solo fatto di essere cosciente mi trasformava automaticamente nella cosa più simile a un dottore. La cosa più importante e più difficile, la regola numero uno, era: non perdere la testa. Due problemi complicavano la situazione: il primo era che ciò che separava il nome di Ben Sheridan dall'aggettivo «morto» era un semplice «non
ancora». Il secondo era che Parrish sarebbe potuto comparire da un momento all'altro sul quel crinale e, se non fossi riuscita a trascinare via dal prato Ben, saremmo diventati due trofei in più. Cercai di non pensare all'odore di morte che mi circondava, al fatto che avevo appena visto sette bravi uomini massacrati senza pietà, alla pioggia... per concentrarmi su ciò che era davvero importante. Mi tornò in mente la prima lezione di pronto soccorso. Mi avvicinai alla sua bocca per sentire il fiato. Fu un sollievo: respirava, il cuore batteva. Lo chiamai varie volte. Non rispose. Bingle abbaiò e Ben si lamentò, piano, debolmente. Aspettai. Niente. Comandai al cane di sedersi e di non muoversi e lui obbedì. Ben si mosse come se il comando fosse diretto a lui. Ricordai una frase dell'istruttore di pronto soccorso: la coscienza non ha un interruttore. Chi ha perso conoscenza può ugualmente reagire al dolore e ai comandi. Feci un altro tentativo. «Apri gli occhi, Ben!» Niente. Riprova, mi ordinai. Controlla che non stia perdendo sangue. La ferita alla testa non sanguinava più. Non sembrava un taglio profondo, ma sotto c'era un bernoccolo di notevoli dimensioni. L'altra ferita evidente era quella alla gamba. Mi tornò in mente la scena di Pete, il partner di mio marito, che tentava disperatamente di tamponare lo squarcio alla testa di una vittima: in seguito seppe che era morta per una minuscola ferita alla schiena causata da un proiettile che le aveva perforato un polmone. Controllai con cura per verificare che non avesse subito altri danni. No. In compenso trovai un paio di guanti di lattice in una tasca della camicia. Li indossai, estrassi di nuovo il coltello e tagliai la gamba dei pantaloni. In altre circostanze sarei rimasta inorridita, ma dopo ciò che avevo visto qualche minuto prima non ebbe il potere di scioccarmi. Il proiettile era entrato dalla parte anteriore della gamba, fra ginocchio e caviglia, ed era uscito dall'altra parte, quella più danneggiata. Un osso era sicuramente rotto. Aveva perso sangue in abbondanza - per il mio occhio inesperto ce n'era moltissimo -, ma l'emorragia si era quasi fermata. I pochi strumenti di pronto soccorso che mi ero portata non erano i più adatti a curare ferite da arma da fuoco, però avevo garza e cerotti a sufficienza per fare una fasciatura ben stretta. Ben si lamentò. Mi avvicinai al suo viso e lo chiamai. Mi avevano inse-
gnato che bisognava ripetere più volte il nome del ferito. Aprì gli occhi e mi fissò. «Ben, riesci a sentirmi?» Chiuse gli occhi. «Ben!» Mi guardò di nuovo. Bingle abbaiò. Ben voltò lentamente la testa verso il cane, gemette e richiuse gli occhi. «Piove», disse con un sussurro. «No», risposi. «Ora ha smesso.» Nessuna reazione. «Ben, Ben!» «Va' via.» «Ben, svegliati!» Non rispose. «Ben Sheridan, ascoltami! Non voglio farmi sparare per causa tua, perciò svegliati!» Niente. «Bingle ha bisogno di te, capito? Che direbbe David se sapesse che non ti sei preso cura del suo cane?» «David», mormorò triste. Aprì gli occhi. «Ti fa male qualcos'altro a parte la testa e la gamba?» Aggrottò la fronte. «Non lo so, non riesco a capire.» Sollevò il capo e tentò di muoversi. «Mi gira la testa», mormorò chiudendo gli occhi. «Ti fanno male il collo e la schiena?» «No... la testa. La gamba... deve essere rotta.» Gli presi la mano destra. «Stringimi la mano.» Lo fece. Debole, ma pur sempre una stretta. Feci lo stesso con la sinistra. «Hai superato brillantemente il test numero uno.» Mi avvicinai ai suoi piedi. «Prova a muovere il destro, Ben.» Lo mosse. «Il sinistro.» Non ci riuscì, ma urlò per il dolore. «Non ci riesco», sussurrò. «Non ci riesco.» «Non preoccuparti. Adesso dobbiamo solo cercare di andarcene da qui. Poi potrai dormire quanto vuoi, ma non ora. Resta sveglio.» «D'accordo», obbedì, poi aggiunse: «per Bingle». «Come vuoi, testa di legno. Basta che resti sveglio.» Vidi un debole sorriso. Era ammirevole da parte sua. Non molti sarebbero stati in grado di sorridere in preda a un dolore così acuto.
«Non posso lasciarti qui. Parrish potrebbe tornare.» Si rotolò sul lato destro nel tentativo di alzarsi; vomitò. «Cristo», disse. «Sarà perché hai battuto la testa.» Mi tolsi il bandana e gli pulii il viso, poi lo aiutai a sciacquarsi la bocca. «Come minimo devi avere avuto una commozione cerebrale. Meglio che ti metta su un lato, nel caso vomitassi di nuovo: la posizione supina è pericolosa.» Lo aiutai a sollevare la testa per bere. Sembrava assetato ma presto chiuse gli occhi. «Va' via.» «Resta sveglio, Ben.» «Va' via.» «C'è Bingle, ricordi?» «Dannato cane», borbottò, ma riaprì gli occhi. Lo aiutai a trovare una posizione più comoda e feci il possibile per evitargli un collasso circolatorio, ma non avevo niente a portata di mano e soprattutto volevo allontanarmi da quel prato. Continuai a tenere d'occhio il crinale. Nessun segno di Parrish. Non ancora. «Bingle», ordinai. «¡Cuídalo!» Il cane si avvicinò a Ben. «Cosa?» mi chiese stordito. «Che hai detto?» «Parlavo a Bingle. Gli ho detto di aver cura di te. In realtà è un esperimento, ma sembra che conosca il comando.» «Cosa?» ripeté Ben. «Resta sveglio.» Mi allontanai di corsa per fare un altro sopralluogo nei pressi della fossa. Dovevo concentrarmi sugli oggetti per non pensare ai resti dei morti sparpagliati tutto intorno. Non feci troppa attenzione e sentii qualcosa che scricchiolava sotto il piede destro... un osso. Calma, va' avanti. Non farci caso, non può farti del male. Non mi fermai; temevo sempre che Parrish ricomparisse. Sentivo la paura nelle caviglie e nelle ginocchia e i miei passi si fecero goffi e lenti. Smettila di pensare a lui! Per l'amor del cielo, sbrigati! Ben ha bisogno di te. Trovai una delle sacche di tela degli antropologi con l'attrezzatura intatta. Lo stesso valeva per quella con le cose di Bingle. Le presi entrambe e le portai da Ben. Lodai il cane e non potei fare a meno di notare che sembrava felice di avere qualcosa da fare.
Steccai la gamba sinistra con i supporti dei setacci che erano serviti a esaminare il terreno e un rotolo di nastro adesivo trovato nella sacca. Presi anche qualche oggetto che pensai mi sarebbe stato utile in seguito, tra cui una piccola cerata, e infilai tutto nel mio zaino. Ben aveva di nuovo perso conoscenza, ma quando lo chiamai rinvenne e si sforzò di mettersi seduto. «Hai sete?» Deglutì e annuì debolmente. Gli ressi la bottiglia e stavolta riuscì a bere un po' di più. «Temo che ti farò molto male, però dobbiamo raggiungere gli alberi. Da lì è probabile che debba spostarti ancora... ti prometto che sarà il minimo indispensabile. Devi aiutarmi.» Lui ubbidì. Usai tutte le mie forze per sollevarlo; riuscì a mettersi in piedi. Non era assolutamente in grado di reggersi sulla gamba sinistra, si appoggiò pesantemente a me e tentò di saltellare, ma svenne per il dolore. Riuscii a stento a farlo sdraiare per terra senza che cadesse. Mi imposi di mantenere la calma, ma immaginavo Parrish che prendeva di mira la mia testa mentre stendevo la cerata. Sarebbe riuscito a colpirmi da quella distanza? Forse no, però mi acquattai lo stesso nell'erba alta. Ben rinvenne, e la cosa fu certo d'aiuto quando fu il momento di sistemarlo sulla cerata, eppure, sapendo ciò che lo aspettava, avrei preferito che restasse incosciente. Sollevai un angolo del telo e cominciai a trascinarlo sul terreno accidentato. «Bingle», chiamò a fatica Ben facendo un lieve cenno con la mano. Il cane si fermò a guardare lo scarpone di David, ma alla fine ci seguì. Mi alzai in piedi. Nonostante desiderassi restare nascosta, dovevamo spostarci di lì. Non avevo alternativa. Procedevo lentamente, Ben non si lamentò. Quando raggiungemmo la boscaglia, vidi che il viso sporco di polvere e sangue era rigato di lacrime. Mi fermai e lui se le asciugò, imbarazzato. I miei pensieri erano altrove. Ansando per lo sforzo, guardai il crinale. Dove sei, Parrish? Era tornato? Per quanto ne sapevo, poteva anche essersi nascosto fra gli alberi davanti a noi, pronto ad aggredirci. Restai in ascolto e sentii un centinaio di rumori che potevano provenire da lui. Mi voltai verso il prato. Non c'era scelta. Qualcosa colpì il terreno alle mie spalle e sobbalzai spaventata. Mi spostai per proteggere Ben e lo sentii dire: «Era una pigna caduta dall'albero».
«Oh! Pensavo che fosse...» «Osserva Bingle», mormorò a denti stretti con gli occhi chiusi per il dolore. Studiai il cane, che a sua volta mi stava osservando tranquillo. Capii all'istante ciò che voleva dirmi Ben: se Parrish fosse stato nei paraggi Bingle se ne sarebbe accorto. Trascinai Ben nel bosco finché gli ostacoli non ci impedirono di proseguire. Lo aiutai a rimettersi in piedi e cercai in qualche modo di caricarmelo sulla schiena per continuare il percorso. Nonostante fossi in buona forma fisica l'impresa era davvero ardua. Il terreno irregolare mi impediva di procedere agevolmente. Di tanto in tanto Ben urlava, nonostante gli sforzi per nascondere il dolore, e Bingle uggiolava per solidarietà. Quando giungemmo in una zona con meno sassi, cespugli e rami, lo misi giù. Era svenuto. Mi concessi qualche minuto per riprendere fiato, distesi di nuovo la cerata e vi appoggiai sopra il corpo abbandonato di Ben. Lo trascinai dove gli alberi erano più fitti. Raggiungemmo il torrente. Comandai a Bingle di non muoversi, perché l'acqua era profonda e temevo che non sarebbe riuscito a nuotare se fosse caduto. Con un rapido sguardo individuai un punto relativamente stretto dove poter attraversare. In ogni caso non sarei riuscita a trasportare Ben, quindi tagliai la cerata e gliela arrotolai intorno alle gambe fermandola con il nastro adesivo per evitare che si bagnasse nel caso fossi caduta. Riuscii a farlo stare sveglio quanto bastava perché si aiutasse a sistemarsi sulla mia schiena. Lentamente, facendo molta attenzione, passai da un sasso piatto all'altro. Persi l'equilibrio soltanto una volta, a metà strada: l'acqua gelida mi arrivò fino al ginocchio e rischiai di far cascare Ben. Finalmente raggiungemmo l'altra riva. Lo avevo strattonato malamente, e quando lo stesi fra gli alberi, sull'altra sponda, mi resi conto che era ancora in stato d'incoscienza. L'impresa ci aveva impegnati per ore, e mi chiesi quanto sangue avesse perso. Lo voltai su un lato: così avrebbe potuto respirare senza il rischio di soffocarsi se avesse vomitato. Tagliai la cerata che lo avvolgeva. Perlomeno uno di noi era rimasto asciutto. Bingle mugolava inquieto nel timore di essere abbandonato. Lo raggiunsi più in fretta che potei: attraversare senza il peso del ferito sulle spalle era molto semplice. Legai il cane con il guinzaglio a pettorina e tornai indietro con lui. Bingle raggiunse la riva opposta senza incidenti. Dopo un'altra perlustrazione trovai un posto che sembrava piuttosto sicuro, al riparo sia dal prato sia dal torrente, e vi trascinai Ben. La preoccu-
pazione successiva fu quella di evitare che gli venisse un collasso circolatorio. Dovevo tenerlo caldo. Mi tolsi il giubbotto e gli strati di vestiario di cui potevo fare a meno. Poi, memore della mia prima notte su quelle montagne, ordinai a Bingle: «Duerme con él». Dormi con lui. Il cane inclinò la testa da un lato, forse chiedendosi il significato del comando a quell'ora del giorno, ma quando continuai a guardarlo come se mi aspettassi che obbedisse, si avvicinò lentamente a Ben e gli si accucciò accanto. Ero stanca, ma tornai sui miei passi il più in fretta possibile, oltre il torrente, oltre la foresta fino all'accampamento che avevamo allestito al mattino. Non volevo lasciare Ben da solo più a lungo del necessario, né venire sorpresa lì se Parrish fosse tornato. Il campo era piuttosto distante dal nostro nascondiglio. Non sapevo quanto Parrish conoscesse la zona, anche se la pista d'atterraggio, l'albero dei coyote e le due tombe indicavano che l'aveva frequentata parecchio. Non potevo nascondermi a lungo, dovevo solo aspettare che J.C. e Andy tornassero in elicottero. Avrebbero fatto presto, mi dissi. Il campo era stato messo a soqquadro. Parrish aveva svuotato gli zaini: stoviglie, supporti di tende, abiti, sacchi a pelo e altri oggetti erano sparpagliati dappertutto, perlopiù bagnati. Ma qualcosa di intatto, per fortuna, era rimasto. Trovai il mio zaino, gli diedi un'occhiata e notai che era tutto a posto. Indossai i vestiti che potevano tenermi calda. Persi la calma che ero riuscita a mantenere fino a quel momento solo quando mi accorsi che Parrish aveva preso tutta la mia biancheria, eccetto un paio di slip. Alla luce di quanto era successo quel giorno non dovevo certo preoccuparmi per quel particolare... perlomeno me ne aveva lasciato un paio pulito. Cercai di concentrarmi sul mio compito. Raccolsi tutto ciò che ricordavo di aver visto addosso a Ben, poi cambiai idea. Se Parrish fosse tornato al campo e avesse notato che gli unici vestiti mancanti erano quelli miei e di Sheridan, avrebbe capito che anche lui era vivo. Questa riflessione mi portò al compito successivo, uno dei più difficili. Mi convinsi che non era come razziare un campo di battaglia, rubare il denaro dai cadaveri dei soldati, e cominciai a cercare fra gli effetti personali dei morti. Preferivo non pensare a chi erano appartenuti gli indumenti o cosa fosse successo a quelle persone. Trovai il cavallino di legno intagliato da Duke e a stento trattenni le lacrime. Lo infilai nello zaino nonostante
fosse un peso inutile. Resta viva, tieni vivi Ben e Bingle. Prima le cose più importanti. Presi una sacca di tela, la più grande che trovai, e cominciai a raccogliere i vestiti dei morti e a mescolarli con quelli di Ben. Pensai al cibo; quando rovistai fra le vettovaglie, però, trovai soltanto tre pacchetti di zuppa di pollo di Manton e la pappa di Bingle. Avevo l'acqua, un filtro e diverse pastiglie per purificarla. Se fossero venuti a prenderci presto non avrei neppure dovuto dar da mangiare al cane. Quando Parrish aveva fatto razzia, solo una tenda era montata, ma trovai tutte le altre fuori dalle custodie di nylon, sparpagliate insieme a supporti, teli per la pioggia, tiranti. Individuai vari pezzi della mia, compreso il telo per la pioggia, intatto. A questi oggetti aggiunsi due kit di pronto soccorso ben forniti, tre sacchi a pelo, due materassini isolanti, il mio fornellino e le stoviglie, una torcia, tre candele, una cerata, della corda, un kit da barba con il nome di Ben, un secchio di plastica e qualche altro oggetto di prima necessità. Per un incredibile colpo di fortuna trovai le medicine che Earl usava per l'infezione all'orecchio: c'era un flacone di antinfiammatori e un altro che avrebbe potuto aiutarmi a salvare la vita di Ben. Sull'etichetta c'era scritto Keflex, un antibiotico. Ben era rimasto per più di un'ora sul prato bagnato con le ferite aperte e temevo che sviluppasse un'infezione. Ora avevo un'arma con cui combatterla. Mi caricai lo zaino in spalla e mi diressi verso un punto del torrente più a monte, lasciando sul terreno orme come se fossi diretta alla pista d'atterraggio. Tornai indietro, stavolta facendo attenzione a non lasciare segni del mio passaggio, presi la sacca di tela e feci ritorno da Ben e Bingle. Il vento impedì al cane di fiutare il mio odore e lo sentii ringhiare mentre mi avvicinavo. Lo chiamai piano, temendo che cominciasse ad abbaiare o che addirittura mi aggredisse. Ben era sveglio. «Come va?» chiesi, mentre appoggiavo la sacca. «Gli altri...?» Scossi la testa. Distolse lo sguardo. Srotolai in fretta un sacco a pelo e lo coprii. Con parole scandite, come uno che, dopo essersi scolato una bottiglia di whisky, tenta di non sembrare ubriaco, borbottò: «Dovresti lasciarmi qui».
«Non cominciare a dire cazzate», replicai. «Non sono affatto cazzate. Ho ragione.» «Hai preso una botta in testa, sei ferito a una gamba e hai subito una perdita enorme di sangue; non pretenderai che ti dia ragione.» Sospirò. «E poi», aggiunsi, «sarebbe la prima volta che lo ammetto.» «È vero», concordò, e ammutolì. «Sei per caso allergico al Keflex?» Scosse il capo. La posologia sull'etichetta era di quattro compresse al giorno. Gliene diedi due e lo aiutai a bere. «Grazie», mormorò. «Non c'è di che.» «Di chi erano?» «Di Earl.» Prima che potesse pensarci troppo aggiunsi: «Adesso monto la tenda, poi una volta sistemati cercherò di medicarti meglio... almeno starai al caldo e all'asciutto». Mi misi al lavoro, e, una volta terminato, diedi un'occhiata al cielo nero; decisi quindi di aggiungere il telo per la pioggia. All'interno, con Ben, Bingle e l'attrezzatura non rimaneva molto spazio per muoversi. Per fortuna non ebbi attacchi di claustrofobia. Ero distratta da altri pensieri, e mi ero accorta che la gamba di Ben aveva ripreso a sanguinare. Ora disponevo di qualche strumento in più, quindi gli tolsi le stecche e la fasciatura provvisoria. Al di sotto della ferita la gamba era di un brutto colore grigio. A un certo punto un mio movimento maldestro lo fece urlare per il dolore. «Scusa», dicemmo contemporaneamente. Rifeci la steccatura. Controllai anche la ferita alla testa che si era riaperta, ma che non sanguinava quanto la gamba. Gli pulii il viso dalla sporcizia e dal sangue coagulato. Era molto pallido e freddo e, per quanto fosse cosciente, apatico. Gli allentai i vestiti, gli sollevai i piedi e lo coprii con un altro sacco a pelo. «Parlami, Ben.» Mi guardò come se lo avessi svegliato da un sonno profondo. «Come mi chiamo?» gli chiesi. Dopo un lungo, spaventoso momento, glielo chiesi di nuovo. «Irene», rispose. «Quante dita sono?»
Lunga pausa. «Quattro.» La risposta esatta era due. «Come ti chiami?» «Ben.» «E il cane?» «Bingle.» Bingle, che stava annusando il contenuto della sacca di tela, sentì il suo nome e si avvicinò. In bocca aveva il maglione di David. Lo posò a terra, ci strofinò contro il muso e poi vi si accucciò sopra, con la testa sulle zampe. «David», sussurrò Ben, chiudendo gli occhi. Gli presi la mano e gliela strinsi mentre piangeva in silenzio. So che chi è ferito alla testa è facilmente impressionabile, ma anche se Ben fosse tornato dal prato illeso, non avrei potuto biasimarlo se avesse pianto tutta la notte. Il cane sembrava preoccupato, e gli posò la testa sul petto. Lui cominciò ad accarezzarlo, ma presto si stancò e si addormentò poco dopo aver ricevuto dall'animale una leccata sulla guancia. Gli lasciai la mano. Diedi qualcosa da mangiare a Bingle, che non si avvicinò neppure al cibo disidratato. Non conoscevo la formula dell'elaborata preparazione di David, ma non doveva essere quello il motivo del suo rifiuto. Ben si svegliò una volta e lo feci bere. Non dovevo sprecare l'acqua piovana, quindi trovai il sistema per raccoglierla nel secchio utilizzando un sacchetto dei rifiuti. Non appena sentii che Ben si muoveva preparai una zuppa. Sembrava più vigile e non vedeva più doppio; era ancora pallido, ma non bianco come qualche ora prima, e parlava in modo comprensibile. Ero sollevata per l'evidente miglioramento, e con pazienza lo aiutai a mangiare. Trangugiai anch'io un po' di zuppa, lasciandogli la porzione più abbondante: se non si nutriva non sarebbe migliorato, mentre io potevo recuperare altro cibo se ne avessi avuto bisogno. «Grazie», mormorò quando ebbe finito, poi aggiunse: «So che non potresti immaginare un destino peggiore di essere bloccata qui con me...» «È buffo, ma stavo per dirti la stessa cosa. So che non ti fidi di me, e questa dipendenza dev'essere piuttosto umiliante.» Ben scosse la testa. «Lasciami qui, domani. Pensa a metterti in salvo.» «In effetti il tuo martirio mi risparmierebbe un bel po' di guai, ma temo che senza qualcosa da fare tutto il giorno cadrei in crisi.» Sorrise. «Non voglio ritrovarmi là fuori da sola con Parrish, Ben.»
Ci rifletté su un attimo e poi disse: «Facciamo una tregua?» «Sì... più di una tregua. Un'alleanza.» «Un'alleanza, allora», ribatté, poi si distese, e si addormentò prima che ricominciasse a piovere. Bingle era accucciato tra noi con la testa sul maglione di David di cui si era appropriato. Sperai che potesse bastargli e che il mattino dopo non andasse in cerca dello scarpone. La tenda era completamente al buio. Non volevo scaricare le batterie della torcia, e accendere una candela in un ambiente del genere è fra le cose più stupide che si possano fare: anche se non diventa un forno si riempie di monossido di carbonio. Decretai il blackout: Parrish poteva essere nei dintorni, a caccia di una luce che gli svelasse la nostra posizione. Chissà dov'era Frank, che cosa stava facendo. Sicuramente era preoccupato e la pioggia lo avrebbe messo ancora più in ansia. In altre circostanze mi avrebbe infastidito, ma quella notte fu un sollievo sapere che Frank avrebbe fatto di tutto perché qualcuno venisse a cercarci il più presto possibile. Più ci pensavo, più ne ero certa. Sarebbe venuto. Non ci avrebbe lasciati nelle grinfie di Parrish. Mi calmai. Mi sforzai di pensare a Parrish non come a un misterioso orco, il mostro che tortura le donne e che mette ordigni nelle tombe, ma come a un nemico in carne e ossa. Non era dotato di poteri soprannaturali, e pioveva anche sulla sua testa. Ascoltai il respiro di Ben e di Bingle, i gemiti di Ben e il russare di Bingle. Dovevo essere fiera dei miei alleati. Forse non avrei catturato né ucciso Parrish, ma se fossimo sopravvissuti tutti e tre sarebbe stata una grande vittoria. La pioggia continuava a cadere, sempre più forte. Ero esausta, ma i fantasmi del prato e il pensiero del nostro comune nemico mi tennero sveglia a lungo. Alla fine, conscia che il riposo era un'arma, mi addormentai. 19 GIOVEDÌ 18 MAGGIO, POMERIGGIO Deserto del Mojave «Lasciate entrare me per primo», disse Jack Fremont mentre Travis fer-
mava il furgone all'imbocco di un vialetto ghiaioso lungo il quale, a detta di Jack, era meglio non avventurarsi. L'uomo da cui erano in visita era estremamente geloso della sua proprietà privata. Frank era seduto sul sedile posteriore con i cani. «So che questi ritardi ti fanno penare», continuò Jack, «ma se riusciamo a superare i suoi rituali di benvenuto, Stinger ci farà risparmiare tempo prezioso.» «Non se il tempo continua così», ribatté Frank lanciando un'occhiata preoccupata al cielo. «Forse se resta così no», concordò Jack, «ma non sarebbe possibile procedere neppure a piedi. Il fango rallenterebbe la marcia.» «Sei sicuro che ci possiamo fidare di questo tipo?» chiese Frank guardando perplesso il bizzarro edificio che si stagliava in fondo al vialetto. Era una casa «artigianale», sempre che così si potesse definire un ammasso di pietre, legno e cemento; sembrava più un incrocio fra una capanna di tronchi e un castello medievale che non un posto in cui abitare. «Affiderei a Stinger Dalton la mia vita; anzi, l'ho già fatto in più di un'occasione. Dammi solo qualche minuto per convincerlo a ricevere ospiti.» Osservarono Jack percorrere il vialetto con le mani in alto, come se fosse sotto tiro. «Certo, gli affiderebbe la sua vita», commentò Travis. «Sembra che il tipo sia pronto a prendersela senza troppi convenevoli.» Frank scosse il capo. «Abbassa un po' il finestrino, voglio sentire.» Se non avesse avuto scelta sarebbe andato a cercare Irene da solo, ma si era sentito sollevato quando Travis aveva insistito per seguirlo. Poco dopo li aveva raggiunti Jack, e, notando i preparativi, si era offerto di accompagnarli. Meglio ancora: Jack era un uomo pieno di risorse e un ottimo camminatore; se il paragone poteva calzare, avrebbe affidato la sua vita a Jack allo stesso modo in cui Jack la affidava a Stinger Dalton. Di rado Frank accordava questo genere di fiducia. Era il loro vicino di casa, ed era preoccupato per Irene. Non aveva neppure tentato di dissuaderlo dall'andare in montagna a cercarla. Senza alcuna esitazione, si era semplicemente offerto di dargli una mano. Osservando la scena di Jack che camminava lungo il viale con le mani alzate si chiese se già in quel momento l'amico non stesse rischiando la vita per trovare sua moglie. Come se avesse avvertito quella preoccupazione,
Jack si voltò e sorrise. Deke e Dunk sporsero il muso dal finestrino e osservarono inquieti. L'idea di portarli era stata di Jack. «Non sono addestrati a cercare», aveva obiettato Frank, «e non voglio stare in pensiero per loro. Non riusciranno a trovare il gruppo prima di noi.» «C'è un cane, in quella spedizione, vero?» «Sì.» «Forse troveranno lui, e comunque sono venuti in campeggio con me più di una volta. Si comporteranno bene.» «Probabilmente per te lo faranno», disse Travis, formulando ad alta voce il pensiero di Frank. Alla fine, era stato deciso che i cani avrebbero partecipato alla spedizione. Sistemato il gatto, Frank informò Pete Baird del suo piano per ritrovare Irene. Dopo aver ascoltato il predicozzo del partner sugli inevitabili problemi che avrebbe avuto al lavoro, aveva rifiutato la sua offerta di accompagnarli. «Mi farebbe molto piacere averti con me, ma è meglio che nei guai ci si metta uno solo di noi. Ho bisogno che tu resti per implorare la mia riassunzione, e poi, se mia moglie dovesse tornare a casa sana e salva prima di me, le dirai dove sono. Ci deve pur essere qualcuno che mi tenga informato su come vanno le cose e che mi contatti finché il mio cellulare avrà ancora campo.» «C'è altro che posso fare prima che ti licenzino per aver interferito con l'indagine di Thompson?» chiese Pete. «Sì. Se non siamo di ritorno per le sei di domenica, vieni a cercarci.» Ora Frank era sul furgone e guardava l'uomo che, a detta di molti, era il suo più improbabile amico. Jack Fremont, coperto di tatuaggi e con un sacco di cicatrici sul viso, indossava un giubbotto di pelle nera, aveva la testa completamente rasata e portava un anellino d'oro al lobo: uno stile che si addiceva perfettamente al suo passato di capo di una banda di motociclisti. Il fatto che fosse nato in una famiglia ricca e che, dopo aver trascorso un certo numero di anni sulla strada, fosse diventato uno degli uomini più facoltosi di Las Piernas, sorprendeva quasi tutti quelli che lo venivano a sapere, perché lui non sbandierava la cosa. Era più credibile nel ruolo che interpretava in quel momento. «Stinger Dalton, vecchio orso figlio di puttana, metti via le armi!» gridò.
«Jack?» rispose una voce bassa e roca. «Ehi, non riesco a credere alle mie orecchie. Ti credevo morto!» «Cosa? E credi che non sarei venuto a perseguitarti?» La porta d'ingresso si aprì e sulla veranda malridotta comparve un uomo magro armato di doppietta. Era di media statura, indossava un paio di jeans, stivali pesanti e una maglietta azzurra senza maniche. Portava i capelli lunghi e grigi legati in una treccia; le braccia erano ricoperte di tatuaggi. Non appena lo videro, i cani cominciarono a guaire. «Silenzio», intimò Frank, che voleva ascoltare la conversazione. «Che diavolo hai fatto ai capelli, fratello? E chi ti ha ridotto la faccia così?» «Mi fai le stesse domande tutte le volte che mi vedi. Dovresti farti scrivere qualche battuta nuova. Metti via quel fucile, che voglio presentarti due amici.» Dalton guardò il furgone con sospetto. «Non ti porterei mai dei guai a casa, Stinger. Lo sai bene.» «Niente federali?» «Merda, Stinger. Sappiamo entrambi che non hai niente da nascondere ai federali.» «Uno di loro è per caso un federale?» ripeté ostinato. «No, è un poliziotto...» «Cosa?» Dalton sollevò il fucile. Cristo, pensò Frank, dovevi proprio dirglielo? «Ascoltami bene, Stinger, fra un po' mi offendo», disse Jack con calma. «È un poliziotto, ma non è venuto per una denuncia, né niente del genere. È un mio amico, si chiama Frank, e ti ho parlato di lui: lavora nella squadra omicidi di Las Piernas e ha bisogno di te per una cosa che non c'entra niente col suo lavoro... sempre che non lo perda.» «Non ti seguo», ribatté Dalton restando dov'era. «È un caro amico come lo sei tu, Stinger, Ti ricordi che ti ho parlato del marito di Irene?» A quelle parole, Dalton abbassò il fucile. «Facci entrare e ti spiego tutto. Se ti fidi di me non hai motivo di lasciarmi qua fuori.» «Era tanto che non ti vedevo», si giustificò Dalton. «Cazzate. Sono venuto un mese fa e, fra l'altro, tieni presente che il mio amico è quello che mi presta i cani.» «I cani del tuo vicino...»
«Già, quasi me ne dimenticavo! Ho qui un paio di amici a quattro zampe che hanno voglia di rivederti.» Sul viso di Dalton apparve un sorriso. «Porta tutti in casa.» Si voltò ed entrò. A un cenno di Jack, Travis mise in moto. «Che ne pensi?» domandò a Frank mentre percorrevano il vialetto. «Credo che Jack sia libero di presentare i miei cani e di parlare di mia moglie ai pazzi. Se però sostiene che Stinger è un suo caro amico, mi riservo di dare ulteriori giudizi.» Travis non rispose, ma Frank notò il suo sguardo divertito. Deke e Dunk schizzarono fuori dal furgone e si precipitarono verso Dalton che era uscito di nuovo sulla veranda, questa volta disarmato. Con grande sorpresa di Frank, però, i cani rallentarono e gli si avvicinarono con un comportamento esemplare, con le orecchie basse e menando la coda. Dalton fece loro un sacco di complimenti e li accarezzò a lungo. Si raddrizzò e tese una mano, mentre Jack diceva: «Doug Dalton, questo è il mio amico Travis Maguire, il cugino di Irene». «Ma sei solo uno sbarbatello», osservò Dalton. «Ha girato tutto lo stato», lo informò Jack. «È un cantastorie.» «Un cantastorie!» commentò Dalton, ma notando l'occhiata di Jack tenne per sé ulteriori commenti. Si voltò verso Frank. «E tu devi essere il poliziotto.» Lo disse senza alcun rancore e gli strinse forte la mano, con un sorriso di benvenuto. «Stinger mi ha insegnato tutto quello che so sull'addestramento dei cani», spiegò Jack. «Ha conosciuto Deke e Dunk una volta che ci siamo fermati qui lungo la strada per il campeggio. È anche il miglior pilota di elicotteri che conosca, e mi ha salvato il culo in più di un'occasione quando giravamo in moto insieme. Adesso mi protegge dal più acerrimo nemico che abbia mai avuto.» «Sono il suo fiscalista.» «Il suo fiscalista!» esclamò Travis. «Vengono in molti fin qui a chiederle consigli?» «Oltre a quelli che vivono nella zona e a chi mi contatta via fax o modem?» chiese Dalton. «Solo una combriccola di bastardi a cavallo delle loro Harley.» Travis era esterrefatto. «Mica tutti i motociclisti sono delle teste di cazzo o dei violenti, al gior-
no d'oggi. Un sacco di dirigenti e uomini d'affari girano con le Harley; e quanto ad attaccar briga ci siamo stancati di quella merda. E poi, anche i poliziotti vanno in moto», aggiunse lanciando un'occhiata a Frank. «Mi dispiace, lui no. Ma non siamo qui per...» «Mi scuso per l'accoglienza», lo interruppe Stinger. «Sapete, sono molto geloso della mia privacy. Venite.» Poco prima di entrare, il cellulare di Frank squillò; rimase quindi sulla veranda temendo di non riuscire a captare il segnale dentro la fortezza di Dalton. Quando raggiunse gli altri, li trovò seduti intorno a un grosso tavolo di quercia grezza al centro di una stanza enorme: i pochi mobili erano altrettanto spartani. Jack lo guardò e chiese: «Qualcosa non va?» «Era Pete. Il gruppo si è ridotto ulteriormente: il botanico e la guardia forestale si sono allontanati con il cadavere ritrovato che, per quanto ne sappiamo, dovrebbe essere quello di Julia Sayre; hanno riferito che gli altri sono rimasti a lavorare su un'altra tomba. Sembra che Parrish abbia lasciato intendere che ce ne siano altre undici...» «Undici!» «Sì. Pete non mi ha fornito molti dettagli, ma credo che si fossero appena allontanati da un prato e si trovassero su un crinale quando Parrish ha fatto capire che in quel posto erano sepolti altri cadaveri. Dapprima Thompson ha pensato a uno scherzo, però il vento è cambiato e il cane ha dato l'allarme. Il gruppo ha deciso di scendere nell'altro prato per controllare, mentre il botanico e la guardia forestale raggiungevano l'aereo. Nel frattempo la guardia ha chiamato via radio un elicottero, con cui sarebbe tornato a recuperare il resto della compagnia nel punto in cui li aveva lasciati, ma quando l'elicottero è arrivato alla pista si è messo a piovere. Il pilota ha detto che sarebbero partiti più tardi... con una pioggia del genere avrebbero avuto problemi addirittura a tornare alla base. «Pare che il tempo peggiorerà, nelle prossime ventiquattr'ore. Oggi non manderanno nessun velivolo: il pilota dell'aereo ha detto che se i due fossero arrivati anche solo un'ora più tardi non sarebbe riuscito ad alzarsi.» «Maledetti cacasotto!» sbottò Dalton. «Non gli ho ancora detto niente», intervenne Jack, «ma come vedi si è già fatto la sua opinione.» «Eccome!» Dalton incrociò le braccia sul torace magro. «Quanto tempo fa quei due hanno lasciato il gruppo?»
«Stamattina. La pioggia e il cadavere che trasportavano hanno rallentato la marcia. Il mio partner cercherà di mettersi in comunicazione con loro, anche se mi sembra alquanto difficile. Quello che sa gliel'ha detto il pilota dell'aereo.» Non aggiunse altro; Travis domandò: «Sembravi piuttosto sconvolto quando sei entrato. Ci nascondi qualcosa?» «Non lo so. Forse è una stupidaggine... più di un quarto di quelli che erano partiti non sono più con il gruppo. Pete ha detto che, secondo il pilota, i due non erano affatto contenti di lasciare gli altri. Il botanico aveva promesso che sarebbe restato sempre con il cadavere, e non sembrava contento all'idea di lasciare lassù i compagni; la guardia forestale era ancora più irremovibile su questo punto. Quando il pilota ha chiesto quale fosse il problema, dato che il gruppo aveva cibo a sufficienza per un paio di giorni, il forestale ha detto che gli agenti erano stanchi.» «Mmm», commentò Jack, cupo. Poi, rivolto a Travis, domandò: «Perché non tiri fuori le due carte topografiche con i nostri segni? Se qualche campeggiatore in più si presenta da quelle parti non si offende nessuno, no?» «È un paese libero», osservò Dalton con un sorrisetto. «Be', se lo dice un fiscalista...» borbottò Jack. Travis spiegò le carte, e su una delle due indicò un punto su un crinale situato a occidente. «Qui c'è la pista d'atterraggio di fortuna.» Spostò il dito lungo una linea che univa una serie di puntini. «Questo è il percorso che crediamo stessero seguendo quando l'avvocato si è infortunato.» «Quanti giorni fa è successo?» «Martedì», rispose Frank. «Due giorni fa.» «Mmm.» Dalton guardò la carta accigliato. «Quanta gente hai detto che c'era, in questa spedizione?» «Prima o dopo che l'avvocato tornasse a casa?» «Dopo.» «Dodici persone e un pastore tedesco. La guardia forestale si è allontanata per circa un giorno e li ha raggiunti dopo aver accompagnato l'avvocato.» «E lui e il botanico sostengono che gli altri erano stanchi ma stavano bene?» «Sì.» «Quell'uomo non ha passato molto tempo con loro, esatto? Insomma, dopo che l'avvocato si è fatto male lui ha dovuto fare avanti e indietro, riprendere il gruppo e andarsene di nuovo. Non ha fatto altro che andare a-
vanti e indietro.» «Credo di sì, almeno così mi sembra.» «Raccontami qualcosa dei membri del gruppo, lasciando perdere il forestale, però. Non credo che c'entri molto. Mi interessano gli altri.» «Compreso Parrish?» «Soprattutto Parrish.» Frank gli riferì quello che sapeva, anche se non conosceva quasi per niente Ben Sheridan, David Niles e Andy Stewart. Dalle domande di Dalton capì ciò che gli interessava: i membri del gruppo erano affiatati? Chi prendeva le decisioni? Erano in forma? Erano camminatori esperti? Il problema principale, e cioè dove si erano diretti dopo aver lasciato l'avvocato Newly, cominciò a sembrargli simile al problema che doveva affrontare tutti i giorni: il comportamento umano. Se tu fossi quella persona e pensassi come pensa lui in una determinata situazione, che cosa faresti? Al posto della sterile e vana preoccupazione delle ore precedenti, Frank si rese conto di avere qualcosa su cui lavorare, su cui concentrarsi. «Credi che Parrish le portasse vive lassù, le donne?» chiese Dalton. «Sì», rispose Frank. «Ha detto di aver portato Julia Sayre fino alla pista, di averla fatta camminare per circa un giorno e di averla costretta a scavare la propria tomba, poi l'ha torturata e uccisa. Era tutto programmato. L'aveva scelta molto tempo prima di eliminarla. E molto ben organizzato, e non lascia nulla al caso. A sentirlo parlare sembra che abbia tutto sotto controllo. A parte...» «A parte la vittima grazie alla quale l'hai preso.» «Non sono stato io. Non è un mio caso, ma...» «È stato difficile acciuffarlo?» «No», rispose Frank, che aveva già capito dove andava a parare la domanda. «Non quanto ci saremmo aspettati.» «Ha rotto uno schema?» «Stinger, con un solo cadavere e nient'altro che la versione di Parrish sul caso Sayre», intervenne Jack seccato, «come diavolo fanno i poliziotti a dire quale dei due casi determini lo schema?» Frank aspettò prima di rispondere perché sapeva, sapeva che c'erano state altre vittime. L'aveva detto anche ai suoi superiori quando erano giunte le notizie dell'accordo con Parrish. Tutti gli altri detective del dipartimento avevano detto la stessa cosa. Sapevano che il procuratore aveva preso la decisione sbagliata. «Dalton ha ragione», disse Frank. «Parrish ha rotto uno schema.» Fece
un respiro per calmarsi. «Voleva che lo prendessimo.» «Perché?» «Perché sa che ce la farà.» «Forse lo voleva», intervenne Jack vedendo che Frank cominciava a camminare avanti e indietro, «ma non poteva sapere chi sarebbe andato in montagna con lui, né quanto sarebbe stato sorvegliato.» Frank non rispose. Stava pensando alle due vittime: capelli scuri, occhi azzurri. Più o meno l'età di Irene. «Non farmi un solco nel pavimento», gli intimò il padrone di casa. «Avvicinati e studiamo le carte. Madre Natura ci ha dato un po' di tempo per capire in che punto il nostro uomo ha fatto i suoi cimiteri... stando a ciò che hanno riferito la guardia forestale e il botanico, dobbiamo cercare due prati separati da un crinale. Potrebbero trovarsi in molti posti, ma non tanti quanti potreste pensare.» «È vero», concordò Frank. «Quei due ce l'hanno fatta in meno di un giorno trasportando un cadavere, e sotto la pioggia.» «Julia Sayre era robusta?» «No, e dopo tutto questo tempo i resti potrebbero limitarsi a uno scheletro, e neanche intero.» «Bene. Studiamo com'è fatta la zona e mettiamo dei segni. Dobbiamo cercare posti simili, e, non appena il tempo migliora, li sorvoleremo. Se ci ragioniamo prima di partire ci impiegheremo meno.» Dopo la prima ora passata a esaminare le mappe, Frank era meno ottimista: c'erano moltissimi posti che il gruppo avrebbe potuto raggiungere nel tempo a disposizione, e le probabilità di trovare quello giusto sembravano scarse. A mano a mano che Dalton li esaminava, venivano fuori dei motivi per scartare ora l'uno ora l'altro. Il campo si restrinse. «Non dico di eliminare tutti questi posti dalla lista», spiegò, «ma sono quelli che controllerei per ultimi.» Si allontanò dal tavolo. «Non vorrai fermarti adesso!» esclamò Frank. Dalton aprì la bocca per dargli una risposta brusca, ma la richiuse. Lo studiò un istante, prima di rispondere: «Una pausa farebbe bene anche a te. Io vado a godermi un po' i cani, voi fate quello che volete. Devo occuparmi dei miei ospiti». Si stese per terra e cominciò a lottare con Deke e Dunk che entrarono immediatamente nello spirito del gioco. Jack lanciò un'occhiata afflitta a Frank e a Travis. «Stinger deve fare le
cose a modo suo», spiegò cercando di tenere la voce bassa. «È inutile tentare di metterlo sotto pressione. Se vuoi andartene, vengo con te...» La tentazione di sincerarsi che Irene stesse bene era talmente forte da essere quasi irresistibile. Restare lo faceva impazzire, e l'impulso di muoversi, agire, avvicinarsi alle montagne il più possibile lo spinse quasi a ignorare tutte le altre considerazioni. Tuttavia, mentre lisciava la carta topografica, allargando le dita nello sforzo di liberare la tensione che gli aveva invaso ogni muscolo del corpo, guardò i circoletti segnati sulla superficie e si rese conto che trovare sua moglie senza l'aiuto del pilota sarebbe stato quasi impossibile. Il temporale avrebbe soltanto peggiorato le cose. «È il tempo che ci trattiene qui, non il tuo amico», disse. «Non è Stinger, il problema.» «Mi piace, quel tipo», osservò Travis. «Pilotava gli elicotteri in Vietnam?» «Mai sentito nominare, quel posto», intervenne Dalton. «Avrà anche i capelli grigi», disse Jack, «ma l'udito di quel pazzo fottuto è ancora fino.» Anche il cervello, pensò Frank studiando la carta, mentre la risata di Dalton si confondeva tra i latrati e i grugniti dei cani. 20 GIOVEDÌ 18 MAGGIO, SERA Una grotta nelle montagne della Sierra Nevada meridionale La sua tana, come la chiamava, era calda e asciutta. Ma avrebbe anche potuto stare sotto la pioggia: era abituato a sopportare le privazioni, pur di realizzare i suoi obiettivi. Più di una volta aveva passato la notte in luoghi scomodi o esposti alle intemperie soltanto per poter osservare uno dei suoi oggetti del desiderio. In quel momento lo divertiva l'idea di essere comodo e al riparo mentre lei non lo era. Era sola, al buio, circondata dalla morte. Quello che era rimasto al campo le sarebbe bastato, anche se non c'era cibo. Non era un grosso problema. Aveva acqua a volontà, ma, psicologicamente, la sua fame sarebbe stata un vantaggio per lui. Lei non poteva sapere se era fuggito o se sarebbe tornato a cercarla. Forse Irene conosceva quella grotta. C'erano delle orme, e dovevano essere le sue: il giorno prima si era sicuramente avventurata in quella direzione, ma non aveva modo di sapere se lui era rimasto in zona o se ne era andato.
A quel punto la speranza avrebbe neutralizzato la paura. Avrebbe pensato all'elicottero in arrivo. Se da un lato per lui era un inconveniente, dall'altro costringeva la donna a restare nei paraggi. Non se ne sarebbe andata in giro nel bosco in preda all'isteria, tentando di fuggire da lui o dai resti dei suoi ex protettori: l'avrebbe trovata ovunque, naturalmente, quello però era il modo più semplice. La immaginò rannicchiata nella sua tenda. Sapeva che avrebbe preso quella. La pioggia tamburellava forte contro il telo; lei era stanca, eppure incapace di prendere sonno, infreddolita, affamata, spaventata, sola. Aveva il cane, è vero, ma non le sarebbe stato di aiuto. Era un cane viziato e coccolato, un cane il cui padrone era stato talmente sciocco da cantare per lui e fare ogni sorta di gioco. Aveva notato l'attaccamento reciproco, le continue manifestazioni d'affetto dell'uomo: era quasi osceno! Quel tipo non faceva che parlargli. Dov'era finita la dignità dell'animale? E quanto a lasciare che gli impiastricciasse la faccia con la lingua, poi... al solo pensiero provava disgusto. Era lieto di aver messo fine a tutto questo. Morto il padrone, il cane sarebbe caduto in depressione. Sapeva che in situazioni simili i cani si deprimono. Anche il cagnolino di Julia Sayre si era disperato. Sospirò al ricordo del piccolo pechinese affacciato alla finestra del secondo piano dalla quale si sarebbe buttato se solo fosse riuscito ad aprirla. Se per lui non fosse stato un divertimento osservare quel dolore, avrebbe di certo aiutato la bestiola nei suoi propositi suicidi. Il pastore tedesco, anche se non era di certo di pura razza, non avrebbe fatto di meglio. Quel cane dal nome talmente ridicolo da essere impronunciabile, avrebbe soltanto contribuito a rendere più cupa la notte di una donna così sensibile. Aveva tanti progetti per lei! Non sapeva se soffermarsi ad assaporare quell'idea o godersi il successo della giornata. Ma era un uomo paziente, quindi per il momento si concentrò sulla vittoria. Le cose erano andate piuttosto bene: neppure un graffio. Di solito preferiva gustarsi i suoi omicidi con molta calma, e la soddisfazione che aveva provato a uccidere in modo così efficiente lo sorprese. Li aveva messi nel sacco, com'era naturale, e si compiaceva di mostrare al mondo le proprie abilità in modo tanto tangibile. Tuttavia quella soddisfazione non eguagliava il piacere sperimentato con i precedenti omicidi. Era accaduto tutto troppo in fretta, specialmente con Merrick e Manton: un vero peccato. Manton, che si trovava vicino all'esplosione, era rimasto tramortito; Merrick, sebbene incapace di compren-
dere che cosa stesse succedendo, aveva reagito con prontezza al furto dell'arma. Era stato quasi ammirevole. Aveva dovuto ucciderlo immediatamente. Pazienza, la vita riserva sempre qualche piccola delusione. Si poteva consolare pensando che i loro volti crivellati avrebbero turbato i colleghi e che Irene era presente e aveva visto tutto, compreso il colpo sparato con una mira perfetta a quell'idiota vanaglorioso di Sheridan. Sheridan, che aveva osservato a lungo i suoi coyote e credeva di aver capito qualcosa di lui, aveva toccato Julia! Aveva persino avuto il coraggio di andare a trovare Irene nella sua tenda, una notte. Aveva sentito le loro voci, ma non era riuscito ad afferrare la conversazione. Sapeva soltanto che lei l'aveva rifiutato, perché a un certo punto si era allontanato. Doveva avergli detto che preferiva dormire con il cane, visto che quella notte il pastore tedesco era rimasto a farle compagnia, proprio come in quel momento, nella foresta battuta dalla pioggia. Ormai aveva rimandato a sufficienza il momento che più lo avrebbe eccitato. Le estrasse con cura dal taschino della camicia. Erano senza pizzi o volant: non era il tipo per cose del genere, lei. Prima ancora di vederle, sapeva che indossava semplici mutandine di cotone. Le trovò incantevoli e innocenti, quasi come quelle di una ragazzina. Con calma e rispetto, se le portò al viso. Se fosse stato più debole, avrebbe pianto. 21 GIOVEDÌ 18 MAGGIO, SERA Stazione del Corpo Forestale americano e deposito elicotteri. Montagne della Sierra Nevada meridionale Era lì per sabotare gli elicotteri del Corpo Forestale. Li osservava. Non aveva mai svolto una missione tanto importante. Provava eccitazione, ma nessuna ansia. Le istruzioni di Nicky erano state chiare, le ore di addestramento severe ed era stato previsto tutto tranne il fallimento inconcepibile. Nicky Parrish non avrebbe pensato nemmeno per un istante che la sua fiducia, mai accordata a nessuno in passato, fosse malriposta. Non avrebbe pensato affatto alla missione dell'aiutante: lui doveva concentrarsi su altre cose. Era semplicemente sicuro che i suoi ordini sarebbero stati eseguiti. Lo sapeva. Come sapeva che la sua piccola Falena avrebbe ubbidito.
Amava quel soprannome. Quando si erano conosciuti, Nicky aveva detto: «La mia luce ti attrae, come una falena. Falena, ecco come ti chiamerò; d'ora in poi sarai la mia piccola Falena». Chi aveva conosciuto la Falena sul lavoro o nel mondo civile non avrebbe mai pensato che amasse servire, ma Nicky aveva capito immediatamente questo suo desiderio. Per servire bene, bisogna avere il padrone perfetto. Insieme stavano facendo la storia. Nicky, che aveva sempre agito da solo, aveva ritenuto la Falena degna di un simile onore. Il solo pensiero moltiplicava le sue aspettative. Forse in seguito, durante uno dei periodi di inattività, avrebbe composto una poesia. Per il momento, però, era meglio mettersi al lavoro. Incurante dell'oscurità, del pericolo, del freddo, della pioggia, la Falena aspettava e guardava. Finalmente il momento perfetto arrivò. Sapeva bene cosa doveva fare per ostacolare i piani degli altri, per creare problemi. La Falena lo sapeva. Le guardie forestali tenevano d'occhio il bosco, dal quale si aspettavano i problemi, ma non gli elicotteri. Almeno non durante le notti di pioggia, quando le nuvole coprono le montagne e c'è ben poco da fare. Sotto la pioggia gelida non sorvegliavano le loro macchine né perlustravano la zona. A parte uno, erano tutti davanti alla televisione, intenti a guardare un vecchio film girato molto tempo prima dell'avvento dei computer e captato con l'antenna parabolica della stazione forestale. Forse la vita all'aria aperta non era più così esaltante per l'equipaggio degli elicotteri e per i forestali: avendo per ufficio il cielo e il bosco, magari la TV e tutto ciò che si faceva fra quattro mura sembrava loro più interessante. O forse erano solo distratti dalla pioggia. Avrebbero dovuto esserle grati. La Falena era pronta a qualsiasi evenienza, compresa quella di uccidere i cinque occupanti della piccola stazione dotata di antenna parabolica. Quella pioggia, che attutiva i rumori e impediva la visibilità, avrebbe salvato loro la vita. Di tanto in tanto qualcuno si affacciava alla finestra, con la speranza che non piovesse più. Era il tizio che era stato in montagna con Nicky. Strano che si trovasse lì, anche se non era poi così importante. Nicky, che sapeva tutto, aveva anche previsto la possibilità che qualcuno fosse graziato. La Falena si mise al lavoro, e nel giro di pochi minuti l'Alouette e il Bell 212 furono messi temporaneamente fuori uso. Avrebbero potuto ripararli,
ma non in tempo. J.C. tornò alla finestra con gli occhi fissi nell'oscurità. Non riusciva a parlare con gli altri, e la cosa non faceva che peggiorare l'attesa. Finse di osservare la pioggia, ma in realtà non la vedeva affatto. Vide invece una cosa orribile alzarsi da una fossa e mendicare un abbraccio, vide dei coyote danzare come marionette, attaccati a fili sorretti da un burattinaio sull'albero. Chiuse gli occhi, ma quegli orrori non gli diedero tregua. Come facevano David e Ben a sopportarlo? Li aveva già aiutati, in passato, ma non era mai stato così tremendo. Aveva già visto resti in decomposizione e credeva di essere preparato; i cadaveri che avevano scoperto in precedenza erano corpi di suicidi o di persone che si erano smarrite, oppure che si erano avventurate in escursioni solitarie rivelatesi fatali. Non era mai stato piacevole e aveva sofferto, ma... non era mai stato così. Riusciva quasi ad avvertire il sapore del disgusto e dell'odio che provava per Nicholas Parrish. Era amaro come il fiele. Non aveva provato quelle sensazioni, lassù, nel prato in cui avevano trovato il corpo. Aveva mantenuto un perfetto autocontrollo. Anche il trasporto sotto l'acquazzone, con Andy, era andato liscio. Aveva cominciato a sentirsi così solo quando erano arrivati all'aereo e il pilota aveva annunciato che era meglio partire. Al caldo e al sicuro nella sua stazione era iniziato il crollo. Dopo aver mostrato all'equipaggio degli elicotteri il secondo prato, quello dove si trovava il gruppo, si sarebbe preso due settimane di vacanza. Si sarebbe anche fatto vedere da uno strizzacervelli. Se hai bisogno di aiuto, chiedilo, era il suo motto. David gliel'aveva ripetuto tantissime volte. Secondo lui era raro che chi faceva quel mestiere non ne avesse mai bisogno. Esistevano specialisti che seguivano proprio chi lavorava in quel settore. Avrebbe chiesto a David di consigliargliene uno. All'improvviso sobbalzò e si portò istintivamente una mano alla gola, come per trattenere un grido. Con la coda dell'occhio aveva visto qualcosa muoversi nell'oscurità. Possibile? Era troppo teso. Avvertì l'accelerazione del battito sotto la mano. Guardò oltre la finestra schizzata d'acqua. Non c'era niente. O si? Non poteva più restare lì fermo: le gambe non lo avrebbero retto. Maledizione!
No, non poteva andare avanti così; non poteva lasciarsi spaventare da un'ombra, l'avrebbe affrontata. Non poteva fare altrimenti; sarebbe uscito a dare un'occhiata per tranquillizzarsi. Si allontanò dalla finestra, indossò il parka e infilò in tasca le mani tremanti. Aveva avuto difficoltà addirittura ad abbottonare il giaccone. Uscì nella pioggia e sbirciò nelle tenebre. L'aria fredda gli diede sollievo, lo calmò finché... Lì, fra gli alberi! No, niente. Niente. All'improvviso la porta si aprì alle sue spalle e si lasciò scappare un urlo di terrore. «J.C.? Che ti succede?» Era uno dei piloti. «Avevo bisogno di un po' d'aria», rispose con voce malferma. «Vieni dentro», lo invitò l'altro. J.C. rimase a fissare la pioggia. «Andiamo, entra.» Poi aggiunse: «Vedrai che stanno bene. È solo un campeggio sotto l'acqua. Domattina andremo a prenderli. Vieni, non c'è niente che tu possa fare, adesso». J.C. lo seguì all'interno ignorando gli sguardi preoccupati dei compagni. Si diresse verso il suo armadietto, prese dei vestiti, poi andò in bagno a farsi una doccia. La terza della serata, e forse gli altri ne stavano già discutendo, ma non gliene fregava un accidente. Si sentiva addosso l'odore del cadavere e aveva bisogno di liberarsene. Si strofinò fino a spellarsi, fece scorrere l'acqua lungo il corpo e si sciacquò naso e bocca. Quindi lasciò che il rumore e la sensazione dell'acqua coprissero ogni altra cosa finché non ebbe troppo freddo per restare lì. Si asciugò, si cambiò e rimase a fissarsi nello specchio. Riconosceva il viso, ma non l'uomo che gli restituiva lo sguardo. Non aveva voglia di andare a dormire, non con tutta quella merda che gli ronzava in testa. Se era spaventato a morte da sveglio, che cosa gli sarebbe successo in sogno? Sì, avrebbe chiesto aiuto. Fino a quel momento, però, che diavolo avrebbe fatto? 22 VENERDÌ 19 MAGGIO, 2.00 DEL MATTINO Montagne della Sierra Nevada meridionale
«David, di' a quei due che non possono lavorare senza maschera.» Aveva già parlato. La sua voce mi aveva svegliata prima che riuscissi a rendermi conto di cosa fosse. «Ben?» chiamai al buio. «Ah, sei qui», rispose. «Sì, sono qui», lo rassicurai. «Non si può fare niente per questo caldo?» «Nella tenda?» «Il condizionatore... così i computer si rovinano.» «Ben, sono Irene», dissi mettendomi a sedere. «Svegliati!» Non rispose. Credevo che la mia voce fosse riuscita ad allontanare l'incubo e stesse dormendo in pace, quando sentii: «Ho bisogno di un esperto per l'esame dentale post mortem». Anche Bingle si era seduto. Mi avvicinai a Ben, allungai la mano e cercai di svegliarlo. Mentre dormiva si era mosso e aveva spostato il sacco a pelo con cui l'avevo coperto. Cercai a tentoni la sua mano e la trovai: era calda e asciutta. «Osserva lo sviluppo delle aree in cui il muscolo è attaccato a quest'osso lungo», disse. «Doveva essere un mancino.» Scottava. Decisi di rischiare e accesi la torcia, pregando che Parrish non fosse là fuori a cercarci, che la pioggia lo tenesse lontano almeno per la notte. Osservai lo sguardo vitreo di Ben, le gocce di sudore lucenti; presi un po' d'acqua, un fazzoletto e il Keflex: avrei dovuto dargliene una dose maggiore sin dall'inizio. Riuscii a fargli ingerire altre quattro pillole. Sarebbe stato pericoloso? Inumidii il fazzoletto e cercai di rinfrescarlo. «Camille?» chiese, guardandomi corrucciato. «Hai sbagliato scena», risposi. «Non ci sono letti di morte, in questa tenda, capito? Devi combattere, Ben. Resta con me.» «Ho caldo», mormorò lui spingendo via il sacco a pelo. Era irrequieto, e le sue frasi deliranti diventarono sempre meno coerenti. Se ne stava in silenzio per un po', poi all'improvviso gridava, facendomi sobbalzare. Dopo poco cominciò a dimenarsi e temevo che, se la febbre non si fosse abbassata, avrebbe rischiato di riaprire la ferita. Uscii dalla tenda per prendere un po' d'acqua dal secchio e lo trovai quasi pieno. Lo aiutai a bere e gli diedi un'aspirina. Non che a quel punto avrebbe risolto granché, ma probabilmente serviva ad abbassargli la febbre. Sembrava più tranquillo, se sentiva la mia voce, perciò continuai a par-
largli. Scostai il sacco a pelo e notai che tentava di strapparsi la camicia. Gliela sbottonai e l'aiutai a togliersela. Gli passai dei fazzoletti bagnati sulla pelle, infine tagliai i pantaloni. Temevo che, in preda al delirio, tentasse di toglierseli da solo, peggiorando la situazione della gamba ferita. Per fortuna le mutande non sembravano dargli fastidio. Continuai a parlare e a cambiare i fazzoletti bagnati finché non lo sentii più fresco, ma le mie mani, intorpidite dall'acqua fredda, non erano molto attendibili. «Ho sete», lo sentii dire con un fil di voce. Un'occhiata al suo viso mi bastò a capire che era rientrato in sé e soffriva. Gli sollevai la testa, gli diedi di nuovo il Keflex e lo lasciai bere dalla bottiglia. «Grazie», sussurrò, e chiuse gli occhi. «Vuoi un'altra aspirina? Mi dispiace, è tutto ciò che ho.» «No, non credo che serva», rispose. Contai le pillole di Keflex: ancora dieci. Gliene avevo date troppe? Troppo poche? Avrebbero sortito qualche effetto? Forse stavo tentando di spegnere un incendio con una pistola ad acqua. Chiamai Bingle, che mi si accucciò accanto, sempre portando con sé il maglione di David. Spensi la luce e m'infilai nel sacco a pelo. Fui travolta da un'ondata di emozione, un senso di sollievo che mi fece venire voglia di piangere. Accarezzai il pelo del cane e tentai di calmarmi per dormire. Fuori, il torrente s'ingrossava sempre di più, e il suo fragore nascondeva i rumori su cui avevo cercato di concentrarmi poco prima. Non sentivo più nemmeno il respiro di Ben e il russare di Bingle. Pensai che Ben si fosse addormentato. Non delirava più e sembrava tranquillo. Non so quanto tempo fosse passato quando disse: «Che storia mi stavi raccontando?» «Quando?» «Stanotte.» Mi sentii avvampare. «Eri cosciente? Riuscivi a capirmi?» «Non sempre. Ho dei ricordi piuttosto confusi.» «Parsifal», gli rivelai. «Cosa?» «La storia era quella di Parsifal alla ricerca del Sacro Graal: un giovane cavaliere di buon cuore che spesso, senza volerlo, arreca danno anche se mosso da buone intenzioni. Ne esistono varie versioni, ma quella che ti ho raccontato è tratta dal poema tedesco di Wolfram von Eschenbach.» «Me l'hai raccontata nella mia lingua», osservò lui scontroso.
«È naturale, ma è basata sulla traduzione...» «Caspita! Non ditemi che la nostra super-reporter è una studiosa di poesia medievale!» Non replicai. «Scusa», disse. Dopo un lungo silenzio domandò: «Perché preferisci la versione tedesca?» «Perché è l'unica che conosco, quella che mi ha regalato Jack ed è l'unica che ho letto. Una studiosa, eh?» «Ti ho chiesto scusa.» Dopo un altro silenzio, ci riprovò. «Chi è Jack?» «Il mio vicino di casa. È... non è facile descrivere Jack: è un appassionato di mitologia e folklore.» «Raccontamela di nuovo», mi pregò. «Stavolta starò più attento.» «Non riuscirò a renderle giustizia. Ci sono rapporti intricatissimi, battaglie, personaggi di cui non ricordo i nomi... prima ho improvvisato. Ti consiglio di leggerla, quando torni a casa.» «Allora ti lascio dormire», ribatté e fu solo allora che notai qualcosa, nella sua voce, di cui non mi ero ancora accorta. «Be', se ti accontenti di una versione ridotta...» «Mi accontento.» Lo distrassi dal dolore raccontandogli le avventure del giovane Parsifal, cresciuto da una madre troppo protettiva all'oscuro dell'esistenza dei cavalieri e della cavalleria. Naturalmente la prima volta che Parsifal incontrò i cavalieri si unì subito a loro e partì per offrire i suoi servigi a re Artù. Nonostante l'imbarazzante ingenuità e la mancanza di istruzione, dimostrò di avere un talento naturale. Ben si addormentò poco prima che Parsifal arrivasse alla Montagna Selvaggia e incontrasse il Re Pescatore. Era ormai passata l'alba, e benché nella tenda fosse ancora piuttosto buio c'era luce a sufficienza per riuscire a scorgere i tratti pallidi e tirati di Sheridan. «Cos'hai?» sussurrai, ancora presa dalla storia di Parsifal. In quelle circostanze mi sembrò una domanda sciocca: il dolore, la debolezza, le ferite gravi, il maltempo, la fame, un assassino in libertà nei paraggi... non era difficile stabilire quale fosse il problema. Poi ripensai alla mia ultima conversazione con David: aveva lasciato intendere che Ben aveva dei problemi già prima di partire, problemi che non mi avrebbe certo confidato subito. Sempre che ne avesse avuto voglia.
Quando mi svegliai, Bingle non c'era. M'infilai in fretta scarponi e giubbotto ma, non appena messo piede fuori dalla tenda nel mattino nebbioso, lo vidi ritornare con il pelo bagnato e sporco di fango e la bocca rigonfia. Maledizione, pensai, deve aver lottato contro un porcospino. Quando si avvicinò, però, notai che trasportava qualcosa con molta cura. Mi augurai che non avesse preso niente dal prato. Mi guardò incerto, come se si aspettasse qualcosa da me. Non conoscendo la mia parte, rimasi ferma. Bingle continuava a muoversi, inquieto, poi a un tratto si accucciò ai miei piedi. Aprì la bocca con delicatezza e depositò a terra ciò che aveva portato. Uova. Tre piccole uova di quaglia. Sperai che non avesse preso tutte le uova del nido. Forse avrei dovuto rimproverarlo, ma un po' per il sollievo di non essermi ritrovata sui piedi i resti di qualcuno, un po' per l'incapacità di indovinare se in passato era stato lodato per cose simili, riuscii soltanto a emettere un debole: «Gracias, Bingle». Lui scodinzolò. «Immagino che ne voglia uno anche tu.» Continuò a scodinzolare. Sul pelo sotto il muso vidi qualcosa che somigliava a un tuorlo. «Credo che tu abbia già fatto colazione.» Visto che non era più possibile rimetterle a posto e dato che il mio stomaco si lamentava decisi che non sarebbero andate sprecate; le appoggiai nella tenda. Immaginai J.C. che le trovava e mi proibiva di salire sull'elicottero come punizione per aver alterato la fauna locale; e se anche gli avessi detto che era stato il cane, non mi sarei cavata d'impiccio. La pioggia era diminuita, la nebbia però si faceva più fitta. Vicino alla tenda non era ancora molto compatta, ma sul prato la visibilità non doveva essere buona a sufficienza da consentire l'atterraggio di un elicottero. Tentai di non farmi angosciare dal pensiero, ma l'idea di non vederlo arrivare in mattinata mi terrorizzava. Se Parrish non mi avesse trovata ce l'avrei fatta, ma che ne sarebbe stato di Ben? La febbre, il sangue perso, il rischio di infezione... Anche se Parrish non si fosse fatto vivo, la vita di Sheridan era in pericolo. Il secchio era di nuovo pieno, per fortuna, ma quella sensazione di sicurezza non era destinata a durare a lungo. Decisi di andare al torrente, e Bingle mi seguì. La pioggia del secchio era utile ma non bastava, perciò decisi di riempire le bottiglie; non ci avrei
messo molto, e il mio depuratore portatile era in grado di purificare mezzo litro d'acqua di torrente in poco più di un minuto. Camminai di buon passo, perché volevo lasciare Ben da solo il meno possibile. Il terreno era soffice e fangoso. Sul sentiero trovai un lungo ramo spezzato che si biforcava all'estremità, lo raccolsi e mi ci appoggiai: sopportava il mio peso. Se per me era un po' troppo lungo, per Ben sarebbe andato bene, perciò lo presi con l'idea di trasformarlo in una stampella: in caso di spostamento gli sarebbe servita. Avanzai fra gli alberi verso il rumore che diventava sempre più forte. Con mia grande sorpresa notai che il livello del torrente era molto più alto e che scorreva tumultuoso attraverso la foresta con il suo carico di detriti. Era impossibile oltrepassarlo in quel punto per raggiungere il prato. Quel prato dove l'elicottero, se mai fosse venuto, sarebbe atterrato. 23 VENERDÌ 19 MAGGIO, MATTINA Montagne della Sierra Nevada meridionale Quando rientrai in tenda, Ben dormiva ancora. Con un pezzo di spago gli presi le misure dall'ascella al gomito, dal gomito al palmo della mano, dall'ascella alla pianta del piede. Uscii di nuovo e confrontai l'intera lunghezza con il ramo. Forse era un po' troppo corto, ma sarebbe andato bene. Legai un rametto spesso nel punto in cui avevo calcolato che doveva arrivare la mano. Mentre fissavo un'imbottitura con il nastro adesivo in quel punto e sulla biforcazione, lui mi chiamò. Rientrai nella tenda. «Come ti senti?» «Meglio.» «Bene. Aspetta che ti do il Keflex.» «Lo prendo più tardi. Io... ho bisogno di liberarmi. Mi aiuteresti a vestirmi?» chiese. «Se hai fretta...» «Non troppa.» Era sopraffatto dall'umiliazione, ma nel mucchio di roba che avevo raccolto al campo riuscimmo a trovare una camicia e un paio di pantaloncini che gli potevano andare. «Sai per caso se David ha insegnato a Bingle a rubare le uova dai nidi?» gli chiesi per distrarlo. «Come?»
«Stamattina mi ha portato quelle uova di quaglia.» Le guardò. «No, a dire il vero è addestrato a non alterare la natura... Molto strano, però le uova gli piacciono.» Sorrise brevemente e aggiunse: «Forse ti sta facendo la corte». «Non credo che i cani abbiano un'esatta idea di cosa intendono le donne per corteggiamento, anche se la maggior parte degli uomini ne ammirerebbe l'approccio diretto.» Lo aiutai a mettersi seduto. La pelle era un po' troppo calda e le guance erano rosse, e non per l'imbarazzo. «Hai ancora la febbre.» «Per favore, dammi una mano con la camicia», disse ignorando la mia osservazione. Lo aiutai a infilarsela, ma mi allontanò quando feci il gesto di abbottonarla. «Dannazione», esclamò stendendosi, esausto. «Tutto considerato non vai niente male», lo consolai, e lo aiutai senza che mi rimbrottasse. «Hai bisogno di riposarti o vuoi fare un giretto?» «Mi riposo... qualche minuto», rispose con voce affannosa. «Ti va un uovo per colazione? Sono piccole ma. «Dovresti mangiarle tu, oppure dalle a Bingle.» «Credo che abbia già approfittato.» «Ieri sera mi hai dato la zuppa, ma tu sei rimasta senza cena, vero?» «No, ne ho mangiata un po' anch'io. Ma di noi due...» «Tutti gli sforzi fisici li stai facendo tu. Hai bisogno di energia, perciò mangia le uova e fatti anche un po' di zuppa. È tutto ciò che ci ha lasciato, no?» «Siamo vicini a un prato dove ho visto dei denti di leone e altre cose commestibili, e poi J.C. non si è dimenticato di noi. Non appena il tempo migliora, arriverà l'elicottero.» «Allora mangia le uova prima che ti veda.» «Ma...» «Io mi riposo un po'. Ti prego.» Con Bingle che mi guardava preparai le uova strapazzate: insieme formavano poco meno di un uovo di gallina. Ne misi un po' nella ciotola del cane e mangiai il resto. Aiutai Ben a uscire dalla tenda e non fu una cosa semplice. Gli mostrai la stampella; lui se la mise sotto il braccio, vi si appoggiò: il risultato superava le mie aspettative.
«Me ne servono due», disse. Scoppiai a ridere. «Cioè, grazie, non volevo...» «Non importa! Hai ragione: te ne servono due. Vedrò di trovare un altro ramo; nel frattempo appoggiati a me.» Lentamente raggiungemmo un albero. «Posso lasciarti solo?» gli chiesi. «Chiamami, quando hai finito. Non ti guardo.» «Io... non così vicino alla tenda», obiettò. «Ben, in altre circostanze avrei apprezzato la tua sensibilità; adesso, però, si dà il caso che tu abbia la febbre nonché una pessima cera. Bingle ha già segnato tutti questi alberi, perciò fagli vedere chi è che comanda. Nonostante le ferite, credo che tu riesca lo stesso a colpire più in alto.» «No», insistette lui. «Non qui.» «Non mi sembra che tu possa permetterti il lusso di discutere!» Lo aiutai comunque ad addentrarsi nel bosco. Mentre aspettavo che finisse sentii Bingle abbaiare. «Torno subito!» Ritornai di corsa alla tenda. Il cane non era lì, e i suoi latrati di avvertimento non cessavano. Dio, fa' che non lo uccida. Fa' che non uccida Ben. Fa' che non uccida me. A parte il coltello non avevo armi. Raccolsi un bastone, pur sapendo che sarebbe stato inutile; mi diede comunque una primitiva sensazione di potere... quella del cavernicolo, immagino. Con molta prudenza camminai in direzione dei latrati che provenivano dal boschetto vicino al torrente. Lo sentivo davanti a me, ma non riuscivo a individuarne l'esatta posizione. Mi spostai di albero in albero, correndo, il più vicino possibile al terreno. «Bingle!» chiamai a bassa voce prima ancora di vederlo. «¡Bingle, ven acá! ¡Cállate!» Non osai urlare; il cane mi sentì, perché smise di abbaiare venendomi incontro. Udii uno sparo; Bingle guaì ma continuò a correre. Mi raggiunse ansimante, agitato. Lasciai cadere il bastone e gli passai la mano sul pelo senza trovare ferite. Gli sussurrai delle lodi imponendomi di non tremare. Dov'era Parrish? Aspettai, sussurrando a Bingle di restare fermo e in silenzio. Obbedì e mi guardò inquieto. «Irene Kelly!» chiamò una voce. Credevo che Bingle avesse mugolato, poi mi resi conto di essere stata io. «Ringrazia quell'idiota di un cane», gridò Parrish, «adesso so dove ti trovi! Lo so, mi senti? Certo che mi senti! So esattamente dove sei!»
Mi aggrappai al cane. «Troverò un modo per attraversare il torrente!» urlò. «Lo troverò. Credevi che un po' d'acqua ti avrebbe salvata?» Restai immobile con il cuore che mi martellava nel petto. Aspettai, ma non disse altro. Se fossi stata sola, forse sarei fuggita con Bingle, ma dovevo pensare a Ben. Tornai alla tenda il più velocemente possibile, senza fare troppo rumore. Raccolsi le bende usate e ogni cosa macchiata di sangue, compresi i pantaloni tagliati, nascondendo tutto sotto un mucchio di foglie lontano dal campo. Rientrai nella tenda, presi i sacchi a pelo di Ben, il kit da barba, tre bottiglie d'acqua, dei fiammiferi, una gavetta e la zuppa. Recuperai alcune bende, l'aspirina e il Keflex. Lasciai il mio sacco a pelo ma afferrai dei vestiti, soprattutto quelli da pioggia, il cibo e l'imbracatura di Bingle. Piegai la cerata, ed ero pronta ad andarmene quando vidi un'altra cosa: il maglione di David. Lo raccolsi, ma Bingle me lo tolse di mano e insieme corremmo verso il punto in cui avevo lasciato Sheridan. Non c'era. «Ben!» chiamai a bassa voce. Avevo sbagliato posto? «Sono qui», lo sentii dire. «Dove?» domandai, ma Bingle si diresse scodinzolando verso un albero caduto. Se non avesse avuto la bocca occupata dal maglione, avrebbe di certo abbaiato. Un mucchio di foglie si mosse ed emerse la testa di Ben. Trassi un sospiro di sollievo. «Tutto bene?» «Un po' bagnato, ma sto bene.» «Grazie a Dio ti sei nascosto. Bingle abbaiava...» «A Parrish», completò per me. «Lo hai sentito?» «Non proprio, ma ho sentito una voce. Non ho capito che cosa diceva ma da come abbaiava Bingle... doveva essere Parrish. Sono riuscito a trascinarmi fin qui.» «Cercherà di attraversare il torrente... per nostra fortuna non sarà un'operazione semplice perché con la pioggia si è ingrossato molto. Ma potrebbe sempre trovare un punto in cui è più stretto, quindi abbiamo solo pochi minuti.» «Allora ascoltami...» «Ho intenzione di allontanarlo da te», lo interruppi. «Se dovesse prendermi, forse... avresti un po' di tempo.»
«Per l'amor del cielo!» «Non credo che sappia che sei vivo», proseguii. «Ho preso o nascosto tutto ciò che potrebbe fargli capire che nella tenda c'eri anche tu. Ti ho portato i sacchi a pelo e la cerata, il cibo e un po' d'acqua. Se resisti finché arriva l'elicottero magari potresti mandare un segnale luminoso quando lo senti... Non so, forse non è sicuro neanche quello... comunque qui ci sono l'acqua e l'antibiotico, Vado a cercare un posto in cui nasconderti. Torno subito.» «Irene, ascoltami! Non ha senso. Fuggi e basta. Ti prego, fallo. Allontanati da qui; io cercherò riparo dietro quest'albero.» «Se non ti uccide l'umidità, lo faranno gli insetti. Scommetto che hai già qualche morso di formica.» «Morso di formica? Chi se ne frega dei morsi di formica!» «Bingle», ordinai, «cuídalo.» «Che cosa gli hai detto?» «Farà la guardia mentre sarò via.» «Cristo!» «Tomo subito.» «No, non tornare! Scappa!» Cominciai a pregare san Giuseppe, come fanno i vecchi cattolici quando si trovano nei guai. Già che c'ero chiesi a sant'Antonio di aiutarmi a trovare un nascondiglio per Ben. Forse usai la linea diretta. Non so quale dei due ricevette la chiamata per primo, ma pochi passi più in là vidi alcuni macigni asciutti e abbastanza grossi da nascondere un uomo. Almeno lì si sarebbe difeso dagli insetti annidati nei tronchi d'albero. Trascinai prima l'attrezzatura, ignorando ancora una volta la sua resistenza. Quando tornai a prenderlo si era arreso oppure era semplicemente esausto, perché non mi tormentò più. Si lamentò solo della testardaggine delle donne, e nella fattispecie della mia, ma non era certo il primo che mi diceva cose simili. Lodai Bingle e gli dissi di seguirci, quindi aiutai Ben; quando arrivammo ai massi me lo caricai sulla schiena. Lo sistemai a fatica in quella fortezza di pietra, riuscendo a strattonargli la gamba ferita almeno quattro o cinque volte. Feci il giro intorno ai massi e li esaminai da ogni angolazione: nessuno l'avrebbe visto, se non arrampicandosi. Soddisfatta del risultato ordinai a Bingle di fare nuovamente da sentinella; strisciai nella tana di Ben per portargli la stampella. Lo aiutai a cambiarsi la camicia; i pantaloncini andavano bene. Lo coprii con uno dei sacchi a pelo e mi accertai che
l'acqua e le altre provviste fossero a portata di mano. «Adesso vado», annunciai. «Te la caverai?» Annuì. «Se dovessi vedere Frank Harriman prima di me, digli... salutalo da parte mia, d'accordo?» «Certo.» Dalla foresta giunse un rumore, ripetuto a intervalli regolari. Io non lo riconobbi, Ben sì. «Un'ascia. Sta abbattendo un albero. Vorrà fare un ponte per attraversare il torrente.» «Allora è meglio che mi prepari ad attirarlo nuovamente dall'altra parte. Sei sicuro che starai bene?» «Sì.» «Credi di essere in grado di uscire, in caso di bisogno?» «Sì, posso tirarmi su e arrampicarmi. Porti Bingle con te, vero?» «Sì. Parrish si insospettirebbe se non lo vedesse al mio fianco. Ma se fosse necessario te lo manderò.» «Non so lo spagnolo», scherzò. «Preferisco che torni tu.» Risi e feci per andarmene, ma mi chinai per abbracciarlo; lui dapprima sembrò piuttosto sorpreso, poi mi restituì l'abbraccio. «Mi raccomando», sussurrò. «Anche tu.» Mi ero arrampicata fino a metà quando sentii: «Grazie». «Non mollare, Ben Sheridan, o mi farai davvero arrabbiare.» «Abbi cura di te, Lois Lane.» «Contaci, Quincy.» «No, un patologo no!» Raggiunsi la sommità delle rocce e lo guardai: mi sembrò solo e vulnerabile. Per un attimo fui tentata di restare con lui, ma sapevo che saremmo stati due topi in trappola se Parrish ci avesse trovati. Forse si accorse della mia indecisione, perché disse: «Spingi Nick in un burrone e torna, così finisci di raccontarmi la storia di Parsifal». «Certo, non ti farò aspettare troppo per il finale.» Gli lanciai un'occhiata, sperando che non fosse l'ultima, lo salutai con la mano e m'incamminai verso il torrente accompagnata dal rumore dell'ascia di Parrish: era l'eco di una sfida, il canto delle sirene, un avvertimento. 24
VENERDÌ 19 MAGGIO, MATTINA Montagne della Sierra Nevada meridionale Era un uomo forte. L'avevo già capito, ma quando lo vidi colpire l'albero con l'ascia, sulla riva opposta, fui assalita dallo sconforto. Non so cosa mi avesse spinta a credere che avrei potuto farla franca. Colpiva forte, con rabbia. L'albero non era enorme, ma era un pino abbastanza alto da congiungere le sponde del torrente e abbastanza grosso da sostenere il suo peso. Cercai di ragionare: dovevo sfuggirgli e attirarlo lontano da Ben. All'inizio escogitai improbabili metodi per ucciderlo: potevo lanciargli una grossa pietra mentre tagliava l'albero e colpirlo alla testa quando aveva le mani occupate; oppure saltare dall'altra parte del torrente, appesa a una liana, e accoltellarlo mentre l'ascia era conficcata nel legno, o ancora intagliare un giavellotto e lanciarglielo durante la traversata. Tutti irrealizzabili. Ho una mira discreta, ma il tiro non sarebbe stato diretto, e se l'avessi mancato mi avrebbe sparato. In secondo luogo non c'erano liane tipo Tarzan abbastanza resistenti; quanto al giavellotto - anche se avessi avuto il tempo di costruirlo - le probabilità di imparare a lanciarlo correttamente e di mettere a segno un tiro vincente erano pari a zero. Trovai un altro bastone che avrei potuto usare come clava e dei sassi delle dimensioni di palle da baseball. Nel caso in cui si fosse accorto che lo tenevo d'occhio e mi avesse sorpresa prima che riuscissi a mia volta ad attraversare il torrente, avrei usato qualunque cosa a portata di mano pur di fermarlo. Sentii un lento scricchiolio seguito da uno schianto assordante. L'albero cedette e i rami superiori colpirono gli alberi che incontrarono nella loro corsa verso il basso, impigliandosi, spezzandosi, schizzando via come proiettili. Il tronco toccò terra sulla sponda del torrente dove mi trovavo io con un tonfo sordo che fece tremare il terreno. Bingle si appiattì al suolo e tirò indietro le orecchie, ma restò accanto a me. Dal mio nascondiglio sbirciai con prudenza. Nick Parrish stava esaminando il suo lavoro: ora poteva attraversare il torrente con facilità. I rami inferiori gli avrebbero ostacolato il cammino verso la fine della traversata, ma il punto e il materiale del ponte erano stati scelti sapientemente. Aveva calcolato che mi trovassi proprio lì? Sapeva che mi sarei avvicinata al rumore dell'albero abbattuto? Non credo. Penso invece che si aspet-
tasse la fuga, il terrore. Mentre fissava l'ascia cercai di non pensare a come avrebbe potuto usarla su di me. È convinto che tu sia terrorizzata, mi ripetei. Non dargli questa soddisfazione. Decisi di pensare a quell'ascia nelle mie mani e all'improvviso mi chiesi a chi appartenesse. Non mi sembrava che qualcuno l'avesse portata né utilizzata nei giorni precedenti. Forse Parrish aveva altri arnesi nascosti nei paraggi. Cominciò ad attraversare il torrente con molta cautela, servendosi dell'ascia per restare in equilibrio sul tronco. Sempre più vicino. Aveva le mani occupate, la pistola nella fondina. La tentazione di lanciargli una pietra fu forte. Il torrente scorreva freddo e veloce sotto di lui, non molto lontano, forse poco più di un metro, ma chissà quanto era profondo. In quel momento non guardava nella mia direzione e si avvicinava ai rami, che lo avrebbero in parte nascosto. Era la mia grande occasione. E se lo avessi mancato? Forse ero ancora in tempo per sfuggirgli. Mentre soppesavo un sasso nella mano, Parrish perse l'equilibrio. Aveva quasi raggiunto la sponda dalla parte dove mi trovavo quando uno dei rami che sostenevano il tronco cedette sotto il suo peso. Il tronco si abbassò di qualche centimetro, all'improvviso, e lui lasciò andare l'ascia e si aggrappò con forza ai rami. L'arma cadde nella corrente impetuosa, ma il ramo che aveva afferrato resse. Lui si raddrizzò, vanificando la mia breve gioia. Sussurrai a Bingle di non far rumore e rimasi a osservarlo mentre si metteva rapidamente in salvo sulla riva. Mi acquattai dietro un albero caduto per non rischiare che mi vedesse e ascoltai i suoi passi avanzare nella foresta. Quando fu vicino al mio nascondiglio strinsi forte il bastone. Si fermò non molto distante da me, e per un istante fui certa che mi avesse vista e che stesse decidendo il modo migliore per farmi prigioniera. Invece proseguì nella direzione della corrente, verso il punto da cui aveva sentito provenire i latrati. Aspettai ancora un po', mi alzai e mi stiracchiai. Bingle fece lo stesso, e insieme ci dirigemmo verso il ponte di Parrish. Agganciai il guinzaglio all'imbracatura, sperando che il cane non si rifiutasse di attraversare il fiume. Non ero certa di essere abbastanza forte da evitare che la corrente lo trascinasse via, se fosse caduto. In realtà non avevo motivo di preoccuparmi: Bingle si lasciò aiutare a raggiungere il tronco e avanzò con una tale rapidità e agilità che dovetti
concentrarmi per tenere il suo passo senza cadere in acqua. «Bien», sussurrai quando raggiungemmo la riva opposta, coperta di fango. «Credo proprio che questa non sia stata la tua prima traversata.» Sganciai il guinzaglio ed esaminai rapidamente l'albero caduto, in cerca di qualcosa che potesse servirmi in seguito come leva per spostarlo. Niente. Quel tratto di torrente non era molto distante dall'accampamento originale, perciò decisi di tornare là in cerca di qualcosa di utile. Dovetti chiamare Bingle un paio di volte perché stesse lontano dal prato. Fra i resti inzuppati trovai una fune e poco altro. Parrish ci avrebbe messo un po' a scoprire il mio nascondiglio della notte precedente e a frugare nella tenda, ma non volevo concedergli il tempo necessario per trovare Ben. Tornai di corsa al torrente e proseguii lungo la riva finché non raggiunsi il punto dal quale mi aveva chiamata. Mi addentrai fra gli alberi e ne trovai due adatti. Tesi un pezzo di fune all'altezza della caviglia e la coprii di foglie. Quindi affilai tre bastoni e li conficcai nella terra molle uno in fila all'altro, dalla parte non appuntita, con un angolo di quarantacinque gradi circa e a pochi centimetri dalla fune. Ricoprii di foglie anche questi. Un po' più in là legai un altro pezzo di corda fra altri due tronchi, questa volta a una trentina di centimetri dal suolo, poi tracciai un percorso nel bosco con dei mucchietti di pietre. «Bene, Bingle», dissi agganciando il guinzaglio. «Vìa con la messinscena.» Ritornai al torrente, mi nascosi fra gli alberi e lo invitai a cantare. Il cane mi guardò, rivolse un'occhiata al prato e mugolò. Deglutii a fatica e lo esortai: «Cántame, Bingle». L'animale si accucciò e distolse lo sguardo da me. Gli afferrai la testa, ma lui voltò gli occhi. «D'accordo, lo facevi solo per David», mormorai. «Ti chiedo scusa. Ti va di parlare con me? Háblame, Bingle. Por favor, háblame.» Mi guardò. «¡Háblame!» Mi fissava, indeciso. «¡Háblame!» riprovai. Abbaiò. «¡Muy bien! ¡Háblame!» A quel punto entrò nello spirito giusto. Abbaiò di nuovo e poi ancora. Lo lodai in spagnolo finché non vidi un movimento fra gli alberi dell'altra sponda. Ad alta voce, nella mia lingua, gridai: «Ti prego, Bingle, smetti-
la!» ma in spagnolo, con veemenza, gli ordinavo il contrario. Decisi di non strafare e finalmente ordinai: «¡Cálmate, cállate!» Lui si zittì. Lo accarezzai e lo lodai in spagnolo, quindi ritornammo sui nostri passi verso il percorso a ostacoli che avevo preparato per Parrish. Bingle si era accorto della sua presenza da un po', forse per via della brezza che di tanto in tanto gli portava il suo odore. E se è vero che gli animali sono in grado di fiutare la paura, doveva averne il naso pieno. Parrish raggiunse il ponticello e non resistette alla tentazione di canzonarmi. «Ti troverò.» E bravo! Inutile fare complimenti. «Ehi, Nick!» gridai. «A chi hai fatto da pappone dopo la morte di tua madre?» Dopo un lungo silenzio gratificante, urlò: «Pagherai per questo!» «Era la frase preferita di tua madre?» Quella provocazione gli mise fretta. «¡Apurate!» intimai a Bingle, e ci concedemmo un netto vantaggio. Corremmo rumorosamente, di pari passo. Bingle sembrava divertirsi, anche se io arrancavo nel fango faticosamente. Poco dopo, al di sopra del rumore che facevamo noi, sentii Parrish che avanzava precipitosamente dietro di me. Arrivata ai primi due alberi ci girai attorno e mi sistemai non lontano da quelli con la fune in bella vista. Non appena Parrish fu visibile, finsi di correre verso la corda, seguita da Bingle, e lo sentii gridare: «Bel tentativo!» poco prima di inciampare nell'altra, ben nascosta. Lanciò un urlo. Continuai a correre, ordinando a Bingle di fare lo stesso. Non ci fermammo finché non fui certa che non ci stesse più inseguendo. Mi arrestai, spaventata e tremante, e mi aggrappai al cane, che non dava segno di fiutare né sentire Parrish. Aspettai il più possibile: se uno dei bastoni era riuscito ad ucciderlo, dovevo tornare da Ben. Come minimo doveva essersi ferito, nel qual caso volevo sapere dove fosse. Avevo un lavoro da completare. Per un pelo non gli finii addosso. Bingle si accorse della sua presenza prima di me, ma non in tempo. Si era tenuto sottovento, e, benché il cane avesse ringhiato un istante prima, non riuscii a trattenere un urlo di sorpresa quando Parrish comparve da
dietro un albero. Aveva la camicia coperta di sangue e una benda di fortuna alla spalla sinistra. Nella mano destra reggeva la pistola. Bingle gli abbaiò contro. Parrish sorrise. «Credo che per prima cosa sparerò al cane.» 25 VENERDÌ 19 MAGGIO, MATTINA Montagne della Sierra Nevada meridionale «Molto sleale, da parte tua», commentai. «Sleale?» ribatté Parrish divertito. «Sparare a un cane al guinzaglio da una distanza di pochi metri non mi sembra una gran prova, per un cacciatore!» «Credi che queste sciocchezze ti risparmieranno qualcosa o riescano a impressionarmi?» Sperai di sì. Ero già contenta per non essermela ancora fatta sotto. In attesa dello sparo mi chinai su Bingle per proteggergli la testa. Non era un vero e proprio rischio: in teoria Parrish avrebbe anche potuto uccidermi, ma sapevo che le sue fantasie non erano quelle. Voleva che la mia sofferenza fosse più prolungata. Desiderai quasi che premesse il grilletto. «Alzati!» Sganciai il guinzaglio. «Dagli un vantaggio», proposi senza muovermi. «Gli dirai di mordermi», ribatté con la pistola puntata su di me. «No, lo uccideresti. Gli dirò di attraversare il torrente.» «Ti aspetti che me la beva? Dovrebbe capire un simile comando?» «Hai visto com'è addestrato. Daglielo tu, il comando. Se è in spagnolo, obbedirà.» «Non parlo la lingua dei popoli inferiori.» «Viva il re dei poliglotti», mormorai. «Che hai detto?» «Che dubito tu sia un buon tiratore. Gli darò io il comando. Lascia che attraversi il torrente e prova a colpirlo a distanza... anche se non lo becchi, lo spaventerai a morte.» «Credi proprio che non riesca a colpirlo?» rise. «D'accordo, sembra che tu abbia bisogno di una lezione di rispetto. Forse ti servirà da dimostrazione, ma ti avverto che se hai in mente di farmi aggredire, premerò il grilletto prima che si avvicini.»
«Vedremo», dissi. «Aspetta che lo calmi.» «Bingle, édonde está Ben? Búscalo», mormorai. Il cane smise di ringhiare, mi guardò e piegò la testa da un lato uggiolando. «Eres un perro maravilloso, Bingle. ¿Donde está Ben? Es muy importante. ¡Búscalo!» Guardò dall'altra parte del torrente, poi me, quindi Parrish. Mi guardò di nuovo e guaì. «Bien, Bingle. ¿Listo? ¡Búscalo! Cuídalo, por favor. Ben, Bingle, Ben. ¡Apúrate, búscalo! ¡Cuídalo! ¡Vete!» Cominciò a correre, si fermò e si voltò verso di me. «¡Bien! ¡Sigue, adelante!» Cercai di parlare in tono vivace, grata che il nome di Ben non fosse come «Charles» o «Jim», più facilmente distinguibili in mezzo a parole spagnole. Bingle riprese a correre e Parrish ordinò: «Accompagnalo al torrente». Non mi perse d'occhio, ed ero certa che tenesse l'arma puntata contro di me piuttosto che contro il cane. Bingle abbandonò la sua riluttanza quando vide che lo seguivo, e si avvicinò rapidamente all'albero caduto. «¡Adelante!» ordinai. Temevo che non sarebbe riuscito a salire sul tronco. Ma non c'era di che preoccuparsi: era un cane allenato, agile, attraversò il torrente in fretta. Quando vide che non lo seguivo, però, si fermò. «¡Lárgate!» gli urlai. Fila! Non si mosse. «Ne ho abbastanza delle esibizioni di questo ridicolo bastardo», disse Parrish, e gli puntò contro la pistola. «Sapevo che non ce l'avresti fatta, che preferivi un tiro facile», replicai in fretta. «Allora muoviti!» «¡Lárgate!» ripetei, con la voce più severa che potevo. Bingle si avviò e quando fu in parte nascosto dai rami gli urlai: «¡Apúrate, Bingle! ¡Vete!» Obbedì. Si allontanò di corsa dal torrente, fra gli alberi, ma era ancora in vista. Notai Parrish prendere la mira e mi lanciai su di lui. Cademmo entrambi nel fango. Lui fece fuoco e urlò per il dolore alla spalla. «¡Vete, Bingle! ¡Vete!» gridai di nuovo rimettendomi in piedi. Il cane continuò a correre nel bosco; io cercai di fare lo stesso. Non andai lontano. Parrish rotolò su se stesso, mi afferrò la caviglia e mi
trascinò a terra con violenza. Scalciai, tentai di graffiarlo, lui però mi fu sopra e cominciò a spingermi la faccia nel fango. Non respiravo più. Volevo aria, e mi dimenai per farlo spostare, ma era molto più forte di me. Sarebbe stata quella la mia fine? Mi avrebbe semplicemente soffocata sulla riva fangosa? In fin dei conti, forse i suoi piani per me non erano tanto elaborati. Mi sollevò la testa afferrandomi per i capelli e ansimai in cerca d'aria. Poi mi spinse di nuovo nel fango. Alla quarta volta volevo solo aria. Tutto lì. Aria. Soltanto aria. Volevo solo che mi sollevasse. In preda al panico, avevo perso la lucidità. Alla decima, avrebbe potuto ottenere tutto quello che voleva. Naturalmente lo sapeva. Arrivò a dodici. Credo fosse la dodicesima, avevo perso il conto. Il mondo, la vita, le cose importanti, tutto era secondario di fronte alla possibilità di respirare di nuovo. «Pulisciti la faccia!» disse con rabbia. Mi spinse in avanti e rimasi seduta contro il moncone dell'albero abbattuto. Mi si accovacciò di fronte e ripeté l'ordine. Ci misi un po' per capirlo. Ansimavo, non avevo ancora aria a sufficienza. Il cielo non ne conteneva abbastanza. «Pulisciti la faccia o te la sbatto di nuovo nel fango», insistette. «Prima però ci piscio sopra!» Sollevai le mani tremanti e mi pulii il viso. Non riuscii a togliere tutta quella melma e lui allungò un dito e mi tracciò qualcosa sulle guance. «Ecco fatto. Adesso ti ho marchiata con le mie iniziali.» All'improvviso mi accorsi che le guance erano bagnate: stavo piangendo. Quelle lacrime riaccesero in me una scintilla di rabbia. Era sufficiente. Parrish sembrava compiaciuto, perciò mi asciugai gli occhi e cancellai le sue iniziali. «Sarà un tale piacere conquistarti, Irene!» Non risposi. S'interruppe, e capii che era intento ad ascoltare. Mi sembrò di sentire un debole borbottio ritmato. L'elicottero? Aspettammo, ciascuno con le proprie speranze. Immaginavo che avesse altre armi. Avrebbe sparato a chiunque fosse atterrato nel prato? Forse avrebbero notato la scena in tempo e si sarebbero avvicinati con prudenza. Come avvertirli di non atterrare senza una squadra di soccorso speciale? Il rumore rimase distante, per poi scomparire del tutto. Lui sorrise.
Mostra la tua rabbia, mi dissi. Ma la rabbia era soffocata dalla paura. «Mi hai suggerito la caccia al cane. In un certo senso, anche tu sei una cagna. Hai fatto sesso con lui, la notte scorsa? È per questo che hai cercato di salvargli la vita?» Mi sottopose a una lunga serie di domande davvero creative sulla virilità di Bingle. Non replicai, ma la paura cedette il posto al disgusto. «Adesso comunque non ha importanza. Ti darò la caccia. Puoi correre veloce e fuggire lontano, ma io ti troverò in ogni caso. Ho un olfatto incredibile.» Frugò in un taschino ed estrasse qualcosa di bianco. Sorrideva. I miei slip. Aspirò profondamente con l'espressione di un uomo eccitato da un profumo inebriante. «Guarda!» disse indicandosi i pantaloni. «Guarda che bella erezione mi hai regalato.» Senza abbassare gli occhi risposi: «Neppure il segugio più addestrato riuscirebbe a trovare un affare così piccolo». Mi schiaffeggiò e mi fece sanguinare il labbro; rise premendomi gli slip sulla ferita. «Bene!» disse riportandoseli al naso. «Adesso sarà ancora più facile trovarti. In piedi.» Mi alzai. «Comincia a correre, Irene. Ti darò un vantaggio, ma ricorda che, anche se crederai di essere molto lontana da me o se ti sentirai al sicuro e protetta, io ti troverò. Devi capire bene quello che hai appena cominciato ad apprendere: sono il tuo padrone. Dovresti esserne lusingata. Presto lo sarai. Ti toccherò come nessuno ha mai fatto.» Si infilò gli slip in tasca. «Ho il tuo odore e sono un cacciatore molto silenzioso. Credi di potermi sfuggire? Ti sorprenderò quando meno te lo aspetti.» Si alzò. «Iniziamo.» Non mi mossi. «Alzati!» Ubbidii. «Chiariamo una cosa», sibilò irritato. «Se al mio tre non ti metti a correre, comincio con te subito e, al confronto, le foto di Julia Sayre sembreranno scattate a un picnic. Un'altra cosa: ricorda questo nome, Nina Poolman. Un giorno qualcuno vorrà saperlo. E adesso... uno...» Non sentii nemmeno il tre. Stavo già correndo nel bosco.
26 VENERDÌ 19 MAGGIO, MEZZOGIORNO Un eliporto privato nei pressi di Bakersfield Frank sapeva che Jack possedeva un elicottero, la cui manutenzione era affidata a Dalton, ma immaginava che il cosiddetto elicottero aziendale fosse un piccolo velivolo passeggeri. Alla vista del gigantesco Sikorsky S58T rimase scioccato. «Che cosa se ne fa la Fremont Enterprises di un elicottero di queste dimensioni?» chiese a Jack. «Ci trasporta la merda», rispose Stinger, divertito per tanto stupore. «Abbiamo un contratto con la guardia forestale per il trasporto dei rifiuti», spiegò Jack dando una gomitata a Stinger. «Ne spostiamo sei tonnellate l'anno solo dal Monte Whitney», aggiunse Dalton con orgoglio. «Ma lo usiamo anche per altre cose», proseguì Jack. «Per esempio abbiamo un contratto statale per spostare il pesce vivo dagli allevamenti ai laghi montani; trasportiamo squadre di pompieri, interveniamo in caso di evacuazioni, solleviamo e trasportiamo merci da carico nei cantieri edili. Inoltre, di tanto in tanto Stinger viene coinvolto in operazioni di soccorso.» Travis cominciò a bersagliarli di domande, e Stinger non era certo il tipo che si faceva pregare, se si trattava di parlare del suo Sikorsky. Era alto quasi cinque metri e, senza contare le pale del rotore, lungo circa quindici. Dotato di motori a turbina e di serbatoi del carburante ausiliari, poteva ospitare diciotto passeggeri. Stinger, tuttavia, aveva modificato gli interni in modo che, oltre ai due membri della cabina di pilotaggio, la zona carico prevedesse posti per dieci passeggeri e due barelle. Frank tentò di non pensare all'eventualità di dover ricorrere a queste ultime. Stinger assegnò i posti. Travis e Jack salirono nella zona carico insieme ai due cani, assicurati con imbracature speciali. Dalton chiese a Frank di sedersi con lui nella cabina di pilotaggio, più alta rispetto alla zona carico. «Da qui potrai riconoscere le persone che cerchiamo», spiegò. Frank si arrampicò sulla cabina di pilotaggio e faticò abbastanza per entrare dal finestrino, con i suoi quasi due metri d'altezza. Con un po' di pratica sarebbe certo migliorato, ma quel suo primo tentativo risultò piuttosto goffo e Stinger non risparmiò l'ironia.
Lui cercò di non perdere la calma. Avrebbe dovuto dormire di più; la notte precedente gli era stata offerta una stanza, ma, nonostante il bisogno di riposo, era rimasto alzato a studiare le carte geografiche, a camminare avanti e indietro e a controllare le previsioni del tempo su Internet con il computer. Poco prima dell'alba era stato sopraffatto dalla stanchezza. Si era risvegliato nel mezzo di un incubo in cui Irene gridava in cerca d'aiuto e lui correva e la chiamava, senza riuscire a trovarla. Quando il padrone di casa gli aveva toccato con delicatezza una spalla, si era accorto di essere stato lui stesso a gridare nel sonno. Si era assopito a faccia in giù sul tavolo coperto di mappe. Si aspettava un qualche commento saccente di Stinger, che invece si limitò a dire: «Il caffè è pronto». Stinger gli passò una cuffia con microfono e, allungatosi verso una scala, ne passò altre due a Jack e Travis. Dalla postazione di Frank non si vedeva la zona carico. Dopo una serie di procedure per il decollo effettuate con l'aiuto di Pappy, l'anziano addetto di terra, Stinger disse: «Mi sentite tutti?» Seguì un coro di risposte. «Bene, allora ho una domanda.» «E sarebbe?» fece Jack. «Avete fatto testamento?» «Sì», rispose Travis, e Jack rise. «Questo è il posto del copilota», spiegò a Frank. «Sono certo che non sia necessario che ti dica di non toccare le leve, i pedali o altro.» «Questo aggeggio può essere pilotato da una persona sola?» «Ti conviene sperarlo», ribatté il pilota. «Stinger...» risuonò la voce esasperata di Jack. «È tutto a posto. Ha ragione, era una domanda idiota.» Stinger premette qualche interruttore, il ronzio delle turbine cominciò ad aumentare e si levò uno sbuffo di fumo dallo scarico. «Niente di cui preoccuparsi», assicurò il pilota, indaffarato col pannello di controllo. Le pale dei rotori giravano sempre più veloci, e in meno di venti secondi sia il rotore principale sia quello della coda giravano a velocità regolare. Il rumore era assordante. «I cani sono spaventati», gracchiò la voce di Travis attraverso le cuffie. «All'inizio è sempre così», rispose Jack. «Fra un attimo si calmeranno.» «Stai dicendo che i miei cani hanno già volato su questo affare?» «Certo», rise Stinger, armeggiando contemporaneamente con pedali e
leve. Si sollevarono. Frank si godeva la sensazione del volo che solo un elicottero può dare: abbastanza vicino a terra per osservarne i dettagli e sufficientemente in alto per sentirsi liberi. Avanzarono e salirono ancora di quota. Era cresciuto a Bakersfield, e in quel momento, sotto di sé, vide sfilare veloci i punti di riferimento familiari. Rimase ad ascoltare Stinger che faceva la guida turistica per Travis e Jack. Frank pensava quanto sarebbe costata quella spedizione all'amico. Soltanto il costo del carburante era scandaloso: l'elicottero ne bruciava quasi quattrocento litri l'ora. Come lo avrebbe ripagato per tutti i fastidi e le spese che si sobbarcava per lui? Sapeva che non si aspettava niente in cambio, però... Jack era un pilota esperto, e soprattutto conosceva bene il territorio. Forse un altro non avrebbe raggiunto con altrettanta facilità la piccola pista d'atterraggio: poco più di una stretta striscia di terra in un prato con l'erba falciata in modo irregolare. Sotto di loro la nebbia non era uniforme per via delle correnti d'aria, delle temperature e della forma delle valli: in alcuni tratti era ferma e compatta, in altri era una lieve foschia in movimento, che scompariva qui e là. Stavano per raggiungere Irene, si disse Frank. Dalla pista di atterraggio avrebbero potuto proseguire le ricerche a piedi. Magari stava bene, e Jack aveva speso un sacco di soldi per niente. Se stava bene si sarebbe arrabbiata moltissimo con lui. Più di una volta lo aveva accusato di essere iperprotettivo. Forse le guardie forestali erano già arrivate e avevano recuperato l'intero gruppo... ed era già di ritorno verso casa. «Mi chiedo che cosa avesse in mente quell'avvocato», disse Stinger strappandolo alle sue elucubrazioni. Frank aveva chiamato Newly varie volte, prima di partire, per controllare le coordinate del GPS: quelle che si era segnato indicavano che il gruppo aveva camminato in cerchio tornando sui propri passi più di una volta. L'avvocato, però, non aveva risposto al telefono. «Forse il dolore gli ha dato alla testa», azzardò Frank. «Mmm, può essere», replicò Stinger. «Strano però che ti abbia permesso di consultare il GPS. Non ha molto senso. Comunque ora siamo in grado di controllare i posti che abbiamo segnato sulle carte. Magari avremo fortuna.»
«È possibile che i forestali siano già venuti a prenderli?» «Posso contattarli via radio all'eliporto. Però ci sarebbe un problema.» «Quale?» L'altro sorrise. «Diciamo che tecnicamente stiamo volando su un'area protetta, e secondo la legge non dovremmo essere qui, né con un velivolo né con un camion, a meno che non si tratti di un caso di emergenza. La polizia di Las Piernas deve aver richiesto una serie di permessi speciali, per usare quella pista che di solito è a disposizione della guardia forestale per l'atterraggio dei pompieri. Il tuo dipartimento conosce qualcuno della spedizione? Potrebbe servirci, se ci arrestano.» «Uno dei forestali collabora con gli antropologi legali con cui lavoriamo», rispose Frank chiedendosi se sarebbe stato soltanto licenziato oppure licenziato e arrestato. «Non sono dipendenti del dipartimento... gli antropologi, intendo.» «Spero almeno che il forestale vada d'accordo con Irene. Contattare la stazione equivale a farci arrestare.» «Ma lei sembra conoscere la zona molto bene», intervenne Travis, ricordando a Frank che la loro conversazione era ascoltata dagli altri. «Non esiste un qualche motivo legittimo per cui potremmo trovarci lì?» «Escogiteremo qualcosa», disse Jack. «Al diavolo», sbottò Frank. «O la passiamo liscia o mi sembra tardi per preoccuparsi.» Stinger rise. «Comincio a capire come mai tu e il vecchio Jack siete amici.» Raggiunsero l'ultimo posto registrato sul GPS di Newly e poi cominciarono a girare in tondo, sorvolando i prati segnati sulle carte come possibili. Erano quasi tutti avvolti nella nebbia. «Peccato che non ho gli infrarossi, su quest'aggeggio», borbottò il pilota. «La nebbia dovrebbe dissolversi fra poco. Forse è meglio scendere e aspettare.» Trovarono tre prati con una visibilità di terra decente che, a detta del pilota, era il fattore meteorologico più importante per governare un elicottero senza correre rischi. Avevano già dato una rapida occhiata al terzo prato quando Jack disse di aver visto qualcosa di strano vicino a un albero. Stinger voltò l'elicottero e si abbassò, procedendo lentamente. «Ottima vista», si congratulò Frank. «Guardate il terreno: qualcuno si è accampato qui.»
«Proprio così», fu il commento del pilota che stava sorvolando la chiazza di terra. «Anche se è difficile stabilire quanto tempo fa.» «Torniamo all'albero dove Jack sostiene di aver visto qualcosa», insistette Frank indicando l'altra estremità del prato. «I serial killer scelgono dei posti facili da ritrovare... spesso tornano a visitare le tombe. Se Parrish è riuscito a condurre il gruppo alla tomba di Julia Sayre deve avere un sistema per ritrovarla.» Raggiunsero l'albero in pochi secondi. «Guardate!» esclamò Travis. «Devono aver scavato in quel punto!» «Avevi ragione, Frank», aggiunse Jack. L'ovale scuro con i segni e il terreno smosso era ben visibile. «Atterriamo», annunciò Stinger. «No, non qui», intervenne Frank. «Si sono allontanati, ricordi? Dobbiamo cercare il crinale, quello che divide questo prato dall'altro.» Girarono intorno al prato e videro soltanto un posto che sembrava corrispondere alla descrizione passata dalla guardia forestale al pilota dell'aereo e giunta fino a Pete. Sorvolarono il crinale, ma dall'altra parte il prato era immerso nella nebbia. «Bene», disse Stinger. «Ritorniamo al crinale. Ho visto un posto dove potremmo posteggiare il pargolo.» All'ultima manovra, Frank finì per chiudere gli occhi e ringraziò il cielo che Stinger fosse troppo impegnato a eseguire la pericolosa manovra di atterraggio per accorgersi della sua temporanea debolezza. «Cristo», esclamò Jack. «Credevi che avrei messo fine all'esistenza di quegli alberi, fifone?» «No, alla nostra. Non sono ancora stanco di vivere, a differenza di te.» I cani, nonostante avessero già viaggiato in elicottero, sembrarono contenti di essere di nuovo a terra e non mollarono un momento il padrone. Ogni tanto si avventuravano un po' più avanti, sbirciavano inquieti nella nebbia, fiutavano l'aria e tornavano da lui. Frank stava discutendo un piano d'azione con gli altri e non si era accorto che Dunk aveva il pelo ritto e ringhiava piano. Chiamò gli altri, ancora nei pressi del portello, facendo loro segno di restare in silenzio. Entrambi i cani si erano irrigiditi e avevano puntato le orecchie in avanti. Ascoltavano. Tutti li guardarono eccetto Stinger, che si era precipitato in cabina.
Tornò con un fucile a pallettoni. «Ce n'è un altro, se qualcuno lo vuole», sussurrò. «Forse a te basta la pistola che hai nella fondina, Frank, ma io mi sto facendo vecchio, e ho bisogno di qualcosa per cui non serva una buona mira.» Guardò Travis, che scosse la testa, e poi Jack, il quale sorrise. «Sempre e solo il coltello?» gli chiese piano il pilota. Jack annuì. L'altro scosse il capo. «Potrebbe essere uno scoiattolo», sussurrò Frank, con la mano comunque sulla fondina. Sentirono lo scricchiolio di ramoscelli, un rumore di passi. Dunk cominciò ad abbaiare; Deke lo imitò. «Ssh!» comandò Jack, e i cani obbedirono. Fu un bene che fosse stato lui a dare il comando, pensò Frank sganciando la fondina. Con i padroni di solito i cani erano piuttosto indisciplinati. I passi si avvicinarono. Il gruppo si spostò per tacito accordo, Jack si mise davanti a Travis. Frank chiamò piano i cani, ma loro lo ignorarono. Stava meditando di andare a prenderli quando apparve la sagoma indistinta di un uomo o una donna, non ne era certo. Stinger caricò il fucile. «Potrebbe essere uno dei nostri!» avvertì Frank. «Chi è là?» gridò la figura. Un uomo, ma Frank non ne riconobbe la voce. Stinger lo guardò, gli lesse in volto la perplessità e alzò il fucile. «Non li conosco tutti!» replicò Frank seccato. «Per l'amor del cielo, calmati.» «Chi sei?» gridò. L'uomo si fermò, poi all'improvviso si voltò e corse via. «Fermo!» gli intimò Frank. A giudicare dal rumore tra gli arbusti l'uomo continuò a correre. Frank si voltò verso Stinger. «Tu e Travis restate qui!» ordinò. «Jack, vieni con me.» Non aspettò di vedere se gli obbedivano. Si lanciò all'inseguimento del rumore insieme a Jack. I cani presero parte alla caccia e li superarono, restando però in vista. Si sentirono un tonfo e le grida del fuggitivo: un grido di puro terrore. Frank corse più veloce. Qualche attimo dopo lo vide. I cani si erano fermati, con le orecchie indietro e le code basse. L'uomo non aveva smesso di gridare e colpiva fre-
neticamente qualcosa, come un bambino preso in un'enorme ragnatela; colpiva strane sagome appese a un albero. Sembravano cani. No, non cani: coyote. Sobbalzavano, dondolavano, sbattevano contro l'uomo che all'improvviso crollò in ginocchio e si rannicchiò, in posizione di difesa. Per un istante Jack e Frank rimasero impietriti, terrorizzati alla vista dei dodici coyote morti che oscillavano cozzando l'uno contro l'altro. Al contatto alcuni si smembravano. Deke rimase accanto a Frank, mentre Dunk avanzò per primo e fiutò con prudenza l'uomo. Quando alzò la testa Frank vide il volto teso di un giovane spaventato, ma non sembrava aver paura di quello che gli stava succedendo in quel momento. Non guardava né lui né Jack: fissava il cane. «Bingle?» lo chiamò, come se stesse vivendo un miracolo. Frank si rilassò un po', ma si avvicinò lo stesso con cautela. «Si chiama Dunk», disse con disinvoltura. «Conosco Bingle: ho lavorato con lui. Mi chiamo Frank, e tu?» L'uomo alzò gli occhi verso di lui, vide i coyote e distolse in fretta lo sguardo per concentrarsi su Dunk. Allungò la mano, lo toccò, poi cominciò ad accarezzargli il pelo. Il cane si avvicinò, mostrando di gradire. «Jay, Jay Carter», rispose con voce tremante. «J.C.» «J.C.», ripeté Frank. «È così che ti chiamano gli amici?» Il giovane annuì. Frank gli si avvicinò e gli tese la mano. «Che ne dici se ci allontaniamo da qui? Dammi la mano, forza.» J.C. si lasciò condurre lontano dall'albero, con il viso rivolto dalla parte opposta. Guardava Dunk e Deke che gli annusavano le scarpe. «Li sentono», disse. «I coyote?» chiese Frank. J.C. scosse la testa, ma non rispose. Impallidì, e sembrava sul punto di svenire. Frank gli cinse le spalle con il braccio e, con l'aiuto di Jack, lo accompagnò verso un albero. «Tieni, bevi un po'», offrì Frank, ma J.C. cercò la sua bottiglia e bevve avidamente. «Vado ad avvertire Stinger e Travis che stiamo bene», disse Jack, «e ritorno con caffè e coperte.» «Grazie.» Jack esitò. «Porto con me i cani?» «No!» intervenne J.C.
«Va bene», lo tranquillizzò Frank. «Resteranno con noi.» Solo dopo che l'amico si fu allontanato, notò un particolare che gli era sfuggito. «Sei del Corpo Forestale...» «Sì, sono una guardia», rispose J.C. abbacchiato. Mise via la bottiglia e si avvicinò ai cani. Li coccolò e seppellì il viso nel loro pelo. Deke e Dunk non gli sfuggirono e accettarono di buon grado quelle effusioni. «Dunque conosci Bingle?» chiese Frank. «Lo conoscevo», rispose J.C. piano mentre le lacrime cominciavano a scorrergli lungo il viso. L'altro sentì una morsa allo stomaco. «Allora conosci David Niles e Ben Sheridan?» «Sono morti», sussurrò J.C. «Che stai dicendo?» urlò Frank. «Sono tutti morti», ripeté. «No...» «Li ho lasciati qui.» «No!» «Sì, io... li ho lasciati», disse in modo brusco. «Gli avevo promesso... che sarei tornato. Ma era troppo tardi, e lui... li ha uccisi.» «Irene...» singhiozzò Frank, a metà fra la domanda e il grido. «Tutti! Li ha uccisi tutti! Non so come, forse con una pistola, in faccia! E un'esplosione, credo. Li ha fatti a pezzi! Sono... sulle mie scarpe! Non ho potuto evitarlo, ci ho camminato sopra. Non volevo, non volevo arrivare così tardi!» «Sei pazzo!» lo interruppe Frank con rabbia. Fu assalito dal desiderio di schiaffeggiarlo per fargli dire che mentiva, che si era inventato tutto. J.C. lo guardò e replicò con calma: «Lo so». Poi, come se ricordasse solo in quel momento la presentazione di poco prima, aggiunse: «Cristo, tu sei suo marito! Mi dispiace. Dio, quanto mi dispiace!» Frank fece un respiro profondo e riuscì a riprendere il controllo. Anche la sua voce era tornata calma mentre chiedeva: «J.C., quand'è stata l'ultima volta che hai dormito?» Lui stava di nuovo accarezzando i cani. «Non me lo ricordo.» «Oggi è venerdì. Tu hai accompagnato Newly martedì, giusto?» «Credo di sì. Non lo so, è stato tanto tempo fa.» «Sei tornato indietro il giorno stesso?»
«No; ho dormito un po', quella notte, e li ho raggiunti il giorno dopo.» «Mercoledì cos'è successo?» «La stavano già dissotterrando.» Chiuse gli occhi. «Julia Sayre?» Annuì e lo guardò. «Da allora non ho dormito un granché.» «Il resto del gruppo si è diretto verso il prato al di là del crinale?» «Sì.» «Oggi eri venuto a cercarli, J.C.?» «Gli elicotteri erano fuori uso.» «Quali elicotteri?» «I nostri, quelli del Corpo Forestale. Ero già in ritardo. Avevo promesso che sarei tornato.» «E hai mantenuto la promessa. Hai fatto del tuo meglio, ma Parrish... ascoltami bene. È molto importante. Sei certo di aver identificato i corpi?» «Merrick e Manton.» Aveva l'espressione tesa. «Io... ho visto i pezzi degli altri.» «Sei sconvolto, ma sarebbe successo a chiunque.» «Sì.» «Vieni da lì? È una cosa orribile. Chiunque sarebbe scappato. È andata così?» J.C. annuì e, troppo stanco per non essere sincero, aggiunse: «Ho anche camminato. Credo di essere un po' confuso. Stavo tornando alla stazione forestale. Volevo chiedere aiuto. Poi... mi sono reso conto che era troppo tardi. A quel punto ho sentito un cane, credevo fosse Bingle, perché non l'avevo visto... non ne ero certo, ma non l'avevo visto, e magari si trovava un po' più distante dagli altri, con Irene, come l'altra volta. E poi... poi ho pensato che ci fosse anche lui e... i coyote... e...» «Tranquillo. È tutto finito.» Un po' più distante dagli altri, con Irene. Frank si aggrappò a quelle parole. Sentirono gli altri avanzare fra gli alberi. J.C. guardò Jack, come se lo vedesse per la prima volta, poi Travis e infine Stinger. In quel momento sgranò gli occhi. «Stinger, finalmente ti hanno mandato a cercarli!» «Vi conoscete?» chiese Frank. Stinger si era inginocchiato e stava avvolgendo J.C. in una coperta. Lo strinse forte e, tenendolo per le spalle, lo guardò dritto negli occhi. «Mio Dio, J.C., la prossima volta che decidi di giocare alla pentolaccia con un mucchio di coyote morti, usa un bastone invece della faccia... Sembri fuori
di testa, come me.» Il forestale rise e ribatté sconsolato: «Sono arrivato troppo tardi». Stinger lo strinse fra le braccia: «Povero J.C.! Datti da fare con quel caffè, Fremont. Non vedi che il ragazzo ne ha bisogno? Harriman, dove diavolo credi di andare?» «A cercare mia moglie.» «Merda...» Frank lo interruppe e in breve riferì agli altri ciò che J.C. aveva scoperto. Dopo un primo momento di choc, Jack e Travis capirono l'ansia dell'amico e si prepararono ad accompagnarlo in direzione del prato. «Fermi, aspettate!» intimò Stinger, ma stavolta fu J.C. a interromperlo. «Vi mostrerò il posto se... se proprio volete vederlo.» «Grazie», rispose Frank, «ma Stinger ha ragione: hai bisogno di un po' di riposo e di bere qualcosa di caldo.» J.C. frugò nello zaino e ne estrasse un aggeggio rettangolare nero, piuttosto piccolo. Stavolta Frank capì che non si trattava di un cellulare. «È un lettore GPS... Hai...» «C'era molta nebbia, e volevo essere certo di poterci tornare», spiegò J.C. porgendoglielo. «Ho segnato il posto. So di essere... fuori di testa. Hai ragione tu: sono pazzo.» «No, mi sbagliavo», ribatté Frank imbarazzato. «E ho sbagliato a dirlo.» Il forestale non rispose. Frank esitò un istante prima di fargli un'ultima domanda. «Credi che sia successo da poco?» J.C. scosse la testa. «È tutto fradicio. Merrick e Manton sono freddi. Gli altri non sono riuscito a toccarli. Non c'era abbastanza... non c'erano speranze che fossero vivi.» «Bevi il caffè», lo incitò Stinger. «Poi torneremo all'elicottero per equipaggiare queste teste calde. Non hanno neppure pensato a come contattarmi, nel caso in cui trovassero la moglie di Frank.» «Non verrai con noi?» chiese il detective. «Riflettici un momento. Qui intorno si aggira un uomo che sa bene come funziona un elicottero. Non ho nessuna intenzione di allontanarmi e di lasciargli il mio gioiellino a disposizione. Se la nebbia si dirada, vi raggiungerò in un baleno.» «Che succede se quell'uomo arriva qui?» domandò Travis. Stinger sorrise. «Non avrà più bisogno dell'avvocato.»
27 VENERDÌ 19 MAGGIO, POMERIGGIO Montagne della Sierra Nevada meridionale Non molto tempo dopo aver raggiunto il prato Frank passò l'unità GPS a Travis. Sentì gli avvoltoi contendersi il pasto e avvertì l'odore di carne in decomposizione. Chiese a Jack di restare con Travis e i cani, vicino agli alberi, mentre lui si addentrava nella nebbia per dare un'occhiata. Non voleva che Travis vedesse quello che la foschia nascondeva e che serbasse i ricordi con cui J.C. avrebbe dovuto imparare a convivere. Era responsabile di Travis, anche nel caso in cui Parrish si trovasse ancora nei paraggi. Oltre ai coltelli, aveva portato anche uno dei fucili di Stinger. Tutti e tre erano inoltre dotati di segnali luminosi e ricetrasmittenti. «Non vi spaventate se sentite dei colpi», li avvertì Frank. «Forse dovrò spararne un paio per allontanare gli avvoltoi.» Gli spari funzionarono per un po', anche se non ebbero alcuna efficacia sugli insetti. Sapeva che le bestiacce sarebbero tornate, forse anche prima che se ne fosse andato. In quel momento, però, aveva altro a cui pensare. Mentre scrutava fra i resti tentò di comportarsi come se fosse al lavoro. Si ripeteva che sua moglie non era in mezzo a quel caos, e non stava cercando niente che le fosse appartenuto. Se la cavò piuttosto bene finché non trovò i corpi di Merrick e Manton. J.C. doveva averli riconosciuti dalla divisa, perché i volti erano devastati. Frugò nelle loro tasche. Li conosceva entrambi. Non erano amici veri e propri, ma aveva lavorato più volte con loro. Si allontanò, ma si rendeva conto che non ce la faceva a non lasciarsi coinvolgere da ciò che si mostrava ai suoi occhi. Chiamò Jack e Travis via radio, solo per il bisogno di sentirne le voci, per ricordarsi che nel mondo non c'erano soltanto nebbia, tanfo, tessuti molli e ossa, avvoltoi e insetti. Nel frattempo si era alzata una lieve brezza e riuscì a vedere meglio gli amici. La nebbia si sarebbe diradata a sufficienza da permettere a Stinger di atterrare. Se Parrish si fosse trovato nei paraggi i cani avrebbero dato l'allarme, ma era inverosimile che fosse lì vicino. Doveva essere fuggito, e probabilmente Irene era suo ostaggio. O forse peggio. Sperava di sbagliarsi. La seconda era un'eventualità alla quale non voleva neppure pensare.
Prima di lasciare il crinale aveva chiesto a Stinger di contattare la stazione forestale. Era una situazione troppo difficile, e non potevano gestirla da soli. Dovevano organizzare la caccia a Parrish. Non aveva problemi a esporsi personalmente per essere andato lassù: era il minimo che potesse fare, se Irene era prigioniera o se i suoi resti si trovavano fra quelli degli altri. Ragiona, si disse. Fa' come se si trattasse del luogo di un qualunque delitto. È il tuo lavoro. Quindi si pose le domande di rito. Che cosa era successo? Il gruppo si era raccolto intorno alla tomba e stava lavorando. Doveva esserci stata un'esplosione. Com'era potuto accadere? Parrish non aveva armi con sé, ne era certo. Si sarebbe fatto spiegare i dettagli da un artificiere, ma era molto probabile che l'ordigno si trovasse già sul posto e fosse stato innescato da qualcosa che la squadra aveva fatto. Una trappola esplosiva. Il serial killer aveva pianificato di condurre il gruppo a quella tomba fin dall'inizio. Però li aveva portati da Julia Sayre. Forse li aveva condotti al primo corpo per convincerli anche a cercarne un secondo. Comportati come faresti nel luogo di un qualunque altro delitto, si ripeteva Frank desiderando avere a disposizione l'aiuto che avrebbe avuto in una normale azione di polizia. Perizie dentali e un odontoiatra legale, tanto per cominciare. Per il momento dovette ripiegare sulle supposizioni, perciò si pose la domanda per la quale desiderava di più una risposta: chi sono le vittime? Quelli più vicini all'impatto dovevano essersi trovati sui bordi della tomba o addirittura al suo interno. I due antropologi, Sheridan e Niles. Dai frammenti di una videocamera aveva già stabilito che il fotografo, Bill Burden, era una delle vittime. Che peccato! Flash era in gamba, un ottimo collaboratore. Così giovane... ma non c'era tempo per pensarci. Thompson? Molto probabile. Frank lo conosceva, e sapeva che il collega non sarebbe rimasto lontano dalla tomba. Duke ed Earl? Non ne era certo. Merrick e Manton erano stati uccisi da proiettili, e non dall'esplosione, perciò in quel momento erano loro a sorvegliare Parrish. Frank aveva già stabilito che l'assassino aveva sottratto l'arma a uno dei due approfittando della confusione seguita al boato. Erano tutti stanchi, esausti, e si trovavano a ripetere le stesse identiche operazioni che avevano portato a termine nel prato precedente. Non potevano intuire che la tomba era una trappola imbottita di esplosivo.
Erano tutti stanchi... Merrick e Manton erano di guardia, il che significava che Duke ed Earl erano liberi, magari appisolati nella loro tenda. Era possibile che fossero riusciti a fuggire? Se era così, stavano di certo dando la caccia a Parrish. Si sarebbero sentiti in dovere di catturarlo; forse lo stavano braccando; forse erano già sulle sue tracce. Aveva bisogno di contare i corpi di quelli che erano rimasti uccisi nell'esplosione. Ma come? Si concentrò sui resti più facilmente identificabili e trovò nove scarponi da uomo. Gli avvoltoi potevano aver preso il decimo. Cinque uomini più i due agenti. Stava riflettendo su quel particolare quando trovò un pezzo di scarpa da donna e per poco non crollò. Si rese conto che si trattava di una scarpa elegante, non uno scarpone da trekking. Era sporca e puzzava terribilmente. Irene non si era portata scarpe del genere, perciò doveva appartenere alla vittima della tomba. «Frank?» gracchiò la ricetrasmittente. «Sono qui, Jack.» «Hai sentito un latrato?» «No, ma ero piuttosto assorto. Tu l'hai sentito?» «Credo di sì, e i tuoi cani si stanno comportando come se fossero attratti da qualcosa al di là del torrente. La guardia forestale ha detto che Irene potrebbe trovarsi con il cane, no?» Avrebbe tanto voluto credere a quell'eventualità senza dar retta ai suoi veri timori, perciò rispose: «Sì. Avvisami, se lo senti di nuovo. Da queste parti deve esserci un accampamento. Chiamami, se lo vedi. Avevano un equipaggiamento voluminoso. Una parte era qui, ma non c'è traccia di tende e zaini. Forse si erano sistemati fra gli alberi vicino alla tomba. Perché tu e Travis non date un'occhiata?» «Certo.» «Guardate soltanto, non toccate niente, non vi avvicinate troppo e non lasciate molte impronte. Chiamatemi e basta.» Gli descrisse la roba di Irene. «Mi raccomando.» «D'accordo. Come va, lì?» Dopo un istante di esitazione, rispose: «Bene. Travis, mi senti?» «Sì.» «Voglio avvisarvi entrambi. Dubito che i corpi siano tutti qui, il che forse è una buona notizia, ma al campo potreste trovarne altri. Se ci sono non avrete bisogno di vederli, li sentirete. Occhio, perché a quel tizio piace nascondere esplosivi. Ve lo ripeto: se trovate l'accampamento, chiamatemi.» Quindi regolò la radio sulla frequenza di Stinger. «Pronto, mi senti?»
«Sì. Si sta alzando il vento. Se continua così, fra un'oretta dovrei riuscire a raggiungervi.» «Come sta J.C.?» «Sta dormendo. Credo che non ne potesse più.» «Hai contattato la stazione forestale?» «Sì, ma non possono aiutarci in fretta come vorrebbero: pare che qualcuno abbia sabotato gli elicotteri più vicini. Erano contenti di sapere che abbiamo trovato J.C. Sembravano piuttosto preoccupati per lui. Ha preso uno dei loro mezzi per avvicinarsi il più possibile al posto, perciò sono a corto di veicoli... credo che possano usare un paio di sentieri che utilizzano in caso d'incendio, e hanno anche chiamato i rinforzi. Alla fine arriveranno tutti tranne i marines.» A Frank non piacquero quelle notizie. Il problema di coordinare gli sforzi poteva finire con il mettere in secondo piano l'obiettivo, ma non poteva cercare Parrish da solo. «Avrei bisogno che contattassi anche il dipartimento di polizia di Las Piernas. Credi di riuscire a essere diplomatico?» Stinger rise. «Ehi, testa di cazzo», lo interruppe Frank, «sono circondato dai cadaveri di almeno sette persone con cui ho lavorato.» Seguì un breve silenzio, poi Stinger rispose: «Così va meglio. Il tuo guaio, Harriman, è che sei un po' troppo educato, un po' rigido». «Senti...» «D'accordo, ci penso io. Tu trova tua moglie mentre io cercherò di trattare per non farti arrestare.» «Chi se ne frega di... aspetta, mi hai appena dato un'idea. Il tuo addetto di terra può farti parlare al telefono?» «Sì.» Gli dettò il numero. «Dovresti metterti in contatto con Tom Cassidy: è un negoziatore di ostaggi. Raccontagli ciò che è successo e digli che... potrei aver bisogno del suo aiuto.» Tornò a ispezionare il terreno e trovò il decimo scarpone. Sembrava che fosse stato spostato a una certa distanza dagli altri e si trovava vicino a Merrick e Manton. Notò le impronte di un cane e vicino una serie di orme umane: scarponi leggermente più piccoli di quelli che aveva cercato. Orme di donna? Si sforzò di ricordare se qualcuno della spedizione fosse piccolo di statura. No, erano tutti di altezza media; anzi, piuttosto alti. Si trattava forse degli scarponi di Irene? Se stava con il cane... J.C. non aveva detto così? Aveva senso. Thom-
pson non avrebbe accettato che partecipasse agli scavi, e a lei non sarebbe dispiaciuto tener compagnia al cane nell'attesa dei risultati. Gli animali le piacevano. Parrish avrebbe ucciso Bingle alla prima occasione, ma forse i cani piacevano anche a lui. Poi gli venne in mente l'albero dei coyote e cambiò idea. Decise di seguire le tracce. In quel modo avrebbe potuto almeno scoprire la direzione verso cui aveva costretto moglie e cane a marciare prima di uccidere la bestiola. Ma, insieme a quelle di Irene e del cane, non c'erano le impronte di Parrish. In lui si riaccese la speranza. Forse era riuscita a sfuggirgli? «Irene!» chiamò, sperando che potesse sentirlo. La ricetrasmittente gracchiò di nuovo e tornò alla realtà. Non aveva alcuna ragione di sentirsi sollevato. Trovò un posto in cui l'erba era stata calpestata e sembrava esserci del sangue, ma era tutto così difficile da stabilire: la pioggia aveva coperto ogni cosa. Fu attratto da un'altra serie di orme... qualcuno che trascinava qualcosa o... qualcuno? Le stava seguendo quando sentì la voce di Travis dalla radio. «Abbiamo trovato l'accampamento. È stato messo sottosopra ed è tutto fradicio, ma non c'è traccia di corpi, né della roba di Irene.» «Bene. Io... credo di aver trovato le sue impronte. Hai ancora il GPS?» «Sì. Vuoi che segni il punto?» «Sì. Poi raggiungete il limitare del bosco in modo che possa vedervi. Voglio sapere se c'è una qualche relazione fra le impronte e il punto in cui vi trovate.» Quando fu in grado di individuare Jack, Travis e i cani, Frank si rese conto che le orme che stava seguendo piegavano ad angolo e si allontanavano dal campo. Che significava? Se erano quelle di Irene, chi era l'altra persona? Parrish? Era ferito? Lo era lei? No, le sue orme - ammesso che fossero le sue - erano profonde ma deformate da qualcosa che era sopraggiunto dopo e aveva appiattito un'ampia striscia di erba. Erano segni che aveva già visto in circostanze simili: i segni di un killer che trascina un corpo... Oh, Dio. No. Corse lungo la striscia di erba appiattita e, proseguendo fra gli alberi,
giunse in un punto in cui c'erano state due persone in piedi, o almeno così sembrava. Vide le impronte di tre scarponi, un segno che non riuscì a riconoscere e quelle del cane. Non c'erano più tracce di trascinamento. Poi soltanto due, ma molto più profonde di prima. Erano quelle più piccole e... portavano qualcosa? Qualcuno? Erano sopravvissuti in due. Forse Parrish era stato ferito dagli agenti e aveva costretto Irene a... cosa? A farsi trascinare? Non riusciva a capire. Era più probabile che l'avesse legata e trascinata. Dopo un po' fu più difficile seguire le tracce e alla fine le perse del tutto. Mentre le cercava, s'imbatté in orme diverse. Si era aggiunto qualcosa. Contò di nuovo. J.C. e Andy avevano raggiunto la pista di atterraggio, perciò restavano Parrish, Thompson, Duke, Earl, Merrick, Manton, Flash, Sheridan, Niles e Irene. Dieci persone. Se i segni sull'erba erano di Parrish e Irene, ne rimanevano otto. Tolti Merrick e Manton, si riducevano a sei. Sei paia di scarponi. L'esplosione, però, aveva sparpagliato soltanto dieci scarponi, non dodici. Se qualcun altro era sopravvissuto, chi era? E dov'era? Doveva trattarsi di Duke o di Earl. Erano veterani, sapevano il fatto loro. Nessuno dei due avrebbe messo Irene in pericolo, ma entrambi erano in grado di seguire le tracce di Irene e Parrish, di capire dove il bastardo la stava portando e di mettergli fretta in modo che non avesse tempo per... per fare altro. Il suo ottimismo circa le probabilità che sua moglie fosse viva aumentò. «Portate i cani», ordinò via radio. «Vediamo di riuscire a trovare Bingle.» I cani li condussero al torrente. Procedettero lungo la riva dove, di tanto in tanto, erano visibili le orme di Bingle. Tuttavia Deke e Dunk sembravano distratti, spesso più interessati alla fauna locale che alla ricerca di un loro simile. Deke si lanciò all'inseguimento di uno scoiattolo e per poco non fece cadere Travis nel fango. Jack li rimproverò e si calmarono. A quel punto Frank temeva di aver perso tempo prezioso per una inutile caccia allo scoiattolo, poi guardò il corso d'acqua, a monte, e si fermò. «Merda, un ponte.» Lo videro anche gli altri. Il corso d'acqua era attraversato da un albero abbattuto. Corsero a controllare. «È stato tagliato di recente», osservò Jack, «ne sono certo. Intorno è tutto inzuppato di pioggia, mentre il pino è piuttosto asciutto, e si sente anco-
ra l'odore del taglio.» Frank esaminò il terreno. I segni erano confusi: due serie di impronte di scarponi, entrambe le persone in grado di camminare, e quelle del cane. C'erano altri segni di disturbo, impronte di mani nel fango. Di Irene? Non ne era certo. Duke, o forse Earl, aveva cercato di concludere un'azione, ma gli era andata male. Forse il sesto uomo aveva perso la vita lì e il corpo era stato trascinato via dalla corrente. Qualcuno, però, aveva avuto la forza e il tempo di tagliare un albero di notevoli dimensioni. «Andiamo a dare un'occhiata sull'altra sponda.» Lì trovarono impronte ancora più confuse, ma i cani sembravano nuovamente agitati e guaivano. Jack ritrovò le orme di Bingle e le seguirono finché, all'improvviso, Travis urlò: «La sua tenda!» Era ancora in piedi, nascosta fra gli alberi. Aveva anche escogitato un modo per raccogliere la pioggia. «Irene!» gridò Frank. «Irene!» Nessuna risposta. Guardarono all'interno e capirono che ci aveva dormito, ma Frank notò un miscuglio di vestiti. I cani furono attratti da un angolino dove c'erano tracce di sangue. «Ha attraversato il torrente e si è accampata qui», disse Jack. Frank afferrò una camicia di Irene ma non vide squarci o chiazze di sangue, né lì né sul sacco a pelo. Se non era lei, quella ferita, forse Parrish non l'aveva fatta prigioniera. Forse era con l'altro superstite. «Vediamo se Bingle ha lasciato qualche traccia.» Non ebbero bisogno di cercarle. Deke fiutò l'odore di Bingle e cominciò ad abbaiare, imitato da Dunk. Jack fu il primo a individuare un grosso pastore tedesco su un cumulo di massi lì vicino. Si erano avvicinati troppo, e il cane difendeva il suo territorio con feroci latrati. Deke e Dunk si accucciarono immediatamente dimenando la coda, come se volessero scusarsi. «Forse hanno paura di quel maglione», osservò Travis. «No», spiegò Jack. «Quel cane è un leader nato, e Deke e Dunk lo stanno accettando, anche se credo che più tardi esamineranno il maglione.» Dopo aver ordinato ai cani di non muoversi, cosa peraltro superflua, i tre uomini tentarono di avvicinarsi a Bingle, che però continuava a ringhiare e abbaiare. Frank cercò di ripensare al giorno in cui aveva lavorato con David Niles
e gli venne in mente che il cane ubbidiva ai comandi in spagnolo. «¡Bingle, cállate!» disse con voce ferma. Il cane smise di abbaiare e lo guardò, piegando la testa da un lato. «¡Bien, Bingle, muy bien!» Una voce debole, proveniente da un punto imprecisato, ordinò: «È tutto a posto, Bingle. Está bien, Bingle». «Chi è là?» chiese Frank. «Ben Sheridan.» «Ben! Sono Frank Harriman. Dove sei?» «Sono qui, fra le rocce. Sono ferito, altrimenti ti sarei venuto incontro. Bingle ti mostrerà dove trovarmi. Come si dice: Vieni qui'?» «Ven acá», rispose Travis, che era senza dubbio quello che se la cavava meglio con lo spagnolo. Il cane guardò Travis, piuttosto confuso da tutti quegli ordini. Ben lo chiamò e il cane si precipitò verso la voce più familiare, e quasi lo persero di vista. Dopo aver sbirciato fra le rocce Frank disse: «Veniamo a prenderti subito...» «Non importa. Hai trovato Irene?» Frank deglutì a fatica. «Non è con te?» «Oh, Dio», esclamò Ben. «Devi trovarla! Non preoccuparti per me!» «Dimmi cos'è successo!» «Parrish...» «Sappiamo già che ha ucciso gli altri. Qualcuno è riuscito a fuggire?» «No», rispose debolmente. «Però... Andy e J.C. non erano con noi, grazie a Dio. Stamattina Parrish è venuto a cercarci dopo aver tagliato un albero per farci un ponte. Irene mi ha nascosto qui e gli è andata incontro nel tentativo di attirarlo lontano da me. Io... non volevo! Ma non posso camminare e...» «Sappiamo bene quanto sia testarda», lo rassicurò Jack. «Dov'è andata?» «Dall'altra parte del torrente, credo. Ho sentito degli spari e poi ho visto arrivare Bingle, ma forse ha solo tentato di colpire lui. Mi è sembrato di sentirla gridare dopo lo sparo.» «Vai, Frank», disse Jack. «Travis e io ci prenderemo cura del dottor Sheridan. Chiamo Stinger e vedo se può alzarsi e contribuire alle ricerche. La nebbia si è dissolta.» «Parli spagnolo, vero?» chiese Ben a Frank. «Sì.» «Portati Bingle, allora. È piuttosto provato, ma è addestrato per le opera-
zioni di soccorso.» «Una volta ho visto David lavorare con lui», replicò Frank. «Ma non so se avrà voglia di dare retta a me.» «Non lavorerà più bene come lavorava con David. David. ..» ma non riuscì ad andare avanti. «Ti prego, prendi Bingle con te, vale la pena provare. Credo che il comando sia: 'Trovali', e chiedigli dov'è Irene. Lodalo molto, fallo sembrare un gioco. Non sarà necessario il guinzaglio: le è affezionato. Credo che l'avrebbe cercata comunque, perché si comporta come se fosse molto preoccupato.» «Chiedi a Stinger di decollare più presto che può», disse Frank. Poi chiamò Bingle. Il cane esitò, il muso rivolto a Ben. «Come si dice «Vai con lui'?» «Ve con él», rispose Travis. Ben ripeté il comando a Bingle indicandogli Frank. Alla terza volta, il cane lo raggiunse. Frank notò che era concentrato su di lui, quasi impaziente. Tentò di ricordare tutto ciò che aveva visto fare a David. «Prenditi cura di Deke e Dunk, Travis.» «Non preoccuparti!» «Bingle», disse Frank, «¿Estás listo?» Il cane abbaiò e dimenò la coda. Frank gli allungò la camicia che aveva trovato nella tenda, sperando che Irene l'avesse indossata di recente. Bingle l'annusò. «¿Dónde está Irene? ¡Búscala!» Bingle abbaiò e corse verso il torrente. 28 VENERDÌ 19 MAGGIO, MATTINA Montagne della Sierra Nevada meridionale All'inizio pensai solo a fuggire. Corsi alla cieca, nella nebbia, fra gli alberi. La nebbia e la foresta erano al contempo un rifugio e un ostacolo: mi nascondevano da lui, ma non mi permettevano di correre e di muovermi velocemente come avrei voluto. A casa correvo quasi ogni giorno sulla spiaggia, ma in quel bosco i tratti di terreno pianeggiante e liscio erano pochi. L'altitudine, il fango e l'irrego-
larità del suolo erano solo alcuni dei problemi. Non ero di sicuro fresca e riposata. Nonostante la stanchezza, però, avanzavo veloce. La minaccia di essere alla mercé di Nick Parrish era sufficiente a farmi proseguire. All'inizio mi chiamava, urlava cose e faceva di tutto per spaventarmi. «Non sai correre più veloce di così?» «Stai rallentando! Ti prenderò!» «Mi sto avvicinando!» Diedi un'occhiata alle mie spalle, inciampai in una radice, persi l'equilibrio, mi graffiai le mani nel tentativo di attaccarmi a un ramo per non cadere. Mi alzai e caddi di nuovo. Dovevo procedere con maggior prudenza. Anche nei punti in cui il terreno era più asciutto gli aghi di pino lo rendevano scivoloso. Lo zaino mi batteva sulla schiena; gli scarponi non erano certo comodi come le scarpe da jogging: mi privavano di sensibilità e mi costringevano a correre in modo sgraziato. Dopo poco i piedi mi sembrarono di piombo e le gambe rigide, pesanti. Ero come stordita. Però, mi sembrava di aver aumentato il distacco. Parrish non era vicino come all'inizio. La voce mi giungeva meno spesso, le parole sempre meno distinte. Presto smise del tutto di gridare. Continuavo ad avanzare nonostante le fitte ai muscoli, e respiravo a fatica, come se delle lame mi penetrassero i polmoni ogni volta che inspiravo. Cominciarono i crampi e sentivo la bocca secca. Le dita formicolavano. Rallentai il ritmo. Ormai mi trascinavo, ma non riuscivo a vederlo né a sentirlo, e la cosa mi innervosiva. Dov'era? Mi aveva superata o ero riuscita a seminarlo? Forse la ferita alla spalla lo aveva indebolito. Ero certa di averlo sentito nelle vicinanze, poi mi resi conto che erano i rumori provocati dalla mia stessa corsa. Scivolai di nuovo. Mi rialzai e spostai lo zaino davanti, come fosse un pallone. Avevo corso in tondo? Non ero più così sicura di essermi allontanata da lui, anzi mi convinsi che gli stavo andando incontro. Sentii il rumore del torrente e cercai di seguirlo, ma ero certa che lui fosse vicino, molto vicino. I capelli, bagnati dal fango e dalla nebbia, mi battevano sul viso. Li spostai dagli occhi senza fermarmi. A un certo punto caddi pesantemente. Non capii che cosa fosse successo. Le gambe avevano ceduto. Mi ero graffiata le ginocchia, gli avambracci, il viso. Non ero più in grado di reggermi in piedi. Non avevo forza negli arti, tremavo e sentivo dolore dappertutto; avevo la nausea. Era come se avessi preso una brutta influenza.
Ero distesa vicino a un cespuglio e sentivo il torrente. Cercai a tentoni la borraccia e quasi mi sorpresi di averla ancora, insieme allo zaino. La aprii con le mani tremanti e bevvi tutta l'acqua, ma avevo ancora sete. Ormai neppure il terrore mi avrebbe consentito di proseguire. Strisciai verso il torrente: trovai una grossa pietra piatta, a pochi centimetri sulla superficie dell'acqua, e mi distesi. Il mondo girava vorticosamente. Ero fradicia di sudore e ansimavo in preda al dolore. Il cuore batteva forte e la testa rimbombava seguendone il ritmo, Nick Parrish avrebbe potuto spararmi con un cannone e non l'avrei sentito. In quel punto il torrente scorreva troppo veloce, e non potevo certo attraversarlo senza correre rischi. Chinai il viso e bevvi l'acqua gelida con avidità. Avevo troppa sete per filtrarla e, a dire il vero, se mi fossi anche presa la dissenteria sarei stata ben contenta di tornare indietro a raccontarlo. Lasciai che gli schizzi d'acqua mi rinfrescassero. Mi sciacquai braccia, viso e gambe, bagnai i graffi per lenire il dolore. Immersi la testa nell'acqua gelida e tolsi il fango dai capelli. Riuscii a riempire la bottiglia usando il filtro e bevvi di nuovo. Rimasi distesa e, per un tempo che mi parve infinito, non fui in grado di fare nient'altro. Ero ancora terrorizzata da Parrish, ma ero distrutta, al punto che neppure la paura riusciva a stimolarmi. Alla fine cercai di rimettermi in piedi e riprendere la fuga, nonostante le proteste di muscoli e giunture. Mi avviai lentamente, barcollando, nella direzione opposta alla riva. Volevo essere pronta, nel caso in cui Parrish mi avesse raggiunta. Ero molto debole e non andai lontano. Nei pressi del torrente trovai un mucchio di massi, non molto diversi da quelli in cui era nascosto Ben. Non avevo più sentito Parrish: forse aveva trovato Ben o aveva dato la caccia a Bingle. Anche se non lo stava cercando, quanto avrebbe resistito Ben fra quelle rocce? Sarebbero riusciti a salvarlo se mi fosse accaduto qualcosa? Fra gli alberi alla mia sinistra sentii uno scricchiolio. Mi voltai con il cuore in gola. Un cervo. Poco dopo credetti di sentire di nuovo il rumore di un elicottero, ma c'era ancora molta nebbia, e se anche mi volò sopra la testa non lo vidi. Dovevo rimanere calma. Non appena la nebbia si fosse diradata, J.C. avrebbe condotto l'equipaggio al prato. Che cosa avrebbe impedito a Parrish di sparare? Dall'alto avrebbero potuto scoprire la fossa e i cadaveri. Alla vista di
quello spettacolo sarebbero certo stati prudenti. Pregai che le cose andassero così. Aspettai. Mi destai di soprassalto. Il pensiero di essermi addormentata mi terrorizzò. Dovevo restare vigile, ma ero talmente disorientata che non ricordavo neppure il perché. Mi ero risvegliata da un sogno pieno di sparatorie, con Frank che gridava il mio nome. Ascoltai e sentii solo il ruggito del torrente e il canto degli uccelli che si chiamavano fra gli alberi. Mi concentrai sul problema principale. Se Parrish si fosse avvicinato e avessi dovuto fuggire, non potevo permettermi di essere disidratata. Mi alzai e stirai i muscoli indolenziti, bevvi l'acqua che avevo filtrato e mi diressi al torrente per rabboccare la bottiglia. Il tempo che impiegai mi sembrò infinito. Avevo bisogno anche di mangiare, perciò mi guardai intorno e trovai dei germogli commestibili. Non conoscevo la maggior parte delle altre piante, e non avevo intenzione di uccidermi. È molto più facile essere avvelenati dalla flora che dalla fauna. Tornai al nascondiglio barcollando, con movimenti scoordinati. Avevo sempre il coltello. Me n'ero appena ricordata che subito un altro pensiero si affacciò alla mia mente. Perché ce l'avevo ancora? Perché Parrish mi aveva permesso di tenere un'arma, per quanto piccola? Perché mi aveva lasciato l'acqua, il filtro e tutto ciò che avevo nello zaino? Forse non si aspettava che avessi il tempo di usarli o forse voleva rendere più eccitante la sfida. Perché mi aveva lasciata andare? Non avevo corso molto, eppure gli ero sfuggita. O era stato lui a permettere che mi allontanassi? Aveva abbattuto un albero e forse si era indebolito. Aveva una spalla ferita che poteva aver ripreso a sanguinare durante l'inseguimento. D'altro canto aveva mangiato e dormito. Non aveva trascinato nessuno, né trascorso la notte a prendersi cura di un ferito. Non era terrorizzato e non era stato quasi soffocato dal fango. Soppesai tutti gli elementi, indecisa se fosse stato lui a lasciarmi fuggire oppure se, perlomeno temporaneamente, non fossi in vantaggio. Più ci pensavo, più mi sentivo confusa. Non riuscivo a concentrarmi a lungo su nessun pensiero: le idee si rincorrevano l'un l'altra, e mi ritrovai a fissare il vuoto con aria assente e a muovere di scatto la testa prima di appisolarmi. Tentai di ricordare in che forma fisica fosse Parrish prima di cominciare
a correre. Mi aveva dato delle istruzioni... qualcosa circa una donna che si chiamava... come? Nina Poolman. Avrei dovuto ricordarlo... perché? Ero stanca e volevo dormire, ma il pensiero di Parrish me lo impedì, anche se non ero sveglissima. Da lontano, sentii una voce maschile che chiamava. Credetti quasi che fosse il mio nome, ma non ne ero certa. La nebbia si stava sollevando e riuscivo a vedere meglio. Strisciai lentamente fra i massi, attraverso la fessura. Qualche minuto dopo, dal torrente, qualcuno o qualcosa si faceva largo fra la boscaglia. Parrish? Un altro cervo? Un orso? Non osai muovermi dal mio nascondiglio. Aspettai e il rumore si allontanò. Forse era un animale, anche se non ne ero del tutto convinta. Mi addormentai di nuovo, e persi la nozione del tempo. Da lontano, sempre dal torrente, ma dalla direzione opposta, sentii un cane abbaiare. Ero quasi certa che fosse Bingle; quel latrato mi fece temere per la vita del cane e di Ben. Poteva soltanto significare che Parrish li aveva sorpresi. Non mi andava di rimanere nascosta ad ascoltare impotente le torture che avrebbe inflitto loro, per quanto da quella distanza fosse tutto attenuato. Mi alzai piano, trovai un bastone lungo e robusto e lo appuntii. Mentre esaminavo il mio lavoro, resistetti all'impulso di lasciarlo dove lo avevo preso, se non altro per non fargli il favore di servirgli il mio terrore come contorno della mia morte. Non riuscivo proprio a correre, ma tentai di sgranchirmi le gambe mentre procedevo lungo la riva, usando la lancia improvvisata come bastone d'appoggio. Mi girava la testa e il dolore mi rendeva i movimenti rigidi e lenti. Nella boscaglia, vicino al torrente, continuavo a sentire quel rumore, e ogni volta mi nascondevo come meglio potevo; aspettavo, ma non vedevo niente. Ero stordita, confusa. Le vertigini si erano fatte più frequenti. Mi fermai per bere, esausta e spaventata. Come potevo essere d'aiuto a Ben e a Bingle? Mi ero appena rivolta quella domanda quando udii un rumore fra gli alberi, molto più forte di prima, seguito da latrati insistenti. Se Bingle era lì, che cosa era accaduto a Ben? Ero disperata. Le sue possibilità di sopravvivenza non erano certe, ma la sua morte era un colpo al quale non ero preparata. Cercai di mantenere il
controllo. «Fagliela pagare, al bastardo!» mi dissi impugnando la lancia. Il cane avrebbe condotto Parrish dritto da me. In quel momento sentii il rumore dell'elicottero. Non riuscii a vederlo, ma dal suono mi sembrò imponente. Decisi che l'avrei raggiunto. Forse era troppo tardi per salvare Ben, ma avrei potuto avvertire il pilota prima che Nick Parrish aprisse il fuoco. Mi incamminai in direzione del rumore; impresa tutt'altro che semplice, perché era come se provenisse da più parti contemporaneamente. Non riuscivo a sentire nient'altro ed estrassi il coltello. Fra gli alberi vidi qualcosa in movimento e poi Bingle che correva verso di me, seguito da qualcuno. Inciampai in preda al panico, ma non c'era tempo di fuggire, perciò mi acquattai dietro un albero caduto, con la lancia in una mano e il coltello nell'altra. Sperando che ci fosse qualcuno vicino in grado di sentirmi nonostante l'elicottero, gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. Bingle si fermò, perplesso. Dietro di lui, una visione. Frank avanzava fra gli alberi. Per qualche attimo riuscii solo a fissarlo, chiedendomi come avesse fatto Parrish a travestirsi. In quel momento si sollevò un forte vento, che smosse foglie e rami e spaventò gli uccelli e gli altri animaletti. E un po' anche me. Il vento passò oltre, ma il rumore dell'elicottero continuò a coprire ogni cosa. Frank rallentò il passo, forse perché impugnavo una lancia e un coltello con aria minacciosa. «Irene.» Non riuscii a sentirlo, in quel frastuono, ma gli lessi le labbra e vidi gli occhi grigio-verde: i suoi occhi, non quelli di Parrish. Lasciai cadere le armi, mi alzai e gli tesi le braccia. Frank mi prese fra le sue e lo sentii pronunciare il mio nome. Lo ripeté ancora e ancora. Avrei dovuto dirgli di non preoccuparsi per me, che c'erano cose ben più importanti da fare, ma ero a corto di saggezza e coraggio, e per un po' non riuscii a far altro che piangere, ripetere il suo nome e dire a Bingle che anche lui era meraviglioso. 29
VENERDÌ 19 MAGGIO, SERA St. Anne's Hospital, Las Piernas I medici non sapevano ancora dire se sarebbero riusciti a salvargli la gamba. Probabilmente avrebbero dovuto amputarla sotto al ginocchio. Ben non ne fu sorpreso. Aveva già accennato a una simile eventualità nell'elicottero. Nonostante fosse debole, febbricitante e sofferente, era riuscito a fare conversazione. Bingle non si era lasciato legare e gli sedeva accanto tranquillo, con gli occhi fissi su di lui. Stinger Dalton si era offerto di portare Ben all'ospedale più vicino, «O dovunque voglia andare», aveva detto inginocchiandosi accanto alla barella. «Il dolore finirà prima, ma non sempre la vicinanza è il fattore più importante, se capisce quello che intendo.» «Sì», rispose Ben. Gli tenni la mano calda e asciutta fra le mie. Lui mi guardò e poi, rivolto a Dalton, disse: «Mi porti al St. Anne: conosco un chirurgo ortopedico... se saranno costretti ad amputare, almeno so chi lo farà». Notò la mia espressione di terrore. «Se mi tolgono parte della gamba non significa che hai fatto qualcosa di sbagliato, capito?» «Ma...» «Capito?» Fissai il bendaggio da dilettante e la steccatura provvisoria. «Avrei dovuto darti tutto il Keflex», mormorai. «Ascoltami. È stato il proiettile a danneggiarmi, non tu.» «Forse non dovranno...» «No», disse chiudendo gli occhi. Ti prego, Dio, no. Basta così. Non aveva già sofferto a sufficienza? «Vuoi che avvisiamo qualcuno, in modo che ti aspetti in ospedale?» gli chiese Frank. Ben non rispose subito. «Un parente o un amico?» «No», rispose sempre a occhi chiusi. «Nessuno, grazie.» Ero davvero preoccupata. La perdita di un arto è un trauma molto serio, e affrontarlo senza l'appoggio di qualcuno è terribile. Frank mi teneva stretta a sé, e io mi appoggiai alla sua spalla forte e sicura. Ben era vivo, Bingle era vivo, io ero viva.
Ero viva, e lottavo per sentire qualcosa di diverso dallo stordimento che si era impossessato di me. Lo stordimento e la sete. Continuavo a bere, eppure la sete non si placava. Quando l'elicottero era decollato, Ben mi aveva stretto la mano. Cercava di dirmi qualcosa, ma il frastuono dei rotori copriva la voce. Aveva un aspetto orribile. Sganciai la cintura di sicurezza e mi chinai su di lui. «La storia.» Lo guardai confusa. «Il cavaliere.» Ripresi a raccontargli la mia versione approssimativa della storia di un poeta medievale tedesco, ma poco dopo allentò la stretta e lasciò cadere la testa. Le parole mi si spensero in gola. Frank gli si avvicinò e controllò il battito e la respirazione. «È vivo», mi tranquillizzò. «Il battito è regolare. È solo svenuto, immagino per il dolore. Dalton ci riporterà a Las Piernas in un batter d'occhio.» J.C. mi fissava, vagamente preoccupato per il mio programma di intrattenimento durante il volo. Bingle, Deke e Dunk non davano segni di apprezzare il viaggio, né tantomeno il racconto. Jack sorrise e urlò compiaciuto: «Ehi, ti ricordi Parsifal!» Dalton ci portò via dal prato prima dell'arrivo delle forze dell'ordine e del Corpo Forestale. Via radio avvisò la stazione che eravamo diretti al St. Anne's Hospital di Las Piernas per un'emergenza, descrisse in poche parole ciò che avevano scoperto nel prato e li avvertì che Parrish era armato. Quando l'elicottero atterrò all'ospedale, fummo accolti da un'équipe di medici e infermiere e da Tom Cassidy. Frank gli aveva chiesto di venirci incontro. Cassidy era il responsabile della squadra operativa del dipartimento di polizia locale ed era noto per la sua capacità di mantenere la calma anche nelle situazioni più critiche. Era davvero un maestro nella negoziazione di ostaggi o nel convincere potenziali suicidi a non lanciarsi da un cornicione. Quel giorno la sua esperienza fu messa a dura prova. «È davvero un bel casino», disse strascicando le parole, con un sorriso orgoglioso, «però sono riuscito a fare in modo che vi lascino in pace finché i dottori vi visitano.» Jack, Travis e Stinger presero un cane ciascuno - anche se fu molto difficile convincere Bingle a lasciare Ben - e andarono a parlare con l'avvocato di Travis, che ci era già stato molto utile in passato. Grazie a lui e alla mediazione di Cassidy, non sarebbe stata sporta denuncia e la polizia non
avrebbe intrapreso alcuna azione. In poche parole nessuno avrebbe perso il lavoro o il brevetto da pilota. J.C. e Frank furono i primi a rispondere alle domande del procuratore e della polizia. Poi venne il mio turno, e Cassidy, in via informale, rimase con me per tutelarmi. Risposi quasi con un certo distacco, forse non sempre in modo coerente. Mi stancai presto e Cassidy mandò tutti via. Se ne andò subito dopo per coordinare l'unità di crisi impegnata in un'operazione che andava molto al di là di quanto avrei potuto immaginare. Chiesi notizie di Ben al dottore che mi medicava i graffi e i lividi. Dopo una breve esitazione, disse: «È in sala operatoria. La gamba è gravemente danneggiata e infetta. Gli somministreremo degli antibiotici, ma...» «Che tipo di antibiotici?» domandai. «Una combinazione di cefalosporina... sarà capitato anche a lei di prendere il Keflex...» «Keflex?» lo interruppi io. «Avrebbe potuto cambiare le cose?» «Sì, ad alti dosaggi», rispose, preoccupato per le mie condizioni. «Si sente debole?» «Un po'», ammisi. Volevo andare a casa, ma il dottore mi chiese di restare ancora qualche ora per risolvere il problema della disidratazione. Fui sistemata in un letto, mi attaccarono una flebo e mi portarono un pasto leggero. Presto mi addormentai. Quando mi svegliai, dopo un paio d'ore, vidi Mark Baker e John Walters in piedi accanto al letto. Mark è un vecchio amico nonché il reporter di cronaca nera dell'Express, mentre John è il direttore responsabile. Un'infermiera tentò di farli uscire, ma le dissi che non c'erano problemi e che avrei parlato con loro. Dopo qualche frase di circostanza che, nonostante le mie condizioni, non presi sul serio, John chiese: «Sai perché siamo qui?» «Volete l'articolo.» «Vedi?» disse a Mark. «Ti avevo detto che è una professionista.» Poi, rivolto a me: «Ho pensato che non ti sarebbe dispiaciuto se a scriverlo fosse stato Mark, perlomeno il primo. Naturalmente comparirà anche il tuo nome, ma Mark ha lavorato molto sul caso, quindi. «D'accordo», replicai seccata. «Passa in redazione domani. Fatti un bel sonno e passa verso le undici.» «Non so se...» «Niente ma», mi interruppe John deciso. «Non c'è bisogno che sia io a
dirti quanto è grossa questa faccenda... e tu c'eri in mezzo. Il tuo amico Cassidy ha già fatto bloccare l'accesso alla strada di casa tua, il che non ha impedito a cinque grosse TV di piazzare i loro mezzi in fondo all'isolato, e i vicini si stanno già lamentando per gli elicotteri della stampa che volano sopra le loro teste. Domani devi passare.» Non persi tempo a discutere. Sapevo che per lui niente era più importante dell'articolo, men che meno la mia salute. Questo è il problema della stampa: non può aspettare. Mark prese appunti e mi fece numerose domande, ma ben presto la mia mente cominciò a vagare. Mark continuava a lanciare occhiate a John. «Non stai dicendo delle cose molto sensate», si lamentò infine. «No. Non dovrebbe esserci Morry?» chiesi. Morry era il redattore capo. «Mentre eri via ha lasciato il giornale, quindi per il momento sostituisco tutti e due.» In altre circostanze una notizia del genere mi avrebbe lasciata a bocca aperta e non mi sarei certo risparmiata le domande. Invece mi limitai a sbadigliare. I due si scambiarono un'occhiata. Mark mi chiese degli uomini che erano morti, ma ogni volta che dicevo qualcosa di più dei loro nomi, dimenticavo ciò di cui stavo parlando. Continuavo a sentire l'esplosione, vedevo pezzi di carne e ossa che schizzavano ovunque, sentivo l'odore del sangue, del fumo, della terra. Con quelle immagini così vivide nella memoria, non riuscivo a parlare di loro. In me si era creato una specie di blocco tra il cervello e la bocca: non potevo mettere insieme le parole per descrivere l'episodio. Cercai di spostare la mente dall'immagine di cui Mark voleva parlare ad altro, come per esempio il colore del cielo, la sensazione della lancia improvvisata nella mia mano, la temperatura dell'acqua del torrente. «Come ha fatto Parrish a sottrarre la pistola agli agenti?» mi chiese. «Merrick e Manton», risposi. «Lo hai visto mentre gli sparava?» Silenzio. «Credete che mi verrà la dissenteria?» domandai. «Non è da te, Kelly», intervenne John in tono di disapprovazione. «No», convenni. «Di solito sto molto attenta a filtrare l'acqua.» «Non mi riferivo a quello. Non sei in te.» Dopo un attimo di silenzio mormorai: «Lo so. Chissà se lo sarò mai più».
«Certo che lo sarai», osservò brusco. «Hai vissuto un'esperienza terribile, ma devi superarla.» Mark scosse il capo, incredulo. «È così!» protestò John. «Dalle ventiquattr'ore per riflettere», lo rimproverò Mark. «Sono certo che si riprenderà in tempo per salvare l'edizione domenicale. Ce la farà da sola, vedrai. Entro domani all'alba scoppierà dal bisogno di raccontare a qualcuno i suoi segreti più nascosti.» «Non posso e non voglio parlarne», obiettai. «È quello che lui vuole, e io non lo farò.» «È naturale che Mark voglia che tu ne parli!» sbottò John. «Perché dovresti...» «Non Mark! Parrish.» Quella risposta lo lasciò di stucco. Mi osservò, guardò l'orologio e disse: «Adesso dormi, ne hai bisogno. Ci hai raccontato abbastanza per l'articolo di domani. Ci vediamo nel pomeriggio». Mi lanciò un'altra occhiata e aggiunse: «Chiederò a Lydia di venire». Io e Lydia Anes, della redazione locale, siamo amiche sin dai tempi della scuola. «Grazie», dissi, e scoppiai a piangere. «Cristo!» esclamò John. Proprio in quel momento Frank entrò nella stanza e mi vide in quello stato. Di fronte al suo sguardo incollerito, Mark e John alzarono le mani in segno di resa. Fu sufficiente a calmarmi. «È tutta tua», borbottò John mentre se ne andavano. Frank si avvicinò al letto e mi prese la mano destra, dove non era attaccata la flebo, e mi strofinò dolcemente il pollice sulle nocche. Non era un gesto affettuoso, ma carico di tensione. Lessi la preoccupazione nei suoi occhi grigio-verde. «Che c'è?» chiesi, mettendomi a sedere. «Che succede?» Sospirò e disse: «Ben. Hanno dovuto amputargli la gamba». «Oh, no!» «Hanno detto che l'operazione è riuscita.» «Non voglio sentir parlare di quella maledetta operazione!» gridai. Mi abbracciò e le lacrime ripresero a sgorgare. Mi lasciò piangere e mi ascoltò rimproverare Dio e me stessa. «Non sapevo che cosa fare, come aiutarlo...»
«Gli hai salvato la vita.» Mi domandavo se in quel momento Ben poteva essermene grato. «Devo vederlo», dissi ad alta voce. «Sta dormendo, e non credo che possa ricevere visite prima di domani.» Mi appoggiai ai cuscini, abbattuta. Frank mi raccontò di Cody, dei cani e della casa che mi aspettava, e mi calmai. Ero molto stanca. «Non lasciarmi qui da sola», sussurrai mezza addormentata. Frank spense la luce, si stese sull'altro letto e continuò a parlarmi per circa un altro minuto e mezzo prima di addormentarsi. .. lontano da me. Non gli invidiai il sonno. Per un paio d'ore continuai a passare dal sonno alla veglia. Stavo sognando scarponi insanguinati che marciavano quando squillò il telefono. Frank si svegliò e me lo ritrovai accanto al letto prima ancora di avere acceso la luce e trovato l'estremità giusta della cornetta. «Irene? Sono Gillian.» «Ciao», mormorai con un nodo in gola. «L'ho svegliata?» «No, non preoccuparti.» Non riuscii ad aggiungere altro. «Mi stavo chiedendo se posso parlarle. Non stasera. Che ne dice di domani? Sarà ancora in ospedale?» «No, tra un po' vado a casa», risposi rendendomi improvvisamente conto che non avrei potuto passare la notte in quel letto di ospedale, che avevo bisogno di oggetti familiari. «Nel pomeriggio però andrò in ufficio. Ti va se ci vediamo lì?» «Va bene. A che ora?» «Verso le quattro?» «D'accordo.» Seguì una pausa di silenzio e poi aggiunsi: «Mi dispiace, Gillian». «Non importa», ribatté lei poco convinta. «Grazie per essere andata lassù. Ho sentito al telegiornale quello che è successo. Quell'uomo, com'è che si chiama, Ben Sheridan?» «Sì.» Il nodo s'ingrossò. «Si rimetterà?» No, affatto, ma pensai alla sua attesa di quattro anni e dissi: «Sì, guarirà». Dopo un altro silenzio mi salutò: «A domani». Avevo firmato il foglio di dimissione e mi stavo infilando degli abiti pu-
liti che Travis mi aveva portato, quando mi ricordai di una cosa. Tirai fuori le carte geografiche e mostrai a Frank la posizione della grotta troppo pulita. «Magari non è niente», dissi, ma il solo fatto di dargli quell'informazione servì a calmarmi un po'. Mi ringraziò. «Mentre riempivi le carte ho parlato con un'infermiera. Ho pensato che non saresti riuscita ad andartene senza vedere Ben. Sta dormendo, ma se ti trattieni poco e prometti di non disturbarlo puoi entrare.» Lo guardai e gli chiesi come faceva a prevedere ogni volta i miei desideri. «Non l'hai abbandonato sulle montagne e non lo abbandoneremo neanche ora.» «Grazie», dissi, e non appena riuscii a parlare senza piangere aggiunsi: «Dove vuoi festeggiare il nostro centesimo anniversario?» Rimasi scioccata quando, sotto la coperta, vidi quelli che sembravano due piedi. Mi aspettavo che da una parte la coperta fosse piatta. «Una protesi provvisoria», sussurrò l'infermiera, notando il mio sguardo. Mi resi conto che le uniche cose importanti in quel momento erano il fatto che fosse ancora vivo, che stesse dormendo sereno, che non avesse il viso tirato per il dolore, che fosse al sicuro in mani più esperte delle mie, ma soprattutto che fosse ancora vero in un mondo che lo era sempre meno. Ringraziai l'infermiera e me ne andai in silenzio. Chiesi a Frank di portarmi a casa, dove, nonostante la confusione sopra e intorno a noi, dormii fra le sue braccia in un sonno senza sogni. 30 SABATO 20 MAGGIO, MATTINA Redazione del Las Piernas News Express La sfortunata spedizione sulle montagne ci fornì gran parte del materiale per l'edizione domenicale, che si trasformò in un commosso necrologio. In genere il sabato mattina la redazione era piuttosto tranquilla, ma quel giorno, alle nove e mezzo, c'era più movimento del solito. Chiunque possedesse una TV o una radio, o fosse solito acquistare il giornale, sapeva già che, nonostante le accurate ricerche, Nick Parrish era ancora a piede libero e Phil Newly era introvabile. Il pubblico sapeva che, dopo il recupero dei resti di Julia Sayre, il tentativo non autorizzato (termine spesso usato da chi era rimasto a casa, sano e salvo) di riesumare un'altra serie di cada-
veri aveva portato a una trappola tesa dal serial killer, che si era tragicamente risolta con la morte di sei membri del dipartimento di polizia di Las Piernas più un docente universitario di antropologia. David... Un professore associato di antropologia era al St. Anne's Hospital in gravi condizioni e una reporter dell'Express aveva riportato solo lievi ferite. Gli altri membri del gruppo, compreso un cane da ricerca, erano indenni. Pensai a Bingle, nostro ospite fino a quando non gli avessimo trovato una sistemazione definitiva, accucciato accanto al maglione di David, apatico. Ripensai all'espressione dipinta sul viso di J.C. Non avevo ancora visto Andy, ma ero certa che non stesse meglio. Indenni. Frank era seduto poco distante da me e leggeva un libro, dal quale ogni tanto sollevava lo sguardo. Io gli sorridevo e tornavo a fissare lo schermo bianco del computer o le mie dita. Le mani non smettevano di tremare, ma cercavo comunque di tenerle sulla tastiera sperando in un miracolo. John non aveva gradito la presenza di Frank in redazione, ma con Parrish in libertà e i nervi tesi come corde di violino, non ero ancora pronta a uscire senza di lui. Inoltre avevamo una sola auto, perciò, se voleva che andassi al lavoro, mio marito avrebbe comunque dovuto accompagnarmi. Lydia era lì. Aveva rinunciato ai progetti per il sabato, che di solito passava con il suo compagno. Vedendola chiunque avrebbe pensato che fosse decisamente contenta di passare la sesta giornata consecutiva della settimana chiusa nella redazione di un giornale in compagnia di un'amica tutt'altro che loquace. Mi lamentai del fatto che John l'avesse costretta a fare una cosa del genere, ma mi assicurò che non era andata così. Dopo novanta minuti, l'unica cosa visibile sullo schermo era la barretta intermittente del cursore. Lydia mi si avvicinò. Frank sollevò lo sguardo, poi ritornò al suo libro. La mia collega fece un buffo gesto con le mani, indicando prima me, poi se stessa. I suoi genitori erano immigrati italiani, e avevo visto la madre fare lo stesso gesto: Fra noi non è necessario fingere, significava. «Ci conosciamo dalla scuola, sì o no?» chiese. «Sì, ma me lo dici soltanto quando vuoi essere franca e brutale.» Rise. Io rimasi seria. «Non riuscirei a sopportare altre brutalità, neppure in nome della franchezza.» «D'accordo, allora mi sforzerò di essere gentile.» Questa volta risi. Frank si era incuriosito.
«Purtroppo ti sei trovata nel bel mezzo di quella situazione», sospirò. «Gli eventi erano incontrollabili.» Sentii un lieve tintinnio, mi guardai le mani tremanti e sollevai le dita dalla tastiera. «Hai fatto tutto ciò che potevi», proseguì Lydia, «ma le cose sono andate male ugualmente.» «Sono andate di merda», mormorai. «Se non vuoi scrivere un articolo su quello che è successo», aggiunse, «sono pronta a prendere le tue difese davanti a John, se necessario.» «Tanto di posti come giornalista ce ne sono in abbondanza, al momento.» «Niente è così importante.» Non riuscii a replicare. «Non vuoi scrivere l'articolo perché sei convinta che Nick Parrish desideri le attenzioni del pubblico?» «Sì.» «Be', allora dedicagli pochissimo spazio.» La guardai. «Sai che cosa sta facendo la squadra di Tota Cassidy in questo momento?» mi chiese. «Sta tenendo lontani da casa mia CNN e Channel Five.» «È vero, ma sai benissimo come ogni dipartimento di polizia sia un po' una famiglia, perciò è anche impegnato con un'équipe di consulenti per aiutare gli agenti di Las Piernas ad affrontare la morte dei loro sei colleghi.» Guardai Frank, il quale annuì. «Sta anche coordinando un gruppo che lavora all'università», proseguì, «nel caso in cui un collega o uno studente di Ben o David abbia bisogno di parlare di quanto è accaduto.» «Come fai a saperlo?» «Se non ne fossi a conoscenza, non potrei continuare a dirigere la redazione locale, ti pare?» «Che cos'è successo a Morry?» «Si è trasferito a Buffalo... assunto al Buffalo News.» «Come?» «Sua madre vive a Kenmore, nei dintorni.» «Se n'è andato senza preavviso?» Sorrise. «Mi dispiace che tu non fossi qui a vedere quel bonaccione di
Morry che mandava Wrigley a quel paese.» «Non riesco a crederci!» esclamai ridendo. La mia amica fece una croce sul cuore. «Giuro! Wrigley è uscito dalla stanza tuonando e io ho dato un bacio a Morry per quello che aveva fatto. È diventato rosso come un peperone ed è rimasto così per almeno quattro ore, ma ridacchiava. Gli abbiamo organizzato la festa d'addio da Banyon's.» «Mi dispiace di essermela persa. Avrei voluto salutarlo.» «Non sempre si riesce a salutare gli amici. Ecco perché bisogna essere buoni con la gente.» Non replicai. «Nick Parrish avrà la sua fetta di gloria anche se l'Express non pubblicherà mai più il suo nome... L'avrà da chi ha le antenne paraboliche puntate sul tetto di casa tua e da tutti gli altri giornali del paese.» Aveva ragione. Dopo un attimo dissi: «Mi ha dato la caccia, o almeno mi ha fatto credere che lo stesse facendo». «Ecco perché mi hai accolto con un coltello e una lancia», intervenne Frank. In effetti non gli avevo detto molto di ciò che era accaduto in montagna. Lui non aveva insistito, ma doveva avere molte domande in testa. Per quanto avesse parlato con i detective che mi avevano interrogata, dubito che si fosse fatto un quadro chiaro della situazione, dato lo stato in cui mi trovavo. Decisi che la sera stessa avremmo fatto una lunga chiacchierata, ma per il momento mi limitai a dire: «Ero pronta a cercarlo. Non volevo che uccidesse l'equipaggio dell'elicottero». «Che cosa?» «Avevo le idee piuttosto confuse, in quei momenti, però adesso sono convinta che Parrish non avesse intenzione di catturarmi. Non mi era chiaro, ma forse ero troppo sconvolta per mettere ordine nei miei pensieri. Riflettendoci... è stato troppo facile sfuggirgli. È come quando da bambini si gioca a nascondino con quelli più grandi e loro a un certo punto se ne vanno: tu resti nascosta e non c'è nessuno che ti cerca.» «Quindi Parrish voleva che fuggissi», disse Lydia. «Sì, voleva che qualcuno sopravvivesse, che riuscisse ad andare via di lì per contribuire alla leggenda, per raccontare la storia dal punto di vista di chi teme il suo potere.» Era davvero così la storia? Avrei voluto che fosse vero, ma non riuscivo a crederci. Aveva detto che mi avrebbe ritrovata. Julia Sayre e Kara Lane
avevano entrambe capelli scuri e occhi azzurri. Forse, dopo aver appreso che sarei stata io la reporter, a Parrish era venuto in mente qualcos'altro. «E ha scelto te», replicò Lydia facendomi trasalire. Mi resi conto che si riferiva al mio ultimo commento. «Sì.» «Se hai ragione», osservò, «e si aspetta qualcosa di speciale da te, allora deludilo. Sei l'unica in grado di farlo.» Mi ci volle un'altra mezz'ora per ingranare, ma una volta preso il ritmo tutto filò liscio. Dopo averlo citato per nome una prima volta, in seguito lo definii «il prigioniero», e scoprii che non era affatto necessario dilungarmi su di lui. Parlai degli ultimi giorni di Merrick, Manton, Duke ed Earl; di Bob Thompson, di Flash Burden, di David. Scrissi del senso dell'umorismo di Earl, di Duke che intagliava un cavallino di legno per il nipote, e mi ricordai che dovevo portarlo alla famiglia. Descrissi Flash che amava fotografare i fiori di campo, Merrick che giocava con Bingle, Manton che cercava di abituarsi al nuovo taglio di capelli della moglie osservando la sua foto. Tentai di non parlarne solo come vittime. Forse John o un redattore avrebbero tagliato l'articolo o sostituito la parola «prigioniero» con il nome di Nicholas Parrish. Non m'importava, feci ciò che potevo. Scrissi del ritrovamento di Julia Sayre e mi fermai un attimo per cercare il nome di Nina Poolman negli archivi. Sullo schermo comparve la foto di una donna di quarantadue anni, bruna con gli occhi azzurri. Scomparsa da tre anni. Non era stata ritrovata. Rimasi a fissare la foto. Sapevo che Parrish si aspettava che io rivelassi che avevo saputo il nome da lui. «Frank?» chiamai. «Sì?» «La vittima della seconda tomba... credi che nonostante l'esplosione sia rimasto intatto qualche dente?» «Ne dubito, ma i denti sono piuttosto solidi, quindi è possibile. Perché?» «Se riuscissi a procurarti la perizia dentale di quella donna, potresti chiudere un caso.» Nell'articolo scrissi la verità, e cioè che il corpo della seconda tomba non era stato identificato. Inviai il pezzo al redattore, mi alzai e dissi a Lydia: «Di' a John che se domani apro il giornale e vedo il nome di Nick Parrish nel mio articolo
non tornerò più al lavoro, la qual cosa potrebbe non essere una gran perdita per entrambi». «Lo farò», promise lei. «Stai bene?» Scossi la testa ed emisi un sospiro. «Digli anche che ho altro da scrivere, ma...» «Saresti felice di farlo altrove», mi interruppe. «Credo che capirà.» Mandai una breve e-mail a Mark per ringraziarlo di aver preso le mie difese il giorno prima e spensi il computer. Squillò il telefono. «Kelly», risposi. «C'è una... persona che vuole vederla», mi disse l'addetto alla sorveglianza. «Una persona?» «Gillian Sayre: dice di avere un appuntamento con lei.» Erano le quattro. «Scendo subito.» «Vuoi che venga con te?» chiese Frank. «No», risposi scuotendo la testa. «È una faccenda che devo sbrigare da sola.» 31 SABATO 20 MAGGIO, POMERIGGIO Las Piernas News Express «Hai l'aria stanca», dissi mentre le facevo segno di entrare nella saletta riunioni attigua all'ingresso. «Non ho dormito granché, la notte scorsa», rispose la ragazza. Era abbastanza ovvio. Chissà se nei minuti successivi sarei riuscita a evitare altri commenti fuori luogo. Fatta eccezione per il ronzio dei neon e dell'aria condizionata la stanza era silenziosa. Quella stanza e tutto il suo arredamento, moquette, sedie, tavolo, pareti, riflettevano un arcobaleno di tonalità di grigio che si adattavano perfettamente al mio umore. Quando fummo sedute, Gillian chiese: «Si sa dov'è Parrish?» «No, ma non credo che riuscirà a nascondersi a lungo. Mi dispiace che sia fuggito.» «Sono certa che aveva programmato tutto. Da quello che hanno detto in TV, è stata fortunata a uscirne viva.»
Provai un'improvvisa sensazione di sollievo e mi accorsi che mi sentivo fortunata, maledettamente fortunata! Fortunata per non essere stata fra quelli accanto alla tomba, fortunata che Parrish mi avesse lasciata andare e mi avesse risparmiata. Provai quasi subito orrore e vergogna per quei pensieri, per aver gioito, anche se in silenzio, e per essermi sentita bene ripensando alle cose successe negli ultimi giorni. Peggio ancora, mi sentivo così mentre ero seduta accanto a una ragazza la cui madre era stata uccisa e orribilmente torturata dall'uomo che mi aveva lasciata andare. Che idiota ero a chiamarla fortuna! Gillian doveva essersi chiesta perché la madre fosse morta e io fossi ancora viva. Non avevo figli che aspettavano il mio ritorno. Abbassai gli occhi, incapace di incontrare i suoi. Lei rimase in silenzio per un po', poi mormorò: «Speravo che potesse dirmi qualcosa del ritrovamento di mia madre». In quell'istante rividi la scena del cadavere in decomposizione. L'odore riempì la stanza. «Irene?» Rimisi a fuoco la superficie del tavolo e la stanza profumata di detersivo al limone. Feci un respiro profondo e riferii a Gillian una versione molto meno cruda degli eventi, dal momento in cui Bingle aveva trovato la tomba. Non riuscii a parlare né dell'albero dei coyote né delle operazioni necessarie ad aprire la tomba. Gillian mi ascoltò in silenzio, senza commentare, e alla fine chiese: «Era... il corpo era... c'erano soltanto ossa?» Oh, Cristo! «No», risposi con voce malferma. «Sembra che sia stata sepolta poco dopo la morte.» «Ma ho sentito che a volte gli animali...» «No», la interruppi. Cercai di parlare in tono più pacato e aggiunsi: «Non è stata toccata da animali». «So che potrà sembrarle una domanda rude o strana», continuò, «ma non ci hanno ancora consegnato il corpo, perciò... non so come comportarmi. Capisce cosa intendo? Non ho fatto che pensare a lei, lassù, e a chiedermi che cosa abbia dovuto subire, e nessuno vuole dirmelo. Lei lo sa?» Le foto nella plastica. La cera bollente. Il viso di Julia sconvolto da smorfie di dolore, la bocca aperta in un urlo. Non riuscivo a respirare. «Scusami», sussurrai a fatica. «Si soffoca, qui.
Apro la porta.» «Ho bisogno che qualcuno sia onesto», proseguì Gillian mentre le davo le spalle e respiravo, appoggiata allo stipite della porta. Il suo tono non era mai stato così supplichevole. «Devo sapere. Finora lei è stata leale. Sa la verità, non è così?» La sapevo bene, ma non avevo alcuna intenzione di parlare di quelle foto a una bambina, per quanto cresciuta fosse. Avrei mentito. Forse credeva di voler conoscere la verità, ma non era pronta. Nessuno poteva essere pronto a una verità del genere. Mi sembrava disumano ferirla descrivendole la brutalità dei fatti. Non era compito mio, neppure in veste di giornalista. I giornali con una buona reputazione non pubblicano le foto più macabre degli incidenti, né riferiscono i dettagli più cruenti dell'azione di un assassino. Non si può negare il rispetto nei confronti delle vittime e delle loro famiglie. Rispetto per i morti. Dimmi, Julia, vorresti che le raccontassi tutto? Vorresti che raccontassi tutto a tua figlia, che per quattro anni si è punita per aver detto con superficialità «vorrei che fossi morta»? Qualunque dettaglio in più non farebbe che ingigantire il suo senso di colpa. Mi voltai a guardarla. Era in attesa di una risposta. Potevo mentirle? «La polizia e i periti legali ne sapranno di più dopo l'esame dei resti», risposi. «Ma lei ha visto il cadavere.» «Era avvolto nella plastica.» «Oh!» Rifletté un istante, poi: «Ma la plastica... si vedeva...?» «Niente. Era verde scuro, completamente opaca.» Aggrottò le sopracciglia. «Devono averla aperta, devono pure aver guardato all'interno! Altrimenti come hanno fatto a stabilire che quello era proprio il corpo di mia madre?» «L'hanno aperta, ma... non volevano una giornalista vicino alla tomba», dissi in fretta. La mia coscienza brontolava per il quadro falsato che stavo dipingendo, ma mi stavo muovendo su un terreno molto pericoloso. «Gli antropologi hanno preso una decisione e hanno sollevato corpo, plastica e tutto il resto per metterlo in un sacco nero.» Sembrò in grado di affrontare tutto ciò. Dopo un secondo tornò alla carica: «Come facevano a sapere che si trattava di mia madre?» «Non ne sono ancora del tutto certi.» Notai il suo scetticismo e aggiunsi:
«Oltre al corpo sono stati ritrovati degli oggetti per cui è probabile che si tratti di lei». La vocina della mia coscienza mi ammoniva che stavo spaccando il capello in quattro. «Per esempio?» «Un anello e dei vestiti che corrispondevano a quelli che portava il giorno della scomparsa.» Gillian rimase seduta in atteggiamento meditabondo, poi disse serena: «Bene, credo che a questo punto non mi resti che essere paziente». «Gillian, so bene che gli ultimi quattro anni sono stati molto duri per te e per la tua famiglia...» «No, non credo che lei lo sappia», ribatté lei calma. «È vero.» «Ho aspettato quattro anni. Posso aspettare qualche altro giorno, qualche altra settimana o tutto il tempo che ci vorrà perché la polizia mi dia delle risposte. Due anni fa un agente mi ha suggerito di arrendermi, di smetterla di infastidirlo, di affrontare i fatti. Disse anche che forse non l'avrebbero mai trovata... Thompson, quello che è morto in montagna. Si sbagliava, giusto? Quindi, come vede, posso aspettare.» Prima di andarsene mi lanciò un'ultima occhiata. «Non ce l'ho con lei. Mi fa piacere che scriva sulla nostra storia... è quello che conta di più. Forse la gente capirà che quando qualcuno scompare è importante scoprire che cosa è accaduto. La morte di mia madre è stata importante. Tutti devono saperlo.» Mi avviai lentamente su per le scale. Frank alzò gli occhi dal libro e disse: «Ha appena chiamato Jack. Pare che Ben possa ricevere visite. Ti va di andare a trovarlo?» Ben. Ecco su chi dovevo concentrarmi. Sui vivi, non sui morti. «Sì, ho solo bisogno di liberare la scrivania.» Mi sollevò dolcemente il mento ed esaminò il mio viso. «Non pretendere troppo da te stessa, d'accordo?» «Sto bene.» Sono fortunata. 32 SABATO 20 MAGGIO, TARDO POMERIGGIO Las Piernas La passeggiata non fu lunga, ma mi fece bene. Avevo i muscoli un po'
indolenziti e fui contenta di muoverli. Camminammo in un silenzio cordiale fino all'ospedale, dove ci accolse uno sgradevole trambusto. Vicino all'ingresso un gruppetto di reporter si era riunito a fumare. Una di loro mi riconobbe e ci venne incontro di buon passo prima che gli altri notassero il nostro arrivo. Non ebbe fortuna. È raro che un giornalista riesca a staccarsi inosservato da un gruppo di colleghi. Riuscimmo a entrare nell'androne poco prima del nostro seguito indesiderato, per finire tra le grinfie di un altro gruppo di persone irrequiete, stanche di aspettare nell'enorme sala d'attesa riservata alla stampa, che senza dubbio stavano architettando un piano per intrufolarsi nella stanza di Ben o, in caso di insuccesso, per estorcere informazioni alle infermiere, a un inserviente o a chiunque lo avesse intravisto. Senza alcun rispetto per i pazienti o per le loro famiglie, mi corsero incontro urlando le loro domande. Frank mi riparò dai più insistenti, e per fortuna gli agenti di sicurezza lo riconobbero. Con qualche sgomitata riuscimmo a passare e a metterci in salvo nell'ascensore. Le porte dell'ascensore e il corridoio al piano di Ben erano piantonati da altri agenti. Li avevo visti la sera prima, ma la loro presenza non mi rassicurava più di tanto. Nell'intimo ero convinta che nessuno sarebbe mai riuscito a fermare Parrish: quell'uomo mi sembrava un incrocio fra Houdini e Terminator. Era fuggito e sarebbe tornato, ma nemmeno la polizia credeva che sarebbe tornato a Las Piernas; la maggior parte, anzi, riteneva che avrebbe cercato rifugio dov'era meno conosciuto. Ma sembravano tutti d'accordo sul fatto che Ben dovesse essere protetto dai giornalisti. Jack era seduto vicino alla guardiola, intento a leggere una rivista di viaggi. Quando arrivammo alzò gli occhi, appoggiò il giornale sul tavolino di vetro e ci invitò a sederci. «Dentro ci sono un paio di medici», ci informò. Lì vicino c'era un distributore d'acqua e dei bicchieri di polistirolo. I medici mi avevano consigliato di introdurre molti liquidi, così Frank ne riempì due e mi si avvicinò. «Vediamo se riesci a battermi.» Il campanello dell'ascensore trillò e ne uscì una giovane donna, più o meno sui venticinque anni. Era di statura media, snella e abbronzata, e portava un paio di occhiali dalla montatura metallica. Aveva occhi castano scuro e capelli biondi, corti e lisci, indossava un paio di jeans e sulle spalle aveva uno zaino di tela blu. Parlottò con l'agente davanti all'ascensore; forse gli disse il suo nome. Dopo averci brevemente studiati, si avviò acci-
gliata al banco delle infermiere. Il suo contegno solenne mi indusse a pensare che fosse lì per far visita a un parente, invece la sentii pronunciare chiaramente il nome «Ben Sheridan». Jack, Frank e io ci guardammo. L'infermiera fece un cenno col capo verso di noi. La donna esitò, ma ci raggiunse. «L'infermiera mi ha detto che siete qui per vedere il dottor Sheridan.» «Sì», confermò Frank. «Vuole aspettare con noi?» Lei arrossì e rispose: «Sì, grazie. Sono Ellen Raice, assistente del dottor Sheridan». Dopo le presentazioni aggiunse: «Lei era lassù, voglio dire, l'ha salvato...» «Eravamo là», replicai guardandomi le mani. Fra noi scese un silenzio imbarazzante. Ellen guardò il pavimento, il soffitto, il tavolino, parlottò fra sé e sé, tamburellò con le dita sulle ginocchia, infine si alzò e si versò un bicchiere d'acqua. Quando tornò, Jack e Frank attaccarono discorso con lei. Venimmo a sapere che conosceva Ben da sei anni. «Ho seguito il suo corso di antropologia fisica - fisica, non culturale... sapete la differenza? All'inizio lo seguivo solo perché era uno dei fondamentali», disse staccando dei pezzettini dal bordo del bicchiere vuoto. «E poi, a metà trimestre, decisi di cambiare indirizzo. Sono in molti a farlo... forse non così in fretta», aggiunse arrossendo. Poi proseguì: «È un insegnante fantastico. Lui e David Niles sono i migliori...» S'interruppe, fece un profondo respiro, appoggiò il bicchiere e si premette le mani sugli occhi. «Scusatemi», mormorò, si alzò, cominciando a camminare avanti e indietro. Riuscì a fermare le lacrime. Quando si sedette di nuovo, Jack le chiese: «Conosce gli altri amici di Ben?» «Alcuni lavorano presso altre università, Ben però non dedica molto tempo alla vita sociale. Lui... tutti pensavano che si sarebbe sposato, ma non ha funzionato. Non credo che Camille capisse.» «Camille?» ripetei, ricordando che Ben l'aveva nominata durante il delirio. «Si chiama Camille?» «Sì, e vivevano insieme», rispose Ellen, sollevata perché finalmente anch'io partecipavo alla conversazione. «Che cosa non avrebbe capito?» «Il suo lavoro e la quantità di tempo che gli dedicava. Inoltre credo che a molti faccia senso. Peccato, perché...» Le si smorzò la voce. «Non dovrei
parlare della sua vita privata.» «Non voglio indiarla a confidarmi i suoi segreti», ribattei. «Sono solo preoccupata per lui.» «Certo, capisco. Il fatto che sia una giornalista non...» Si rimise all'opera con il bicchiere. «Quanto tempo fa ha rotto con la fidanzata?» domandai. «Con Camille? Non so se fosse un fidanzamento ufficiale.» Attesi. «Ormai è passato un po'», lei raccolse i frammenti nella mano e si alzò di nuovo. «Credo all'inizio del semestre, lo scorso gennaio.» Ci scambiammo un'occhiata. «Sono solo pochi mesi», osservai. Ellen fece spallucce, poi si diresse verso il cestino dei rifiuti. Quando tornò, rimase in piedi, intenta a fissare la porta della stanza di Ben. Si tolse lo zaino dalle spalle, lo aprì ed estrasse un grosso pacco di fogli. Me lo porse e disse: «Le dispiacerebbe farmi il favore di darglieli?» «Di che si tratta?» «Sono gli esami finali.» «Non credo che sia nelle condizioni...» «Certo che no, ma... deve prendere una decisione. Adesso devo andare. Per favore, ditegli che sono passata.» «Aspetti!» intervenne Frank appoggiando i fogli sul tavolino. «Non vuole vederlo?» «Sì», rispose, «ma sono appena giunta alla conclusione che forse lui non vuole vedere me.» Si accigliò di nuovo. «Mettiamola così: non gli farà piacere che lo veda, almeno fino a quando non si sarà abituato all'idea di... Ha subito un'amputazione transtibiale, vero?» Alla vista dei nostri sguardi perplessi, chiarì: «Sotto il ginocchio». Annuimmo, piuttosto interdetti. «Bene. Non lo conosco benissimo, ma so per certo che detesta apparire vulnerabile ed essere compatito. Se a compatirlo fosse poi un'allieva, allora credo proprio che impazzirebbe dalla rabbia.» In tono più dolce aggiunse: «Sto malissimo per David e per tutto quello che è successo, e temo che Ben possa scambiare il mio dispiacere per pietà. Se devo essere sincera, non ho idea di quello che proverò quando lo vedrò, ferito e senza un piede, quindi... penso che se gli date questi fogli da valutare, gli farà bene... perché può farlo anche senza un piede, ma è meglio che non mi veda.» Prima ancora che uno di noi riuscisse a riprendersi dal suo discorso, era già sparita.
«Può farlo anche senza un piede?» chiesi sbigottita. Jack sussultò, scosso dalla risata che stava trattenendo: Frank si portò una mano alla bocca per nascondere un sogghigno, anche se non gli riuscì molto bene. Li rimproverai, perché secondo me lei era in buona fede, ma Jack non riuscì più a trattenersi e scoppiammo in una risata, con quella voglia di ridere che ti prende nei momenti meno opportuni. I medici, un uomo e una donna, si presentarono in quel momento per parlare con noi. Ci ricomponemmo all'istante. La donna ci tranquillizzò: «Non preoccupatevi», ci rassicurò. Era alta, con i capelli scuri e molto elegante. Sembravano entrambi sulla cinquantina. «Il riso aiuta ad allentare la tensione», concluse con un sorriso. L'uomo, Greg Riley, era un chirurgo, la donna, Jo Robinson, una psicoioga. «Accomodatevi», ci invitò il dottor Riley. «Facciamo due chiacchiere.» Quando fummo seduti, la dottoressa Robinson cominciò: «Ben ci ha dato il permesso di parlare del suo caso con voi, ma, signora Kelly, conoscendo il suo mestiere le devo chiedere...» «Non sono qui in veste di giornalista», la rassicurai. «Niente di quello che dirà sarà pubblicato.» Riley annuì. «Lo apprezzo molto. I responsabili dell'ospedale mi faranno la pelle, se non vado subito di sotto ad aiutarli a organizzare una conferenza stampa, perciò lascerò la mia parte di lavoro a Jo. Ha sentito tutto ciò che ho detto a Ben, ma se aveste altre domande chiamatemi pure in ufficio... troverete il mio numero sull'elenco.» Nonostante si fossero sforzati di metterci a nostro agio, mi ero innervosita al solo vederli. Temevo il momento in cui avrei visto Ben sveglio, nella sua nuova condizione. Avevo paura di reagire nella maniera sbagliata, di fare o dire qualcosa che lo avrebbe ferito. Forse Ellen Raice era stata più furba! Il dottor Riley ci presentò una serie di statistiche inserite in un discorso che di sicuro aveva già rifilato a famiglie e amici di altri pazienti, in altre occasioni. Buona parte di quelle informazioni non mi sfiorò neppure. «È stato stimato che in questo paese circa tremila persone alla settimana vengono sottoposte ad amputazione», stava dicendo. «Nonostante la casistica elevata il livello di consapevolezza è incredibilmente basso. Dal punto di vista di Ben, naturalmente, il suo è un intervento eccezionale; e ha ragione, perché ogni caso è unico.» Dopo una pausa, proseguì: «Parliamo del caso di Ben».
Elencò le sue caratteristiche. Il paziente era giovane, sano e intelligente; conosceva l'anatomia umana, e anche le amputazioni; era in mani esperte, in un ospedale con un'ottima reputazione per casi come il suo. «E, dato che lavora per l'università, ha un'ottima copertura assicurativa, il che, mi dispiace doverlo ammettere, fa una grossa differenza in termini di tipo di protesi, di fisioterapia e altri aspetti di assistenza postoperatoria e riabilitativa. Ben sta già godendone i benefici... siamo infatti riusciti a dotarlo subito di una protesi.» «Subito?» si stupì Jack. Per non mettere nei guai l'infermiera che mi aveva permesso di vedere Ben, tenni la bocca chiusa. «Sì. Non appena la ferita è stata suturata il protesista ha potuto montargliene una provvisoria.» «Dal punto di vista psicologico», intervenne Jo Robinson, «siamo di fronte a un approccio diverso. Ben si è svegliato dall'intervento e ha visto due piedi alla fine del letto. Anche se sa benissimo che si tratta di una protesi, ha la possibilità di abituarsi più gradualmente al cambiamento avvenuto nel suo corpo. Più avanti, inoltre, questo lo aiuterà a sviluppare il suo metodo di deambulazione.» «Quindi sarà in grado di camminare?» chiesi. Il dottor Riley mi rivolse un sorriso. «Signora Kelly, in questa tipologia di amputazione e con la protesi che abbiamo in mente, sarà in grado di correre, saltare, nuotare, andare in bicicletta, giocare a calcio... scelga lei. Salvo complicazioni impreviste, sono poche le attività che il dottor Sheridan svolgeva prima dell'intervento che gli saranno vietate, ammesso che ce ne siano.» Pensai al suo lavoro e ne dubitai. «Anche camminare su un terreno accidentato?» «Di recente, un soggetto amputato ha scalato l'Everest», rispose lei. «Se Ben decide di tornare al suo lavoro o di intraprendere nuove attività, non scommetterei contro di lui. Non sto dicendo che riuscirà a fare tutto subito: dovrà guarire dall'intervento e adattarsi al cambiamento del suo corpo. Soffrirà, e sarà necessario un periodo di riabilitazione perché si abitui a usare la protesi, ma non pensiate che stia minimizzando la situazione. Di tutto il resto vi parlerà Jo. Come ho già detto, se avete domande non esitate a contattarmi.» «Forse sarebbe meglio entrare da Ben prima che si riaddormenti», suggerì la dottoressa non appena il dottor Riley si fu allontanato. «Se vi va, possiamo parlare dopo.»
Presi il pacco di fogli e la seguimmo lungo il corridoio. Ben si era appisolato, ma quando entrammo si svegliò e abbozzò anche un sorriso. «Vedo che ha trovato la regina dello scoop con il suo seguito», disse rivolto alla dottoressa. «Come ti senti?» chiesi. «Sono talmente imbottito di morfina, che non sento molto», rispose assonnato. «E tu? Non avevi una bella cera, ieri.» «Ora sto bene.» «Frank e Jack, non ho avuto occasione di ringraziarvi come si deve.» Entrambi risposero che non ce n'era alcun bisogno. «Come sta Bingle?» Pensai di rispondergli in modo spiritoso, ma cambiai idea: «A essere sincera, credo che sia depresso. Jack si è messo in contatto con l'uomo che si sta occupando di Bool, perché credevamo che una visita lo avrebbe tirato un po' su. Riflettendoci abbiamo capito invece che avrebbe solo sofferto per un'altra separazione. A quell'uomo non dispiacerebbe tenere un altro cane, ma è convinto che Bingle sia...» «Indisciplinato?» Annuii. «Effettivamente.» «Sì, dice sempre così, quando parla di Bingle.» «Ma lui non è maleducato! È soltanto... vivace.» Jack rise. «I cani di Frank e Irene lo riveriscono!» «Non avevo dubbi.» «Però il gatto non si è ancora lasciato convertire», intervenne Frank. «Temo che Bingle non fosse preparato a un così netto rifiuto da parte di Cody a farsi mettere in riga.» «Buon per Cody», replicò Ben. Sorrise, ma aveva l'aria stanca. «Irene, hai già fatto tanto, per me, ma...» «Chiedi pure.» «La mia auto è ancora nel vialetto di casa: è una vecchia Jeep Cherokee. Sotto il paraurti posteriore sinistro c'è un piccolo contenitore magnetico con il secondo mazzo di chiavi di casa.» A quelle parole Frank roteò gli occhi verso l'alto. Mi aveva fatto togliere un aggeggio simile dall'auto, perché sosteneva che fosse una delle «prime cose che i ladri cercano». Per fortuna tenne la bocca chiusa. «Dovresti usarla per entrare in casa di David», proseguì Sheridan. «Nel garage troverai i giocattoli di Bingle. David ha... aveva un cesto di giocattoli per ciascun viziatissimo cane. In un armadietto c'è il suo cibo e le i-
struzioni per nutrirlo. .. David ce le ha messe per me.» «Hai bisogno di altro? Devo prenderti qualcosa?» «Forse più in là.» Dopo un istante di esitazione aggiunse: «Per adesso», e indicò la protesi, «mi stanno dando una mano qui, o forse dovrei dire un piede». Frank, Jack e Jo Robinson ridacchiarono. «Ehi», osservò Ben, «non era poi così male, visto che è la mia prima battuta postamputazione.» Lo avevamo lasciato da poco ed eravamo a metà corridoio quando mi accorsi di avere ancora in mano il pacco di fogli. «Torno subito», dissi agli altri. Quando rientrai nella stanza sentii che si lamentava. Si accorse della mia presenza e mi sembrò imbarazzato. «Forse la morfina non è sufficiente.» «Credevo di essere solo», borbottò brusco. «Ecco il Ben Sheridan che conosco e che mi piace. Mi chiedevo che fine avesse fatto.» Mi stupì vedere che stava piangendo. «Ben...» «Non so neanch'io che fine ha fatto», mormorò asciugandosi il viso. Trasse un profondo respiro e proseguì: «Merda! Ti prego, dimentica questa breve scenata. Devono essere i farmaci». «O forse è la parte che ti hanno tolto.» «Non ora, d'accordo?» replicò con rabbia. «Cristo, non ora.» «Va bene.» Non mi fu difficile arrendermi. «Perché sei tornata?» «Ellen Raice.» A quelle parole si ricompose. «Come?» «È passata poco fa. Non proverò nemmeno a ripetere ciò che ha detto.» «Ti ha detto di dirmi... 'rimettiti presto'.» Imitò alla perfezione la voce e il tono lezioso, poi sorrise e aggiunse: «Non è molto gentile da parte mia, vero?» «No, ma va benissimo. Non devi fingere di esserlo, quando sei con me. So bene quanto sei stronzo, ricordi?» «Tutto vero, temo. Ecco che cos'hai in mano. Ti ha portato i dannati compiti finali.» «In effetti», continuai, incapace di trattenermi, «per come la vede lei, puoi correggerli anche senza un piede.» Spalancò la bocca e scoppiò in una fragorosa risata. «Preferirei pensare
che te lo sei inventato.» Scossi la testa. «Vuoi che li riporti all'università?» Lui esitò un istante prima di rispondermi: «Al diavolo, in fin dei conti ha ragione! Forse riuscirò a leggerli. Magari cercherò di imbottirmi di morfina alla fine di ogni semestre». Appoggiai i fogli sul comodino accanto al letto. «Ci vediamo domani», lo salutai andando verso la porta. «Irene... aspetta.» «Hai bisogno di altro?» «Perché non parli con Jo Robinson? Non fare quella faccia! Ciò che è successo lassù... nessuno si aspetta che tu sia un soldatino di stagno e che continui a marciare come se nulla fosse dopo un'esperienza simile!» «Mi passerà.» Sembrò voler aggiungere qualcosa, ma cambiò idea. «Va bene, a domani.» «Starai bene, tutto solo?» «Sì; anzi, credo proprio di aver bisogno di un po' di tempo per me stesso.» «Chiamami, se vuoi parlare prima di domani.» Raggiunsi gli altri nella sala d'attesa. «Scusate, mi ero dimenticata di dargli i fogli, anche se immagino che la dottoressa Robinson non creda nella casualità.» «No, e non sono mai stata a Vienna», disse allegramente. «Mi spiace di non poterle dedicare altro tempo, ma ho un appuntamento. Suo marito e il signor Fremont le riferiranno quello di cui abbiamo parlato.» Mi porse un biglietto da visita. «Mi chiami, se ha domande.» La ringraziai, infilai il biglietto in borsa senza neppure guardarlo e mi voltai verso Frank. «Credi che sia possibile entrare in casa di David senza avere problemi?» Per quanto mi rifiutassi di ammetterlo, però, avevo già un sacco di problemi. Problemi seri. 33 SABATO 20 MAGGIO, SERA Las Piernas La prima volta che rividi Nicholas Parrish a Las Piernas fu quella sera
stessa. Usciti dall'ospedale Jack, Frank e io andammo al supermercato sotto casa per fare la spesa. Non fui di grande aiuto, assorta com'ero nei miei pensieri. A un certo punto mi resi conto che non perdevo mai di vista mio marito: avevo paura. Così non andava, e provai ad allontanarmi un po' da lui. «Vado a prendere qualche bottiglia d'acqua», dissi, ma Frank mi seguì. «Torno subito», lo rassicurai, ignorando gli sguardi che i due si scambiarono. Mi ero appena chinata per sollevare un cartone da sei bottiglie quando, con la coda dell'occhio, vidi Parrish che attraversava la corsia. Indossava una camicia verde scuro e un berretto da baseball. Fu soltanto un'apparizione fugace, ma non riuscii a trattenere un urlo e corsi nella direzione opposta. Frank mi aveva sentita, e rischiai di travolgerlo quando voltai l'angolo. «È qui!» gridai. «È nel negozio!» Sapeva che non stavo parlando di Elvis Presley, e aprì il giubbotto per afferrare più facilmente la pistola. Gli descrissi in fretta camicia e berretto. «Resta qui!» Mi lasciò con il carrello e corse nella direzione opposta a quella di Jack, controllando tutte le corsie senza mai perdermi di vista. I clienti si guardavano perplessi e una donna si spaventò a morte quando Frank le urlò: «Stia indietro!» Lo vidi irrigidirsi, poi si rilassò. «Mi scusi, le dispiace seguirmi un momento?» Condusse un uomo in camicia verde scuro e berretto verso di me. Era di corporatura simile a quella di Parrish, aveva i capelli dello stesso colore, ma per il resto non gli somigliava affatto. «È questo l'uomo che hai visto?» mi chiese. Annuii. «Grazie», disse poi rivolto all'uomo, che mi guardava come se fossi appena uscita da un manicomio. «Che significa tutto questo?» chiese seccato. «Niente», risposi con la bocca asciutta. «Le chiedo scusa. L'ho scambiata per un'altra persona.» Il lunedì mi presi un giorno di ferie, anche se John non ne fu entusiasta, e andai con Frank e Bingle a casa di David. Mentre ci avvicinavamo al quartiere, uno dei più antichi di Las Piernas, con case piccole e ben tenute
costruite su terreni spaziosi, Bingle sporse il muso dal finestrino: annusava e sbuffava rumorosamente. Quando svoltammo nella strada di casa, cominciò a guaire e ad agitarsi sul sedile posteriore, dimenando la coda. Parcheggiammo davanti alla casa e lo sentimmo abbaiare. Latrati brevi e secchi. «Tranquilo», dissi. Vidi una donna anziana scostare le tendine alla finestra di una casa dall'altra parte della strada. Bingle si comportò bene fino a quando non raggiungemmo la porta d'ingresso. Una volta entrati, Frank sganciò il guinzaglio e il cane cominciò a gironzolare eccitato per casa. Nel soggiorno c'erano pochi mobili: un divano, una poltrona, un televisore con videoregistratore e una libreria piena zeppa di videocassette, libri sui cani, testi di antropologia e opere di Twain, Thurber e Wodehouse. Bingle mi distrasse da quella perlustrazione: correva trafelato da una stanza all'altra, uggiolando. Ogni tanto tornava, mi guardava e guaiva; mi decisi a seguirlo. «Che cos'ha?» chiese Frank. «Credo che stia cercando David», sospirai con un nodo in gola. In una delle camere Bingle saltò sul letto in disordine e strofinò il muso su lenzuola e cuscini. Nello stanzino infilò il naso in ogni scarpa e si rotolò su una pila di biancheria. Nel bagno fiutò spazzole, spazzolino, tubi di scarico e il sedile della tazza. Tentai di parlargli, ma corse via ed entrò in un'altra stanza con una specchiera e un letto ben rifatto. Si guardò rapidamente intorno, annusò il cuscino e guaì. Quindi si diresse in cucina, dove Frank stava raccogliendo il suo cibo, le istruzioni e i giocattoli. Bingle lo ignorò e cominciò a grattare un'altra porta della cucina che conduceva in un garage stipato di cumuli di scatole di cartone. Il cane le annusò frettolosamente e si diresse verso un'altra porta che dava sul retro. La colpì con le zampe e cominciò ad abbaiare. Gli aprii anche quella e lo seguii in un ampio cortile circondato da una staccionata, con due recinti per cani. Bingle guardò in uno dei due e abbaiò di nuovo. Sull'etichetta c'era il nome di Bool. Non c'erano lucchetti e aprii il cancello. Bingle entrò, fiutò tutt'intorno e mi guardò in cerca di risposte. Mi inginocchiai e risposi all'unica che pensavo gli interessasse. «Non ci sono più, Bingle.» Mi pentii di averlo portato.
Si sedette, mi studiò in silenzio per un attimo e poi cominciò a ululare con la testa piegata all'indietro. Non era la nota acuta che emetteva per gioco con David, ma un lamento basso, triste e primordiale: un richiamo spettrale. Tre sere dopo riuscii a farlo intrufolare in ospedale. Conoscevo una suora molto in gamba, al St. Anne's, e, con il suo aiuto e quello di un paio di agenti, raggiungemmo il nostro piano poco prima del termine dell'orario di visita serale. Avevo dato al cane il comando di restare in silenzio, ma sembrava aver intuito di far parte di un'operazione clandestina. Con suor Teresa e gli agenti fu adorabile e camminò al mio fianco con passo felpato. Le sue narici lavoravano a pieno ritmo, ma evitò di soffermarsi a controllare la moltitudine di odori che sicuramente gli risultavano interessanti. Ben ci aspettava. Era stato lui a suggerire l'idea di quella visita, anche se non credo pensasse che ce l'avrei fatta. Bingle non mangiava più. «Mi sono pentita di averlo portato a casa di David», avevo confessato a Sheridan, «ma credo che in parte sia depresso perché tutti quelli a cui è affezionato lo hanno abbandonato: David, Bool e, per quanto ne sa, anche tu.» I dubbi di Ben circa il fatto che Bingle sentisse la sua mancanza furono fugati dalla reazione che il cane ebbe non appena lo vide. Drizzò le orecchie e cominciò a dimenare la coda in modo impetuoso. Si avvicinò al letto, fulmineo e prudente al tempo stesso, poi, dopo aver emesso un breve mugolio di eccitazione, strofinò delicatamente il muso contro di lui. Sembravano entrambi felici come non li avevo mai visti. Fu proprio durante quell'incontro che la porta si aprì ed entrò una bionda, bella da togliere il fiato. Era alta e magra, con grandi occhi color verdemare e ciglia lunghe, zigomi alti e un naso delizioso; insomma una tale perfezione e armonia che mi chiesi a quante donne era toccata una razione extra di bruttezza perché lei potesse nascere così perfetta. Indossava un tailleur beige dal taglio classico e aveva in mano un mazzo di fiori, un vivace bouquet in un elegante vaso di ceramica; un tocco personale, pensai, e non il solito bicchiere verde che si compra dal fioraio. «Credo proprio di aver sbagliato momento», disse. «Come hai fatto a convincere gli agenti a farti passare?» chiese brusco Ben. Era pazzo? Era ovvio come avesse fatto. «Un pessimo momento», ripeté lei, e fece per andarsene. «Aspetta», la fermò Ben, ma notai che teneva stretto Bingle. «Scusa,
non volevo essere scortese. Resta, Camille.» Dunque era la sua ex. Camille lanciò un'occhiata ai piedi del letto e sgranò gli occhi per la sorpresa. «Riesci a capire qual è quello falso?» le chiese. La donna arrossì. «Non immaginavo che ti avrebbero messo la protesi così in fretta.» «E provvisoria», spiegò Ben. «Permettimi di presentarti ai miei amici. Hai già conosciuto Bingle.» Il cane dimenò la coda e lei annuì nervosa. «Irene Kelly, suor Teresa, lei è Camille Graham.» «Piacere», salutò. Noi contraccambiammo. Per un po' nessuno aggiunse altro. «Puoi mettere i fiori su quel mobiletto», la invitò Ben. Poi, in tono più dolce, aggiunse: «Sempre che siano per me». Sorrise. «Sì, ho pensato...» «Grazie.» Camille appoggiò il vaso, rimase vicino al mobiletto e lanciò un'occhiata a me e a suor Teresa. «Forse è meglio che andiamo», dissi. «No, restate», replicò in fretta Ben. «Ti prego, Bingle mi è mancato da morire.» Camille incrociò le braccia. Dopo altri attimi di silenzio, lui le domandò: «Allora, come stai?» «Bene.» «Esci ancora con...» «No, ma immagino che tu lo sappia già.» «Sì, me l'ha detto David. Mi dispiace che non abbia funzionato.» Con una scrollata di spalle Camille chiese: «Quanto tempo resterai qui?» «In ospedale? Altre due settimane.» «Soltanto? Due settimane dopo...» «Sì. Forse all'inizio mi servirà una sedia a rotelle, ma mi sto già allenando a stare in piedi... o dovrei dire in piede?» «Ben...» «Verso la metà dell'estate», proseguì lui, deciso a ignorare il suo sguardo di compassione, «avrò la protesi definitiva. Allora potrò dire piedi.» «Se hai bisogno di un posto dove stare...» «No, grazie.»
«Dove andrai a vivere?» Esitò un istante prima di rispondere: «Ieri è venuto a trovarmi l'avvocato di David. Pare che io abbia ereditato la sua casa». «E chi si prenderà cura di te?» Accarezzò Bingle e mormorò: «Me la caverò». Camille guardò suor Teresa e arrossì, ma disse ugualmente a Ben: «Se vuoi tornare...» «Assolutamente no.» «Non intendevo...» «Lo so.» Seguì un silenzio carico di tensione. Il mio unico desiderio era quello di andarmene, e pensai che anche suor Teresa doveva sentirsi a disagio. Una rapida occhiata, però, fu sufficiente a capire che si stava divertendo un mondo. «Quanto al tuo lavoro», proseguì Camille, «naturalmente non potrai continuare...» «Perché no?» «Cerca di essere realistico! Quali sono i tuoi progetti?» «Tornare al lavoro che ho sempre fatto.» «Ma...» «Credi che non sarò più in grado di farlo?» «No», rispose lei rassegnata. «Tu riesci sempre a fare quello che vuoi.» «Il punto è che non approvi le mie scelte.» «Esatto, il tuo lavoro non mi è mai piaciuto, e dopo quanto è successo credevo che avresti preso in considerazione l'idea di cambiarlo.» «Al contrario», ribatté lui, «sono più che mai deciso a fermare gente come Nick Parrish. Irene, oltre a quelli del nostro gruppo, quanti altri cadaveri sono stati ritrovati?» «Ben!» esclamò Camille con rabbia. «Irene...» «Dieci donne», risposi, «ma sono convinti che ce ne siano altre.» «Lavoreranno lassù per mesi, Camille. A causa di un uomo. E tutti quelli a cui è scomparsa una figlia vorranno sapere se è la loro.» «Ne abbiamo già parlato. Non so proprio perché sia venuta.» Camille si avviò verso la porta. «È stato sciocco pensare che potessi aver bisogno del mio aiuto.» «Non sono un caso umano», sbottò Ben sempre più arrabbiato. «Non basta perdere una gamba per...»
«Basta», lo interruppe. «Ho afferrato il messaggio.» Aprì la porta, si fermò e aggiunse: «Mi dispiace per David». Lui non rispose. «Abbi cura di te, Ben.» «Anche tu, e grazie per essere venuta. Dico sul serio.» Si voltò a guardarlo. Lui sorrise. «Davvero. So che le tue intenzioni sono buone. Hai solo dimenticato quanto...» lanciò un'occhiata a suor Teresa, «quanto sia scorbutico.» «Non l'ho dimenticato», ribatté lei. «È una delle cose che mi piacciono di te.» Ben rise. Non riuscendo a resistere alla tentazione di ripeterlo, Camille insistette: «Ti prego, pensa a trovarti un altro lavoro». Il sorriso sulle labbra di Ben si spense. «Perché non lo fai tu?» Camille se ne andò. Quando la porta si richiuse, tirammo un sospiro di sollievo, imitati da Bingle. «Mi dispiace», si scusò Ben con il cane, «temo che ti abbia rovinato la visita.» «Ho la sensazione che creda di passare la notte qui.» «Mi piacerebbe moltissimo, Bingle, ma suppongo che dovremo rinviare.» Poco prima di andarcene, gli chiesi: «Come farai, una volta dimesso?» «Non ci ho ancora pensato. Forse assumerò qualcuno che mi aiuti.» Con lo stipendio di assistente universitario? Di certo si accorse della mia espressione perplessa, perché aggiunse: «Devo fare un passo alla volta». Fece un sorrisetto. «Avendo solo una gamba...» «Per l'amor del cielo...» Rise. «Parlo seriamente.» «Fin troppo. Abbi cura di Bingle... per il momento, è già moltissimo.» Sgattaiolammo fuori con il cane e augurai la buonanotte a suor Teresa e agli agenti nostri compiici. Mentre attraversavo il parcheggio, vidi uscire altri visitatori. Stavo aprendo la portiera della Volvo nel tentativo di destreggiarmi fra guinzaglio, borsa e chiavi, quando vidi Nick Parrish. Era seduto nell'auto accanto alla mia e mi fissava. Le chiavi mi caddero di mano, spalancai la bocca per gridare e feci qualche passo indietro impiglian-
domi nel guinzaglio di Bingle. Mi avrebbe presa! Mi resi conto che mi stavo sbagliando. Non si trattava di Parrish, ma di un uomo che aspettava in macchina. Salii in auto, abbassai i finestrini, accarezzai il cane e aspettai che le gambe smettessero di tremare. Bingle rimase seduto paziente, senza abbaiare. Venti minuti dopo mi ero finalmente calmata e riuscii a mettere in moto. «Non devi più pensare a Parrish», mi dissi. «Devi distrarti.» Mi concentrai con forza su quell'idea. 34 GIOVEDÌ 25 MAGGIO, SERA TARDI Las Piernas Quando arrivai a casa era piuttosto tardi; trovai Frank, Jack, Stinger e Travis che mi aspettavano. «Non avete ancora cenato?» domandai. In realtà eravamo tutti preoccupati per una sola cena, ed eravamo pronti a lodare e ad applaudire Bingle se solo avesse toccato cibo. «Funziona!» esclamò Travis. «Ben è stato felice di vedere il cane?» Risposi di sì, e, una volta a tavola, raccontai ciò che era successo in ospedale, ma non parlai dell'episodio del parcheggio. Stinger cominciò a indagare su Camille Graham e mi chiese se secondo me potesse essere adatta a un gentiluomo più maturo. Jack non poté fare a meno di domandargli dove lo avrebbe trovato. «Sembra una tipa carina», commentò Travis, e arrossì quando gli altri risero. «Credo di sì», confermai. «Ben non intende accettare da lei nessuna offerta di amicizia. È un vero peccato! Credo che il suo aiuto gli avrebbe fatto bene... senza David non so proprio come diavolo se la caverà.» «Forse dovrebbe venire a stare da me», propose Jack. «Non sei quello che definirei un padrone di casa ideale», commentò Stinger, «e parlo per esperienza personale. Qualche altra notte su quel divano e avrò bisogno anch'io di un intervento chirurgico.» «A quello si può rimediare.» «Vorrei vedere», disse Stinger. «Io intanto me ne torno a casa.» Travis si schiarì la voce e annunciò: «Io andrò con lui». «Che cosa?» chiedemmo io e Frank. «Travis ha una mezza idea di imparare a pilotare gli elicotteri», rispose
Stinger, «e visto che ho già depositato il mio testamento gli ho detto che posso insegnargli.» «Non lascerò passare altri vent'anni prima di farmi vivo», aggiunse in fretta Travis, che intuiva il mio timore principale. Fino a poco tempo prima alcune incomprensioni familiari mi avevano tenuta lontana da mio cugino, e non avevo nessuna voglia di perdere nuovamente le sue tracce. «Starò via solo un po', per fare un'esperienza nuova», disse, «ma credo che al mio ritorno andrò a vivere per conto mio.» Tutti gli occhi erano puntati su di me: attendevano una risposta. «Se è ciò che vuoi fare, per me va bene. Basta che non diventi un estraneo.» Lui si animò e mi raccontò di quanto gli fosse piaciuto trovarsi nella cabina di pilotaggio dell'elicottero di Stinger, del suo rifugio isolato, del lavoro che faceva con gli elicotteri. «Qualche notizia su dove possa trovarsi Parrish?» chiese Jack. Frank scosse la testa. «Ci arrivano segnalazioni da tutte le parti... da qui all'Australia, come sempre quando c'è un serial killer a piede libero: la gente ha paura e comincia a vederlo dovunque.» Li capivo, eccome. Dopo cena augurai la buonanotte. Era stata una giornata lunga, ed ero stanca. Era la verità, anche se non tutta. Faticai ad addormentarmi. Mi sentivo nervosa e profondamente infelice, ma non riuscii a comprenderne il motivo. Non c'era niente di cui essere infelice, mi dissi. Ero a casa, sana e salva, a differenza di tutti quelli con cui ero andata sulle montagne una settimana prima. Non riuscivo a liberarmi dell'immagine dei loro volti, e mi ritrovai a pensare soprattutto a Bob Thompson. Il fatto che non mi fosse mai piaciuto mi impediva, per quanto mi sforzassi di farlo, di ricordarmi di lui con simpatia e benevolenza. Bingle venne a trovarmi e appoggiò la testa sul letto accanto a me. Lo accarezzai finché non lo sentii crollare addormentato. Arrivò anche Cody e, nonostante la mia indifferenza, si acciambellò nell'incavo delle ginocchia e cominciò a fare le fusa. Non ricordo il momento esatto in cui mi assopii, ma quella notte sognai di trovarmi in un campo pieno di uomini a pezzi; però non si trattava del caos che avevo vissuto nella realtà. Le diverse parti dei corpi erano intere, precise: teste, busti, piedi, mani, braccia, gambe, tutto senza traccia di sangue, pulito, quasi fossero manichini smontati e non uomini. Io dovevo rimontarli e sentivo di doverlo fare in fretta, ma i pezzi erano un'accozzaglia
disordinata e continuavo a fare errori. Mettevo un piede alla gamba sbagliata e non riuscivo a toglierlo, un collo sulla testa sbagliata. A un tratto cominciai a sentire il tanfo del campo vero, il puzzo di morte, sempre più intenso... le parti cominciavano a decomporsi perché io non le montavo abbastanza velocemente. Alcune teste erano arrabbiate con me: stavano morendo a causa mia, dissero, e presero a urlare il mio nome, una cantilena irosa, di protesta. Dopo un po' mi resi conto che era Frank. Non gridava, ma ripeteva dolcemente il mio nome, mi stringeva e mi massaggiava la schiena. Stavo tremando, e per molto tempo non riuscii a smettere. «Lo senti?» chiesi. «Che cosa?» Non ricevendo risposta, si fermò e poi disse: «L'odore del campo?» «Sì. Lo senti? Credo che sia sui miei vestiti o forse su qualcosa che ho portato a casa... o forse è Bingle...» «No, non lo sento.» Lo guardai negli occhi, vidi la sua espressione seria e sussurrai: «Ho bisogno di uscire». «D'accordo.» Conosceva i miei problemi di claustrofobia. Ci vestimmo, prendemmo i tre cani e passeggiammo fino alla fine della strada. Era mezzanotte passata, e i poliziotti di guardia in cima alla scalinata che conduceva alla spiaggia non furono particolarmente entusiasti dei nostri piani, ma ci fecero passare lo stesso. La luna era alta nel cielo e, benché non fosse piena, era sufficiente per illuminare il cammino. Respirai a pieni polmoni l'aria salmastra, e gli altri odori svanirono. La vista della striscia infinita di mare argenteo, lo sciabordio delle onde, la sabbia soffice che cedeva sotto i piedi erano tutte cose diverse dal prato di montagna del mio sogno. Le immagini che mi avevano terrorizzata si dileguarono e cominciai finalmente a rilassarmi. Mi accorsi della grande mano calda di Frank che stringeva la mia. «Scusa, forse avevi bisogno di dormire e io ti ho trascinato in spiaggia», mormorai. «Ho avuto anch'io le mie nottatacce; ma, dopo quello che hai passato, non puoi pensare che, una volta a casa, torni tutto come prima.» «No.» Dopo un istante aggiunsi: «Questa volta... è come se non riuscissi più a tornare indietro, Frank. Mi terrorizza». Mi abbracciò e disse: «Credo che dovresti parlarne con qualcuno». Non risposi. Due sere prima gli avevo raccontato tutto quello che era
successo in montagna; lui aveva ascoltato con pazienza e, per quanto fosse rimasto sconcertato dal modo in cui Parrish mi aveva terrorizzata e non approvasse il mio tentativo di allontanarlo da Ben, non mi criticò né biasimò per l'accaduto. Era un ascoltatore perfetto, ma sapevo che con quel «dovresti parlarne con qualcuno» si riferiva a uno psicologo. «Era soltanto un'idea», spiegò dopo un po'. «Non ho intenzione di farti pressioni.» «Lo so», replicai, ma mi sentii sollevata. «Comunque puoi sempre parlarne con me.» Lo strinsi forte. «Lo so, grazie. Credo che sia questo il motivo per cui non sto cercando un terapista. Ho un marito eccezionale, sono circondata da parenti e amici; insomma, un vero e proprio gruppo di sostegno. Purtroppo, credo che Ben non sia altrettanto fortunato.» «È quello che ha detto Jo Robinson... l'altro giorno, all'ospedale. Ha detto che stava cercando di mettersi in contatto con la sorella e alcuni amici, nel frattempo però lui avrà bisogno del nostro supporto morale. La dottoressa ha anche paura che tu non ti stia prendendo cura di te stessa.» «Dove vive la sorella?» domandai per sviare la conversazione lontano da Jo Robinson e dalle sue preoccupazioni. «Nell'Iowa.» I cani ci raggiunsero e si scrollarono l'acqua di dosso. Nonostante non fosse una cosa piacevole, ci mettemmo a ridere e continuammo a passeggiare con lo sguardo fisso su di loro. Bingle si stava divertendo molto. Era il giorno più felice che avesse trascorso da quando l'avevamo portato a casa nostra. Considerato il suo livello di addestramento, David doveva aver passato con lui molte più ore di quanto non avessimo fatto noi con i nostri cani. Quante volte al giorno era abituato a uscire? Avrebbe perso tutto quello che aveva imparato, se non avessimo lavorato con lui? I tre cani andavano d'accordo, ed erano impegnati in un gioco scalmanato ma innocuo. Si inseguivano e si rotolavano sulla sabbia, si davano la caccia nell'acqua e poi correvano sulla spiaggia. Frank ruppe il silenzio. «Ho pensato ai gradini sul davanti.» Mi fermai. «Ai gradini?» «Con l'aiuto di Pete e Jack potremmo costruire una rampa. Bisognerà anche fare qualche lavoretto in bagno, magari comprare una doccia a telefono e un sedile. Forse il dottor Riley può fornirci un elenco di cose che da soli non ci verrebbero mai in mente.»
«Frank...» deglutii a fatica. «Hai dovuto vivere con mio cugino...» «Come la maggior parte dei suoi coetanei, Travis ha di meglio da fare che ciondolare in casa. Sai bene che non mi è dispiaciuto affatto che stesse con noi. Mi sta simpatico.» «Ben... avrà un mucchio di problemi - li aveva già anche prima che tutto ciò accadesse - e adesso non sta attraversando un bel momento.» «Ti è antipatico?» «Se me l'avessi chiesto la settimana scorsa, ti avrei risposto di sì.» «E ora?» «Ora vedo le cose in maniera diversa. Sono stata costretta a passare con lui momenti in cui mi aspettavo che tirasse fuori il peggio di sé, invece è stato tutto il contrario.» Sulla strada del ritorno Frank disse: «Ti ho trovata prima di Parrish perché, nonostante fosse fuori di sé dal dolore, Ben mi ha suggerito di portare Bingle per cercarti». «Mi avresti trovata comunque.» «Forse sì, ma non possiamo saperlo. Parrish era libero nel bosco, e non volevo correre il rischio. E poi... conosci la storia di chi salva la vita a qualcuno...» «Ne diventa responsabile. Non vorrai convincermi che Ben dovrebbe venire a stare da noi per questo.» «No, ma fra voi due c'è un legame speciale perché siete sopravvissuti insieme.» «Un legame? Forse è meglio chiarire una cosa...» «Non ce n'è bisogno», disse con fermezza. «Non sospetto niente.» «Perché?» Alla mia domanda si mise a ridere. «Non preoccuparti, non dubito del fatto che gli altri uomini possano trovarti attraente.» «Quindi pensi che Ben sia gay?» «No, altrimenti la signorina Ellen Raice ci avrebbe informati di sua iniziativa.» «Hai ragione.» «E poi non ti sarai inventata Camille Graham solo per essere crudele con Stinger, vero?» «No, e allora perché?» «Perché mi fido di te.» Poi, con uno sguardo malizioso aggiunse: «Inoltre ci sono alcuni vantaggi a sposare ragazze come te, che non smettono
mai del tutto di sentirsi cattoliche... Avrei notato il tuo senso di colpa da un chilometro di distanza». Aprii la bocca per protestare, la richiusi e mormorai: «Hai ragione». Rise di nuovo. Decidemmo così che per Ben sarebbe stato meglio venire a stare da noi, ma non fu facile convincerlo. Frank apportò comunque i cambiamenti necessari alla casa. Sarebbero stati utili in ogni caso se fosse venuto a farci visita. Speravamo entrambi che cambiasse idea. La sorella di Ben chiamò una volta dall'Iowa: disse che le dispiaceva per quanto era successo, ma non c'era niente che potesse fare, che lei e il suo compagno stavano per sposarsi, e non era sicuramente il momento adatto per sconvolgere i loro progetti. Ben mi disse che la telefonata era più di quanto si aspettasse da lei. Fu trasferito in un altro reparto e cominciò la fisioterapia. Durante quelle due settimane ricevette molte telefonate dagli amici sparpagliati per tutto il paese, ai quali diceva di non disturbarsi di venirlo a trovare. Anche per me furono settimane di gran lavoro, proprio come avevo sperato che fossero. Alcuni colleghi, stanchi di sentire John che lodava la mia produttività, mi fecero capire che era il caso che io rallentassi il ritmo. Ma io non ci riuscivo. Continuavo a correre, proprio come sulle montagne. Vedevo Parrish dovunque. Era seduto al tavolo vicino al ristorante, mi passava accanto sul marciapiede affollato, scendeva le scale dello stadio durante una partita di baseball. Usciva da una libreria mentre io entravo, restava in piedi nell'ombra di un bar quando andavo a bere con gli amici dopo il lavoro, mi fissava dal molo quando andavo a correre in spiaggia. Era in fondo all'autobus sul quale salivo e mi passava di fianco con la macchina mentre passeggiavo. Una volta lo vidi entrare in un ascensore davanti a me e presi le scale, quattro rampe in salita. In ogni caso non ho mai amato gli ascensori. Benché ogni volta fosse spaventosa come la prima, imparai a non strillare, a non correre o a non additarlo, e non rivelavo a nessuno perché ero improvvisamente impallidita; anzi, non ne parlavo affatto, anche se sapevo che Frank non avrebbe preso alla leggera la cosa. Che importava? Mi vergognavo troppo per non minimizzare da sola. Quando non lavoravo, andavo a trovare Ben o facevo i preparativi per quando sarebbe stato dimesso. Tornai a casa di David, senza Bingle, e die-
di una pulita nel caso in cui avessimo perso la nostra battaglia. Chiesi a Ben se voleva che sistemassi in qualche modo gli oggetti personali di David: mi rispose di no. «Potresti portarmi qualcuna delle sue videocassette sull'addestramento? Suor Teresa dovrebbe procurarmi un videoregistratore.» «Corruzione di suore?» «Parli proprio tu, col tuo traffico di cani clandestini.» «Di che cassette si tratta?» «Quelle su Bingle e il gruppo SAR. Ci sono degli esercizi dai quali è possibile studiare il modo in cui cani e istruttore lavorano insieme. David le guardava di continuo: dovrebbero essere sullo scaffale.» «Hai intenzione di dedicarti al SAR e al lavoro con i cani da ricerca?» Si guardò la gamba sinistra e poi, con piglio deciso, rispose: «Sì. Se Bingle decide di non voler lavorare con me, pazienza. Ma David ha investito tempo ed energia, per addestrado, e il minimo che possa fare per lui e per il cane è provarci. E nessuno meglio di David può insegnarmi come fare». All'inizio, quelle cassette ci lasciarono molto turbati. David era in forma smagliante, felice, e non potevamo fare a meno di pensare che avevamo perso una persona meravigliosa. Era evidente che lui e Bingle comunicavano in modo esemplare, il che contribuiva a sfruttarne al meglio le doti e l'intelligenza. Dopo la morte del suo padrone, quel cane doveva aver pensato di essere rimasto con un gruppo di imbecilli. A un certo punto Ben mise in pausa la cassetta e lo sentii soffocare un singhiozzo. «Vuoi aspettare di guardarle quando starai meglio?» domandai. Scosse il capo. «Non starò mai meglio, per la morte di David; devo solo abituarmici.» Schiacciò il tasto play. La cassetta era stata registrata in estate, e alla fine c'era qualche sequenza di una festa in piscina a cui partecipavano anche i cani. Stavo ridendo con Ben delle buffonate di Bingle nell'acqua quando vidi una cosa che mi lasciò senza fiato. Ben se ne accorse e fermò di nuovo la cassetta. «Che succede?» «Scusa... non lo sapevo.» Guardò lo schermo e capì cosa mi aveva sconcertata. «Ti riferisci alla schiena? Alle cicatrici?»
«Sì.» «Le peggiori sono quelle del radiatore.» «Un incidente?» domandai speranzosa, anche se sapevo che non era così. «No. David ha subito maltrattamenti.» Non riuscii a parlare. «Doveva sentirsi molto a suo agio, con quel gruppo», proseguì Ben. «Di solito non si toglieva la maglietta in presenza di altre persone, e, a meno che non fosse con qualcuno che aveva subito le stesse cose, non parlava mai della propria infanzia.» Esitò e aggiunse: «Ti prego, non dirlo a nessuno». Promisi che non lo avrei fatto. «Comincio a capire perché non credeva che l'infanzia di Parrish potesse rappresentare una scusa.» «Sì», confermò lui. «Ne abbiamo discusso parecchie volte. David era un chiaro esempio di come non tutti i bambini maltrattati diventano adulti squilibrati. Molti superano gli orrori subiti durante l'infanzia. Io gli ripetevo sempre che non tutti erano della sua stoffa, non tutti erano altrettanto forti per superare quello che aveva superato lui.» Pensai a Nicholas Parrish. «Forse alcuni non vogliono farlo.» «Forse.» Schiacciò di nuovo il pulsante play. David ricomparve sullo schermo. 35 MARTEDÌ 30 MAGGIO, PRIMO POMERIGGIO Las Piernas La Falena guardava e ascoltava in silenzio. La porta sul retro del garage era ben nascosta. La staccionata era alta e i recinti dei cani vuoti, ma puliti, erano riparati da una fila di alberi. Il cane dei vicini abbaiava, anche se nessuno sembrava prestargli attenzione. Era un giorno feriale, e a quell'ora quasi tutti erano al lavoro o a scuola. Dall'altra parte della strada viveva una donna anziana che poteva vedere la casa dell'uomo morto dalla sua finestra, ma, anche se avesse scorto qualcosa, non le sarebbe stato facile descrivere la persona entrata nel cortile. Avrebbe pensato che si trattasse di un tecnico, a giudicare dalla cassetta degli attrezzi (quasi vuota), la tuta da lavoro scura, gli stivali, i guanti di pelle e il berretto con visiera calato sul viso. Forse avrebbe notato l'andatu-
ra zoppicante. La Falena si chinò per aprire la cassetta e si fermò un istante a toccare i suoi trofei: valvole di drenaggio. Non tutti avrebbero considerato tesori quei pezzi di metallo sporchi di carburante, e molto probabilmente Nicky si sarebbe arrabbiato se avesse saputo che li conservava. Ma Nicky non c'era... Il loro posto era il motore degli elicotteri. Una volta rimossi la Falena era sicura che i velivoli della stazione del Corpo Forestale vicina al prato non sarebbero più potuti decollare. Il giornale aveva persino pubblicato un articolo speciale sull'astuzia dello stratagemma, e la Falena se lo leggeva ogni mattina quasi fosse una preghiera. Era un fantastico tributo, anche se dedicato a Nicky. Dopotutto aveva insegnato lui alla Falena quel trucco per mettere fuori uso un elicottero, come del resto molti altri. Aveva scelto e aveva avuto successo. Un ottimo risultato, non solo perché aveva funzionato alla perfezione, ma anche perché si trattava di un tipo di sabotaggio molto rispettoso, del quale apprezzava la finezza. Rimuovere una valvola di drenaggio impediva all'elicottero di volare senza però danneggiarlo. Il cane dei vicini abbaiò ancora, e la Falena ricordò il motivo della visita. Ripose le valvole nella cassetta, estrasse un piede di porco e nel giro di pochi secondi entrò in garage. Appoggiò la cassetta degli attrezzi contro la porta, dall'interno, in modo che restasse chiusa, accese la luce e rimase ad ascoltare il debole tintinnio e il ronzio dei neon appesi al soffitto. Il garage era pulito e in ordine. Lungo una parete erano ammassati degli scatoloni, contrassegnati dal nome di stanze: CUCINA, CAMERA DA LETTO, BAGNO, GARAGE, e quelli più numerosi recavano la scritta STUDIO. Li ispezionò più da vicino. In cima a ogni scatolone c'era un'etichetta per l'indirizzo, come quelle che a volte arrivano per posta con la richiesta di una donazione; sopra c'erano stampati la bandiera americana e due nomi: Ben Sheridan e Camille Graham. L'indirizzo non era quello. Ben Sheridan. Nicky era arrabbiato con lui. Era convinto di averlo ucciso; invece lo aveva soltanto ferito. Lo aveva soltanto ferito per il momento. Presto o tardi avrebbe lasciato l'ospedale. Povero Nicky, che invece non poteva andarci! La Falena avrebbe voluto consolarlo, ma bisognava essere prudenti. Nicky era troppo arrabbiato per accettare le coccole. In realtà Nicky non vuole essere coccolato: lui non ha bisogno di nessuno, nemmeno di te.
Staccò l'etichetta da uno degli scatoloni con la scritta STUDIO e se la mise in tasca. Tagliò il nastro adesivo che sigillava la scatola con un coltellino, l'aprì e ne esaminò il contenuto. Libri. Non erano neppure quelli che aveva sperato di trovare, e cioè i testi di antropologia legale in cui avrebbe potuto ammirare foto di cadaveri, ma stupidissimi libri di Jane Austen, James Baldwin, Charles Dickens, Graham Greene e Flannery O'Connor. Libri di poesia di Auden, Dickinson, Eliot, Housman, Hughes, Neruda, Poe. Vecchi libri noiosi che i ragazzi erano costretti a leggere alla scuola superiore. Perché? Le biblioteche pubbliche ne erano piene... perché comprarli? E che cosa avevano da dire sulla vita vera di quell'epoca? Niente. Per caso i loro autori avevano fatto la vita di Nicky e della Falena? No, mai. Richiuse i lembi della scatola con disgusto ed entrò in casa. La porta che dal garage conduceva in cucina non era chiusa a chiave. La Falena entrò e rimase immobile. Qualcuno era stato li. La casa era stata aperta e arieggiata. Fece un respiro profondo e cercò di far parlare l'olfatto, come avrebbe fatto Nicky. L'odore di cane si sentiva ancora. Quando si permette loro di vivere in casa, per quanto siano addestrati, lasciano sempre traccia. Lasciò da parte quel particolare e proseguì l'ispezione. In cucina si sentiva il profumo dei prodotti per la pulizia: candeggina mista a un vago aroma di limone. Aprì il frigo. I ripiani erano come nuovi, nessuna traccia di latte, carne o altri alimenti deperibili. C'erano solo qualche barattolo e una scatola di bicarbonato, aperta. I rifiuti erano stati portati via e nella pattumiera c'era una busta di plastica pulita, con dentro solo un tovagliolino di carta appallottolato che odorava di un detergente per vetri. Continuò a curiosare: era evidente che dopo la morte del proprietario qualcuno era stato in quella casa. Chi? Forse l'uomo morto aveva una donna di servizio. No, era un semplice assistente universitario. Non era abbastanza ricco da assumere qualcuno che gli facesse i lavori domestici. La Falena lo sapeva, come sapeva moltissime altre cose dell'uomo morto, cose di cui pochi erano al corrente. Sua madre era morta quando lui aveva due anni, e il padre alcolizzato lo aveva maltrattato durante l'infanzia... se in quel prato erano rimasti pezzi grossi a sufficienza, gli investigatori avrebbero notato le cicatrici. Il padre dell'uomo morto era stato attento a sfregiarlo in punti che pote-
vano essere coperti dai vestiti. Tutte quelle cose avrebbero potuto sconvolgere un'altra persona, ma sulla Falena producevano ben altri effetti. Sapeva tutto sulle cicatrici nascoste. Come molti bambini maltrattati, David Niles era un bravo studente, un ragazzino che tentava di piacere. Suo padre morì quando lui era adolescente, e così era andato a vivere con la zia materna, una anziana zitella che allevava cani nel New Mexico. David adorava i cani e amava la zia, che finanziò i suoi studi. All'università conobbe Ben Sheridan, un anno o due più avanti di lui. La Falena sapeva che l'entusiasmo di Sheridan per l'antropologia fisica aveva indotto David Niles a cambiare indirizzo. Purtroppo aveva dovuto interrompere gli studi per accudire la vecchia zia malata. Quando la malattia le impedì di prendersi cura dei cani, trovò loro una sistemazione. Soltanto il nipote ebbe cura di lei. Dopo la sua morte, David riprese gli studi e si laureò. Poi, con l'aiuto dell'amico, aveva ottenuto un incarico part-time all'università di Las Piernas. Poco prima di morire, gli era stata assegnata una cattedra a tempo pieno. Sapeva anche che David Niles - no, meglio chiamarlo l'uomo morto aveva ereditato dalla zia un gruzzoletto che aveva usato per comprarsi quella casa, costruire i recinti e coprire tutte le spese relative a cibo, addestramento, attrezzature e cura dei due grossi cani da ricerca. Sapeva parecchie cose sul conto di ciascun membro della spedizione al seguito di Nicky, ma sull'uomo morto ne sapeva di più. Era stato il progetto speciale della Falena, la ragione per cui era necessaria l'ispezione della casa. Nel soggiorno si sentiva un forte profumo di prodotto al limone per mobili e, sulla moquette, l'odore dei cani. Nicky di certo avrebbe fatto molto meglio. Era in grado di distinguere un odore meglio di qualunque altro essere umano. Lui si sarebbe arrabbiato moltissimo se solo avesse saputo che la sua Falena aveva trascurato un piccolissimo dettaglio; ma avrebbe sistemato tutto, e lui non sarebbe mai venuto a saperlo. Ripensò alle valvole di drenaggio nella cassetta degli attrezzi e si chiese perché avere dei segreti fosse così eccitante. In breve però la sua eccitazione si trasformò in panico. Quello che cercava avrebbe dovuto trovarsi in soggiorno, ma non era lì. All'improvviso, quel minuscolo dettaglio diventò enorme e minaccioso. Perché, di tutte le cose, mancava proprio quella?
La polizia aveva già capito? Aveva già fatto i dovuti collegamenti? Bussarono alla porta. La Falena restò paralizzata, poi si diresse in silenzio verso una delle camere da letto e si nascose in uno sgabuzzino. Doveva uccidere la persona alla porta? Nicky si sarebbe infuriato: non era lì per ordine suo. Lui avrebbe programmato tutto, avrebbe previsto ogni cosa. E se la persona alla porta avesse fatto il giro dal garage e avesse visto la cassetta degli attrezzi? Nei lunghi minuti che seguirono pensò alla cassetta e alle valvole di drenaggio con un senso di profondo malessere. Il campanello suonò. La Falena si raggomitolò. Seguì un lungo silenzio, poi trovò il coraggio di alzarsi e uscire dallo stanzino. Ispezionò rapidamente le due stanze da letto e il bagno, il posto più stupido per nascondere quello che cercava. Il cane dei vicini riprese ad abbaiare. Aveva esaurito la scorta di coraggio, e così raggiunse il garage, afferrò la cassetta degli attrezzi e si allontanò di corsa dalla casa dell'uomo morto. Si mise al volante senza neppure darsi il tempo di controllare la finestra dell'anziana dirimpettaia, per vedere se stesse spiando. La sua mente era occupata da un unico pensiero, insistente come un mantra: Non dirlo a Nicky! Non dirlo a Nicky! Non dirlo a Nicky! 36 MERCOLEDÌ 31 MAGGIO, MATTINA Las Piernas Ellen Raice mi chiamò al lavoro per informarmi che qualcuno aveva fatto irruzione nell'ufficio di Ben forzando una finestra del seminterrato. «Hanno preso qualcosa?» «Non credo. Se non avessi tentato di chiudere la finestra non mi sarei neppure accorta che era entrato qualcuno. Quando però ho visto il saliscendi, mi sono guardata intorno e mi sono accorta che alcune cose erano state spostate, esaminate. Soprattutto quelle sugli scaffali e nei cassetti della scrivania.» «La sorveglianza del campus ne è al corrente?»
«Sì, ma non credo che l'agente abbia fatto i dovuti collegamenti.» «Con Nicholas Parrish?» «Sapevo che avrebbe capito! Potrebbe parlarne con suo marito?» Chiamai Frank. All'università furono mandati un detective e un tecnico di laboratorio mentre a casa di David sarebbe andata un'auto di pattuglia. Anche lì c'era stata un'irruzione, e sembrava che qualcuno avesse forzato la porta del garage. Informai Ben dell'accaduto e gli dissi che avrei fatto un salto là per controllare se mancava qualcosa. Frank mi raggiunse sul posto. Per un caso del genere sarebbe bastata una sola auto della polizia, e forse neanche, ma dato che l'intrusione poteva aver qualcosa a che fare con Nick Parrish, la scientifica era già all'opera quando arrivai. «Trovato impronte?» chiesi a Frank. «No, ma forse hanno rilevato i segni di uno strumento sulla porta di casa e sul saliscendi della finestra del campus.» «È strano che Ben abbia subito un'irruzione in ufficio e una a casa lo stesso giorno, vero?» «Sì, e la cosa ancora più strana è che in entrambi i casi non sia stato rubato niente. C'erano oggetti di valore sia qui sia in ufficio, ma non sono stati toccati.» «Che cosa può avere Ben di cui Parrish voglia impadronirsi?» «Non è detto che sia stato lui.» Lo fissai. «Sono d'accordo con te, ma dobbiamo considerare tutte le possibilità», disse. «Sei stata tu a parlarmi della sua ex...» «Camille, e non fingere di aver dimenticato il suo nome.» Rise. «Va bene, Camille. C'erano dei dissapori fra loro, esatto?» «Sì», ammisi. «Ma mi risulta davvero difficile immaginare quella donna nel suo elegante tailleur di seta che fa irruzione attraverso una finestra del seminterrato.» «Chiamerò ugualmente Ben per chiedergli l'indirizzo del posto in cui lavora. Vorrei fare quattro chiacchiere con lei.» «Ci avrei scommesso.» Proprio in quel momento si avvicinò il detective incaricato del caso. «La vicina sostiene di aver visto un tecnico, poche ore fa. Uno di voi sa per caso se il dottor Sheridan avesse preso un appuntamento per riparare qualcosa?» «No», risposi. «Ne sono sicura.»
«La signora dice che il tecnico è andato direttamente sul retro. Sapeva che il dottor Sheridan è in ospedale e si è insospettita, così è venuta a bussare alla porta e a suonare il campanello: non ha risposto nessuno.» «Che ora era?» chiese Frank. «Primo pomeriggio. Stava guardando una telenovela che comincia all'una. È uscita durante un'interruzione pubblicitaria, quindi non è rimasta fuori a lungo.» «Ha fornito una descrizione del tecnico?» «Non ha detto granché, a meno che 'un bianco con un berretto' possa essere considerata una descrizione dettagliata. E a proposito di altezza e corporatura ha cambiato idea tre volte.» Dopo una pausa aggiunse: «All'inizio ha pensato che si trattasse di Sheridan, poi si è resa conto che lui sarebbe entrato dalla porta principale. Però ha detto che zoppicava». Frank sollevò le sopracciglia. «Sì», disse il detective. «E esattamente quello che ho pensato. C'è un volo da San Francisco ogni ora.» «Chi c'è a San Francisco?» domandai. «Phil Newly; a dire il vero un po' più a nord, ma non distante dalla città. È andato a trovare la sorella.» «Alla vicina è sembrata una forzatura, e non ricorda neppure quale fosse la gamba offesa.» «C'è qualcun altro con cui dovremmo parlare», gli rammentò Frank. «Non è stata Camille», insistette Ben. «È impossibile. Non farebbe mai una cosa simile. E poi non ho niente che potrebbe interessarle.» «Non importa, ho intenzione di approfondire la faccenda», replicò Frank. Di malavoglia, Ben gli comunicò l'indirizzo di casa e del lavoro della donna. «Se per qualche inimmaginabile ragione fosse stata lei, non ho intenzione di denunciarla.» «Vi siete lasciati pacificamente?» chiese mio marito. Dopo un lungo silenzio, Ben rispose: «No». «Grazie per la sincerità. Come hai appena detto, forse non è stata lei.» Frank mi chiamò al giornale per dirmi che Camille Graham quel giorno non si era presentata al lavoro. «Per la verità non lavora più lì. L'abbiamo raggiunta a casa, dove sostiene di essere rintanata da qualche giorno a causa di un raffreddore. Sembrava piuttosto congestionata.» «L'hai vista?»
«Sì», rispose divertito. «È una gran bella donna, ma preferisco le brune.» «Anche se in questo periodo non ci sono lezioni, riesci a immaginarti una come Camille che attraversa il campus inosservata? Non credi che gli studenti abbiano una specie di radar per tipi simili?» «Irene! Ma che osservazione sessista!» «Sai benissimo che cosa voglio dire, caro il mio stinco di santo!» «Tutto è possibile. Non dimenticarlo.» Si avvicinava il giorno in cui Ben sarebbe uscito dall'ospedale, e lui continuava a sostenere di non volerci condizionare con la sua presenza. Tuttavia non protestava più come prima. Aveva problemi di sensibilità e di dolori all'arto fantasma ed era piuttosto scoraggiato. Il dottor Riley l'aveva avvertito che erano entrambi fenomeni normali, soprattutto nel decorso postoperatorio. Ben «sentiva» la parte mancante della gamba sinistra, compresi caviglia e piede, come fosse ancora al suo posto. Una mattina, mezzo addormentato e assolutamente convinto di avere ancora il piede sinistro, aveva tentato di scendere dal letto. Per fortuna, a parte qualche livido all'anca e alla spalla, non aveva riportato ulteriori danni alla gamba. Un'altra volta credeva di impazzire per il prurito alle dita del piede sinistro. Per dargli sollievo avevo persino provato a grattargli l'estremità della protesi, senza alcun risultato. Aveva dovuto sopportare quella sensazione di prurito per più di tre ore. La sensazione della «presenza» dell'arto mancante, a quanto diceva Ben, non era del tutto sgradevole. Il dolore dell'arto fantasma, invece, era un'altra questione. Poco dopo l'intervento gli era successo di avere i crampi al piede mancante, e non aveva idea di come alleviare quel dolore violento. Di tanto in tanto un'infermiera gli massaggiava «l'arto residuo», come definivano ciò che restava della parte inferiore della gamba. Era molto sensibile al tatto e ancora gonfia per via dell'operazione, ma il massaggio sembrava aiutare. Ben mi confessò che il dolore compariva più spesso a notte fonda, quando era solo, e colpiva in determinate zone dell'arto mancante. A volte si manifestava come una trafittura lancinante nel polpaccio, altre come una scossa elettrica al tallone. L'unico rimedio in grado di sopire il male erano forti dosi di analgesici, e lui temeva che in quel modo sarebbe diventato un morfinomane. Quelli furono i giorni peggiori che trascorse all'ospedale. Nel complesso,
però, sembrava avere un atteggiamento piuttosto determinato. «Voglio riuscire a cavarmela da solo», ripeteva ogniqualvolta veniva fuori la questione di stare da noi. «Anche noi lo desideriamo», rispondevo. «Non sei stato invitato a restare per sempre. Non so neppure se sia il caso che tu rimanga per più di sei mesi.» Rise. «Ti saremo vicini in entrambi i casi. Lo sai, vero?» «Sì», rispose. «La differenza è che in questo modo non dovrai pulire casa prima del nostro arrivo.» «Ci penserò su.» Ben decise di venire a stare da noi il giorno in cui ci arrivò la notizia dell'Oregon. Non si convinse a venire per paura di Nicholas Parrish, ma perché, sosteneva, ero io ad avere troppa paura. 37 GIOVEDÌ 1° GIUGNO, POMERIGGIO Oregon orientale Quella centralinista, pensò Parrish, doveva andarsene. Ogni volta che credeva che lui non la stesse guardando, lo fissava. Idiota. Lui guardava sempre. Lo temeva, era evidente. Una volta aveva perso le staffe con lei, la prima volta che era andato lì. Da allora, lei aveva vissuto unicamente della sofferenza di lui. Un'infermiera aprì la porta e gli sorrise. «Signor Kent?» Vacca. Che diavolo aveva da sorridere? Forse doveva andarsene anche lei. Forse non sarebbe rimasta neppure una donna viva, nell'Oregon, nel momento in cui se ne sarebbe andato. Molto probabile. Quando la donna gli misurò la pressione, le sorrise. Finalmente lo lasciò da solo ad aspettare, con la pietosa scusa di andare a cercare un medico che lo visitasse. Il vecchio coglione rinsecchito non ce l'avrebbe mai fatta in una grande città, pensò. Fantasticò sul passato di quell'idiota: aveva di certo fatto aborti clandestini, perso la licenza, ed era fuggito in quella cittadina in cui nessuno sapeva abbastanza su di lui da mettere in dubbio i suoi diplomi e licenze falsi. Parrish ne era talmente convinto che, quando il dottore entrò, stava esaminando con cura la per-
gamena incisa appesa alla parete. «È vecchia ma autentica, come me», disse il medico. «Diamo un'occhiata alla spalla, signor Kent.» Diamogliela. «Si sta rimarginando bene. Resterà la cicatrice, ma può dirsi fortunato. Non le starò a ripetere che ferite del genere non vanno sottovalutate: gliel'ho già detto anche troppe volte.» Lo aveva fatto. Studiò il dottore e pensò di aggiungerlo alla lista. Il vecchio lo stava osservando in modo risoluto. Parrish distolse lo sguardo e promise: «In futuro non rinvierò le cure». E chi se ne fotte del vecchio bastardo!, pensò guardandolo in modo subdolo. Dio avrebbe chiamato a sé quello stupido medicastro da un giorno all'altro. Era inutile perdere tempo con lui. Per un istante si chiese se qualcuno lo avesse riconosciuto. Erano trascorse solo due settimane, ma per fortuna la notiza era già passata in secondo piano. Naturalmente sarebbe tornato di nuovo in prima pagina. Per il momento non somigliava nemmeno alle fotografie pubblicate, che comunque non erano più in circolazione da oltre una settimana. Si era tinto i capelli di biondo e aveva lenti a contatto colorate; forse persino inutili, in quel luogo remoto. Quella notte, mentre lavorava, pensò a Irene Kelly, causa del suo dolore alla spalla. Detestava le cicatrici, detestava il dolore. A quel pensiero rise fra sé. Il mio, aggiunse in silenzio. Soddisfatto di aver ritrovato il senso dell'umorismo, si rimise all'opera. Il mattino dopo, in macchina, oltrepassò lentamente la clinica e sorrise alla vista di una decina di persone che aspettavano davanti alla porta, con un'espressione che andava dalla rabbia allo sconcerto. Una di loro, con le mani premute contro il vetro, tentava di guardare all'interno. «Qualcuno ha fatto tardi al lavoro!» canticchiò sulle note di una filastrocca da bambini. «I pazienti diventano impazienti!» Quella battuta spontanea lo rincuorò: il suo vero, astuto io stava facendo ritorno. Rise per tutto il tragitto fino all'autostrada ignorando, quando frenava o imboccava una curva, il tonfo causato dallo spostamento di un peso morto nel bagagliaio. 38
LUNEDÌ 11 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas Guardai fuori dalla finestra dello studio al secondo piano di Jo Robinson. Chissà quante altre anime in pena si erano trovate, come me, davanti a quella vista. La pioggia batteva sulle foglie gialle e rosse cadute sull'asfalto nero. Autunno. In qualche modo ero riuscita a reggere fino all'autunno. «E così Ben ha trascorso l'estate con lei e con Frank», mi incoraggiò. Avevo tentato di raccontarle quello che era successo dall'ultima volta che l'avevo vista, fuori dalla stanza di Sheridan. «Sì», risposi senza smettere di osservare la pioggia. Se non fosse piovuto mai più, forse sarei stata bene. Che bugia! «Ben e Bingle si sono trasferiti a casa di David e se la stanno cavando piuttosto bene.» «E lei?» Non risposi. «Perché è venuta?» domandò la dottoressa. «Per conoscere, amare e servire Dio in modo da essere felice in un'altra vita», risposi. Lei attese. Spostai lo sguardo su di lei. «Mi scusi... era la risposta del libro di catechismo a quella domanda. E comunque sa già perché sono venuta.» «Me lo dica lei.» «Sono venuta perché ho rotto una cosa al lavoro.» «Davvero? Allora credo che sarebbe più utile un ferramenta.» «Lei crede?» «Mi racconti che cosa è successo.» Le riferii del giorno in cui, arrivata in redazione, mi era stato detto che Winston Wrigley III mi aspettava «nell'ufficio di Dio», il nome con cui i dipendenti del giornale chiamano il recinto di vetro accanto alla redazione. Wrigley ci va quando vuole vedere i suoi lacché in azione o, più precisamente, quando vuole spiare le giovani impiegate che ha aggiunto alla lista. Ultimamente le leggi contro le molestie sessuali hanno seriamente inibito questa sua pratica, oltre all'assunzione di personale femminile. La redazione era in fermento, e il fuoco dei pettegolezzi era stato alimentato anche dalla presenza di due eleganti coppie che sedevano insieme a Wrigley al tavolo delle riunioni a un'estremità della stanza. Prima che John Walters
mi convocasse, avevo sentito che il giornale sarebbe stato venduto a un grosso editore, che alcuni sarebbero stati messi in cassa integrazione, che John sarebbe stato licenziato per aver permesso che Morry rispondesse per le rime a Wrigley prima di partire per Buffalo. Non ebbi l'occasione di sentire le dicerie che circolarono dopo la mia convocazione, ma Lydia mi riferì che la migliore era quella secondo cui mi avrebbero chiesto di sostituire John per far sì che Morry venisse vendicato. Mentre mi avvicinavo all'ufficio di Dio, ero già stanca e tesa. Mi capitava spesso di dormire male, e le tre notti precedenti non avevo chiuso occhio. Gli ultimi indizi concreti su dove si trovasse Nick Parrish risalivano a giugno e lo volevano in Oregon, dove il ritrovamento di due corpi, uno dei quali senza gambe, di due dipendenti di una clinica lo avevano riportato in prima pagina. Le ricerche si erano intensificate, ma l'estate era passata senza nessuna traccia dell'assassino. Cominciai a sperare che fosse finito sotto una macchina. Tre giorni prima della mia convocazione nel regno di vetro di Wrigley, la polizia aveva avuto una segnalazione. Pareva che Nick Parrish fosse stato visto non lontano da Las Piernas. La maggior parte delle volte gli avvistamenti si rivelavano infondati, ma la polizia controllava tutte le piste. Quell'ultima segnalazione però portò alla scoperta del cadavere di una donna in un cassonetto dei rifiuti. Mi sono chiesta spesso come sarebbero andate le cose se fosse stato Frank a darmi la notizia. Purtroppo il giorno del ritrovamento era in tribunale a testimoniare per un altro caso, perciò fui informata dell'ultima vittima di Parrish al lavoro, in un giorno in cui non avevo modo di contattare mio marito. Quando Mark Baker era arrivato in redazione per consegnare l'articolo, i reporter erano già in fermento. Mi era già giunta voce che Parrish aveva lasciato in giro un altro cadavere, e quella notizia aveva messo a dura prova i miei nervi. Mark andò a parlare con John, il quale mi fece cenno di raggiungerli. «Forse dovresti sapere tutto prima che gli altri comincino a farti domande», aveva detto con aria corrucciata. «A farmi domande?» Mark mi mise al corrente dei dettagli. «Al corpo della vittima mancano le dita delle mani e dei piedi. Era una brunetta con gli occhi azzurri. Non si
conosce ancora il suo nome, ma sul torace è inciso il tuo.» Sentii un crampo allo stomaco. Mi scusai in fretta, corsi in bagno e vomitai. Dopo essermi sciacquata, mi guardai allo specchio con un certo distacco, esaminai il viso magro e tirato e i cerchi neri intorno agli occhi. Il distacco era la mia arma preferita, ma non sempre riuscivo a metterla in atto. La porta si aprì e trasalii. Era Lydia, che mi chiese se mi sentivo bene. «No», risposi. «Forse non si tratta di lui», disse. «Potrebbe essere un imitatore.» «Sarebbe un vero sollievo», replicai, e più tardi mi chiesi quanto altro sarcasmo avrebbe tollerato. «Tutto questo è accaduto tre giorni prima che venisse convocata dal signor Wrigley?» mi chiese la dottoressa Robinson. «Sì.» «Continui.» Mi voltai verso la finestra. Quando entrai nell'ufficio di Dio, Wrigley sorrideva e teneva in mano un sigaro spento (le leggi californiane contro il fumo erano seconde solo alle cause per molestie sessuali nel rendergli la vita infelice). Ero tesa e sospettosa. Mi presentò le due coppie che erano con lui come amici di famiglia in visita nella zona e mi disse che erano passati apposta per conoscermi. «Per conoscermi?» ripetei. «Non capisco.» «Lei è quella che è sfuggita a Nick Parrish, giusto?» mi domandò uno degli uomini. Lanciai un'occhiata a Wrigley. Conoscendomi bene, e da molti anni, a quell'occhiata smise di sorridere. I suoi ospiti non sembrarono notarlo. «Dev'essere stato orribile!» commentò una delle donne, che pronunciò la parola «orribile» come se stesse dicendo «eccitante». «Com'è, dal vivo?» proseguì. «Si dice che abbia ucciso più donne di Ted Bundy e che sia altrettanto bello.» «Non è bello», riuscii a dire. «Scusatemi, devo tornare al lavoro.» «Non sarà particolarmente bello», mi corresse l'altra donna, «ma affascinante sì. Dev'essere così che adesca le donne.» «Non scappi via», intervenne uno degli uomini, vedendo che mi dirigevo verso la porta. «Dopotutto è qui con il capo, giusto Win?»
Win? Non avevo mai sentito nessuno chiamarlo così. «Giusto», replicò Wrigley. «Irene non è stata attratta dal suo fascino. E una professionista da capo a piedi. Lo ha quasi ucciso!» A quelle parole le due donne sospirarono. «Ed è stata l'unica del gruppo che ha avuto il buonsenso di non farsi né ferire né uccidere!» aggiunse infervorandosi. «Ha salvato la vita dell'idiota che si è messo a correre nel campo dopo la sparatoria. Si può essere così stupidi?» «Signor Wrigley...» attaccai arrabbiata, ma lui non mi sentì perché la mia voce era coperta dalle esclamazioni e dalle risate degli ospiti. «Adesso è mutilato, ma è soltanto colpa sua. Irene si è presa cura di lui. Anzi...» «Addio, Win», gridai con tutto il fiato che avevo in gola. «Vaffanculo!» Mentre uscivo li sentii ridere di nuovo, dapprima risatine nervose, poi uno degli uomini fece una battuta che non riuscii a sentire e gli altri risero di gusto. «E poi che è successo?» m'incitò Jo Robinson. Ma io vidi un uomo che attraversava il parcheggio e rimasi impietrita. È lui. Nelle mie vene il panico prese il posto del sangue, si diffuse ovunque dentro di me e irrigidì tutti i muscoli. Ha scoperto che sono qui da sola. Quando me ne andrò, mi... Subito dopo mi accorsi che non era lui. «Irene?» la voce della dottoressa mi scosse. Se n'era accorta? «Mi trovavo vicino alla scrivania di Stuart Angert», ripresi tentando di concentrarmi sugli eventi di quel giorno, «era come se fossi entrata in uno stato... alterato. Ho sentito un boato nelle orecchie, poi più niente, Era quasi come essere sott'acqua: nessun rumore, neppure quello dei miei pensieri. Non vedevo nessuno, non sentivo niente. Però vedevo il monitor del computer di Stuart e ho staccato i cavi. Lydia sostiene che Stuart mi abbia chiesto che cosa intendessi fare, ma io non l'ho sentito, non l'ho visto. Ho sollevato il monitor dalla scrivania con entrambe le mani... è piuttosto grosso, ma non ho neppure avvertito il peso... l'ho scaraventato verso uno dei vetri dell'ufficio di Dio. Ho sentito il fragore dei vetri infranti... il primo rumore che ho avvertito.» «E dopo?» «Hanno smesso di ridere.»
La dottoressa attese e io mi voltai verso la finestra. «Si ricorda che cosa è successo dopo che hanno smesso di ridere?» «Sono stata costretta a mettermi in aspettativa e a chiedere l'aiuto di uno specialista, altrimenti non potrò rientrare in ufficio.» «Intendevo subito dopo che ha rotto il vetro.» M'incupii, ma risposi: «Non ricordo molto, solo delle urla e... m'imbarazza ammetterlo, perché a quel punto avrei dovuto dire qualcosa, che so, fare un'uscita maestosa, e invece sono come svenuta». «Come svenuta?» Andai a sedermi su una delle sedie più vicine a lei con gli occhi fissi sulle mani intrecciate. «Non sono proprio svenuta, ma all'improvviso non riuscivo a stare in piedi. Ricordo solo il viso di Stuart... è tutto confuso, ma avevo tanta gente intorno. Mi proteggeva da Wrigley e dai suoi amici, o almeno così mi è sembrato. Wrigley e una delle donne gridavano e John gridava in risposta, e Lydia, Mark, Stuart... proprio lui, che non grida mai a nessuno... Stuart gridava e la donna diceva 'Licenziala!' come se facesse parte del giornale. È stata quasi una sommossa.» Mi versò un bicchiere d'acqua. «Grazie», dissi prendendolo. «Ancora non riesco a...» «Cosa?» «Ho spesso sete», mormorai, e bevvi, prima che mi chiedesse altro. «Pazzesco, eh?» aggiunsi mentre mi riempiva di nuovo il bicchiere. «Avere sete?» «No, sfasciare le cose al lavoro. Lanciare costose apparecchiature elettroniche contro vetrate di stanze in cui c'è gente seduta.» «Crede di essere pazza?» «No... sì... non saprei.» «A, B, C o tutte e tre?» «Sento di non riuscire a controllarmi, e questo mi spaventa», ammisi con voce malferma. Aspettò un attimo e poi mi domandò: «A parte l'incidente al lavoro, che cosa le fa pensare di non riuscire a controllarsi?» «Non saprei, credo che sia... non riesco a concentrarmi. Forse è per via del fatto che non dormo a sufficienza.» «Aveva questo genere di problemi prima di andare sulle montagne?» «Non direi.» «E la difficoltà ad addormentarsi?» Esitai. «A volte, ma non spesso.»
Aspettò. «Quando sono eccessivamente stressata, mi capita di avere incubi.» Le raccontai per sommi capi della volta in cui ero stata fatta prigioniera e rinchiusa in una stanzetta buia di uno chalet; le parlai della paura che avevo provato, delle ferite, degli incubi che a volte, da allora, mi perseguitavano. Sono in pochi a conoscere i particolari di quella mia esperienza. Di solito non ne parlo liberamente, ma in quel momento pensai di distrarre la dottoressa con eventi passati per evitare che indagasse su quelli più recenti. Lei mi fece qualche domanda sulla mia vita. Lo ritenevo comunque un terreno più sicuro, e quasi mi rilassai, persino mentre le descrivevo situazioni che, quando si erano verificate, avevo considerato traumatiche. «Le sono capitate un bel po' di cose, ultimamente.» Scrollai le spalle. «C'è gente che ha passato di peggio.» «Lei però è sopravvissuta. Dopo tutto questo, ciò che è successo a maggio...» «Non mi va di parlare delle montagne», la interruppi in fretta. «Sono davvero stanca di raccontare quello che è successo lassù.» «D'accordo, per il momento non le chiederò di parlarmene.» Mi sentii sollevata. «Da quando è tornata a Las Piernas ha parlato con qualche altro membro del gruppo, a parte Ben?» «Credevo che non mi avrebbe chiesto...» «Da quando è tornata», ripeté lei piano. «Sono morti», risposi, incapace di controllare la tensione nella voce. «Tutti tranne Ben e Bingle.» «Tutti?» «Sì, a meno che non si riferisca... al gruppo iniziale.» «Proprio così.» «J.C. è venuto a trovare Ben piuttosto spesso, come del resto Andy.» «A trovare Ben», ripeté. «Ha parlato con loro?» Sollevai le spalle. «Erano lì per tirarlo su.» «Quindi?» «Quindi non ho parlato con loro.» Dopo un attimo domandò: «Ce n'erano altri due, non è vero?» «C'era un poliziotto, Houghton. Si può dire che fosse l'assistente di Thompson. Frank mi ha detto che ha dato le dimissioni il 19 maggio.» «Il giorno in cui lei è tornata dalle montagne e tutti hanno saputo che cosa era successo.»
«Sì. Forse si sentiva in colpa per non essere stato lì con noi. Ma non è stata colpa sua.» «Forse. O forse si è sentito fortunato», osservò lei. «A volte in guerra succede che un soldato che vede il suo compagno morire si senta fortunato per non essere stato al suo posto. Pur essendo una reazione naturale, in seguito può sentirsi in colpa per averla provata.» Non replicai. «Vediamo, c'era un'altra persona lassù, vero? L'avvocato.» «Si riferisce a Phil Newly?» «Sì.» «È sparito dalla circolazione.» «Perché crede che sia sparito?» «Ha detto che la sorella si sarebbe presa cura di lui durante la convalescenza. Parrish gli ha rotto un piede.» «Quindi in montagna c'erano altre quattro persone, e da allora lei non ha parlato con nessuna di loro?» «Esatto. Crede che anche loro stiano passando un periodo difficile?» «Lei che ne pensa?» Esitai un istante, ma risposi quasi subito: «Sì». «Come potrebbe scoprirlo?» «Parlando con loro.» «Allora questo sarà il suo primo compito per casa.» «Un compito?» «Credeva che la terapia fosse una cosa semplice?» rise. «No», risposi, ed ero sincera. «Solo quelle quattro persone. Una telefonata, una visita... basta che lei le contatti. Va bene? Adesso passiamo al sonno e all'alimentazione...» 39 LUNEDÌ 11 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas Parrish canticchiava fra sé mentre lavorava. Un garage non era certo come il suo hangar. I vicini non erano abbastanza distanti e bisognava agire con cautela. Ma era davvero bello poter mettere di nuovo le mani su dei veri attrezzi. Avviò la sega circolare e restò ad ascoltare il rumore acuto del motore che andava su di giri. Arrivò all'osso senza difficoltà e sorrise. Si chiese se Ben Sheridan si fosse trovato sotto i ferri di un chirurgo al-
trettanto abile. Ne dubitava. Riprese a canticchiare. La sega diffuse un delicato odore di bruciato che inalò a pieni polmoni prima di cantare la strofa successiva. Quando l'arnese emise il sibilo finale, era arrivato al ritornello della canzone. S'interruppe e sorrise. Proseguì con le sue operazioni metodiche, anche se tendeva a distrarsi. Continuava a pensare a Ben Sheridan. Quell'uomo lo aveva raggirato. No, una cosa del genere non era proprio possibile. Il raggiro implicava l'astuzia, e Sheridan si era comportato in modo sentimentale e ridicolo, quando si era lanciato nel prato. Era scampato alla morte per pura fortuna. Se il proiettile lo avesse colpito un po' più in alto intaccando l'osso sul quale stava lavorando in quel momento... un colpo al femore attraverso l'arteria femorale e... addio... sarebbe morto dissanguato in un batter d'occhio. Anzi, se avesse centrato un'arteria il sangue sarebbe schizzato dovunque. Quell'immagine lo eccitava moltissimo, e rimase così per un po', a gustarsi l'idea, pienamente compiaciuto. Il suo era un processo di evoluzione continua verso la perfezione. Doveva accogliere quei cambiamenti. Dopotutto Sheridan era nei suoi pensieri quasi quanto lo era Irene. Aveva persino pensato di usare il suo coltello su di lui! Il coltello che non aveva mai toccato carne di maschio. Fatta eccezione per uno dei primi omicidi - quel bulletto che Merrick gli aveva fatto tornare in mente -, non gli interessava granché uccidere gli uomini. Per lui rappresentavano soltanto degli ostacoli, testimoni involontari e cose del genere. Per loro preferiva la pistola. Sparava ed era fatta. Forse, però, si stava perdendo qualcosa. Sorrise mentre rifiniva la giuntura del ginocchio e pensava al dolore che Ben Sheridan doveva aver sofferto. Avrà urlato? Avrà pianto? Era stato lui la causa delle lacrime che gli erano scese lungo il viso, fino in bocca. Gli venne quasi voglia di pareggiare l'opera e togliergli anche l'altra gamba. Detestava le asimmetrie: disturbavano il suo senso dell'ordine. «Dopotutto sono un segaossa!» esclamò ad alta voce, e scoppiò a ridere. Doveva preparare un piano. Quell'Irene era piuttosto scaltra. Ormai non lavorava più; forse si era spaventata per quell'incisione che annunciava il suo ritorno? Era stata proprio una trovata geniale! Si era dimessa o era stata licenziata? Quando le aveva telefonato per sapere se avesse ricevuto l'altro messag-
gio la chiamata era stata trasferita alla segreteria. Una registrazione avvertiva che il nastro era pieno e quell'idiota della centralinista sosteneva di non sapere quando la signora Kelly sarebbe rientrata. Pensò di far fuori anche la centralinista, ma non aveva tempo per uccidere tutti gli ignoranti che c'erano sulla faccia della terra. Doveva concentrarsi su questioni più importanti, perciò tornò a fare progetti su Irene Kelly. Mentre escogitare piani gli dava una sensazione molto piacevole, l'immagine di quella donna lo fece entrare in uno stato completamente diverso di eccitazione e desiderio. Pur essendo un uomo paziente, sapeva di non poter resistere a lungo. Terminato il lavoro sull'osso, lo mise delicatamente da parte. Aveva un odore così stimolante! Doveva controllarsi; aveva molte cose da fare. Si chinò a raccogliere l'altra gamba e la appoggiò sul tavolo da lavoro. «Ehi, amico, sei proprio in gamba!» disse con la voce in falsetto che di solito si dà ai pupazzi. La battuta lo divertì molto e non riuscì a trattenersi dal farne un'altra: «Chi non ha testa, abbia gambe!» Ritrovata la calma tornò al lavoro, fissando la gamba fra due morse. Per un po' fu distratto dal pensiero della Falena. Gli nascondeva qualcosa. Credeva forse che lui non se ne fosse accorto? Cominciava a essere stanco di quell'aiutante. Un altro paio di lavoretti e poi basta. Mise in funzione di nuovo la sega. Quel garage non era grande come quello in cui stava per trasferirsi, ma nessuno dei due era spazioso come il suo hangar. Ci sarebbe voluto del tempo prima di poter riprendere a lavorare sugli aeroplani. I sacrifici che era disposto a fare potevano definirsi straordinari. Pensò a tutte le mani indegne che stavano importunando i resti umani che aveva lasciato nel prato e si adirò al pensiero che il prezzo della sua fama fosse la profanazione. L'ira era parente della passione. L'odore di ossa bruciate lo raggiunse. Era quasi arrivato... quasi. Semplicemente imprevedibile. 40 MARTEDÌ 12 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas
Ero davanti alla porta di Phil Newly e stavo seriamente pensando di ignorare il compito per casa assegnatomi da Jo Robinson. Un impulso perverso mi aveva fatto decidere di cominciare con la visita più difficile. Avevo già rivisto Andy e J.C., Newly però l'avevo evitato. Non avevo avuto molti rapporti con Houghton prima che lasciasse il gruppo, e dal momento che non lavorava più in polizia non sarebbe stato facile rintracciarlo. Nei suoi confronti, però, non provavo sentimenti ambivalenti. Quelli per Newly, invece, erano contraddittori. In tutta quella faccenda lui era stato legato a Parrish ed era il suo paladino. D'altra parte Phil aveva detto chiaramente che non apprezzava il suo cliente come persona ed era anche stato aggredito. Benché non ne andassi fiera, più di una volta ero stata sfiorata dal pensiero che Newly fosse stato fortunato a rompersi il piede. Aveva sofferto ma, a differenza di Ben, li possedeva ancora tutti e due. Per via dell'infortunio non era stato costretto a subire tutti quegli orrori ed era andato via prima che accadesse il peggio. Non aveva neppure visto l'albero dei coyote. In seguito aveva evitato con grande abilità gli sforzi dei media per intervistarlo, e quando fu chiaro a tutti che non aveva assistito agli scavi delle due tombe l'interesse per lui era svanito. La polizia non sospettava di lui per le irruzioni a casa di David e all'ufficio di Ben. Il suo alibi era stato verificato: la sorella aveva confermato che quel giorno non si era mosso da San Francisco, anche se una sorella devota sarebbe capace di dire qualunque cosa pur di proteggere un fratello. Tuttavia non riuscivo davvero a pensare cosa potesse volere dalla casa o dall'università, né tantomeno a una ragione per la quale valesse la pena rischiare la sua redditizia carriera legale e diventare scassinatore. Anche se non conoscevo bene Phil, non avevo mai avuto motivo di crederlo disonesto. Gli ero molto grata, perché Frank mi aveva riferito come l'aveva aiutato quando ero in montagna. Secondo lui, senza l'aiuto dell'avvocato ci avrebbe messo molto di più a trovarmi. I miei sentimenti contraddittori restavano tali. Suonai il campanello. Sentii i passi di qualcuno che si avvicinava dall'altra parte della porta, poi silenzio. Lo avevo chiamato al lavoro, ma una registrazione diceva che l'ufficio era chiuso e che non accettava nuovi clienti. Dopo qualche controllo emer-
se che aveva passato tutte le cause ancora in corso ad altri colleghi e che aveva detto loro che si ritirava. Tutti sapevano inoltre che, alla luce dei danni subiti a causa del suo cliente, un giudice aveva sollevato Newly dall'incarico di avvocato di Nick Parrish. Se mai l'avessero ripreso gli sarebbe stato affidato un nuovo difensore. Nessuno però si aspettava che Phil interrompesse in modo così improvviso e definitivo la sua redditizia professione. Non avevo il suo numero di telefono, ma Frank lo aveva accompagnato a casa dall'ospedale. Mi stavo chiedendo se agli occhi di Jo Robinson il mio sforzo valesse lo stesso, anche in caso di un rifiuto da parte di Phil a incontrarmi, ma in quel momento la porta si aprì. «Irene, che piacevole sorpresa!» Il termine «piacevole» era di certo retaggio delle lezioni di etichetta sorbite da bambino. Era evidente che non era affatto felice di vedermi. Dopo aver sbirciato in strada con fare nervoso, mi fece cenno di entrare. Oltrepassai la soglia con una certa riluttanza. Forse notò la mia reticenza, perché si sforzò di sorridere e disse: «Prego, entra. Ti ho pensata spesso. È tuo quel furgone? Ricordo che Frank mi accompagnò a casa con una Volvo, mentre tu guidavi - non dirmelo - sì, ecco! Una Karmann Ghia». «Esatto, ma ormai non c'è più. Il furgone l'ho preso in prestito da mio cugino che è fuori città. Sono alla ricerca di una macchina nuova.» Era una bugia. Avrei dovuto guardarmi intorno per comprarne una, ma anche gli acquisti erano una delle tante cose della mia vita che in quel momento stavo rimandando. La casa di Newly era molto spaziosa. Se ci avessi abitato da sola, come faceva lui, mi sarei sentita sopraffatta da quelle dimensioni. Ebbi l'impressione che le stanze non fossero molto vissute. Sulla moquette accuratamente pulita non sembravano esserci tracce di impronte. Mi condusse in quella che doveva essere la sua stanza preferita, un incrocio tra un rifugio e una biblioteca. Lungo le pareti c'erano degli scaffali, uno stereo e un televisore con il maxischermo. Di fronte alla TV, vicino a un tavolino, erano sistemate due poltrone superimbottite. La maggior parte dei libri erano edizioni economiche, ma c'era anche una sezione dedicata a eleganti bestseller. Era tutta narrativa, e non vidi gli enormi tomi di giurisprudenza che mi aspettavo. «Accomodati», disse indicando una delle poltrone. «Vuoi qualcosa da
bere?» «Un bicchiere d'acqua, grazie.» «Acqua? Niente di più forte?» Erano le due del pomeriggio, ma avrebbe potuto anche essere mezzanotte e avrei risposto la stessa cosa. «L'acqua va benissimo, grazie.» Quando uscì, esaminai gli oggetti sul tavolino: c'era il lettore GPS, una costosa matita automatica, un righello, dei fogli su cui erano scribacchiati dei numeri, una calcolatrice e, sotto numerose pile di libri, una carta topografica. Quando capii che tipo di mappa era, distolsi lo sguardo. Poco dopo mi costrinsi a sollevare una delle pile di libri e a guardare la legenda. Sierra meridionale. La zona in cui avevamo cercato la tomba di Julia Sayre. Sentii Phil tornare e riappoggiai i libri. Fu allora che notai il titolo dell'ultimo della pila: Mindhunter, di John Douglas, un saggio sulla storia vera del primo cacciatore di serial killer scritto da un esperto in criminologia dell'FBI. C'erano altri libri dello stesso autore e di Robert Ressler, un altro pioniere della disciplina e, se ricordo bene, ideatore dell'espressione «serial killer». Diedi una rapida occhiata ai titoli degli altri libri sul tavolino e notai che avevano due cose in comune: erano tutte storie vere di crimini e parlavano di serial killer. «Negli ultimi tempi sono stato quasi totalmente assorbito da questo interesse», disse Phil mentre mi porgeva un bicchierone d'acqua ghiacciata e apriva una bottiglia di birra per sé. Si sedette sull'altra poltrona. «Come?» «Sei una giornalista», mi rimbrottò. «Se non avessi dato uno sguardo a tutto quello che c'è sul tavolino, ne rimarrei deluso.» «Non un vero e proprio sguardo», replicai, «e, tecnicamente parlando, al momento non sono certa di essere una giornalista.» «Che vuoi dire? Non sei qui per intervistarmi sul mio cliente più infido?» Gli risposi di no e gli raccontai quello che era successo al lavoro. Con mia grande sorpresa scoppiò a ridere e disse: «Se solo avessi mirato meglio al tuo capo! E comunque... sei stata grande!» «Non direi proprio.» Gli riferii che le conseguenze erano state un'aspettativa coatta con l'ordine di farmi aiutare. «So che a volte il diritto del lavoro e il diritto penale possono sembrare l'uno la naturale estensione dell'altro, ma non posso aiutarti...»
«Non sono venuta per una consulenza legale, Phil, e fra l'altro mi è sembrato di capire che non eserciti più.» «E vero», confermò, e bevve un lungo sorso. «Non sei un po' troppo giovane per la pensione?» «Ho guadagnato abbastanza. Credo che venderò la casa e andrò a vivere a nord, più vicino a mia sorella. Dopo l'incidente al piede mi ha invitato da lei e, mentre ero lì, ho avuto un po' di tempo per riflettere. Pur amando il diritto, sono convinto di essere finito, ora che il mio nome è legato a quello di Nicky Parrish.» «Nicky?» Sorrise. «Il diminutivo mi aiuta a considerarlo da un altro punto di vista, più ridimensionato.» «Anch'io di recente ho avuto qualche problema a convincermi che non si tratta di un essere invincibile.» Da lì cominciammo gradualmente a scambiarci il resoconto delle nostre vite dopo l'esperienza in montagna. Fui sorpresa di sapere che anche Phil provava la sensazione di aver perso il controllo della propria vita. «È il senso di colpa», spiegò. «Mi sta divorando.» «Senso di colpa? Di che cosa dovresti sentirti colpevole?» «Di essermi lasciato convincere a stipulare l'accordo con il procuratore. Se avessi gestito il caso come avrei dovuto fare, come avrei fatto con chiunque altro...» «Ti avrebbe licenziato.» «È quello che mi ripeto, ma invece guarda che cosa è successo! Se penso a quegli uomini... se penso alle loro famiglie, a te, a Ben Sheridan! Mio Dio, Ben!» «Ben sta molto meglio», lo rassicurai. «Ho sentito dire che sta da voi.» «C'è stato, ma ora è tornato a casa sua e ha ripreso a lavorare.» «Però! Deve aver fatto progressi notevoli.» Gli raccontai la versione allegra della convalescenza di Ben. Per tacito accordo, era quella che Ben, Frank, Jack e io fornivamo alla gente; ciò che Ben faceva credere agli altri. Non potevo biasimarlo: detestava considerarsi una vittima. Una volta mi aveva detto: «Ti prego, rispedisci pure al mittente tutti i messaggi di compassione e cordoglio». «Quindi è già in piedi e cammina?» «Dal giorno dopo l'intervento, lo hanno subito fatto alzare. Non appena
si è ripreso, ha cominciato la riabilitazione. Non è stato facile, e ogni tanto ha avuto dei problemi, ma ora tutto procede per il meglio... è molto fiero di sé e del suo piede nuovo, un Flex-Foot Re-Flex VSP.» «Un che?» «È il nome della protesi, disegnata da una persona che ha subito un'amputazione. Ben l'adora. Riesce a spostarsi molto meglio, da quando ce l'ha. È un piede ad alta tecnologia fatto di un composto di fibre al carbonio, lo stesso materiale usato per i jet: leggero ma al tempo stesso resistente.» Presi la matita automatica e ne feci uno schizzo. «Assomiglia un po' a... un pezzetto di sci color carbone», spiegai. «È piatto e stretto come uno sci, ma molto più corto, della lunghezza di un piede, più una parte di stinco, curvato a L...» Sollevai gli occhi dal foglio e mi accorsi che stavo perdendo la sua attenzione. «Scusa, Phil. Ultimamente mi sono interessata parecchio a queste cose.» «Ti capisco. Quindi adesso Ben vive da solo?» «Sì. David gli ha lasciato la sua casa. Però sono un po' preoccupata per lui... non per via della menomazione - Ben è pronto a giurare che sta molto meglio adesso di quanto non stesse prima dell'amputazione -, ma perché qualche mese fa qualcuno ha fatto irruzione in casa sua.» Vidi Phil Newly impallidire vistosamente. 41 MARTEDÌ 12 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas «Tutto bene?» domandai. «Scusa», rispose lui con un sussulto. «In questi giorni non faccio che pensare al peggio. Probabilmente qualcuno ha letto sul giornale della morte di David e ha deciso di approfittarne. È molto triste che di questi tempi succedano cose del genere, ma purtroppo accade.» «Phil, non attaccare con la storia della 'vita di questi tempi'. Da uno come te non l'accetto.» Sorrise e replicò: «Mi sembra di capire che nella tua vita ti sia servita di un difensore o due». Risi a mia volta. «Allora è vero quello che dicono... Smetti di fare battute da avvocato solo quando ti arrestano.» «Hanno rubato qualcosa, a casa di David?» «No. Adesso che mi ci fai pensare, le irruzioni si sono verificate poco
dopo la comparsa del suo nome nei primi articoli su... sulla fuga di Parrish.» «Irruzioni? Più di una?» «Hanno fatto visita anche all'ufficio di Ben.» «E che mi dici delle altre case? Qualcun altro ha avuto lo stesso problema?» «Non che io sappia; ma non ho contattato le famiglie, perciò non lo so.» «Le famiglie!» esclamò. «Mi odieranno.» «Spero che il loro odio sia tutto concentrato su Parrish.» Phil cadde in un silenzio opprimente. Dopo un po' riprese a parlare: «È la mia ossessione». «Parrish?» «Sì. Ecco perché ho tutti questi libri. Non è sano, lo so, ma sto cercando di capire se c'è qualcosa che avrei dovuto intuire prima, un indizio che le cose sarebbero andate a finire così. Un segno che non sono riuscito a riconoscere.» Tentai di dirgli che era inutile prendersela con se stessi, ma mi resi conto che ogni sforzo per convincerlo a cambiare idea sarebbe stato vano. «Guarda», mi fece notare a un certo punto. Tirò fuori la carta topografica rovesciando incurante le pile di libri. «Guarda, non riesco neanche a ritrovare il punto in cui... è successo.» Mi costrinsi nuovamente a guardare la mappa. Non avevo esaminato neppure quella che mi ero portata in montagna. Questa comprendeva un'area molto più estesa della mia, ed era in scala ridotta. Forniva quindi una panoramica più ampia, ma meno dettagliata. Newly aveva segnato la radura in cui si era rotto il piede. «Questo è l'ultimo posto che ho registrato nell'unità GPS», disse indicandolo. Poi spostò di poco il dito su un altro segno. «Questa è la pista d'atterraggio.» Lo spostò un'altra volta su un simbolo a una certa distanza dai precedenti. «E qui si trova la stazione del Corpo Forestale di J.C.» Guardare la carta mi fece una strana impressione. Nonostante le mie riserve iniziali, si trattava soltanto dell'impronta digitale della terra, di volute, curve di livello e colori, forme che, una volta afferrata la chiave di lettura della carta, si trasformavano in un paesaggio di crinali e vallate, dirupi e pendii, laghi e fiumi. La visione di quel luogo di morte dall'alto non poteva né farmi male né turbarmi molto. Non avevo mai considerato la zona da quella prospettiva. «È successo in questa porzione... qui», dissi usando la matita per indicare
il crinale fra i due prati. «L'albero dei coyote è su questo crinale.» Spostai la matita di qualche centimetro. «Julia Sayre è stata sepolta in un prato su questo versante, che qui non si riesce a vedere bene. La trappola l'aveva piazzata nell'altro.» Luoghi, mi imposi. Semplici luoghi. Phil Newly fissava la carta in silenzio. «Quanti altri corpi hanno trovato?» «Vuoi dire...» «Non dei membri del nostro gruppo. Parlo delle tombe, delle donne sepolte da Parrish.» «In un prato, compresa la tomba che aveva minato, dieci. Le altre erano sempre in quel prato, ma più lontane dal crinale. Julia Sayre era l'unica seppellita nell'altro campo.» «L'unica?» si stupì. «Sì. In qualche modo per lui aveva un significato speciale. Ho sentito che... che le cose che le ha fatto erano più...» Mentre cercavo le parole adatte, Phil mormorò: «Credo di sapere che cosa vuoi dire». «Sì, per quanto anche sulle vittime dell'altro prato si possano rilevare i segni di una tendenza - per così dire - a un atteggiamento sempre più sadico.» «Nessuna delle altre tombe nascondeva l'esplosivo?» Quando veniva tirato in ballo il termine «esplosivo» mi riusciva più difficile riferire i fatti, ma mi sforzai. «No. Le nuove squadre di ricerca hanno agito comunque con estrema cautela. Un gruppo di artificieri ha controllato ogni sito potenziale. C'è voluto molto più tempo, ma non hanno rinvenuto tracce di esplosivo.» «I corpi sono stati trovati grazie ai cani da ricerca?» «Alcuni. Hanno impiegato diversi metodi: fotografie aeree e sonde radar nel terreno. Bingle aveva mostrato un evidente interesse per quel prato, ma la tomba con l'esplosivo è stata la prima in cui si è imbattuto.» «Perché?» «Credo che Ben abbia trovato la risposta. La cosa ha incuriosito anche lui, perciò ha esaminato la plastica che avvolgeva il corpo di Julia Sayre e qualche frammento della plastica del secondo corpo...» «Nina Poolman?» «Sì, entrambe le identificazioni sono state confermate.» «Che cosa ha scoperto Sheridan?» «Che nella plastica c'erano buchi di varie dimensioni. Alcuni erano stati
causati dalle sonde usate dagli antropologi, mentre gli altri da un oggetto diverso. I diametri e le altre caratteristiche dei buchi non corrispondevano.» «Non capisco.» «Siamo convinti che abbia pianificato la propria cattura.» «Immagino che prima o poi...» «No, intendo proprio pianificato. Si è fatto arrestare perché il mondo sapesse che è un genio. Prima di uccidere Kara Lane dev'essere tornato in montagna e deve aver bucato i sacchi di plastica in modo che la decomposizione dei corpi fosse più rapida. Fino ad allora erano rimasti protetti.» «Perciò l'odore di decomposizione è fuoriuscito dai buchi.» «Esatto. Per Bingle, quelle sono state le tombe più facili da individuare.» «Mio Dio. E le altre donne... la polizia sa chi sono?» «Quasi tutte sono state seppellite con qualche segno di identificazione, di solito la patente, ma ci vorrà un po' per verificare che si tratti realmente di quelle persone. Hanno ordinato perizie dentali e così via.» «Non possono dire...» «No», lo interruppi cercando di scacciare dalla mente l'immagine del corpo di Julia Sayre. «Mi dispiace», si scusò l'avvocato. «Non volevo turbarti.» «Sto bene», lo tranquillizzai, e aggiunsi: «Ben mi ha detto che le patenti sono considerate inattendibili per l'identificazione: gli uomini tendono ad aumentarsi l'altezza, mentre le donne a ridurre il peso. A volte, poi, il colore dei capelli o il peso possono variare». «Ma l'identificazione corrisponde?» «Non ho notizie su tutte le vittime. Dell'indagine si occupano altre strutture giudiziarie, perciò per il giornale non è più sufficiente rivolgersi alle classiche fonti di informazione. Un collega ha saputo che nove delle dieci donne ritrovate avevano precedenti per prostituzione.» «Le prostitute sono sempre le prede più facili per uomini come Parrish», commentò cupo Phil. «Erano tutte di Las Piernas?» «La maggior parte, ma non tutte. Provenivano da città della California del sud che avevano una cosa in comune.» «Un aeroporto?» Annuii. «Sembra che Parrish abbia usato quel prato per anni. A tutte le altre domande si potrà rispondere soltanto dopo che gli esperti legali avranno concluso il loro lavoro.» «Undici. Undici donne!»
«Secondo la polizia, dovrebbe essercene una dodicesima, nei paraggi, perché sull'albero ci sono dodici coyote. Secondo me, l'ultimo era per Kara Lane.» «La donna il cui omicidio ha portato alla cattura? Quella ritrovata nell'aeroporto? Sì, potrebbe essere così.» «È solo una teoria.» «E ora ha ucciso una donna qui e due nell'Oregon!» «Sì, l'infermiera e la centralinista.» «Hanno poi trovato...» «Le gambe della centralinista? No.» Dopo un lungo silenzio, domandò: «Credi che stia ricominciando?» «Forse.» Aveva l'aria più abbattuta di quando ero arrivata, e non me la sentii di lasciarlo in quello stato. «Frank mi ha detto di ringraziarti per averlo aiutato a trovarmi, e ti ringrazio anch'io. Hai corso un grosso rischio, e soltanto per gentilezza.» Mi guardò con aria sconvolta. Gli appoggiai una mano sulla spalla. «Pensi davvero questo di me? Credi che ti abbia aiutata?» «Sì; ti sono molto grata, e non solo perché mi hai aiutata a venir via da lassù, ma anche perché hai salvato la vita a Ben: se fosse rimasto qualche altra ora fra quelle montagne senza aiuto medico, forse l'infezione lo avrebbe ucciso. Inoltre, l'arrivo dell'elicottero deve aver messo in fuga Parrish prima che avesse il tempo di darmi la caccia nella foresta. Se tu non l'avessi aiutato, Frank non ci avrebbe trovati così in fretta.» Abbassò gli occhi sulla carta. «Grazie. Non so se ho fatto tutto questo. Frank e i suoi amici sono stati decisivi. Quel giorno era così preoccupato per te, così deciso a trovarti che ha rischiato di mettersi nei guai con il dipartimento venendo da me. Sarebbe stato disumano non dargli una mano.» Parlammo ancora un po', e quando arrivò il momento di salutarci gli chiesi il numero di telefono. Era ancora molto abbattuto. «Mi piacerebbe che restassimo in contatto, se ti va», dissi. «Anche Frank vorrebbe vederti.» «Vorrei vederlo anch'io; soprattutto adesso che non saremo più avversari in tribunale.» Scrisse il numero e me lo porse. «Ti ringrazio per essere passata.» «Avrei dovuto farlo mesi fa», replicai. «Mi ha fatto bene vederti.» «Anche a me. Vieni quando vuoi.» Sorrise, e aggiunse: «Non è più così costoso parlare con me. Ho smesso con le ore a pagamento».
Uscii, e, mentre salivo sul furgone, vidi una Honda Accord verde che si allontanava. Avrei giurato che al volante ci fosse Nick Parrish. Feci un respiro profondo, misi in moto e mi allontanai dal marciapiede. Arrivata a casa, per la prima volta da quando ero tornata dalle montagne tirai fuori la mia carta topografica. Anche se le caratteristiche del terreno erano molto più dettagliate rispetto alla mappa di Newly, la vista della zona non mi turbò come pensavo. Vedere i segni della grotta, dell'albero dei coyote e delle tombe mi rese nervosa, ma ormai ero lontana. Non riuscivo però a individuare la stazione del Corpo Forestale. Presi in considerazione le distanze. Come aveva potuto Parrish fare tutta quella strada? Era una domanda che, in condizioni normali, mi sarei posta molto tempo prima. Negli ultimi mesi, però, avevo fatto enormi sforzi per evitare qualunque pensiero, qualunque riferimento a ciò che era successo durante la settimana del 14 maggio. Mi ero occupata di Ben, avevo lavorato moltissimo e avevo tenuto in allenamento i tre cani. Facevo del mio meglio per arrivare a fine giornata troppo esausta per aver paura o sognare. Volevo dimenticare il momento in cui ero salita su quell'aereo. Aveva funzionato a meraviglia! Ovunque andassi vedevo Parrish sbucare da qualche parte. Ero perseguitata da incubi terribili sempre su quel prato e lanciavo computer contro vetrate. E non mi facevo le domande che avrei dovuto pormi. Chiamai Ben e gli chiesi il numero di telefono di J.C. «Te lo darei, ma si dà il caso che sia qui.» «Me lo passi?» «Certo.» Dopo i saluti gli chiesi: «Quanto hai impiegato a raggiungere il prato dalla stazione forestale?» «In macchina?» «Puoi fare tutto il percorso in macchina?» «No. Per un pezzo ho preso una strada sterrata ricoperta di fango e per il restante ho camminato. Dunque... sono partito un'ora dopo l'alba e sono arrivato al prato nel primo pomeriggio. Quando sono partito c'era la nebbia, perciò in quelle condizioni non potevo andare veloce.» Fece una pausa e poi aggiunse: «Quel giorno non ero molto lucido, perciò mi è difficile calcolare il tempo. Una volta lasciata la strada devo aver camminato per quattro ore, ma non ne sono sicuro. Perché me lo chiedi?»
«Perché ho cominciato a riflettere su alcune cose. Tu e Ben avete programmi per cena?» «Non ancora.» «Se a Ben va di sopportare ancora la nostra compagnia, perché non venite qui? Ho una teoria della quale vorrei parlare con voi. Di' a Ben di portare anche Bingle.» Ci mettemmo d'accordo che sarebbero venuti alle sette e chiamai Frank. «Ciao», mi salutò. «Dev'essere telepatia. Ho appena parlato con una tua amica. Ha chiamato Gillian Sayre.» Fui assalita dal senso di colpa. Non l'avevo più contattata dal giorno in cui era venuta all'Express a chiedere dei resti della madre. «Gillian? Come mai?» «Ti ha cercata al giornale, ma credo che il nastro sia pieno e che i colleghi non parlino con nessuno della tua aspettativa. Ti ha anche aspettata fuori, ma visto che le sue attese erano vane ha deciso di telefonare a me.» «Oh!» «Le ho detto che ti stai godendo una meritata vacanza.» «Grazie, tesoro. So che avrei dovuto chiamarla, ma...» «Non voleva lamentarsi. Ha letto gli articoli sul cadavere non identificato nel cassonetto ed era preoccupata per te; ha anche detto di non aver avuto l'occasione di ringraziarti per averla voluta incontrare il giorno dopo il tuo ritorno.» «La chiamerò», ripetei. «Da allora non ho neppure provato a mettermi in contatto con lei né con Giles.» Sicuramente mio marito notò la mia riluttanza. «Cerca di essere più indulgente con te stessa», disse. «Non credo sia il momento migliore per parlare con i Sayre.» «Forse hai ragione. Non lo so. Non voglio darmi per vinta.» Rise. «Come hai fatto con Wrigley?» «Guarda le conseguenze.» «Sì, diciamo che ora hai un po' di tempo per te stessa e non solo per il giornale. Di recente hai fatto il lavoro di tre dipendenti, e Wrigley lo sa. Com'è andata con Newly?» «Bene», risposi, «il che mi fa venire in mente il motivo per cui ti ho chiamato.» Lo avvisai che avevo mandato all'aria i suoi progetti per una tranquilla serata in intimità. «Ho la sensazione che si tratti di una riunione, più che di una cena. Che cosa abbiamo all'ordine del giorno?»
«Qualcuno ha aiutato Parrish. Ne sono quasi certa.» «Anche noi. Non ce l'avrebbe fatta a venir via da quella zona senza un passaggio. Un gesto stupido da parte del suo benefattore, ma è sicuramente successo prima che il nome e la descrizione di Parrish apparissero sui giornali.» «No, non intendevo un estraneo. Perché mai avrebbe pianificato tutto e lasciato al caso un particolare simile?» Seguì qualche attimo di silenzio e poi Frank disse: «Sono certo che ci hanno già pensato». «Lo so che non ti è consentito lavorare sui casi che possano avere un collegamento con me...» «E tra questi ci sono anche i casi dei due prati.» «Ma puoi parlare con i colleghi che se ne occupano, vero?» «Per la verità i nostri sono sotto pressione. I casi di Bob Thompson sono passati ad altri, e, visto che io non potevo lavorare su quelli delle montagne che hanno un legame con Las Piernas, e sono parecchi, indovina chi si è sobbarcato la maggior parte degli altri casi di Thompson?» «Tu.» «Siamo tutti con la merda fino al collo, come direbbe Tom Cassidy, e non riesco a raccogliere notizie sui casi legati a Parrish come vorrei. Stasera parleremo della tua teoria. Se non ce la faccio a convincere nessuno, forse Ben ci riuscirà... sta dando una mano nelle indagini.» Quella sera parlai con Frank, Ben e J.C., e mi trovavo in loro compagnia quando ricevetti il regalo del mio ammiratore non troppo segreto. 42 MARTEDÌ 12 SETTEMBRE, SERA Las Piernas Per prepararmi meglio all'incontro di quella sera avevo deciso di passare dal negozio di carte topografiche. Acquistai varie mappe della zona che Parrish aveva usato come cimitero, e mentre uscivo dal negozio vidi di nuovo la Honda sfrecciare a tutta velocità. Non so perché, ma ero certa che si trattasse della stessa che avevo notato fuori dalla casa di Phil Newly. Non ero riuscita a vedere la targa né il guidatore, ma quando l'auto svoltò in Elm Street, una via a senso unico piuttosto trafficata, decisi di risolvere la questione e di seguirla. Probabilmente l'avevo già persa: poteva essersi infilata in una laterale o
essere tornata indietro; magari aveva raggiunto l'incrocio successivo e aveva svoltato, oppure era entrata in un garage per parcheggiare. Dovevo indagare, almeno per trovare quell'auto. Mentre guidavo mi sembrò di sentire un odore di ossa, di sentirlo nel furgone; ero certa che se avessi guardato nello specchietto retrovisore avrei visto una catasta di scheletri alle mie spalle, come legna da ardere. Le esalazioni di midollo, il loro ultimo profumo. Mi concentrai sulla strada, ma cominciai a sudare freddo. Trova la Honda. Non pensare a... ma sentivo ancora le ossa. Fermati. Chiama Jo Robinson. Dille di prenotarti una stanza con le pareti imbottite. Come potevano esserci ossa nel furgone, mi chiesi aggrappata al volante. Non era possibile, vero? Era possibile, ribatté una vocina interna. Magari non l'avevo chiuso a chiave. Più ci pensavo, più mi convincevo di non averlo fatto, quando ero andata a comprare le carte, e che Parrish fosse entrato e ci avesse nascosto le ossa delle sue vittime. Vidi un lampo verde scuro più avanti e accelerai. Ossa. Mi sentivo male. Abbassai i finestrini. Non c'era aria a sufficienza. Mi costrinsi a guardare nello specchietto retrovisore. Vidi l'arredo del camper: gli armadietti, il minilavandino, la cucina, il frigo, un tavolo pieghevole e i sedili che si potevano trasformare in letti. Scrutai a lungo: niente ossa. Da una parte fu un enorme sollievo, dall'altra non lo fu affatto. Guardai nuovamente la strada proprio mentre un anziano con il cappello, alla guida di una Dodge Dart, si spostava nella mia corsia senza guardare, e mi costrinse a sterzare bruscamente. Ebbe anche il coraggio di strombazzare. Che diavolo stavo facendo? Anche se nella Honda c'era Parrish, che cosa avrei potuto fare, visto che non ero armata? Prima vediamo se è lui. Se è così, prenderò il numero di targa. Bene. Eccola! Ferma al semaforo nell'ultima corsia, a due macchine dall'incrocio, c'era una Honda Accord verde. L'autista non si vedeva. Scattò il verde, ma fui bloccata da un'auto che voleva svoltare a sinistra. La Honda si stava allontanando! Finalmente la macchina girò e mi diressi a tutta velocità verso l'incrocio successivo. Fermai il furgone, aprii la portiera e scesi per in-
travedere il guidatore della Honda verde. Un uomo. Poteva essere Parrish. Non riuscii a leggere la targa. Il guidatore dell'auto dietro di me suonò il clacson e mi mostrò il medio. Era scattato il verde e al suo si unirono altri clacson. Mi sedetti al volante, ripartii, misi la freccia a sinistra sperando di riuscire a cambiare corsia e di non perdere la Honda. Il guidatore che avevo di fianco era quello che mi aveva fatto il gestaccio. Ce l'aveva con me e si rifiutò di farmi passare. Rosso in faccia, agitò il pugno e tamponò l'auto che aveva davanti, che invase la mia corsia. Frenai bruscamente. Ero bloccata. Attraverso i finestrini aperti sentii il tipo dalla faccia rossa gridare che era colpa mia. Quando cercai la Honda, era sparita. Ignorai Faccia Rossa e chiesi a quello che era stato tamponato se stesse bene. Era illeso. Si rivolse a Faccia Rossa, gli disse di tacere e, con mia grande sorpresa, quello gli obbedì. Il racconto divertì molto gli ospiti, ma riferii solo la parte che non aveva niente a che fare con la Honda e le ossa. L'odore penetrante di ossa mi aveva perseguitata anche dopo il ritorno a casa. Sotto la doccia bollente avevo ripensato a quel pomeriggio. Potevano essere nascoste in uno degli armadietti del furgone: c'erano tantissimi posti e nascondigli. E se dopo un'accurata ricerca non avessi trovato niente? Se hai paura e non c'è niente da temere e dimostri a te stessa che non c'è niente da temere non puoi continuare ad avere paura... Se poi sommavo tutto a Honda evanescenti e a Parrish fasulli, l'odore di fantasma era davvero troppo. Se non ce n'erano, allora ero pazza sul serio. Via via che l'acqua calda mi scorreva addosso mi resi conto che mettermi a cercare delle ossa sarebbe stato di per sé un gesto insano. Mi ripromisi solennemente di ignorare la cosa. Riuscii così a imbastire un divertente racconto sull'acquisto delle carte topografiche, l'uomo dalla faccia rossa e il tamponamento, e l'unico ad accorgersi che le mie risate erano un po' troppo stridule fu Frank. Quando vidi che aveva anche notato il tremito delle mani mentre aprivo le carte, sperai che l'imputasse alla zona in esame, e non a quello che era successo quando le avevo comprate. Mi concentrai sulle mappe e liberai la mente dal resto.
Cominciammo a studiare quella con la scala più grande e cercammo di individuare i percorsi più diretti e più facili che collegavano la grotta - nella quale erano state trovate le prove del passaggio di Parrish - e la stazione forestale dove si trovavano gli elicotteri. Per raggiungere la stazione c'erano altre vie, oltre alla strada sterrata, ma J.C. aveva scelto senza dubbio quella più rapida. «La strada che hai preso sembra più vicina al prato che alla pista d'atterraggio», osservai. «Lo è, ma è un percorso disagevole e impervio.» Ce lo mostrò. «Sarebbe stato molto difficile trasportare un corpo, e non credo che ce l'avrebbero fatta tutti i membri del gruppo.» «I livelli di esperienza dei componenti del gruppo erano diversi», convenni. «Se Parrish non avesse architettato quella trappola, la tua idea di mandare l'elicottero fino al prato sarebbe stata la migliore.» Emise un suono aspro e basso, come se l'avessi ferito. «Che c'è che non va?» «Invece», disse con amarezza, «la mia brillante idea ha fatto sì che David, Flash e gli altri fossero uccisi.» «Che cosa?» esclamammo Ben e io in coro. Ci raccontò la sua versione di come erano state prese le decisioni sul crinale vicino all'albero dei coyote. Era convinto che saremmo arrivati tutti sani e salvi all'aereo, se lui non avesse suggerito di usare l'elicottero. Ben e io ribattemmo che erano stati altri i fattori che avevano portato alla decisione di cercare la seconda tomba, non la sua offerta. Non si convinse finché Frank non intervenne: «Quando siete arrivati su quel crinale, credo che Parrish conoscesse già molto bene Thompson, se non addirittura tutti voi». Visto che aveva catturato la nostra attenzione, proseguì: «Ho la netta sensazione che abbia pianificato tutto in modo ancora più accurato di quanto pensiamo, che abbia previsto le reazioni degli elementi chiave del gruppo di fronte allo scenario che aveva ideato. Sapeva che, prima o poi, avrebbe trovato qualcuno disposto a portarlo lassù». «Stai dicendo che si è fatto arrestare intenzionalmente?» chiesi. «In effetti, credo che chiunque concordi sul fatto che avesse lasciato il cadavere di Kara Lane in un posto facile da individuare.» «Esatto. La trappola era stata tesa prima ancora che venisse arrestato. È vero che non sapeva con esattezza chi lo avrebbe accompagnato lassù, ma nel periodo passato con voi vi ha studiati, ha cercato di capire come provocarvi. Non dovrei parlar male di Bob, ma non è mai stato molto difficile
immaginare il suo modo di ragionare.» «Era ambizioso», intervenne Ben. «Giusto.» «J.C.», dissi, «ti sei mai reso conto di aver salvato la vita di Andy?» «Che ho salvato la vita di Andy?» ripeté con aria assente. «Sì. Senza dubbio Parrish voleva che vicino alla tomba ci fossimo tutti. Penso che avesse pianificato di farmi sopravvivere... perché fossi testimone della sua grandezza.» Per un istante, non riuscii ad aggiungere altro, schiacciata da un peso invisibile ed enorme al tempo stesso. Frank allungò la mano e afferrò la mia. Gliela strinsi forte. «Quando hai deciso che voi due vi sareste separati da noi», continuai, «hai salvato due vite: la tua e quella di Andy. Il fatto che gli abbiate guastato il suo piano perfetto avrà sicuramente irritato Parrish.» J.C. rimase in silenzio a fissare le carte. Dopo un po', mormorò: «Non avevo mai pensato in questi termini». «Forse era preoccupato che l'elicottero lo riaccompagnasse in prigione prima che il vecchio Ben con i suoi scavi meticolosi portasse alla luce il corpo. Gli hai quasi mandato all'aria l'intero disegno. Solo la pioggia gli ha consentito di farla franca, altrimenti l'elicottero sarebbe venuto a prenderci.» «Forse», disse piano J.C. «Diamo un'occhiata alle carte e cerchiamo di capire se Parrish ha avuto il tempo di manomettere gli elicotteri», ci esortò Ben. A qualche chilometro dall'estremità più distante del prato terminava un'altra strada sterrata, che però arrivava nella foresta da una direzione diversa. Dalla stazione forestale J.C. avrebbe dovuto fare un bel pezzo col furgone per raggiungerla; da lì, poi, avrebbe dovuto girare più o meno nella stessa direzione da cui era venuto, e, una volta parcheggiato il furgone, la camminata fino al prato sarebbe stata peggiore di quella lungo l'altra strada: quasi del tutto in salita e su un terreno accidentato. «Tu guidavi il furgone del Corpo Forestale», osservò Frank, «mentre Parrish era a piedi. È assurdo pensare che abbia fatto avanti e indietro fino alla stazione seguendo quel percorso lungo e scosceso.» J.C. conosceva la zona molto meglio di noi, e ribatté: «Sono d'accordo, e credo che Irene abbia ragione sul fatto che ha un complice. Non è del tutto impossibile che sia riuscito a sabotare gli elicotteri da solo; ma pensiamoci bene... si trattava di camminare al buio sotto un acquazzone. Avrebbe seriamente rischiato di cadere».
«Parrish è un camminatore provetto», intervenne Ben, «ma non è in forma come te, J.C. Tu sei in grado di percorrere un tratto più velocemente di tutti noi, Andy compreso. Parrish avrebbe dovuto proseguire un bel po' di notte sotto la pioggia, manomettere l'elicottero, tornare indietro e avere l'energia di tagliare un albero il giorno dopo.» «Mi hai ricordato una cosa», li interruppi. «Per caso qualcuno del gruppo aveva un'ascia?» «Sì», rispose Ben. «Ce n'era una fra le attrezzature della polizia.» «Oh!» «Sembri delusa», commentò Frank. «Non avevo visto nessuno adoperarla», osservai. «Se non avesse fatto parte della nostra attrezzatura, avrebbe avallato la teoria del complice, di qualcuno che gliel'avesse portata.» «Chi potrebbe avere interesse ad aiutare un uomo come lui?» chiese J.C. «Il suo avvocato», rispose Ben. «Il suo avvocato era ferito», replicò Frank. «Era in grado di guidare!» ribatté Ben. Frank annuì. «Era anche in grado di camminare; ma Phil non aveva niente da guadagnare e tutto da perdere, se il suo cliente fosse fuggito.» «Per caso Parrish ha chiamato qualcuno mentre era agli arresti?» chiesi. «No», rispose mio marito. «Se abbiamo ragione non ne aveva bisogno. Al suo complice - o ai compiici - aveva già indicato la destinazione. La data di partenza è stata resa pubblica.» «Ma i serial killer non lavorano da soli, in genere?» domandò J.C. «In genere, ma non sempre», replicò Frank. «Lo strangolatore di Hillside - Kenneth Bianchi - e suo cugino, Angelo Buono, torturavano e uccidevano insieme. A Houston, Dean Allen Coryll ha fatto fuori almeno ventisette ragazzi con l'aiuto di due amici che gli portavano le vittime.» «I killer non sono per forza dei lupi solitari», concordò Ben. «Pare che alcune donne si eccitino all'idea di stare con uno di loro. Esiste persino un sito Web per cuori solitari dove le donne possono 'incontrare' i detenuti dei loro sogni.» «Quella è una cosa diversa, non credete?» dissi io. «Una donna che sposa il suo compagno in prigione dopo l'arresto non fa parte della stessa categoria di chi lo aiuta a torturare e uccidere le sue vittime.» «No», osservò Frank, «però abbiamo molti esempi di coppie che hanno lavorato insieme prima dell'arresto. Paul Bernardo e Karla Homolka hanno torturato, stuprato e ucciso le loro vittime insieme: la prima volta, lei lo ha
aiutato a violentare e uccidere la sua stessa sorella. Nel Nebraska, Caril Fugate si è unita al fidanzato in una mattanza, durata un mese, che si è aperta con l'omicidio dei genitori e della sorellina di due anni.» «Charles Starkweather, esatto?» chiese Ben. «Hanno anche fatto un film.» «Sì, ma ce ne sono molti altri. Coleman e West, i Gallego, i Neelley...» «Perché lo fanno?» domandai. «Questa è l'eterna domanda... turbe sessuali, avidità, desiderio di potere e chissà cos'altro. A volte queste donne sono soggiogate da partner violenti, altre partecipano spontaneamente. Non capita solo alle donne: oltre alle squadre formate da marito e moglie, ci sono anche coppie di soli uomini, gruppi e famiglie di serial killer.» Rimanemmo tutti in silenzio. Dopo un po', Ben disse: «E così siamo tornati alla domanda di J.C.: chi potrebbe aver interesse ad aiutare un uomo come Nick Parrish?» Vagliarono una serie di ipotesi: considerarono di nuovo la possibilità che Phil Newly fosse implicato; si chiesero se Parrish conoscesse qualcuno che possedesse un aereo o un elicottero; discussero se fosse più probabile che si trattasse di un uomo o di una donna; arrivarono a supporre l'esistenza di un parente che fosse il suo Angelo Buono. Durante la conversazione, io esaminavo la cartina a scala ridotta. «Non abbiamo informazioni sufficienti per risalire al suo complice», osservai, attirando lo sguardo stizzito di tutti gli altri. «Forse i criminologi dell'FBI possono aiutarci: credo di sapere dove Nick Parrish l'ha incontrato quel giorno... sull'altra strada.» Si concentrarono sulla carta. «Sì», convenne Frank. «Non è la strada migliore, per raggiungere la stazione dei forestali, ma lui non aveva motivo di avvicinarsi, una volta che il complice aveva manomesso gli elicotteri.» «E dal prato è una camminata in discesa», aggiunse J.C. «La pista d'atterraggio sarebbe stata il posto più comodo, ma forse temeva che l'avrebbero usata le forze dell'ordine.» «Giusto», convenne Ben con un sospiro. «Vorrei che l'avessimo capito prima. Avremmo potuto individuare le orme nel fango o i segni delle ruote sulla strada e vicino agli elicotteri.» J.C. scosse la testa. «Se non le hanno rinvenute allora, adesso è probabile che non ci siano più. Nei mesi estivi gli elicotteri vengono usati parecchio, soprattutto in caso di incendi. Quella zona sarà stata calpestata da
moltissime persone.» Decisero di chiamare l'investigatore capo della squadra che coordinava i casi delle montagne. Io uscii per andare a prendere una boccata d'aria in giardino, dove Bingle stava giocando con Deke e Dunk. Dopo poco Ben si unì a me. Bingle lo salutò e poi tornò dagli altri cani. «Penso che Deke e Dunk gli manchino», disse. «Ti va se gli facciamo fare una corsa sulla spiaggia?» Esitai. Sapevo che se la cavava in parecchie situazioni, ma non riusciva ancora a controllare i movimenti su terreni cedevoli, come la sabbia. Il protesista gli aveva detto che era una situazione che metteva in difficoltà molti soggetti amputati. Ben ci stava ancora lavorando. «Sì, mi mancano le passeggiate sulla spiaggia», proseguì, leggendomi nel pensiero. «Mi mancano molte cose, ma la lista si sta accorciando, e, quanto a quelle che non potrò più fare, sto imparando a farne a meno. Ma non c'è nessuna ragione per cui Bingle debba rinunciare ai suoi piaceri per causa mia.» In quel momento Frank uscì e sentì quelle parole. «Sai che ti dico? Se non hai niente in contrario ti porteremo noi fino alla passerella. Non è lontana dalla scalinata al termine della strada e corre parallela all'acqua fino al molo. Tu e Irene potete passeggiare lì, mentre J.C. e io badiamo a questi hooligans a quattro zampe.» Ci pensò un attimo; alla fine il desiderio di avvicinarsi all'acqua vinse il suo imbarazzo, e accettò. Scese da solo la lunga scalinata che portava dalla scogliera alla spiaggia. Quindi ci mettemmo tutti e quattro in fila, uno accanto all'altro, e appoggiammo ognuno il braccio sulla spalla del vicino. J.C. cominciò a cantare una di quelle stupide canzoncine da campeggio che ci fece ridere. Potevamo tranquillamente essere scambiati per un gruppetto che faceva festa. Sorretto da Frank e J.C, Ben riuscì a raggiungere la passerella senza problemi. Bingle correva avanti e indietro fra noi e i cani, ma se Deke e Dunk lo seguivano a tutta velocità incontro a Ben, li dirottava altrove. «Impedisce agli altri cani di venirmi addosso», spiegò. «Un servizio che spesso mi manca quando non è con me. Però in questi giorni sto migliorando le tecniche di equilibrio.» «Come va con lo spagnolo?» «Sto imparando i comandi principali. Per il resto, ho bisogno di lavorare
un bel po'.» «Perché David ha scelto lo spagnolo per addestrare Bingle?» «Per due ragioni. Innanzitutto, perché il cane apparteneva a un anziano signore che parlava soltanto spagnolo. David aveva deciso di studiare lo spagnolo dopo una missione in Sudamerica: eravamo intervenuti per un terremoto, ma la lingua aveva rappresentato un ostacolo. Ritenne utile imparare lo spagnolo nell'eventualità di dover intervenire anche nella California del sud. L'ex padrone amava molto Bingle, ma non riusciva a stargli dietro. Disse a David che 'Bocazo' - l'aveva chiamato così - meritava un partner più energico.» «Bocazo?» risi. «In spagnolo significa 'bocca grande'.» Ben sorrise. «Si è fatto conoscere subito.» «E la seconda ragione?» «Perché non era una cosa che la gente si aspettava. Voglio dire... che un docente universitario americano parlasse lo spagnolo. Nelle operazioni di salvataggio o di ricerca dei cadaveri dava fiducia. Immaginate lo stato in cui si trovano le persone che attendono che un edificio crollato venga perlustrato. In Sudamerica, per esempio, per quanto lo spagnolo abbia molti dialetti, loro capivano ciò che ordinava al cane e riuscivano in parte a dimenticare la loro ansia. Bingle e David erano i nostri ambasciatori.» «È stata una fortuna che Parrish non sapesse lo spagnolo.» «Perché?» Mi resi conto di non avergli mai raccontato quello che era successo dopo che l'avevo lasciato per attraversare il torrente. Dopo il mio ritorno dalle montagne avevo riferito a mio marito tutto ciò che era accaduto lassù, ma non ne avevo fatto parola con nessun altro; anzi, da allora avevo volutamente evitato l'argomento. Mi chiesi se Frank, che mi aveva spesso invitata a parlarne con Ben, non si fosse allontanato con i cani e J.C. sperando che fosse arrivato il momento buono. Avanti, sforzati, mi dissi. È la situazione ideale. «Parrish non capiva lo spagnolo; perciò, quando ho detto a Bingle di raggiungerti e di proteggerti, ha pensato che gli stessi semplicemente ordinando di allontanarsi.» Un'unica frase e già mi mancava il fiato. «Non capisco.» Si fermò e mi guardò negli occhi. «Il tuo articolo sul giornale... non hai mai accennato al fatto di esserti trovata di nuovo così vicino a lui. Raccontavi che è caduto nella trappola che gli avevi teso, che è fuggito via ferito e che tu sei rimasta nascosta fino all'arrivo dei soccor-
si.» Fui presa dal panico. Rividi Parrish che mi teneva la testa, nel fango, e per qualche secondo fu come se tutto stesse accadendo in quell'istante. «Irene!» mi scosse Ben. «Che c'è?» «Un'altra volta, d'accordo?» Le lacrime avevano cominciato a scendermi lungo il viso, senza che me ne accorgessi. Fra noi c'era ormai una certa confidenza. Ben mi aveva già vista in lacrime, e a Frank, Jack e me era capitato di veder piangere lui. Non credo che accadesse con molte altre persone. Quando era stato da noi, molti avevano notato «quanto Ben fosse coraggioso», nonostante lui disprezzasse apertamente quel genere di commenti. Al mondo mostrava un volto risoluto; non era finzione, ma nemmeno tutta la verità. All'inizio c'era stato un flusso quasi continuo di visitatori, amici dell'università, colleghi dell'unità DMORT e altra gente. Lui doveva rispettare una tabella di marcia piuttosto impegnativa, fatta di appuntamenti per il recupero e la riabilitazione, a casa e in altre sedi, con medici, infermiere, fisioterapista, protesista, Jo Robinson. Aveva parecchio lavoro da fare per imparare a tenersi in equilibrio e a camminare, per desensibilizzare l'arto residuo e per irrobustire il busto. E tante altre cose. Ellen Raice era venuta spesso con progetti e domande; a volte aveva portato con sé delle ossa che erano arrivate in laboratorio per l'identificazione o per altre valutazioni. Ben sembrava contento di avere del lavoro e delle distrazioni. Talvolta era stato brusco con lei o con altri visitatori. Quando se ne andavano mi sorridevano di proposito e commentavano: «Deve essere stata una brutta giornata». Ma loro non potevano capire cosa significasse una brutta giornata per Ben. All'inizio, quasi ogni giorno era una brutta giornata. Neppure Ellen era in grado di vedere quel lato di Sheridan: era stanco degli appuntamenti e degli esercizi che sembravano fatti apposta per torturarlo, sofferente per i dolori atroci e contuso per le cadute. Era irascibile e impaziente, scoraggiato e afflitto. Si chiedeva se avrebbe fatto senso alle donne; temeva che la sua vita sessuale fosse giunta al termine a soli trentadue anni, e si considerava condannato alla solitudine. Tentava di abituarsi alla sua immagine riflessa in uno specchio. Durante l'estate, tutti i momenti che riuscivo a sottrarre al lavoro li trascorrevo con lui. Frank e Jack si davano il cambio quando ero impegnata. Eravamo sempre presenti nei momenti di maggiore vulnerabilità, ma
fummo anche i primi testimoni delle sue vittorie. Era una delle persone più ostinate che avessi mai conosciuto; nessun ostacolo era in grado di fermarlo. In quel momento, mentre tentavo di riacquistare la padronanza di me stessa, sul suo viso vidi la stessa ostinata determinazione. «Morirò sereno solo se riuscirò a uccidere con le mie mani Nick Parrish.» «Non ne vale la pena», ribattei. «E poi se te ne vai, con...» «Con chi parlerai di lui?» concluse per me. Annuii. «Ne ho parlato con Frank. Gli ho raccontato tutto, ma tu... eri là.» «Eppure, non mi hai mai detto tutto, giusto? Stai per caso proteggendo il povero storpio?» «Va' a farti fottere, Ben», replicai con aria stanca. «Sai bene che è una sciocchezzai» «Scusa. Proprio quello che ti serve, no? Maltrattamenti extra. Hai ragione. È una sciocchezzai Dio, non c'è da meravigliarsi se non parli più con me... Dovrei aprire una compagnia: la Fottuti-Bastardi S.p.A.» «Visto che la carica di direttore generale è già occupata, potrei avere almeno la vicepresidenza? Sono molto brava nel lancio degli oggetti. Ci saranno uffici con vetrate?» «Di cosa stai parlando?» «Credo proprio di non averti messo al corrente delle ultime novità.» «Mi sembra che ci siano un bel po' di cose, di cui non mi hai messo al corrente. Che succede, Irene? Pensi che da quando mi sono trasferito abbia smesso di interessarmi a te, Frank e Jack?» «Volevi startene per i fatti tuoi. Perché dovrei opprimerti...» «Opprimermi? Tu opprimere me? Questa sì che è buona.» Non replicai. «Dimmi che cos'è successo al lavoro.» Gli raccontai del lancio del monitor nell'ufficio di Wrigley. Ero preoccupata. Pensavo che si sarebbe spaventato all'idea di essere da solo in spiaggia con una pazza isterica ma mi sbagliavo. «Mio Dio», esclamò guardandomi preoccupato. Rischiai di mettermi a piangere di nuovo. «Devi essertela vista brutta, ultimamente.» «Un po'.» Rise. «Sì, proprio brutta», ammisi.
«Mi sento un tale egoista!» «Non ce n'è bisogno», dissi con forza. Non rispose, ma notai che era arrabbiato. Con se stesso, con me... e non sapevo con chi altro della lista. Frank e J.C. ci raggiunsero. Mio marito mi lanciò un'occhiata e mi cinse le spalle con il braccio, gesto che ricambiai. Ben distolse lo sguardo. Avvertendo la tensione Frank lo lasciò andare avanti con J.C. e i cani. «Tutto bene?» mi chiese poi. Annuii. «E stata una giornata lunga.» Sospirò. Non credeva a quella risposta, ma non mi spinse ad aprirmi, e gliene fui grata. Al termine della passerella, aiutammo nuovamente Ben ad attraversare la sabbia fino alla scalinata, ma questa volta sembrava imbarazzato. Facemmo andare per primi i cani, poi J.C. e Ben. Quando arrivammo in cima ci accorgemmo che Bingle aveva sollevato la testa ed emetteva degli sbuffi. Gli altri cani tentarono di seguirlo. Si voltò a guardare Ben con le orecchie puntate in avanti e abbaiò. «Cristo, è il segnale di allarme!» «Parlagli», suggerii stringendo Frank. Rimasi molto sorpresa nel sentire Ben che, in uno spagnolo impeccabile, incoraggiava il cane. Con un gesto della mano disse: «¡Búscalo!» Bingle si concentrò su di lui proprio come faceva con David, poi corse a testa alta lungo la strada seguendo una linea retta. Nei paraggi di casa nostra, riprese ad abbaiare. Aspettò che Ben lo raggiungesse e poi, con una nota acuta, virò in direzione del furgone, lo oltrepassò e si diresse verso la veranda. «Oh, no», mormorai. «Ti prego, no.» «Sembra che qualcuno ti abbia mandato delle rose», borbottò J.C. «È un po' tardi per le consegne», commentò Frank. In effetti, sui gradini c'era una lunga scatola dorata con un fiocco rosso. «State tutti indietro», ci ammonì Frank. «Ben, chiama il cane!» Ma Bingle aveva già dato una spinta alla scatola, che era rotolata giù per le scale e si era aperta: conteneva dieci rose a stelo lungo e due lunghe ossa scure. Rimanemmo tutti impietriti finché Frank non urlò ai cani che si stavano avvicinando a Bingle per condividere quella scoperta. La voce di Frank, inaspettatamente brusca, li fece fermare all'istante al suo fianco.
Ben chiamò Bingle e si ricordò di lodarlo in spagnolo. Poi, senza neppure avvicinarsi alle ossa, disse: «Femori». «Ossa di gambe?» chiesi debolmente, ma conoscevo già la risposta. All'improvviso mi sentii mancare. 45 MERCOLEDÌ 13 SETTEMBRE, MATTINA Las Piernas «Erano le ossa della centralinista?» domandò Jo Robinson durante la seduta del mattino dopo. «È probabile, ma sono state... alterate. Mancano ancora parti delle gambe, e comunque neppure i femori sono interi. Qualcuno li ha tagliati. Un esperto in grado di identificare i segni provocati sulle ossa da strumenti le esaminerà; per il momento Ben ritiene che sia stata usata una sega elettrica. Verranno anche sottoposte al test del DNA per confermare che siano della centralinista. Ci vorrà un po' di tempo.» «Mi sembra piuttosto tranquilla.» «Sto recitando una parte.» Sorrise. «Immagino che lo sappia.» Sempre sorridendo disse: «Dato che non sono in grado di leggere nel pensiero, le chiederei di parlarmi della sua vera reazione». «All'inizio ho avuto paura; ora sono solo arrabbiata. No, non è vero: sono arrabbiata e spaventata.» «Che cosa crede che volesse farle quell'uomo?» «Terrorizzarmi. Farmi sapere che sa dove abito, dirmi che è in circolazione. Temo che ci sia riuscito. Ho paura.» Pensai per un attimo di ammettere dell'altro, ma volevo tornare a lavorare, ed ero certa che non mi avrebbe mai firmato l'autorizzazione se le avessi detto tutto. Tornare in redazione e tenermi occupata mi avrebbe impedito di avere troppo tempo per pensare a persone fatte a pezzi in un prato o a foto nascoste nelle tombe. «Credo che la maggior parte della gente si spaventerebbe se trovasse ossa umane in una scatola sui gradini della propria veranda», stava dicendo la dottoressa. «Che cosa ha intenzione di fare?» «Di fare?» «Per la sua sicurezza personale.»
«Oh! Quello è l'altro problema: Frank ha organizzato tutto in modo che io non sia mai sola. Se non può stare lui con me, ci sarà qualcun altro. In sala d'attesa mi aspetta il nostro amico Jack.» «Le sembra un comportamento eccessivo, date le circostanze?» «No, ma ho visto Parrish far fuori sette uomini in tre minuti, quindi non sono poi così sollevata.» «È questo ciò che la disturba di più?» Non dovetti riflettere troppo su quella domanda. «No. Mi disturba il fatto di essere limitata.» La dottoressa era decisamente furba, e riuscì a farmi parlare della mia paura degli spazi chiusi, e, non so come, quell'argomento condusse al fatto che ero stata in una tenda, cosa che a sua volta mi fece parlare della spedizione e di ciò che era accaduto sulle montagne. Jack dovette aspettare un bel po'. «Già prima di partire per quel viaggio lei non si trovava a suo agio in montagna. Lottava contro la claustrofobia, eppure ha accettato di dormire in tenda per vari giorni. Il detective... Thompson, si chiamava così?» «Sì.» «Nonostante il detective Thompson fosse stato scortese con lei in altre occasioni, ha deciso di far parte della spedizione diretta da lui.» «Sì.» «Perché?» «Non avevo voce in capitolo su chi l'avrebbe guidata.» «Perché ha accettato di fare quel viaggio sulle montagne?» Scrollai le spalle. «Cosa devo dire? Sono una masochista.» Aspettò. «Ci sono andata per lavoro», spiegai in maniera precipitosa. «Per il giornale era un'ottima opportunità.» Continuò ad attendere. «La mia ora è terminata parecchio tempo fa», dissi prendendo la borsa. «Perché ci è andata?» insistette. «Per Julia Sayre», sbottai. Non reagì. Misi giù la borsa. «No, non per lei, ma per la figlia, il marito e il figlio. Per anni si sono chiesti che cosa le fosse accaduto. Ho tentato di aiutarli a rispondere alle domande sulla sua scomparsa.» «Un buon motivo.» «A un prezzo esorbitante.»
«Sì, ma non è stata lei a deciderlo, giusto?» «No.» «Anzi, le è costato molto di più di quanto avesse preventivato.» Scossi la testa. «Altri hanno pagato un prezzo molto più alto.» «Cosa può farci?» «Niente.» «Ha parlato con le famiglie degli uomini che erano lassù con lei?» «Dio, no.» Mi sentii avvampare. «No, mi sento molto in colpa, per questo, ma quando penso ad affrontare quella gente...» «Che cosa succederà?» «Non lo so. Potrebbero chiedermi... proprio dopo il mio ritorno Gillian mi ha chiesto della madre. Ma non potevo dirglielo. Non posso... non posso raccontare alle famiglie ciò che ho visto. Non ancora.» Riempì un bicchiere d'acqua e me lo offrì, in attesa che mi calmassi un po'. «Ha parlato con Gillian prima che il corpo della madre venisse consegnato alla famiglia?» «Sì.» «Ormai ci saranno stati i funerali di tutti, giusto?» Annuii. «Dubito che le farebbero simili domande; ma, se così fosse, perché non si limita a rispondere che preferisce non parlarne?» «Ce l'avrebbero con me anche se non venisse fuori l'argomento. Sicuramente mi odiano.» «Perché è sopravvissuta?» «Sì, e perché l'attenzione dei media è stata forse una delle ragioni per cui Parrish ha ucciso tutti quegli uomini. Lei è di fronte all'unica giornalista che è stata lassù.» «Ci è andata per rendere omaggio a Parrish?» «No. Ma temo che qualsiasi forma di attenzione dei media potrebbe essere interpretata come una celebrazione della sua persona, anche se i miei piani certo non erano quelli.» «Quindi crede che le famiglie siano arrabbiate con lei perché Parrish ha tentato di usarla per scopi diversi da quelli che lei si era prefissa?» «Sì.» «Dice sul serio?» «Non sempre la gente è ragionevole. Mi vedranno soltanto come una giornalista. Ci sono giorni in cui penso che sarebbe molto più facile dire in
giro che sono un'esattrice delle imposte.» «Ha qualche prova concreta che quelle persone - le famiglie delle vittime - saranno ingiuste con lei?» «No», ammisi. «Forse dovrebbe scoprire come si sentono. Vada a trovarne un paio. Non aveva un oggetto di legno da dare al nipotino di Duke?» «Sì», risposi, sopraffatta dalla vergogna per non averlo ancora portato alla vedova. Mentre lasciavo lo studio della dottoressa Robinson, dissi: «Vorrei tornare al lavoro». «Credo che sarà in grado di farlo piuttosto presto.» «Intendevo questa settimana.» «Presto», ripeté. «Faccia qualcosa di nuovo, e sia paziente con se stessa.» Aveva il potere di tenermi lontana dal mio lavoro all'Express a suo piacimento, cosa che mi mandava letteralmente in bestia. Me lo lesse in faccia, eppure continuò a guardarmi con calma. Mi chiesi se una giornalista che ha lanciato un grosso oggetto contro il vetro dell'ufficio del suo capo potesse trovare un posto in un altro giornale. Mi chiesi anche se dovessi rivolgermi al mio amico ed ex capo dell'agenzia di pubbliche relazioni che avevo lasciato qualche anno prima per chiedergli se l'impiego era sempre disponibile. Sapevo che mi avrebbe assunta, ma l'idea di scrivere testi positivi, divertenti e ottimisti per il resto della vita mi deprimeva. Decisi di svolgere il compito che mi era stato assegnato. Due giorni dopo ultimai il mio giro di visite alle vedove e alle famiglie degli agenti morti sulle montagne. Ero esausta. Nessuno mi aveva fatto domande sui resti. Tutti mi avevano dato il benvenuto e ringraziata per essermi presa il disturbo di passare. Durante il giro, a ogni sosta erano state versate molte lacrime. La vedova di Duke non smetteva più di ringraziarmi per il cavallino di legno e non volle sentire scuse per il ritardo. Accadde lo stesso con gli altri: molti ricordi, qualche rimpianto, nessuna recriminazione. La rabbia e il biasimo erano tutti concentrati su Nicholas Parrish. L'ultima visita era stata quella ai genitori di Flash Burden, la vittima più giovane della spedizione. Avevano preso i suoi effetti personali dall'appartamento in cui viveva e quel giorno, scatolone dopo scatolone, mi mostra-
rono tutti i suoi trofei, perlopiù guadagnati con le fotografie, ma anche con la squadra di hockey. Mi condussero fieri in una stanza che avevano trasformato in galleria: c'erano scatti davvero sorprendenti di città e paesaggi naturali. Era un acuto osservatore, con un grande senso dell'umorismo. A Frank era stato molto simpatico e gli piaceva lavorare con lui, ma pensava che in polizia stesse sprecando il suo talento. In effetti vedendo le foto fui d'accordo con lui, e più che mai desiderai che Flash non avesse partecipato a quella spedizione in montagna. Mentre riflettevo su quelle cose, la madre disse: «Naturalmente non erano queste le sue preferite. Era contento solo quando una delle sue foto aiutava a smascherare un crimine e portava all'arresto del responsabile». Non mi pentii di nessuna visita ma, dal punto di vista emotivo, si trattò di una corsa lungo un sentiero fiancheggiato da dolore e rimorso, ricordi orribili e occasioni perdute. Ciascuna rinnovò la mia rabbia nei confronti di Parrish, ma mi rese anche cosciente di quanto lo temessi. Dopo aver salutato i Burden, tornai verso il furgone con passo incerto e sperai che Jack non lo notasse. Lo trovai che svuotava e puliva il frigorifero. «La vita segreta dei miliardari», lo presi in giro. Mi lanciò un'occhiata e mi abbracciò. «Scusami se ti ho fatto aspettare così tanto», mormorai, quando fui di nuovo in grado di parlare. «Immagino ti sia pentito di aver accettato questo incarico.» «Un compito duro, eh?» Non ero pronta per parlarne, perciò cambiai argomento. «Come mai ti sei messo a pulire il frigo?» Arricciò il naso. «C'è uno strano odore, nel furgone.» Sgranai gli occhi. «Lo senti anche tu?» «Sì. Non è molto forte e neppure costante, ma sento qualcosa di strano. Non che mi disturbi, però... ehi, perché piangi?» Gli raccontai che dopo aver acquistato le carte topografiche avevo sentito un odore di ossa e che immaginavo di vedere Parrish di continuo. «Cristo, mi sono addirittura inventata la macchina su cui andrebbe in giro per la città!» Mi offrì un pacchetto di fazzolettini e li usai tutti. Quando mi fui calmata un po', chiese: «L'hai detto a Frank?» Scossi la testa. «È già abbastanza preoccupato. Non è il caso che se ne
vada in giro chiedendosi se al manicomio accettano la VISA.» «A me non sembri affatto pazza.» Non replicai. «Che odore hanno le ossa?» mi domandò. «Un odore tenue, secco e dolciastro. Lo sento solo quando si tratta di ossa 'oleose', come le definisce Ben.» «Lo riconosci per via delle sepolture che hai visto lassù in montagna?» «No: lì non c'erano solo scheletri, ma anche adipocera e altri tessuti, il tutto coperto da un potente tanfo di decomposizione. Sono andata a trovare Ben nel laboratorio dell'università un giorno in cui stava lavorando sulle ossa.» «In effetti ho sentito un odore dolciastro simile alla cera. Credi che le ossa odorino così?» «Immagino di sì.» «Allora ispezioniamo il furgone.» Esitai, e mi voltai verso la casa dei Burden. «Che ne dici di allontanarci da qui? Non vorrei turbarli nel caso in cui trovassimo qualcosa.» Saltò al posto di guida con il sorriso sulle labbra. Quando mi fui seduta anch'io, gli domandai: «Che cosa c'è di tanto divertente?» «Non direi divertente... È solo che mi fa piacere averti convinta che non è necessariamente il frutto della tua fantasia, altrimenti non mi avresti chiesto di allontanarci da qui.» «Non esserne sicuro», lo ammonii. Mi guardai nello specchietto dell'aletta parasole: la cosa più orribile del furgone doveva essere il mio viso, con gli occhi gonfi e il naso come quello di un pagliaccio. Con lo sguardo fisso nello specchio, aprii il vano portaoggetti per prendere gli occhiali da sole. Prima che l'odore mi investisse, la mano si appoggiò sopra un mucchietto di piccoli oggetti. Urlai. Jack inchiodò. Dal vano portaoggetti, una cascata di ossicini mi si riversò sulla gonna, sui piedi, dappertutto. 44 MERCOLEDÌ 13 SETTEMBRE, SERA Las Piernas
«Il vano portaoggetti», mormorai. «Avrei dovuto immaginarlo.» Ero a casa, seduta sul divano, fra le braccia di mio marito, che mi accarezzava i capelli. Forse non sarei tornata al lavoro. Forse sarei rimasta a casa a dormire in attesa che Frank tornasse e mi accarezzasse i capelli. Sospirai. Non era possibile. Avevo aperto lo sportello del furgone ed ero scesa, e una pioggia di ossicini dritti mi aveva investita. Dopo aver calmato la mia reazione isterica, Jack chiamò Frank con il cellulare. Il furgone fu confiscato per prelevare le impronte digitali che Parrish aveva disseminato dovunque e per raccogliere gli ossicini delle dita di mani e piedi della povera vittima. Ben si presentò al dipartimento di polizia con Jo Robinson al seguito. Non so chi l'avesse chiamato, lui comunque aveva avvertito Jo. Il mio risentimento non durò a lungo. Finii con il raccontarle dei Parrish che apparivano e sparivano e appresi che chi ha subito un'aggressione ha spesso la sensazione di «vedere» l'aggressore, soprattutto in periodi di stress o in luoghi pubblici. Quando smisi di tremare, mi fissò un appuntamento per il giorno successivo. Per la prima volta attesi l'incontro con ansia. La polizia controllò i documenti relativi alle Honda Accord verde scuro rubate nella speranza di scoprire anche l'identità dell'ultima vittima. Frank non poté allontanarsi subito, perciò Ben si offrì di accompagnare Jack e me a casa. Mi domandavo come avrei fatto a riferire la notizia del furgone a Travis e chiesi a Ben perché ci voleva così tanto per recuperare dieci dita delle mani e dieci dei piedi. «Dieci? Le dita di ogni piede sono formate da quattordici falangi, e parlo solo delle dita, non dell'intero piede. Per le dita delle mani ce ne sono altrettante. In totale fa cinquantasei ossa, sempre che siano ancora intere.» Nel tentativo di alleviare la tensione mi fece notare che lui riusciva a cavarsela egregiamente con quarantadue. Quella battuta mi portò invece a pensare alle dita della povera vittima: chissà che cosa avevano fatto, se avevano mai accarezzato un gatto, toccato un amante o stretto qualcosa, fragili com'erano. Pensavo a lei e a Ben, e la mia paura nei confronti di Nick Parrish si trasformò in rabbia. Col trascorrere della serata anche la rabbia cedette il posto alla stanchezza. Quando Frank tornò a casa dormivo, ma mi alzai per parlare con lui
mentre si preparava da mangiare. Poi restammo abbracciati sul divano. «Sai che puoi dirmi tutto», sussurrò. «Sì.» «Scusa, non era un rimprovero.» «Credo di meritarlo.» «No», replicò stringendomi a sé. «No.» Rispetto a un'altra questione, invece, la risposta fu sì. Quella notte ci sorprese un sonno pesante, profondo e rigenerante, senza interruzioni. «Ha un bell'aspetto, oggi», osservò Jo Robinson. «Ho dormito meglio», replicai, notando il suo sorriso d'intesa. Al termine della seduta la dottoressa disse: «Sembra che le sue visite alle famiglie degli uomini morti in montagna siano andate bene. Meglio di quanto si aspettasse?» «Molto meglio.» «Ha provato a chiamare Houghton?» «Jim Houghton è l'unico superstite che non riesco a rintracciare: ha lasciato la polizia e lo stato. Una nostra amica, un'investigatrice, lo sta cercando.» «Ha fatto molti sforzi, e spero che le giovino. Nel frattempo, forse vale la pena di parlare di nuovo con i Sayre.» Ebbi l'impulso di opporrai, ma lo repressi. «Se lo faccio, mi permetterà di tornare al lavoro?» «Mi sta chiedendo di stringere un accordo?» «Sì.» «Temo che non funzioni così.» Mi studiai le mani. «Tuttavia», proseguì, «accordi a parte, le avrei comunque suggerito un graduale ritorno in ufficio.» «Che intende per graduale?» «Part-time.» «Non credo che l'Express sarà d'accordo.» «A quello penserò io. Fino alla prossima seduta, vorrei che si concentrasse su Parsifal.» «Su Parsifal?» «Sì. Perché ha scelto di raccontare proprio quella storia?» «Perché me l'ha chiesto Ben. Gliel'ho raccontata a puntate.»
«No, parlavo della prima volta.» «Sulle montagne?» «Sì.» «Non lo so. Forse perché l'avevo letta da poco.» Attese, ma stavolta invano. «Ci rifletta un po' su», mi spronò. «D'accordo», replicai alzandomi. «Non abbia fretta: parlo dei Sayre...» Per prima cosa cercai di mettermi in contatto con Gillian per ricambiare la telefonata, ma non aveva lasciato nessun numero a Frank, e quello che avevo non risultava attivo. Non ebbi fortuna neppure con la boutique in cui aveva lavorato. «I media, cara», disse il proprietario. «I media?» «Sì, non è tornata al lavoro dopo che quei tizi sono stati fatti a pezzi sulle montagne. Ha presente, quelli che erano andati a cercare la sua vecchia? Insomma, un giorno mi chiama e dice che non torna e che cambia casa perché i giornalisti la stanno facendo impazzire. Hanno provato a intervistarla un mucchio di volte e roba simile, ha presente?» Sì, avevo presente. Chiamai Mark Baker all'Express e gli chiesi se si fosse tenuto in contatto con la famiglia Sayre dal momento del ritrovamento del corpo di Julia. «Ho visto Gillian una volta, un paio di settimane dopo», rispose Mark. «Avevo chiesto al proprietario del negozio in cui lavorava di avvisarmi nel caso in cui la ragazza avesse chiamato per andare a riscuotere lo stipendio. Non ero l'unico che l'aspettava... credo che il tipo abbia chiamato la metà dei giornalisti della zona, giusto per farsi un po' di pubblicità gratuita. Lei ha affrontato i reporter fuori dal negozio e ha dichiarato di desiderare che Nick Parrish fosse pedinato con lo stesso impegno con cui veniva pedinata lei. Questo è quanto.» Nonostante gli avessi fatto presente il mio pessimo curriculum come autista, Ben si offrì di prestarmi la sua Jeep Cherokee. Nel frattempo avrebbe usato il pick-up di David. Jack era l'autista. Per poco non passavamo oltre la villa dei Sayre: me la ricordavo bianca e grigia, ma era stata ridipinta in color pesca. L'ultima volta che l'avevo vista era stato quando Gillian aveva rivelato
che Nick Parrish viveva in quella strada. Avevo passato un'inutile giornata a intervistare il vicinato: alcuni dicevano che si trattava di una persona gentile ma riservata, altri che lo avevano sempre considerato un tipo strano, senza riuscire a spiegarsene il motivo, il che mi indusse a pensare che fossero influenzati dalle ultime notizie. Nessuno aveva un'opinione precisa su Parrish, né sapeva dove fosse andato ad abitare in seguito o che cosa ne era stato della sorella. Durante il primo anno dopo la scomparsa di Julia, avevo visto i Sayre piuttosto spesso. Avevo conosciuto Jason e la madre di Giles, una donna che non era affatto pronta a occuparsi di un'adolescente ribelle come Gillian. Mi colpì moltissimo rendermi conto che, per quanto da allora avessi parlato numerose volte con lei e con il padre, non ero mai più riuscita a incontrare il fratello e la nonna. Mesi prima, quando Parrish aveva proposto di accompagnare la polizia alla tomba di Julia, ero andata a trovare Giles nella ditta di cui era proprietario. Non appena arrivai, disse: «Vi ha detto dove si trova Julia, vero?» Nella privacy del suo ufficio gli raccontai quello che sapevo. Accolse le notizie con serenità, domandandomi: «C'è qualche probabilità che menta, che non sia lei?» Sì, certo che c'era, risposi. Avevo già assistito a casi di ritrattazione. Mi chiese di tenerlo informato. «L'ha detto a Gillian?» domandò. «No, credevo fosse compito del padre», replicai sconcertata. Si agitò. «Mi ha detto che Parrish viveva nella vostra via», dissi. «Davvero?» commentò lui con aria assente. «Non lo sapevo. Non mi sono mai interessato ai vicini di casa. La polizia mi ha fatto qualche domanda. Immagino che sia per questo che sono stati in grado di fargli pressione.» «Parrish conosceva Julia?» «Non credo», rispose cupo. «Non si è mai lamentata di qualcuno che la fissava?» «Forse sì», rispose vago. «Mi ascolti: in questo periodo non siamo in buoni rapporti, io e Gillian. Penso che preferisca ricevere queste notizie da lei.» Con riluttanza, accettai di parlargliene. Gillian, con i suoi soliti modi, non mi rivelò il suo stato d'animo. Si limitò a informarsi: «L'ha già detto a mio padre?»
Le risposi di sì. «A lui non piace affrontare le cose sgradevoli. Le ha chiesto lui di parlarmene?» «Sì.» Sorrise, ma fu un sorriso tutt'altro che allegro, a labbra serrate, come quando si sorride per qualcosa su cui si ha ragione ma si preferirebbe aver torto. «Andrà con loro, vero?» domandò. «Scoprirà se la donna nella tomba è mia madre?» In meno di un minuto aveva abbattuto le resistenze che né il procuratore né i miei capi erano stati in grado di intaccare. Suonai il campanello dei Sayre. Fui sorpresa di sentire un motivetto dixie. Sentii dei passi che si precipitavano giù per le scale e qualcuno che gridava: «Vado io!» Jason aprì la porta; sembrò colto alla sprovvista, poi s'incupì. Aveva i capelli piuttosto corti e striati da ciocche bionde. Indossava una maglietta lunga e un paio di pantaloni molto abbondanti. «Oh, sei tu», disse con voce roca. «Jason... tesoro!» dal piano superiore una voce lo chiamava. Era troppo giovane per essere quella della nonna. Il ragazzino roteò gli occhi. Ormai aveva tredici anni ed era diventato piuttosto alto. Fu come se prendesse una decisione improvvisa, perché si chiuse rapidamente la porta alle spalle e mi ordinò: 'Andiamo». «Dove?» chiesi, perplessa. «Andiamo e basta!» insistette, con una voce a metà fra quella di un uomo e quella di un bambino, e si allontanò dalla veranda. «È la tua jeep?» «È in prestito, ma...» Quando scorse Jack al posto di guida, si fermò. «Chi è?» «Un mio amico.» «Davvero?» «Davvero.» «Sembra vecchiotto ma è forte», borbottò riprendendo a camminare. «È tutto relativo», commentai. «Mi riferisco all'età. Ascoltami, Jason...» «Jason!» strillò una voce da una finestra del piano di sopra. «Merda!» esclamò lui, lanciando un'occhiata alla casa e correndo verso l'auto.
«Chi è?» domandai correndogli dietro. Lui aprì con forza lo sportello di dietro e saltò sul sedile. «Amico!» disse a Jack. «Portami via di qui!» «Non azzardarti a girare la chiave, Jack», intervenni. «Non andremo da nessuna parte finché non mi dice chi è quella megera.» «Che cos'è una megera?» chiese Jason. «Te lo spiegherò non appena mi avrai detto chi è quella che sta uscendo dalla porta di casa tua», risposi, indicando una bionda snella ed elegante, un po' oltre la cinquantina, i cui sforzi per mascherare i segni del tempo non avevano avuto troppo successo. «Quella», rispose Jason con una smorfia, «è la signora Sayre.» 45 GIOVEDÌ 14 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas «Jason, hai intenzione di uccidere tuo padre?» gridò la nuova signora Sayre. Il ragazzino si irrigidì. Lei si avvicinò. «Sai cosa direbbe se venisse a sapere che stai in una jeep con degli estranei?» Si allontanò un po' da noi fissando con disapprovazione il volto sfregiato di Jack, il suo giubbotto di pelle, l'orecchino e i tatuaggi. «Non sono estranei», protestò Jason. «Lei è Irene Kelly, del giornale.» «E che cosa ti ha detto a proposito di parlare con i giornalisti?» insistette. «Esci immediatamente da quella macchina! Quando tuo padre tornerà a casa ti sculaccerà a dovere.» Jason si portò la mano sulla tasca posteriore dei pantaloni, non per proteggersi, ma per estrarre un sottile oggetto nero. Dal movimento del suo polso capii che si trattava di un telefonino. Un tredicenne con un cellulare... Del resto, nell'elegante quartiere dei Sayre, probabilmente ogni bambino abbastanza grande da decifrare i simboli di una tastiera numerica ne possedeva uno. «Vediamo che cosa ne dice papà», la sfidò Jason premendo un tasto. «Sì, vediamo», ribatté la matrigna, sicura del fatto suo. «Ciao, sono Jason; potrei parlare con mio padre, per favore?» «Vedo che sei più educato, quando parli con la sua segretaria», si lamentò la signora Sayre.
«Dovresti saperlo», rispose beffardo Jason facendola arrossire. Poi, in tono più affettuoso, disse nel telefono: «Ciao, papà, sono Jason. La signora Kelly è venuta a trovarmi e tu-sai-chi sta facendo storie». Mentre ascoltava, con espressione preoccupata guardava verso di me, e poi sorrise. Allungò il telefono alla matrigna, che glielo strappò di mano. «Giles, se continui a minare la mia autorità sul bambino ogni volta che mi giro...» Si zittì e mi lanciò un'occhiata. «E come diavolo facevo a saperlo? Vedo due estranei che attirano tuo figlio in una macchina e uno dei due sembra il capo di una banda di motociclisti.» Ascoltò, scura in volto, quindi allontanò il telefono dall'orecchio mentre Giles stava ancora parlando e lo spense. Richiuse lo sportellino con un colpo secco e lo lanciò a Jason senza fare troppa attenzione. «Signora Sayre...» Pronunciare quel nome mi fece una strana impressione, ma lei aveva già girato i tacchi e stava ritornando impettita verso la veranda. Sulla porta si voltò, gridando: «Se avete in mente di rapirlo, per piacere non disturbatevi a mandare la lettera per il riscatto!» e sbatté la porta. «Possiamo andare, ora?» chiese Jason. «Jack Fremont, ti presento il mio impaziente amico Jason Sayre.» «Piacere. Andiamo?» «Dov'è che sei così ansioso di andare?» domandò Jack. «In qualsiasi posto che sia abbastanza lontano da lei.» Jack mi sorrise e disse: «Meglio muoversi, Irene. Tieniti forte, Jason». Quando finalmente ci allontanammo dal marciapiede, il ragazzino si lasciò cadere contro lo schienale con un sospiro. «Il parco va bene?» propose Jack. «Certo», risposi; poi, rivolta a Jason, domandai: «Per te va bene?» «Finalmente», sbottò lui, «qualcuno mi chiede cosa voglio!» «Allora?» «Sì, il parco mi piace.» «Quando si è risposato tuo padre?» «Con Susan?» «Si chiama così la tua matrigna?» Annuì. «Vuole che tutti la chiamino Dixie, ma è una stronzata. .. non è nemmeno del sud. Vive con noi da quando Gilly se n'è andata. Prima, mio padre stava da lei.» «Quindi non è sua moglie?» «Ora sì: si sono sposati subito dopo il ritrovamento di mia madre.»
«Come?» «Sì», confermò, spostando lo sguardo sulle mani. «Il giorno che sei venuta a parlargli di quel killer ha chiamato Susan e le ha detto che forse potevano finalmente sposarsi.» Senza parole mi voltai verso Jack, che fissava lo specchietto retrovisore. Non guardava il traffico, ma Jason. «Se non trovavano la mamma, doveva aspettare sette anni», proseguì il ragazzino, scalciando come per distendere le gambe. Dallo sguardo, però, si capiva che avrebbe voluto colpire qualcuno. «Oh», esclamai. Cominciavo a vederci chiaro. «Perché non era stata dichiarata legalmente morta?» «Esatto. Secondo Susan papà avrebbe potuto sollecitare il tribunale perché abbreviasse i tempi; lui però sosteneva che sarebbe stato dannoso per il suo lavoro, perché la gente non l'avrebbe visto di buon occhio a causa di tutto quello che hai scritto. Perciò ha dovuto aspettare, per accontentare la sua amichetta, o almeno per sposarla. Lei voleva sposarsi il giorno dopo l'identificazione del corpo della mamma. Lui l'ha fatta aspettare una settimana.» «Era la sua segretaria?» chiesi, ricordando il commento che l'aveva fatta arrossire. «Sì.» Ci fermammo al negozio all'angolo e comprammo della frutta fresca, una bibita per Jason e una bottiglia d'acqua per Jack e me. Proseguimmo fino al grande parco che si estende al confine orientale della città e allestimmo un picnic improvvisato all'ombra. Il cellulare di Jason squillò. Dopo aver parlato brevemente con un amico, riattaccò. «Credo che funzioni meglio delle lattine collegate con il fil di ferro», disse Jack. Jason mi vide ridere e chiese di cosa stessimo parlando, perciò gli raccontammo qualcosa dei nostri tempi. «Funziona davvero?» «Te ne daremo una dimostrazione», rispose Jack. Jason strappò qualche ciuffetto d'erba e, senza sollevare lo sguardo, domandò: «Sei venuta a sapere altro su mia madre?» «No, mi dispiace. Non è questo il motivo per cui sono venuta a trovarti.» «Ah, no?» «No. Volevo solo vedere come stavi.» «Oh.»
Non disse altro, perciò aggiunsi: «Volevo anche scusarmi per non essere passata prima». Scrollò le spalle, fissando accigliato l'erba che stava strappando. «Perché dovevi? Non l'hai neanche conosciuta.» «Ma conosco la tua famiglia.» Mi lanciò un'occhiataccia cinica. «Davvero?» Pensai alle rivelazioni di quel giorno. «Non benissimo, forse, ma abbastanza da sapere che quanto è successo a tua madre è stato un duro colpo per tutti voi.» Si mise a ridere. «Un duro colpo per tutti? Niente affatto. Sono il solo che le voleva davvero bene.» «Non credo sia vero...» «E chi allora? Mio padre? Poverino! Lui si stava divertendo con la cara Suze. Probabilmente pensa che l'assassinio di mia madre sia stata la cosa migliore che poteva capitargli.» «Jason, ho visto...» «Le sue lacrime? Di coccodrillo! E sai chi è ancora più falsa di lui? Gilly. Solo che lei è ancora più brava. Ha imbrogliato anche te. Odiava mia madre. La odiava.» Scosse la testa. «Si odiavano a vicenda.» «La prima volta che ci siamo viste, Gillian ha ammesso di avere dei problemi con lei, di aver avuto varie discussioni.» «Problemi? Discussioni?» disse arrabbiato. «Credi che si trattasse soltanto di scazzi da adolescenti?» Così era sembrato a me e a tutte le persone con cui avevo parlato al momento della scomparsa di Julia Sayre. «Perché Gillian la odiava?» domandò Jack. «Come faccio a saperlo?» ribatté, ma con meno ostilità di quanta ne avesse dimostrata a me. «È un'insensibile; non le importa di niente e di nessuno.» «Per quattro anni Gillian è stata l'unica a chiamarmi per sapere se ci fossero notizie di tua madre. C'erano state altre scomparse, ma nessuno si è preoccupato di ritrovare la persona che amava come ha fatto tua sorella.» «Per piacere, non dire 'amava'», scattò Jason. «Gillian non amava mia madre. La odiava. Era cattiva con me, con tutti. Usa la gente, e ha usato anche te, e ora me ne parli come se in lei ci fosse qualcosa di buono. Voleva solo attenzione, e tu gliel'hai concessa.» «Quando hai parlato con lei l'ultima volta?» domandai. «Anni fa. È un bel po' che se n'è andata.»
«Ti manca?» «No.» «Da allora non è mai venuta a trovarti?» «No, ma non m'importa. È strana. La vedo di tanto in tanto. .. la incontro in giro qua e là. Una volta l'ho vista qui», aggiunse indicando un punto del parco. «Non mi ha neanche salutato. Del resto, mi va bene così. Non voglio che si avvicini a me.» «Mi dispiace», mormorai. «Non avevo capito che fossi così arrabbiato con lei, o con me.» E con tutti gli altri esseri del pianeta, pensai. Jason replicò: «Non ce l'ho con te. Gilly si prende sempre gioco delle persone. Come papà, del resto». Dopo un lungo sospiro aggiunse: «Vorrei non vivere a Las Piernas». «Perché?» «Tutti sanno che cos'è accaduto a mia madre. Credo sia l'unica cosa che i miei compagni di scuola sanno di me. O vogliono sapere i particolari, come se è vero che le hanno tagliato un dito e stronzate simili, oppure sono terrorizzati. Non posso vivere come una persona normale.» «Si sono comportati così per quattro anni?» domandò Jack. «No», ammise Jason. «Solo all'inizio e adesso.» «Quindi fra un po' la smetteranno.» «Immagino di sì.» «Forse hanno solo paura che la stessa cosa possa succedere alle loro mamme», ipotizzò Jack. «Forse, ma io odio lo stesso vivere qui.» «Dove vorresti stare?» gli domandai. «Dalla nonna», rispose. «Mi manca. Vorrei andare a vivere da lei.» «L'hai chiesto a tuo padre?» «Dice che gli mancherei troppo. Credo sia preoccupato di quello che può pensare la gente.» «Ricordi quando Nick Parrish viveva vicino a voi?» Scosse la testa. «Ero piccolo quando se ne andò. Ma Gilly se lo ricorda. Di solito, se non sbaglio, andava a trovare la signora, o qualcosa del genere.» «La signora? Sua sorella?» «Sì.» Esitò un istante, poi aggiunse: «Sapevo chi era Nick Parrish molto tempo fa, prima che la polizia lo venisse a sapere». «Che vuoi dire?»
«Non sapevo il suo nome, ma lo avevo visto.» «Quando?» «Prima che la mamma fosse uccisa. Una volta, mentre Gilly mi faceva da baby-sitter, l'ho visto che fissava con insistenza casa nostra. Ero piccolo, facevo la terza, e lui... mi spaventò.» «L'hai raccontato a qualcuno?» «A Gilly. Uscì a cercarlo, ma non c'era nessuno.» «Non l'hai detto alla polizia?» «Non avevo guardato con attenzione», ammise. «Che cosa avevi visto?» «Quell'uomo in una macchina. Ci ho ripensato dopo... sai, quando a Gilly è venuto in mente che viveva nella nostra strada. Ma era troppo tardi», commentò tristemente. «E poi, chi avrebbe creduto a un bambino? Ha ragione mia sorella: nessuno prenderebbe mai sul serio un bambino.» Allungò la mano nel sacchetto della frutta e ne estrasse un'arancia. La esaminò per bene e poi la lanciò con violenza contro un albero, contro il quale il frutto sbatté con un rumore sordo; rimase attaccato al tronco per qualche secondo prima di cadere a terra. Quando mi voltai a guardare Jason, sorpresa, lo vidi abbassare di colpo la testa, ma feci in tempo ad accorgermi che il suo viso era tirato: per la rabbia, ma non solo. «L'altro giorno anch'io ho lanciato una cosa con la stessa violenza», dissi. «Pensavo potesse farmi sentire meglio, ma non ha funzionato.» «Che cosa hai lanciato?» domandò guardandosi le caviglie. «Il monitor di un computer.» Alzò lo sguardo, con gli occhi umidi ma sgranati. «Ma dai!» esclamò con ammirazione. «Sì. Mi sono comportata da vera sciocca. Avrei potuto ferire seriamente qualcuno. Dopo mi sono sentita anche peggio.» «Perché l'hai fatto?» «Ero arrabbiata. Ce l'avevo con me stessa perché non tutto era andato come volevo.» «Per colpa tua?» «In parte sì. Alcune erano cose che avrei potuto far andare in modo diverso, migliore. Molte, però, forse sarebbero andate così comunque.» «Che intendi dire?» «Per esempio ho pensato che avrei dovuto immaginare quello che Nick Parrish aveva escogitato, sulle montagne.» «E come avresti potuto? Non lo sapevano neanche gli agenti. Parecchi di
loro sono morti.» «Sì, e forse per colpa mia, perché ho sempre sospettato che Parrish non avesse niente di buono in mente. Più o meno come quando non ti sei fidato dell'uomo che hai visto in macchina.» «Forse, se l'avessi detto a papà invece che a Gilly...» «Tuo padre era in casa?» «No.» «Perciò è possibile che non sarebbe tornato in tempo per vederlo. Anche se più tardi avesse chiamato la polizia, gli avrebbero chiesto se quel tipo stesse facendo qualcosa, e alla risposta negativa di tuo padre sarebbe finita lì. Forse non era neppure Parrish.» «Forse», ripeté senza troppa convinzione. «Ti preoccupa comunque, non è vero?» «Sì.» «Ho continuato a sperare che i pensieri che mi tormentavano si allontanassero da me. Non è successo, perciò ora sto cercando di parlarne un po' di più. È difficile.» «Molto difficile», convenne Jason tornando a guardarsi le scarpe. «Con chi ti confidi quando sei preoccupato?» Per un bel po' non parlò, poi finalmente rispose: «Con mia nonna, qualche volta». «Forse dovresti chiamarla più spesso. Perché non dici a tuo padre che vuoi andare a stare da lei per un periodo?» «D'accordo.» Raccogliemmo i rifiuti, compresa l'arancia schiacciata, e lasciammo il parco. Prima di riportare Jason a casa, Jack si fermò da un ferramenta per comprare un pezzo di fil di ferro. La fermata successiva fu a un ristorante italiano, dove sembrava lo conoscessero bene. Anche se la sala da pranzo a quell'ora del pomeriggio era completamente vuota, il proprietario ci fece accomodare in cucina, dove Jack chiese al cuoco i pezzi per costruire un telefono con le lattine. Il cuoco addirittura le lavò, e fece da supervisore mentre Jack era intento ad assemblare le parti. Quando il lavoro fu completato, il cuoco invitò Jason a prendere una lattina e ad andare nella sala da pranzo mentre lui prese l'altra e rimase in cucina. Che cosa si siano bisbigliati non lo saprò mai, ma si divertirono moltissimo entrambi. Con qualche difficoltà, e solo dopo la promessa di ritornare presto, riuscimmo ad andarcene senza mangiare. Lungo la strada Jason non parlò, e
quando accostammo davanti a casa sua disse: «Non dire a Gilly ciò che ti ho detto di lei, va bene?» «Va bene», risposi, sollevata nel vedere in lui qualche segno di affetto fraterno. Jack gli disse che avrebbe chiesto al padre il permesso per portarlo con noi al ristorante italiano. «Sarebbe divertente», osservò il ragazzino senza troppo entusiasmo. Probabilmente non credeva alla promessa di Jack. Ci salutò, ci ringraziò e portò con sé il telefono giocattolo. Mentre entrava in casa lo vidi parlare dentro una lattina, con l'altra appoggiata all'orecchio, assorto in una conversazione con se stesso. 46 VENERDÌ 15 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas Nicholas Parrish osservò orgoglioso il suo nuovo laboratorio, decisamente migliore rispetto al precedente. Ancora una volta era merito della sua piccola Falena che gli aveva suggerito quell'alternativa dopo aver notato il disagio in cui era costretto a lavorare. Era un laboratorio di gran lunga più adatto alle sue esigenze: il piano da lavoro era più grande, con un lavello vicino, e, oh gioia!, persino un freezer. L'abitazione stessa era più confortevole, rispetto alla precedente, ma per lui aveva poca importanza. Dopotutto, non era un amante delle comodità. Come ogni artista, era più interessato allo spazio nel quale avrebbe dovuto prendere forma la sua creatività. Aveva passato vari giorni a sistemarlo per adeguarlo ai propri bisogni. Aveva vuotato il freezer del suo vecchio contenuto e così via, e finalmente... voilà! Forse non era uno studio degno dei suoi capolavori - poteva mai esisterne uno? -, ma almeno sarebbe stato in grado di lavorare al meglio. Non riusciva a fare a meno di sentirsi orgoglioso per la piega che avevano preso gli eventi negli ultimi tempi. Irene era in cura da una strizzacervelli! Ovviamente era stato lui a spingerla sull'orlo di un esaurimento nervoso. Delizioso! Come se la cavano gli strizzacervelli quando le paure di una persona sono reali? Irene era terrorizzata... perfetto! Proprio come le aveva promesso. Che delizia la sua reazione dinanzi a quelle ossa! Peccato non essere ri-
masto nei paraggi per vedere che cosa era successo quando aveva ricevuto le rose. S'incupì al ricordo di Jack Fremont che l'abbracciava. Irene era troppo espansiva, per usare un eufemismo. In realtà era una vera troia: Ben Sheridan, Jack Fremont e Dio solo sa chi altri; forse anche suo cugino. Si mise a sedere, riflettendo su cosa avrebbe potuto fare per purificarla da una simile corruzione. Si fermò prima che la sua fervida immaginazione lo facesse eccitare troppo. Aveva molto lavoro da sbrigare. Esaminò le carte stradali, ripercorrendo mentalmente le strade già battute, e considerò ancora una volta tutti i possibili rischi lungo il cammino. Sostituì le targhe alla Honda e scelse una parrucca bionda per il travestimento del giorno. Aveva già chiamato il giornale per sospendere le consegne e aveva compilato il modulo per il fermoposta. Nel bagagliaio erano già pronti gli attrezzi che gli sarebbero serviti per la prima fase del lavoro. Diede un'altra occhiata al foglietto che la Falena gli aveva dato e avvertì un fremito. Come aveva fatto a ottenere quell'informazione? La Falena aveva in mente qualcosa: la storia che gli aveva raccontato non lo convinceva. Non gli andava di sprecare le sue energie pensando alla Falena, specialmente in un momento simile. Aveva bisogno di concentrazione. Osservò ancora i segni sulla carta. Nonostante fossero quasi tutti blu, fu attratto dall'unico segno rosso. Conosceva l'indirizzo preciso: 600 Broadway. Il Wrigley Building. La sede dell'Express. 47 DOMENICA 17 SETTEMBRE, MATTINA Las Piernas Esitai un attimo davanti all'ingresso del Wrigley Building. Gli accordi presi da Jo Robinson non avevano nulla a che vedere con ciò che avevo in mente in merito al mio «ritorno al lavoro» e l'orgoglio bruciava. Sapevo che Frank mi stava osservando dalla macchina e aspettava che entrassi. Per una decina di minuti presi in seria considerazione l'idea di tornare indietro e farmi riportare a casa, poi avrei chiamato Jo Robinson e Wrigley per dir loro di lasciar perdere.
Wrigley mi aveva concesso di tornare al lavoro con un contratto parttime da venti ore, nei turni di notte dalle dieci alle due di mattina il martedì, il giovedì e il venerdì, dopo la chiusura delle rotative. Per aggiungere qualcosa in più alla mia punizione aveva stabilito che facessi il turno di sabato e domenica mattina dalle sette alle undici. Ciò significava che il venerdì staccavo solo cinque ore prima di ripresentarmi per il turno successivo. John mi aveva dato un preavviso di meno di quarantotto ore, informandomi che il mio primo turno sarebbe stato la domenica mattina seguente. «Immagino che Wrigley dia per scontato che io non abbia programmi, e che magari io stia qui ad aspettare il suo invito per ripresentarmi all'Express a rispondere alle telefonate di lamentela.» «Hai già dei programmi?» mi domandò John. «Sì, ma per il pomeriggio», ammisi. Con una telefonata all'ufficio di Giles ero riuscita a farmi dare il nuovo numero di Gillian, e lei aveva acconsentito a incontrarmi domenica pomeriggio. Lavorava come cameriera in un piccolo bar che serviva colazioni e pranzi. «Lavoro part-time», mi aveva detto. «Dopo le due sono libera.» «Allora puoi venire?» mi aveva chiesto John. «Sì, ci sarò. Immagino che il suo più grande desiderio sia vedermi strisciare.» «Neanche a me piace la situazione, Kelly, ma è stata una lotta anche solo impedirgli di licenziarti. Ci vorrà una forte pressione da parte del consiglio di amministrazione per convincerlo a essere più elastico con i tuoi turni. Io sto facendo il possibile, lo sai.» Il fatto che John e gli altri si stessero battendo per me mi fece decidere di spingere la porta d'ingresso del giornale, quella domenica mattina. L'edificio era vuoto, e la cosa non mi dispiacque. Non avevo alcuna voglia di affrontare tutte le persone che mi avevano visto dar fuori di matto. Riuscii a sentire i telefoni che suonavano ancor prima di arrivare in cima alle scale. Chi lavora la domenica mattina passa il tempo ad ascoltare lamentele. La gente non sta a guardare se è il numero della redazione di cronaca o della rotativa: fa il primo numero che capita e chiunque sia al giornale si becca la sfuriata. I telefoni smisero di suonare dopo il secondo o il terzo squillo, poi cominciai a sentire delle voci. Quindi non ero completamente sola. Entrai nella redazione e vidi Mark Baker e Lydia Ames che rispondevano. Ero allibita. Nessuno di loro avrebbe dovuto essere al lavoro, quella
mattina. Lydia mi indicò una seggiola vicino a lei. Un altro telefono squillò. Risposi alla chiamata di un uomo che si lamentava perché il ragazzo delle consegne quella mattina aveva buttato il giornale in una pozzanghera. L'uomo continuò con la sua sfuriata senza quasi tirare il fiato. L'unica cosa che rendeva sopportabile quel compito era guardare Lydia e Mark che facevano gesti buffi e smorfie mentre ascoltavano le loro chiamate. Riuscii a liberarmi del signor Pozzanghera proprio nel momento in cui Stuart Angert entrò con un vassoio di brioche e quattro tazze di caffè fumante. «Bentornata!» mi salutò. «Grazie, ma cosa ci fate voi qui a quest'ora poco cristiana, nel giorno del Signore?» domandai. «John ci ha detto che Wrigley era fuori», rispose Mark, «e così abbiamo deciso di cambiare i turni. Con l'approvazione di John, naturalmente.» «Non volevamo perderci il tuo rientro», continuò Lydia. «Non dovreste esporvi così per me», replicai. «E se Wrigley decidesse di fare un salto qui?» «Non si farà vedere», rispose Mark. «Gli fai troppa paura.» Rispondemmo a un altro giro di telefonate. Verso le nove il flusso diminuì, e riuscimmo a chiacchierare per qualche minuto. Mi scusai con Stuart per aver rotto il suo monitor. «Ti do il permesso di usare qualsiasi altro oggetto sulla mia scrivania, la prossima volta che decidi di lanciare un missile», disse. «Il mio nuovo monitor è davvero bello. Me lo invidiano tutti.» «No, quella che invidiamo tutti è Irene. Tutti noi vorremmo provare che effetto fa lanciare qualcosa contro Wrigley», aggiunse Lydia. «Non è così bello come credete», risposi. Da quello si passò a domande serie del tipo «Come stai, veramente?» Fui evasiva. Capirono e cercarono di mettere da parte il loro istinto da giornalisti. Alle dieci e mezzo mi resi conto che il mio turno stava per finire e non avevo ancora guardato la posta. Lydia si offrì di aiutarmi mentre Mark e Stuart continuavano a rispondere alle telefonate. Le passai alcune cose che dovevano essere sbrigate entro la giornata. Per altre chiesi a John il permesso di lavorarci a casa. Il resto poteva aspettare o potevo rispondere per lettera. Decisi poi che mi sarei occupata delle risposte via e-mail durante il turno di notte. Una delle cose belle di Internet è che il servizio è aperto 24
ore su 24. Tra le buste ne notai una rigonfia senza mittente. Lydia la guardò con sospetto. «Che roba ti mandano i tuoi fan?» Aprii la busta e la svuotai scuotendola. Un paio di slip cadde sulla scrivania. «La mia biancheria», dissi con aria assente. Per un attimo l'unica cosa che riuscii a sentire e a vedere fu Nicholas Parrish che mi provocava e mi diceva che aveva il mio odore. Poi udii la grassa risata di Stuart. Mi sentii umiliata. «Mio Dio, Kelly, posso immaginare che tu mandi in lavanderia la tua biancheria, ma questa mi sembra davvero buffa.» In effetti mi resi conto che la situazione era ridicola. Stuart aveva ragione. Dopotutto era solo un paio di mutande. Mi misi a ridere anch'io. Mark e Lydia sembravano perplessi, ma quando Mark mi domandò se non fosse il caso di chiamare la polizia io e Stuart scoppiammo a ridere così forte che anche loro si lasciarono andare. «Immagino che dovrei davvero chiamare la polizia, ma prima chiamerò Frank. Non voglio nemmeno pensare a quel che si sentirà dire dai colleghi», osservai non appena ci fummo calmati. Frank non trovò niente di divertente in ciò che era successo e non si preoccupò minimamente degli eventuali commenti salaci dei colleghi. Anzi, insistette per passare il resto della giornata con me. «Ma oggi pomeriggio devo incontrarmi con Gillian.» «D'accordo», rispose. «Resterò nei paraggi.» Mentre aspettavamo la polizia osservai la busta. Il timbro era precedente al mio periodo di assenza. «Perlomeno l'ho fatto aspettare un po', quel bastardo», borbottai. «Credo che dovrei farci un servizio», propose Mark, e Stuart ricominciò a ridere. Sentii un violento moto di rabbia nei confronti di Parrish. «Maledizione», dissi a Lydia, «me le ha mandate qui perché voleva umiliarmi davanti ai miei colleghi. Pensava che io sarei stata terrorizzata mentre tutti voi vi chiedevate quale fosse il problema. Non lo sopporto più. Ne ho abbastanza di giocare in difesa. È ora di passare all'attacco.» Stuart, che stava ascoltando, intervenne: «Signori e signore, Irene è tornata!»
Lydia e Mark tentarono invece di mettermi in guardia. «Non fare stupidaggini.» Mi misi davanti al computer e lo accesi. «Le mutande sono mie e le gestisco io!» «Potresti usarlo come titolo», suggerì Stuart. Cominciai a scrivere: Che razza di perdente può mai pensare di terrorizzare una donna con la sua stessa biancheria intima? Forse amareggiato dalle precedenti sconfitte Nicholas Parrish ha deciso di usare la sua arma segreta. L'uomo (e uso il termine in modo improprio) ha tentato di spaventarmi con un paio delle mie innominabili, peraltro ancora sporche. Nicky di certo non ha idea degli orrori a cui va incontro qualsiasi donna nel giorno del bucato. Nella sede dell'Express l'immagine di questo tizio che inventa piani diabolici portandosi in giro il mio cesto della biancheria sporca per ben tre mesi ha destato non poca ilarità. Nicky, chi l'avrebbe mai detto che tu fossi un abile ladro di mutandine? Certo, so che preferiresti passare alla storia come il Male Incarnato, e hai fatto di certo del tuo meglio per guadagnarti l'appellativo, ma il mondo dei media è mutevole e temo che qui in redazione si siano ormai tutti dimenticati della questione del Male Incarnato; perciò sarai condannato a essere ricordato da tutti come il Bandito della Mutanda. Lydia, che stava leggendo da dietro le mie spalle, scosse il capo e si allontanò. Mi stavo divertendo troppo per preoccuparmene. Mi piaceva immaginare la faccia che avrebbe fatto Parrish leggendo l'articolo. Lui cercava di terrorizzarmi, ma, se le cose fossero andate come pensavo, ne avrei fatto lo zimbello di tutti. Stavo per mandare l'articolo a John quando, chissà per quale ragione, mi ritrovai a pensare a Parsifal: nonostante le sue buone intenzioni non aveva potuto impedire che le sue stesse azioni portassero a risultati negativi. Parrish avrebbe potuto decidere di dimostrare che doveva essere preso sul serio. Cosa sarebbe successo se invece di essere distrutto dalla mia prosa pungente si fosse arrabbiato al punto di uccidere un'altra dozzina di donne per essere nuovamente temuto? Sarei mai riuscita a convivere con
una responsabilità del genere? Avevo forse pensato che sarebbe scoppiato a piangere dicendo: «Confesso tutto, ma dite a Irene Kelly di non essere più così cattiva con me»? D'altra parte dovevo forse censurarmi perché nel profondo del mio cuore ero terrorizzata a morte da Nick Parrish? Stampai una copia del pezzo e lo feci leggere a Lydia, ma le dissi che volevo rifletterci ancora un po' prima di mandarlo in stampa. Salvai l'articolo su un dischetto e cancellai tutto dal computer. Se avessi cambiato idea avrei potuto consegnare il dischetto. Chiamai John a casa per spiegargli la storia del pacchetto e del suo contenuto «Probabilmente ti troverai qualche poliziotto tra i piedi», dissi. «Cavolo, Kelly, non sei tornata neanche da un giorno e i piedipiatti stanno già bazzicando in redazione.» La polizia non rimase a lungo. Dopo aver recuperato il pacchetto e il suo contenuto mi fecero alcune domande («Quando ha visto l'ultima volta l'indumento?»); stabilirono che il pacchetto era stato inviato per posta e non consegnato a mano. Mi dissero anche che entro breve mi sarebbe stato restituito il furgone. Andai a pranzo con Frank che mi sembrò più silenzioso del solito. «Cosa succede?» domandai. «Lydia mi ha parlato dell'articolo che hai scritto.» Cercai di interpretare la sua espressione, ma non ne fui capace. «Mi dispiace che l'abbia fatto lei. Te ne avrei parlato di persona, ma probabilmente ora non ci credi più.» «Ti credo.» «E allora, qual è il problema?» «Il problema è che in quel modo mandi in bestia un serial killer. O 'nel mutevole mondo dei media' non hai davvero tenuto conto di questo?» «Cosa pensi che dovrei rispondere?» «Dimmi cosa diavolo avevi in mente.» «Sono stufa di continuare a fare il suo gioco, Frank.» «Ci sono psicologi legali che lavorano su casi simili, gente che si guadagna da vivere studiando le reazioni di gente come lui. Non credi che sarebbe meglio contattare uno di loro prima di metterti a inveire contro Parrish?» «Ascolta, prima di litigare sulla questione...» «Non ti biasimo perché ti sei arrabbiata. Sta cercando di controllarti e
manipolarti. Vuole spaventarti; vuole essere quello che comanda. Credi che io pensi che devi nasconderti in un angolo? No. Ma un conto è tener duro, un altro invece lanciargli una sfida.» «Non ho mandato in stampa l'articolo.» Si appoggiò allo schienale. «Cosa?» «Lydia te ne ha data una copia, vero?» Annuì. «Be', io non l'ho mandata in stampa. Ne ho tenuta una copia su un dischetto. Non ho ancora preso una decisione in merito, ma per ora sono propensa a non consegnare quel pezzo.» Alzai una mano per interromperlo. «No... per favore, non venirmi a dire che è la cosa più sensata da fare, perché è anche la più codarda.» Non aggiunse altro. Gillian viveva sopra il garage di un'autorimessa in un monolocale in legno costruito nel periodo della crisi immobiliare, alla fine degli anni Quaranta. Il garage si trovava in fondo a un lungo viale, ed era staccato dalla grande casa del meccanico che occupava la parte anteriore dell'edificio. La casa era stata trasformata in una villetta bifamiliare. Dal fondo delle scale sentii la musica che proveniva dallo stereo: I Don't Like Mondays dei Boomtown Rats. Un vecchio classico. Salimmo e bussammo alla porta. Gillian ci aspettava sulla soglia; indossava un paio di jeans e una maglietta gialla. Ora portava i capelli molto corti e neri. Le unghie erano laccate di viola, ma molto più corte dell'ultima volta che l'avevo vista. Frank l'aveva già incontrata quando lei era andata a chiedergli informazioni sul caso di una vittima sconosciuta su cui stava indagando. Lei se ne ricordava, e ricordava anche il caso, anche se aveva chiesto informazioni su circa una dozzina di casi simili nell'arco degli ultimi quattro anni. Mentre parlavano delle indagini approfittai per buttare un occhio all'interno dell'appartamento. Era stranamente vuoto e austero per una persona che vestiva in modo così vivace. I muri erano bianchi e spogli, le seggiole e il divano assolutamente normali, e, a parte le casse dello stereo e un vaso con una palma, non c'erano altri oggetti nella stanza. Lo stereo doveva essere nella camera da letto. Non c'era niente che potesse distrarre gli ospiti. Ci invitò molto cordialmente a sederci, ci offrì da bere e mi ringraziò ancora per aver parlato con lei subito dopo il rientro dalla spedizione in montagna. Mi disse che era contenta che non mi fossi spaventata troppo per le ossa nel furgone e mi chiese se ero già tornata al lavoro.
Comunque, al di là delle sue buone maniere si percepiva in lei un malcelato disinteresse nei nostri confronti. Non so come riuscisse a trattenersi dallo sbadigliare. Le domandai come andavano le cose; rispose che andava tutto bene. Le espressi la mia sorpresa per il nuovo matrimonio di suo padre. Rispose che non conosceva Susan e che suo padre poteva fare ciò che voleva della sua vita. «Jason non sembra molto contento.» «Ha parlato con mio fratello?» Finalmente mostrava un certo interesse per quello che stavo dicendo. «Sì», risposi, «all'inizio della settimana.» Allungò le mani e si guardò le unghie, poi sollevò lo sguardo e disse: «Non ho molto a che fare con mio padre e mio fratello. Preferisco così. Loro hanno i loro problemi e io i miei». Mi scusai un attimo e andai in bagno, che era spoglio come il resto della casa. Quando uscii fui sorpresa di sentirla ridere. Mi resi conto che era la prima volta che sentivo una sua risata. Era un gorgoglio spontaneo, infantile. Teneva in mano un foglio di carta che restituì a Frank con un sorriso. Mio marito mi osservò con un'espressione che tradiva il suo senso di colpa. Riprese il foglio e me lo allungò. «Spero che non ti dispiaccia», disse. «Le ho fatto leggere il tuo articolo su Parrish.» «No, niente affatto», ma il sorriso era già svanito dal viso di Gillian. Ce ne andammo poco dopo. In macchina Frank si scusò. «Mi dispiace, avrei dovuto chiedertelo prima.» «Stai scherzando? Hai avuto un'ottima idea. Non avevo mai sentito ridere quella bambina. Sono contenta che tu le abbia fatto leggere quello che ho scritto. Forse l'ha aiutata a sollevarsi dal peso che porta sulle spalle, almeno per un po', È sempre così seria e distaccata.» «Pensavo di essere io la causa del suo atteggiamento freddo.» «No: è sempre stata così anche con me. Per questo mi ha fatto piacere sentirla ridere. Di solito niente sembra scalfirla. Jason sostiene che è fredda, ma io penso che ritrarsi sia il suo modo di affrontare ciò che le è successo. Ha dovuto affrontare molti problemi, ultimamente: dopo tutto questo tempo sua madre è stata trovata, ma non è stato un lieto fine.» «Non sottovaluto di certo ciò che ha passato», rabbrividì, «ma sono d'accordo con Jason.»
«Non penso che la si possa giudicare da come si atteggia.» «Immagino di no, ma devi pur ammettere che è piuttosto strana.» Tutta la famiglia è strana, pensai. «Stavo riflettendo su Giles. Mi domandavo se la storia con la segretaria fosse già iniziata prima del rapimento di Julia. Quando Gillian è venuta da me la prima volta mi sono concentrata soprattutto sull'eventualità che Julia avesse un amante.» «Di sicuro Bob Thompson ha indagato. Quando una moglie scompare di solito guardiamo che il marito non abbia motivi per desiderarne la scomparsa.» «Riusciresti a scoprirlo?» «Penso che il caso Sayre sia passato a Reed Collins. L'ha ereditato alla morte di Bob, ma deve averlo chiuso dopo l'identificazione del cadavere. Probabilmente ha ancora il fascicolo: lo sta usando l'unità operativa che cerca Parrish. Deve ancora essere processato, ovviamente. Reed mi lascerà dare un'occhiata.» «Giles mi era sembrato così sconvolto, la prima volta che l'ho incontrato! Adesso pensa solo a se stesso. Più rifletto su ciò che mi hanno detto i figli, più mi domando se il suo dolore non fosse solo un atteggiamento.» «Metterlo in collegamento con uno come Parrish, però...» «Parrish è stato un loro vicino di casa, per un certo periodo.» «Ciò non significa che sapesse cosa stava facendo. Quello non è un killer di professione. Uccide solo per piacere personale.» «Forse ha fatto entrambe le cose. Proverò a parlare con Phil Newly», dissi. «Forse lui sa se il suo ex assistito era in contatto con qualcuno o se aveva qualche amicizia.» «Phil mi ha aiutato a trovarti, ma non penso che sia così semplice fargli tradire il segreto professionale.» Composi il numero di Newly diverse volte la domenica pomeriggio e la sera, ma non ebbi risposta. Doveva essere fuori per il weekend. Quello fu uno dei miei pensieri nei giorni successivi: al telefono di Newly non rispondeva mai nessuno. Avrei dovuto preoccuparmi di più di quanto non feci. 48 LUNEDÌ 18 SETTEMBRE, MATTINA Las Piernas Il lunedì mattina Jack mi accompagnò al deposito per recuperare il fur-
gone. Lo lavai con una cura che non avevo mai riservato ad alcun veicolo. Restituimmo la jeep a Ben, che la usò per andare alla sua prima lezione. Sembrava stupito di vederla tornare indietro tutta d'un pezzo. Chiamai Jo Robinson per lamentarmi degli orari sui quali si era accordata. Mi confessò che non si aspettava che Wrigley avrebbe proposto dei turni del genere, ed era piuttosto arrabbiata, ma le sue telefonate all'Express non avevano sortito alcun effetto. Continuai a chiamare Newly. Mi telefonò Travis. Era stato bravo a mantenere i contatti, anche se se la stava spassando un mondo con Stinger Dalton e non pareva ansioso di tornare a Las Piernas. Aveva già pilotato da solo dei piccoli elicotteri e mi aveva riferito, estasiato, che Stinger gli stava insegnando a pilotare il Sikorsky. «Sei ancora a casa dal lavoro?» mi domandò. «No. Ci vado domani notte.» Gli spiegai i miei originali turni di lavoro. «Ma che stronzate!» commentò. Forse stava passando troppo tempo con Stinger. «E una soluzione temporanea.» «Penso che vi verrò a trovare presto. Mi mancano i cani.» «Grazie», risi. «No... non è quello che intendevo.» «Lo so, lo so. Anche noi abbiamo voglia di vederti, non appena avrai un po' di tempo.» Stavo per affrontare il mio primo turno di notte con una certa trepidazione. Normalmente non avrei avuto alcun problema a guidare di notte, da sola, per strade deserte, o a lavorare da sola in ufficio in orari da zombi. Ma ormai niente nella mia vita era più normale. Ero sicura che Parrish mi stesse seguendo per quelle strade e che mi avrebbe dato la caccia nei corridoi vuoti. Ti darà la caccia dappertutto, mi ero detta. Ma non potevo seppellirmi in casa per sempre. Una vita passata a nascondersi che vita era? Stavo pensando a tutte queste cose quando Frank mi disse che voleva essere sicuro che io non fossi mai sola durante i turni di notte. Rifiutai di portarmi qualcuno al giornale e ne discutemmo per ore, finché lui non uscì. Rientrò un'ora più tardi e mi consegnò un cellulare. «Che cos'è?» «La mia tranquillità.»
«Vuoi che vada in giro con questo aggeggio?» «Sì, e che tu lo tenga acceso.» «Possiamo permettercelo?» «Costa meno di un funerale.» «Frank!» «Ti sto solo chiedendo di portarlo con te, per farmi stare tranquillo.» Cedetti. Nei giorni seguenti non combinai granché, in merito al caso Sayre. Ero troppo occupata a regolare le mie ore di sonno e a smaltire tutto il lavoro che si era accumulato sulla mia scrivania. Le prime notti il giornale era già andato in stampa all'ora del mio arrivo. Parlavo con i tipografi nel seminterrato e con Jerry e Livy, i tecnici del computer. Frank mi mise alla prova un paio di volte per assicurarsi che il cellulare fosse acceso, fino a quando gli dissi che se non la smetteva di farmi saltare sulla sedia a ogni squillo avrei infilato quel coso tra due presse. Riuscii a convincerlo. Provai a telefonare a Newly alle undici e mezzo di notte: nessuna risposta. La redazione era vuota e tranquilla. Stavo per stancarmi di tutta quella tranquillità quando mio cugino Travis mi telefonò, alle 11 e 55. «Sali sul tetto», ordinò. «Cosa?» «Stiamo venendo a farti visita», annunciò con voce disturbata da un forte rumore di sottofondo. «Chi mi viene a trovare?» «Io e Stinger.» «Bene. Quando?» «Adesso.» «Adesso? Che razza di scherzo è questo, Travis?» «Sali sul tetto dell'Express. Saremo da quelle parti tra dieci minuti.» «Sei impazzito?» «No, ho detto a Stinger che dovevi lavorare di notte al giornale e che non sembravi entusiasta della cosa, e così abbiamo deciso di farti una sorpresa. Lui dice che c'è una pista d'atterraggio sul tetto dell'edificio.» «C'è, ma...» «Chi lo verrà a sapere?» domandò anticipando la mia obiezione.
«Ogni tanto uno dei ragazzi dei computer va lassù a fumare.» «È il tipo che lo andrebbe a dire in giro?» «No», ammisi. «Allora sbrigati. Siamo quasi arrivati.» Nel caso Wrigley avesse chiamato per controllarmi impostai il telefono sulla scrivania in modo che dirottasse le telefonate sul cellulare. Mi avviai per le scale che portano al tetto e aprii la porta su cui era scritto ACCESSO AL TETTO. In realtà dava su un'altra rampa di scale. Quando aprii l'ultima porta e uscii sul tetto rimasi un istante a godermi il panorama. L'aria della notte era fresca, ma non gelida. La delicata brezza marina aveva soffiato via tutti gli odori della città. Sentivo solo qualche rumore: i suoni ovattati del traffico, il ronzio dei trasformatori e dei macchinali che si trovavano lì, il tintinnio dei cavi lungo le aste delle bandiere, lo sventolio delle bandiere stesse (quella americana e quella con l'orso della California). Sopra a tutto riuscivo a sentire anche il pulsare lontano di un elicottero. Mi sporsi dal bordo; osservai i doccioni e altri ornamenti che da piccola mi incutevano un certo timore ma ai quali ora ero affezionata. Ricordavo ancora la prima volta che mio padre mi aveva detto che in quel posto si facevano i giornali. Il Las Piernas News Express, che si stagliava sulla nostra strada tutte le mattine. Un grande giornale doveva essere scritto in un grande edificio. Mi avvicinai al parapetto e passai le dita sui mattoni fuligginosi ricordando la mia venerazione infantile. Guarda adesso dove sei finita, vecchia mia. Osservai la facciata piatta e inespressiva del grattacielo vicino, una lastra scura e insignificante, interrotta solo da qualche luce accesa. Lo Scatolone, lo chiamavo a volte. Lo Scatolone aveva avuto altri nomi, così tanti che il logo e l'insegna dovevano essere sostituiti molto spesso. Nonostante fosse nuovo e scintillante, le stanze non erano mai affollate. Adesso anche qualche stanza del Wrigley era vuota, ma noi eravamo lì da molto prima. Accarezzai ancora i mattoni. Mi pulii la punta delle dita e cominciai a camminare. Anche se gli edifici nuovi e più alti la rendevano meno spettacolare di un tempo, la vista che si godeva dal tetto del Wrigley Building era ancora mozzafiato. Non mi trovavo nel punto più alto dell'edificio. Sul tetto vi erano varie strutture, alcune molto alte, raggruppate sul lato vicino alle scale. Una serie di stretti passaggi dividevano le costruzioni in cui erano ospitati gli im-
pianti di condizionamento e attrezzature varie, i blocchi su cui erano montate le parabole satellitari e altre ancora. Le aste delle bandiere e un sottile parafulmine erano fissati sulla struttura più alta. Lo spazio sottostante era utilizzato come magazzino. Nonostante questi ostacoli era possibile camminare lungo tutto il perimetro e vedere a una certa distanza. Ma quella notte non avrei avuto tempo di fare il giro completo: sentivo l'elicottero che si stava avvicinando. Mi affrettai per raggiungere il lato opposto dell'edificio e mi fermai vicino a un'area la cui superficie era coperta da segni. Era la pista di atterraggio. Il grande Sikorsky era in vista. Il suo rumore copriva ogni altro suono, e un fascio di luce si estendeva al di sotto del velivolo che, con la sua lenta discesa, sollevò un'enorme nuvola di polvere e sporcizia. Sorridevo, compiaciuta per l'abilità di Travis. Chissà cosa avrebbe pensato la mia timida zia di quell'arrivo quanto mai bizzarro. Salutai e aspettai che spegnessero i motori e uscissero dalla cabina di pilotaggio. «Eri tu alla guida?» domandai a Travis dopo esserci salutati e abbracciati. Conoscevo già la risposta. «Certo! È il mio primo atterraggio notturno sul tetto di un edificio.» «Il primo?» Gli feci eco tentando di nascondere il nervosismo. «Sei stato bravo.» «Mi spiace per la polvere», intervenne Stinger allungandomi la mano. «Dev'essere da un po' che non atterra nessuno.» «Sì. L'Express aveva i suoi elicotteri prima dei tagli alle spese. Adesso ha un contratto con una compagnia privata. Vengono qui a prendere giornalisti e fotografi e li portano dov'è necessario. Con gli elicotteri di proprietà era meglio. Potevamo rispondere più in fretta ed essere sul posto senza dipendere dai piloti a contratto. Adesso siamo un po' più lenti. D'altra parte nella maggior parte dei casi Wrigley ci fa andare in macchina.» «Merda», commentò Stinger indicando il grosso Sikorsky, «con questo arrivereste da qualsiasi parte un casino più in fretta che in macchina, specialmente considerando le autostrade di Los Angeles.» «Peccato che devi lavorare», interruppe Travis. «Mi piacerebbe portarti a fare un giro.» «Fantastico», risposi. «Dobbiamo organizzarci per farlo al più presto. Ma come avete potuto chiamarmi dall'elicottero?» «Pappy, l'addetto di terra di Stinger, è in contatto radio con noi mentre voliamo. Trasferisce le telefonate dalla Fremont Enterprises e viceversa.
La maggior parte delle chiamate sono della ragazza di Stinger...» «Basta così, piccoletto», lo interruppe Stinger, nonostante Travis fosse una spanna più alto di lui. «È ora di ripartire. Anche Irene dovrà tornare al lavoro.» «Ma siete appena arrivati!» protestai. «Per questa notte ci fermiamo a Las Piernas», disse Travis. «Jack ha detto che ci può ospitare. Voleremo un altro po' in notturna e poi ci fermeremo all'aeroporto.» «Se vuoi c'è posto anche a casa mia», proposi. «Hai bisogno del furgone?» «Forse potrebbe servirmi domattina. Ho intenzione di fare un'offerta per una casa non lontana dalla tua.» Ero contenta per la notizia, e parlai ancora un po' con lui dei suoi progetti per il futuro. Quando mi voltai vidi che Stinger mi stava studiando con la testa leggermente inclinata. «Quando fai il prossimo turno di notte?» «Giovedì.» «Allora ci vediamo giovedì. Stessa ora, stesso canale.» Risi. «Fai fare un po' di pratica a Travis?» «Mettiamola così», rispose. «D'accordo. Perché no?» «Ora che mi viene in mente», disse grattandosi il mento, «dammi un attimo il tuo cellulare.» Glielo allungai e lui introdusse un numero. Me lo restituì e mi spiegò come recuperare il numero che aveva registrato sotto il nome «Stinger@FE». «Sta per 'Stinger presso Fremont Enterprises'. Pappy ti metterà in contatto con noi. Se per caso c'è il tuo capo in giro o se per qualche inconveniente non possiamo atterrare dammi un colpo di telefono. Altrimenti ci vediamo giovedì.» Ripartirono. Tornai verso la scala d'accesso di ottimo umore. Camminavo lentamente e pensavo che, pur di rimanere al giornale, avrei potuto superare gli ostacoli che un vecchiaccio come Wrigley poteva mettere sul mio cammino. Altrimenti sarei finita a lavorare in un edificio simile allo Scatolone. Stavo per raggiungere proprio l'angolo del tetto da cui era visibile lo Scatolone. Mi fermai. C'era qualcosa di strano in una delle finestre, più o meno alla stessa altezza a cui mi trovavo io: una luce in quell'ufficio era accesa, ma non era sufficiente per lavorare... e si muoveva.
I neon del soffitto non si muovono. Forse era una torcia. Stavo assistendo a una rapina? Non avevo ancora girato l'angolo oltre il quale sarei entrata nella visuale dell'edificio. Rimasi nell'ombra e presi il cellulare. La luce si spense. Io rimasi dov'ero, con gli occhi fissi sulla finestra. Vidi una sagoma indistinta avvicinarsi alla finestra. Riuscivo a distinguerne appena il profilo. Nick Parrish? O era solo la mia immaginazione? Non potevo esserne certa. Ma non mi aspettavo la luce della torcia. Nascosta nell'ombra chiamai la polizia. 49 MERCOLEDÌ 20 SETTEMBRE, ORE 00.15 Tetto del Wrigley Building Subito dopo chiamai casa. «Irene, va tutto bene?» «Sì. Stavi dormendo?» «No, ti aspetto sveglio.» «Ti ricordi che mi hai detto di avvertirti se pensavo di aver visto Parrish?» «Sì. E dov'è?» Gli dissi che avevo appena chiamato la polizia per una possibile rapina nel palazzo di fronte e gli spiegai rapidamente anche il motivo per cui mi trovavo sul tetto. «Forse avrei dovuto parlare anche di Parrish. Non voglio che siano impreparati, se si tratta davvero di lui.» «Torna dentro e cerca Jerry o Livy o chiunque stia lavorando lì. Promettimi di restare con loro finché non arrivo. E avvisa la guardia all'ingresso.» Decisi di ubbidirgli e cominciai a scendere. Alla seconda rampa di scale sentii dei passi. Mi fermai ad ascoltare. Udii una porta che si chiudeva dietro di me. Le ringhiere di metallo vibravano, come del resto tutto l'edificio quando le rotative erano all'opera. Il rimbombo sale dai sotterranei e arriva fino in alto. Non è un rumore forte, ma continuo. Però, ora, la mano tremava con un ritmo diverso. Presi di nuovo il telefono per chiamare le guardie. Ogni tasto che premevo emetteva un suono acuto che sembrava quello di una banda di ottoni. Aspettai, ma non successe nulla. Guardai il display: non c'era segnale. Le scale non dovevano essere il posto adatto.
Attesi. Mi sembrò di udire un altro rumore dietro di me. Forse erano Jerry o Livy che si spostavano da un piano all'altro per sistemare i computer. Rimasi immobile. Dopo tre minuti che mi sembrarono un'eternità, durante i quali non sentii più nulla, scesi con calma e raggiunsi una porta: chiusa. Ero frustrata, ma non sorpresa. Anche in ascensore si poteva arrivare a quei livelli, ma solo se si possedeva una chiave speciale, e le porte delle scale si aprivano solo dall'altro lato. Non udii altri rumori e decisi di rischiare il tutto per tutto. Ormai snervata, scesi le scale di corsa. Stavo girando sull'ultima rampa che dava sul pianerottolo della redazione quando si spalancò una porta e ne uscì un uomo vestito di nero con una pistola puntata contro di me. Mi fermai, sollevai le braccia e cercai di dire qualcosa. Aprivo e chiudevo la bocca come un pesce, ma non ne usciva alcun suono. Fu la guardia a parlare per prima. «Mio Dio, Kelly!» urlò abbassando la pistola all'altezza delle ginocchia. «Mi ha spaventato a morte!» «Metta via quella pistola, per cortesia», ansimai mentre cercavo di ricordare come si chiamava. «È lei che sta spaventando a morte me.» Era un ragazzino, ma aveva la pistola. Geoff, la guardia del turno di giorno, aveva circa ottant'anni (alcuni giuravano anche di più) e non aveva mai portato un'arma. Non so con chi mi sarei sentita più sicura. La rimise nella fondina. «Suo marito mi ha chiamato. Ha detto che lei gli aveva telefonato dal tetto, ma quando ha tentato di richiamarla sul cellulare non ha avuto risposta: c'era la segreteria. Ha provato anche il numero dell'ufficio, ma rispondeva di nuovo il cellulare.» «E questo giustifica un'irruzione armata?» «Oh, be'... se è per questo poco prima di parlare con suo marito ho intercettato una chiamata della polizia. Sospettano che Parrish sia nell'edificio di fronte. Ho pensato che la stesse cercando ed ero pronto all'evenienza.» Parlava con grande tranquillità. Era chiaro che non si rendeva conto che avrei potuto essere il bersaglio del proiettile che aveva in canna. Mi tese la mano, sorridente, per aiutarmi a scendere gli ultimi gradini. Lasciai che mi accompagnasse in redazione, dove mi abbandonai sulla seggiola più vicina. Prese la radio e comunicò: «Unità Uno a rapporto». Non ebbe risposta. Costernato, ritentò. «Unità Uno a centrale. Jerry, sei lì?» «Leonard?» arrivò la risposta. «Stai chiamando il banco dell'accettazio-
ne, cos'è questa stronzata di 'Unità Uno a centrale'?» Leonard. Come avevo potuto dimenticare il suo nome? «Non dire parolacce sul canale radio della sicurezza, Jerry. È vietatissimo dal regolamento.» La guardia roteò gli occhi e spense la radio. «È meglio che torni giù», mi disse. «Va tutto bene? Vuole che le porti un bicchiere d'acqua o qualcos'altro?» Si precipitò verso il distributore dell'acqua prima che potessi rispondergli. Il nostro Leonard era un uomo d'azione, e cominciava a piacermi. «Ho una bottiglia già aperta sulla scrivania», risposi, e lui cambiò rapidamente direzione per recuperarla. «Dovrebbe chiamare suo marito e avvisarlo che va tutto bene», suggerì allungandomi la bottiglia. «Certo.» «Lavora nella squadra omicidi, vero?» «Sì.» «Hmm, lo porti a fare un giro da queste parti. Mi piacerebbe conoscerlo. A proposito... ha fatto proprio bene a lanciare quel monitor, ma cerchi di non buttare all'aria niente durante il mio turno.» «Ci proverò.» Dopo accurate ricerche nell'edificio di fronte si scoprì che qualcuno era effettivamente entrato nell'ufficio che avevo indicato, ma sembrava che non mancasse nulla. Nessuna traccia di Parrish. Non fu un compito facile cercarlo in ogni angolo dello Scatolone, ma i poliziotti non sembrarono particolarmente scocciati per lo sforzo inutile. Di sicuro erano meglio addestrati di Leonard e nessuno di loro mi puntò addosso una pistola. Quando tornai al lavoro il giovedì trovai un bigliettino appiccicato sul mio monitor: Kelly, cerca di finire il turno senza chiamare la polizia. John Lo conservai per mostrarlo a Frank la prossima volta che mi avesse chiesto di lasciarlo gironzolare intorno alla mia scrivania. Stinger mantenne la parola e Jerry e Livy mi raggiunsero sul tetto per
assistere all'atterraggio. Rimasero impressionati. Tornarono giù per permettere anche a Leonard di venire a dare un'occhiata. Mentre aspettavamo il giovanotto che Stinger aveva soprannominato «Leonardo cuor di leopardo», gli chiesi di spiegarmi come avevano fatto a sabotare gli elicotteri lassù, sulle montagne. Stinger mi mostrò la valvola di drenaggio. «A che cosa serve?» domandai. «Durante il giorno l'aria umida entra nel serbatoio del carburante. Quando il serbatoio di metallo si raffredda l'acqua contenuta nell'aria si condensa e sgocciola nel carburante. Dato che è più pesante del combustibile, l'acqua si raccoglie sul fondo del serbatoio.» «Se l'acqua resta nel serbatoio», continuò Travis, «e si mescola con il carburante ci possono essere dei problemi. Quando si mette in moto, il motore può funzionare male. Perde colpi.» «Quindi si apre la valvola per far uscire l'acqua dal serbatoio prima di avviare il motore?» «Esatto.» «Se quella notte non fosse piovuto gli uomini della forestale avrebbero sentito l'odore del carburante uscito dai serbatoi.» «Forse sì», rispose Stinger. «Ma non avrebbero potuto farci molto. La persona che ha sabotato gli elicotteri si è portata via le valvole.» «E le guardie forestali non avrebbero potuto riempire i serbatoi senza i pezzi di ricambio.» «Proprio così. La polizia e gli uomini della forestale hanno usato dei metal detector per trovare le valvole, ma chiunque abbia sabotato gli elicotteri se le è tenute come souvenir.» «Possono stare in una tasca?» chiesi. «Sì, sono abbastanza piccole. Se troviamo chi ha quelle valvole abbiamo anche trovato l'aiutante di Parrish.» Leonard era entusiasta dell'incontro con Travis e Stinger. «Aspettate qui. Aspettate un attimo!» Corse verso uno degli edifici costruiti sul tetto. Qualche istante più tardi la pista fu illuminata da una serie di luci. Ritornò indietro tirandosi su i pantaloni. «Farò vedere a Irene dove si trova l'interruttore, così la prossima volta potrete atterrare in grande stile.» Lo ringraziarono e si trattennero ancora per alcuni minuti. Prima del decollo Leonard chiese a Travis: «Quanti anni hai?» Alla risposta spalancò gli occhi ed esclamò: «Fantastico! Non ne hai molti più di me».
Rimase a guardare il velivolo che si allontanava. «Stai pensando di lasciare la polizia?» domandai. «Niente affatto. Potrei lavorare sugli elicotteri della stradale.» Guardò oltre il tetto. «Hanno detto che torneranno domani. Le sistemerò un posticino quassù.» Sorrise. «Jerry viene sempre a fumare e noi faremo la sezione per non fumatori.» Mi fece vedere dove si trovavano le luci della pista d'atterraggio e tornammo insieme verso la porta d'accesso. Guardai lo Scatolone. La finestra dietro la quale avevo visto il ladro era buia. «È un vero peccato che non l'abbiano preso.» «Il ladro?» «Parrish», corresse. «Magari non era lui.» «Era lui», affermò in tono autoritario. «Ma non si preoccupi, non lo lascerò entrare nel Wrigley Building.» Stava parlando il ragazzino che per poco non mi sparava. Comunque lo ringraziai, e lo ringraziai ancora una volta quando mi consentì di entrare in uno dei piani alti per prendere l'ascensore. Mi lasciò usare l'ascensore anche il giorno successivo, per tornare sul tetto. Gonfio di orgoglio mi accompagnò al «Caffè Kelly», quattro sedie di plastica intorno a un tavolino preso a prestito dalla caffetteria dell'edificio. «Non si preoccupi: ho chiesto il permesso», disse. «Erano in un magazzino dietro la cucina. Sono stati contenti che le portassi via.» Aveva anche comprato un frigorifero portatile. Lo aprì per mostrarmi una confezione da sei bottiglie di acqua minerale. «Ecco. Ho anche notato la marca che compra di solito. Sono un bravo osservatore.» «Sei davvero gentile, Leonard, ma non dovevi fare tutto questo...» «Mi è simpatica, e mi piace aiutare la gente. Forse un giorno metterà una buona parola per me o magari farà venire qualcuno da queste parti per conoscermi.» Sorrisi. «Mi stai corrompendo per farti incontrare Frank.» Protestò con forza finché non lo rassicurai che stavo solo scherzando. Poiché sembrava ancora offeso mi sedetti con gesto enfatico su una delle sue sedie e aprii una bottiglia complimentandomi per quanto fosse piacevole potersi sedere. Sembrava contento, e recuperò il buonumore. Sentì arrivare l'elicottero. Andò ad accendere le luci della pista d'atterraggio e restò a guardare estasiato il velivolo che atterrava coprendo di polvere il Caf-
fè Kelly. In seguito chiese almeno una decina di volte a Travis se le luci erano state utili per far scendere «quel giocattolo». La radio sfrigolò e Leonard fece cadere una seggiola nel goffo tentativo di alzarsi per rispondere. «Unità Uno.» «Unità Uno, qui centrale», disse la voce di Jerry. «Hai intenzione di lasciarmi venire lassù? Sto morendo dalla voglia di farmi una sigaretta.» «Dovresti smettere di fumare», rispose, poi si scusò e se ne andò. Conversai un po' con Stinger e Travis e venni a sapere che mio cugino aveva deciso di comprare la casa che era andato a vedere. Mi disse anche che aveva intenzione di far conoscere a Stinger la nostra prozia ottantenne, Mary Kelly. «Vuole che ci fermiamo da lei qualche giorno.» «Penso che andrai d'accordo con Mary», dissi a Stinger. «Travis dice che è molto in gamba», grugnì. «Sì. Non se ne pentirà, signor Dalton.» «Mi ha già chiesto dell'elicottero», disse Travis. «Vuole fare un giro?» «Sì. A dire la verità ha detto che vuole pilotarlo.» «Che Dio ci assista!» Jerry salì per fumare la sua sigaretta; poco dopo Travis e Stinger partirono. Si alzarono spandendo una luce chiara sul tetto. Rimasero sospesi a osservarmi mentre mi avvicinavo alla porta, per assicurarsi che entrassi senza problemi e fossi al sicuro. Li salutai e mi diressi verso la redazione. Le loro visite mi rendevano molto più sopportabile il turno di notte, per quanto il loro sistema potesse essere considerato poco ortodosso. Mi aiutavano a sopravvivere alla punizione che Wrigley mi aveva inflitto, e potevo anche sbeffeggiarlo in segreto. Se Travis si sentiva più sicuro e voleva tenermi sotto controllo in questo modo, per me andava bene. La verità era che mi sentivo meno vulnerabile. Ora parcheggiavo vicino all'edificio, e Jerry, di sua iniziativa, mi scortava da e verso il furgone. Ma queste precauzioni stavano ormai diventando una routine. Ogni volta che passavo davanti allo Scatolone mi convincevo sempre più che si era trattato di un comune ladro, non di Parrish. A quell'ora della notte la strada era abbastanza sgombra, ma, come anche gli uffici della redazione, fin troppo buia e tranquilla. Quella notte aveva cominciato a salire la nebbia, e mentre procedevo lungo strade buie e vuote mi venne da pensare a quei film di fantascienza in cui il protagonista è l'unico sopravvissuto dopo l'esplosione di una bomba ai neuroni o l'attac-
co degli alieni. La città è tutta sua, ma non ha nessuno con cui condividere il piacere. Io però avevo qualcuno con cui condividerlo. Potevo chiamare Frank, ma se avessi fatto squillare il telefono si sarebbe preso un bello spavento. Avrebbe pensato che ero nei guai, così preferii aspettare. Dopotutto ero a dieci minuti da casa. Dal retro del furgone proveniva un leggero tonfo intermittente. Forse la polizia aveva danneggiato qualcosa nel trasporto al deposito. Non riuscivo a capire esattamente da dove provenisse e quale potesse esserne la causa. Accesi la radio. Era sintonizzata su un talk show e rimasi ad ascoltare un terapeuta che sgridava un ascoltatore, il quale accettava tutto con stoico masochismo. Apprezzai i metodi di Jo Robinson. Passai a una stazione jazz. Imboccai il vialetto di casa con un sospiro di sollievo, spensi la radio e recuperai il cellulare dal caricabatteria. Mi accorsi solo in quel momento che il display diceva che avevo messaggi in segreteria. Merda! Avrei dovuto guardarci prima. Premetti il pulsante per recuperare il messaggio. Forse Wrigley aveva chiamato per controllarmi. C'erano due messaggi. Non prometteva niente di buono. «Primo messaggio», disse la voce automatica della segreteria. «Ricevuto alle ore zero e undici minuti.» Non era Wrigley, ma John con delle buone notizie. Il messaggio diceva che Wrigley aveva acconsentito a cambiarmi gli orari di lavoro: turno di notte dal lunedì al venerdì. Avrei lavorato ancora part-time, ma non avrei dovuto alzarmi dal letto il sabato mattina dopo sole tre ore di sonno. I weekend erano liberi. Restai ad ascoltare la voce suadente della segreteria che diceva: «Per riascoltare il messaggio, premere uno; per cancellare il messaggio, premere due; per archiviare il messaggio...» Premetti il tasto due. «Secondo messaggio. Ricevuto alle ore zero e sedici minuti.» Pensavo fosse John che riprovava, e non ero preparata a sentire ciò che in realtà sentii. La voce di Parrish. «È da tanto che non parliamo, mia cara. Mi sei mancata, ma siamo stati molto impegnati entrambi, vero? Dimmi, il tuo telefono è cellulare o digitale? Ho un messaggio digitale per te...» Fece una risata sommessa. «Non ti sei riguardata molto, ultimamente. Sembri stanca. Forse non dormi abba-
stanza. Devi stare attenta... o ti consumerai fino all'osso.» Altra risata. Aprii la portiera e mi diressi barcollando verso la porta di casa. «Anche se chiudi tutte le porte come fanno le brave ragazze, voglio che tu sappia che nessuna serratura mi può fermare. Ti ho lasciato un regalino... deperibile, nel furgone.» Mi girai verso il furgone e chiamai Frank. «A Ben Sheridan piacerà di sicuro», continuò Parrish. «Digli che sono stato io, e digli anche che farò in modo che tu non sia più alla sua portata.» Si sentì uno scatto, e dopo una breve pausa la voce registrata cominciò: «Per riascoltare il messaggio, premere uno; per cancellare il messaggio, premere due; per archiviare il messaggio...» Ma in quel momento non riuscivo a sentire voci piacevoli. Buttai il telefono sul prato come se fosse stato un serpente e corsi ad aprire la porta scorrevole del furgone. Frank si precipitò fuori seguito da Deke e Dunk. «Irene?» mi chiamò preoccupato. «C'è qualcosa che non va?» Gli indicai il telefono ed entrai nel furgone. «Irene, non farlo!» urlò mentre aprivo il frigorifero. Troppo tardi. La luce del piccolo vano color acquamarina si accese. Un teschio umano sembrava fissarmi attonito. 50 SABATO 23 SETTEMBRE, ORE 2.45 Las Piernas Ci ho provato, ma ancora adesso non riesco a ricordare cosa accadde nei minuti immediatamente successivi al ritrovamento. Rammento che a un certo punto Frank mi afferrò con forza per le spalle. Urlava spaventato, terrorizzato all'idea che la provocazione di Parrish potesse nascondere una trappola. Aveva ragione: non avrei dovuto toccare il frigorifero. Risposi alle sue urla con calma: «Pensavo che gli avesse tagliato solo le dita delle mani e dei piedi. Non credevo che l'avesse decapitata». «Non l'ha decapitata. Altrimenti non avremmo potuto sapere di che colore aveva occhi e capelli.» Incapace di reggermi in piedi mi andai a sedere sui gradini della veran-
da. Chiuse la porta del furgone e si sedette accanto a me. Mi abbracciò e chiamò la polizia. Cody, il gatto, uscì e mi si accovacciò in grembo. Deke e Dunk si sdraiarono ai nostri piedi. L'arrivo degli investigatori e della scientifica mi fece uscire dal torpore, e quando se ne andarono ero tornata completamente in me. Avevo detto loro tutto ciò che sapevo: probabilmente Parrish aveva chiamato l'ufficio e la telefonata era stata trasferita sul cellulare; il furgone era chiuso a chiave; nel parcheggio dell'Express c'erano le telecamere di sicurezza, ma tutti sapevano che non erano sufficienti. La polizia chiamò il giornale e venne a sapere che tre settimane prima Leonard aveva comunicato che le telecamere del parcheggio erano state danneggiate. La risposta di Wrigley era stata di affiggere un grande cartello che diceva PARCHEGGIO NON CUSTODITO. LA PROPRIETÀ NON SI ASSUME ALCUNA RESPONSABILITÀ PER EVENTUALI FURTI O DANNI A VEICOLI. Per non parlare dei contenuti, pensai. La mattina seguente - tecnicamente la mattina stessa, ma dopo alcune ore di sonno - eravamo piuttosto imbarazzati. Frank per aver perso il controllo e io per aver perso la lucidità mentale. Non ci separammo mai se non per brevissimi istanti. A poco a poco cominciai a sentirmi un po' più sicura e rilassata e riuscimmo a parlare. Verso la fine della giornata ristabilimmo un certo equilibrio. «Vorrei tanto che Rachel fosse in città», disse verso sera. Non desiderava un'altra donna: voleva solo assoldare una guardia del corpo. Si trattava della moglie del suo partner: era uscita dalla squadra omicidi ed era in grado di difendersi da chiunque, ma il suo nuovo lavoro come investigatrice privata la portava spesso lontano. Un'auotopattuglia della polizia era parcheggiata di fronte a casa, ma Frank non era preoccupato solo per la mia sicurezza. «Non voglio che possa spaventarti», mi disse. «E voglio che ci sia sempre qualcuno con te.» Non obiettai, e sicuramente la cosa lo preoccupò. La domenica mattina mi svegliai mentre si stava vestendo. «Scusa. Non volevo svegliarti. Sono di servizio, ma fra poco arriverà Ben con il cane.» Gli dissi che mi avrebbe fatto piacere passare un po' di tempo con Ben e Bingle. Pensavo che fosse la verità, ma verso l'ora di pranzo ero già pronta a te-
nermi Bingle e cacciare il padrone in malomodo. Verso l'una mi azzardai a chiedergli se si stava occupando lui dell'identificazione del cranio. «Sì», rispose brusco. «E no, non so a chi appartenga. Preferirei non fare ipotesi, soprattutto davanti a una giornalista.» «Va' a casa», gli dissi. «Cosa?» «Va' a casa. Sto cercando in tutti i modi di mantenere la calma e tu continui a farmi osservazioni. Sarai già arrivato a una ventina, e non ne vedo la fine. Sembra che ti vengano bene, ma è meglio se ti togli dai piedi.» Mi guardò corrucciato. «Scusami se ti ho offesa.» «Grazie mille. Sembravi quasi sincero. Arrivederci.» «Non me ne vado.» «E invece sì che te ne vai.» «No. Non essere infantile.» «Vattene subito da qui!» «Se fosse per te me ne andrei subito, ma ho promesso a Frank che ti sarei rimasto accanto.» «Se non te ne vai immediatamente di qui non dovrai più preoccuparti che Parrish possa uccidermi, perché prima che finisca la giornata mi suiciderò!» «Hai detto una cosa terribile.» «Hai ragione. E accetto il commento come elogio da parte del 'Gran maestro delle frasi orribili'! Scusami, ma devo prenderne nota nel 'Diario delle cose orribili di Ben Sheridan' che riporrò nella 'Stanza dello scrigno dei tributi a Ben Sheridan'. Torno subito. Forse.» Mi precipitai in bagno e sbattei forte la porta. La chiusi a chiave e mi girai. Un giorno, quando sarò ricca, mi costruirò una casa con un bagno dove poter sbollire la rabbia con ogni comfort. Ma non ero ancora ricca. Dovunque guardassi vedevo solo le modifiche fatte per rendere possibile il soggiorno a Ben. Mi prudevano le mani dalla voglia di spaccare tutto. Aprii un armadietto in cerca di qualcosa da poter rompere senza dovermi pentire in seguito. Niente. Nessun monitor di computer. Mi sedetti sul bordo della vasca con la testa fra le mani. Lo sentii camminare lungo il corridoio. Aveva un'andatura strana, come se appoggiasse il peso quasi solo sulla gamba destra. Abbandonai quel pensiero quando si attaccò alla maniglia della porta nel tentativo di aprirla. «Non provare a entrare qui dentro!» urlai.
«Esci subito, allora.» Presi un asciugamano, me lo premetti sulla bocca e urlai. «Stai urlando in un asciugamano?» Mi sembrò quasi divertente. Quasi. «Apri la porta.» Non risposi. «Va tutto bene?» «Non domandarmi se va tutto bene... falso, bastardo! So benissimo che non te ne frega un cazzo e sono stufa di mangiarmi la tua merda. Sono stufa di tutto!» Lo sentii allontanarsi e poi tornare. Zoppicava. Sentii un colpo forte, e il pannello centrale della porta si squarciò sotto il colpo del manico della grossa torcia di Frank. I tre cani abbaiavano. La mano di Ben si introdusse attraverso il buco e girò la chiave. Restai a osservare allibita. «Perché diavolo hai fatto una cosa del genere?» gli domandai mentre entrava in bagno. «Volevo chiederti scusa.» Sulle prime ne fui infastidita, poi cominciai a ridere. Anche lui si mise a ridere. Stavo quasi per cadere nella vasca. Suonò il campanello. Andai ad aprire asciugandomi le lacrime dal viso. Era uno dei poliziotti. «Signora Harriman», disse guardando prima dietro le mie spalle, «abbiamo sentito un rumore... e i cani. Va tutto bene?» «Sì», risposi cercando di rimanere composta. «Sono stato io a provocare quel rumore», intervenne Ben. «Ho rotto una porta.» «Sono rimasta chiusa in bagno e non riuscivo più a venir fuori», aggiunsi in fretta. «Il dottor Sheridan, per liberarmi, è stato costretto ad abbattere l'uscio.» «Oh», disse il poliziotto, e, dopo aver lanciato un'occhiata a Ben, ci lasciò. Raccogliemmo le schegge di legno. Stavamo applicando della carta da pacchi marrone sul buco della porta quando mi resi conto che Ben barcollava e si strofinava la gamba. «Ben, riposati un po'.» Mi aspettavo una discussione, ma si diresse verso il divano. Quando tor-
nai in soggiorno lo vidi molto pallido. «Ieri ho esagerato», ammise. «Ultimamente il dolore all'arto fantasma è piuttosto insistente.» «Hai cercato di stare al passo con il gruppo SAR di Bingle?» Annuì. «Sarebbe andato tutto bene, credo. Ma quando sono tornato a casa mi hanno chiamato per dirmi del cranio e così sono andato in laboratorio. Ho passato troppo tempo in piedi.» «Perché tieni quell'aggeggio, allora? Toglilo.» «Non ti sarei di grande aiuto.» «Hai ragione. E poi mi diverto di più a guardarti patire le pene dell'inferno.» Sorrise. «Un altro capitolo per il diario dell'orribile Ben.» «La porta del bagno sarebbe ancora intatta se tu avessi avuto il buon gusto di ammettere che il dolore ti stava facendo impazzire. Dammi le chiavi della macchina che vado a prenderti la sedia a rotelle.» «Hai ancora un paio di stampelle, vero?» «Sì.» «Quelle andranno bene», disse piegandosi per sganciare la protesi. La protesi era formata essenzialmente da due parti: una calotta di aggancio e il piede. Era attaccata al moncherino per suzione, e il punto di giuntura con la pelle era ricoperto da un manicotto. Un lungo perno di metallo si estendeva dalla calotta di aggancio fino a un innesto che a sua volta si attaccava al piede con un sistema di chiusura. Premendo un pulsantino su quest'ultimo era possibile sganciare tutto tranne la calotta di aggancio e il manicotto, che non potevano essere sfilati bensì dovevano essere svitati con molta cura. Mentre era impegnato in quelle operazioni andai a prendere le stampelle. Gli portai anche del ghiaccio, poi mi occupai della zuppa dei cani. Frank rientrò. Sembrava divertito, e mi salutò dicendo che al dipartimento si era sparsa la voce che avevo messo in allarme la pattuglia di sorveglianza rimanendo chiusa in bagno. Ben sembrava così mortificato che preferii aspettare che fossimo soli per raccontargli come erano andate realmente le cose. Invitammo Jack e Ben a cena. Subito dopo Ben riguadagnò il divano e rimise il ghiaccio sulla gamba. Restammo per un po' in silenzio. Cody mi si sistemò in grembo. Deke e Dunk facevano avanti e indietro tra Frank e Jack, mentre Bingle impediva loro di avvicinarsi a Ben, che lo accarezzava con gli occhi semichiusi.
«Raccontami come va a finire Parsifal.» «Jack è sicuramente un narratore migliore di me», risposi. «No, racconta tu», insistette Jack. «L'hai letto più di recente.» Così raccontai di Parsifal che va sulla Montagna Selvaggia e nota che il Re Pescatore sta male ma, essendo stato avvertito dal suo mentore di evitare le domande e di cercare di non dimostrarsi troppo curioso, non si informa sulla salute del re. Descrissi la grande festa nel salone sulla Montagna Selvaggia durante la quale viene mostrato il Sacro Graal. Parsifal nota che tutti lo guardano come in attesa di qualcosa, ed è sopraffatto dalla curiosità, ma, memore dei consigli del mentore, non fa domande. Il giorno seguente, dopo una notte di sogni agitati, si sveglia e si trova solo. Pensando che il suo ospite sia stato davvero scortese a lasciarlo lì senza neppure un servitore che lo aiuti a vestirsi, indossa l'armatura e si reca nella corte dove trova il destriero sellato e la lancia. Infuriato, monta in sella e si dirige verso il ponte levatoio. Ma quando sta per arrivare in fondo qualcuno dà uno strattone alle corde e Parsifal rischia di cadere nel fossato. Si guarda indietro e vede un paggio che urla contro di lui, lo chiama pazzo. «Perché non hai fatto la domanda?» grida il giovane alzando un pugno contro il cavaliere. «Quale domanda?» chiede Parsifal. Ma il ragazzo chiude la saracinesca e il cavaliere non può far altro che lasciare il castello. «Qual era la domanda?» indagò Ben. «Parsifal deve superare molte prove, prima di capire cosa avrebbe dovuto chiedere», spiegai. «Un'antica profezia diceva che solo una persona avrebbe potuto rompere l'incantesimo della Montagna Selvaggia, un cavaliere che avrebbe posto termine alle sofferenze del Re Pescatore chiedendogli semplicemente: 'Cos'hai?' Ma Parsifal aveva sprecato la sua occasione.» «Non ne ha un'altra?» domandò Frank. «Sì, ma non è facile. Parsifal si vergogna molto e perde completamente la fiducia in se stesso e in Dio. Alla fine la riconquista; incontra di nuovo il Re Pescatore e gli domanda 'Cos'hai?'. Il re guarisce e tutti vissero felici e contenti.» «Grazie a Dio Travis non è qui», commentò Jack scocciato. «Perché?»
«Non vorrei che avesse un'idea del genere, di quella storia. Hai tagliato la parte più importante», mugugnò. Ben sbadigliò. «Non metterla in difficoltà. A me è piaciuta, e così ho un motivo in più per leggermela. Grazie, Irene.» Jack augurò a tutti la buonanotte; anche Ben e Bingle se ne andarono. Io e Frank restammo svegli ancora un po'. Parlammo e rimanemmo in silenzio, ripensando alla poesia medievale. Si addormentò prima di me. Il giorno dopo era lunedì e sarebbe dovuto uscire la mattina presto. Decisi che avrei tentato ancora una volta di mettermi in contatto con Phil Newly e Jim Houghton. Che avessi un progetto o meno, sarebbe pur sempre stato lunedì. Mi misi a canticchiare la canzone che avevo sentito a casa di Gillian: I Don't Like Mondays. Quel lunedì sarebbe stato uno dei peggiori della mia vita. 51 LUNEDÌ 25 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas La Falena sapeva del cane. Considerato il lavoro che faceva, era addestrato a dimostrarsi amichevole con le persone, e, anche se ora il suo compito era quello di far la guardia alla casa, la Falena aveva dedicato parecchio tempo a fare amicizia con lui e a studiare gli orati di Ben Sheridan. L'antropologo aveva ripreso a lavorare al college. Teneva lo stesso numero di corsi, ma delegava diversi compiti a Ellen Raice, la sua assistente, che si era dimostrata molto disponibile. Una volta a conoscenza degli orari del professore al college la Falena aveva potuto organizzarsi per passare dalla casa a parlare con il cane. Quando il padrone non c'era l'animale restava solo, perciò gradiva ricevere visite. Scodinzolava ogni volta che la Falena si avvicinava. E quando si introdusse nel garage non abbaiò. Il dottor Sheridan aveva cambiato la serratura della porta sul retro, ma ciò non impediva comunque di forzarla ed entrare. Entrò in casa e cominciò a cercare con attenzione ancora una volta. Fallì di nuovo. Accecata dalla rabbia e dalla frustrazione la Falena passò un braccio su uno scaffale e buttò per terra tutte le videocassette. Questa volta i danni non potevano essere evitati. Prese il piede di porco e guardò con soddisfa-
zione gli oggetti che cadevano dagli scaffali: libri, fotografie. Il momento più eccitante fu sicuramente quello in cui la barra di ferro colpì lo schermo del televisore provocando un'esplosione. Si calmò. Se il cane aveva sentito il rumore, probabilmente l'aveva sentito anche la vicina. L'occhio sempre vigile di quella vecchia, attenta a tutto ciò che accadeva nei dintorni, aveva costretto la Falena a parcheggiare in un'altra strada e a scavalcare alcune recinzioni. Il cane abbaiava. Ebbe paura e si nascose nel bagno. Poco dopo l'animale si calmò. «Cosa direbbe Nicky se mi prendessero?» si domandò a voce alta. Era un pensiero fastidioso, ma non aveva paura. Nicky continuava a ignorare la sua Falena. Ancora in preda alla rabbia, ma questa volta più controllata, aprì l'armadietto dei medicinali e prese gli antidolorifici di Ben Sheridan. Tornò in cucina e si mise a frugare nei mobili alla ricerca del cibo per cani. Lo trovò. Aprì una lattina e ne versò una parte in una ciotola, poi vi sparse sopra il contenuto delle capsule. Ne svuotò una dozzina e mescolò. Richiuse la boccetta e se la mise in tasca, poi si fermò. Non era una cosa intelligente farsi trovare con un oggetto che riportava il nome di Sheridan. Mise in tasca solo le capsule, lasciò il contenitore sul tavolo e uscì. Il cane era attento e studiava la Falena. Sembrava interessato a ciò che gli stava portando. La Falena aprì il cancello del recinto e fece scivolare dentro la ciotola. «Bravo cane.» Lui rimase a osservare e inclinò la testa da un lato. Osservò il cibo, si leccò i baffi ma non lo toccò. Stava forse aspettando un comando? La Falena riaprì il cancello, si avvicinò alla ciotola, raccolse qualche boccone di cibo e glielo mise sotto il naso. L'animale guardò il cibo e lo mangiò con una certa riluttanza dalla mano avvolta nel guanto. In questo modo ci metterà una vita! Il cane del vicino cominciò ad abbaiare, imitato da altri. Le grandi orecchie del pastore tedesco si tesero in avanti. Forse qualcuno si stava avvicinando alla casa. La Falena uscì di corsa dal recinto, scavalcò la staccionata sul retro e scappò attraverso un altro cortile di gente che non aveva cani e non era mai a casa durante il giorno. Arrivò alla macchina e vi si chiuse dentro. Sospirò. Adesso era al sicuro. Partì lanciando uno sguardo nello specchietto retrovisore: nessuno in vi-
sta. Sorrise e sussurrò: «Adiós, Bingle». 52 LUNEDÌ 25 SETTEMBRE, POMERIGGIO Las Piernas Jack aspettò pazientemente nel furgone e nel frattempo fece una lunga telefonata a Stinger Dalton. Questa volta la polizia mi aveva lasciato il furgone, ma si era presa il cellulare. Avevano promesso che me lo avrebbero restituito in serata, dopo aver registrato la telefonata di Parrish. Suonai il campanello di casa di Phil Newly una decina di volte e bussai finché le nocche non mi fecero male: nessuno venne alla porta. Dovevo accettare il fatto che non volesse vedermi o che fosse fuori città, ma qualcosa mi tratteneva dal tornare al furgone. Provavo un'impiegabile sensazione di disagio e paura. Cercai di restringere il campo a qualcosa di più specifico. La casa non era semplicemente tranquilla: sembrava abbandonata. Sotto il portico c'erano alcuni volantini pubblicitari e un blocco per appunti di un agente immobiliare. Il sistema automatico di irrigazione aveva mantenuto verdi e rigogliosi il prato e le aiuole, ma le piante nei vasi sotto il portico erano secche. Mi spostai verso la finestra, ma le veneziane erano abbassate. Ripensai alla mia ultima visita. Newly non aveva cani. Aprii il cancello sul retro e chiamai Phil. Niente. C'erano altre finestre sul retro. Le veneziane erano abbassate anche lì, ma una non era stata chiusa bene. Era quella della stanza dove Phil passava la maggior parte del tempo. Mi avvicinai e guardai dentro. «Cosa stai facendo?» sentii una voce dietro di me. Balzai indietro con il cuore in gola. «Maledizione, Jack. Non farlo mai più!» «Arrivarti alle spalle di soppiatto mentre spii in casa d'altri?» «Esatto.» Guardai ancora una volta l'interno della casa e poi Jack. «C'è qualcosa che non va.» «Che cosa?» domandò. «Guarda dentro. Cosa vedi?» «Solo un paio di sedie, una libreria e un tavolino.» «Alcuni giorni fa su quel tavolo c'erano una pila di libri e una mappa.»
«Quando?» Ci pensai un attimo. «Un paio di settimane fa, se non ricordo male.» «Irene...» «Lui vive in questa stanza. È troppo in ordine. Ci sono anche i segni dell'aspirapolvere sulla moquette.» Jack scosse la testa. «Ci sei venuta una sola volta e pretendi di sapere che non pulisce mai la stanza? Non potrebbe essere venuta una domestica, nelle ultime due settimane?» «Non lo so, Jack. Forse hai ragione. Ma non ti sembra un po' troppo vuota, la casa?» «Magari è andato ancora da sua sorella.» «Forse... e forse sto esagerando.» Ma più ci pensavo e più ero convinta che fosse giusto preoccuparsi di dove fosse Newly, perlomeno finché Parrish era in libertà. Lungo il tragitto verso casa decisi che bisognava fare qualcosa per trovare l'avvocato. «Cosa sospetti?» domandò Jack. «Che sia stato ucciso? Se così fosse, dov'è la posta? Dov'è la pila di giornali?» «I giornali!» Presi il telefono e chiamai l'ufficio spedizioni. Di norma non danno informazioni sugli abbonati, quindi decisi di recitare una parte. «Buongiorno, sono la signora Newly», mi presentai, e fornii l'indirizzo. «Volevo sapere cos'è successo al nostro giornale.» L'addetta mi chiese il numero di telefono. Dopo un attimo di panico recuperai il numero di Phil e glielo dettai. Controllò gli archivi utilizzando il numero di telefono. «Signora Newly, suo marito ha annullato l'abbonamento.» «Davvero?» risposi fingendomi arrabbiata. «E quando?» Mi disse la data: era il giorno dopo la mia ultima visita. «Vuole riattivarlo, signora Newly?» «Mi piacerebbe», risposi, «ma è meglio che ne parli con Phil, prima.» Chiamai Frank. «Sta succedendo qualcosa di strano a Phil Newly.» Gli spiegai cosa avevo scoperto. «Ti ha lasciato il numero di sua sorella?» «Dovrebbe essere da qualche parte...» mi rispose. «Sei preoccupata per lui o hai dei sospetti?» «Entrambe le cose. Immagino che sia difficile ottenere un mandato di perquisizione per la casa di un avvocato difensore, vero?» «Abbastanza», rise. «Vedo se riesco a scoprire qualcosa sulla sorella.» Verso le dieci ricevetti una telefonata inaspettata.
«Irene Kelly?» disse una voce maschile. Mi era familiare, ma non apparteneva a nessuno che avessi sentito di recente. Poi capii. «Jim Houghton?» «Mi stia a sentire: ora sono un privato cittadino e nessuno mi obbliga a parlare con i giornalisti, quindi la prego di smetterla di starmi alle costole. D'accordo? Lei e la sua investigatrice privata.» «Rachel si è messa in contatto con lei?» «Sì, e mi ha detto che se l'avessi chiamata forse mi avrebbe lasciato in pace. Il motivo della mia telefonata è solo questo.» «Aspetti. Io non la cercavo per il giornale.» Ci fu una lunga pausa, poi: «Ah, no? E allora perché?» «Avevo solo bisogno di parlare con le altre persone sopravvissute.» «Be', io non sono una di quelle. Non considererei sopravvissuta una persona che non era nemmeno presente sulla scena, giusto? Io non ero da quelle parti. Me ne sono andato con Phil Newly, ricorda? E così ora sono sano e salvo: e anche lei... e anche Parrish. Arrivederci, signora Kelly. E riferisca ad Harriman che se vuole continuare a vederla viva dovrebbe tenerla chiusa in casa.» Riagganciò. Jack mi vide scuotere la testa. «Cos'è successo?» «La telefonata. Non so cosa pensare.» Gli riferii cosa mi aveva detto. Chiamò Frank e gli disse che ero stata minacciata da un ex poliziotto del dipartimento di Las Piernas. Gli strappai il telefono di mano. «Non è proprio così, Frank.» Pensai che sarebbe stato meglio riferirgli la telefonata parola per parola, ma nemmeno lui fu contento. «Voglio setacciare il passato di quel poliziotto», disse. «E voglio che Rachel mi dica dove l'ha trovato. Lo metterò sotto sorveglianza.» «Ma il dipartimento avrà fatto i dovuti controlli, quando è stato assunto, giusto?» «E con molta attenzione», confermò. «Ma quando Houghton è entrato qui, cinque anni fa, il nome di Nick Parrish era del tutto sconosciuto. Ci potrebbe essere un collegamento che allora nessuno poteva notare.» Al ritorno dal lavoro Ben si fermò da noi. «Ti ricordi le videocassette degli allenamenti di Bingle con il gruppo di ricerca?» domandò. «Sì, quelle che ti ho portato quando eri in ospedale. Le hai lasciate qui...
vuoi che te le vada a prendere?» «Sì, grazie. Quelle che ho a casa le ho guardate talmente tante volte che le posso ripetere a memoria.» Recuperai dal garage la scatola con le cassette. «Come va?» domandai quando tornai dentro. «Bene. Dovresti venire a trovarmi: ho fatto qualche cambiamento. Perché tu e Jack non fate un salto?» Jack era d'accordo, e lo seguimmo. Mi fece piacere vedere che invece di entrare dalla porta di ingresso si diresse verso il cortile posteriore, dove stava Bingle. Gli andammo dietro. Ben si fermò di colpo e quasi gli finii addosso. «Bingle?» disse. Il cane cercò di alzarsi sulle zampe. Barcollò e ricadde in avanti. Si alzò di nuovo, traballante, con sguardo assente. Mugolava piano. «Ehi», disse Jack, «sembra che qualcuno sia entrato di nuovo dal garage.» Ben lo ignorò. Ci precipitammo verso il recinto del cane: il suo padrone lo aprì ed entrò. «Mio Dio, Bingle!» esclamò accarezzando l'animale che si era accasciato a terra. «Stai bene? Va tutto bene, Bingle? Merda, come si dice in spagnolo?» Nel frattempo anch'io e Jack eravamo entrati nel recinto. Sicuramente quell'animale capiva una grande varietà di comandi in spagnolo, ma forse non era ancora in grado di fare conversazione. In ogni caso capii l'ansia di Ben e suggerii: «¿Estás bien, Bingle?» Fece la domanda al cane che rimase immobile. Ben mi guardò preoccupato. Diedi uno sguardo intorno e vidi la ciotola, che conteneva cibo ancora umido. «Non la porti via dopo che ha mangiato?» «Oh, mio Dio! Non ce l'ho messa io, quella roba. Non gli ho ancora dato da mangiare, oggi pomeriggio. Dannazione! Credo... credo che qualcuno l'abbia avvelenato.» «Portiamolo di corsa dal veterinario», dissi. «Prendiamo anche il cibo.» Cercai di guidare il più veloce possibile. Ben era dietro con il cane. Gli parlava, lo coccolava. Quando arrivammo Bingle fu portato immediatamente in una sala visite. Jack chiamò Frank, gli raccontò cos'era successo e accennò anche all'irruzione in casa. «No, non abbiamo avuto nemmeno il tempo di entrare.» Mi lanciò un'occhiata, quindi aggiunse: «Credo che sia una buona idea».
Riattaccò. «Frank manderà una pattuglia a casa di Ben, giusto per controllare che nessun altro entri, ma aspetteranno fuori. Frank farà un salto a casa per verificare che Deke e Dunk stiano bene.» «Sospetta che sia stato Parrish. Certo che è stato lui!» Mi alzai e cominciai a camminare avanti e indietro. «Penso che detesti Bingle. Ha minacciato di sparargli, quando eravamo sulle montagne.» Ben rimase a lungo dentro con Bingle. Mentre aspettavamo, arrivò Frank. «Deke e Dunk stanno bene», mi tranquillizzò. «Li ho fatti entrare in casa con Cody e ho avvisato la pattuglia di sorveglianza di quanto è successo a casa di Ben.» Sheridan uscì con un'aria da zombie. Si sedette vicino a me e salutò Frank. Il veterinario aveva fatto una lavanda gastrica a Bingle. «Ha detto che non sembra ne abbia mangiato molto, ma...» si prese la testa fra le mani. «Dipende tutto da cos'era.» «Non c'è modo di scoprirlo?» domandai. «Non abbastanza velocemente. Ha controllato il cibo: sembrava che ci fosse dentro una specie di polverina, mescolata piuttosto a casaccio. Non si tratta di una sostanza caustica, ma è tutto quello che sappiamo. Vogliono tenerlo in osservazione.» «Ti dispiace se parlo con il veterinario?» domandò Frank. «No, assolutamente. Io voglio tornare a casa per vedere se hanno lasciato qualche traccia di veleno...» «C'è già una pattuglia che ti aspetta», disse Frank. «Basta che mostri loro un documento di identità.» «Una pattuglia?» Probabilmente non aveva registrato il particolare dell'irruzione, e gli ricordammo che la porta del garage era stata forzata. «Se non vi dispiace aspettarmi un attimo», continuò mio marito, «vorrei esserci anch'io, quando entrate. Ci metterò un secondo.» Uscì con una borsa in cui era contenuta la ciotola della pappa. C'era un'intera squadra investigativa, sulla scena. Mi salutarono chiamandomi per nome. Per una normale rapina non ci sarebbe stato un tale spiegamento di forze dell'ordine, ma quell'irruzione meritava un'attenzione speciale: il responsabile poteva essere Nick Parrish o il suo complice. La polizia stava ispezionando il luogo con attenzione alla ricerca di prove che potessero contribuire all'identificazione del complice o portare a Parrish. Ben, che aveva attraversato il soggiorno devastato con aria assente, cambiò
totalmente espressione quando vide il flacone vuoto sul tavolo di cucina. «Codeina!» urlò, trattenendosi a fatica dall'afferrare il flacone. «Codeina! Devo chiamare il veterinario.» Si precipitò verso il telefono, poi ci ripensò e si guardò intorno con aria smarrita. Jack tirò fuori il cellulare e premette il pulsante per recuperare i numeri chiamati di recente. Trovò quello che voleva e passò il telefono a Ben, che comunicò al veterinario cosa aveva scoperto e guardò il flacone senza toccarlo. Lesse i dosaggi sull'etichetta e disse: «L'avevo appena riempito. Ci dovevano essere una trentina di capsule. Non ne avevo ancora presa una. Ora è vuoto». Guardò la ciotola del cane appoggiata sul tavolo. «Credo che fosse una mezza lattina... tredici once. Trecentosessantun grammi. Non sembra che ne abbia mangiato molto. A questo punto... sì, capisco. È un cane grosso, ma non pesa come un uomo adulto.» Restò in ascolto qualche istante. «Sì, gliene sarei grato.» Scrisse un numero. Riagganciò e disse: «Trenta capsule in una volta è un dosaggio molto forte, sufficiente a ucciderlo». Gli tremava la voce, ma continuò: «Il veterinario non mi sa dire quanto ne abbia ingerito perché la polvere non era distribuita in modo uniforme nel cibo, ma secondo lui la quantità non era eccessiva. Bingle sta reagendo bene». Poco dopo Frank gli chiese: «Cosa c'era sulle videocassette che sono state distrutte?» «Sono quelle degli allenamenti con la squadra SAR di Las Piernas al completo. C'è anche il gruppo dei cani da cadavere. Filmiamo sempre gli incontri.» «Quindi sono filmati di Bingle.» «Bingle, gli altri cani e i loro addestratori. Nella maggior parte c'è David. Finora ho guardato molto quelle con lui e Bingle da soli. Per ora ho partecipato a un'unica riunione. Gli altri addestratori mi hanno detto che si tratta di un processo di apprendimento a doppio senso, che Bingle sta già cercando di lavorare con me e che lui sta studiando me allo stesso modo in cui io sto studiando lui.» «Sono i nastri originali?» «Sì, anche se David ne ha fatte diverse copie per i membri del gruppo.» «Hai un elenco degli altri membri del gruppo?» «Sì.» «Bene, penso che sarebbe meglio dare un'occhiata per vedere cosa c'è in questi nastri.» «Ve lo posso dire io: li ho guardati un sacco di volte.»
Frank osservò lo sfacelo. «Perché non vieni da noi, stanotte? Sarai più vicino al veterinario.» «Stanotte io lavoro», dissi, «ma domani non devo andare da nessuna parte fino al pomeriggio. Se vuoi ti do una mano a mettere in ordine.» «Faccio chiudere la porta del retro con delle assi», aggiunse Frank, «e resterà qualcuno a sorvegliare il posto.» «D'accordo», rise Sheridan. «Mi avete convinto. A dire la verità non avevo molta voglia di restare qui senza Bingle.» Prese un cambio di vestiti e mise il tutto in macchina. Ci avrebbe seguiti fino a casa. Stava per salire sulla jeep, poi cambiò idea e si diresse verso il furgone. «Aspettate un attimo», ci avvisò. «Ci sono delle cassette che non sono andate distrutte: quelle che erano a casa vostra. Dovrebbero essere ancora nel furgone.» «Ho già capito cosa faremo prima che tu vada a lavorare», commentò Jack lanciando un'occhiata a una ventina di cassette nella scatola. «Devo preparare dei pop-corn?» 53 LUNEDÌ 25 SETTEMBRE, NOTTE Las Piernas Era furioso, ma cercò di mantenere il controllo. «Povera la mia Falena», disse al telefono, «saresti dovuta venire subito da me, naturalmente.» Era contento che nel garage ci fosse un telefono con il cavo lungo. Gli consentiva di camminare avanti e indietro mentre ascoltava quella serie di scuse. Era davvero troppo! Si fermò davanti al freezer e fece scorrere le dita sul coperchio per calmarsi. «Sì, sapevo già della tua prima visita alla casa di David Niles... non ne dubitavi, vero?» Per la verità Nick non ne sapeva nulla, ma alla Falena non avrebbe fatto male credere un po' di più nella sua onniscienza. All'epoca di quella prima intrusione era ferito ed era nascosto in una topaia nell'Oregon. Avrebbe dovuto chiedersi in che modo la Falena avesse saputo certe cose su Sheridan. «Adesso devo riagganciare», tagliò corto. «Ci vedremo più tardi. Senza il mio aiuto tutto questo potrebbe trasformarsi in un casino incredibile... per fortuna ci sono io che mi prendo cura di te. Aspetta la mia chiamata.
Mi raccomando: aspetta e basta. Non vuoi deludermi, vero?» Ascoltò con soddisfazione il tono succube della Falena. «Penso proprio di no.» Riattaccò e tornò verso il freezer. Sganciò il lucchetto e aprì il coperchio godendosi l'aria fresca che gli accarezzava il viso. Guardò il corpo nudo congelato e disse: «So che in questa circostanza ti è difficile rispondere, mia cara, ma gradiresti un ballo?» Sorrise. «Sapevo che avrei dovuto lasciarti la testa, nel caso avessi avuto bisogno di farti domande come questa. Sembri un baccalà.» Chiuse con forza il coperchio e cominciò a ridere di gusto. Gli ci volle qualche minuto per ricomporsi. Quando fu pronto aprì nuovamente il freezer, si mise i guanti e fissò il contenuto. Sfiorò con un dito la voglia sulla pelle all'interno della coscia. «Eri di sicuro una puttana, quindi questa l'avrà vista bene. Gli piaceva oppure gli dava fastidio? E tu, la consideravi un'imperfezione o un affascinante vezzo?» La plastica sotto il corpo scricchiolò mentre lo sollevava. Per un attimo se la strinse al petto dicendo: «Mi dispiace molto che non abbiamo avuto più tempo da passare insieme, mia cara. Non pensavo che avresti perso la testa così in fretta!» Si ammonì per la leggerezza del suo spirito. Se non la smetteva con le battute la povera cara si sarebbe scongelata prima che potessero ritrovarla. Si mosse con agilità fino alla macchina, tenendola sempre abbracciata. La sua mente si perse nel pensiero di Irene Kelly, e provò ancora una volta rabbia. «Gliela faremo vedere, non è vero dolcezza?» disse alla sua compagna di ballo sistemandola con delicatezza nel baule dell'auto. 54 LUNEDÌ 25 SETTEMBRE, NOTTE Las Piernas Presto ci rendemmo conto che guardare le cassette di Bingle e David non era stata una buona idea. Dopo due minuti dall'inizio della prima, Ben spense il videoregistratore e telefonò al veterinario. Il cane dormiva. Il battito cardiaco era regolare. Le notizie erano buone, ma Sheridan era distrutto. Si sentiva in colpa e si domandava se non fosse stato meglio tenere anche Bool, in modo da non
lasciare Bingle da solo. «Perché Parrish non cerca me?» domandò. «Cosa c'entra il cane?» Più tardi disse: «Bingle non è abituato a stare in gabbia di notte. E se si svegliasse e credesse che l'ho abbandonato?» Frank chiamò per informarmi che Houghton viveva vicino a Dallas, a Irving, nel Texas. «Pare che non abbia lasciato l'area di Dallas per mesi, ma stiamo facendo dei controlli.» Quella sera Jack venne al giornale con me. John dovette fare buon viso a cattiva sorte. «Se questo serve a tenere lontano poliziotti in uniforme dalla redazione, per me va bene», commentò. «Basta che non lo venga a sapere Wrigley. Già il solo fatto di sapere che la polizia sorveglia l'edificio lo mette in agitazione come un cappone nel periodo natalizio. Oggi pomeriggio ha chiamato il capo della polizia per lamentarsi.» «Preferirebbe forse che venisse Nick Parrish, in redazione?» «Non penso che creda davvero che Parrish stia ronzando nei dintorni, o forse non vuole crederlo.» Quella notte portai Jack al Caffè Kelly. Quando raccontai a Stinger, Travis e Leonard cos'era successo a Bingle pensai che si sarebbero messi a dare la caccia a Parrish a costo di perlustrare una per una tutte le case della città. Chiesi a Stinger cosa ne pensava della zia Mary, e il suo umore cambiò immediatamente. «Se avessi vent'anni di meno le chiederei di sposarmi», rispose con un ghigno. Quando arrivai a casa vidi Frank con Cody in spalla, ma i cani non erano nei paraggi. «Sono dentro con Ben», mi informò con voce assonnata. Non mi resi conto se era stato un sogno a svegliarmi o il rumore di Sheridan che usciva. In ogni caso, alle quattro del mattino sapevo che non sarei più riuscita a riprendere sonno. Mi vestii e uscii sul patio. Ben era seduto lì, vestito, che coccolava Deke e Dunk e si beveva un caffè. «Ho chiamato il veterinario», disse. «Bingle si è svegliato e ha cominciato ad abbaiare. Dice che si rimetterà.» «Che bella notizia! Se abbaia significa che sta meglio.» «Sì, gli ho spiegato come dirgli di stare buono in spagnolo. Posso andarlo a prendere domani alle otto.»
«Hai ancora poche ore di attesa.» Sorrise. «Hai ragione. All'inizio ero troppo nervoso, per dormire, e adesso sono troppo sollevato. Buffo, no?» «No. Lo sai che sono una grande ammiratrice di Bingle. E poi se succedesse qualcosa a Cody o a uno dei miei due bastardoni andrei in pezzi. Quali sono i tuoi programmi per domani? Riuscirai a recuperare le ore di sonno?» «Per il sonno non c'è problema. Questa notte sono riuscito a dormire un po', perlomeno a sufficienza per me. Domani dovrei farti da...» «Guardia del corpo?» «Che ne diresti di... accompagnatore? E i tuoi programmi, quali sono?» «Ho appuntamento con Jo Robinson nel pomeriggio, poi ho il turno di lavoro dalle dieci di sera alle due, ma penso che Frank ti sostituirà prima.» Rimanemmo seduti in silenzio per un po'. Pensavo al compito che mi aveva assegnato Jo. Non ero andata male, ma c'era ancora la storia di Parsifal in sospeso. «Ben?» «Hmm?» «Prima che Parrish fuggisse...» «Prima che gli altri fossero uccisi», mi corresse, indispettito dal fatto che io evitassi di dirlo. «Prima che gli altri fossero uccisi», mi sforzai, «e anche prima del ritrovamento di Julia Sayre, c'era qualcosa che ti tormentava?» «Cosa intendi?» «Intendo, per citare il buon vecchio Parsifal: 'Cos'hai?'» Distolse lo sguardo. «Ho idea che sia qualcosa che ha a che fare con i reporter.» Non rispose. «O forse era solo un'avversione del tutto personale nei miei confronti?» «Certo che no.» «Allora cosa ti tormentava? Perché eri così arrabbiato? Perché non riuscivi a dormire, di notte?» «Per una serie di motivi», rispose con calma. Aspettai. Tentò di rifilarmi la storia dei disastri di massa sui quali aveva lavorato di recente. «David me ne aveva parlato», ammisi. «Io non avrei avuto neppure la forza di lavorare a uno solo di quei casi. Ma, a parte questo, David aveva lasciato intendere che c'era dell'altro.»
«Davvero? Mi sorprende. Di solito teneva per sé le confidenze.» «Lascia stare David. A meno che tu non abbia avuto un'esperienza davvero così disastrosa con qualche giornalista, non penso che fosse un motivo sufficiente per attaccarmi sin dal primo momento che mi hai vista.» Esitò qualche secondo prima di proseguire. «Mi piacerebbe trovare una scusa plausibile. Sarebbe più semplice che dirti la verità.» Sospirò. «Ma dopo tutto quello che hai fatto per me, il minimo che posso fare è essere franco.» «Non mi devi niente. Dimmelo perché siamo amici, altrimenti lascia perdere.» Guardò verso il giardino, poi cominciò a parlare a voce bassa. «È un motivo piuttosto squallido. La fine di una relazione. Ricordi Camille?» «La bionda mozzafiato che è venuta a farti visita in ospedale?» Annuì. «Camille è simpatica e divertente, adora la vita all'aria aperta, e quando uscivamo sapevo benissimo che gli uomini che mi vedevano a braccetto con lei diventavano verdi per l'invidia.» «E cos'è che non andava?» «Io, immagino. Si è resa conto che non sarei mai cambiato come sperava.» «Cosa avresti dovuto cambiare?» «Lavoro. Non le dava fastidio uscire con un antropologo, ma detestava la mia attività forense, il tempo che mi prendeva e il pensiero di ciò che facevo, per non parlare dell'odore dei vestiti quando tornavo a casa. Sperava che prima o poi mi sarei stancato e sarei andato a lavorare in un museo. Alla fine misi in chiaro che non avrei mai rinunciato al mio lavoro di antropologo legale e che lo ritenevo molto importante. Mi chiese se lo consideravo più importante di lei, e purtroppo risposi con la mia solita mancanza di tatto.» «E così te ne sei andato di casa?» «Sì. All'inizio mi mancava molto, ma tutto sommato sapevo che era meglio così. Mi piaceva vivere con David, Bingle e Bool... ho avuto davvero bisogno dell'aiuto di David.» Rimase in silenzio a lungo e pensai che avesse cambiato idea. Alla fine decise di continuare. «Qualche settimana dopo che me ne ero andato Camille mi invitò fuori a pranzo, con la scusa che doveva restituirmi delle cose... dei CD, una vecchia sveglia. Ci incontrammo e mi diede le mie cose. Mi disse anche che stava uscendo con un altro. Mi sentii ferito, soprattutto nell'orgoglio, ma
mentii e le dissi che ero contento per lei. «Poi mi chiese su cosa stavo lavorando. Non avevo motivo di raccontarglielo, ma al momento mi stavo occupando di un caso che aveva avuto molta risonanza. Cinque anni fa due studenti di liceo scomparvero durante un'escursione nel deserto. Erano stati trovati dei resti e sembrava che appartenessero a uno dei ragazzi. Mi avevano chiesto di esaminarli ed ero sul punto di ottenere un'identificazione. «Le spiegai i motivi per cui quell'identificazione era particolarmente difficile: il tempo trascorso, gli agenti atmosferici, gli animali che avevano danneggiato le ossa e così via. Le dissi che sarei andato sul luogo di ritrovamento delle ossa con un gruppo di esperti per vedere se c'erano altri resti. «Lei scosse il capo, poi mi domandò: 'Quale dei due ragazzi pensi che possa essere?' Non so per quale motivo, le rivelai la mia ipotesi. Le ripetei che non ne ero assolutamente sicuro, ma questo non importa. So solo che non avrei mai dovuto parlarle della faccenda.» «Lei lo confidò a qualcuno?» «Certo! Ero talmente preso da me stesso che avevo dimenticato di chiedere a Camille chi fosse il suo nuovo fidanzato e che mestiere facesse. Credo che la frase che usò nella prima trasmissione televisiva, registrata peraltro nel cortile di casa di una delle famiglie degli studenti, sia stata qualcosa tipo: 'Da fonti molto vicine all'antropologo legale che sta lavorando al caso...' E in quel momento lui era molto più vicino di me alla fonte.» «Non è stata una bella cosa da parte sua. Anche lui si è dimostrato piuttosto viscido, nel carpire informazioni dalla tua ex. Ma ti giuro che non sei il primo uomo che rivela qualche segreto a una fidanzata o a una moglie. Pensa a John Mitchell ai tempi del Watergate.» Mi guardò e sospirò. «Se la cosa fosse finita lì starei ringraziando Dio e l'avrei considerata solo una bella lezione.» «Non capisco.» «Era il ragazzo sbagliato.» «Vuoi dire...» «Sì, voglio dire che un uomo e una donna e i loro due figli più piccoli che avevano aspettato cinque anni per sapere cosa fosse successo al loro caro si sono trovati un reporter nel giardino di casa che, davanti a una telecamera, chiedeva spudoratamente se avevano già avuto conferme dalla polizia sul fatto che i resti del loro ragazzo erano quelli trovati nel deserto
una settimana prima, e che comunque l'annuncio ufficiale era atteso da un momento all'altro.» «Oh, mio Dio!» «Parlò anche delle condizioni in cui erano stati ritrovati i resti, riportando più o meno le esatte parole che avevo detto a Camille.» «E la cosa ti ha fatto sentire anche peggio.» «Non peggio di quanto si sia potuta sentire quella famiglia.» «Come l'hai scoperto?» «Il patologo legale - Carlos Hernandez, lo conosci? - mi chiamò per verificare che fossi realmente sul punto di identificare il cadavere.» «Sì, conosco Carlos.» «Aveva visto la trasmissione in diretta alle cinque e mi disse di guardarmi la replica delle sei.» Scosse la testa. «Le facce di quella gente quando il giornalista dava loro la notizia! Mio Dio, non le dimenticherò mai! Nell'edizione delle sei l'avevano già invitato in casa e gli stavano mostrando le foto del figlio. La cosa peggiore era che, dopo tutti quegli anni di preoccupazioni e interrogativi, sapevo che si sarebbero sentiti in un certo senso sollevati. E io avrei dovuto dire loro che era stato un errore, che il loro ragazzo non era stato trovato.» «E hai pensato che fossi tu quello che torturava la povera famiglia, non quel giornalista da strapazzo, vero?» «La responsabilità era solo mia! Il patologo mi aveva affidato quei resti e contava che sapessi tenere la bocca chiusa. E sai da dove viene quella fiducia? Da famiglie come quella del ragazzo. Loro si fidano di Carlos, e lui riversa su di me quel sentimento. E io l'ho tradito... e per cosa? Per il bisogno di vantarmi con una ex fidanzata. Patetico, non credi?» «Umano. Carlos è una persona giusta e comprensiva. Deve aver...» «Oh, sì! Lui è stato più che giusto, nei miei confronti. Gli raccontai cos'era successo e credevo che quello sarebbe stato il mio ultimo incarico. Cercò di aiutarmi... Di aiutarmi! Mi diede qualche consiglio su come affrontare i media per l'inevitabile scalpore che la notizia avrebbe suscitato. Devo aver pronunciato la frase 'no comment' circa un milione di volte. La polizia di sorveglianza al campus dovette tenere lontani i reporter dal laboratorio in cui lavoravo. Non ci sono finestre, lì, ma fummo costretti a mettere qualcuno di guardia alla porta quando uno dei fotografi tentò di scattare immagini delle ossa. Alla fine i media lasciarono perdere.» «Ben, a volte...» «No, non è finita qui. I giornalisti si arresero, ma per quella povera fa-
miglia la cosa non faceva molta differenza. Si arrabbiarono molto e chiesero di incontrarsi con me e Carlos. La stampa diceva che il loro ragazzo era stato trovato, e noi non commentavamo. Ma l'unica cosa che potevamo dire loro era che non eravamo ancora pronti per un'identificazione, e promettemmo che sarebbero stati i primi a saperlo nel caso ci fossero state novità.» «Il che li convinse che li stavate snobbando.» «Sono stato malissimo, ma Carlos mi fece promettere che non avrei rivelato loro nient'altro. Dissero a Carlos che i giornalisti sostenevano che ero stato io a svelare la notizia. Lui rispose che nessuno di noi aveva mai parlato con quel reporter e soprattutto che nessuno dei nostri collaboratori aveva parlato di quel caso con lui. Non furono del tutto soddisfatti della spiegazione e pensarono di rivolgersi a un avvocato. Per fortuna non arrivarono fino a quel punto. Certo, tutto il merito va a Carlos.» «Cos'altro hai fatto?» «Come?» «Non ti conosco da molto tempo, Ben, ma penso di conoscerti abbastanza bene per capire che non ti sei accontentato di rispondere 'no comment' nell'attesa che le acque si calmassero.» «L'avrei fatto, se non fosse stato per David. Chiamò Ellen e altri studenti, mi tirò giù dal letto nel bel mezzo della notte e disse: 'Bool e Bingle hanno voglia di andare in cerca di ossa nel deserto'. Cercammo per sei weekend consecutivi. Trovammo altri resti del primo ragazzo. Stavamo per arrenderci quando finalmente Bingle trovò una tibia del secondo, a una certa distanza dal primo. Dopodiché facemmo ricerche più intensive e recuperammo altri resti.» «E questo non ti fece sentire meglio?» «Non del tutto. Mi sentivo meglio nei confronti di quella famiglia, ma ero comunque depresso per ciò che avevo fatto. Anche se avevamo trovato il secondo ragazzo, restava il fatto che io avevo violato il segreto professionale. Avremmo anche potuto cercare senza trovare nulla.» Rimanemmo seduti in silenzio per un po', finché lui disse: «Nonostante la colpa fosse mia, per il mio comportamento che andava contro l'etica professionale...» «Non credi di essere un po' troppo duro con te stesso?» «Lasciami finire. Volevo dirti... ho seri pregiudizi nei confronti dei giornalisti, ma con te sono stato ingiusto e ti chiedo scusa.» «Scuse accettate, Ben. Sappi che non siamo tutti marci come quell'idio-
ta.» «Lo so, lo so... ma ti basta conoscerne uno del genere per diventare diffidente a vita. In ogni caso un po' di giustizia è stata fatta. Quel tizio non va più in onda.» «Non mi sorprende. E sono sicura che Camille ha avuto quel che si meritava.» «Non è durata. Ha raccontato a David che lui l'ha lasciata qupndo io ho rifiutato di dargli l'esclusiva sulle nostre ricerche. Mi è dispiaciuto, davvero.» «Hai mai parlato con lei di questa storia?» «No. La prima volta che l'ho rivista dopo quell'episodio è stato all'ospedale... c'eri anche tu. Cosa avrei potuto dirle? 'Mi hai tradito'? Sarebbe stato come dirle 'Congratulazioni'. E poi in fin dei conti mi sono tradito da solo.» «Un'ultima domanda», dissi. «Quando pensi che riuscirai a perdonare te stesso?» Non ottenni risposta. 55 MARTEDÌ 26 SETTEMBRE, MATTINA Las Piernas Mi ero addormentata da circa un'ora quando squillò il telefono. Guardai l'orologio: erano quasi le sei. Rispose Frank. «Ciao, Pete», disse, e ascoltò. Si sedette e cominciò a prendere nota. «Sì, sarò lì appena posso. Il patologo legale è già stato avvisato? Bene... sì, a fra poco.» «Cosa succede?» domandai. Esitò un attimo poi rispose: «Hai presente il cranio del frigorifero? Sembra che Parrish abbia deciso di consegnarci anche il resto del corpo». Fui percorsa da un brivido. «Dove?» «Pare che abbia deciso di tenerlo sotto ghiaccio. Dei pattinatori hanno avuto la brutta sorpresa questa mattina quando sono arrivati al palazzo del ghiaccio per allenarsi.» «È entrato nel palazzo del ghiaccio?» «Già. Il primo poliziotto che è arrivato sulla scena ha detto che il corpo è stato congelato. Senza testa.» Fece una pausa mentre sistemava la fondina. «Speriamo che sia il corpo che appartiene al teschio che già abbiamo. Pro-
babilmente pensa che ci divertiamo con le costruzioni.» «Dovresti avvertire Ben. Ha lavorato all'identificazione del cranio: forse può esservi di aiuto.» Frank non voleva lasciarmi da sola, perciò esitò prima di chiedere a Ben di seguirlo. A quel punto promisi che non avrei riportato la notizia all'Express - con l'editore non ero in buonissimi rapporti -, e mio marito decise che avrebbe portato anche me, a patto che fossi rimasta fuori dal perimetro della scena del delitto, dove i migliori poliziotti del dipartimento di Las Piernas mi avrebbero difesa da Nicholas Parrish. Se il palazzo del ghiaccio non fosse stato abbastanza vicino allo studio del veterinario probabilmente Ben non ci avrebbe seguiti, ma ripensando a quanto successe sarebbe stato meglio che i due luoghi fossero stati ai capi opposti della città. C'erano diverse autopattuglie parcheggiate all'esterno dell'edificio. Frank entrò per primo, mentre io e Ben restammo a parlare nel parcheggio. Qualche minuto più tardi mi stava accompagnando in un punto sicuro per me e per le indagini. Era una caldissima sala d'attesa racchiusa tra pareti di vetro, completa di camino e bar, dove normalmente stavano i genitori dei pattinatori o le mogli dei giocatori di hockey. Personalmente avrei preferito una fredda e dura panca più vicina al luogo dell'azione. Da dov'ero non potevo vedere molto, e l'ufficiale che Frank aveva messo di piantone alla porta - una specie di armadio - non favoriva certo la visuale. Riuscivo a scorgere una striscia di tappeto, di quelle che di solito vengono stese sulla pista perché le autorità o i giudici di gara possano camminare sul ghiaccio. Ora serviva a un gruppo di persone tra cui Frank, Pete, Carlos Hernandez e altri. Non riuscivo a vedere il corpo. Sheridan fu scortato da un ufficiale in uniforme. Quando vide dov'ero rinchiusa, mi fece un cenno di saluto. Raggiunse il gruppo senza problemi. Quando si spostarono Ben si chinò per guardare il corpo da vicino. Improvvisamente cominciò a urlare. Urlava, ma non distinguevo le parole perché il suono della sua voce risvegliò in me il ricordo dell'urlo che avevo sentito in montagna mentre correva sul prato. Tentai invano di oltrepassare il mastodonte vestito di blu, fisso sulla porta. Volevo raggiungere il mio amico. Dopo un po' il mio desiderio fu esaudito: Frank lo stava accompagnando nella sala d'attesa; non urlava più, ma era pallidissimo. Mio marito lo fece sedere vicino a me e mi chiese il numero di Jo Robinson.
Chiamò e lasciò un messaggio all'assistente. Mi occupai di Ben, che sembrava letteralmente sotto choc. «Cosa c'è?» gli domandai. «Cos'è successo?» «Camille», rispose lui con aria intontita. «È Camille, quella là sul ghiaccio.» «Chi è Camille?» domandò Pete che aveva sentito. Ben non parlò, e così io risposi che si trattava della sua ex fidanzata. «Ha vissuto con lei fino al gennaio scorso.» «Il suo teschio», sussurrò Ben con gli occhi fissi sulle proprie mani, che guardava come se fossero oggetti estranei. «Ho maneggiato il suo teschio!» Frank e Pete si scambiarono uno sguardo. «Come fai a sapere che è Camille?» domandai. Non pensavo che avrebbe aperto bocca. Sembrava sul punto di svenire. In un soffio mormorò: «La voglia. Ha una voglia molto particolare nella parte alta della coscia». Mi resi conto che Frank e Pete non erano del tutto convinti dell'identificazione, ma cercarono di confortare Ben, gli raccomandarono di restare con me e gli portarono una tazza di caffè. Potevo capire i loro dubbi. Ben aveva subito molte perdite e aveva passato una notte quasi insonne. Probabilmente la sua reazione davanti a quel cadavere era frutto dell'eccessivo stress a cui era stato sottoposto. Frank sfogliò la sua agenda, trovò l'indirizzo di Camille che si era segnato dalla visita precedente e mandò una pattuglia a controllare la casa. Poco più tardi un ufficiale in uniforme venne a chiamarlo. «La vogliono qui fuori, detective Harriman.» Frank lanciò un'occhiata a Pete; uscirono insieme. Qualche minuto più tardi mio marito tornò, mi fece un cenno e, a voce bassa, mi disse: «Avverti John che oggi non andrai al lavoro». «Cosa?» «Digli che non andrai in ufficio.» «E perché? Sai quanto è stato difficile per me ottenere quelle poche ore.» «Diglielo», lo consigliò Pete. «Tua moglie è troppo testona.» Frank lanciò un'occhiata a Ben, quindi mormorò a denti stretti: «Parrish ha lasciato un messaggio per te». Sentii un blocco allo stomaco e il cuore cominciò a battere all'impazzata. Guardai il viso gioviale di Pete e mi calmai. «Davvero?» sussurrai. «E
quale sarebbe?» Frank inarcò le sopracciglia. «Irene...» «Cosa dice?» Tirò fuori una busta di plastica, che a sua volta ne conteneva un'altra su cui era scritto il mio nome. All'interno c'era un foglio giallo a righe con un messaggio scritto con una calligrafia molto ordinata. Niente più regali, niente più fughe. Non puoi nasconderti, Irene, non puoi sfuggirmi. La prossima volta ghiaccerò te, ma molto più lentamente di Camille. E si sa, che le Camille muoiono lentamente... Ah! Ah! Ah! Di' a Ben Sheridan che mi è piaciuta moltissimo. L'aveva firmato con una sigla. «Niente di anonimo, non c'è che dire», ironizzai per mitigare l'insicurezza. «L'ha lasciato sotto il corpo», aggiunse Pete. «Non essere sciocca, Irene: resta a casa.» Lo guardai. Frank capì, un po' troppo tardi, a cosa stavo pensando. «Irene...» cominciò. «Non cambia nulla. Andrò a lavorare, Frank.» Stava per replicare, ma io mi diressi verso Ben e mormorai: «Per l'amor del cielo, abbiamo tempo fino a questa sera alle dieci per discuterne. Non complichiamo le cose a Ben con un litigio in diretta». «D'accordo», convenne lui, «ma ne riparleremo.» Fummo interrotti da qualcuno che chiamò Frank e Pete fuori dalla stanza. Vidi Frank che si sfogava con Pete mentre si dirigevano verso gli altri detective. Se già il messaggio di Parrish lasciava poco spazio ai dubbi, le domande sull'identità del corpo trovarono presto ulteriori risposte. Nella casa di Camille furono scoperti segni di irruzione dalla finestra di una camera che dava sul retro. Dalla stessa finestra la polizia vide mobili rovesciati e i chiari segni di una colluttazione. Una volta dentro rinvennero anche alcune
foto che ritraevano Camille in costume da bagno in cui la voglia sulla coscia era chiaramente visibile. Nel frattempo cercammo di confortare Ben, ma sembrava quasi che lui non si accorgesse della nostra presenza. Poco dopo le otto la sveglia dell'orologio di Sheridan suonò. «Bingle», esclamò. «Non posso lasciarlo in quella gabbiai Devo andare.» «Vengo con te. Non sei in condizioni di guidare», proposi cercando di non assumere un tono di sfida. Guardai mio marito e dissi: «Sei d'accordo, Frank? Ti aspetterò con lui a casa. Se Jo Robinson chiama ci può raggiungere lì». Frank sembrò perplesso, ma volendo probabilmente dimostrare che era una persona ragionevole, cedette. «Va bene, ma chiederò a una pattuglia di seguirvi. Promettimi che non li seminerai. È chiaro che Parrish ha messo gli occhi su voi due, e non credo sia prudente che andiate in giro da soli.» Non protestai. Non aveva tutti i torti. L'esuberanza di Bingle alla vista del padrone riuscì a rompere l'incantesimo maligno che aveva colpito Sheridan. Ben ringraziò il veterinario, pagò il conto e ce ne andammo. A parte qualche tentativo del cane di buttarsi in braccio a Ben il viaggio non presentò inconvenienti. Jo Robinson aveva lasciato un messaggio. Sheridan la richiamò e fece una lunga chiacchierata mentre io ero fuori con il gatto e i cani. Cody mi si era disteso in grembo mentre Deke e Dunk, apparentemente attirati da un qualche odore di cui si era impregnato il pelo di Bingle durante la permanenza dal veterinario, continuavano ad annusarlo. Quando Frank tornò a casa, nel pomeriggio, Ben riuscì a rispondere alle sue domande con una certa calma. Anche lui, però, aveva qualche domanda da fare. «Qualcuno ha avvisato i suoi genitori?» «Se ne stanno occupando.» «Come mai non era stata denunciata tra le persone scomparse?» «Pare che ultimamente non stesse facendo niente di particolare», rispose mio marito, «e nessuno aveva contatti regolari con lei.» «Ma lavorava per una società di contabili...» disse Ben. «Ha lasciato il lavoro in giugno. Sembra che ne stesse cercando un altro perché sul tavolo sono state trovate lettere di società presso cui aveva fatto domanda. Sulla scrivania c'erano anche diversi moduli e copie del curricu-
lum.» «Da giugno?» si stupì. «Sì, le avevamo parlato in quel periodo.» Ben distolse lo sguardo, corrucciato. «Già, dimenticavo... Avevate avuto il ridicolo sospetto che avesse tentato di rubare in casa mia e nel mio ufficio.» Frank non rispose alla provocazione. Dopo un attimo Ben mormorò: «Scusa. Dovevate interrogare anche lei, è normale. E forse non la conoscevo poi così bene. Non mi ha mai dato l'impressione di essere entusiasta del suo lavoro, ma non pensavo che l'avrebbe lasciato». Ricordavo la sua visita all'ospedale e il suggerimento stizzito di Ben che le consigliava di cambiare impiego. Mi chiesi se quell'incontro non l'avesse influenzata più di quanto potesse immaginare in quel momento, ma siccome non volevo farlo soffrire ulteriormente tenni per me quei pensieri. «I suoi colleghi dicono che ha lasciato l'ufficio senza preavviso», aggiunse Frank, «forse però ci pensava già da tempo. Era preparata a restare senza lavoro per un po', perché aveva abbastanza soldi sul conto.» «Era brava con il denaro», osservò Ben. «Non faceva certo economie, ma sceglieva bene gli investimenti.» «Ma la posta e i giornali...» domandai. «C'è una fessura per la posta sulla porta», spiegò l'antropologo. «Si sarà accumulata dentro casa. Era una comodità quando andavamo in viaggio o in campeggio: non dovevamo ricorrere al fermoposta.» «A dire la verità sembra che Parrish abbia compilato un modulo di fermoposta falsificando il nome», ci rivelò mio marito. «Restano comunque i giornali», continuai. «O forse non era abbonata.» «Sì, lo era», confermò Frank. «Ma ha annullato l'abbonamento.» «Aspetta un attimo... sei sicuro?» domandai. «Sì, abbiamo controllato all'Express. L'ha disdetto una settimana fa.» «E sei sicuro che sia stata proprio lei ad annullarlo?» «Cosa vorresti dire?» intervenne Ben. «Credi che una persona che sta cercando lavoro possa smettere di prendere il giornale? Dovrebbe essere interessata agli annunci.» «Hai ragione», osservò Sheridan. «Ci sono due possibilità», proseguii. «La prima è che abbia chiamato il giornale per disdire l'abbonamento poco prima di essere uccisa, che è una di quelle coincidenze che ti fanno pensare che sia stata costretta a farlo.»
«E la seconda?» domandò Frank. «Parrish ha telefonato per bloccare i giornali, per essere sicuro che nessuno si mettesse a cercarla prima che lui volesse.» «Sì, penso che sia una buona ipotesi», convenne. «Ma non ci aiuta a prendere l'assassino.» «Forse sì. Sto pensando a un altro abbonamento che è stato annullato di recente.» «Phil Newly!» esclamò Frank. «Esatto. Nick Parrish deve aver studiato bene le procedure legali e di polizia. Sa bene cosa fa scattare una denuncia di scomparsa: una pila di giornali all'ingresso di casa può essere notata dai vicini, che magari non conoscono neppure il nome di chi ci abita.» «Farò un altro tentativo per dare un'occhiata alla casa di Newly, anche se i giudici non gradiscono molto che i poliziotti facciano visita a casa degli avvocati difensori senza essere invitati.» Andammo presto da Jo Robinson. Aveva deciso di vedere Ben prima di me. «Dovremmo farci fare uno sconto», scherzai, ma Ben non era di buonumore. Rimase dentro più a lungo del previsto. Non mi importava. Potevo rinunciare a parte della mia seduta. Ma non fu così. «Come sta Ben?» domandai prima di cominciare. La psicoioga mi sorrise e replicò: «Non si aspetterà che risponda, vero? Tocca a lei piuttosto. Come sta?» «Faccio ancora dei turni di lavoro assurdi.» «Mi avevano assicurato che li avrebbero cambiati.» «L'hanno fatto», ammisi. Dopo aver esposto le mie lamentele cominciai a studiarmi le dita dei piedi. «A parte questo, come vanno le cose?» mi sollecitò. Le dissi che avevo parlato con la famiglia Sayre. «Bene. E ha ripensato a Parsifal?» «Un po'.» Le accennai al fatto che il racconto della visita di Parsifal alla Montagna Selvaggia mi aveva dato lo spunto per la conversazione di quella mattina con Ben. Le raccontai il succo. «Hmm.» «Hmm?» ripetei. Non è facile riempire un suono come quello di sarcasmo, ma feci in modo che ne traboccasse.
Sorrise ancora. «Sa una cosa? Penso che il suo amico Jack avesse ragione: si è scordata di raccontare la parte migliore della storia.» «Cosa vuol dire?» «Cosa voglio dire?» ripeté, quasi senza sarcasmo. «Non è la parte migliore della storia: è la più triste. Parsifal cade in disgrazia e perde la fede. Dice a tutti che rifiuta di servire un Dio che ha il potere di essere misericordioso, ma che invece è... come dice? 'Il padre delle mie sventure'. Perché un Dio buono lascia che succedano così tante cose terribili?» mi chiese. «Esatto. O permette che qualcuno animato da intenzioni così buone causi così tanto dolore.» «Nella storia, come si sente Parsifal quando parte alla ricerca del Graal?» «Arrabbiato.» «Hmm.» Evitai di farle di nuovo il verso. «Mi rinfreschi la memoria», continuò, «cosa deve fare per ritrovare la Montagna Selvaggia?» «Recuperare la fede.» «E basta?» «No, c'è qualcos'altro», risposi, cercando di non perdere la pazienza. «È una storia che parla di compassione, ma non solo nei confronti degli altri. Era quello che stavo dicendo prima. .. della mia conversazione con Ben, stamattina. Parsifal deve provare pietà per se stesso.» «Oh», fece la psicoioga. Io rimasi in silenzio. «Ci pensi. E a parte gli orari tremendi, com'è andato il ritorno al lavoro?» Le raccontai dell'aiuto che mi davano gli amici, delle visite di Travis e Stinger, di Leonard e del Caffè Kelly. «E dopo il problema con il furgone...» «Intende la storia delle dita e del cranio?» domandai, crudamente. «Ha avuto altri contatti? L'ha rivisto altre volte?» Esitai un attimo prima di raccontarle tutto. «Oh, e mi stavo quasi dimenticando della faccenda delle mutande.» «Le mutande?» Le raccontai cos'era successo il primo giorno che ero tornata al lavoro. «Ha scritto l'articolo, ma non l'ha mandato in stampa, vero?» «Esatto.» «Era molto arrabbiata con Parrish per quel pacchetto?» «Sì.» «Ma è riuscita a trattenere un impulso di vendetta che deve essere stato
irresistibile.» «Ho riflettuto sulle possibili conseguenze del mio gesto e ho pensato che non ne valeva la pena.» «Si ricorda cosa mi aveva detto la prima volta che è venuta qui? Diceva di non riuscire a controllarsi.» «Sì. Ultimamente non mi sento più così», ammisi, e aggiunsi: «Vuol dire che sono guarita?» Rise. «Continui a pensare a Parsifal, e poi vediamo cosa potremo fare per esaudire questo suo irrefrenabile desiderio di non rivedermi mai più.» Frank mangiò con noi ed evitò discussioni sul fatto che io andassi o meno al lavoro. Ma a metà della cena ricevette la telefonata. Tornò con un sorriso stampato in viso e mi disse che qualcuno aveva visto una macchina parcheggiata vicino al palazzo del ghiaccio verso le tre di quella mattina. L'aveva descritta e coincideva con la descrizione della macchina che i vicini di Newly avevano visto entrare e uscire dal garage dell'avvocato a strani orari. «Una Honda Accord verde scuro», scandì mettendomi una mano sulla spalla per sentire il mio sollievo. Non avevo avuto le traveggole, allora. «Chi l'ha notata al palazzo del ghiaccio?» domandai. «Un camionista che fa consegne per l'Express», rispose. «Stava portando i giornali a un'edicola lì vicino.» «L'autista o i vicini di casa hanno osservato chi c'era dentro a quella macchina?» domandò Ben. «No, e nessuno di loro ha pensato di prendere il numero di targa. Ma chiederemo qui in giro o nel tuo quartiere se qualcuno ha visto un'auto del genere negli ultimi giorni. Da qualche parte, qualcuno dovrà pure aver dato un'occhiata all'autista. Pete pensa anche che dovremmo ottenere un mandato di perquisizione per la casa di Newly.» Poco più tardi Frank uscì per incontrarsi con Pete. Avevano un altro indizio sulla macchina. Poco prima di uscire disse: «Non ti chiederò di rimanere a casa. Forse sarai più al sicuro là, non lo so. Ah, ti ho riportato questo». Mi allungò il cellulare. «La batteria è carica. Tienilo acceso dal momento in cui esci da casa, d'accordo? L'autopattuglia vi seguirà fino al giornale, ma Wrigley ci sta creando dei problemi: non ci dà accesso alla sua proprietà. In ogni caso non stare mai sola, hai capito? Di' a Leonard che metterò una parola buona all'accademia se ti sta vicino per tutta la du-
rata del turno. Ho chiamato Travis e Stinger: mi hanno assicurato che faranno un giro. Se lo ritieni necessario passa tutto il tempo con loro sul tetto. E non lasciare il...» «Frank, se continui a darmi istruzioni Pete comincerà a preoccuparsi, non vedendoti arrivare.» «Non voglio che tu rimanga là da sola.» «Andrò con lei», annunciò Ben. «Ben...» protestammo entrambi. «Non posso rimanere qui seduto tutta la notte... Impazzirei.» Non ero sicura che fosse una buona idea che passasse la notte in redazione, soprattutto perché gran parte dell'attività si sarebbe incentrata sul ritrovamento del corpo di Camille. Mi ricordò che era un esperto di rapporti con i media. Sorrise e mi resi conto che stava gradualmente recuperando il senso dell'umorismo. Jack si offrì di venire al suo posto, ma Ben voleva a tutti i costi mantenere la promessa fatta a Frank di tenermi d'occhio. «State cominciando a darmi sui nervi, voi due», mi lamentai, ma non furono molto turbati dalla mia affermazione. «Io resterò qui a tenere d'occhio Cody e i cani», disse Jack. «Se sei stanco chiamami che vengo a darti il cambio.» Non eravamo arrivati molto lontani quando il cellulare squillò, facendomi sobbalzare. Armeggiai un po', ma alla fine premetti il pulsante che interrompeva la chiamata. «Merda.» «Forse era Parrish», disse Ben con un tono piatto che mi fece preoccupare. Il telefono squillò ancora. Era Jack. «Perché hai riattaccato, prima?» domandò. «Non so usarlo.» Rise. «Frank voleva che ti dicessi che ha ottenuto il mandato per la casa di Newly. Una bella sorpresa, no?» Sarebbe stata una notte davvero piena di sorprese. 56 MARTEDÌ 26 SETTEMBRE, NOTTE Las Piernas Peccato, Falena mia, pensava con una punta di tristezza mentre osser-
vava un'altra autopattuglia della polizia svoltare verso la sua ultima tana, mi mancheranno le comodità che mi hai offerto in tempi migliori. La Falena aveva riferito la presenza di strane auto nella strada: berline che avevano tutta l'aria di essere macchine della polizia. Lui stesso aveva visto la Volvo di quel cornuto di detective, Frank Harriman, che svoltava nella strada. A quale dei suoi tanti amanti aveva affidato la moglie, adesso? Se la Falena non l'avesse avvisato non l'avrebbe notato. Doveva ammettere che avrebbero potuto prenderlo, ma anche in quel caso sarebbe riuscito a scappare di nuovo. La polizia diventa piuttosto suscettibile, quando ammazzi uno dei loro. È strano come stiano tutti così uniti e come si vogliano bene l'un l'altro. Sorrise al pensiero di cosa poteva suggerire la situazione. Presto ricominciò a pensare alla Falena. La Falena gli era stata utile in molti modi. C'erano ancora un paio di faccende in cui avrebbe potuto aiutarlo, ma le cose stavano giungendo al termine, e anche la Falena avrebbe dovuto riunirsi agli altri devoti. Era giusto così. Il minimo che potesse fare. Forse un giorno sarebbe tornato all'albero dei coyote per appendervi un tributo personale, in onore della Falena. E uno speciale per la Pattinatrice, che di certo poteva essere definito uno dei suoi maggiori successi. La disperazione di Ben Sheridan era stata un vero capolavoro. Oh, sì! Qualcosa di davvero speciale anche per là Pattinatrice. Progetti. Bisognava sempre fare progetti. Adorava i progetti: tenevano impegnato il suo cervello sovrumano. Non si aspettava che il covo venisse trovato, a quel punto; ma era pronto a tutto, anche agli imprevisti. Come non aveva previsto che Irene Kelly gli facesse provare quel misto di passione e rabbia anche da lontano. Di solito doveva trovarsi molto più vicino a una donna, prima che il suo corpo reagisse nello stesso modo in cui stava reagendo ora. Il corpo di Irene attirava il suo, lo chiamava, lo chiamava, lo chiamava senza tregua. Lo poteva sentire allo stesso modo di un sordo che riesce a percepire la vibrazione di una grancassa; era un pulsare basso, insistente. Non lo avrebbe lasciato in pace. Poteva prendere in giro la polizia quando e come voleva, naturalmente, ma decise che non era bene aspettare. Anche Irene desiderava quell'appagamento che solo lui poteva darle e che avrebbe dovuto elargirle con generosità. Quella sarebbe stata la notte giusta.
Scadenze, pensò, e si abbandonò a una risatina sommessa. 57 MARTEDÌ 26 SETTEMBRE, NOTTE Las Piernas Arrivai abbastanza presto. Volevo prendermi un po' di tempo per rispondere alle lettere e ai messaggi di posta elettronica, ma lo persi tutto alla ricerca di un posto in cui Ben potesse sedersi. Con la chiusura dell'edizione che incombeva, ultima opportunità per apportare cambiamenti sostanziali all'edizione del mattino, la redazione era in piena attività quando vi misi piede. John Walters sperava di ricevere in tempo le ultime notizie del caso di cui si stava occupando Mark Baker, vale a dire le indagini della polizia sulla casa di Phil Newly. L'edificio era percorso dalle vibrazioni delle rotative. La prima pagina non poteva restare in sospeso ancora per molto. La soffiata era arrivata da un vicino di casa dell'avvocato che diceva che la polizia stava andando di porta in porta a domandare se qualcuno lo avesse visto negli ultimi giorni o se avessero notato una macchina diversa parcheggiata vicino alla casa, nel vialetto d'ingresso o nel garage. Cominciarono ad arrivare altre telefonate, inclusa quella di Mark. Dopo aver parlato con lui, John iniziò a camminare avanti e indietro e a urlare ordini: la prima pagina doveva essere rifatta quasi completamente. Nel garage di Phil Newly la polizia aveva fatto una serie di raccapriccianti scoperte: un banco da lavoro coperto di sangue, una sega circolare, frammenti di ossa e altri tessuti. Dentro un grosso freezer avevano trovato un foglio di plastica coperto di sangue congelato. Dell'avvocato nessuna traccia. Il vice di Frank si trovava sulla scena per parlare con la stampa e aveva affermato che il signor Newly era al momento ricercato per essere interrogato. Quando gli avevano domandato se era sospettato di essere complice di Parrish il tenente aveva risposto «non per ora». E quando gli fu chiesto se Newly fosse tra le vittime rispose: «Le indagini sono appena iniziate. Non sappiamo chi siano le vittime né quante possano essere. Non abbiamo scartato la possibilità che il signor Newly sia tra queste». Fornì una descrizione dell'avvocato e della sua macchina: una BMW color argento. L'auto non c'era. Dai contatti di Mark all'interno del dipartimento giunsero altre informa-
zioni. Due vicini avevano visto una Honda di colore scuro entrare e uscire dalla casa, ma non erano riusciti a scorgere il guidatore perché entrava sempre usando il telecomando per aprire la porta del garage. Nell'appartamento non erano state trovate tracce di sangue né segni di colluttazione. Non si poteva sapere se Newly avesse lasciato la casa volontariamente: spazzolino, rasoio e altri effetti personali non furono trovati. C'erano anche indizi che qualcun altro, una persona dai capelli biondi, era stata in una delle stanze al piano inferiore. Inserimmo tutti i particolari possibili nel giornale prima che andasse in stampa definitivamente. Come succede sempre quando si arriva al termine ultimo di consegna di una notizia sensazionale, la redazione si svuotò di colpo. John si fermò giusto il tempo necessario per le presentazioni formali con Ben e per comunicarmi che stava cercando di farmi cambiare i turni. «A proposito, Kelly... cos'è quella storia degli elicotteri di cui ho sentito parlare? Che non succeda nei turni di giorno, se mai dovessi riprendere. Wrigley ha già abbastanza paura di te anche senza pensare che tu possa presentarti qui come in una scena di Apocalypse Now.» Se ne andò a casa per recuperare qualche ora di sonno. Quel mestiere bestiale era così: nonostante il lavoro massacrante della sera precedente, il mattino dopo tutto sarebbe ricominciato daccapo. In ogni caso il turno di notte era molto più movimentato di quanto non mi fossi aspettata. Quando la redazione si fu svuotata, Ben mi seguì sul tetto dell'edificio. «Ho cercato di mettermi in contatto con Leonard per usare l'ascensore, ma dev'essere in giro per l'edificio.» Gli spiegai la questione della chiave di accesso all'ascensore. «Inutile dire che ai dipendenti in cura psichiatrica per aver tirato oggetti pesanti in testa al principale questa chiave non viene data.» «Non ho problemi con le scale», disse. «Sono un buon esercizio.» Fu decisamente un lungo esercizio. Quando arrivammo all'ultima porta Ben commentò: «Non è stato poi così terribile». Era una bella notte. Guardai in direzione dello Scatolone. Niente. Nessuna luce, nessun movimento né tantomeno la sensazione di essere osservata. «Come fa l'elicottero ad atterrare in mezzo a tutto questo casino?» do-
mandò Ben osservando le diverse strutture appoggiate sul tetto. «La pista d'atterraggio è dall'altra parte. Vieni, te la faccio vedere.» Lo accompagnai lungo il perimetro, fino alla pista d'atterraggio. Mentre aspettavamo l'arrivo di Stinger e Travis gli feci fare un giro panoramico. Gli indicai tutti i punti riconoscibili della città che potevano essere ammirati dal tetto e i doccioni che mi piacevano tanto, ma non volle sporgersi dalla ringhiera per vederli. Dopo avergli indicato un drago alato a due zampe e una sirena, per la quale si diceva che avesse posato come modella la nonna di Wrigley, gli dissi che avremmo potuto osservare quelle sculture più comodamente da terra. «Inoltre il punto di vista giusto è quello», aggiunsi mentre ci accomodavamo al Caffè Kelly. «Devo ammettere che non avrei mai immaginato che tu soffrissi di vertigini, non dopo averti visto alle prese con i sentieri scoscesi di montagna.» «Non ho difficoltà con l'altezza, in montagna», mi spiegò. «Sono le superfici lisce e perpendicolari della città che mi danno problemi, suppongo. A te invece non piace la montagna, vero?» Ci pensai un attimo. «La montagna mi piace. È stata la gente che ho incontrato lassù che ha fatto nascere in me la paura.» «Parrish?» «È uno di loro.» «Dimmi cos'è successo quella mattina prima che ci trovassero.» «Vuoi una bottiglia d'acqua? Puoi scegliere tra acqua e... acqua. Il locale offre una vasta scelta.» «Servita con un bel piatto di stronzate. Stai evitando la mia domanda.» «Per il momento», ammisi. «Ascolta. Sta arrivando l'elicottero. Lo senti?» «Sì», rispose con un sospiro. Mi alzai per andare ad accendere le luci della pista. Leonard non chiudeva più la porta a chiave. La visita di Travis e Stinger fu piacevole. Era da molto che non vedevano Ben. Ma come sempre non si fermarono a lungo, e partirono con la promessa di organizzare un incontro al più presto. «Travis impara in fretta», osservò Ben. «Sì», risposi mentre tornavo verso la porta del tetto. «Aspetta un attimo», mi interruppe lui. «Non ho dimenticato la tua promessa.» «Nemmeno io. Voglio solo controllare che non ci siano Leonard o Jerry,
il ragazzo che viene quassù a fumare. Non mi va di aprire il mio intimo a tutto il personale. Voglio tenere d'occhio la porta.» Era irritato, ma cercò di sopportare, e mi venne dietro con calma. Persi tempo a bighellonare in giro. Non avevo fretta di iniziare quella conversazione. «Mio Dio, Irene», borbottò mentre mi sorpassava, «ci arrivo prima io senza una gamba, a quella porta.» «Bello sforzo», osservai. «So che ti stai allenando e ho letto dei servizi sulle Olimpiadi dei disabili. Pare che uno con una protesi al piede abbia mancato di soli quattro secondi il record di Carl Lewis.» «Ho molta più forza nella parte superiore del corpo che non prima dell'operazione», ammise, «e non vado tutti i giorni a correre come fai tu. So che pensi che potrei saltare su quelle costruzioni con un solo balzo, ma nonostante tutto non sono ancora diventato un supereroe.» «In ogni caso non hai ancora raggiunto il pieno delle tue potenzialità e lo sai», dissi. «È passato troppo poco tempo.» «Lo so», rispose fermandosi. Fece un lieve inchino da gentiluomo quando lo raggiunsi e mi pungolò: «Dopo di te. Tergiversa quanto vuoi, ma non funziona». Raggiunsi l'angolo, mi fermai. «Va bene, da qui posso vedere la porta.» «Sei sicura che non vuoi andare ad aprirla?» domandò Ben. «Forse il tuo collega fumatore si è nascosto dall'altra parte con un microfono parabolico.» «Ascolta», replicai, «vuoi sentire la verità senza troppi fronzoli? Non ho voglia di rivivere le scene di quella mattina con Parrish. A volte penso che se rivedessi la sua faccia...» Non riuscii a finire la frase perché la porta si aprì. «Merda», imprecò Ben. «Avevi ragione sul tuo fumatore incallito.» Ma anche se aveva i capelli biondi, anche se era lontano, anche al buio, riconobbi la persona che era arrivata sul tetto. Non era Jerry, e nemmeno Leonard. Spinsi Ben dietro l'angolo e gli feci quasi perdere l'equilibrio. «Cosa ca...» Gli misi una mano sulla bocca. «È Parrish!» sussurrai. «Corri!» Mi guardò in preda al panico. «Dove?» Bella domanda. 58
MERCOLEDÌ 27 SETTEMBRE, 1.35 DI NOTTE Tetto del Wrigley Building «Vieni da questa parte», sussurrai, e cominciai a correre nello scuro e stretto labirinto che si snodava tra le strutture del tetto. Girai un paio di angoli e mi nascosi dietro il condizionatore d'aria. Speravo che Parrish si dirigesse verso la zona aperta, in modo che noi potessimo tornare alla porta. Sentimmo dei rumori, ma era difficile capire da dove provenissero. «Forse è meglio se ci dividiamo», propose Ben. «Lui è da solo. Non può dare la caccia a tutti e due.» «A meno che non abbia portato con sé il suo assistente.» Vidi una scala appoggiata al muro lì vicino. Doveva servire per raggiungere le aste delle bandiere. «Aspetta qui», gli intimai. Corsi veloce verso la scala e mi arrampicai per sbirciare lungo lo stretto corridoio da cui eravamo arrivati. Vidi una cosa strana: una luce che si muoveva lentamente e sobbalzava a quasi due metri da terra. Ci misi un attimo, poi capii cos'era. Parrish indossava una lampada frontale in modo da avere le mani libere. Non volevo neppure pensare per fare cosa. Rimasi a osservare la scena ancora qualche istante, poi tornai in fretta da Ben. «Sembra solo, e sta per arrivare da questa parte, ma non credo che dovremmo separarci. Non per ora.» «Sono d'accordo», sussurrò. In quel momento il cellulare squillò, forte e chiaro. Fu come essere attraversata da una scossa elettrica ad alto voltaggio. Imprecai e cercai di rispondere, ma fece un altro squillo. Ben riprese a correre. Capivo il suo desiderio di allontanarsi dalla donna che reggeva lo strumento che avrebbe permesso a Parrish di trovarci. «Chiunque tu sia», sibilai nel telefono mentre correvo in direzione opposta, «chiama la polizia!» «Irene?» Era una voce maschile che mi suonava familiare, ma non capii chi poteva essere. Girai l'angolo e sentii dei passi. Mi infilai in un altro corridoio stretto e corsi come un fulmine. «Maledizione, chiunque tu sia, metti giù e chiama subito la polizia. Di' che Nick Parrish è sul tetto dell'Express.» «Sono Phil Newly, io...» «Merda!» borbottai, e riattaccai.
Fantastico. Il tirapiedi di satana ora sapeva dove trovare il suo capo. All'altra estremità del corridoio apparve la lampada di Parrish. Girai un altro angolo. Un vicolo cieco. Calma, pensai. Usa il cellulare. Chiama la polizia e anche se per te è la fine, perlomeno verranno a salvare Ben. Chiamai chiedendomi quale dipartimento avrebbe risposto. Era la polizia di Las Piernas. «Nick Parrish è sul tetto del Wrigley Building...» «Ehi, Nicky, bel bambino!» chiamò Ben. «Vieni a prendermi!» «Oh Gesù», dissi con un filo di voce. «Sul tetto dell'Express! Aiuto!» Riagganciai. Camminai ancora senza sapere dove sarei arrivata. Nessuna traccia di Parrish, né di Ben. Ripresi il telefono e premetti il tasto per chiamare il numero memorizzato come «Stinger@FE». Feci la telefonata mentre uscivo dal vicolo cieco. «Freemont Enterprises», rispose una voce assonnata. «Pappy?» sussurrai. «Parli più forte.» «Di' a Travis e a Stinger di tornare sul tetto», dissi, e riagganciai perché avevo appena visto Ben attraversare l'imbocco del corridoio. Parrish lo seguiva a breve distanza. Raggiunsi l'uscita, girai nella direzione che avevano preso loro e urlai con tutto il fiato che avevo: «Nick Parrish, brutto bastardo, non credevo che saresti caduto in un tranello così stupido!» Udii un tonfo sordo e notai una luce dietro di me. Mi girai e me lo trovai a meno di un metro di distanza. Era in piedi vicino a una scala. Aveva una pistola in una fondina a tracolla e nella mano destra brandiva l'arma che aveva scelto: un coltello dalla lunga lama affilata. «Non sono caduto in nessun tranello», replicò disegnando una sorta di otto con la lama del coltello. «Tu invece sei stata così stupida da passarmi davanti senza neppure vedermi.» Arretrai di qualche passo. «Vuoi correre?» disse sollevando il coltello. «Ma certo. Soprattutto adesso che ho ucciso il tuo amichetto zoppo.» «Non l'hai ucciso», replicai, sperando di avere ragione. «E come lo sai?» «Non ho sentito colpi di pistola e non c'è sangue sul coltello. Come al
solito dici un sacco di stronzate.» «Non credo che tu ne sia così sicura. Chiamalo! Vediamo se risponde.» «Non ho nessuna intenzione di aiutarti a capire dove si trova.» «Lo troverò lo stesso. Non può muoversi veloce come te.» «Questo dimostra quanto poco ne sai. Non credo che riusciresti a prenderlo.» «Oh sì, che potrei farlo! Così come ho preso la sua fidanzata, che ha letteralmente perso la testa per me. Era così carina! Mi dispiace non essere stato nei paraggi per vedere le sue lacrime quando ha trovato la mia Pattinatrice, stamattina.» «Sbagli di nuovo, Nicky. Non era affatto sconvolto. Era la sua ex, e non gliene importava proprio un cazzo.» «Forse perché ti vuole portar via a tuo marito.» Non dovevo farlo avvicinare. Dovevo distrarlo in modo che Ben potesse allontanarsi. «Una cosa che a te non riuscirebbe mai, vero Nicky? O volevi solo farmi innervosire? Puoi far di meglio. Naturalmente tu non sai niente sull'amicizia o sulle relazioni autentiche. E non potresti mai far del sesso con una donna, a meno che non le punti un coltello alla gola. Quale donna sana di mente potrebbe venire con te di sua spontanea volontà?» Lui rise e sollevò il coltello. «Se non mi piacesse sentirti strillare ti avrei già tagliato la lingua. Anzi, penso proprio che comincerò da lì.» Fece un affondo e io saltai all'indietro portando d'istinto le mani avanti. Avevo ancora il cellulare in mano. «Cosa?» rise. «Vuoi chiamare la polizia? Non arriveranno mai in tempo. Puoi star sicura che nessuno salirà da quelle scale... ho bloccato la porta, e, anche se riescono a superare quella, ho sbarrato l'entrata che dà sul tetto con un bel lucchettone. Ti piace viaggiare?» La domanda mi colse così di sorpresa che non risposi neppure. «La pubblicità di quei piccoli gioielli è su tutte le riviste delle linee aeree», continuò. «Un oggetto che dovrebbe tenerti al sicuro nella camera d'albergo. Questo è per uso industriale, ma mi è stato molto utile in altre occasioni.» Cercai di pensare se c'erano altri accessi al tetto. Solo uno dei lati dell'edificio era attaccato a un altro palazzo: un centro commerciale con tre piani di negozi. «C'è una chiave sola, e ce l'ho io», stava dicendo Parrish. «Tu e il dottor Sheridan siete miei prigionieri. Quel lucchetto non resisterà a lungo, ma mi
lascerà il tempo necessario.» «Non hai tutto il tempo che credi», dissi. «Allora cercherò di approfittarne subito. Ti ricordi il nostro gioco in montagna? Comincia a correre, Irene.» Feci due passi. Mi girai verso di lui e gli scagliai addosso il cellulare con tutta la forza che avevo. Non era molto pesante, ma colpì il bersaglio che luccicava verso di me da meno di tre metri di distanza: la lampada frontale. Gridò per la sorpresa. Era quello che speravo. Mi misi a correre senza guardare se avessi fatto altri danni. In montagna non mi sarebbe andata così bene, ma adesso era diverso. Non c'era l'altitudine, non ero esausta né disidratata, e portavo scarpe da ginnastica anziché pesanti scarponi da trekking. La superficie era liscia e relativamente priva di ostacoli... ma stavo avanzando in una gabbia. Pensai di nascondermi nella stanza delle luci della pista di atterraggio, forse però era meglio restare fuori e controllare la sua posizione con la possibilità di spostarmi. Passavo da una fila di strutture all'altra, e a ogni angolo temevo di ritrovarmelo davanti. Dov'era Ben? Sentii l'elicottero che si avvicinava e il suono delle sirene. All'improvviso pensai che se Travis e Stinger avessero tentato di atterrare sarebbero stati in pericolo. Parrish era armato e poteva sparare. Dovevo a tutti i costi sapere dov'era e avvisare Stinger di allontanarsi. Dove potevo andare per essere sicura che mi vedessero senza diventare un facile bersaglio per Parrish? Mi diressi verso le aste delle bandiere. Salii sulla scala con molta cautela, ma in fretta. Temevo di trovarmi davanti Parrish, una volta arrivata lassù, oppure che mi raggiungesse da sotto. Per fortuna non c'era nessuno. Ero circa dieci metri più in alto del tetto. Sentii un rumore provenire da sotto: vidi Ben che si dirigeva verso di me. L'elicottero si stava avvicinando e lasciai perdere Ben. Non conoscevo i segnali ufficiali per dire a un elicottero di allontanarsi, quindi cominciai ad agitare le braccia facendo loro il gesto di andarsene, scossi la testa mentre indicavo il tetto con i pollici girati verso il basso. Cercai anche di mimare una pistola puntata verso di loro. In qualche modo dovettero capire quello che volevo dire perché si allontanarono, alzandosi da un lato dell'edificio. Ma non lasciarono completamente l'area, e temevo che Parrish potesse ancora colpirli.
Vidi la testa di Ben spuntare dal bordo del tetto e corsi verso di lui. «Va' via!» urlò, e parve perdere l'equilibrio. Era attaccato alla parte terminale della scala, e si era piegato sul bordo del tetto, come se volesse sollevarsi con l'aiuto delle braccia. Ignorai il suo avvertimento e mi avvicinai. Guardai giù dal bordo: Parrish che stava salendo la scala. Aveva afferrato la gamba destra di Ben e cercava di tirarlo giù. Parrish non era molto lontano da me, e ora teneva entrambe le gambe di Sheridan con il braccio destro, la mano sinistra aggrappata alla barra della scala. Cercò di farlo cadere. Io mi sporsi dal bordo tentando di mantenere il peso sul tetto. Con una mano mi attaccai alla barra della scala, con l'altra afferrai la cintura di Ben per contrastare la trazione di Parrish. Il sangue mi stava andando alla testa, ma i nostri sforzi combinati impedivano al killer di fare progressi. L'assassino salì di un altro piolo e mi trovai la sua faccia a pochi centimetri. «E così vi ho presi tutti e due. Ho paura che non potrai scrivere un altro articolo su di me. Non male per un ladro di mutandine, eh?» Si allungò e mi leccò la faccia. Mollai la cintura di Ben e gli assestai un bel pugno. Il naso cominciò a sanguinargli copiosamente. Per un attimo allentò la presa su Sheridan che riuscì così ad appoggiare il piede destro su un piolo mentre Parrish urlava verso di me, accecato dalla rabbia. Cercai di sfruttare quel momento di cecità e afferrai la pistola dalla fondina che quel demonio portava alla spalla. Liberò la mano destra con cui aveva afferrato Ben, ma non fu abbastanza veloce, e riuscii a estrarre l'arma dalla fondina. Mi afferrò il polso e io mollai la pistola, che cadde sul tetto sottostante. Cercò di tirarmi giù, ma Ben, che era salito un po' più in alto, gli sferrò un calcio all'inguine con il piede artificiale. Probabilmente mancò le zone calde, anche se qualcosa colpì, perché Parrish grugnì e mi lasciò il polso; non cadde. Si afferrò con un movimento rapido alle gambe di Ben, ma riuscì a prendere solo la protesi da cui era appena stato colpito. Io ne afferrai la parte alta per cercare di tirare su Sheridan, mentre lui si teneva saldamente attaccato all'ultimo piolo e continuava a dar calci al braccio sinistro dell'assassino. Una luce potente si accese sopra di noi; sentimmo il vento e il rumore; l'elicottero era lì. Non riuscivo a vederli, ma sapevano di non potersi avvicinare: c'erano troppe aste, cavi e altri oggetti, su quella parte di tetto. Le
bandiere sbattevano rumorosamente e i cavi risuonavano contro le aste come una campana d'allarme. «A sinistra!» urlai a Ben. Non sapevo se mi avesse sentita o meno, ma il calcio successivo andò a segno e colpì forte il braccio sinistro di Parrish, che mollò la presa e rischiò di precipitare, ma si aggrappò alla protesi. Riuscì ad appoggiare nuovamente i piedi su un piolo della scala. Ben aveva spostato la gamba destra più in alto, lontano dal raggio di azione di Parrish, che rimase attaccato alla protesi con la sinistra e liberò la destra. Invece di aggrapparsi alla scala, prese il coltello. «Ora ti amputerò anche l'altra!» annunciò con la voce impastata dal sangue che continuava a colargli dal naso. Piegai le dita con un movimento involontario e sentii un pulsante di metallo: era quello per lo sgancio della protesi. Lo premetti. Sentii un clic e feci in tempo a vedere lo sguardo terrorizzato di Parrish mentre la protesi si staccava dalla calotta. Fece dei movimenti disperati, ma inutili, e cadde all'indietro sul tetto con un tonfo violento. Non si mosse. 59 MERCOLEDÌ 27 SETTEMBRE, 1.55 DI NOTTE Las Piernas Ben si sollevò oltre il parapetto. Io mi sedetti, un po' frastornata per essere rimasta qualche tempo a testa in giù. Eravamo entrambi senza fiato. «Stai bene?» domandai. Annuì. «E tu?» «Sì. Mi dispiace per il tuo piede.» «Probabilmente non si è danneggiato, ma dopo tutta la fatica che ho fatto per arrivare fin qui, col cavolo che torno giù a vedere se è tutto a posto.» «Penso che verrà qualcuno a riportartelo», dissi indicando l'elicottero che stava atterrando. Nello stesso momento udimmo un rumore violento che ci fece sobbalzare. La polizia era riuscita ad arrivare sul tetto, e in un batter d'occhio Parrish fu circondato. Non si muoveva e si piegarono su di lui. «Irene!» Distolsi lo sguardo dalla scena sottostante per seguire la voce di mio marito, che era sceso dall'elicottero e correva verso di noi.
Lo salutai con la mano e urlai: «Stiamo bene!» Fece un enorme sorriso e corse più veloce. Tre poliziotti del gruppo di pronto intervento salirono la scala prima di lui. «Stiamo bene», confermò Ben. «Parrish è morto?» «No», rispose uno di loro. «Ma ci è andato molto vicino. Sembra che si sia spezzato il collo. Lo porteremo al St. Anne's, visto che si trova abbastanza vicino.» Frank arrivò con la protesi di Ben. «Pensavo che ti potesse servire», disse allungandogliela. «Grazie! Mi stavo proprio chiedendo come avrei fatto a scendere da qui.» La controllò e vide che, nonostante fosse un po' graffiata, non aveva subito danni irreparabili. «Non credo che al mio cellulare sia andata altrettanto bene», dissi. Quando gli spiegai come l'avevo usato Frank si mise a ridere e mi abbracciò forte. «Parrish non aveva capito con chi aveva a che fare, eh?» Mi strinse ancora più forte, come se volesse assicurarsi che stavo davvero bene. Anch'io mi strinsi a lui. Stavo bene e provavo una sensazione di sicurezza come non mi capitava più da tempo. «Oh!» esclamai uscendo da quel mondo incantato. «Mi ha chiamato Phil Newly. La telefonata è stata inviata al cellulare dal telefono dell'ufficio. Credi che sia possibile recuperare il numero dai tabulati del cellulare?» «Non ce n'è bisogno», mi tranquillizzò Frank. «Newly ci ha contattati: è così che ho scoperto dov'eri. Ci ha detto che aveva provato a chiamarti e che tu avevi risposto che eri sul tetto con Nick Parrish, eri spaventata e avevi chiesto di avvisare la polizia.» «Dove si era cacciato?» «Si era nascosto perché aveva paura di Parrish. Dopo aver saputo delle rose e delle ossa che avevi ricevuto aveva capito che era tornato nei paraggi e se ne è andato. Ha affittato una casa sulla costa e non ha detto nemmeno a sua sorella dove poteva essere rintracciato. Dopo aver sentito le notizie questa sera ha deciso di tornare a casa.» «E perché ha chiamato me?» «Si aspettava una reazione piuttosto ostile, da parte della polizia, e ha pensato che forse sarebbe stato utile incontrarsi con me prima che le cose degenerassero. Non gli ho detto che tu eri quella che ha insistito per tenerlo sotto controllo. Ha già assunto un avvocato, ma ha accettato di incontrarci domani.»
«Aspetta un attimo», intervenni. «A casa sua è stata trovata una sega circolare sporca di sangue e altri oggetti, giusto?» «Giusto.» «E le ossa delle gambe che erano nelle rose potrebbero essere state tagliate con una sega, vero Ben?» «Sì.» «Le rose sono arrivate lo stesso giorno in cui sono andata a trovare Phil. Se se ne è andato dopo aver sentito la storia delle ossa significa che è partito dopo che quelle stesse ossa sono state segate nel suo garage. Se è innocente deve essere anche sordo, perché non ha sentito un rumore piuttosto forte che proveniva dal suo stesso garage. Per non parlare delle macchie di sangue sul banco da lavoro. Deve averle per forza viste mentre tirava fuori la macchina.» «Non necessariamente», replicò Ben. «Ti stai riferendo a notizie di giornale basate su fonti di seconda mano.» «Ben Sheridan...» «No, non voglio intavolare una discussione sulla stampa. Frank, tu sei entrato nel garage di Newly e hai visto con i tuoi occhi. Il banco da lavoro era sporco di sangue?» «Sì.» «Se c'era del sangue probabilmente proveniva dal corpo di Camille.» Distolse lo sguardo per un istante, poi continuò: «O forse dal corpo della sconosciuta trovata nel cassonetto. Ma non importa. Quel sangue non proveniva dai femori della donna dell'Oregon». «Un momento», protestai. «Ha ragione», interruppe Frank. «Di solito i cadaveri non sanguinano perché il cuore non pompa più. Il sangue defluisce negli istanti successivi alla morte, ma le donne dell'Oregon sono state uccise diverse settimane fa. Parrish ha tolto le gambe alla centralinista nel punto in cui ha lasciato i corpi... molto lontano dalla casa di Phil Newly.» «Ho esaminato i femori», aggiunse Ben. «Non sono stati segati quando il corpo era fresco.» «Quindi pensi che sia innocente?» chiesi a Frank. «Non sto dicendo che sia innocente o colpevole», precisò. «Finora nella casa di Newly non sono stati trovati frammenti che appartengono a quei femori, ma sono passate poco più di dodici ore dal rinvenimento. Newly non è certo in una posizione chiara. Quando si scoprono cose del genere in una casa ci si pongono sempre delle domande sul proprietario. Newly deve
chiarire ancora molte cose.» Quando scendemmo dalla scala vidi una figura familiare che se ne stava in disparte, con aria piuttosto avvilita. Andai verso di lui. «Leonard? Cosa c'è?» «L'ho delusa», disse. Lanciò uno sguardo nervoso verso Frank e lo riabbassò sulle scarpe lucide. «Ha inscenato il trucco più vecchio del mondo e io ci sono cascato.» «Di cosa stai parlando?» Sospirò, sempre con lo sguardo basso, e rispose: «Di Parrish. Ha appiccato il fuoco in un cestino della carta straccia nella zona di carico. Deve essere salito mentre ero andato a controllare». «Il fuoco ha fatto dei danni?» Scosse la testa. «Bene. Allora non ci sono problemi, giusto?» «Avevo promesso che non l'avrei lasciato entrare nell'edificio e invece l'ho fatto.» «Sono mesi che sfugge all'intero dipartimento di polizia», intervenne Frank. «Nessuno si aspettava che potesse essere fermato da un agente isolato.» Li presentai ufficialmente e Frank lo ringraziò. «Il solo fatto di sapere che tu eri qui a controllare le cose mi tranquillizzava molto.» «Davvero?» disse Leonard, poi aggiunse rapidamente: «Cerco di fare del mio meglio». «Hai fatto il tuo dovere.» «Agente isolato?» chiesi più tardi quando Leonard se ne era andato. «Temevo che volesse buttarsi dal parapetto.» Quando John Walters ebbe sbollito la rabbia per la caccia all'uomo inscenata sul tetto dopo l'ora di chiusura del giornale, mi chiese di scrivere un articolo per l'edizione speciale del mattino. Accettai, scatenando un coro di proteste da parte dei miei protettori. Volevo dimostrare a Wrigley che potevo pubblicare articoli in prima pagina anche se mi consentiva di lavorare solo dopo l'orario di chiusura del quotidiano. Frank, Ben, Travis e Stinger rifiutarono di lasciarmi sola in redazione. Jack arrivò con una bottiglia di champagne senza ascoltare gli avvertimenti
di Leonard, che citava il regolamento interno secondo cui era proibito consumare alcolici. («Io non c'ero e non ho visto niente», disse.) Brindammo tutti insieme per gli amici presenti e per quelli assenti. John si unì a noi. Dai nastri registrati dalle telecamere di sicurezza si scoprì che Parrish era entrato nell'edificio dalle zone di carico. Portava un cappello da baseball e aveva una cassetta degli attrezzi. Era passato di proposito davanti agli uomini impegnati con le consegne dei giornali usciti in ritardo dalle rotative. Aveva appiccato il fuoco vicino a un'altra telecamera in modo da essere sicuro che Leonard avrebbe notato il fumo. Si era preoccupato di rendere particolarmente difficile l'accesso al tetto. Aveva barricato l'ultimo ingresso alle scale bloccando con un lucchetto professionale la porta. Chiamai l'ospedale per avere un aggiornamento della situazione. Parrish aveva riportato diverse lesioni, soprattutto al collo e alla testa, ed era in condizioni critiche. Se fosse morto mi domandavo chi altro potesse piangerlo, a parte il suo aiutante. «Con tutto quel peso attaccato alla protesi come mai l'aggancio non ha ceduto prima?» domandò Travis a Ben. «È attaccato con una speciale ventosa», gli spiegò. «A meno che non lo sviti non si stacca. Per ovvie ragioni la protesi è costruita in modo che non si stacchi a meno che non sia io a toglierla. Cosa che desidererei fare il prima possibile.» Consegnai l'articolo e uscimmo. Stinger rimase da Jack, Travis dormì sul nostro divano e Ben nella camera degli ospiti con Bingle. Io e Frank non ci addormentammo subito, ma non certo per colpa degli incubi. Era un qualche tipo di pulsione a cui la dottoressa Robinson avrebbe sicuramente dato un nome specifico, una sindrome o qualcosa del genere, ma noi non avevamo bisogno di darle un nome. Con la casa così piena fummo costretti a essere un po' più silenziosi del solito, ma non fu un problema... avevamo già sperimentato in occasioni precedenti che Bingle tendeva a dare l'allarme, quando sentiva certi rumori provenire da dietro una porta. «Magari è per quello che il suo primo nome era Bocazo!» ipotizzai. «Può darsi», mormorò, concentrato su altre questioni. Dopo dormimmo benissimo. La mattina seguente mi svegliai con un pensiero piuttosto spiacevole in testa. Un sospetto a cui non volevo dar credito, ma di cui non riuscivo a li-
berarmi. «Frank», mi decisi alla fine, «devo chiederti un favore enorme.» 60 MERCOLEDÌ 27 SETTEMBRE, TARDO POMERIGGIO Las Piernas All'inizio il personale del St. Anne's si dimostrò piuttosto diffidente nei miei confronti. Dopotutto ero la persona che aveva ridotto il loro paziente in quelle condizioni. Da mesi leggevano notizie su di lui, e sapevano di chi si trattava. Ma poi, quando dopo due ore si accorsero che non avevo ancora tentato di soffocarlo, cominciai a sentire commenti sulla mia incredibile capacità di perdono. Non poteva esserci diagnosi più sbagliata. Avevo con me una copia del Parsifal, ma non lo stavo leggendo. Pensavo a una ricerca che era stata fatta la mattina stessa. Era stata dura convincere Frank delle mie idee, così come ci era voluto del tempo anche a me. Mentre mio marito faceva alcune telefonate e Travis preparava la colazione, riguardai velocemente le cassette di Bingle e David con il gruppo di ricerca SAR. Trovai quello che stavo cercando e lo mostrai a Frank, il quale fece altre telefonate. Ne feci una anch'io. Ben si svegliò e si unì a noi per la colazione. Gli chiesi a che ora aveva lezione. «Devo essere in laboratorio alle due, ma Ellen potrebbe sostituirmi se hai bisogno di aiuto.» «Frank ha ricevuto una segnalazione di una casa in cui potrebbero essere nascosti alcuni resti. Potresti portare Bingle?» «Certo, ma sarebbe bene avere più di un cane per la conferma.» «Non puoi metterti in contatto con il nuovo padrone di Bool e chiedergli di partecipare?» «Ci posso provare.» «Se è disponibile, qui c'è l'indirizzo della casa.» «Tu non vieni?» «No, stamattina ho già un altro impegno.» Mi accorsi che voleva farmi altre domande, ma intuì il mio stato d'animo e lasciò perdere. Chiamò Ellen Raice e l'addestratore del segugio. La seconda telefonata fu abbastanza lunga, e quando riagganciò sembrava con-
tento. «Allora?» domandai. «Dice che aveva intenzione di chiamarmi, che forse si è sbagliato, e pensa che Bool senta la mancanza di quell'indisciplinato pastore tedesco. Ci sta ripensando sul fatto di tenere Bool.» «Qualcosa mi suggerisce che anche a te manca Bool.» «In effetti», ammise. «È uno stupidone, ma è molto affettuoso. Ed è un bravissimo segugio. David lo diceva sempre: 'Se c'è qualcosa da trovare, Bool lo trova'. Questo addestratore ha detto che potrebbe insegnarmi come lavorare con lui, se me lo voglio riprendere.» Mentre ero all'ospedale Frank mi chiamò per dirmi che la ricerca con i cani aveva dato esiti positivi e che avrebbero condotto ricerche più accurate nel pomeriggio. «Un'altra cosa», aggiunse. «Appena Ben avrà sistemato i cani verrà da te.» «È sconvolto?» «Abbastanza. Gli ho detto che gli avresti spiegato tu la situazione.» «Grazie mille.» Rise. «Ti raggiungo appena posso.» «Cosa ci fai qui?» urlò Ben quando entrò nella stanza di terapia intensiva dove ero seduta, di fianco a Parrish. «Abbassa la voce, Ben», gli suggerii. «Penseranno che vuoi far del male al nostro povero Nicky.» «Esatto. Sono venuto per staccare tutte le spine.» Sospirai e chiusi il libro. «Caro il mio Ben... Sei molto più compassionevole di me.» «Compassionevole?» «Pensaci un attimo. È intrappolato nella sua prigione definitiva.» Lo sguardo di rabbia di Ben mutò all'istante. Osservò Parrish e disse: «Sopravvivrà?» «Sì, sembra proprio di sì. Non potrà più parlare né muoversi, ma sostengono che può sentire e capire, e riesce ad aprire gli occhi. Ogni tanto fa degli strani rantoli. Mi piace pensare che stia tentando di dire qualcosa.» Ti piace... «Sì. È piuttosto crudele da parte mia, vero? Sono abbastanza sorpresa di me stessa. Forse un giorno non sarò più arrabbiata con lui per ciò che ha
fatto, e, come te, desidererò che muoia.» Si sedette e mi studiò. «Non riesco a credere che tu sia qui semplicemente per godere di questa situazione.» «No», ammisi. «Ma finché dovrò rimanere seduta qui vicino a lui non mi dispiace sussurrargli le cose più orribili che riesco a pensare.» Parrish rantolò. Ben fece una smorfia. «Orribile», convenni. «Perché sei qui?» mi domandò ancora una volta. «Sto aspettando qualcuno.» «Chi?» «Te lo dico più tardi.» «Irene...» Fu distratto da un suono leggermente diverso che proveniva dalla bocca di Parrish, una specie di cantilena. «Cosa credi che stia cercando di dire?» domandò Ben con aria sospettosa. Appoggiai il libro, mi alzai e guardai Parrish negli occhi. «Cosa c'è Nicky?» «Mmmmaah.» «Forse chiama la sua mamma», dissi, e mi sedetti di nuovo. Ben mi fissava. «Hai pensato di chiamare Jo Robinson?» Risi. «Sì, credo che mi concederò una lunga seduta con lei, più tardi. Ma non ti preoccupare: non sono qui per fare del male a Nicky, né a nessun altro.» «Ti dispiace se aspetto con te?» domandò. «No, almeno... no, non mi dispiace. Le abilità oratorie del signor Nick sono piuttosto limitate.» Ben lo osservò ancora, poi proseguì: «Volevo continuare quel discorso che avevamo lasciato in sospeso, ma non vorrei parlarne davanti a lui». «Cosa potrebbe fare?» ribattei stanca. «Fantasticare? Lasciamolo fare. Questa volta non potrà nuocere a nessuno.» «Irene...» «Mi dispiace, Ben. Oggi mi sento abbastanza cinica. Posso chiederti una cosa che non c'entra nulla? A meno che non ti scocci parlarne davanti a Nick.» «Cosa?» «Hai detto che David a volte parlava di...» lanciai un'occhiata a Parrish e rettificai quello che stavo per dire. «Hai detto che parlava di rado di certi
episodi della sua infanzia.» «È vero», rispose piuttosto sulle sue. «Tranne con altre persone che avevano subito gli stessi traumi.» «Giusto», osservò Sheridan. «Ti ha mai detto il nome delle persone con cui parlava?» «No, se non in modo abbastanza generico. Se raccontava qualcosa non faceva nomi. Era come se... quel passato non doveva essere fonte di vergogna. Lavorava sodo per ottenere la fiducia di quelle persone, e non avrebbe mai tradito le loro confidenze. Aveva una particolare capacità nel riconoscere chi aveva passato cose simili, ma si avvicinava a loro in modo garbato, cauto. Non li spingeva a raccontare... prima si guadagnava la loro fiducia.» Fece una pausa prima di chiedere: «Perché ti informi sulla gente con cui parlava?» «Sto cercando di capire qualcuno che conosco», risposi. «Ma forse non sarò mai in grado di fare una cosa del genere.» «Ti stai comportando davvero in modo cinico.» «Mi dispiace, però è così. È cominciato tutto questa mattina. Mi sono svegliata con il pensiero di una canzone dei Boomtown Rats che si intitola I Don't Like Mondays, la conosci?» «Sì.» Ne canticchiò un pezzo. «Proprio quella. Mi ha fatto ricordare una cosa... quella canzone era ispirata a una sparatoria a San Carlos, una cittadina vicina a San Diego. Una ragazzina di sedici anni di nome Brenda Spencer aveva deciso di puntare un fucile sul cortile di una scuola e di dare inizio allo sterminio. Era il 1979. Allora le sparatorie nei cortili delle scuole elementari non erano così comuni.» «Davvero cinica. Mi ricordo di quella storia. Sparò da casa sua verso il cortile della scuola per diverse ore, giusto?» «E riuscì a uccidere due persone e a ferirne nove. Quando le chiesero il perché lei rispose: 'I don't like mondays', vale a dire: 'Odio il lunedì'.» «Mio Dio!» «Disse: 'Odio il lunedì, e volevo vivacizzare la giornata'.» «E questa canzone ti ha ricordato qualcuno?» «Sì. La canzone mi piace. Non solo a me. Ma è stata scritta nell'anno della sparatoria, vent'anni orsono. Era un bel po' che non la sentivo... fino a poco tempo fa.» Stava per aggiungere qualcosa quando l'agente di piantone alla porta en-
trò nella stanza. «Signora Kelly? È pronta?» «Mai stata così pronta, grazie», risposi. «Ben, devo chiederti di aspettare nell'altra stanza, insieme a Frank.» «Frank è qui?» domandò guardandosi intorno. «Sì. Non preoccuparti, potrai sentire tutto quello che diremo», lo rassicurai, e mi toccai la schiena. «Hai un microfono?» mi chiese incredulo. «Non penso che...» «Per favore, Ben. Frank ti metterà al corrente.» Incrociò le braccia. La radio dell'agente gracchiò. «Adesso o mai più, signora Harriman», disse. Ben non si muoveva. «Ben, se ti fidi di me, esci di qui.» Con una certa riluttanza uscì accompagnato dal poliziotto. Feci scattare un interruttore, dissi il mio nome, la data, l'ora, il luogo e confermai che Nick Parrish era presente. Parrish emise di nuovo un grugnito. Guardai al di là della parete a vetri, verso la guardiola. Una persona vestita da infermiera, ma che non si stava occupando di alcun paziente, mi fece cenno con il capo. In un'altra stanza, la bobina stava girando. Gli ingranaggi che si erano mossi per tutto il giorno nella mia mente cominciarono a girare vorticosamente. La porta dell'ascensore si aprì. 61 MERCOLEDÌ 27 SETTEMBRE, TARDO POMERIGGIO Las Piernas Mi asciugai il palmo delle mani. Si stava avvicinando con circospezione e passo incerto. Indossava un tailleur piuttosto serio con la gonna di una lunghezza che non le avevo mai visto. Aveva una borsetta di pelle nera. Sembrava una bambina che gioca a fare la signora. Non si mostrò assolutamente sorpresa, quando mi vide, ed entrò nella stanza. «Salve, Irene», mi salutò. «Ciao, Gillian.» «Sono... sono sollevata che lei sia qui. Avevo un po' paura a rimanere qui con lui da sola.» «Allora perché sei venuta?»
«Dovevo farlo.» Mi guardò. «Le hanno perquisito la borsetta, quando è entrata?» «Sì», risposi. «Perquisiscono tutti.» «Perché?» «Qualcuno potrebbe fargli del male, ma a questo punto vogliono che sia Dio a fare giustizia.» «Non solo Dio... anche lei. Ho saputo ciò che ha fatto.» Cercai di non innervosirmi. «Forse pensa che io sia pazza», continuò, «ma dovevo vederlo. Dovevo vedere l'uomo che ha fatto quelle cose a mia madre... Ho aspettato quattro anni.» «Ma l'avevi già visto anche prima.» Sgranò gli occhi. «Era il tuo vicino di casa, vero?» «Sì», confermò avvicinandosi al letto. «Ma è stato tanto tempo fa.» Si piegò e lo guardò dritto negli occhi. «Mmmaaah», mugolò Parrish. Lei impallidì e si allontanò dal letto. «Vieni qui», le dissi cingendole le spalle, «siediti. Quando ti ci abitui non fa più paura, anche se credo che sia abbastanza diverso dall'ultima volta che l'hai visto.» «Sì.» «Più o meno quattro anni fa?» tentai. «No... sì. Cioè, prima.» «Strano! Jason pensava che tu l'avessi visto quando veniva a spiare tua madre.» «Cosa?» «Ti ricordi, la sera che stavi facendo da baby-sitter a Jason e la macchina di Parrish si è fermata davanti a casa?» «Jason ha detto questo? Non crederà a quello che racconta un ragazzino.» Scosse la testa. «È triste.» Pensai che fosse triste il fatto che non avessi creduto a una singola parola di ciò che Jason mi aveva detto a proposito della sorella, ma continuai: «Ah, sì, ora ricordo! Ha detto che c'era una macchina, ma tu sei uscita e non l'hai vista». «Non me lo ricordo», fece spallucce. «Avevo intenzione di venirti a cercare», proseguii mentre mi spostavo tra lei e la porta. «Pensavo che tu potessi aiutare Ben Sheridan con il cane.»
«Parla dell'uomo che ha perso una gamba?» «Andiamo, Gillian, dovresti sapere qualcosa di più su di lui.» «Ah sì? Mi sono messa in contatto con talmente tante persone... Ha detto che dovrei aiutarlo con il cane?» chiese con tono irrequieto. «Quale cane?» «Un cane che conosci bene: Bingle. Era il cane di David Niles.» Non parlò. «Ho visto delle cassette piuttosto interessanti, stamattina. Hai fatto delle uscite con il gruppo di soccorso SAR in cui lavorava, non è così? Ti ho vista su diversi video mentre parlavi con David. Ti spiegava come lavorare con Bingle.» «Sì», confermò. «Pensavo che se avessi imparato a lavorare con i cani da cadaveri avrei potuto andare a cercare mia madre.» «Il tuo impegno per trovarla è davvero commovente», osservai, poi decisi di tentare con un piccolo bluff. «Sei stata brava a imparare qualcosa di antropologia legale, di cani da ricerca e a parlare con Andy Stuart per sapere come fanno i botanici a distinguere le zone di sepoltura.» «Esatto. Volevo trovare mia madre.» «Mmmaaah», mormorò Parrish di nuovo. «Cosa pensi che stia dicendo?» domandai. Scosse la testa senza parlare, ma dai suoi grandi occhi azzurri traspariva tutta la paura che provava. «Pensano che fra qualche giorno potrà riprendere a parlare», mentii. «Davvero?» «Sì.» Continuai a mentire. «È appena venuto un neurologo e ha detto che sta migliorando. E per questo che sono qui ad aspettare. Ho una domanda da fargli.» «Davvero?» «Sì. Si tratta di una cosa che mi ha detto ieri notte prima di cadere. E tutta la mattina che mi ronza in testa, e non posso aspettare che venga lui da me per chiederglielo.» «Cosa?» «Ti ricordi dell'articolo che Frank ti ha fatto leggere quando siamo venuti a trovarti a casa tua?» «Sì.» «È un appartamento molto carino, sopra un garage... in che via è?» «Loma, vicino all'ottava», rispose fissando di nuovo Parrish. «Penso che Ben sia andato da quelle parti stamattina... a fare esercizio con Bingle. Comunque, ti ricordi la storia delle mutande...»
«Sì, Era buffa», disse ridacchiando. Parrish fece un gorgoglio. «Te la ricordi davvero?» «Certo. Non è stato tanto tempo fa.» Ripeté l'articolo quasi parola per parola. «Straordinario. Lo sai che non è mai stato pubblicato sull'Express?» «No. È per questo che sono rimasta piuttosto sorpresa, quando Nick me ne ha citato un pezzo l'altra notte. Come poteva sapere cosa c'era scritto se non è mai apparso?» Gillian distolse lo sguardo da Parrish. «Deve essere stato qualcun altro... quell'avvocato che stanno cercando.» Scossi il capo. «Tu, Gillian. Tu.» «È ridicolo», replicò in fretta. «Perché dovrei avere a che fare con Nick Parrish?» «Non ho nessuna risposta in merito. O forse sì. Forse avrei dovuto dar retta a Jason. Dice che sei fredda, che odiavi tua madre con tutto il cuore.» Incrociò le braccia e si appoggiò allo schienale della sedia. Il suo sguardo era pieno di rancore. «Nicholas Parrish ha detto questo, Jason ha detto quello, e lei dice di non aver fatto leggere quell'articolo a nessun altro, ma non le credo.» «Hanno perquisito il garage sotto il tuo appartamento, Gillian. Frank ha ottenuto un mandato. I cani sono stati lì questa mattina, mentre tu eri al lavoro. Anche prima di entrare, Bingle, Bool e un altro segugio di nome Beau hanno fiutato la presenza di resti.» Ora aveva l'aria spaventata. «Naturalmente avevano ragione», continuai. «C'erano dei resti. Frammenti che corrispondono ai femori della donna dell'Oregon.» «Femori?» «Ossa delle gambe.» «Sta dicendo che Nicholas Parrish avrebbe avuto il coraggio di usare il mio stesso garage...» «Non riuscirai a cavarti d'impiccio così facilmente», la interruppi. «Hanno trovato anche la tua cassetta degli attrezzi.» «Quale cassetta?» «Quella che i cani non hanno neppure degnato di uno sguardo quando è stato chiesto loro di cercare le tracce di Nicholas Parrish. Hai partecipato a qualche addestramento del gruppo SAR, quindi sai come funzionano le cose. Hanno dato l'allarme praticamente dappertutto, anche nel tuo ap-
partamento. Ma non erano interessati alla cassetta: quella in cui ci sono le valvole di drenaggio dell'elicottero... coperte dalle tue impronte digitali.» Cominciò a piangere. «Se pensassi che stai versando quelle lacrime per qualcun altro invece che per te stessa, ne sarei commossa. Era tua madre, Gillian!» «Lei non può capire!» urlò la ragazza. «Dio solo sa come vorrei capire. Avevi un motivo? Dimmelo, allora.» «Non mi crederebbe.» «Prova.» «Nemmeno mio padre mi ha mai creduta.» Sospirai. «A tuo padre», dissi, tentando di scegliere le parole con cura, «non piacciono le cose spiacevoli, vero?» «Cose spiacevoli», mi fece il verso. «No, non vuole sentire neanche parlare di cose spiacevoli. Mia madre lo controllava. Cercava di controllare tutti. Jason, mio padre... ma con me non ci riuscì. Capisce? Me, no. Ci ha provato... e ha continuato a provarci... ma non ci è riuscita.» «E cosa avrebbe fatto?» «Lei che ne pensa?» Non risposi. «Crede che sia la prima volta che vengo in questo posto?» domandò. «Dovrebbe chiedere a mio padre quanti 'incidenti' mi sono successi prima che nascesse Jason.» «Credevo che gli ospedali...» Mi guardò con aria compassionevole. «Forse ha qualcosa a che vedere con il fatto che mia madre è stata presidente di un'associazione benefica del General Hospital di Las Piernas. Non venivamo spesso, al St. Anne's, ma ho conosciuto le suore prima di compiere i cinque anni, e non vivevo di sicuro in una famiglia cattolica.» «Non sei sempre stata curata dallo stesso dottore?» Accennò un sorrisetto freddo. «Rimarrebbe sorpresa se le dicessi quanta strada facevamo per andare in ospedale.» «Jason non lo sapeva?» «Ci sono parecchi anni di differenza, tra me e il mio fratellino. Lui non c'era ancora, nei periodi delle scottature, delle cadute dalle scale e cose del genere. Nemmeno io mi ricordo tutto. Ero piccola. Quando è arrivato Jason ha imparato a fare le cose in modo che non ci fosse bisogno di medici. Non lasciava più cicatrici. Jason sentiva solo quello che diceva lei: Gillian
è cattiva, Gillian è disobbediente. Gillian è incontrollabile. È così. Lei non poteva controllarmi.» «Se eri...» «Se. Lo vede? Perché dovrebbe credermi?» «Volevo dire, se eri un'amica di David...» «Non lo ero, d'accordo? Volevo solo imparare qualcosa sui cani. Cosa c'entra questo?» «Niente, purtroppo. E così tuo padre non si è mai accorto dei maltrattamenti?» domandai. «No. Lei stava molto attenta.» «E non ti avrebbe creduta?» «No», sorrise di nuovo. «Diceva di no.» «Mmtnmaah», arrivò il rantolo dal letto. «Nick Parrish ti credeva, non è vero?» Annuì, guardandolo di nuovo. «Succedevano le stesse cose anche in casa sua, quando era piccolo, tranne che la sua vecchia perseguitava lui e lasciava stare la sorella.» «E così tu andavi a casa del signor Parrish e gli raccontavi quello che ti succedeva.» Scosse la testa. «No?» «No. A quell'epoca non lo conoscevo. L'ho conosciuto più tardi. L'ho visto mentre osservava la casa. Aveva notato mia madre perché assomigliava alla sua, ma era troppo giovane. Tornò a guardarla quando diventò un po' più vecchia.» «Mmmmaah!» «Era così buono con me. E aveva un tale... potere! Mi capiva. Me ne sono accorta la prima volta che l'ho visto guardare la casa... prima di quella notte di cui le ha parlato Jason. Lo vidi. Fui l'unica abbastanza in gamba da notarlo prima che lui si accorgesse di essere stato notato da qualcuno. Riuscii a beccarlo. Ne rimase colpito.» «Mmmmaaah», mormorò di nuovo lui. «Era pronto a fare il grande passo verso la notorietà. Io l'ho aiutato. Era eccitante.» Per tutta la giornata avevo cercato di pensare a lei per quello che realmente era e non per come volevo che fosse. Non come la vittima che per anni avevo immaginato, ma come l'aiutante dell'assassino. «Come poteva aiutarlo?» mi domandavo pensando alle vittime di Parrish, alle loro fami-
glie, ai loro amici. E tra quelli non solo c'era sua madre, ma anche il fratello più piccolo. I maltrattamenti subiti spiegavano il suo odio nei confronti di Julia e anche altre cose, ma con la frase «Era eccitante» era diventata ancora una volta un'estranea ai miei occhi. Per quanto potessi provare compassione per la bambina che era stata, la giovane donna che avevo davanti era una persona che non riuscivo a capire. Mi allontanai da lei. «Come l'hai aiutato?» «Gli dissi dove sarebbe andata quel pomeriggio.» «C'eri anche tu quando l'ha uccisa?» Scosse la testa. «Non voleva che guardassi. Ma mi mostrò le foto, più tardi, quando capì che ne ero degna.» «E ne eri degna?» Non sembrò accorgersi del ribrezzo che provavo. «Non ha mai avuto altri discepoli», affermò con orgoglio. «Io sono stata la prima. Gli dissi che avrei fatto in modo che il mondo sapesse di lui.» «Con il mio aiuto», sussurrai amareggiata. «Lui organizzava tutto, naturalmente, ma chi mai avrebbe saputo della sua esistenza se non fosse stato per me? Io sono stata quella che ha alimentato la paura e che ha fatto in modo che qualcuno andasse sulle montagne.» «Perché potessimo vedere i suoi trofei.» «Nessuno lo avrebbe conosciuto, se non avessi fatto in modo che lei scrivesse gli articoli sulla morte di mia madre. Non è così?» «Forse no», replicai, improvvisamente stanca. «Ecco perché l'ha sepolta in un posto tutto per lei. L'ho visto.» «Cosa ti attrae verso una persona come lui? Sapendo cos'era capace di fare...» «Esattamente! Sapevo di cos'era capace. Conoscevo il suo potere. Anche adesso... non vede? Si rimetterà in forze. Tornerà. È ciò che sta cercando di dirmi: che io sono la sua Falena e la fiamma arde ancora.» «Sei una falena? Capisco cosa significa... le falene sono accecate da ciò che le affascina, non è così? Volano troppo vicino alla fiamma. E ora tu stai bruciando e non senti nemmeno l'odore di fumo che sale dalle tue ali.» «Un giorno si pentirà di avere detto queste cose», mi ammonì. «Non starà meglio, Gillian. Era una bugia. Passerà il resto della sua vita in questo stato.» «No! Adesso sta mentendo!» «Credo che tu sappia che non è così. Guardalo. È vuoto. Proprio come te.»
Mi fissò con orrore. «Non riesci ad aver pietà per nessuno, vero? Tutte le cose che tua madre ha distrutto in te...» «Chi se ne frega!» disse, «Devo solo badare a me stessa.» «Per tutto quel tempo ho pensato che tu fossi stoica. Ma non sei coraggiosa: sei spietata.» «Non mi importa.» Si prese la testa fra le mani. «Mi sta facendo venire il mal di testa.» «Non puoi aver pietà, nemmeno di lui.» Si piegò in avanti e pensai che stesse male. Invece, con un movimento decisamente poco femminile, si infilò una mano sotto la gonna e prese una pistola. La puntò contro di me. Non diede segno di sentire il trambusto fuori dalla stanza dove, una dopo l'altra, molte pistole furono puntate contro di lei. «Sono io quella che ti ha ingannata?» domandai. «O l'onnipotente Nicky?» «Mmmaah!» Si voltò verso Parrish. La afferrai da dietro e cademmo sul pavimento, sbattendo contro le sedie. Dalla pistola partì un colpo, un rumore assordante che mi impedì di sentire qualunque altro suono per un attimo. In una frazione di secondo avevamo tutti addosso, e qualcuno in uniforme era riuscito a toglierle l'arma di mano. L'aria era satura dell'odore di polvere da sparo e sentii una mano possente che mi aiutava ad alzarmi. «Tutto bene?» chiese Frank. «Sì.» Qualcuno le stava già leggendo i suoi diritti. Mi girai per guardare. Mentre si dirigevano all'ascensore anche lei si girò verso di me con lo stesso sguardo supplichevole che mi aveva perseguitata per quattro anni. Che mi aveva imbrogliata per quattro anni. «Non farlo», disse Ben avvicinandosi. «Cosa?» «Non sentirti in colpa.» Non risposi. Una donna poliziotto entrò in quel momento per staccare il microfono e mi disse che avevo fatto un gran bel lavoro. Frank mi guardò dritto negli occhi e, con il suo solito tono educato, la incitò a fare presto e a lasciarmi sola. «Sei sicura di sentirti bene?» mi domandò non appena la donna fu usci-
ta. Annuii. «E tu, Ben?» «Così così.» «Uno di noi due sta mentendo», affermai, «e credo di essere io.» Parrish emise un rantolo. Andai verso di lui e lo guardai in faccia. Gli occhi risplendevano, come se trattenessero una risata. «Non essere troppo contento, Nick. Io riuscirò a superare tutto quello che adesso mi preoccupa.» Il suo volto si contrasse. «Fra dieci anni, quando tu starai ancora fissando questo soffitto, augurandoti di morire al più presto, o semplicemente roso dal desiderio che qualcuno venga a grattarti il naso, voglio che ricordi cos'ho fatto per vendicare le tue vittime. Ti ho salvato la vita.» «Mmmmaah! Mmmmaaahh!» «Ci vediamo, Nicky. Ti auguro di campare cent'anni!» 62 MERCOLEDÌ 18 OTTOBRE, MEZZANOTTE Tetto del Wrigley Building Tre settimane più tardi mi trovavo sul tetto dell'Express. Era mezzanotte e mi stavo godendo la vista della città. Lavoravo ancora part-time a orari strani. Avevo annullato diverse sedute con Jo Robinson e avevo detto a John di non seccare Wrigley con la questione dei miei orari. Mi piaceva lavorare in quei turni tranquilli, gli avevo detto. Non erano esattamente calmi, e dovevo fare un sacco di cose per rimettermi in pari. Era vero... ma sembrava impossibile recuperare. Ero inquieta. Mi ritrovavo a guardare le sezioni dedicate ai viaggi anziché leggere la mia posta. Leggevo anche gli annunci di case in vendita. Mi chiedevo se sarei riuscita a convincere Frank ad andare a vivere da qualche altra parte e a fare qualche altro mestiere. Di sicuro avrebbe ascoltato la mia idea e avrebbe risposto: «È una possibilità, ma forse questo non è il momento più adatto per prendere una decisione del genere». Non voglio neppure pensare a cosa mi sarebbe successo in quelle settimane se non fossi stata sposata con Frank Harriman. Non mi aveva mai
fatto pressioni e non mi sgridava; mi viziava fino alla nausea, e io avevo bisogno di essere viziata. Con lui mi sentivo come se non esistessero segreti che non potessero essere svelati, paure che non potessero essere espresse. C'erano sere in cui mi affidavo completamente a lui. Mi impediva di perdere l'equilibrio che poteva essermi rimasto. Vìvevo le giornate in un continuo stato di fuga. Non potevo restare per sempre sulla superficie della vita: dovevo tuffarmici dentro. Facile a dirsi! Quella notte, sul tetto, il vento autunnale soffiava tiepido. «Venti deboli e moderati», avevano detto le previsioni del tempo. Significava che lo smog sarebbe stato spazzato via dai venti provenienti dal deserto, la temperatura sarebbe aumentata, ma nessuno sarebbe impazzito come quando soffia il vento rosso. Il panorama era più bello del solito. Riuscivo a vedere Catalina e le luci lontane di Avalon. Sarei dovuta tornare alla scrivania, pensai bevendo un altro sorso d'acqua, ma ciò avrebbe significato tornare al chiuso. Non ne avevo ancora voglia. Sentii la porta di accesso che si apriva e mi irrigidii. Probabilmente erano Jerry o Livy, o forse Leonard. Jerry e Leonard esordivano sempre con la stessa battuta: dicevano che erano saliti per assicurarsi che non mi fossi buttata di sotto. Livy non diceva mai cose del genere, ma penso sapesse che non sono il tipo che mette fine ai suoi giorni sul marciapiede davanti all'edificio. Non è nel mio stile. Non farei mai nulla che possa costringere qualcuno a pulire con un idrante le tracce della mia dipartita. Con grande sorpresa vidi che l'ospite di quella sera era Ben Sheridan. «In piedi fino a tardi, professore?» lo accolsi mentre si avvicinava. «E fin troppo in alto, per i miei gusti. Ti dispiace se ci allontaniamo dal parapetto?» «Per niente. Sediamoci al Caffè Kelly. Non ci sono più gli spettacoli con gli elicotteri, ma l'acqua è sempre ottima.» «Mi sembra una buona idea.» Ci sedemmo e insieme sollevammo i piedi, sia naturali sia artificiali. «Sei ancora in debito», disse Ben bevendo un sorso d'acqua. «Non mi sono dimenticata. Se proprio vuoi te lo dirò.» «Sì.» E così gli raccontai ciò che era successo quella mattina in montagna, quando Parrish aveva minacciato Bingle e mi aveva affondato la faccia nel fango per poi inseguirmi nel bosco. «Mio Dio!» esclamò quando ebbi finito. «Avrei voluto essere in grado di
aiutarti. Se non ti fossi data tanto da fare per tenerlo lontano da me non gli saresti andata incontro. E so benissimo che eri stremata per...» «Basta così! Se vuoi sapere tutta la verità è proprio questa la ragione per cui non ti ho mai raccontato ciò che è successo quella mattina. Sapevo che avresti provato questo stupido senso di colpa, come se avessi potuto fare qualcos'altro, come se tutto fosse successo per colpa tua e non di Parrish.» «Ah! Intendi dire che mi sarei sentito esattamente come ti senti tu per il fatto che hanno dovuto amputarmi la gamba?» Ero sconcertata. «Non mi sento in quel modo.» «Stronzate! Ora lo nascondi meglio, ma so che ti senti in colpa.» All'inizio pensai di negare, ma invece decisi di buttarmi dritta nella mischia. «Per la verità è proprio così. E, sempre per restare in tema, sai benissimo anche tu che è vero.» «Cosa? No che non lo so. Io so solo che Parrish mi ha sparato. Gli ho fatto da bersaglio perfetto, e, già che ci penso, ricordo benissimo che tu mi chiamasti e cercasti di impedirmi di correre in mezzo al prato.» «Sì, sì», risposi impaziente. «Ma chi ci ha impiegato una vita a trovarti? Chi è che non sapeva come curarti la ferita? Chi è che non ti ha dato abbastanza Keflex?» Mi fissò con espressione sbalordita. «Keflex?» «Non cercare di mentirmi. All'ospedale mi hanno detto che ti hanno dato lo stesso antibiotico per tentare di fermare l'infezione. Solo che ormai era troppo tardi. E io avevo le pastiglie di Earl... e se te ne avessi date di più...» «Aspetta! Vuoi dire... davvero pensi... non dirmi che per tutti questi mesi hai continuato a credere una cosa del genere.» «Ma ti hanno dato...» «Sì, mi hanno dato qualcosa per combattere l'infezione, ma fammi il piacere! Va' a chiedere al dottor Riley che megadose di quella roba mi hanno iniettato in vena. Era un'infezione che non poteva certo essere fermata con delle pastiglie. L'intera prescrizione di Earl non avrebbe potuto fare nulla.» «E allora perché le hai prese?» Fissò la gamba sinistra e rispose: «Si fa sempre quello che si può con ciò che si ha». Non sapevo cosa dire. «Per quanto riguarda il fatto di non avermi cercato subito, sappiamo entrambi che hai fatto la cosa migliore e più sicura e hai aspettato che Parrish
se ne fosse andato.» «Ma forse avrei potuto...» «Irene! Sei proprio sciocca! Che cosa dici?» Mi zittii. «Sai cosa ti dico io? Se tu mi confessassi che hai una laurea in medicina, che avevi gli strumenti chirurgici nello zaino e che eravamo molto vicini a una sala operatoria, ora comincerei a incolparti del fatto che non ho più una gamba. Se non è così, ti consiglio di smetterla di star male per il ruolo che hai avuto in questa storia. Pensa invece che sei la persona che mi ha permesso di sopravvivere, non quella che mi ha fatto perdere una gamba.» Sentii le lacrime che scendevano lungo le guance. «Maledizione», borbottai asciugandomi il viso. «Di solito non lo faccio. Odio piangere.» «Lo dici perché io mi renda conto che sei molto più 'maschio' di me?» «Cosa?» «Tu mi hai visto piangere.» «Ma tu hai dovuto sopportare un sacco di cose.» Rise. «Solo io, e completamente da solo, giusto?» «No, ma...» Fece un segno di time-out con le mani. «Sì?» «La giuria dichiara l'imputata, Irene Kelly, non colpevole. Non colpevole per essersi fidata di Gillian Sayre. Non colpevole della morte degli amici e dei compagni. Non colpevole dell'amputazione alla gamba subita da Ben Sheridan. Non colpevole per qualsiasi altra cosa sia andata storta perché si è dimostrata umana o perché non sapeva tutto ciò che si può sapere sull'universo e i suoi abitanti.» Mi soffiai il naso. «Grazie, Vostro Onore», concluse. «La Corte si aggiorna. Ora sei libera di perdonare te stessa.» Tornai da Jo Robinson e le dissi che sapevo qual era il problema. Portai a termine la battaglia che mi vedeva impegnata nello scoprire i miei stessi schemi di pensiero, e poco dopo tornai al lavoro senza fare più sedute. Proprio quando cominciavano a piacermi. Gillian Sayre è ancora in attesa di processo. Phil Newly, scagionato da ogni accusa, aveva inizialmente pensato di farle da difensore, ma alla fine rimase fedele al suo proposito di ritirarsi dalla professione. Ultimamente
mi manda messaggi di posta elettronica almeno una volta alla settimana e mi racconta della sua nuova vita. Si tiene impegnato con il volontariato, ma in generale si gode la pace e il riposo. Anche Jason Sayre mi scrive. Ora vive con sua nonna. Dice che gli piace scrivermi perché io e Jack siamo gli unici con cui può parlare di ciò che è successo. Jack lo va a trovare spesso e gli manca solo di chiederne l'adozione: parlano ancora con il telefono fatto con le lattine. Giles Sayre ha ceduto l'attività e si è trasferito con la nuova moglie in una cittadina non lontana da dove vive Jason, ma va a trovarlo di rado. Jim Houghton è tornato a Las Piernas. Ha parlato un po' con un vecchio meccanico di aeroplani che aveva insegnato a volare e a riparare piccoli aerei a Nicholas Parrish. Con le informazioni che il vecchio gli ha fornito sui posti in cui Parrish preferiva volare, Jim ha trovato il posto in cui Nick aveva seppellito la sorella, non lontano da una pista d'atterraggio abbandonata. Le operazioni di recupero e di identificazione dei resti procedono a rilento a causa dei problemi di sicurezza per chi ci lavora. Si è riacceso l'interesse per i casi di persone scomparse nelle città in cui Parrish ha vissuto. Dopo aver indicato alla polizia le sepolture, Hougton mi venne a trovare e mi chiese scusa. Gli dissi che non era necessario, che ero stata giudicata dallo stesso tribunale in cui si era trovato anche lui, e che tutte le accuse nei nostri confronti erano cadute. Parlammo a lungo e alla fine gli diedi il biglietto da visita di Jo Robinson. Non so se l'ha mai chiamata. Nicholas Parrish è ancora al St. Anne's, anche se il procuratore distrettuale, che riesaminò l'accordo e decise che la condanna all'ergastolo, dopotutto, poteva andare bene, sta cercando di ottenere il mandato di un giudice per spostare Parrish in un ospedale penitenziario. Se così non fosse e se dovesse esserci un altro processo, conosco un paio di persone che testimonierebbero contro l'imputato. Io e Frank abbiamo comprato la jeep di Ben, che ha deciso che il pickup di David era migliore per le sue esigenze. La jeep è abbastanza grande e ci stiamo noi due, i cani e l'attrezzatura da campeggio. A volte andiamo a far campeggio da soli, altre volte con Pete e Rachel o con Tom Cassidy e altri amici. Spesso anche J.C., Andy, Stinger e Travis ci raggiungono in montagna. Viene anche Ben con Anna, la nuova fidanzata che ha conosciuto al gruppo SAR. Ci è piaciuta sin dall'inizio, e non
ha avuto problemi ad adattarsi al nostro modo un po' caotico di fare campeggio. Anche lei ha due cani. Fare campeggio con Stinger Dalton e sei grossi cani irrequieti è piuttosto caotico. Bingle è sempre il capo della banda. Abbaia ancora. Io insisto a dormire con la tenda aperta. Ma dormiamo tutta la notte. FINE