Tom Clancy
Op-Center STATO D'ASSEDIO Da un'Idea di Tom Clancy e Steve Pieczenik Op-Center: State Of Siege © 1999
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Tom Clancy
Op-Center STATO D'ASSEDIO Da un'Idea di Tom Clancy e Steve Pieczenik Op-Center: State Of Siege © 1999
Ringraziamenti Desideriamo ringraziare Jeff Rovin per le sue idee creative e il suo inestimabile contributo alla preparazione del manoscritto. Siamo inoltre grati per l'aiuto a Martin H. Greenberg, Larry Segriff, Robert Youdelman e alle meravigliose persone della Penguin Putnam Inc., inclusi Phyllis Grann, David Shanks e Tom Colgan. Come sempre, un ringraziamento a Robert Gottlieb della William Morris Agency, nostro agente e amico, senza il quale questo libro non sarebbe mai stato concepito. Ma soprattutto grazie a voi, lettori, da cui dipenderà il buon esito del nostro sforzo collettivo. Tom Clancy e Steve Pieczenik
NAZIONI UNITE - Ieri il Consiglio di Sicurezza ha apportato gli ultimi ritocchi a una richiesta scritta affinché l'Iraq cooperi con gli ispettori internazionali, ma non minaccia l'uso della forza qualora Baghdad si rifiuti di ottemperare. Associated Press 5 novembre 1998
Prologo Kompong Thom, Cambogia, 1993 Morì tra le sue braccia in un'alba luminosa. Le palpebre si abbassarono Tom Clancy
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pian piano, un debole alito si levò dalla sua gola delicata, e poi si spense. Hang Sary osservò il volto pallido della giovane, guardò l'erba e il terriccio tra i suoi capelli bagnati, le ferite sulla fronte e sul naso. Provò repulsione nel vedere il rossetto vermiglio sulle sue labbra, il fard che le imbrattava la guancia e il mascara colato dagli occhi sino alle orecchie. Non sarebbe dovuto accadere. Neppure lì, in una terra nella quale il concetto di innocenza era estraneo quanto il sogno della pace. Phum Sary non sarebbe dovuta morire così giovane, e non sarebbe dovuta morire in quel modo. Nessuno meritava di morire in quel modo, in una risaia battuta dal vento, l'acqua fresca arrossata dal proprio sangue. Ma almeno Phum era morta sapendo chi la teneva tra le braccia. Almeno non era morta come probabilmente aveva vissuto la maggior parte della sua esistenza, sola e senza affetto. E benché la ricerca che Hang non aveva mai del tutto abbandonato fosse terminata, era conscio che un'altra stava per iniziare. Hang aveva le ginocchia sollevate, il capo della sorella posato in grembo. Le sfiorò la punta fredda del naso, la linea sottile della mascella, la bocca rotonda... Una bocca che era sempre stata avvezza a sorridere, qualunque cosa lei stesse facendo. La ragazza sembrava così piccola e fragile... Le tirò fuori le braccia dall'acqua e le depose sul corpetto dell'attillato abito blu di lamé, quindi la strinse a sé, chiedendosi se qualcuno in dieci anni l'avesse mai abbracciata in quel modo. Aveva sempre condotto un'esistenza tanto orrenda? Alla fine ne aveva avuto abbastanza e aveva deciso che era preferibile la morte? Il viso lungo di Hang si irrigidì al pensiero delle sue vicissitudini. Poi di colpo scoppiò in lacrime. Come aveva potuto essere tanto vicino e non averlo saputo? Lui e Ty si trovavano al villaggio, sotto copertura, da quasi una settimana. Avrebbe mai potuto perdonarsi per non averla individuata in tempo per salvarla? La povera Ty sarebbe stata inconsolabile quando avrebbe appreso l'identità della vittima. Era andata in ricognizione al campo per cercare di scoprire chi ci fosse dietro quella sporca faccenda, e aveva comunicato via radio a Hang che, a quanto pareva, una delle donne aveva tentato la fuga appena prima del sorgere del sole, approfittando del cambio della guardia. Era stata inseguita e abbattuta. Il proiettile aveva colpito Phum al fianco. Probabilmente aveva corso, poi camminato finché non era più riuscita ad Tom Clancy
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avanzare, accasciandosi e rimanendo lì distesa a guardare il cielo notturno che si andava schiarendo. Da piccola, Phum era solita contemplare a lungo il cielo. Hang si chiese se quel cielo, il ricordo di tempi migliori, alla fine avesse offerto un po' di pace alla sua sorellina. Mentre passava le dita tremanti tra i suoi lunghi capelli neri, udì sguazzare in lontananza: doveva trattarsi di Ty. Aveva informato via radio la sua compagna di aver localizzato la ragazza e di averla vista cadere. Lei aveva detto che sarebbe giunta sul posto nel giro di mezz'ora. Avevano sperato, se non altro, che lei potesse dar loro un nome, aiutarli a spezzare il mostruoso sodalizio che stava distruggendo tante giovani vite. Ma ciò non era avvenuto. Vedendolo, Phum aveva avuto soltanto la forza di pronunciare il suo nome. Era morta con il nome del fratello e l'ombra di un sorriso sulle labbra rosso acceso, non con il nome del suo assassino. Ty sopraggiunse e abbassò lo sguardo. Vestita come una contadina del luogo, rimase a bocca aperta con il vento che le sussurrava attorno, quindi si inginocchiò accanto a Hang e lo cinse in un abbraccio. Nessuno dei due si mosse o parlò per alcuni minuti. Poi, lentamente, Hang si alzò in piedi con il corpo della sorella tra le braccia e si avviò verso la vecchia station wagon che fungeva da suo avamposto sul campo. Sapeva che ora non avrebbero dovuto lasciare Kompong Thom. Non mentre erano così vicini a ottenere ciò che volevano. Ma doveva portare sua sorella a casa, là dove era giusto che venisse seppellita. Il sole rapidamente gli riscaldò e poi arrostì la schiena madida. Ty aprì il portellone della station wagon e stese una coperta tra i cartoni. All'interno delle scatole c'erano armi e apparecchiature radio, carte topografiche ed elenchi, e un potente congegno incendiario, azionato da un comando a distanza che Hang portava agganciato alla cintura. Se fossero stati catturati, avrebbe distrutto tutto quello che si trovava nell'auto, quindi avrebbe usato la sua Smith & Wesson .357 per togliersi la vita. Ty avrebbe fatto altrettanto. Con l'aiuto di Ty, Hang avvolse con delicatezza il corpo della sorella nella coperta. Prima di andarsene, diede un'ultima occhiata alla risaia, resa sacra dal sangue di Phum. Ma quella terra non avrebbe potuto dirsi pulita finché non fosse stata lavata con il sangue di coloro che avevano commesso quel crimine. E lo sarebbe stata, giurò, non importava quanto tempo avrebbe impiegato. Tom Clancy
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1 Lunedì, ore 6.13, Parigi, Francia Sette anni addietro, durante l'addestramento per prestare servizio con l'UNTAC (l'Autorità provvisoria delle Nazioni Unite in Cambogia), l'esuberante, temerario tenente Reynold Downer dell'11°/28° battaglione, il Royal Western Australia Regiment, aveva imparato che c'erano tre condizioni da soddisfare prima che un'operazione di peace-keeping dell'ONU potesse venire avviata in un qualunque Stato. Non era qualcosa su cui si fosse mai posto domande o di cui avesse mai desiderato far parte, ma la Federazione Australiana era stata di diverso avviso. Primo, i quindici Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell'ONU dovevano approvare l'operazione e i suoi parametri in dettaglio. Secondo, poiché le Nazioni Unite non dispongono di un esercito proprio, i Paesi membri dell'Assemblea Generale dovevano accordarsi per fornire truppe e nominare un comandante responsabile dell'organizzazione e dello spiegamento del corpo di spedizione multinazionale. Terzo, le nazioni belligeranti dovevano acconsentire alla presenza della forza di pace. Una volta sul posto, i caschi blu avevano tre obiettivi da conseguire. Il primo era stabilire e far rispettare un cessate il fuoco mentre le parti in conflitto ricercavano una soluzione pacifica. Il secondo, creare una zona cuscinetto tra le fazioni ostili. E il terzo, mantenere la pace. Questo includeva ricorrere all'azione militare, qualora necessario, effettuare lo sminamento del territorio affinché i civili potessero tornare alle loro case e potessero usufruire delle provviste di acqua e cibo, e inoltre fornire aiuti umanitari. Tutto ciò era stato oggetto di un accurato indottrinamento delle truppe di fanteria leggera nel corso di due settimane di addestramento a Irwin Barracks, Stabbs Terrace, Karrakatta. Due settimane che erano consistite nell'apprendere la politica, la lingua e le usanze locali, i metodi di depurazione dell'acqua, come guidare lentamente con un occhio sulle strade sterrate, in modo da non passare sopra una mina. E anche a non vergognarsi di se stessi quando capitava di vedersi di sfuggita con un basco blu cobalto in testa e un fazzoletto in tinta al collo. Terminato il corso da parte dell'ONU - «la castrazione» come l'aveva propriamente definito il suo ufficiale comandante -, il contingente Tom Clancy
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australiano era stato ripartito tra gli ottantasei siti di acquartieramento in Cambogia. Il tenente generale John M. Spandersi aveva il comando dell'intera operazione UNTAC, che si era protratta dal marzo 1992 al settembre 1993. La missione UNTAC era stata meticolosamente concepita per evitare un conflitto armato. I soldati dell'ONU non erano autorizzati ad aprire il fuoco a meno che non fossero attaccati, e comunque senza portare a una escalation delle ostilità. L'inchiesta sulla morte di un qualunque militare era di competenza della polizia locale, non dell'esercito. Il rispetto dei diritti umani doveva essere promosso mediante l'educazione, non la forza. Oltre a fungere da cuscinetto, distribuire generi alimentari e prestare assistenza sanitaria erano le priorità della forza di pace. A Downer, più che un'operazione militare sembrava un luna-park. Forza, popoli belligeranti od oppressi del Terzo Mondo, correte qui a prendere il vostro pane, la vostra penicillina e la vostra acqua potabile! La sensazione di trovarsi al circo era accresciuta dalle tende sormontate da bandiere variopinte e dai balordi locali che non sapevano bene cosa farsene di tutto quello. Sebbene molti di loro accettassero quanto gli veniva offerto, avevano l'aria di desiderare che i benefattori levassero al più presto il disturbo. La violenza era un elemento previsto e conosciuto delle loro vite quotidiane. Gli estranei no. C'era così poco da fare in Cambogia che il colonnello Ivan Georgico, un ufficiale di grado elevato dell'Esercito Popolare bulgaro, aveva approntato un giro di prostituzione con il patrocinio degli ufficiali dell'Esercito Nazionale della Bucherame Democratica di Pol Pot, che avevano bisogno di valuta straniera per acquistare armi e rifornimenti, e che intascavano il venticinque per cento dei proventi. Georgiev gestiva il racket da alcune tende erette dietro il suo posto di comando. Le giovani del luogo venivano per seguire dei supposti corsi di lingue e si trattenevano per promuovere l'afflusso di moneta estera. Era lì che Downer aveva incontrato per la prima volta Georgiev e il maggiore Ishiro Sazanka. Georgiev affermava che i soldati giapponesi e australiani erano i suoi clienti migliori, benché i primi avessero la tendenza a essere un po' rudi con le ragazze e dovessero essere tenuti d'occhio. «Sadici gentili» li aveva chiamati il bulgaro. Thomas, lo zio di Downer, che aveva combattuto con la 7a divisione australiana contro i giapponesi nel Sud-Est del Pacifico, avrebbe avuto qualcosa da ridire su questa definizione. Non li trovava affatto gentili. Tom Clancy
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Downer dava una mano a reclutare nuove «studentesse di lingue» per le tende, mentre gli aiutanti di campo di Georgiev escogitavano modi diversi per convincere le fanciulle a lavorare per loro, e tra i vari metodi era incluso il sequestro. Anche i khmer rossi non mancavano di incrementare il numero delle ragazze ogniqualvolta era possibile. Fatta eccezione per questa attività collaterale, Downer giudicava la Cambogia una gran noia. Le direttive generali delle Nazioni Unite erano troppo morbide, troppo restrittive. Cresciuto nei dock di Sydney, aveva imparato che c'era un'unica direttiva importante da seguire. Qualche figlio di puttana si merita una pallottola nel cranio? Se sì, premi il grilletto e tornatene a casa. Altrimenti, cosa diavolo ci stai a fare lì? Downer buttò giù un ultimo sorso di caffè e spinse indietro la tazza sul tavolino ricoperto di vinile. Il caffè era buono, nero e amaro, come era solito berlo sul campo. Lo faceva sentire tonico, pronto all'azione. Forse non era una buona idea, lì e adesso, quando non era ancora venuto il momento di agire. Ma quella sensazione gli piaceva ugualmente. L'australiano lanciò un'occhiata all'orologio che portava al polso scurito dal sole. Dove diavolo erano finiti? Il gruppo era solito far ritorno entro le otto. Quanto ci voleva a filmare qualcosa che avevano videoregistrato già sei volte? La risposta era che ci voleva il tempo che il capitano Vandal reputava necessario. L'ufficiale francese era a capo di questa fase dell'operazione, e se non fosse stato tanto efficiente, nessuno di loro si sarebbe trovato in quel luogo. Era stato Vandal a introdurli nel Paese, a procurare le armi, a coordinare i sopralluoghi, e sarebbe stato lui a farli uscire di lì affinché potessero dare il via alla seconda fase dell'operazione, sotto la direzione di Georgiev. Downer pescò un cracker integrale da una scatola aperta e lo addentò con impazienza. Il sapore e la friabilità del cracker lo riportarono al periodo di addestramento militare nell'entroterra australiano. Laggiù, la sua unità si nutriva di quel genere di cibarie. Mentre masticava, si guardò intorno nel piccolo e buio appartamento. I suoi occhi azzurri si spostarono dal cucinino sulla destra al televisore dalla parte opposta della stanza alla porta d'ingresso. Vandal aveva preso in affitto l'alloggio più di due anni prima, senza fare, per sua stessa ammissione, alcuna concessione al lusso. Il monolocale a pianterreno era situato su una tortuosa viuzza nelle vicinanze di Boulevard de la Bastille, Tom Clancy
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poco distante dal grande ufficio postale. A parte la sua ubicazione, era importante che si trovasse a piano terra, consentendo così una fuga attraverso la finestra in caso di necessità. Come Vandal aveva promesso quando i cinque avevano messo insieme i loro risparmi per finanziare l'operazione, non avrebbe badato a spese soltanto per i documenti falsi, l'attrezzatura per la sorveglianza e le armi. Mentre si spazzolava via le briciole dai blue-jeans scoloriti, l'alto e muscoloso Downer gettò un'occhiata alle enormi sacche da viaggio disposte in fila sul pavimento tra il televisore e la finestra. Era compito suo tenere d'occhio le cinque borse piene di protuberanze che contenevano le armi. Vandal aveva svolto un ottimo lavoro: fucili mitragliatori AK-47, pistole, gas lacrimogeno, granate, lanciarazzi... Tutto materiale privo di segni di riconoscimento e non rintracciabile, acquistato da trafficanti d'armi cinesi che il francese aveva incontrato durante la missione di pace in Cambogia. Dio benedica le Nazioni Unite, rifletté Downer. L'indomani mattina, poco dopo l'alba, gli uomini avrebbero caricato le sacche sull'autocarro che avevano comprato. Vandal e Downer avrebbero lasciato Sazanka, Georgiev e Barone all'eliporto dello stabilimento e poi sincronizzato la loro partenza in modo da ritrovarsi in seguito sull'obiettivo. L'obiettivo, pensò Downer. Tanto ordinario e tuttavia tanto cruciale per il resto dell'operazione. Gli occhi dell'australiano tornarono a posarsi sul tavolo. C'era una ciotola di ceramica bianca accanto al telefono, piena di quella che sembrava una pasta nera: diagrammi e appunti bruciati e inzuppati in acqua di rubinetto. Le annotazioni contenevano di tutto, da calcoli approssimativi sui venti di coda e di prua a trecento metri di quota alle otto del mattino, al flusso del traffico, alla presenza della polizia lungo la Senna. La cenere poteva sempre essere decifrata; la cenere bagnata era inservibile. Un altro schifo di giornata, si disse. Quando il resto della squadra fosse rientrato, sarebbe iniziato l'ennesimo pomeriggio trascorso a esaminare i videotape, per sincerarsi di non aver tralasciato nulla. Poi un'altra notte passata a tracciare mappe per la prima fase dell'operazione, quindi a studiare la durata del volo, gli orari degli autobus, il nome delle vie e i covi dei trafficanti d'armi di New York per la Tom Clancy
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fase successiva, per assicurarsi di aver memorizzato tutto. Infine, una nuova alba dedicata a bruciare ogni appunto scritto, di modo che la polizia non lo scoprisse in casa o tra i rifiuti. Gli occhi di Downer passarono in rassegna la stanza, fermandosi sui sacchi a pelo sistemati sul pavimento, di fronte al divano, il solo altro mobile presente nell'appartamento. Il ventilatore inserito nell'unica finestra funzionava ininterrottamente durante quell'ondata di caldo. Vandal gli aveva assicurato che le temperature superiori ai trentacinque gradi favorivano il buon esito del piano. L'obiettivo era dotato di impianto di ventilazione, ma non di aria condizionata, e gli uomini all'interno sarebbero stati un po' più indolenti del solito. Non come noi, considerò Downer. Lui e i suoi compagni avevano uno scopo da raggiungere. L'australiano pensò agli altri quattro ex militari coinvolti nel progetto. Li aveva conosciuti tutti a Phnom Penh, e ognuno di loro aveva una ragione molto diversa e molto personale per trovarsi lì. Udì una chiave girare nella toppa e allungò la mano verso la sua pistola silenziata Type 64, infilata nella fondina che pendeva dallo schienale della sedia. Spinse delicatamente da parte la scatola di cracker che gli ostruiva la linea di tiro verso la porta. Rimase seduto. All'infuori di Vandal, l'unica persona ad avere la chiave era il custode del palazzo. Nelle tre occasioni in cui Downer aveva soggiornata nell'appartamento durante l'anno passato, il vecchio si era fatto vivo soltanto quando era stato chiamato e talvolta nemmeno allora. Se si trattava di qualcun altro, era per forza un intruso, e sarebbe morto. Downer quasi sperava che fosse qualcuno che non conosceva; era dello stato d'animo adatto per premere il grilletto. La porta si aprì ed entrò Vandal, con i capelli castani e piuttosto lunghi lisciati all'indietro, gli occhiali da sole e la custodia di una videocamera portata con naturalezza a tracolla. Era seguito da Georgiev, calvo e dal torace prominente, da Barone, piccolo e scuro di carnagione, e da Sazanka, alto e con le spalle larghe. Tutti e tre indossavano jeans e T-shirt da turisti, ed esibivano lo stesso volto inespressivo. Sazanka richiuse piano la porta. Downer sospirò e fece scivolare la pistola nella fondina. «Com'è che è andata?» chiese. La sua voce conservava ancora i duri suoni gutturali della parlata del Nuovo Galles del Sud occidentale. «Kom'è ke è andata?» ripeté Barone, imitando il marcato accento Tom Clancy
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dell'australiano. «Falla finita» gli ordinò Vandal. «Sì, signore» replicò Barone, rivolgendo un disinvolto saluto militare all'ufficiale e guardando Downer in cagnesco. A Downer, Barone proprio non andava a genio. Quell'ometto impertinente aveva un atteggiamento scostante e si comportava come se chiunque fosse un potenziale nemico, persino i suoi alleati. Possedeva anche un buon orecchio; da ragazzo aveva lavorato come custode all'ambasciata americana e aveva perso quasi del tutto il suo accento originario. La sola cosa che tratteneva Downer dallo scagliarsi contro l'uomo più giovane era che sapevano entrambi che se il piccolo uruguaiano avesse oltrepassato i limiti, l'australiano, un marcantonio che superava il metro e novanta, avrebbe potuto farlo a pezzi. Vandal posò la custodia sul tavolo, estrasse la cassetta dalla videocamera e si avvicinò al televisore. «Penso che la sorveglianza sia stata fruttuosa» disse. «Il flusso del traffico sembra identico alla settimana scorsa. Ma confronteremo i nastri, per maggior sicurezza.» «Per l'ultima volta, mi auguro» osservò Barone. «Ce lo auguriamo tutti» ribatté Downer. «Sì, ma io sono ansioso di andarmene» disse il ventinovenne ufficiale. Non specificò dove intendesse andare. Non si sapeva mai chi poteva origliare un gruppo di stranieri riuniti in un fatiscente appartamento. Sazanka si sedette in silenzio sul divano, si slacciò le Nike e prese a massaggiarsi i grossi piedi. Barone gli lanciò una bottiglia d'acqua presa dal frigo nel cucinino. Il giapponese ringraziò con un grugnito. La sua padronanza dell'inglese era scarsa, e aveva la tendenza ad aprire bocca il meno possibile. Downer, che condivideva l'opinione dello zio circa i figli del Sol Levante, era lieto del mutismo di Sazanka. Già nella sua infanzia il porto di Sydney brulicava di marinai, turisti e speculatori giapponesi che, se non si comportavano come se ne fossero i proprietari, si comportavano come se un giorno lo sarebbero stati. Purtroppo, Sazanka sapeva pilotare una gran varietà di velivoli, e il gruppo aveva bisogno della sua perizia. Barone porse una bottiglia a Georgiev, in piedi dietro di lui. «Grazie» disse questi. Erano le prime parole che Downer sentiva pronunciare al bulgaro dalla cena della sera prima, sebbene parlasse un inglese quasi perfetto, avendo Tom Clancy
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lavorato per quasi dieci anni come contatto della Central Intelligence Agency a Sofìa. Georgiev non era molto loquace nemmeno in Cambogia, dove vigilava sui loro contatti tra i khmer rossi come pure sui poliziotti del governo sotto copertura e gli osservatori dell'ONU. Il bulgaro preferiva ascoltare, anche quando non si discuteva di nulla di importante. Downer avrebbe voluto avere la stessa pazienza. I buoni ascoltatori sapevano cogliere informazioni anche in conversazioni informali, quando le persone avevano la guardia abbassata, che spesso si rivelavano preziose. «Ne vuoi una?» domandò Barone a Vandal. Il francese scosse il capo. L'uruguaiano si rivolse a Downer. «Ti offrirei una bottiglia, ma so che la rifiuteresti. A te piace calda. Bollente.» «Le bevande calde farebbero meglio anche a te» replicò l'australiano. «Ti fanno sudare. Depurano l'organismo.» «Come se non sudassimo già abbastanza» commentò Barone. «Io no» disse Downer. «Ed è una bella sensazione. Ti fa sentire più produttivo. Vivo.» «Se sei insieme a una bella signora, sudare è fantastico. Qua dentro, è autopunizione.» «Anche quella può essere una bella sensazione.» «Per uno psicotico, forse.» Downer sogghignò. «E noi cosa siamo?» «Basta, adesso» intervenne Vandal mentre iniziava il videotape. Anche Downer era un tipo ciarliero. Nel suo caso, il suono della propria voce lo confortava. Da bambino, era solito chiacchierare con se stesso per addormentarsi, raccontarsi delle storie per coprire il rumore del padre, scaricatore di porto con il vizio del bere, che riempiva di botte qualunque donna di facili costumi si trovasse in sua compagnia nel loro malandato appartamento in legno. Parlare era un'abitudine che Downer non aveva mai abbandonato. Barone rientrò nella stanza, levò il tappo della sua bottiglia d'acqua e ne tracannò una gran sorsata, quindi prese una sedia e si accomodò vicino a Downer. Afferrò un cracker integrale e prese a masticarlo rumorosamente mentre tutti fissavano lo schermo a diciannove pollici. Si piegò verso l'australiano. «Non mi piace quello che hai detto» bisbigliò. «Uno psicotico è irrazionale. Io no.» Tom Clancy
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«Se lo dici tu.» «Se lo dici tu» ripeté Barone, scimmiottando Downer, stavolta con sarcasmo. L'altro lasciò perdere. A differenza dell'uruguaiano, si rendeva conto che aveva bisogno dell'abilità dell'uomo, non della sua approvazione. I cinque guardarono da cima a fondo il nastro di ventinove minuti una prima volta, poi una seconda. Prima di visionarlo una terza volta, Vandal raggiunse Downer e Barone al tavolo traballante. Barone adesso appariva concentrato; era un ex rivoluzionario che aveva contribuito alla costituzione del Consejo de Seguridad Nacional, l'organo che aveva avuto breve durata dopo aver spodestato il corrotto presidente Bordaberry. La sua specialità erano gli esplosivi e il combattimento corpo a corpo. Quella di Downer le armi da fuoco, i razzi. Sazanka era un esperto pilota. Georgiev aveva gli agganci giusti per procurarsi qualunque cosa servisse loro al mercato nero, che attingeva a tutte le risorse dell'ex Unione Sovietica, con clienti in Medio ed Estremo Oriente, come pure negli Stati Uniti. Georgiev era rientrato di recente da New York, dove aveva preso accordi per una partita di armi con un fornitore dei khmer rossi e studiato a fondo l'obiettivo insieme al suo contatto nell'intelligence. Tutto ciò sarebbe tornato utile durante la seconda parte dell'operazione. Ma al momento non era la fase due del piano a occupare le loro menti. Prima doveva avere successo la fase uno. Insieme, i tre uomini ripassarono il video fotogramma dopo fotogramma, accertandosi che l'esplosione che avevano progettato avrebbe fatto loro superare la zona del bersaglio senza distruggere nient'altro. Dopo aver trascorso quattro ore a esaminare il nastro e il resto del pomeriggio a ricontrollare con i contatti locali di Vandal il camion, l'elicottero e l'equipaggiamento che avrebbero utilizzato, i componenti della squadra si fermarono a mangiare qualcosa in un bar lungo la strada, quindi tornarono nell'appartamento per riposare. Per quanto fossero ansiosi, dormirono tutti. Ne avevano bisogno. L'indomani, avrebbero inaugurato una nuova era nelle relazioni internazionali, un'era che non solo avrebbe cambiato il mondo richiamando l'attenzione su un'enorme mistificazione, ma li avrebbe anche resi ricchi. Mentre stava disteso sul suo sacco a pelo, godendosi la brezza gentile che spirava dalla finestra aperta, Downer immaginò di trovarsi in un altro luogo. La sua isola, forse. Magari persino il suo paese natale. E si calmò Tom Clancy
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ascoltando la voce nella sua testa che gli elencava tutte le cose che avrebbe potuto fare con la sua parte di duecentocinquanta milioni di dollari.
2 Domenica, ore 0.10, base aerea di Andrews, Maryland Al termine del suo mandato di sindaco di Los Angeles, Paul Hood aveva deciso che l'espressione «liberare la scrivania» era impropria. Quello che in realtà si fa è partecipare a un funerale. Ritornano alla mente i momenti belli e quelli tristi, le amarezze e le gratificazioni, le opere compiute e quelle lasciate a metà, l'amore e talvolta l'odio. L'odio, rifletté, stringendo gli occhi color nocciola. In quel momento ne era pieno, sebbene non sapesse verso chi o che cosa o perché. L'odio non era la ragione per cui aveva rassegnato le dimissioni da primo direttore dell'Op-Center, la struttura governativa di élite specializzata nella gestione delle crisi. Lo aveva fatto per trascorrere più tempo insieme alla moglie, alla figlia e al figlio. Per mantenere unita la sua famiglia. Ma ne era stato ugualmente sopraffatto. Verso Sharon?, si chiese, quasi vergognandosi. Sei furibondo con tua moglie per averti costretto a scegliere? Cercò di chiarire la questione mentre svuotava la scrivania, lasciando cadere ricordi non coperti da segreto in una scatola di cartone; i fascicoli segretati e persino le lettere personali dovevano rimanere dov'erano. Non riusciva a credere di occupare quel posto solo da due anni e mezzo. Non era molto tempo in confronto a tanti altri impieghi. Ma aveva lavorato gomito a gomito con persone di cui avrebbe sentito la mancanza. E poi c'era quello che il suo responsabile dell'intelligence, Bob Herbert, una volta aveva descritto come «un'eccitazione pornografica» nel lavoro. Molte vite umane, talora milioni di vite, erano influenzate dalle decisioni sagge o istintive o di quando in quando disperate che lui e la sua squadra prendevano lì dentro. Era proprio come aveva detto Herbert. Hood non si era mai sentito un dio nel prendere quelle decisioni. Piuttosto un animale, con tutti i sensi all'erta e l'adrenalina a mille. Gli sarebbero mancate anche quelle sensazioni. Aprì una scatoletta di plastica che conteneva un fermaglio, dono del generale Sergej Orlov. Orlov era il capo del centro operativo russo, una struttura analoga a Op-Center - nome in codice Immagine allo specchio - e Tom Clancy
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con cui quest'ultimo aveva collaborato per impedire che alcuni ufficiali e politici russi traditori facessero precipitare l'Europa Orientale in una guerra. La graffetta celava al suo interno un sottilissimo microfono, che era stato usato dal colonnello Leonid Rosskij per spiare i potenziali rivali del ministro degli Interni Nikolaj Dogin, uno degli organizzatori del complotto. Hood mise la scatoletta di plastica nel cartone e fissò lo sguardo su un pezzetto di metallo nero e contorto. Il frammento, duro e leggero, bruciacchiato e pieno di bollicine alle estremità, faceva parte del rivestimento di un missile Nodong nord-coreano e si era fuso quando l'unità militare dell'Op-Center, lo Striker Team, aveva distrutto l'ordigno prima che venisse lanciato contro il Giappone. Il secondo di Hood, il generale Mike Rodgers, gliel'aveva fatto avere come souvenir. Il mio secondo, pensò. Tecnicamente, Hood sarebbe risultato in ferie per due settimane prima che le dimissioni venissero rese effettive, e Rodgers avrebbe assunto l'interim di direttore. Paul sperava che il presidente in seguito gli avrebbe affidato l'incarico a tempo pieno. In caso contrario, sarebbe stato un colpo terribile per Mike. Hood prese la scheggia di Nodong; era come avere in mano un pezzo della propria vita. L'attacco al Giappone era stato sventato, un paio di milioni di vite erano state salvate, a fronte di alcune perdite. Quell'oggetto e altri simili erano di per sé passivi, ma non si poteva dire altrettanto dei ricordi che scatenavano. Ripose il frammento metallico nella scatola di cartone. Il ronzio dei ventilatori sul soffitto gli sembrava insolitamente forte. O forse era l'ufficio a essere insolitamente silenzioso? Il personale del turno di notte era in servizio, il telefono non suonava, e non si udivano passi avvicinarsi alla sua porta. Frugò velocemente tra gli altri ricordi stipati nel primo cassetto della scrivania. C'erano le cartoline che i ragazzi gli spedivano quando erano in vacanza dalla nonna ma non quest'ultima volta, quando sua moglie li aveva portati là mentre decideva se lasciarlo o meno. C'erano libri che aveva letto in aereo, con appunti scribacchiati sui margini delle pagine, cose che doveva ricordarsi di fare una volta giunto a destinazione o non appena tornato dal viaggio. E c'era una chiave di ottone proveniente da un hotel di Amburgo, Tom Clancy
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in Germania, dove si era imbattuto in Nancy Jo Bosworth, una donna che aveva amato e progettato di sposare, e che era uscita dalla sua vita più di vent'anni prima senza una spiegazione. Hood tenne la chiave nella palma della mano, reprimendo l'impulso di infilarsela in tasca per avere l'impressione di trovarsi di nuovo in quell'albergo, solo per un attimo. Invece, depositò la chiave nella scatola. Tornare da quella ragazza, seppure con la memoria, non sarebbe certo servito a salvare la sua famiglia. Richiuse il cassetto in alto. Aveva promesso a Sharon di portarla a cena l'ultima che poteva mettere in conto spese - e non c'era alcuna scusante per mancare. Aveva già salutato gli impiegati, e nel pomeriggio lo staff dirigenziale aveva organizzato in suo onore un party a sorpresa, benché non fosse stata una gran sorpresa. Quando Bob Herbert aveva inviato una e-mail per informare tutti della data e dell'ora della festa, si era scordato di cancellare l'indirizzo di posta elettronica di Hood dalla sua lista. Paul aveva finto stupore nel varcare la soglia della sala conferenze; era felice che il capo dell'intelligence di norma non commettesse errori del genere. Aprì il cassetto in fondo e tirò fuori la sua agendina degli indirizzi, il cdrom di cruciverba che non aveva mai usato e l'album con le foto e i ritagli relativi ai saggi di violino di sua figlia Harleigh. Se n'era perso anche troppi, di quei saggi. Alla fine della settimana, tutti e quattro si sarebbero recati a New York, dove Harleigh si sarebbe esibita insieme ad altri giovani virtuosi di Washington durante una cerimonia in onore degli ambasciatori delle Nazioni Unite. Per ironia, si sarebbe celebrata un'importante iniziativa di pace in Spagna, proprio il Paese in cui l'OpCenter era appena intervenuto per scongiurare una guerra civile. Purtroppo, il pubblico - genitori inclusi - non era invitato al concerto. Hood sarebbe stato curioso di vedere come il nuovo segretario generale, Mala Chatterjee, avrebbe saputo cavarsela nella prima occasione ufficiale. Era stata scelta dopo l'improvviso decesso del segretario generale Massimo Marcello Manni a causa di un attacco cardiaco. Sebbene la giovane donna non vantasse un'esperienza pari agli altri candidati, era fortemente impegnata nella lotta per i diritti umani attraverso strumenti pacifici. Nazioni influenti come Stati Uniti, Germania e Giappone - che vedevano nella sua ferma presa di posizione un modo per tirare le orecchie alla Cina - avevano caldeggiato la sua nomina. Hood lasciò al loro posto l'elenco telefonico del governo, un bollettino Tom Clancy
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mensile di terminologia con gli aggiornamenti sui nomi delle nazioni e dei loro leader, e un voluminoso tomo di acronimi militari. A differenza di Herbert e del generale Rodgers, Hood non aveva mai prestato servizio nell'esercito, e si sentiva sempre in imbarazzo per non aver mai rischiato la vita sotto le armi, soprattutto quando doveva mandare sul campo lo Striker Team. Ma come aveva osservato una volta il responsabile del collegamento tra l'Op-Center e l'FBI, Darrell McCaskey: «Ecco perché la chiamiamo una "squadra". Ciascuno contribuisce con le proprie diverse attitudini». Paul si fermò quando giunse a un mazzo di fotografie in fondo al cassetto. Tolse l'elastico che le teneva insieme e le passò in rassegna. Tra immagini di grigliate all'aperto e foto con leader mondiali c'erano le istantanee del soldato Bass Moore, del comandante dello Striker Team, Charlie Squires, e dell'addetto politico ed economico dell'Op-Center, Martha Mackall. Il soldato Moore era morto in Corea del Nord, il tenente colonnello Squires aveva perso la vita durante una missione in Russia, e Martha era stata assassinata pochi giorni prima nelle vie di Madrid, in Spagna. Hood tornò a legare le fotografie con l'elastico e le ripose nel cartone. Chiuse l'ultimo cassetto, quindi prese il suo logoro tappetino del mouse con raffigurata la città di Los Angeles, la sua tazza da caffè di Camp David, e sistemò entrambi nella scatola. In quel mentre, notò qualcuno in piedi alla sua sinistra, appena fuori dalla porta aperta dell'ufficio. «Bisogno d'aiuto?» Hood accennò un sorriso e si passò una mano tra i capelli neri e ondulati. «No, ma puoi entrare lo stesso. Che ci fai ancora qui a quest'ora?» «Controllavo i titoli dei giornali dell'Estremo Oriente per domani» rispose lei. «Si fa un po' di disinformazione laggiù.» «Riguardo cosa?» «Non posso dirtelo. Non lavori più qui.» «Toccato» replicò lui, sorridendo. Ann Farris restituì il sorriso entrando lentamente nell'ufficio. Il «Washington Times» una volta l'aveva descritta come una delle venticinque giovani divorziate più appetibili della capitale. A quasi sei anni di distanza, lo era ancora. Un metro e settanta di statura, il capo dell'ufficio stampa dell'Op-Center indossava una gonna nera aderente e Tom Clancy
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una camicetta bianca. I suoi occhi color ruggine erano grandi e caldi, ed ebbero l'effetto di placare la rabbia di Hood. «Mi ero ripromessa di non disturbarti» disse la donna alta e snella. «Ma eccoti qui.» «Già, eccomi qui.» «E non è affatto un disturbo» aggiunse lui. Ann si fermò accanto alla scrivania e lo fissò. I lunghi capelli castani le ricadevano sul volto e sulle spalle. Guardando i suoi occhi e il suo sorriso, a Paul tornarono in mente tutte le volte negli ultimi due anni e mezzo in cui lei lo aveva incoraggiato e aiutato, senza far mistero di provare dell'interesse per lui. «Non volevo disturbarti» spiegò lei «ma non volevo nemmeno dirti addio a una festa.» «Capisco. Mi fa piacere che tu sia venuta.» Ann sedette sul bordo della scrivania. «Che intendi fare adesso, Paul? Pensi di restare a Washington?» «Non ne ho idea. Pensavo di tornare al mondo della finanza. Ho in programma degli incontri con alcune persone dopo il nostro ritorno da New York. Se non avranno buon esito... non so. Magari mi stabilirò in qualche cittadina di campagna e aprirò uno studio di commercialista. Tasse, mercato monetario, una Range Rover, e foglie da rastrellare. Non dev'essere poi tanto male, come vita.» «Io ci sono passata.» «E non credi che vada bene per me.» «Non lo so. Cosa farai quando i ragazzi se ne saranno andati? Mio figlio sta appena entrando nell'adolescenza e io sono già in ansia al pensiero di quello che farò quando sarà partito per il college.» «Cosa farai?» domandò Hood. «A meno che qualche meraviglioso uomo di mezza età dai capelli neri e gli occhi nocciola non mi porti lontano, ad Antigua o nelle Tonga?» chiese lei. «Già» disse lui, arrossendo. «Nel caso ciò non accada.» «Probabilmente mi comprerò una casa da qualche parte in mezzo a una di quelle isole e mi metterò a scrivere. Autentica fiction, non la robaccia che dò in pasto ogni giorno alla Washington Press Corps. Ci sono alcune storie che mi piacerebbe raccontare.» E di storie da raccontare l'ex cronista politica e addetto stampa del Tom Clancy
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senatore del Connecticut Bob Kaufmann ne aveva davvero parecchie. Storie di notizie addomesticate, scandali e pugnalate alle spalle nei corridoi del potere. Hood sospirò e contemplò la sua scrivania ormai spersonalizzata. «Non so quello che farò. Devo sistemare alcune questioni personali.» «Con tua moglie, intendi.» «Con Sharon» disse lui, piano. «Se ci riesco, allora non mi importa del futuro.» Aveva sentito la necessità di pronunciare il nome della moglie per farla sembrare più reale, più presente. Lo aveva fatto perché Ann era più pressante del solito. Del resto, quella rappresentava per lei l'ultima opportunità di parlargli lì dentro, dove i ricordi di una lunga e intima relazione professionale, di lutti e trionfi, e di tensione sessuale, erano divenuti improvvisamente molto vividi. «Posso domandarti una cosa?» fece Ann. «Certo.» Gli occhi di lei si abbassarono, e così come anche la sua voce. «Quanto tempo ci metterai?» «Quanto tempo?» ripeté Hood quasi in un sussurro. Scosse il capo. «Non lo so, Ann. Non lo so davvero.» La fissò per un lungo istante. «Ora lascia che sia io a farti una domanda.» «D'accordo. Qualunque cosa.» I suoi occhi erano ancora più dolci di prima. Paul non capiva perché dovesse fare questo a se stesso. «Perché io?» le chiese. Lei parve sorpresa. «Perché mi preoccupo per te?» «Si tratta di questo? Preoccupazione?» «No» ammise lei con un filo di voce. «Allora dimmi perché» insistette lui. «Non è evidente?» «No» rispose Hood. «Il governatore Vegas. Il senatore Kaufmann. Il presidente degli Stati Uniti. Sei stata al fianco di alcuni degli uomini più carismatici del Paese. Io non sono come loro. Io sono fuggito dall'arena, Ann.» «No, l'hai lasciata» lo corresse lei. «C'è una bella differenza. Te ne sei andato perché eri stanco delle calunnie, dei comportamenti "politicamente corretti", di dover misurare ogni parola. L'onestà è molto attraente. E così l'intelligenza. E anche non perdere la calma quando tutti quei carismatici Tom Clancy
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politici e generali e leader stranieri corrono in giro agitando le loro spade.» «Il giudizioso Paul Hood.» «Che c'è di male in questo?» domandò Ann. «Non saprei» disse Hood, alzandosi e sollevando la scatola di cartone. «Quello che so è che c'è qualcosa che non va nella mia vita, e ho bisogno di scoprire cos'è.» Ann si alzò a sua volta in piedi. «Be', se ti serve una mano per cercarlo, sono a disposizione. Se hai voglia di fare quattro chiacchiere, di prendere un caffè, di uscire a cena... devi solo chiamarmi.» «Lo farò.» Hood sorrise. «E grazie davvero per essere passata di qui.» «Non c'è di che.» Lui le fece cenno con la scatola di precederlo. Ann uscì dall'ufficio con passo svelto. Se nei suoi occhi c'erano tristezza o tentazione, a Paul vennero risparmiate entrambe. Si chiuse la porta dell'ufficio alle spalle, delicatamente, ma con un clic che aveva un qualcosa di solido, irrevocabile. Mentre passava accanto ai cubicoli del personale diretto all'ascensore, i membri dello staff del turno di notte gli fecero i loro migliori auguri. Li vedeva di rado, poiché Bill Abram e Curt Hardaway assumevano il comando dopo le sette di sera. C'erano molte facce giovani. Molti tipi intraprendenti. Il giudizioso Paul Hood si sentiva decisamente un pezzo d'antiquariato. Il viaggio a New York gli avrebbe dato il tempo di riflettere, di provare a ricucire il rapporto con Sharon, o almeno questo era quello che si augurava. Raggiunse l'ascensore, entrò nella cabina e diede un ultimo sguardo al complesso che aveva sottratto così tanto del suo tempo e del suo spirito, ma che gli aveva anche procurato quelle incredibili scariche di adrenalina... Non c'era motivo di mentire a se stesso: tutto questo gli sarebbe mancato. Mentre la porta si chiudeva, Hood si ritrovò di nuovo pieno di rabbia. Se si trattasse di rabbia per ciò che stava lasciando o per ciò verso cui stava andando incontro, non lo sapeva. Liz Gordon, la psicologa dell'Op-Center, una volta aveva detto che «confusione» era un termine inventato per descrivere un ordine delle cose che ci era ancora oscuro. Si augurava che fosse così. Se lo augurava di tutto cuore.
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Martedì, ore 7.32, Parigi, Francia Ogni quartiere di Parigi è ricco di qualche cosa, che si tratti di storia, alberghi, musei, monumenti, caffè, negozi, mercati o persino di sole. Appena a nord-est della Senna, oltre il Port de Plaisance de Paris Arsenal un canale lungo mezzo chilometro destinato alla nautica da diporto -, c'è una zona ricca di qualcosa di un po' differente: uffici postali. Ce ne sono due a pochi isolati di distanza su Boulevard Diderot, e in mezzo a questi un terzo, poco più a nord. Altri uffici postali sono disseminati in tutta l'area. Per gran parte di essi, il grosso degli affari deriva dai turisti che affluiscono nella capitale francese in ogni stagione dell'anno. Tutte le mattine, alle cinque e trenta, un furgone portavalori della Banque de Commerce inizia il giro di questi uffici postali. A bordo si trovano una guardia armata al volante, una seconda al suo fianco e una terza nel retro, insieme a francobolli, vaglia e cartoline da consegnare ai cinque uffici postali. Completato il suo giro, il veicolo blindato trasporta sacchi di tela pieni del denaro contato e impacchettato che ciascuno degli uffici postali ha incassato il giorno prima. Di norma, il contante è costituito da valuta internazionale equivalente a una cifra compresa tra i 750.000 e il milione di dollari americani. Il furgone segue ogni giorno il medesimo itinerario, procedendo verso nord-ovest e poi svoltando nel trafficato Boulevard de la Bastille. Quindi, superata Place de la Bastille, deposita il suo carico in una banca su Boulevard Richard Lenoir. La politica della Banque de Commerce, al pari di molte società del ramo, è di attenersi sempre allo stesso percorso. In tal modo, gli autisti conoscono a menadito il tragitto e le sue caratteristiche, ravvisando qualunque cambiamento. Se ci sono degli elettricisti che lavorano su un lampione o una squadra di operai che aggiusta una buca in strada, il conducente viene informato in anticipo. Nella cabina di guida è sempre accesa una ricetrasmittente, monitorata da un controllore nella sede della Banque de Commerce al di là del fiume, in Rue Cuvier, nei pressi del Jardin des Plantes. L'unica costante - paradossalmente, l'unica che varia in continuazione - è il traffico. Gli uomini osservano attraverso i vetri a prova di proiettile le auto e i camion più veloci sorpassare il veicolo protetto da una spessa corazza e pesante quasi quattro tonnellate. Anche nel Port de l'Arsenal il traffico è costante, perlopiù imbarcazioni a motore lunghe dai quattro ai Tom Clancy
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dodici metri che giungono qui dal fiume affinché gli equipaggi possano pranzare, riposare, far rifornimento di carburante o effettuare riparazioni nei bacini. Gli uomini nel furgone blindato non notarono nulla di insolito in quel mattino assolato eccetto il caldo, se possibile ancor più torrido del giorno precedente. E non erano nemmeno le otto. Sebbene i loro berretti grigio scuro fossero stretti e bollenti, li indossavano per impedire al sudore di colare loro negli occhi. L'autista portava un revolver MR F1; la guardia sul sedile del passeggero e quella nel retro erano armate con fucili d'assalto FAMAS. Il traffico era intenso a quell'ora, mentre gli autocarri effettuavano consegne e le vetture manovravano per superarli. Nessuno degli occupanti del furgone pensò che ci fosse qualcosa di strano quando davanti a loro un camion rallentò per lasciar passare una Citroèn. Era un vecchio catorcio con la carrozzeria bianco sporco piena di ammaccature e il cassone coperto. Gli occhi dell'autista si spostarono a sinistra, in direzione del canale. «Te lo ripeto» disse. «Oggi mi piacerebbe essere laggiù sul mio piccolo Whaler. Al sole, cullato dalle onde, immerso nella quiete...» Lo sguardo del suo collega guizzò verso gli alberi delle imbarcazioni e le piante del viale che gli sfilavano accanto. «Io mi annoierei.» «Perché a te piace andare a caccia. Io invece mi accontenterei di starmene seduto nella brezza con il mio mangiacassette e la canna da...» Il resto della frase gli rimase in gola e la sua fronte si corrugò. Né i berretti né le armi né la radio accesa né la familiarità del tragitto ebbero più alcuna importanza quando il vecchio autocarro si arrestò di colpo e il telone venne tirato da parte. C'era un uomo in piedi nel cassone. Un altro scese dal lato del passeggero. Entrambi indossavano uniformi mimetiche, giubbotti antiproiettile, maschere antigas, cinturone e spessi guanti di gomma e portavano appoggiato sulla spalla un lanciarazzi contro carri RPG. L'uomo sul camion si piegò un poco verso il lato del passeggero, posizionandosi in modo che la parte posteriore dell'RPG fosse rivolta lontano dall'abitacolo. Il suo complice si piazzò in strada, con l'arma puntata leggermente verso l'alto. La guardia nel furgone reagì con prontezza. «Emergenza!» urlò nel microfono aperto. «Due uomini mascherati su un camion, numero di targa 101763, si sono fermati di fronte a noi. Sono armati di lanciarazzi!» Tom Clancy
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Un attimo dopo, gli uomini fecero fuoco. Ci fu un debole sibilo mentre due identiche vampe arancioni si sprigionavano dalla parte posteriore dell'RPG. Nel medesimo istante, un proiettile a forma di pera, rivestito di acciaio, saettò fuori dalla bocca di ciascun tubo di lancio. Le granate colpirono il parabrezza su ambedue i lati ed esplosero. La guardia sul sedile del passeggero alzò il fucile. «Il vetro ha tenuto!» gridò trionfante. L'autista sbirciò nello specchietto laterale sinistro, poi in quello destro, e sterzò a sinistra, verso il traffico proveniente in senso contrario. «Tentiamo una manovra evasiva nelle vie a nord» disse. Improvvisamente, entrambi gli uomini lanciarono un urlo. Il vetro antiproiettile, in laminato plastico, è concepito per resistere a deflagrazioni anche ravvicinate di bombe a mano. Può provocare un foro singolo o un effetto ragnatela, ma reggerà a uno o forse due attacchi senza frantumarsi. Dopodiché, non ci sono garanzie. Chiunque sieda dietro al vetro - l'autista di un furgone portavalori o di una limousine, l'impiegato di una banca o di un ufficio federale, una guardia carceraria, un parcheggiatore o un casellante nel suo gabbiotto - deve chiamare rinforzi e, se possibile, evacuare l'area. Nel caso di un furgone blindato, anche se gli occupanti non sono in grado di allontanarsi, conducente e passeggero sono armati, e in teoria, una volta infranto il vetro, gli assalitori sono ugualmente a rischio. Ma le granate sparate dall'autocarro erano a doppia camera: quella anteriore conteneva una carica esplosiva, quella posteriore, più grande, dell'acido disolforico. Il parabrezza si era rotto in due punti nella stessa maniera, a raggiera, causata dalla frammentazione ad alta velocità: un foro di due centimetri e mezzo al centro del quale si irradiavano crepe filiformi. Parte dell'acido era penetrato attraverso il foro, spruzzando guidatore e passeggero in volto e in grembo. Il resto della sostanza corrosiva aveva fatto breccia nelle incrinature dissolvendo i polimeri non chimicamente inerti che erano un componente del vetro. Etienne Vandal e Reynold Downer si misero a tracolla i lanciarazzi. L'australiano saltò giù dal cassone mentre il furgone blindato urtava l'angolo sinistro del camion. I due automezzi slittarono il primo a sinistra, il secondo a destra, quindi si fermarono. Vandal e Downer balzarono sul cofano del furgone. Non restava loro altro da fare che sferrare un calcio al Tom Clancy
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parabrezza per sfondarlo; andò in pezzi esattamente come aveva detto il francese. Il vetro era più spesso e pesante di quanto Downer si fosse aspettato, e il residuo di acido fece fumare il tacco di gomma del suo scarpone. Ma ebbe soltanto un momento per pensarci. Estrasse l'automatica dalla fondina che portava sull'anca destra e, ritto davanti al posto del passeggero, mentre le auto nelle altre corsie rallentavano per guardare e poi si allontanavano a tutta velocità, sparò un colpo in fronte alla guardia. Vandal fece altrettanto dal lato opposto. La guardia rimasta sola nel vano di carico sigillato chiamò il controllore con la sua radio. Vandal sapeva che l'avrebbe fatto perché, dopo essersi congedato dall'esercito con un impeccabile stato di servizio, il tenente aveva facilmente trovato un impiego come guardia giurata per la Banque de Commerce. Aveva lavorato su un veicolo blindato come quello per quasi sette mesi. Sapeva pure che, con quel traffico, la volante della polizia avrebbe impiegato almeno dieci minuti per giungere sul posto. Più di quanti ne occorressero per portare a termine il colpo. Studiando i video, gli uomini avevano constatato come la corazzatura dei furgoni non fosse cambiata da quando, mesi prima, Vandal aveva lasciato l'impiego. Nelle forze armate, l'aggiornamento della blindatura dei veicoli in uso era continuo per stare al passo con nuove armi che andavano dalle testate a carica cava a mine terrestri più potenti, nonché per esigenze strategiche come un minor peso per consentire maggiore velocità e mobilità. Tuttavia, il settore privato era più lento nell'apportare modifiche. Facendo attenzione a evitare l'acido che stava ancora corrodendo il cruscotto, Reynold Downer scivolò nella cabina di guida. Tra i sedili, sul pavimento, c'era un profondo, stretto pozzetto utilizzato per custodire munizioni supplementari, al quale si poteva accedere sia dalla parte anteriore che da quella posteriore del furgone blindato. Downer spinse la guardia senza vita contro la portiera e aprì il pannello che copriva l'alloggiamento delle munizioni. Quindi tirò fuori un pezzo di esplosivo C4 da una delle tasche del cinturone, inserì la mano destra nella cavità, lo applicò al pannello che dava sul retro del veicolo e vi collegò un piccolo timer. Lo regolò sui quindici secondi, dopodiché lasciò cadere nel vano un candelotto lacrimogeno e richiuse il pannello. Scavalcando il corpo della guardia, aprì la portiera e scese sul manto stradale. Nel frattempo, Vandal si era inginocchiato sul cofano, aveva preso un paio di cesoie dal cinturone e tirato su la manica destra dell'autista morto. Tom Clancy
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La chiave che apriva il retro del furgone era fissata a un braccialetto di metallo attorno al suo polso. Vandal aveva tirato verso di sé l'avambraccio dell'uomo e tagliato il braccialetto. In quel mentre, il C-4 esplose, non solo aprendo uno squarcio nel pannello posteriore, ma distruggendo la bomboletta di gas lacrimogeno. Benché un po' di gas filtrasse nell'abitacolo, la maggior parte si riversò nel vano di carico. Il traffico si era bloccato a debita distanza dal furgone. La strada era sgombra e l'ingorgo avrebbe rallentato ulteriormente la polizia. Quando Vandal ebbe terminato, scivolò giù dal cofano e raggiunse Downer dietro il veicolo. Nessuno dei due uomini aprì bocca; c'era sempre la possibilità che la ricetrasmittente aperta captasse le loro voci. Vandal aprì lo sportello e il gas fuoriuscì insieme alla boccheggiante guardia giurata. L'uomo aveva cercato di prendere la maschera antigas che era custodita in una cassetta. Sfortunatamente, era stata collocata lì prevedendo un attacco dall'esterno, non dall'interno. Non era riuscito a raggiungere la cassetta, tanto meno la maschera. La guardia crollò sull'asfalto e Downer la colpì con forza sulla testa. Il poveretto smise di muoversi, benché respirasse ancora. Mentre Vandal saliva a bordo del furgone, Downer udì in lontananza il ronzio di un elicottero. Lo Hughes 500D nero si avvicinava dal fiume, dove la famiglia Sazanka possedeva un cantiere nautico. Il pilota giapponese aveva rubato l'elicottero in modo che non si potesse risalire fino a loro. Rallentò mentre sorvolava il boulevard. Lo Hughes si distingueva per un'eccezionale stabilità nel volo a bassa velocità e a punto fisso, nonché per un sopportabile flusso del rotore, e poteva trasportare cinque persone oltre al carico, il che costituiva forse l'elemento più importante. Barone, che era al volante del camion, tornò indietro di corsa. Mentre l'uruguaiano indossava la maschera antigas, Georgiev aprì il portello del vano posteriore dell'elicottero e calò una fune con un gancio di ferro a cui era fissata una piattaforma di tre metri e mezzo per due con grandi reti di nylon lungo i lati. Mentre Downer si assicurava che nessuno intervenisse, Vandal e Barone, avvolti nelle nuvole di gas che si andavano diradando, iniziarono a caricare i sacchi di denaro sulla piattaforma. Dopo cinque minuti, Georgiev issò il primo carico. Downer gettò un'occhiata all'orologio. Erano in lieve ritardo sulla tabella di marcia. «Dobbiamo affrettare le operazioni!» urlò nella radio Tom Clancy
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incorporata nella maschera. «Datti una calmata» replicò Barone. «Abbiamo ancora un buon margine.» «Non è sufficiente. Voglio che tutto vada alla perfezione.» «Quando sarai al comando, allora darai gli ordini.» «Lo stesso vale per te, amico» scattò l'australiano. Barone gli scoccò un'occhiataccia attraverso la maschera mentre la piattaforma tornava a scendere. Gli uomini iniziarono a gettarvi dentro altri sacchi. Udirono in lontananza le sirene della polizia, ma Downer non si preoccupò: se necessario, avevano la guardia priva di sensi da usare come ostaggio. Cinque metri più su, Sazanka scrutava i cieli. L'unico evento che avrebbe potuto costringerli a interrompere la missione e sgombrare il campo era l'arrivo di un elicottero delle forze dell'ordine. Era proprio questo che il giapponese stava controllando con l'unità radar montata nell'abitacolo. Downer stava osservando il pilota; se sullo schermo fosse apparso un puntino, questi avrebbe fatto un cenno e avrebbero tagliato la corda. Il secondo carico venne sollevato. Ne sarebbe bastato solo un altro. Il traffico ormai era intasato per oltre quattrocento metri quando la gente si rese conto di quanto stava accadendo. Non c'era modo di passare. La polizia avrebbe potuto intervenire unicamente con la brigade équestre o dal cielo. I rapinatori continuavano a lavorare in modo rapido ma efficiente, senza frenesia. Il terzo carico venne completato. D'improvviso, Sazanka alzò un dito e lo fece ruotare, poi indicò verso sinistra: un elicottero della polizia si avvicinava da ovest. Georgiev abbassò nuovamente la piattaforma. Come programmato, Barone vi montò sopra, seguito da Vandal, ma il bulgaro non riavvolse il cavo. Invece, i due uomini si levarono le maschere antigas, le agganciarono al cinturone e presero ad arrampicarsi sulla fune. Quando furono rispettivamente a tre e sei metri d'altezza, Downer saltò sulla piattaforma e Georgiev cominciò a tirarla su. L'australiano si tenne in equilibrio aggrappandosi alla rete con la mano destra mentre con l'altra si sfilava dalla spalla il lanciagranate. Quindi si liberò della maschera per vedere più chiaramente, si distese su un fianco, estrasse un proiettile dalla borsa delle granate e caricò l'arma. Sopra di lui, Georgiev aiutò Barone e Vandal a entrare nell'elicottero. Sazanka salì di quota, spingendo rapidamente lo Hughes alla sua Tom Clancy
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massima velocità di crociera, pari a duecentocinquanta chilometri l'ora. Intanto, Downer si accertava che tanto la canna che la culatta del lanciatore spuntassero dalle maglie della rete; non voleva certo incenerirla e precipitare sfracellandosi al suolo. Georgiev assicurò la piattaforma mediante cavi fatti passare in due ganci a occhiello sui lati anteriore e posteriore più vicini all'elicottero, ma lasciandola sospesa un metro sotto il portello aperto del vano posteriore. Da lì, Downer era in grado di proteggere la fuga da minacce provenienti da ogni direzione. Inoltre, la prossimità con il ventre dell'aeromobile gli avrebbe impedito di essere sballottato dal vento e dalla corrente d'aria discendente prodotta dal rotore. E sarebbe stato assai più difficile per un cecchino a terra o in volo individuarlo all'ombra della fusoliera. Mentre attendevano un eventuale inseguimento, Sazanka si mantenne a trecento metri di quota procedendo verso nord-ovest lungo il fiume. Un piccolo aereo li attendeva su una piccola pista d'atterraggio fuori SaintGermain. Una volta trasbordati i sacchi di denaro, sarebbero decollati alla volta della Spagna, dove i fermenti di guerra civile avrebbero consentito loro di entrare e uscire agevolmente dal Paese. «Eccolo!» urlò Georgiev puntando il dito a sud-ovest. Downer non ebbe bisogno di alzare lo sguardo per sapere dove il bulgaro stava indicando; aveva già localizzato l'elicottero della polizia, che si trovava a seicento metri di quota e si avvicinava rapidamente. Come Vandal aveva previsto, apparteneva al Gruppo d'intervento speciale della gendarmerie francese. L'elicottero bianco e blu scese verso di loro con un rapido arco. I gendarmi avrebbero seguito la solita procedura operativa, tentando di comunicare via radio con lo Hughes in fuga, cosa che probabilmente stavano facendo in quel momento. Non ottenendo risposta, sarebbero rimasti in costante contatto con le forze a terra. Pur disponendo di mitragliatrici, non avrebbero cercato di abbattere l'elicottero, non finché sorvolava un'area densamente popolata e trasportava un milione di dollari in valuta. Quando fosse atterrato, le unità terrestri e aeree avrebbero provveduto ad accerchiarlo. Vandal sapeva che il dipartimento di polizia di Parigi faceva affidamento sui radar dei due vicini aeroporti per monitorare i cieli sopra la città. Utilizzavano il Charles de Gaulle a nord-est, a Roissy-en-France, e Orly a sud. Vandal sapeva anche che quando un velivolo scendeva sotto Tom Clancy
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gli ottanta metri di quota, il radar risultava inefficace a causa dell'interferenza degli edifici circostanti. Aveva detto a Sazanka di mantenersi a trecento metri dal suolo. L'elicottero della polizia si avvicinava. Gli alberghi della riva nord del fiume passavano sotto di loro in rapida successione. Alla sua destra, dall'altra parte del fiume, Downer vide la mole scura e retinata della Tour Eiffel nel mattino brumoso. Stavano volando alla stessa altezza della cima della struttura. Gli inseguitori erano ormai a quattrocento metri di distanza, sempre qualche centinaio di metri più in alto. La gittata del lanciagranate era di trecento metri. Secondo i dati visualizzati sul mirino digitale, l'elicottero della polizia si trovava appena fuori portata. Downer sollevò lo sguardo verso Georgiev. Il bulgaro e Vandal avevano concordato che le conversazioni via radio o per telefono cellulare erano troppo facili da intercettare. Così, una volta tolte le maschere antigas, le comunicazioni verbali dovevano avvenire all'antica. «Ho bisogno di essere più vicino!» urlò Downer. Il bulgaro unì le mani a coppa intorno alla bocca. «Quanto vicino?» gridò. «Una sessantina di metri più in alto, un centinaio più indietro!» Georgiev annuì, fece capolino dalla porta che separava l'abitacolo dalla cabina e comunicò a Sazanka le istruzioni di Downer. Il pilota giapponese rallentò e salì di quota. Downer osservò l'elicottero della polizia attraverso il mirino. L'ascesa portò i due aeromobili sullo stesso piano e la diminuzione di velocità ridusse le distanze. La piattaforma era scossa dalla forza del rotore mentre il vento la faceva sobbalzare verso poppa. Prendere la mira era un'impresa ardua. Downer inquadrò la cabina di pilotaggio dell'elicottero della polizia. L'ottica del lanciagranate non ingrandiva il bersaglio, tuttavia l'australiano riusciva a scorgere qualcuno in piedi nell'abitacolo che si sporgeva tra il pilota e il copilota e li osservava con un binocolo. Downer sarebbe stato sicuramente notato, ora che i due aeromobili si trovavano alla medesima quota. Non c'era tempo di aspettare che gli inseguitori si avvicinassero maggiormente. L'australiano si accovacciò sulla piattaforma, rannicchiandosi il più possibile contro il sostegno laterale più lontano per limitare gli effetti del Tom Clancy
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rinculo. Tornò a inquadrare nel mirino la cabina di pilotaggio dell'altro elicottero. Il tiro non doveva essere perfetto; era sufficiente colpire il veicolo nemico. Premette con forza il pesante grilletto. La granata lasciò il tubo con un violento getto d'aria e un forte botto. Il lancio sbatté la piattaforma all'indietro con un brusco scossone, facendo scivolare Downer contro la rete. Perse il lanciagranate, che cadde rumorosamente sulla piattaforma, ma seguì con lo sguardo il proiettile tracciare una sottile e biancastra scia nel cielo. La granata rimase in volo tre secondi prima di centrare l'abitacolo sul lato sinistro. Ci fu una luminosa esplosione rossa e nera, simile a un batuffolo d'ovatta, con schegge di fuoco nel mezzo. Il fumo e il vetro scagliati verso l'alto vennero dispersi dal rotore principale. Un istante dopo, l'elicottero si inclinò a destra e iniziò a ruotare. Non si verificò alcuna esplosione secondaria. Poi, con l'equipaggio morto o inabilitato, l'aeromobile cominciò semplicemente a scendere in leggera picchiata. A Downer ricordò un volano con le penne spezzate su un lato. L'elicottero della polizia si avvitava in modo sbilenco mentre il rotore di coda lo tirava prima da una parte e poi dall'altra. Era come se la piccola elica tentasse da sola di mantenere in aria il mezzo danneggiato. Frattanto, Georgiev aveva azionato di nuovo la puleggia per issare il cavo con attaccata la piattaforma. Una volta raggiunto il portello aperto, Downer consegnò al bulgaro il lanciagranate, quindi Barone tese una mano per aiutarlo a entrare. Vandal si unì a Georgiev per tirare a bordo la piattaforma. Barone continuava a tenere la mano di Downer con un'espressione tirata per la collera. «Avresti dovuto spingerti dall'altra parte» disse l'uruguaiano. Downer lo fulminò con un'occhiata. «Quello che avresti dovuto fare era dire: "Bel colpo, amico".» «Mi hai fatto perdere la concentrazione laggiù, con tutte le tue chiacchiere!» sbraitò Barone, mollando rabbiosamente la mano dell'altro. «Non ci è voluto molto, eh?» ribatté Downer. «Conosco dei soldati capaci di svolgere il tuo compito dormendo.» «Allora ti suggerisco di lavorare con loro la prossima volta» ringhiò Barone. «Ora basta!» disse Vandal da sopra la spalla. Il francese e Georgiev avevano osservato l'elicottero della polizia Tom Clancy
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schiantarsi su un edificio vicino al fiume con una piccola esplosione bianca. Un boato sordo giunse alle loro orecchie un attimo dopo. Si accinsero a richiudere il portello. «Un'arrogante testa di cazzo» brontolò Barone. «Ecco con cosa ho a che fare. Un'arrogante testa di cazzo australiana! » Prima che Vandal e Georgiev potessero chiudere il portello, Reynold Downer agguantò con entrambe le mani la parte anteriore dell'uniforme del sudamericano, con tale forza che le dita affondarono nella carne del petto dell'uomo più piccolo. Barone cacciò un urlo di dolore mentre l'australiano lo faceva girare di scatto e lo spingeva verso il portello ancora aperto finché la testa e le spalle non furono sospese sopra Parigi. «Gesù!» strillò Barone. «Ne ho le palle piene di te!» gridò Downer. «Sono settimane che mi rompi le palle!» «Piantatela!» tuonò Vandal, lanciandosi verso i due. «Ho solo detto quello che pensavo!» insistette Reynold. «Ho svolto il mio compito e ho buttato giù quel maledetto elicottero. E adesso ho voglia di buttare giù anche te!» Vandal si incuneò a forza tra i litiganti. «Lascialo!» ordinò mentre afferrava il braccio di Barone con la mano sinistra e nello stesso tempo usava la spalla destra per allontanare Downer. Quest'ultimo tirò dentro Barone, quindi si allontanò di buon grado e si voltò verso i sacchi ammucchiati contro il lato opposto della cabina. Dietro di lui, Georgiev si affrettò a chiudere il portello. «Calmatevi» disse Vandal in tono pacato. «Abbiamo tutti quanti i nervi tesi, ma abbiamo realizzato quanto ci eravamo proposti. Adesso ciò che importa è finire il lavoro.» «Finirlo senza altre lamentele» rimarcò Barone, che tremava di rabbia e paura. «Naturalmente» lo tranquillizzò il francese. «Era una dannatissima osservazione» disse Downer tra i denti. «Ecco quello che era!» «Va bene» fece Vandal, restando in mezzo ai due uomini e guardando l'australiano. «Vorrei ricordare a entrambi che per completare questa parte della missione e passare alla successiva abbiamo bisogno di ogni componente della squadra. Ora, ciascuno di noi ha svolto bene il compito assegnatogli. Se in futuro ci metteremo un pizzico in più di attenzione, Tom Clancy
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tutto filerà liscio.» Si volse verso Barone. «Anche se qualcuno ha sentito la sua voce, sono sicuro che saremo fuori dal Paese prima che possano capire a quale australiano appartiene quell'accento.» «A quale australiano con un'esperienza nelle truppe speciali tale da mettere a segno un colpo del genere» fece notare Barone. «Non ci troveranno in tempo» assicurò Vandal. «Se lo hanno sentito, la polizia dovrà comunque rivolgersi all'Interpol, che controllerà con le autorità di Canberra. Ce ne saremo andati da un pezzo prima ancora che ottengano una lista di possibili sospetti.» Si allontanò con cautela dai due uomini e guardò l'orologio. «Toccheremo terra tra dieci minuti e decolleremo di nuovo prima delle nove.» Fece un sorriso forzato. «Niente può fermarci, ormai.» Barone stava fissando Downer con occhio torvo. Infine girò la testa e si lisciò stizzosamente l'uniforme. L'australiano trasse un profondo respiro e poi sorrise a Vandal. Il francese aveva ragione. Avevano svolto bene il loro compito. Si erano procurati il denaro necessario a pagare le mazzette, il velivolo e i documenti che servivano per la prossima fase del piano, quella che li avrebbe resi ricchi. Etienne Vandal si rilassò e si avviò verso la cabina di pilotaggio. Barone voltò le spalle a Downer, il quale si sedette su un mucchio di sacchi ignorandolo, una volta di più. Quando l'australiano raggiungeva lo stadio di combustione, bruciava ad alta temperatura ma rapidamente. Aveva ritrovato la calma, non era più furioso con Barone o con se stesso per aver rischiato di mandare a monte l'operazione. Georgiev serrò il portello e si diresse verso l'abitacolo, evitando di incrociare lo sguardo di Downer mentre gli passava accanto. Non era un atteggiamento volutamente sprezzante, soltanto un'altra abitudine contratta negli anni in cui lavorava per la CIA: sempre meglio restare anonimi. Vandal era tornato sul sedile del copilota, intento a sorvegliare le comunicazioni radio della polizia francese. Georgiev era in piedi alle sue spalle, mentre Barone guardava fuori dal finestrino della porta scorrevole della cabina. Downer chiuse gli occhi, godendosi le confortanti vibrazioni del pavimento e il soffice giaciglio di denaro sotto la testa. Neppure il martellante fracasso del rotore lo disturbava. Si concesse il piacere di scordare i dettagli che avevano dovuto imprimersi nella memoria per quel mattino: il percorso del furgone Tom Clancy
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blindato, la tempistica, i piani alternativi in caso di arrivo della polizia, una fuga per il fiume nell'eventualità che l'elicottero non ce l'avesse fatta. Un profondo senso di soddisfazione lo pervase, e lo assaporò come non aveva mai gustato nient'altro in vita sua.
4 Venerdì, ore 9.12, Chevy Chase, Maryland Sotto un cielo splendente, Paul Hood, sua moglie Sharon e i loro figli, la quattordicenne Harleigh e l'undicenne Alexander, si sistemarono nella nuova monovolume e partirono per New York. I ragazzi erano collegati ai rispettivi lettori CD portatili. Harleigh ascoltava brani per violino per entrare nel giusto stato d'animo in vista del concerto; di quando in quando emetteva un sospiro o borbottava una lieve imprecazione, intimorita dalla composizione o scoraggiata dalla brillantezza dell'esecuzione. Sotto questo aspetto, somigliava alla madre; nessuna delle due era mai soddisfatta di ciò che faceva, Harleigh al violino, Sharon con la sua passione per la cucina sana. Per anni Sharon aveva usato il suo fascino e la sua franchezza per dissuadere la gente dal consumo di pancetta e ciambelle in un programma settimanale di mezz'ora per la TV via cavo, The McDonnell Healthy Food Report. Aveva abbandonato il programma diversi mesi prima per dedicare più tempo alla realizzazione di un ricettario, ormai quasi terminato, e alla famiglia. I figli crescevano in fretta, e lei riteneva che dovessero tutti trascorrere più tempo facendo delle cose insieme, dalle cene nei giorni feriali a una vacanza ogniqualvolta era possibile. Cene cui Hood era mancato assai spesso e vacanze che aveva dovuto annullare. Alexander invece era più simile al padre. Gli piacevano le sfide personali. Adorava i giochi al computer, tanto meglio se complicati, ed era appassionato di cruciverba e puzzle. Adesso stava ascoltando qualche cantante in voga e cercando di risolvere un acrostico. Sulle sue ginocchia, sotto il libro di enigmistica, c'era una piccola pila di fumetti. Per Alexander, in quel momento, il mondo esterno non esisteva; c'era solamente quello che aveva di fronte. Paul non poteva fare a meno di sentirsi orgoglioso di suo figlio. Alexander sapeva bene ciò che voleva. Sharon Hood sedeva in silenzio a fianco del marito. Lo aveva lasciato una settimana prima per andare a stare con i figli dai suoi genitori a Old Saybrook, in Connecticut. Era tornata per lo stesso motivo per cui Paul Tom Clancy
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aveva dato le dimissioni dall'Op-Center: combattere per la loro famiglia. Lui non aveva la minima idea della direzione che avrebbe preso la sua carriera lavorativa, ma non avrebbe tastato il terreno fino al ritorno a Washington il mercoledì successivo. Aveva venduto alcune azioni acquistate ai tempi in cui faceva il broker, realizzando una somma sufficiente a mantenere la famiglia per un paio d'anni. Il reddito non era importante quanto la soddisfazione e gli orari di funzionario di banca. Ma Sharon aveva ragione. Ciò che sentiva nell'auto, nella sua globalità, le imperfezioni e tutto il resto, era qualcosa di molto speciale. Una di quelle imperfezioni - la più grossa - si frapponeva ancora tra lui e la moglie. Nonostante Sharon gli tenesse la mano sin da quando erano partiti, aveva come la sensazione di essere «in prova». Nulla che potesse individuare con esattezza, nulla che apparisse diverso dagli altri viaggi in macchina che avevano fatto insieme. Tuttavia, c'era come una barriera tra loro. Risentimento? Delusione? Qualunque cosa fosse, era l'opposto della tensione sessuale che percepiva in compagnia di Ann Farris. Paul e Sharon all'inizio parlarono un po' di quello che avrebbero fatto in città. Quella sera era in programma una cena ufficiale con le famiglie delle altre violiniste, seguita, se avessero finito abbastanza presto, da una passeggiata in Times Square. Il sabato mattina, avrebbero accompagnato Harleigh alla sede delle Nazioni Unite e poi esaudito un desiderio di Alexander: visitare la Statua della Libertà. Il ragazzino voleva vedere da vicino come fosse stata «eretta», per usare le sue parole. Alle sei si sarebbero recati alla serata, lasciando il figlio allo Sheraton con il suo sistema integrato di videogiochi. Paul e Sharon non erano autorizzati a partecipare al ricevimento dell'ONU, che si sarebbe tenuto nella sala d'ingresso del General Assembly Building. Avrebbero perciò seguito il concerto su televisori a circuito chiuso nella sala stampa al primo piano, insieme agli altri genitori. La domenica pomeriggio, avrebbero assistito a un concerto dell'orchestra del Metropolitan dedicato alle musiche di Vivaldi - il compositore preferito di Sharon - alla Carnegie Hall, dopodiché, su consiglio di Ann Farris, si sarebbero diretti a Serendipity III per una «cioccolata calda gelata». Sharon non era affatto entusiasta all'idea, ma Hood le fece presente che quella era una vacanza e i ragazzi attendevano con ansia quella sosta golosa. Era sicuro che lei non fosse entusiasta soprattutto del fatto che il suggerimento provenisse da Ann. Lunedì, infine, sarebbero ripartiti alla Tom Clancy
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volta di Old Saybrook per far visita ai genitori di Sharon - questa volta come una vera famiglia. Era stata un'idea di Paul. Gli piacevano i suoi suoceri, e il sentimento era reciproco. Ci teneva a riguadagnare la passata stabilità famigliare. Poiché era venerdì, il traffico era intenso in entrata e in uscita da Baltimora, Philadelphia e Newark. Arrivarono a New York alle cinque e mezzo, e si registrarono nell'hotel Sheraton all'angolo tra la 7a Avenue e la 51a Strada appena in tempo per unirsi alle altre famiglie per la cena al Carnegie Deli. Il pasto abbondava di pastrami, roast beef e hot dog. L'unica coppia che Hood conosceva erano i Mathis, la cui figlia, Barbara, era una delle migliori amiche di Harleigh. I genitori di Barbara lavoravano per il dipartimento di polizia di Washington. C'erano anche alcune mamme - due delle quali attraenti e single - che riconobbero in Paul l'ex sindaco di Los Angeles, riservandogli sorrisi degni di una celebrità e chiedendogli come fosse «amministrare» Hollywood. Lui rispose che non lo sapeva; avrebbero dovuto rivolgere quella domanda alla Screen Actors Guild e agli altri sindacati cinematografici. Tutto quanto, dal cibo all'attenzione, ebbe l'effetto di infastidire Sharon. O almeno fece emergere il disagio che avvertiva sin dalla loro partenza. Hood decise che avrebbe provato a parlargliene quando i ragazzi fossero andati a letto. Tuttavia, c'era una cosa su cui non si poteva darle torto. Paul era stato assente da casa per troppo tempo. Mentre osservava Harleigh interagire con gli altri teenager e i loro genitori, si rese conto che stava guardando una giovane donna, non più una ragazzina. Non sapeva quando fosse avvenuto il cambiamento, ma c'era stato. Ed era fiero di Harleigh quanto di Alexander, ma in un modo diverso. Lei possedeva il fascino della madre combinato alla acquisita compostezza della musicista. Alexander era concentrato sul suo piatto di frittelle di patate. Vi premeva sopra la forchetta e aspettava che l'unto salisse in superficie per poi vedere quanto tempo impiegava a essere riassorbito. Sua madre gli disse di smetterla di giocare con il cibo. Hood aveva prenotato una suite a uno dei piani più alti. Dopo che Alexander ebbe dato un'occhiata alla città con il suo binocolo, meravigliandosi per ciò che vedeva in strada e dietro altre finestre, i ragazzi andarono a dormire sui lettini in soggiorno offrendo a lui e Sharon un po' di privacy. Tom Clancy
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Privacy e una stanza d'albergo. C'era stato un tempo in cui questo significava automaticamente fare l'amore, non conversare o restare in un imbarazzato silenzio. Hood era turbato dalla propria presa di coscienza di quanto tempo e quanta passione negli ultimi anni aveva speso in altre cose, quali il senso di colpa o il mantenimento delle proprie posizioni personali, invece che tenersi stretti l'uno all'altra. Come avevano fatto le cose ad arrivare a quel punto? E come poteva una coppia farle tornare come prima? Hood aveva un'idea, anche se sarebbe stata dura convincere sua moglie. Sharon scivolò nel letto e si raggomitolò su un fianco, girata verso di lui. «Sono stufa, e confusa» disse. «Lo so.» Le toccò la guancia e accennò un sorriso. «Ma supereremo anche questo.» «Non finché qualunque cosa mi dà ai nervi.» «A parte il cibo, cos'altro ti ha indispettito?» «Mi irritavano gli altri genitori, le maniere a tavola dei loro figli, le macchine che passavano con il rosso o si fermavano sui passaggi pedonali... Non sopportavo niente. Niente.» «Abbiamo avuto tutti giornate del genere.» «Paul, non riesco a ricordare quando non ero così. Va sempre peggio, e non voglio guastare la festa a Harleigh e Alexander questa settimana.» «Hai passato dei brutti momenti» le rammentò Hood. «E anch'io. Ma i ragazzi non sono stupidi. Sanno quello che stiamo attraversando. Non lasciare che nulla ci disturbi mentre siamo qui, questo è ciò che voglio... che spero...» Sharon scosse mestamente il capo. «E come?» «Non abbiamo fretta» rispose lui. «L'unica cosa che dobbiamo fare nei prossimi giorni è costruire dei buoni ricordi per noi e i ragazzi. Cominciare a vincere il nostro abbattimento. Non possiamo concentrarci su questo?» Sharon posò la mano sulla sua. C'era un vago sentore d'aglio dovuto a qualcosa che lei aveva cucinato la sera prima. Nemmeno questo aiutava a riaccendere la passione, dovette ammettere Hood. La routine della vita. Gli odori che diventavano più familiari di quel primo, indimenticabile profumo dei capelli di una donna. I lavori domestici che trasformavano le ali del tuo angelo in semplici mani. «Voglio che le cose cambino» disse Sharon. «Provavo qualcosa mentre eravamo in macchina...» «Lo so» la interruppe Hood. «Io pure. Era bello.» Lei lo guardò. Aveva gli occhi umidi. «No, Paul. Quello che provavo era Tom Clancy
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terribile.» «Terribile? Che intendi dire?» «Per tutto il viaggio, ho continuato a ricordare le gite in macchina che facevamo quando i bambini erano piccoli. A Palm Springs o al Big Bear Lake o sulla costa... Eravamo diversi, allora.» «Eravamo più giovani.» «Non solo questo.» «Eravamo impegnati nel nostro ruolo. I ragazzi avevano bisogno di noi più di quanto non ne abbiano adesso. È come quelle giostre con le sbarre su cui si arrampicano e si appendono i bambini. Occorre star loro vicini quando le loro braccine sono troppo corte per passare da una sbarra all'altra. Altrimenti cadono.» «Lo so» convenne Sharon mentre le lacrime iniziavano a stillarle dagli occhi. «Ma oggi desideravo tanto sentire quella unità tra noi, e non è successo. Voglio che tornino i bei tempi, le sensazioni di una volta.» «Possiamo farli tornare adesso» promise Hood. «Ma c'è un tale caos dentro di me. Amarezza, disappunto, rancore... Vorrei ricominciare da capo per poter crescere insieme, non divisi.» Paul osservò la moglie. Sharon aveva l'abitudine di distogliere lo sguardo quando era confusa e di guardarlo in faccia quando non lo era. Ora lo stava fissando dritto negli occhi. «Non possiamo farlo» fece notare lui. «Ma possiamo darci da fare per sistemare le cose, una alla volta.» La tirò verso di sé. Sharon si spostò di traverso sul letto, ma non c'era calore nella loro vicinanza. Lui non riusciva a capacitarsene. Le stava dando quello che voleva, quello di cui aveva detto di aver bisogno, e lei continuava a ritrarsi. Forse si stava solo sfogando. Finora non aveva avuto realmente la possibilità di farlo. La tenne tra le braccia in silenzio per qualche minuto. «Tesoro» riprese Hood. «Lo so che non hai mai voluto farlo, ma non sarebbe una cattiva idea se noi due ne parlassimo con qualcuno. Liz Gordon mi può dare dei nomi, se sei interessata.» Sharon non disse nulla. Lui sentì che il suo respiro era rallentato. Allungò leggermente il collo e vide che guardava fisso nel vuoto, tentando di trattenere le lacrime. «Almeno i bambini sono venuti fuori bene» fece lei. «Almeno una cosa buona l'abbiamo fatta.» Tom Clancy
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«Non è l'unica, Sharon» notò Paul. «Abbiamo costruito una vita insieme. Non perfetta, ma migliore di quella di molte persone.» La trasse ancora più vicino mentre lei cominciava a singhiozzare e gli cingeva le spalle con le braccia. «Non è quello che sogna una ragazza quando pensa al futuro, sai?» piagnucolò lei. «Lo so.» La strinse forte. «Le cose andranno meglio, te lo prometto.» Non aggiunse altro. Si limitò ad aspettare mentre la passione faceva scendere in picchiata i rimpianti di Sharon. Lei avrebbe toccato il fondo e poi, al mattino, avrebbero iniziato la lunga risalita. Sarebbe stato difficile prendere le cose come venivano, con calma, come aveva detto lui. Ma lo doveva a Sharon. Non perché aveva permesso alla carriera di dettare i suoi orari, ma perché aveva dato la sua passione a Nancy Bosworth e Ann Farris. Non il suo corpo, ma i suoi pensieri, le sue premure, persino i suoi sogni. Quell'energia, quell'attenzione, sarebbero dovute essere risparmiate per la moglie e i figli. Sharon si addormentò rannicchiata tra le sue braccia. Non era il tipo di intimità che lui aveva desiderato, ma era pur sempre qualcosa. Quando fu certo che non l'avrebbe svegliata, si sciolse dall'abbraccio, allungò la mano verso il comodino e spense la luce. Quindi reclinò il capo sul cuscino, fissando il soffitto e provando disgusto per se stesso nel modo crudele e spietato di cui uno è capace soltanto la notte. E si sforzò di escogitare la maniera di rendere quel fine settimana un po' più speciale per le tre persone che, in un modo o nell'altro, aveva tradito.
5 Sabato, ore 4.57, New York Mentre se ne stava fuori dal cadente edificio di mattoni a due piani nei pressi del fiume Hudson, il pensiero del tenente Bernardo Barone corse alla nativa Montevideo. Non era solo l'aspetto fatiscente della carrozzeria a richiamargli alla mente i bassifondi in cui era cresciuto. Per prima cosa, c'erano i venti frizzanti che soffiavano da sud. L'odore dell'oceano Atlantico si mescolava a quello dei gas di scarico delle auto che sfrecciavano lungo la vicina West Side Highway. A Montevideo, il puzzo di benzina e la brezza marina erano onnipresenti. In alto, un flusso continuo di aerei seguiva il fiume verso Tom Clancy
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nord prima di virare a ovest per l'aeroporto La Guardia. I velivoli intersecavano sempre anche i cieli sopra casa sua. Ma non era unicamente questo a ricordargli la sua città natale. Bernardo Barone aveva trovato le medesime caratteristiche in ogni città portuale del mondo che aveva visitato. La differenza era che si trovava quaggiù da solo, e la solitudine era qualcosa che provava ogniqualvolta faceva ritorno a Montevideo. No, si disse all'improvviso. Non lasciarti andare a questi pensieri. Non voleva cedere alla rabbia o alla depressione. Non adesso. Doveva mantenere alta la concentrazione. Si appoggiò alla porta, fredda contro la sua schiena bagnata di sudore. L'infisso era di legno, ricoperto da una lastra d'acciaio su entrambi i lati. C'erano tre serrature all'esterno e due pesanti chiavistelli all'interno. L'insegna sbiadita dal sole sopra l'ingresso diceva: VIKS' BODY SHOP. Il proprietario era un membro della mafia russa di nome Leonid Ustinoviks. L'uomo, piccolo, ossuto e fumatore accanito, era un ex pezzo grosso dell'esercito sovietico che Georgiev aveva conosciuto tramite i khmer rossi. Ustinoviks aveva confidato a Barone che non esisteva in tutta New York una carrozzeria che fosse semplicemente una carrozzeria. Di notte, quando regnava il silenzio e nessuno poteva avvicinarsi all'edificio senza essere visto o sentito, vi si commerciavano auto rubate, droga, armi e schiavi. I russi e i thailandesi erano i padroni del mercato; spedivano bambini americani rapiti fuori dal Paese e introducevano giovani donne negli Stati Uniti. Nella maggior parte dei casi, le prigioniere venivano avviate alla prostituzione. Alcune delle ragazze che avevano lavorato per Georgiev in Cambogia erano finite lì, passando dalle mani di Ustinoviks. Le dimensioni delle casse usate per spedire i «pezzi di ricambio» e la natura internazionale del commercio fornivano un perfetto paravento a queste attività. Leonid Ustinoviks operava principalmente nel campo delle armi, che faceva arrivare dalle repubbliche della ex Unione Sovietica. Solitamente trasportate su carghi, le armi entravano in Canada o a Cuba, e da qui venivano contrabbandate nel New England, nello Stato di New York, in New Jersey, Pennsylvania, Delaware e Maryland, oppure in Florida e negli altri Stati sul Golfo del Messico. Di norma, erano trasferite poco alla volta da magazzini situati in piccole città di provincia a luoghi come quella carrozzeria, questo per evitare di perdere tutto se l'FBI e la divisione di intelligence del NYPD (il dipartimento di polizia di New Tom Clancy
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York) le avessero intercettate durante il viaggio. I due organismi monitoravano in segreto le comunicazioni e le attività di persone originarie di Paesi noti per sponsorizzare traffici illeciti o il terrorismo: Russia, Libia, Corea del Nord e molti altri. La polizia cambiava regolarmente la segnaletica lungo il fronte del porto e nella zona dei magazzini, modificando all'occorrenza le limitazioni e gli orari di parcheggio in punti particolarmente trafficati. Ciò serviva come pretesto per fermare i veicoli e fotografare in modo furtivo i conducenti. Ustinoviks gli aveva detto di tener d'occhio chiunque svoltasse dall'autostrada o da una delle strade laterali. Se qualcuno si fosse fermato lì, o avesse anche solo rallentato mentre passava, doveva battere tre colpetti sulla porta della carrozzeria. Ogni volta che venivano conclusi affari del genere, c'era sempre qualcuno che saltava fuori pretendendo di leggergli un mandato di perquisizione - un diritto, secondo la legge di New York City - mentre tutti se la davano a gambe salendo sul tetto e saltando su un fabbricato adiacente. Non che Ustinoviks si aspettasse dei guai. Aveva spiegato che c'era stata una raffica di irruzioni contro i gangster russi due mesi prima. Alla città non piaceva dare l'impressione di prendere di mira un singolo gruppo etnico. «È il turno dei vietnamiti, adesso» aveva celiato quando erano giunti lì dall'albergo. A Barone parve di udire un rumore proveniente dal lato dell'edificio. Frugando nella giacca a vento, estrasse la sua automatica e si incamminò con cautela verso il vicolo buio a nord. C'era un club dietro un'alta recinzione metallica. La prigione. Porte, finestre e pareti di mattoni erano dipinte di nero. Non riusciva a immaginare cosa succedesse là dentro. Era buffo. Ciò che erano costretti a fare clandestinamente in Cambogia, vendere ragazze per denaro, probabilmente avveniva alla luce del sole in luoghi come quello. Quando una nazione assurge a simbolo della libertà, rifletté, deve tollerare anche gli estremi. Il club era chiuso. Un cane si muoveva dietro la recinzione. Doveva essere stato l'animale la causa del rumore che aveva sentito. Barone rinfoderò la pistola e tornò al suo posto. Pescò una sigaretta arrotolata a mano dal taschino e l'accese, ripensando agli ultimi giorni. Tutto procedeva secondo i piani, e sarebbe stato così Tom Clancy
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anche in seguito. Ne era convinto. Lui e i suoi quattro complici avevano raggiunto la Spagna senza problemi. Si erano divisi nel caso uno di loro fosse stato identificato, e nei due giorni successivi erano volati negli Stati Uniti da Madrid, per poi riunirsi in un hotel in Times Square. Georgiev era stato il primo ad arrivare. Aveva già preso i contatti necessari per procurarsi le armi di cui avevano bisogno. Le trattative stavano proseguendo dentro la carrozzeria mentre l'uruguaiano montava di guardia. Diede una tirata alla sigaretta, cercando di concentrarsi sul piano previsto per l'indomani. Si chiese dell'altro alleato di Georgiev, quello la cui identità era nota soltanto al bulgaro. Georgiev si era limitato a dire che si trattava di un americano che conosceva da oltre dieci anni. Il loro incontro doveva quindi risalire al periodo in cui entrambi erano in Cambogia. Chissà chi aveva potuto conoscere laggiù? E chissà che ruolo avrebbe svolto nell'azione del giorno seguente? Ma erano domande inutili. La mente di Barone andava sempre dove voleva, e al momento non aveva intenzione di occuparsi di Georgiev o dell'operazione. Voleva tornare indietro. Tornare a casa. Alla solitudine, pensò con amarezza. Una condizione che gli era familiare e in cui si trovava stranamente a suo agio. Ma non era stato sempre così. Benché la sua famiglia fosse povera, c'era stato un tempo in cui Montevideo sembrava il paradiso. La capitale uruguaiana, situata sull'Atlantico, vanta alcune delle spiagge più estese e meravigliose del mondo. Crescendo laggiù, nei primi anni Sessanta, Bernardo Barone non avrebbe potuto essere più felice. Quando non era a scuola o non stava sbrigando qualche lavoretto, era solito andare in spiaggia con suo fratello Eduardo, di dodici anni più grande. I due vi rimanevano fino a sera inoltrata, facendo lunghe nuotate o costruendo castelli di sabbia. Accendevano il fuoco quando calava il sole e spesso dormivano accanto ai loro castelli. «Ci riposeremo nelle scuderie, insieme ai nostri splendidi destrieri» scherzava Eduardo. «Riesci a sentirne l'odore?» Bernardo non ci riusciva. Le sue narici fiutavano solo il mare e i gas di scarico delle auto e delle imbarcazioni a motore. Ma non dubitava che Eduardo potesse sentire l'odore di quei cavalli. Anche il ragazzino voleva essere capace di farlo, da grande. Voleva diventare come Eduardo. Quando Bernardo e sua madre andavano in chiesa, tutti i fine settimana, era per quello che pregava. Per crescere proprio come suo fratello. Tom Clancy
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Questi erano i ricordi più belli di Bernardo. Eduardo era così paziente con lui, così affabile con chiunque si avvicinasse per guardarli costruire le alte mura merlate e i fossati. Le ragazze adoravano quel bel giovanotto. E adoravano il suo grazioso fratellino, che ricambiava con gioia. L'amata madre di Bernardo lavorava come aiutante di un panettiere; suo padre Martin era un pugile professionista, il cui sogno era risparmiare abbastanza per aprire una palestra affinché la moglie potesse lasciare l'impiego e vivere da signora. Sin dall'età di quindici anni, Eduardo passava molti giorni e notti in giro con il padre, lavorando al suo angolo come secondo. Sovente stavano via per intere settimane, partecipando al circuito di Rio de la Plata. Gruppi di boxeur si spostavano insieme in autobus da Mercedes a Paysandù a Salto, combattendo tra loro o contro ambiziosi sfidanti locali. La paga era una percentuale sugli incassi, meno l'onorario del medico che viaggiava al seguito dei pugili. Eduardo aveva acquisito delle cognizioni mediche di base per risparmiare sul costo del dottore. Era una vita difficile, che sottoponeva a una terribile pressione la madre dei ragazzi. Lavorava per ore e ore davanti al forno di mattoni rovente, e un mattino, mentre il marito e il primogenito erano via, aveva perso la vita in un incendio scoppiato nella panetteria. Poiché la famiglia non godeva di credito, il corpo della donna era stato portato nell'appartamento dei Barone, e Bernardo aveva dovuto vegliarlo finché il padre non era stato avvertito e le esequie concordate e pagate. Bernardo aveva nove anni. Durante i viaggi con il padre, Eduardo aveva imparato anche altre cose. Per puro caso, in una bettola di San Javier, aveva scoperto il Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros, di ispirazione marxista. Il gruppo di guerriglieri era stato fondato nel 1962 da Raul Antonaccio Sendic, leader dei lavoratori della canna da zucchero. Il governo si era dimostrato incapace di contenere l'inflazione, salita fino al 35 per cento, ed erano stati i salariati a essere colpiti più duramente. Nell'aggressivo movimento di Sendic, Eduardo aveva visto uno strumento con cui aiutare coloro che, come il padre, avevano perso l'amore per la vita e la voglia di sognare. In Eduardo, il gruppo aveva visto qualcuno che sapeva combattere e somministrare cure mediche. Con la benedizione del padre, Eduardo era entrato nell'MLN-T. Nel 1972, il dispotico Juan Maria Bordaberry Arocena era stato eletto Tom Clancy
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presidente con il sostegno del ben addestrato e armato esercito uruguaiano. E uno dei primi punti all'ordine del giorno era stato annientare l'opposizione, incluso l'MLN-T, cui Eduardo si era di recente unito. In aprile aveva avuto luogo un sanguinoso scontro a fuoco; entro la fine dell'anno, i membri del movimento erano dietro le sbarre o in esilio. Anche Eduardo era finito in carcere, dove era deceduto per cause «ignote». Il padre di Bernardo si era spento due anni dopo. Aveva subito una severa sconfitta sul ring e non si era mai più ripreso. Bernardo aveva sempre avuto la convinzione che si fosse lasciato morire. Non era più stato lo stesso dopo la perdita dei suoi cari. La scomparsa della sua famiglia aveva trasformato Bernardo in un rabbioso, giovane agitatore che odiava il governo del presidente Bordaberry. Per ironia, il capo dello Stato divenne inviso anche ai militari, i quali misero in atto un golpe nel febbraio 1973 e istituirono il Consejo de Seguridad Nacional. Bernardo si arruolò nel 1979, nella speranza di far parte del nuovo ordine in Uruguay. Ma di lì a dodici anni, incapaci di affrontare la crisi economica, i militari avevano semplicemente restituito il potere al popolo ed erano letteralmente svaniti dalla scena politica. La situazione dell'economia non era cambiata in modo significativo. Una volta di più, Bernardo si era sentito tradito da una causa. Il giovane era rimasto nelle forze armate. Come tributo al padre, era diventato abile in qualunque forma di combattimento corpo a corpo, l'unica cosa per la quale fosse portato. Ma non aveva mai smesso di sperare che prima o poi avrebbe trovato la maniera di riaccendere lo spirito dell'MLN-T: lavorare per il popolo dell'Uruguay, non per i leader. Prestando servizio con le Nazioni Unite in Cambogia, aveva scoperto il modo per fare proprio questo e nello stesso tempo raccogliere denaro e ottenere l'attenzione della stampa mondiale. Barone finì la sigaretta, la schiacciò sul marciapiede e osservò il traffico sulla West Side Highway. C'era una differenza tra Montevideo e New York City. Nella prima, a parte gli hotel e i bar per turisti, tutti gli esercizi abbassavano le serrande al tramonto. Qui, le strade erano trafficate anche a quell'ora, e doveva risultare impossibile per le autorità tenere tutto sotto controllo, seguire le tracce di chi andava e veniva, di ciò che trasportavano camion e furgoni. Una fortuna per noi, pensò. Tom Clancy
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Era altrettanto impossibile per la polizia sorvegliare ogni aereo che atterrava sulle piccole piste che circondavano la metropoli. Gli aeroporti e persino i campi aperti nella parte settentrionale di New York, in Connecticut, New Jersey e Pennsylvania, erano ideali per consentire a piccoli velivoli di arrivare e partire alla chetichella. In quegli Stati, anche i corsi d'acqua servivano perfettamente allo scopo. La sponda di un fiume o un'insenatura deserta a notte fonda. Casse rapidamente e silenziosamente trasbordate da un'imbarcazione o un idrovolante a un camion. Una via d'accesso agevole, e così vicino a New York. Anche questo era una fortuna per la squadra. Trascorse un'ora, poi un'altra. Barone sapeva che ci sarebbe voluto un bel po', poiché Downer aveva bisogno di tempo per esaminare le armi una a una. Sebbene i trafficanti di solito fossero in grado di procurare a un cliente qualunque cosa volesse, questo non significava necessariamente che le armi fossero perfettamente funzionanti. Così come i clandestini, un'arma che scotta non viaggia certo in prima classe. Ma la lunga attesa non infastidiva l'uruguaiano. L'importante era che l'arma funzionasse a dovere quando avrebbe preso la mira e fatto fuoco. Qualcosa sulla sinistra attirò la sua attenzione. Si voltò. Vicino alla foce del fiume, la Statua della Libertà catturava le prime luci dell'alba. Barone non si era reso conto che il monumento sorgeva laggiù, e la sua vista dapprima lo sorprese e poi lo irritò. Non che avesse qualcosa da ridire sugli Stati Uniti e i loro diletti princìpi di libertà e uguaglianza, ma là nel porto c'era un gigantesco idolo che celebrava un concetto spirituale, e questo gli sembrava sacrilego. Era stato educato a considerare queste cose come valori molto personali, che andavano celebrati nel cuore, non in un porto. Finalmente, poco prima delle sette, la porta alle sue spalle si aprì e Downer fece capolino. «Devi venire sul retro» gli disse, poi richiuse la porta. Barone aveva perso la voglia di prendersi gioco del suo accento. In effetti, da quell'incidente nell'elicottero sopra Parigi, aveva perso la voglia di rivolgere anche una sola parola all'incorreggibile mercenario australiano. Barone si diresse a sinistra e fece il giro dell'edificio. I suoi scarponi nuovi avevano delle suole di gomma profondamente scolpite che cigolavano sull'asfalto della strada. Alla sua destra c'era una rivendita di Tom Clancy
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pneumatici circondata da un'alta recinzione d'acciaio. Un cane da guardia dormiva nell'ombra. La sera prima, il soldato gli aveva gettato un po' del suo hamburger - la carne americana aveva un sapore strano per l'uruguaiano -, guadagnandosi l'amicizia dell'animale. Barone oltrepassò un paio di bidoni verdi dell'immondizia e raggiunse il punto in cui era parcheggiato il furgone preso a noleggio. Avvolti singolarmente in involucri di plastica antiurto, c'erano due lanciarazzi e quindici armi da fuoco - tre per ciascun uomo -, oltre a munizioni e giubbotti antiproiettile. Barone saltò a bordo dal portello laterale aperto e cominciò a riporre con cura in sei scatole di cartone le armi che man mano gli passavano Sazanka e Vandal. Downer intanto vigilava dalla porta sul retro della carrozzeria, sincerandosi che nessuna delle armi cadesse a terra. Era la prima volta che Barone vedeva l'australiano così taciturno e professionale. Mentre lavorava, il senso di solitudine abbandonò l'uruguaiano, non perché fosse insieme ai suoi compagni, ma perché era tornato in azione. Erano prossimi alla meta, ormai. Barone aveva sempre avuto fiducia nel piano, ma adesso credeva davvero nella sua realizzazione; restavano solo pochi passi da compiere. Mesi prima, Georgiev si era procurato una patente di guida falsa dello Stato di New York. Poiché le società di autonoleggio controllavano abitualmente le fedine penali prima di lasciar uscire un veicolo dal parcheggio, il bulgaro aveva dovuto sborsare un extra per inserire la propria nel sistema informatico della motorizzazione. Si era premurato anche di aggiungervi una multa risalente all'anno prima, non soltanto per provare la sua effettiva residenza, ma perché gli automobilisti ne beccavano sempre qualcuna nelle grandi città; una fedina immacolata avrebbe potuto destare dei sospetti. Tutto quello che rimaneva ora da fare alla squadra era evitare di passare con il rosso o avere un incidente prima di arrivare in hotel. In precedenza avevano tirato a sorte, e sarebbe toccato a Vandal dormire nel furgone mentre gli altri riposavano in camera. Georgiev non voleva rischiare che l'automezzo fosse rubato da Ustinoviks. Quindi, alle sette di sera, avrebbero lasciato il garage dell'albergo dirigendosi verso la 42a Strada. Avrebbero proceduto in direzione est, dall'altra parte della città, e nella la Avenue avrebbero svoltato a nord. Georgiev avrebbe guidato con la solita prudenza. Tom Clancy
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Poi, all'improvviso, avrebbe accelerato, avvicinandosi al bersaglio a una velocità di cento-centodieci chilometri orari e, in meno di dieci minuti, il bersaglio sarebbe caduto. Le sede delle Nazioni Unite sarebbe stata nelle loro mani. E a quel punto, la terza e ultima parte del piano avrebbe potuto avere inizio.
6 Sabato, ore 18.45, New York La Società delle Nazioni venne costituita dopo la Prima guerra mondiale con il fine, secondo il patto stipulato, di «promuovere la cooperazione internazionale e conseguire la pace e la sicurezza internazionale». Sebbene il presidente Woodrow Wilson fosse un acceso sostenitore della Società, il Senato americano era contrario all'adesione degli Stati Uniti. Le principali obiezioni riguardavano l'utilizzo potenziale di truppe americane per aiutare a preservare l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di altre nazioni, nonché il riconoscimento della giurisdizione della Società in questioni pertinenti l'America Settentrionale, Centrale o Meridionale. Il presidente Wilson subì un collasso e fu colpito da apoplessia in conseguenza dei suoi incessanti sforzi tesi a favorire l'accettazione americana della Società e del suo mandato. Ospitata in uno spettacoloso palazzo da sei milioni di dollari appositamente costruito a Ginevra, la Società delle Nazioni, con i suoi nobili intenti, si rivelò priva di efficacia; non riuscì infatti a impedire l'occupazione giapponese della Manciuria nel 1931, la conquista italiana dell'Etiopia nel 1935 e l'annessione da parte tedesca dell'Austria nel 1938. Risultò altrettanto inefficace nel prevenire la Seconda guerra mondiale. È materia di un interminabile dibattito se la presenza americana nella Società avrebbe potuto mutare il corso di questi eventi. Le Nazioni Unite nacquero nel 1945 con lo scopo di riuscire là dove la Società delle Nazioni aveva fallito. Questa volta però le cose andarono in maniera diversa. Gli Stati Uniti avevano un motivo per essere attivamente coinvolti nella sovranità di altri Paesi. Il comunismo era percepito come la più grande minaccia per il modello di vita americano, e ogni Stato che cadeva nella sua orbita rappresentava un nuovo caposaldo per il nemico. Le Nazioni Unite scelsero come sede del loro quartier generale internazionale gli Stati Uniti, non soltanto perché questi erano emersi dal Tom Clancy
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secondo conflitto mondiale come la forza militare ed economica dominante, ma perché avevano acconsentito ad accollarsi un quarto del budget operativo dell'ONU. Inoltre, data la tradizione dispotica di molte nazioni europee, il Vecchio Mondo non era giudicato idoneo ad accogliere un'organizzazione mondiale che si proponeva di dare l'avvio a una nuova era di pace e armonia. La scelta cadde su New York poiché la città era divenuta il cuore delle comunicazioni e della finanza internazionali, oltre a essere il tradizionale anello di congiunzione tra il Vecchio e il Nuovo Mondo. Due altre località sul suolo americano vennero rifiutate per ragioni molto diverse. Su San Francisco, che godeva dei favori di australiani e asiatici, fu posto il veto perché l'Unione Sovietica non intendeva rendere il viaggio più comodo agli odiati cinesi e giapponesi. E la rustica Fairfield County, sul Long Island Sound, in Connecticut, venne scartata quando gli abitanti del New England, contrari a ciò che avvertivano come l'inizio di un «governo mondiale», presero a sassate gli ispettori dell'ONU venuti a esaminare dei possibili siti. Per il nuovo quartier generale delle Nazioni Unite fu infine acquistato un esteso appezzamento di terreno sull'East River - dove in precedenza sorgeva un macello -, grazie agli otto milioni e mezzo di dollari donati dai Rockefeller, a cui venne accordata una detrazione d'imposta per la loro elargizione. La famiglia beneficiò inoltre della valorizzazione dei terreni che ancora possedeva intorno al nuovo complesso. Uffici, alloggi, ristoranti, negozi e locali d'intrattenimento riempirono l'area un tempo degradata a uso e consumo dei delegati e dei lavoratori che formavano l'organico dell'ONU. La limitata superficie disponibile per il progetto portò a due conseguenze. Primo, il quartier generale dovette essere concepito in forma di grattacielo. Il grattacielo era una soluzione tutta americana per sfruttare al massimo lo spazio sulla piccola isola di Manhattan, e l'aspetto del complesso avrebbe reso le Nazioni Unite ancora più americane. Tuttavia, tale limite si confaceva ai fondatori dell'ONU, fornendo loro un pretesto per decentralizzare alcune funzioni chiave, dal Tribunale Internazionale all'Organizzazione Internazionale del Lavoro, che trovarono collocazione in altre capitali mondiali. Il principale quartier generale sussidiario dell'ONU fu invece installato nel vecchio palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra, quasi un monito rivolto agli Stati Uniti a non dimenticare che l'esperimento di una lega per la pace mondiale era già Tom Clancy
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stato tentato una volta ed era fallito perché non tutti i Paesi vi si erano adeguatamente impegnati. Paul Hood aveva acquisito tutte queste nozioni ai tempi delle scuole medie inferiori. Ricordava anche qualcos'altro di quel periodo, qualcosa che aveva marchiato in modo indelebile la sua visione dell'edificio. Durante le vacanze di Natale, si era recato a New York da Los Angeles per una gita di una settimana insieme ad altri studenti del corso avanzato. Sull'autobus che dall'aeroporto Kennedy li stava portando in città, aveva scorto nella luce del crepuscolo, dall'altra parte dell'East River, la sede delle Nazioni Unite. Tutti gli altri grattacieli che aveva visto finora erano rivolti verso nord e sud: l'Empire State Building, il Chrysler Building, il Pan Am Building... Ma i trentanove piani del Secretariat Building, il cosiddetto Palazzo di Vetro, guardavano a est e ovest. Gli era capitato di menzionare questa particolarità a James LaVigne, che sedeva nel posto accanto al suo. L'esile, serio e occhialuto LaVigne sollevò lo sguardo dall'albo a fumetti di Thor che stava leggendo. Il giornaletto era nascosto dentro una copia di «Scientific American». «Lo sai cosa mi fa venire in mente questo?» disse La-Vigne. Hood aveva risposto che non ne aveva idea. «È come il simbolo sul petto di Batman.» «Che vuoi dire?» aveva domandato Paul. Non aveva mai letto un fumetto di Batman e aveva visto una sola volta il popolare telefilm, giusto per sapere di cosa tutti stavano parlando. «Batman ha sul petto il simbolo nero e oro del pipistrello» gli aveva spiegato l'amico. «Lo sai perché?» Hood aveva ammesso la sua ignoranza. «Perché Batman porta un giubbotto antiproiettile sotto il costume. Se un criminale gli spara contro, è lì che Batman vuole che miri. Al petto.» LaVigne era tornato al suo giornaletto, e il dodicenne Hood si era voltato di nuovo verso il palazzo dell'ONU. LaVigne sovente faceva osservazioni bizzarre, la sua prediletta era quella secondo cui Superman non era altro che una versione moderna del Nuovo Testamento. Ma quest'ultima aveva senso. Hood si era chiesto se New York avesse costruito l'edificio apposta in quel modo. Se qualcuno avesse voluto attaccare le Nazioni Unite dal fiume o dall'aeroporto... be', si trattava di un bersaglio piuttosto grosso per un agente segreto cubano o cinese. A causa di quella prima, vivida impressione avuta nella fanciullezza, Paul Hood aveva sempre pensato all'ONU come al centro nevralgico di Tom Clancy
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New York. E adesso che si trovava lì, si sentiva stranamente vulnerabile, sebbene ciò, da un punto di vista razionale, non avesse alcun senso. Le Nazioni Unite erano in territorio internazionale. Se i terroristi avessero voluto colpire l'America, avrebbero attaccato le infrastrutture - ferrovie, ponti, tunnel -, come i terroristi che avevano fatto saltare il QueensMidtown Tunnel, costringendo l'Op-Center a collaborare con il suo omologo russo. Oppure monumenti come la Statua della Libertà. Trovandosi su Liberty Island, quel mattino, Hood si era sorpreso di come fosse accessibile l'isola dal cielo e dal mare. A bordo del traghetto, lo turbava il pensiero di quanto sarebbe stato facile per un paio di kamikaze su aerei carichi di esplosivo disintegrare la statua. C'era un sistema radar nel complesso dell'amministrazione, ma Hood sapeva che la pattuglia portuale del NYPD disponeva di un solo grosso elicottero con armamento pesante, di base sulla vicina Governor's Island. Due velivoli provenienti da direzioni opposte, con la statua a bloccare il fuoco dell'elicottero, avrebbero permesso ad almeno un terrorista di raggiungere il bersaglio. Sei rimasto troppo tempo all'Op-Center, si disse. Era in vacanza, eppure eccolo lì pronto a immaginare scenari di crisi. Scrollò la testa e si guardò intorno. Lui e Sharon erano arrivati presto ed erano scesi al negozio di souvenir per comprare ad Alexander una maglietta. Quindi erano saliti nella grande sala d'ingresso del General Assembly Building, vicino alla statua in bronzo di Zeus, per attendere il rappresentante della Youth Arts dell'ONU. L'atrio era stato chiuso al pubblico sin dalle quattro per consentire agli impiegati di preparare il ricevimento. Poiché era una bella serata, gli ospiti potevano mangiare dentro e conversare fuori, gironzolare per il cortile sul lato nord, ammirando le sculture e i giardini, oppure passeggiare lungo l'East River. Alle 19.30, il nuovo segretario generale dell'ONU, l'indiana Mala Chatterjee, si sarebbe recata nella sala del Consiglio di Sicurezza con i rappresentanti dei Paesi membri del Consiglio di Sicurezza. Qui la signora Chatterjee e l'ambasciatore spagnolo si sarebbero congratulati per il massiccio sforzo operato dalle Nazioni Unite per prevenire ulteriori agitazioni di carattere etnico in Spagna. Poi Harleigh e le altre violiniste avrebbero suonato A Song of Peace, un brano scritto da un compositore spagnolo per rendere omaggio a coloro che oltre sessant'anni prima avevano perso la vita nel corso della guerra civile spagnola. L'esecuzione era stata affidata a dei musicisti di Washington, una scelta che si era Tom Clancy
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rivelata opportuna visto che proprio un'americana, Martha Mackall dell'Op-Center, era stata la prima vittima dei recenti disordini. Era una semplice coincidenza che la figlia di Hood fosse tra le otto violiniste prescelte. Gli altri genitori erano arrivati, e Sharon se l'era svignata giù per le scale in cerca di una toilette. Gli strumentisti erano usciti dai camerini per un breve saluto alcuni minuti prima che lei se ne andasse. Harleigh era apparsa così matura nel suo abito lungo di satin bianco, con un filo di perle al collo. Al suo fianco, la giovane Barbara Mathis era altrettanto calma e composta, una vera diva in fieri. Hood sapeva che era stata la comparsa di Harleigh la ragione per cui Sharon si era allontanata scusandosi; non le piaceva piangere in pubblico. Harleigh studiava violino da quando aveva quattro anni e portava la salopette. Hood era abituato a vederla vestita così, o in tenuta da atletica, quando vinceva tutti quei riconoscimenti sportivi. Osservarla salire le scale, una donna e una musicista completa, era stato sconvolgente. Hood aveva chiesto alla figlia se fosse nervosa, e lei aveva risposto di no: la parte più difficile l'aveva fatta il compositore. Oltre che padrona di sé, Harleigh era intelligente e spiritosa. Adesso che Hood ci ripensava, probabimente non era la vecchia immagine delle Nazioni Unite come centro del bersaglio a farlo sentire vulnerabile. Era quel momento, quel punto della sua vita. In piedi in quell'atrio aperto alto quattro piani, provava una gran solitudine, un senso di distacco da molte cose. I figli stavano crescendo, i rapporti con la moglie si erano incrinati, la sua carriera era finita, e non avrebbe più rivisto le persone con cui aveva lavorato gomito a gomito per più di due anni. Era così che ci si doveva sentire a metà della vita? Vulnerabili e alla deriva? Non lo sapeva. Tutti i suoi più stretti collaboratori all'Op-Center - Bob Herbert, Mike Rodgers, Darrell McCaskey, il mago dell'informatica Matt Stoll, e persino la povera Martha Mackall - erano single. Il lavoro era la loro vita. Lo stesso valeva per il colonnello Brett August, il comandante dello Striker Team. Frequentarli lo aveva ridotto così? Oppure era attirato da loro perché desiderava quel tipo di vita? Nella seconda ipotesi, sarebbe stato tutt'altro che facile per lui voltare pagina e intraprendere una nuova carriera professionale. Forse avrebbe dovuto parlarne con Liz Gordon mentre godeva ancora dei privilegi della sua carica, sebbene anche la psicologa fosse single e lavorasse circa Tom Clancy
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sessanta ore la settimana. Hood vide Sharon salire la scala a chiocciola dalla parte opposta dell'atrio. Indossava un elegante tailleur-pantalone beige, ed era stupenda. Gliel'aveva già detto in albergo, e il complimento aveva messo un certo brio alla sua andatura, che non era ancora sparito. Lei gli sorrise, e lui ricambiò mentre si avvicinava; all'improvviso, non si sentiva più tanto solo. Una giovane giapponese con un blazer blu scuro si diresse verso di loro; esibiva un tesserino di riconoscimento sul taschino e un largo e cordiale sorriso. Veniva da un piccolo atrio situato sul lato orientale del General Assembly Building. A differenza del salone d'ingresso principale, che si trovava all'estremità settentrionale dell'edificio, l'atrio più piccolo era contiguo alla piazza di fronte al torreggiarne Secretariat Building. Oltre agli uffici dei Paesi membri, il Secretariat Building ospitava le sale del Consiglio di Sicurezza, del Consiglio economico e sociale e del Consiglio di Amministrazione fiduciaria. I tre splendidi auditorium erano situati uno di fianco all'altro e si affacciavano sull'East River. Il Correspondents Club dell'ONU, dove sarebbe stata condotta la comitiva di genitori, era ubicato al di là dell'aula del Consiglio di Sicurezza. La giovane guida si presentò come Kako Nogami. Mentre il gruppo la seguiva, attaccò con una versione abbreviata del suo discorso da Cicerone. «Quanti di voi sono già stati alle Nazioni Unite?» chiese camminando a ritroso. Alcuni genitori alzarono la mano. Hood non lo fece; temeva che la signorina Kako gli domandasse che cosa si ricordava della precedente visita, obbligandolo a raccontarle di James LaVigne e di Batman. «Tanto per rinfrescarvi la memoria» proseguì la giovane, «e a beneficio dei nostri nuovi ospiti, vi darò qualche informazione sull'area delle Nazioni Unite che visiteremo.» La guida spiegò che il Consiglio di Sicurezza era l'organo più importante dell'ONU, responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. «È composto da cinque membri permanenti, tra cui gli Stati Uniti, più altri dieci eletti per due anni. Questa sera, le vostre figlie suoneranno per gli ambasciatori di questi Paesi e i loro staff. «Il Consiglio economico e sociale, come implica il nome, funge da forum per la discussione di questioni economiche e sociali internazionali» Tom Clancy
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continuò la giovane donna. «Il Consiglio è inoltre promotore dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il Consiglio di Amministrazione fiduciaria, che ha sospeso la sua attività nel 1994, aiutava territori sparsi in tutto il mondo a raggiungere l'autogoverno o l'indipendenza, sia come Stati sovrani che come parte di altre nazioni.» Per un secondo, Hood pensò che sarebbe stato affascinante dirigere quel luogo. Mantenere la pace all'interno, tra i delegati, doveva essere una sfida ardua e stimolante quanto mantenerla all'esterno. Quasi gli avesse letto nel pensiero, Sharon fece scivolare le dita fra le sue e gliele strinse. Lui scacciò quell'idea dalla testa. La comitiva superò una grande finestra a pianterreno che guardava sulla piazza principale. Fuori c'era il tempietto in stile scintoista che custodiva la Campana della Pace giapponese, che era stata fusa con monete e metallo donati da popoli di sessanta Paesi. Appena oltre la vetrata, l'atrio immetteva in un ampio corridoio, in fondo al quale si trovavano gli ascensori usati dai delegati e dai loro collaboratori. Sulla destra c'era una serie di bacheche che contenevano alcuni resti dell'esplosione atomica che aveva raso al suolo Hiroshima: bottiglie e lattine fuse, tegole e divise scolastiche bruciate, e una statua di pietra di sant'Agnese, tutta butterata. La guida giapponese illustrò la forza distruttiva dell'esplosione. Quelle testimonianze non turbarono né Hood né il papà di Barbara, Hal Mathis, il cui padre era morto a Okinawa. Paul avrebbe voluto che Bob Herbert e Mike Rodgers si fossero trovati lì con lui. Il generale avrebbe pregato la signorina Kako di fargli vedere subito dopo la mostra dedicata a Pearl Harbor, quella sull'attacco sferrato quando le due nazioni non erano in guerra. Hood si chiese se la giovane, a ventidue o ventitré anni, avrebbe compreso il contesto della domanda. Herbert invece avrebbe immediatamente piantato una grana. Il capo dell'intelligence aveva perso la moglie e l'uso delle gambe nell'attentato terroristico contro l'ambasciata americana a Beirut del 1983. Aveva tirato avanti con la sua vita, ma non era facile al perdono, e Hood non poteva biasimarlo. Una delle pubblicazioni dell'ONU che aveva sfogliato giù al negozio di articoli da regalo descriveva Pearl Harbor come «l'attacco di Hirohito» assolvendo così tacitamente il popolo giapponese da ogni colpa in quel crimine. Persino il «politicamente corretto» ex direttore dell'Op-Center trovava irritante il revisionismo storico. Terminata la visita alla mostra permanente su Hiroshima, due rampe di Tom Clancy
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scale mobili condussero il gruppo al livello superiore dell'atrio. Sulla sinistra si aprivano i tre auditorium, l'ultimo dei quali era quello del Consiglio di Sicurezza. I genitori vennero accompagnati nella vecchia sala stampa dall'altra parte della sala. L'ingresso era piantonato da una guardia delle forze di sicurezza dell'ONU. L'afroamericano indossava una camicia a maniche corte color cobalto, pantaloni grigio-azzurri con banda nera e un berretto blu. La targhetta con il nome recava scritto: Dillon. Al loro arrivo, il signor Dillon. aprì la porta della stanza e li fece entrare. Oggi i giornalisti lavorano in lunghe cabine di vetro high-tech su entrambi i lati dell'auditorium del Consiglio di Sicurezza, alle quali si accede da un corridoio comune tra il Consiglio di Sicurezza e il Consiglio economico e sociale. Ma negli anni Quaranta, questa spaziosa sala priva di finestre, a forma di L, era il cuore mediatico delle Nazioni Unite. La prima parte del locale era fiancheggiata da vecchie scrivanie, telefoni, alcuni computer guasti e vecchi fax usati. Nella seconda e più ampia metà della stanza - la base della L -, c'erano dei divani in vinilpelle, una toilette, un armadio a muro e quattro monitor fissati alla parete. Abitualmente, i monitor mostravano le immagini delle sedute del Consiglio di Sicurezza o del Consiglio economico e sociale. Mettendo una cuffia e cambiando canale, gli spettatori potevano ascoltare il dibattito in qualunque lingua desiderassero. Quella sera avrebbero seguito sugli schermi il concerto, preceduto dal discorso della signora Chatterjee. Su un paio di tavolini in fondo alla sala erano posati dei sandwich e una macchinetta del caffè, mentre un piccolo frigorifero conteneva delle bevande analcoliche. Dopo aver ringraziato i genitori per la loro collaborazione, la signorina Kako ricordò loro con molto garbo ciò di cui erano già stati informati per lettera e poi tramite il rappresentante dell'ONU che li aveva accolti in albergo la sera prima. Per motivi di sicurezza, dovevano rimanere in quella stanza per tutta la durata dell'evento. La guida aggiunse che sarebbe ritornata con le loro figlie alle otto e trenta. Hood si chiese se la guardia fosse stata piazzata all'ingresso per tenere fuori i turisti oppure per non lasciarli uscire. Paul e Sharon si avvicinarono al tavolo dei sandwich. Uno dei presenti indicò i piatti e le posate di plastica. «Vedete cosa accade quando gli Stati Uniti non pagano quanto dovuto?» Il veterano della polizia di Washington si riferiva al debito di un miliardo di dollari della nazione, una conseguenza dello scontento del Tom Clancy
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Senato per ciò che definiva come sperpero cronico, frode e abuso finanziario alle Nazioni Unite. L'accusa principale era che i fondi stanziati per le forze di pace dell'ONU in realtà venissero utilizzati per rafforzare le risorse militari dei Paesi che vi facevano parte. Hood sorrise cortesemente. Non aveva voglia di pensare a budget gonfiati, governi troppo assistenziali e diplomazia monetaria. Lui e sua moglie avevano passato una bella giornata insieme. Dopo la tensione della prima notte a New York, Sharon aveva cercato di rilassarsi. Si era goduta il piacevole sole autunnale su Liberty Island e non si era lasciata innervosire dalla ressa. Si era divertita davanti all'eccitazione di Alexander nell'apprendere tutti i dettagli tecnici relativi alla statua e nel restare da solo con i suoi videogame e un pasto per nulla nutriente acquistato in un ristorante take-away sulla 7a Avenue. Hood non avrebbe permesso che il temporaneo stato di reclusione o le critiche all'America o gli utensili a buon mercato rovinassero tutto quello. Harleigh forse era stata il catalizzatore di tutte quelle belle sensazioni, ma né lei né Alexander ne erano certo il collante. C'è qualcosa di speciale qui, si disse Hood mentre riempivano i piatti e andavano a sedersi su uno dei vecchi divani in attesa del debutto newyorkese della figlia. Voleva aggrapparsi a quella sensazione con la stessa forza con cui aveva stretto la mano di Sharon.
7 Sabato, ore 19.27, New York Il sabato sera, dopo le sette, Times Square è congestionata dal traffico mentre i frequentatori di teatro arrivano da fuori città. Le limousine intasano le vie laterali, davanti ai garage si formano file di vetture in attesa di entrare, autobus e taxi procedono a passo d'uomo nel cuore del Theater District, il quartiere dei divertimenti di New York. Georgiev aveva tenuto conto del possibile ritardo quando aveva pianificato questa fase dell'operazione. Quando finalmente svoltò a est nella 42a Strada e si diresse verso Bryant Park, era rilassato e fiducioso, così come gli altri componenti del commando. D'altro canto, se non avesse prestato servizio insieme a loro, se non li avesse visti mantenere il sangue freddo anche sotto pressione, non li avrebbe mai reclutati per quella Tom Clancy
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missione. Insieme a Reynold Downer, il quarantottenne ex colonnello dell'esercito bulgaro era l'unico vero mercenario del gruppo. A Barone i soldi servivano per aiutare la sua gente in patria. Sazanka e Vandal avevano delle questioni d'onore che risalivano alla Seconda guerra mondiale, questioni che il denaro avrebbe risolto. Il problema di Georgiev era diverso. Aveva trascorso quasi dieci anni nella rete clandestina finanziata dalla CIA in Bulgaria. Aveva combattuto i comunisti per così tanto tempo che non riusciva ad adattarsi a un'epoca senza nemici. Non conosceva altro mestiere che quello del soldato, l'esercito non pagava i suoi effettivi con regolarità, e lui era molto più povero adesso di quando intascava i dollari americani e viveva all'ombra dell'impero sovietico. Aveva intenzione di aprire una nuova attività: sovvenzionare lo sfruttamento di giacimenti di petrolio e gas naturale. E lo avrebbe fatto con la sua parte del bottino che avrebbe fruttato la missione odierna. Grazie alla sua familiarità con le tattiche della CIA e alla sua padronanza della lingua americana, gli altri non avevano sollevato obiezioni al fatto che fosse lui ad assumere il comando della seconda fase dell'operazione. Perdipiù, come aveva dimostrato organizzando il giro di prostituzione in Cambogia, era un leader nato. Georgiev guidava piano, con prudenza. Stava attento ai pedoni con la testa per aria. Non andava troppo sotto agli altri veicoli. Non imprecava all'indirizzo dei tassisti che gli tagliavano la strada. Insomma, non faceva nulla che potesse indurre la polizia a fermarlo. Che ironia! Si accingeva a compiere un atto distruttivo e omicida che il mondo non avrebbe scordato tanto in fretta, tuttavia si comportava come un automobilista modello, rispettoso del codice. C'era stato un periodo della sua vita, da ragazzo, in cui Georgiev sognava di diventare un filosofo. Forse, quando tutto fosse finito, avrebbe valutato attentamente quella possibilità. I contrasti lo affascinavano. Il giorno prima, percorrendo il medesimo tragitto, aveva notato una telecamera di controllo del traffico su un lampione all'angolo sud-ovest tra la 42a Strada e la 5a Avenue. L'apparecchio era rivolto a nord. Ce n'era un'altra tra la 42a e la 3a Avenue, puntata verso sud. Georgiev e Vandal, seduto al posto del passeggero, sistemarono le alette parasole in modo da coprire i finestrini. Al momento di fare irruzione nella sede dell'ONU avrebbero indossato delle maschere da sci. Il NYPD probabilmente Tom Clancy
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avrebbe esaminato tutte le telecamere in funzione nella zona, e il bulgaro non voleva che qualcuno avesse una testimonianza fotografica degli occupanti del furgone. Le telecamere non sarebbero state di nessun aiuto. E poiché la polizia avrebbe potuto scovare qualche turista che aveva ripreso il furgone, Georgiev si era premurato di avvicinarsi al bersaglio con il sole che tramontava alle sue spalle. Qualunque filmato avrebbe mostrato soltanto un accecante riflesso sul parabrezza. Era grato al Signore per i trucchi che aveva imparato dalla CIA. Oltrepassarono la New York Public Library, la Grand Central Station e il Chrysler Building, e raggiunsero la la Avenue senza intoppi. Georgiev aveva calcolato i tempi in modo da fermarsi al semaforo rosso. Si era accertato di essere sulla corsia di destra, così, quando avrebbe girato a sinistra, si sarebbe trovato sullo stesso lato della strada della sede dell'ONU, sulla destra. Gettò un'occhiata verso nord. Il bersaglio distava appena due isolati. Avanti dritto sorgeva il Secretariat Building, dietro un cortile circolare e una fontana. Per tutti i suoi quattro isolati di lunghezza, il complesso era fronteggiato da una cancellata alta poco più di due metri, lungo la quale, all'interno, erano disposte a intervalli tre guardiole. Agenti di polizia pattugliavano la strada. Sull'altro lato della la Avenue, all'angolo con la 42a Strada, c'era un posto di comando del NYPD. Georgiev aveva effettuato un sopralluogo il giorno precedente, e aveva studiato fotografie e videotape fatti mesi prima. Conosceva l'area a menadito, compresa l'ubicazione di ogni lampione e di ogni idrante. Attese che la scritta ALT sul semaforo iniziasse a lampeggiare alla sua sinistra. Questo significava che avevano a disposizione sei secondi prima che scattasse il verde. Si infilò la maschera da sci che teneva tra le gambe, imitato dagli altri quattro uomini. Portavano già dei sottili guanti bianchi in modo da non lasciare impronte ma poter maneggiare le armi. Scattò il verde. Georgiev svoltò.
8 Sabato, ore 19.30, New York Etienne Vandal indossò la maschera da sci e si girò per prendere le armi che gli passava Sazanka, il quale era nel retro del furgone insieme a Tom Clancy
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Barone e Downer. I sedili posteriori erano stati rimossi e ammucchiati in un angolo del garage dell'albergo. I finestrini erano stati verniciati per consentire agli uomini di prepararsi in assoluta segretezza. Barone infilò nelle fondine due automatiche e afferrò una pistola mitragliatrice Uzi. Avrebbe portato anche uno zaino contenente gas lacrimogeno e maschere antigas. Se si fosse reso necessario aprirsi una via di fuga, avrebbero avuto a disposizione il gas oltre che degli ostaggi. Il giubbotto antiproiettile lo impacciava nei movimenti, ma Vandal preferiva essere scomodo piuttosto che vulnerabile. L'ufficiale giapponese gli porse due automatiche e l'Uzi. Downer si inginocchiò accanto al portello del furgone, sul lato del guidatore, e depose le armi a terra. Di traverso sulle spalle aveva un lanciamissili B-77 costruito su licenza in Svizzera. Aveva richiesto un M47 Dragon americano originale, ma Ustinoviks non era riuscito a procurarlo. L'australiano aveva esaminato il missile portatile controcarro a corto raggio e aveva dato assicurazione alla squadra che avrebbe svolto a dovere il suo compito. Vandal e gli altri si auguravano che fosse così. Senza di esso, sarebbero morti lì in strada. Barone era accovacciato vicino al portello laterale, pronto ad aprirlo. Vandal aveva già controllato le armi in hotel. Adesso se ne stava seduto in attesa, mentre il furgone accelerava. L'ora X era vicina. Il conto alla rovescia partito oltre un anno prima era quasi terminato. Nel caso del francese, era un momento che aspettava da molto più tempo ancora. Si sentiva calmo, persino sollevato, mentre il bersaglio compariva alla vista. Anche gli altri uomini sembravano tranquilli, soprattutto Georgiev, che del resto dava sempre l'impressione di essere un grosso, freddo robot. Vandal sapeva poco di lui, e quel poco non gli piaceva. Fino al 1991, quando aveva redatto una nuova costituzione, la Bulgaria era tra i Paesi più repressivi del blocco sovietico. Georgiev aiutava la CIA a reclutare nuovi informatori tra le fila del governo. Vandal avrebbe capito se l'uomo avesse combattuto per rovesciare il regime per ragioni di principio. Invece lavorava per i servizi segreti americani semplicemente perché lo pagavano bene. Sebbene gli obiettivi fossero gli stessi, c'era una bella differenza tra un patriota e un traditore. Per quel che riguardava Vandal, un uomo che tradiva la sua patria non avrebbe di certo esitato a tradire i suoi complici in un'azione criminosa. Era qualcosa che Vandal conosceva sin troppo bene. Suo nonno era un ex collaborazionista morto in una prigione francese. Tom Clancy
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Charles Vandal non aveva soltanto tradito il suo Paese. Era stato membro di un gruppo di resistenza, responsabile di aver trafugato e nascosto alcuni tesori artistici prima che i tedeschi potessero saccheggiare i musei francesi. Non solo Charles Vandal aveva consegnato ai nazisti Mulot e la sua banda partigiana, ma aveva guidato gli invasori a un nascondiglio di opere d'arte. Mancava ormai meno di un isolato. Alcuni turisti ancora in giro a quell'ora si voltarono a guardare il furgone lanciato a tutta velocità. Il veicolo sfrecciò accanto all'edificio che ospitava la biblioteca dell'ONU, sul lato meridionale della piazza, quindi oltrepassò la prima guardiola con il vetro blindato tinto di verde e le sentinelle dall'aria annoiata. Il gabbiotto era situato dietro la cancellata nera, separata dalla strada da sei metri di marciapiede. C'era un numero di guardie superiore al consueto per via del ricevimento di quella sera, e l'ingresso era chiuso, ma non aveva importanza. Il bersaglio si trovava a poco più di quindici metri verso nord. Georgiev superò la seconda guardiola, poi, scansando un idrante, sterzò bruscamente a destra e schiacciò a fondo il pedale del gas. L'automezzo balzò sul marciapiede, investendo un pedone e passandogli sopra con la ruota anteriore sinistra. Diversi altri passanti vennero urtati. Un attimo dopo, il furgone sfondò una recinzione alta un metro; il rumore del metallo che sfregava contro le fiancate soffocò le urla dei feriti. Il veicolo si fece strada attraverso un giardino costellato di alberi e cespugli. Georgiev schivò il grosso albero sul lato meridionale del giardino, ma i rami più bassi di altre piante sbatterono contro il parabrezza e il tetto, alcuni spezzandosi, altri tornando indietro di scatto mentre il furgone proseguiva la sua corsa. A nord e a sud, guardie dell'ONU, membri del NYPD e un manipolo di agenti del dipartimento di Stato in camicia bianca cominciavano a reagire all'irruzione. Armi in pugno, radio alla mano, si precipitavano fuori dalle tre guardiole lungo la la Avenue, dal gabbiotto all'interno del cortile a nord, e dal posto di polizia sull'altro lato della strada. Il furgone impiegò poco più di due secondi a trapassare il giardino e la siepe sul fondo. Gli uomini nel retro del veicolo si tennero forte mentre Georgiev frenava di colpo. Il giardino era diviso dalla piazza circolare da una barriera di cemento alta un metro e spessa una trentina di centimetri, dietro la quale si ergevano in fila le aste con le bandiere dei 185 Paesi membri. Georgiev e Vandal abbassarono la testa, prevedendo che il parabrezza Tom Clancy
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sarebbe andato in frantumi. Barone spalancò il portello scorrevole. Sazanka si distese sul pavimento, pronto, se necessario, a fornire fuoco di copertura. Downer si sporse sopra di lui e puntò il missile verso il muro. Mirò basso per essere certo di non lasciare nulla che potesse ingombrare il terreno, poi tirò il grilletto. Ci fu un boato assordante, e una sezione della barriera larga più di due metri svanì come d'incanto. Parecchi grossi frammenti di cemento schizzarono sopra la piazza come palle di cannone, alcuni atterrando nella fontana, altri rimbalzando sul viale d'accesso. Ma gran parte del muro si sollevò fino a quindici metri d'altezza in un ampio pennacchio di frammenti bianchi e frastagliati che poi ricaddero come grandine. Dietro la barriera, cinque delle bianche aste su cui erano issate le bandiere si spezzarono vicino alla base e piombarono sull'asfalto con un sonoro clangore. Vandal riuscì a udirlo benché avesse ancora le orecchie tappate per l'esplosione. Senza attendere che la pioggia di detriti fosse cessata, Georgiev ripartì a tutto gas. Il fattore tempo era essenziale. Dovevano muoversi. Il furgone passò rombando attraverso la breccia nel muro, sbattendo violentemente con il fianco sinistro contro una sporgenza di cemento, ma non si arrestò. Downer si era ritratto all'interno del veicolo, ma Sazanka continuava a stare acquattato davanti allo sportello aperto, pronto a sparare a chiunque aprisse il fuoco contro di loro. Nessuno lo fece. Quando facevano parte dell'operazione di peace-keeping in Cambogia e avevano concepito quel piano, i cinque non avevano avuto problemi a procurarsi una copia delle direttive generali seguite dalle forze di polizia dell'ONU. Erano molto esplicite: nessuno doveva prendere iniziative individuali contro un gruppo. La minaccia doveva essere contenuta, se possibile, dal personale presente, ma non affrontata finché non fossero state disponibili sufficienti unità. Era la filosofia pura e semplice delle Nazioni Unite. Non funzionava nell'agone internazionale, e non avrebbe funzionato neanche lì. Georgiev si diresse a nord-est, verso la parte opposta della piazza. Sebbene il parabrezza si fosse frantumato, era ancora nel suo telaio. Per fortuna, il bulgaro non aveva bisogno di vedere granché. Il furgone attraversò come una freccia la corsia di uscita e saltò sul prato che portava al General Assembly Building. Georgiev, sempre a tavoletta, girò intorno alla Campana della Pace giapponese. Mentre Vandal si abbassava di nuovo, l'automezzo sfasciò le vetrate di cristallo del piccolo atrio che dava Tom Clancy
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sulla piazza e andò a cozzare contro la statua El Abrazo de Paz - una figura umana stilizzata che «abbracciava la pace» - posta appena all'interno. La statua cadde e il furgone vi salì sopra, terminando così la sua folle corsa; non c'era bisogno che andasse oltre. Quando le guardie e i partecipanti alla soirée si resero conto dello scompiglio, i cinque uomini erano già scesi dal veicolo. Georgiev esplose una breve raffica contro la guardia appostata fuori dal corridoio che portava agli ascensori. Il giovane ruotò su se stesso e stramazzò a terra, la prima vittima dell'ONU. Vandal si chiese se avrebbe avuto anche lui una statua della pace in suo onore. I componenti del commando si precipitarono lungo il corridoio e imboccarono le scale mobili, che però erano state bloccate dal personale della sicurezza. Un impedimento imprevisto, ma di poco conto. Salirono di volata le due rampe, poi girarono a sinistra. La scala mobile fuori servizio fu l'unica forma di resistenza che incontrarono. Ciò che la Germania aveva dimostrato in Polonia nel 1939 e Saddam Hussein in Kuwait nel 1990 era che non esisteva una difesa efficace contro un blitz ben congegnato. Non restava altro che riorganizzarsi e contrattaccare, ma in questo caso entrambe le cose non sarebbero state di alcuna utilità. Meno di novanta secondi dopo aver lasciato la la Avenue, gli incursori erano nel cuore del Secretariat Building. Passarono velocemente accanto alle alte vetrate che si affacciavano sul cortile. La fontana era stata chiusa per consentire una migliore visibilità nelle finestre del palazzo. Il traffico era stato bloccato, i turisti radunati nelle vie laterali. Poliziotti e agenti della sicurezza erano ormai ovunque. Isola l'edificio, contieni il problema, pensò Vandal. Erano così dannatamente prevedibili. C'erano alcune guardie che si stavano avvicinando di corsa: tre uomini e una donna con indosso il giubbotto antiproiettile e l'orecchio attaccato alle ricetrasmittenti. Avevano estratto le armi ed erano evidentemente diretti verso l'auditorium del Consiglio di Sicurezza, che si trovava alla loro destra. Con ogni probabilità avevano il compito di far evacuare i delegati nell'eventualità che fossero loro il bersaglio. Le giovani guardie non fecero in tempo. Vedendo gli intrusi, si fermarono. Poi, come qualunque soldato o poliziotto senza esperienza di combattimento, misero in pratica l'unica cosa che conoscevano: gli insegnamenti ricevuti in addestramento. Avendo letto il manuale delle forze di sicurezza dell'ONU, Vandal sapeva che in una situazione di Tom Clancy
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confronto diretto, avrebbero tentato di sparpagliarsi per offrire un bersaglio meno concentrato, cercato un riparo e provato a inabilitare il nemico. Georgiev e Sazanka non diedero loro questa opportunità. Sparando con le Uzi sul fianco, falciarono le guardie all'altezza delle cosce. Armi e ricetrasmittenti caddero rumorosamente sul pavimento di piastrelle. Mentre le guardie ferite gemevano, il bulgaro e il giapponese avanzarono, freddandole una dopo l'altra con una seconda raffica alla testa. Si arrestarono a pochi metri dai corpi. Georgiev raccolse due delle radio che erano scivolate sul pavimento. «Andiamo!» ordinò Vandal scattando in avanti. Barone e Downer lo raggiunsero, e i cinque uomini proseguirono. Adesso tra loro e la sala del Consiglio di Sicurezza c'erano soltanto quattro cadaveri e un pavimento viscido di sangue.
9 Sabato, ore 19.34, New York Tutti i genitori nella vecchia sala stampa sentirono lo schianto al piano inferiore. Poiché il locale era privo di finestre, non potevano sapere esattamente cosa fosse avvenuto, e dove. Il primo pensiero di Paul Hood fu che si fosse trattato di un'esplosione. Alla medesima conclusione erano giunti diversi genitori che volevano andare a sincerarsi che le figlie stessero bene. Ma in quel momento entrò il signor Dillon. La guardia chiese ai presenti di restare dov'erano e di mantenere la calma. «Vengo proprio adesso dalla sala del Consiglio di Sicurezza» spiegò. «Le vostre figlie stanno bene. Anche la maggior parte dei rappresentanti è là dentro, in attesa del segretario generale. Il personale della sicurezza procederà all'evacuazione delle ragazze, dei delegati, e infine di voialtri. Se resterete calmi, non accadrà niente a nessuno.» «Ha idea di cosa sia successo?» domandò uno dei genitori. «Non ne sono certo» rispose il signor Dillon. «Pare che un furgone abbia sfondato la barriera facendo irruzione nel cortile. Ho potuto vederlo dalla finestra. Ma nessuno sa...» Venne interrotto da diversi botti provenienti dal piano di sotto. Sembravano colpi d'arma da fuoco. Dillon. mise in funzione la ricetrasmittente. Tom Clancy
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«Stazione Freedom-Seven a base» disse. Si udirono grida e rumori. Poi qualcuno all'altro capo della linea strillò: «C'è stata una breccia, Freedom-Seven! Intrusi sconosciuti. Dirigiti a Everest-Six, codice rosso. Hai capito?». «Sì, Everest-Six, codice rosso» ripeté Dillon. «Vado subito.» Spense la radio e si avviò verso la porta. «Devo tornare al Consiglio di Sicurezza per attendere le altre guardie. Per favore... rimanete qui.» «Quanto ci metteranno le altre guardie ad arrivare?» s'informò uno dei padri. «Pochi minuti» replicò il signor Dillon. Detto questo, se ne andò. La porta si richiuse con uno scatto secco. A prescindere dalle urla da qualche parte fuori dall'edificio, era tutto tranquillo. All'improvviso, uno dei padri si fiondò verso la porta. «Io vado a prendere mia figlia» annunciò. Hood sbarrò la strada all'uomo, più grosso di lui. «No» disse. «Perché?» volle sapere l'altro. «Perché l'ultima cosa di cui hanno bisogno agenti della sicurezza, medici o vigili del fuoco è avere gente tra i piedi. Inoltre, l'hanno definita una situazione da codice rosso. Questo probabilmente significa che si è verificata una grave breccia nella sicurezza.» «Una ragione di più per tirar fuori le nostre ragazze!» saltò su uno degli altri padri. «No» ribatté Hood. «Ci troviamo su suolo internazionale, e non si applicano le leggi e le sottigliezze americane. È probabile che le guardie siano autorizzate ad aprire il fuoco contro qualunque soggetto non identificato.» «Come fa a saperlo?» «Ho lavorato per un'agenzia di intelligence federale dopo aver lasciato Los Angeles e purtroppo ho visto più di una persona rimanere uccisa per essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.» La moglie dell'uomo si avvicinò e lo prese per il braccio. «Charlie, ti prego... Il signor Hood ha ragione. Lascia che se ne occupino le autorità.» «Ma c'è nostra figlia là fuori...» protestò Charlie. «Anche la mia» intervenne Paul. «E farmi ammazzare non la aiuterà.» Soltanto allora si rese realmente conto che Harleigh era in pericolo. Tom Clancy
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Guardò Sharon, che si trovava in piedi nell'angolo alla sua destra. Le andò vicino e la abbracciò. «Paul» sussurrò lei «io... io credo che dovremmo essere con Harleigh.» «Lo saremo presto» la rincuorò lui. Si udirono dei passi nel corridoio, poi il caratteristico fup-fup-fup di un'arma automatica. Agli spari seguirono dei suoni metallici, gemiti, urla, e altro rumore di passi. Quindi tornò a calare il silenzio. «Erano i nostri?» domandò Charlie, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Hood non lo sapeva. Lasciò Sharon e si accostò alla porta. Si abbassò nel caso qualcuno avesse aperto il fuoco e fece cenno ai presenti di stare indietro. Poi si raddrizzò, girò lentamente il pomello color argento e aprì con cautela la porta. C'erano quattro corpi stesi nel corridoio tra la sala dei giornalisti e il Consiglio di Sicurezza. Erano guardie del servizio di sicurezza dell'ONU. Chiunque avesse loro sparato adesso se n'era andato, lasciandosi dietro delle orme insanguinate. Orme che conducevano al Consiglio di Sicurezza. Hood ebbe uno strano flash-back. Si sentiva come Thomas Davies, un pompiere con cui era solito giocare a softball a Los Angeles. Un pomeriggio, Davies aveva ricevuto una chiamata che lo avvertiva che la sua casa stava bruciando. L'uomo sapeva cosa fare, sapeva cosa stava accadendo, tuttavia non poteva reagire. Paul richiuse la porta e si diresse verso le scrivanie. «Allora?» chiese Charlie. Hood non rispose. Stava cercando di scuotersi. «Maledizione, cos'è successo?» tuonò l'altro. «Ci sono quattro guardie morte, e chi le ha uccise è entrato nella sala del Consiglio di Sicurezza.» «La mia bambina» singhiozzò una madre. «Sono certo che per ora stanno bene» la rassicurò Paul. «Già, ed era anche certo che sarebbe andato tutto bene se fossimo rimasti qua dentro!» sbottò Charlie. La rabbia dell'uomo fece uscire Hood dal suo stato di shock. «Se fosse stato là fuori, ora sarebbe morto» disse. «Il signor Dillon. non le avrebbe permesso di entrare nell'auditorium, e avrebbe fatto la stessa fine delle guardie.» Trasse un profondo respiro per calmarsi, poi tirò fuori il cellulare dalla tasca della giacca e iniziò a digitare un numero. Tom Clancy
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«Chi stai chiamando?» domandò Sharon. Suo marito terminò di comporre il numero, alzò lo sguardo su di lei e le carezzò la guancia. «Qualcuno che se ne sbatte le palle se questo è un territorio internazionale» rispose. «Qualcuno che può aiutarci.»
10 Sabato, ore 19.46, Bethesda, Maryland Mike Rodgers stava attraversando la fase «Gary Cooper». Non nella sua vita reale, ma nella sua vita per così dire «cinematografica», sebbene al momento le due fossero del tutto interdipendenti. Il quarantacinquenne ex vicedirettore dell'Op-Center, attualmente direttore ad interim, non aveva mai saputo cosa fossero la confusione o l'insicurezza. Si era rotto quattro volte il naso giocando a basket al college perché gli piaceva andare dritto a canestro, mandando al diavolo i Torpedoes, come pure i Badgers, gli Ironmen, i Thrashers e le altre squadre che aveva affrontato. Aveva prestato servizio due volte in Vietnam e comandato una brigata meccanizzata nella Guerra del Golfo, colpendo tutti gli obiettivi che gli erano stati assegnati, nessuno escluso. Durante la sua prima missione con lo Striker Team, in Corea del Nord, aveva impedito a un fanatico ufficiale di bombardare il Giappone. Di ritorno dal Vietnam, aveva persino trovato il tempo di laurearsi in storia. Ma ora... Non erano soltanto le dimissioni di Paul Hood a deprimerlo, benché fossero parte del problema. Era buffo. Due anni e mezzo prima, Rodgers faticava ad accettare di essere un subalterno di quell'uomo (un civile che partecipava a raccolte di fondi insieme a star del cinema mentre lui cacciava gli iracheni dal Kuwait). Ma Hood si era dimostrato un capo equilibrato e politicamente accorto. Rodgers avrebbe sentito la mancanza sia della persona che della sua capacità di comando. Con indosso una larga tuta di felpa e un paio di Nike, il generale cambiò posizione con cautela e poi si lasciò ricadere lentamente indietro sul divano in pelle. Appena due settimane prima era stato catturato e torturato da una banda di terroristi nella valle della Békaa, in Libano. Le ustioni di secondo e terzo grado che aveva subito non erano ancora completamente guarite. E nemmeno le ferite interne. Tom Clancy
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Gli occhi castano chiaro di Rodgers vagarono per un po' nella stanza, poi tornarono a fissarsi, pieni di tristezza, sul televisore. Stava guardando Vera Cruz, uno degli ultimi film di Gary Cooper, in cui l'attore interpretava il ruolo di un ex ufficiale che, dopo la Guerra Civile, si trasferiva a sud del confine per lavorare come mercenario e finiva per abbracciare la causa dei rivoluzionari locali. Forza, dignità e onore: quello era Gary Cooper. E quello una volta era anche Mike Rodgers, rifletté mestamente. Aveva perso più che qualche lembo di pelle e la sua libertà laggiù in Libano. Essere appeso al soffitto di una caverna e bruciato con un cannello per saldare gli era costato la fiducia in se stesso. E non perché avesse avuto paura di morire. Credeva ardentemente nel codice vichingo, secondo cui il processo che conduce alla morte comincia al momento della nascita, e perire in combattimento è il modo più onorevole di giungere all'inevitabile fine. L'estrema sofferenza fisica, come la febbre alta, priva la mente del suo ordine. Il carnefice calmo e sicuro di sé diventa la voce della ragione e guida la mente del torturato. E Rodgers era stato pericolosamente vicino a rivelare ai terroristi come operava l'Op-Center regionale di cui si erano impadroniti. Ecco perché Rodgers aveva bisogno di Gary Cooper. Non per guarire la sua anima: non lo riteneva possibile. Aveva sperimentato qual era il suo «punto di rottura» e non avrebbe mai potuto perdere quella consapevolezza dei propri limiti. Gli ricordava la prima volta in cui aveva preso una storta giocando a basket e la caviglia durante la notte non era guarita. La sensazione di invulnerabilità era svanita per sempre. Uno spirito spezzato era peggio. Quello che adesso gli serviva era recuperare un po' della sicurezza di sé che i suoi aguzzini gli avevano sottratto. Fortificarsi abbastanza per guidare l'Op-Center finché il presidente non avesse scelto il sostituto di Paul Hood. Dopodiché avrebbe potuto prendere delle decisioni riguardo il suo futuro. Rodgers volse di nuovo lo sguardo allo schermo televisivo. I film erano sempre stati un rifugio per lui, una fonte di nutrimento. Quando il padre alcolizzato iniziava a menare le mani, il giovane Mike Rodgers saltava sulla sua bicicletta, pedalava fino al cinematografo locale, pagava i venticinque centesimi del biglietto e si tuffava in un film western, storico o di guerra. Nel corso degli anni, aveva modellato la sua moralità, la sua Tom Clancy
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vita, la sua carriera sui personaggi interpretati da John Wayne, Charlton Heston e Burt Lancaster. Tuttavia, non riusciva a ricordare una sola volta in cui uno di loro fosse stato sul punto di cedere sotto tortura. Si sentiva disperatamente solo. Cooper aveva appena salvato una ragazza messicana dalle grinfie di alcuni soldati rinnegati quando squillò il cordless. Rodgers prese il telefono. «Pronto?» «Mike, grazie a Dio ci sei...» «Paul?» «Sì, ascolta» disse Hood. «Mi trovo nella sala stampa dell'ONU, dall'altra parte dell'aula del Consiglio di Sicurezza. Quattro guardie sono appena state uccise a colpi d'arma da fuoco nel corridoio.» Il generale si tirò su a sedere. «Da chi?» «Non lo so. Ma pare che i responsabili siano entrati nell'auditorium. » «Dov'è Harleigh?» «Là dentro, insieme all'orchestra d'archi e a gran parte dei membri del Consiglio di Sicurezza.» Rodgers afferrò il telecomando, spense il DVD e si sintonizzò sulla CNN. Gli inviati parlavano in diretta dal quartier generale dell'ONU. Non sembrava che avessero molte notizie su quanto stava accadendo. «Mike, lo sai come funziona qui» riprese Hood. «Se si tratta di una situazione con ostaggi di varie nazionalità, a seconda di chi sono i perpetratori, l'ONU potrebbe discutere per ore sulla giurisdizione prima di affrontare l'argomento di come tirare fuori la gente.» «Capito. Chiamerò Bob e gli dirò di mettersi subito al lavoro. Stai parlando dal tuo cellulare?» «Sì.» «Aggiornami sulla situazione, non appena puoi.» «D'accordo. Mike...» «Paul, ci penseremo noi» gli assicurò Rodgers. «Sai che all'occupazione dell'obiettivo segue abitualmente un periodo di calma. Formulazione di richieste, tentativi di negoziare... Non sprecheremo un solo minuto di quel tempo. Tu e Sharon dovete soltanto cercare di restare tranquilli.» Hood lo ringraziò prima di riattaccare. Rodgers alzò il volume del televisore e si alzò lentamente in piedi. Il conduttore del notiziario non aveva idea di chi si trovasse alla guida del furgone o del perché avessero Tom Clancy
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attaccato le Nazioni Unite. Non c'era stato alcun annuncio ufficiale, e nessuna comunicazione da parte dei cinque uomini che apparentemente avevano fatto irruzione nella sala del Consiglio di Sicurezza. Il generale spense il televisore. Mentre andava in camera da letto per cambiarsi, compose il numero di cellulare di Bob Herbert. Il capo dell'intelligence dell'Op-Center era a cena con Andrea Fortelni, un sottosegretario degli Esteri. Herbert non aveva avuto molti appuntamenti negli anni successivi alla tragica morte della moglie a Beirut, ma era un incallito raccoglitore di informazioni. Che si trattasse di un governo straniero, o del proprio governo, poco importava. Come nel film giapponese Rashomon - l'unica cosa, fatta eccezione per il sushi e I sette samurai, che Rodgers apprezzasse del Giappone - negli affari di Stato la verità era una merce rara. C'erano solo diversi punti di vista. E a un professionista come Herbert piaceva avere quanti più punti di vista possibili. Bob era anche un uomo devoto agli amici e ai colleghi. Quando Rodgers lo informò dell'accaduto, Herbert disse che avrebbe raggiunto l'Op-Center nel giro di mezz'ora. Il generale lo pregò di avvisare anche Matt Stoll; era possibile che ci fosse bisogno di entrare nel sistema informatico dell'ONU, e Matt non aveva rivali come hacker. Nel frattempo, Rodgers avrebbe messo lo Striker Team in stato d'allerta, livello giallo. La forza scelta di pronto intervento, composta da ventun elementi, era di stanza nell'accademia dell'FBI di Quantico, e all'occorrenza era in grado di raggiungere le Nazioni Unite in meno di un'ora. Rodgers sperava che quelle precauzioni non fossero necessarie. Sfortunatamente, dei terroristi che esordivano con una strage non avevano nulla da perdere uccidendo ancora. Inoltre, da quasi mezzo secolo il terrorismo si era mostrato sordo alla conciliante diplomazia in stile ONU. Speranza, pensò con amarezza. Cos'è che qualche drammaturgo o studioso ha scritto una volta? Che la speranza è la sensazione che la sensazione che hai non è permanente. Rodgers terminò di vestirsi, poi si affrettò verso la sua auto nella luce che si stava affievolendo. Aveva dimenticato i suoi problemi personali mentre si dirigeva a sud, lungo la George Washington Memorial Parkway, per recarsi all'Op-Center. E tentare di salvare una ragazza da un manipolo di rinnegati.
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11 Sabato, ore 20.37, base aerea di Andrews, Maryland Quarant'anni prima, al culmine della Guerra Fredda, l'anonima costruzione a due piani nell'angolo nordorientale della base aerea di Andrews ospitava gli equipaggi di élite conosciuti come Ravens. Nell'eventualità di un attacco nucleare, il compito dei Ravens era evacuare le più alte cariche del governo e dell'esercito da Washington, D.C., per trasferirle in un impianto sotterraneo nelle Blue Ridge Mountains. Ma l'edificio color avorio non era un monumento a un'altra epoca. C'erano dei giardini al posto degli spiazzi sterrati dove un tempo si addestravano i soldati, e le settantotto persone che lavoravano lì non indossavano tutte l'uniforme. Si trattava di personale selezionato - tattici, generali, diplomatici, analisti, informatici, psicologi, specialisti in ricognizione, esperti dell'ambiente, legali e addetti stampa - alle dipendenze del National Crisis Management Center (Centro nazionale di gestione delle crisi). Dopo due anni di preparativi sotto la supervisione di Bob Herbert, il luogo si era trasformato in un centro operativo dotato delle più avanzate tecnologie, concepito per coadiuvare la Casa Bianca, il National Reconnaissance Office (Ufficio nazionale di ricognizione), la CIA, la National Security Agency, il dipartimento di Stato, il dipartimento della Difesa, la Defense Intelligence Agency, l'FBI, l'Interpol e numerose agenzie di intelligence straniere nella gestione di crisi nazionali e internazionali. Tuttavia, disinnescando da solo le crisi in Corea del Nord e in Russia, l'Op-Center aveva dato prova di essere altamente qualificato per monitorare, avviare e condurre operazioni in tutto il globo. E tutto questo era accaduto sotto la direzione di Paul Hood. Mike Rodgers fermò la sua jeep davanti al cancello. Una guardia dell'aeronautica uscì dal gabbiotto. Sebbene il generale non fosse in divisa, il giovane sergente fece il saluto militare e alzò la sbarra di ferro per farlo passare. Benché fosse Hood a guidare la baracca, Rodgers aveva partecipato a ogni decisione e ad alcune azioni militari. Era ansioso di occuparsi della crisi in corso, soprattutto se l'avesse potuta gestire nel modo che meglio conosceva: autonomamente e segretamente. Parcheggiò il suo veicolo e si avviò, tanto speditamente quanto gli Tom Clancy
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permettevano le strette fasciature, verso l'ingresso a pianterreno dell'OpCenter. Inserì il codice d'accesso sul tastierino numerico e, dopo aver salutato le guardie armate dietro il vetro antiproiettile, attraversò il livello destinato al personale amministrativo. La reale attività dell'agenzia si svolgeva nell'area protetta sotterranea. Sbucando nel cuore pulsante dell'Op-Center, noto come «Alveare», Rodgers si fece strada nella scacchiera di cubicoli in direzione dell'ala riservata ai funzionari. Gli uffici erano disposti a semicerchio sul lato settentrionale del complesso. Superò il proprio ufficio e andò direttamente nella sala riunioni, che l'avvocato Lowell Coffey III aveva soprannominato «Tank». Le pareti, il pavimento, la porta e il soffitto del Tank erano rivestiti di materiale fonoassorbente Acoustix; sotto le strisce grigie e nere c'erano diversi strati di sughero, trenta centimetri di calcestruzzo e dell'altro Acoustix. Nel calcestruzzo erano inserite un paio di griglie elettroniche che generavano onde sonore oscillanti; nessun segnale poteva entrare o uscire dalla stanza. Per ricevere eventuali chiamate sul suo cellulare, Rodgers dovette fermarsi e programmare il telefono affinché venissero inoltrate al suo ufficio e poi trasferite nella sala riunioni. Bob Herbert era già lì, e con lui Coffey, Ann Farris, Liz Gordon e Matt Stoll. Nessuno di loro era in servizio, ma erano accorsi affinché la squadra del turno di notte potesse continuare a svolgere le normali attività dell'OpCenter. L'ansia che tutti provavano era palpabile. «Grazie per essere venuti» esordì Rodgers entrando nella sala. Chiuse la porta dietro di sé e prese posto a un capo del tavolo ovale di mogano. C'era un terminale a ogni estremità del tavolo, e un telefono davanti a ciascuna delle dodici poltroncine. «Mike, hai parlato con Paul?» chiese Ann. «Sì.» «Come sta?» «Paul e Sharon sono preoccupati» rispose seccamente Rodgers. Il generale era solito abbreviare al massimo le sue conversazioni con Ann, evitando il più possibile di incontrarne lo sguardo. Non gli importava della stampa e non gli piaceva tirarla tanto per le lunghe. La sua idea dei rapporti con i media era dire la verità oppure tenere la bocca chiusa. Ma soprattutto, non approvava la cotta di Ann per Paul. Era una questione in parte morale - lui era sposato - e in parte pratica. Dovevano lavorare tutti Tom Clancy
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insieme, e la chimica sessuale era inevitabile, ma la «dottoressa» Farris non si levava mai il camice da laboratorio quando Hood era nei paraggi. Se Ann si era accorta del suo atteggiamento, non lo dava a vedere. «Ho detto a Paul che lo informeremo non appena avremo qualcosa» proseguì Rodgers. «Ma non intendo chiamarlo a meno che non sia assolutamente necessario. Se Paul non viene evacuato, può darsi che tenti di avvicinarsi al punto nevralgico della situazione. Non voglio che il suo cellulare si metta a squillare mentre origlia dietro una porta chiusa.» «Inoltre» intervenne Stoll «non è una linea protetta.» Rodgers annuì e si rivolse a Herbert. «Per strada, ho telefonato al colonnello August. Ha disposto lo stato d'allerta giallo per gli Striker e sta controllando il database del dipartimento della Difesa per ottenere tutte le informazioni disponibili sul complesso di edifici dell'ONU.» «La CIA ha effettuato un lavoro di mappatura piuttosto accurato mentre lo stavano edificando» disse Herbert. «Sono certo che c'è un bel po' di materiale archiviato.» L'elegante avvocato Lowell Coffey III era seduto alla sinistra di Rodgers. «Mike, devi capire che l'ONU è fuori dalla giurisdizione degli Stati Uniti» puntualizzò. «Neppure la polizia può fare irruzione se non viene richiesto il suo intervento.» «Comprendo benissimo» fece il generale. «Sei preoccupato?» gli domandò Liz Gordon. Rodgers guardò la psicologa seduta vicino a Coffey. «Solo per Harleigh e le altre ragazze nella sala del Consiglio di Sicurezza» replicò. Liz parve sul punto di dire qualcosa, ma non lo fece. Non ce n'era bisogno. Rodgers poteva leggere la disapprovazione sul suo volto. Quando era tornato dal Medio Oriente, lei lo aveva ammonito a non sfogare la sua rabbia e la sua disperazione contro altri bersagli. Adesso, lui non pensava affatto di fare una cosa del genere. Quelle persone, chiunque fossero, si erano guadagnate la sua rabbia da sole. Si girò verso Herbert, che si trovava alla sua destra. «Nessuna informazione sugli artefici dell'attacco?» Il quasi calvo responsabile dell'intelligence si spostò in avanti sulla sua sedia a rotella. «Niente, per ora. Sono entrati con un furgone. Abbiamo appreso il numero di targa dalla TV e siamo risaliti all'agenzia di autonoleggio. Il tizio che l'ha noleggiato ha fornito un nome falso: Ilya Gaft.» Tom Clancy
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«Deve aver mostrato una patente di guida all'impiegato» osservò il generale. Herbert assentì con il capo. «E corrispondeva con i dati presenti nel computer della motorizzazione. Ma quando abbiamo chiesto il suo fascicolo, non c'era. Non è difficile procurarsi una patente falsa.» Rodgers annuì. «In occasione della serata, il personale della sicurezza era stato triplicato» continuò Bob. «Ho confrontato i numeri con quelli della festa dello scorso anno. Il problema è che le guardie erano concentrate nei tre posti di controllo agli ingressi e nella piazza a nord dell'ONU. I terroristi si sono aperti un varco nella barriera di cemento usando un lanciarazzi, poi hanno attraversato il cortile e si sono infilati dritti dritti nel dannato edificio. Hanno sparato a tutti quelli in cui si sono imbattuti per poi asserragliarsi nella sala del Consiglio di Sicurezza.» «E neppure una parola da parte loro, sinora?» chiese Rodgers. «Neanche un sussurro» rispose Herbert. «Ho chiamato Darrell in Spagna. Ha telefonato a qualcuno dell'Interpol di Madrid che è vicino a quelli della sicurezza dell'ONU. Si sono messi immediatamente in contatto. Non appena sapranno qualcosa di ciò che è stato trovato all'interno del furgone o del tipo di armi utilizzate, ne saremo informati.» «E l'ONU?» chiese Mike ad Ann. «Non ha rilasciato alcuna dichiarazione pubblica?» «No. Non si è fatto vivo nessun portavoce.» «Nessun comunicato stampa?» Ann scosse il capo. «Il servizio informazioni delle Nazioni Unite non è una forza di risposta rapida.» «Le Nazioni Unite non rispondono rapidamente a niente» sottolineò Herbert con disgusto. «Il tizio contattato dall'amico di Darrell all'Interpol... è un aiutante personale del colonnello Rick Mott, che è a capo della sicurezza dell'ONU. Afferma che non hanno nemmeno ancora raccolto i bossoli fuori dalla sala del Consiglio di Sicurezza, figuriamoci se li hanno esaminati per rilevare le impronte o determinarne la provenienza. E questo a trentacinque minuti dall'inizio di questo casino. Si stavano appena organizzando per visionare le immagini riprese dalle videocamere di sorveglianza e poi partecipare a una riunione con il segretario generale.» «Be', a fare riunioni almeno sono bravi» commentò Rodgers. «Altre registrazioni?» domandò rivolto ad Ann. «Le agenzie di stampa devono Tom Clancy
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aver dato la caccia a ogni turista in strada nella speranza di mettere le mani su un video dell'attacco.» «Buona idea» convenne lei. «Dirò a Mary di fare qualche telefonata, benché a quell'ora probabilmente non ci saranno stati in giro molti turisti.» Alzò il telefono e pregò la sua assistente di controllare le testimonianze che potevano aver raccolto i network e le agenzie di stampa. «Sapete» disse Coffey «sono quasi certo che la polizia ha delle telecamere di controllo piazzate in alcune strade di New York. Chiamo il procuratore distrettuale per scoprirlo.» Il consulente legale dell'Op-Center frugò nel suo blazer blu e ne cavò fuori la sua agenda elettronica. Rodgers aveva gli occhi fissi sul tavolo. Ann e Coffey erano al telefono. Ma non era abbastanza. C'era bisogno di fare di più. «Matt» disse infine il generale «gli autori dell'attacco devono essersi introdotti nel computer dell'Ufficio della motorizzazione per inserire la patente falsa.» «Un atto di pirateria informatica piuttosto elementare.» «D'accordo, ma non c'è modo di risalire a chi l'ha fatto?» «No» rispose il corpulento Stoll. «Per rintracciarlo, bisognerebbe essere preparati in anticipo. Aspettare che colpisca e poi seguire il segnale a ritroso. E anche in questo caso, un bravo hacker può far passare il segnale attraverso dei terminali in altre città. Diavolo, può farlo rimbalzare anche su un paio di satelliti, se vuole. Inoltre, per quel che ne sappiamo, questi tizi potevano avere un complice all'interno.» «Questo è vero» confermò Herbert. Rodgers continuava a fissare il tavolo. Gli serviva una storia, uno schema, qualunque cosa potessero usare per cominciare a costruire un profilo. E gli serviva in fretta. «Organizzano questi ricevimenti ogni anno da cinque anni a questa parte» considerò Herbert. «Forse l'anno scorso era presente qualcuno per ispezionare il luogo in vista del colpo. Dovremmo dare un'occhiata alla lista degli invitati, per vedere se...» Proprio in quel momento il telefono di Rodgers si mise a suonare. Lui lo afferrò, sussultando di dolore mentre tendeva le bende intorno al fianco destro. «Sono Paul.» Il generale fece cenno agli altri di stare zitti, quindi premette il tasto viva voce. «Siamo qui nel Tank» disse. Tom Clancy
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«Novità?» «Nessuna. Niente dichiarazioni, niente richieste. Da te come va?» «Il telefono è squillato un minuto fa» rispose Hood. «Stanno mandando su una squadra di evacuazione. Prima che arrivi, voglio cercare di capire cosa sta succedendo.» A Rodgers non piaceva l'idea di Hood che se ne andava in giro senza preavviso. Qualche guardia della sicurezza un po' troppo nervosa avrebbe potuto scambiarlo per un terrorista. Ma Paul lo sapeva. E sapeva anche che se gli Striker fossero intervenuti per tirare fuori Harleigh e le altre ragazze, avrebbero avuto bisogno di informazioni. «Sono accanto alla porta» disse. «Sento dei passi fuori. Sto aprendo...» Ci fu un lungo silenzio. Rodgers scrutò le altre persone nella stanza. Avevano i volti cupi, gli occhi abbassati. Ann era rossa in viso. Doveva rendersi conto che tutti stavano pensando a come lei avrebbe reagito alla situazione. Tutti eccetto Rodgers. Lui stava pensando che avrebbe voluto essere con Hood, nel mezzo della mischia. Il mondo si era forse messo a girare alla rovescia? Il manager sul campo di battaglia e il soldato dietro la scrivania? «Resta in linea» bisbigliò Hood. «Sta succedendo qualcosa.» Seguì un'altra pausa di silenzio, questa volta più breve. «Mike, qualcuno sta uscendo dalla sala del Consiglio di Sicurezza» disse Paul. «Oh, Cristo!» esclamò un istante dopo. «Cristo!»
12 Sabato, ore 21.01, New York Reynold Downer si trovava nel vano di una delle due porte che si aprivano sul corridoio. Le porte doppie in legno di quercia erano situate nell'angolo settentrionale della lunga parete in fondo alla sala del Consiglio di Sicurezza. Fuori, appena dietro le porte, una seconda parete si protendeva nel corridoio perpendicolare all'auditorium. L'australiano, il volto ancora coperto dalla maschera da sci, aveva aperto solo la porta più lontana. Di fronte a lui c'era un uomo magro di mezza età, in completo nero. Era il rappresentante svedese Leif Johanson; nelle mani tremolanti stringeva un foglio di carta del formato per uso legale. Downer lo costringeva a camminare lentamente all'indietro tirandolo per i capelli biondi e Tom Clancy
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tenendogli l'automatica premuta alla base del cranio. A un certo punto l'australiano lo fece voltare dalla parte opposta rispetto all'angolo formato dalle due pareti. Davanti a loro c'era una dozzina di guardie della sicurezza dell'ONU. Gli uomini e le donne portavano giubbotti antiproiettile e caschi con spesse visiere. Avevano le armi spianate, e alcuni tremavano leggermente. Non c'era da stupirsi. Sebbene i corpi dei loro compagni morti fossero stati rimossi, il pavimento era ancora sporco di sangue. «Parla» bisbigliò Downer all'orecchio del prigioniero. L'uomo abbassò lo sguardo sul foglio di carta. Mentre leggeva, era scosso da un violento tremito. «Mi è stato ordinato di comunicarvi quanto segue» disse sommessamente con accento svedese. «Più forte!» sibilò Downer. L'uomo alzò il tono di voce. «Avete novanta minuti per depositare duecentocinquanta milioni di dollari americani sul conto VEB-9167681 della Zurich Confederated Finance. Il nome dell'intestatario è falso, e qualunque tentativo di accedere al conto provocherà ulteriori vittime. Consegnerete inoltre nel cortile un elicottero capace di ospitare dieci persone e con il pieno di carburante. Porteremo degli ostaggi con noi a garanzia della vostra continua cooperazione. Quando entrambe le richieste saranno soddisfatte, ci informerete via radio sul canale normalmente utilizzato dalla sicurezza dell'ONU. Nessun altro tipo di comunicazione sarà ammesso. In caso di rifiuto, allo scadere dell'ultimatum verrà ucciso un ostaggio e in seguito uno ogni ora a iniziare da... da me.» L'uomo si fermò. Dovette attendere che il foglio smettesse di tremolare prima di proseguire. «Qualunque iniziativa che miri a liberare gli ostaggi avrà come conseguenza l'emissione di gas tossico che ucciderà tutti i presenti nella sala.» Downer tirò bruscamente il delegato svedese verso la porta aperta. Gli disse di lasciar cadere il foglio affinché gli agenti potessero recuperare il numero del conto bancario, quindi gli ordinò di chiudere la porta mentre rientravano nella sala. Quando fu richiusa, l'australiano lasciò andare i capelli dell'uomo, che rimase dov'era, malfermo sulle gambe. «Avrei... avrei dovuto provare a scappare» mormorò lo svedese, fissando la porta. Stava evidentemente valutando la possibilità di lanciarsi fuori. Tom Clancy
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«Mani sulla testa, e muoviti!» ringhiò Downer. Johanson lo guardò. «Perché? Tanto mi ucciderai tra un'ora, che io collabori o meno!» «No, se ci daranno quello che abbiamo chiesto.» «Non possono!» urlò il delegato. «Non vi consegneranno mai un quarto di miliardo di dollari!» L'australiano alzò la pistola. «Sarebbe un peccato se invece lo facessero e io ti avessi già ammazzato» disse. «O se ti ammazzassi e poi dovessi sparare alla tua compagna tra novanta minuti.» L'atteggiamento di sfida dello svedese svanì repentinamente. Con riluttanza, si mise le mani sulla testa e iniziò a scendere la scala sul lato orientale della galleria. Downer lo seguì ad alcuni passi di distanza. Sulla sinistra c'erano dei sedili di velluto verde raggruppati in due ordini di cinque file ciascuno. In passato, prima del potenziamento delle misure di sicurezza, quei sedili erano utilizzati dal pubblico che desiderava assistere alle attività del consiglio. La prima fila era separata dal livello principale da una parete di legno alta all'incirca un metro, davanti alla quale c'era una singola fila di sedie, riservate ai rappresentanti che non erano membri del Consiglio di Sicurezza. Al di là dell'area destinata all'uditorio, si apriva la sezione principale della sala, dominata da un grande tavolo a forma di ferro di cavallo, che ne racchiudeva un altro, stretto e rettangolare, disposto da est a ovest. Quando il Consiglio di Sicurezza era in sessione, i delegati sedevano al tavolo esterno e i traduttori a quello nel centro. Adesso, erano entrambi occupati dagli ospiti dei rappresentanti. Le giovani strumentiste si trovavano a un'estremità del tavolo circolare, al cui interno erano radunati i delegati, seduti sul pavimento. Mentre Johanson si riuniva ai colleghi, la sua compagna, una bellissima giovane seduta al tavolo, gli lanciò uno sguardo. Lui le fece cenno con il capo che stava bene. Oltre il tavolo, due enormi finestre alte fino al soffitto offrivano ai membri del Consiglio di Sicurezza una vista sull'East River. Il vetro era blindato, e le tende erano state tirate. Tra le due finestre c'era un grande dipinto raffigurante la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, a simboleggiare il mondo che risorge dalla distruzione che la Seconda guerra mondiale aveva provocato. Su entrambi i lati dell'aula, in alto, c'erano le cabine di vetro dei media, che avevano preso il posto della vecchia sala stampa. Tom Clancy
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Barone e Vandal stazionavano nei due angoli della sala, Sazanka era posizionato presso l'uscita laterale a nord, e Georgiev si spostava in continuazione tenendo d'occhio le altre cinque porte del livello principale. Al momento, era fermo nell'apertura del tavolo a ferro di cavallo. Come Downer, portavano ancora tutti le maschere da sci. Non appena il delegato svedese fu seduto, Downer si avvicinò a Georgiev. «Chi c'era nel corridoio?» chiese il bulgaro. «Una dozzina di dame.» Le «dame» erano le guardie plurimpiego del servizio di sicurezza dell'ONU, così chiamate perché di solito passavano il tempo a chiacchierare. Gli agenti che avevano ucciso durante l'irruzione erano tutti dame. «Niente forze speciali» proseguì l'australiano. «Quelli là fuori non saprebbero che pesci pigliare nemmeno se gli si stesse bruciando la pancetta sul fuoco.» «Stasera impareranno la lezione» disse Georgiev, poi indicò con la testa il delegato svedese. «Ha letto il messaggio esattamente come l'ho scritto?» Downer annuì. Il bulgaro guardò l'orologio. «Allora hanno ottantaquattro minuti prima che iniziamo a spedirgli fuori cadaveri.» «Pensi davvero che accetteranno?» domandò l'australiano abbassando la voce. «Non subito» rispose Georgiev. «L'ho detto sin dal principio.» Lanciò un'occhiata verso i tavoli. Il suo tono era gelido mentre aggiungeva: «Ma lo faranno. Quando i cadaveri cominceranno ad ammucchiarsi e ci avvicineremo sempre di più alle ragazzine, lo faranno».
13 Sabato, ore 21.33, New York Paul Hood fece un rapido, schizofrenico doppio passo. Aveva trattenuto il fiato mentre ascoltava le richieste dei terroristi. Lo specialista di crisi che era in lui non voleva perdersi nemmeno una parola o una pur minima inflessione della voce, nulla che potesse indicargli se avevano quel margine di manovra cui aveva accennato Mike. Non l'avevano. Le richieste erano specifiche e le scadenze perentorie. Anche Tom Clancy
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adesso che i terroristi avevano terminato di comunicare il loro messaggio alle guardie, Paul non riusciva a respirare. Lo specialista di crisi era stato sostituito dal padre, un padre che aveva appena conosciuto l'improbabile prezzo della libertà di sua figlia. Quello che era improbabile non era l'ammontare della richiesta. Grazie ai suoi trascorsi nel mondo finanziario, Hood sapeva che gli istituti di credito e le banche della Riserva Federale a New York e Boston avevano disponibilità di liquido fino a un miliardo di dollari. Anche la finestra di tempo era praticabile, se le Nazioni Unite e il governo federale si fossero impegnati seriamente. Ma non l'avrebbero fatto. Per ottenere la collaborazione delle banche locali e della Riserva Federale, il governo americano doveva avallare il prestito, e poteva farlo solo se il segretario generale avesse acconsentito a garantire il prestito con beni dell'ONU. Tuttavia, il segretario generale avrebbe esitato a farlo per timore di offendere i Paesi che già mal digerivano l'influenza americana sulle Nazioni Unite. E anche se gli Stati Uniti avessero voluto accollarsi il pagamento in modo da saldare in parte il proprio debito arretrato, il Congresso avrebbe dovuto approvare la spesa. Nemmeno una seduta d'urgenza avrebbe potuto essere convocata in tempo. E naturalmente, una volta versato il denaro, i terroristi avrebbero eseguito dei trasferimenti elettronici, suddividendoli in vari conti in tutto il sistema e in conti collegati di altre banche e società finanziarie. Non ci sarebbe stato modo di contrassegnare i soldi o bloccare i trasferimenti. E non ci sarebbe stato modo di bloccare i terroristi. Avevano chiesto un elicottero a dieci posti perché intendevano portare degli ostaggi con loro. Un ostaggio a persona, non contando il pilota; ciò significava probabilmente che i terroristi erano quattro o cinque. Tutti questi pensieri attraversarono la mente di Hood nel tempo che impiegò a chiudere la porta. Si voltò e riuscì a tirare un debole, corto respiro. Gli altri genitori avevano udito le richieste e ne stavano discutendo. Sharon era in piedi accanto al marito e lo stava guardando, le guance rigate dalle lacrime. Di colpo lui era qualcun altro: il marito. Un marito che doveva mostrarsi forte davanti alla moglie. La porta si aprì, e Hood si girò. Una guardia fece capolino nella stanza mentre un'altra le copriva le spalle nel corridoio. «Venite con me!» abbaiò il giovane. «Svelti e in silenzio» aggiunse facendo loro segno di muoversi. Tom Clancy
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Hood si scansò mentre i genitori uscivano uno dietro l'altro. Anche Sharon si fece da parte. Lui le prese la mano con la sinistra, ricordandosi solo in quel momento del telefonino che teneva nella destra. Lo avvicinò alla bocca. «Mike?» disse. «Sei ancora lì?» «Ci sono, Paul. Abbiamo sentito.» «Ci stanno trasferendo. Ti richiamo.» «Ci troverai qui» gli assicurò il generale. Hood interruppe la comunicazione e fece scivolare il cellulare in tasca. Quando l'ultimo dei genitori ebbe lasciato la stanza, Paul tirò leggermente la mano di Sharon. Lei si avviò, e lui la seguì. I genitori vennero rapidamente guidati oltre la sala del Consiglio di Sicurezza, verso le scale mobili. Ci furono singhiozzi e suppliche per la liberazione delle ragazze, ma le guardie continuarono a sospingere avanti il gruppo. Paul teneva sempre per mano Sharon. Lei gli stringeva le dita con una forza di cui probabilmente non si rendeva nemmeno conto. Mentre imboccavano in fila la scala mobile, Hood vide salire altre guardie equipaggiate con scudi trasparenti antisommossa alti più di un metro e mezzo, apparecchiature audio e quelli che sembravano dispositivi a fibre ottiche. Evidentemente avrebbero cercato di scoprire come fossero stati disposti gli ostaggi e di captare frammenti di conversazione che potessero svelare l'identità dei terroristi. Ma Paul sapeva che ciò non sarebbe servito a restituire le ragazze alle loro famiglie. Le Nazioni Unite non possedevano né le capacità tattiche né il personale adatto per farlo. Erano un'organizzazione votata al consenso, non all'azione. «Dimmi che hai un piano» sussurrò Sharon, mentre scendevano sulla scala mobile. Non riusciva più a tenere a freno le lacrime, e come lei diversi altri genitori. «Stiamo studiando qualcosa» rispose Hood. «Non mi basta. Harleigh è mia figlia, e io l'ho abbandonata lassù, sola e spaventata. Devo sapere che sto facendo la cosa giusta.» «La stai facendo. La tireremo fuori da lì sana e salva, te lo prometto.» Non appena il gruppo raggiunse la sala d'ingresso principale, venne accompagnato al piano inferiore. Un centro di comando provvisorio era stato allestito nell'atrio antistante i negozi di souvenir e il ristorante. Era una soluzione sensata. Se i terroristi avevano dei complici, per loro Tom Clancy
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sarebbe stato più difficile monitorare l'attività lì sotto. E anche la stampa avrebbe avuto dei problemi ad arrivarci, il che probabilmente era un bene. Vista la portata internazionale di quanto stava accadendo, la copertura dei media era inevitabile. Poiché l'ONU desiderava ridurre al minimo il numero di persone presenti, verosimilmente avrebbe selezionato un gruppo ristretto di giornalisti. I genitori furono condotti al buffet e fatti accomodare ai tavolini più lontani dall'atrio. Vennero loro offerti panini, bottiglie d'acqua e caffè. Uno dei padri si accese una sigaretta, ma nessuno osò chiedergli di spegnerla. Qualche minuto dopo si fecero vivi alcuni funzionari della sicurezza per interrogare i genitori su quello che avevano visto o sentito mentre si trovavano nella sala stampa. Giunsero anche un medico e uno psicologo per aiutarli a superare lo shock. Hood non aveva bisogno della loro assistenza. Richiamò l'attenzione del capo della sicurezza e disse che sarebbe andato in bagno. Alzandosi, si sforzò di rivolgere un sorriso a Sharon, quindi girò intorno ai tavoli e raggiunse l'atrio. Si diresse alla toilette, entrò nell'ultimo box e chiamò di nuovo Mike Rodgers. Si addossò alla parete piastrellata; aveva la camicia fredda per il sudore. «Mike?» «Sì.» «Le guardie dell'ONU si sono mosse con equipaggiamento audio e video» lo informò Hood. «Noi siamo stati trasferiti al piano di sotto per essere interrogati e ricevere supporto psicologico.» «Una risposta classica» osservò il generale. «Si stanno preparando a un assedio.» «Non è un'opzione valida. I terroristi non vogliono trattare, non vogliono ottenere la scarcerazione di qualcuno. Vogliono soldi. L'ONU non ha un'unità speciale di pronto impiego?» «Sì. L'UNS-Ops è un reparto delle forze di sicurezza composto da nove persone. È stato istituito nel 1977, addestrato dal NYPD alle tattiche SWAT, ovvero squadre speciali impiegate in operazioni antisommossa, antiterrorismo e ad affrontare situazioni con ostaggi... e non è mai testato sul campo.» «Gesù.» «Già. Del resto, perché mai qualcuno dovrebbe prendersela con le Nazioni Unite? Sono inoffensive. Siamo in diretto contatto telefonico con Tom Clancy
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Darrell. Dice che la linea di condotta del NYPD è contenere e negoziare, per evitare che la situazione esploda. E se esplode, mantenerla circoscritta. Pare che le forze di sicurezza si stiano predisponendo a fare questo, lì dove sei tu.» Per Hood fu come ricevere un cazzotto nello stomaco. E la morte di sua figlia era compresa nel piano di «circoscrizione»? «Darrell è anche in contatto con un aggancio nell'ufficio del segretario generale» proseguì Rodgers. «La Chatterjee sta per riunirsi con i rappresentanti delle nazioni coinvolte.» «Per decidere cosa?» chiese Paul. «Niente, per il momento. Non sembra comunque che siano propensi a cedere al ricatto dei terroristi. Stanno ancora cercando di capire chi siano queste persone. Hanno il foglio con il testo del messaggio, ma è stato ovviamente scritto dal delegato svedese sotto dettatura. Non fornirà indizi utili a identificarle.» «Perciò intendono tergiversare.» «Sì, per ora. È quello che l'ONU fa sempre.» La tristezza di Hood si tramutò in rabbia. Aveva voglia di entrare nella sala del Consiglio di Sicurezza e di far fuori quei terroristi uno dopo l'altro. Invece, si girò e picchiò un pugno sul muro. «Paul» disse Rodgers. Hood non si era mai sentito così impotente in vita sua. «Paul, lo Striker Team è in allarme giallo.» L'ex direttore dell'Op-Center appoggiò la fronte contro la parete. «Se lo mandi qui, il mondo... non solo il governo federale, ma il mondo intero ti darà addosso!» «Ti rispondo con una sola parola» replicò il generale. «Entebbe. Pubblicamente, il mondo condannò i commando israeliani per essere entrati in Uganda e aver salvato quegli ostaggi dell'Air France dai terroristi palestinesi. Ma in privato, ogni individuo di buonsenso andò a dormire un po' più orgoglioso quella sera. Paul, non me ne importa un fico secco di quello che la Cina o l'Albania o il segretario generale o persino il presidente degli Stati Uniti pensa di me. Voglio liberare quelle ragazze.» Hood non sapeva cosa dire. Il passaggio dall'allarme giallo al rosso non era una decisione che spettava a lui prendere, tuttavia Rodgers voleva la sua approvazione, una cosa che lo toccava profondamente. «Sono con te, Mike» disse infine. «Sono con te, e che Dio ti benedica.» Tom Clancy
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«Torna da Sharon e stalle vicino» gli suggerì Rodgers. «Tireremo fuori Harleigh da lì, è una promessa.» Hood lo ringraziò, spense il cellulare e lo infilò in tasca. Il gesto di Mike ebbe l'effetto di liberare quelle lacrime che aveva trattenuto da quando era iniziata quella orribile vicenda. Prese a singhiozzare con la guancia premuta contro le piastrelle fredde. Un minuto dopo, la porta del bagno si aprì. Hood tirò su con il naso, si raddrizzò e strappò un po' di carta igienica dal rotolo per asciugarsi gli occhi. Era strano. Hood aveva detto a Sharon quello che lei voleva sentire, che avrebbero salvato Harleigh, eppure lui non ne era del tutto convinto. Eppure, quando Mike aveva detto la stessa cosa, gli aveva creduto. Si domandò se qualunque fede fosse tanto facile da manipolare. Un bisogno di credere che andava aiutato con un'energica spinta. Si soffiò il naso, gettò la carta nel water e fece scorrere l'acqua. C'era una differenza, rifletté uscendo dal gabinetto. La fede era fede, ma Mike Rodgers era Mike Rodgers. E uno dei due non l'aveva mai deluso.
14 Sabato, ore 21.57, Quantico, Virginia La base dei marines di Quantico è una struttura estesa e spartana che accoglie diverse unità delle forze armate, che variano dal MarCorSysCom (Marine Corps Systems Command, Comando sistemi del corpo dei marines) al segretissimo Commandant's Warfighting Laboratory (Laboratorio bellico del comandante), un centro di studi militari. Quantico è considerata il crocevia intellettuale del corpo dei marines, dove team di neologistici «guerrieri» sono in grado di elaborare tattiche e poi metterle in pratica in realistiche simulazioni di combattimento. Quantico può inoltre vantare alcuni dei migliori poligoni di tiro per armi di piccolo calibro e granate, siti per manovre terrestri e corsi di addestramento fisico dell'esercito americano. Molte delle attività principali della base in realtà si svolgono a Camp Upshur, un campo d'addestramento situato una quarantina di chilometri più a nord-ovest, all'interno della Training Area 17. Qui, i componenti della Compagnia Delta, del 4° battaglione corazzato leggero da ricognizione, della 4a divisione dei marines, dello Striker Team dell'Op-Center e delle Unità di supporto della riserva dei marines affinano le tecniche apprese Tom Clancy
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quando erano reclute. Composto da ventuno fabbricati, dalle aule per le lezioni alle baracche di lamiera, Camp Upshur è in grado di accogliere fino a cinquecento soldati. Al colonnello Brett August piaceva Quantico, e ancora di più gli piaceva Upshur. Divideva equamente il suo tempo tra l'addestramento delle squadre di Striker e le lezioni di storia, strategia e teoria militare. Gli piaceva anche far gareggiare i suoi ragazzi in dure competizioni sportive, che a suo avviso erano un allenamento sia per il corpo sia per la mente. La cosa interessante era che le organizzava in modo che ai vincitori toccassero incombenze supplementari: spazzatura, cucina, latrine. Ciononostante, nessuno aveva mai cercato di perdere una partita di basket o di football, e nemmeno una gara in piscina con i figli durante i fine settimana. Neppure una volta. A dire il vero, August non aveva mai visto dei soldati tanto felici di sobbarcarsi dei lavori sgradevoli. Liz Gordon aveva in mente di scrivere un saggio sul fenomeno, che avrebbe sottotitolato «il masochismo della vittoria». Al momento, tuttavia, era August a soffrire. Al ritorno dalla missione in Spagna, le promozioni e i trasferimenti lo avevano privato di alcuni dei suoi migliori elementi. Nei giorni successivi, aveva lavorato sodo con i quattro nuovi Striker. Si stavano esercitando nell'acquisizione notturna di bersagli con obici da 105mm quando il generale Rodgers aveva chiamato per mettere l'unità in allarme giallo. August avrebbe voluto dare ai nuovi membri più tempo per legare con quelli anziani, ma non importava; era soddisfatto di loro, e li giudicava pronti a entrare in azione, se necessario. I sottotenenti dei marines John Friendly e Judy Quinn erano dei duri come il colonnello non ne aveva mai visti, e i soldati scelti della Delta, Tim Lucas e Moe Longwood, erano rispettivamente un esperto in comunicazioni e uno specialista nel combattimento corpo a corpo. C'era un naturale antagonismo tra i due gruppi, ma questo era positivo. Sotto il fuoco nemico le barriere svanivano e facevano tutti parte della stessa squadra. Svegli e capaci, i nuovi acquisti si sarebbero integrati ottimamente con i veterani: il sergente Chick Grey, il caporale Pat Prementine - il giovane genio delle tattiche di fanteria - il soldato scelto Sondra DeVonne, e i soldati semplici Walter Pupshaw, Jason Scott e Terrence Newmeyer. Un allarme giallo significava preparare l'equipaggiamento e aspettare nella cosiddetta «ready room», il locale dove ci si radunava per ricevere istruzioni in vista di un'imminente missione. La stanza consisteva in una scrivania color grigio piombo occupata giorno e notte da un sergente di Tom Clancy
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turno; alcune dure sedie di legno disposte come in un'aula scolastica (gli ufficiali superiori non volevano che nessuno stesse troppo comodo e si addormentasse); una vecchia lavagna; e un computer su un tavolo di fronte alla lavagna. Nel caso si fosse reso necessario l'intervento dello Striker Team, un Bell LongRanger Model 205A-1, in grado di trasportare quindici uomini, sarebbe stato pronto su una vicina pista d'atterraggio per il volo di mezz'ora fino alla base aerea di Andrews. Da lì, l'unità avrebbe raggiunto con un C-130 il Marine Air Terminal all'aeroporto La Guardia di New York. Rodgers aveva detto che il potenziale obiettivo dello Striker Team era il palazzo delle Nazioni Unite. Il C-130 non aveva bisogno di molta pista, e il La Guardia, sebbene non fosse uno scalo abituale per il traffico militare, era quello più vicino alla sede dell'ONU. La cosa che l'alto e magro colonnello dal viso sottile odiava più di ogni altra era aspettare. Un odio che risaliva ai tempi del Vietnam, quando era prigioniero di guerra ed era sempre in attesa del prossimo interrogatorio nel cuore della notte, del prossimo pestaggio, della prossima morte di un suo commilitone, delle prossime notizie sussurrate con cautela dai nuovi arrivati al campo. Ma l'attesa peggiore l'aveva sperimentata quando aveva tentato la fuga e si era visto costretto a tornare indietro perché il suo compagno era stato ferito e necessitava di cure mediche. I suoi carcerieri avevano fatto in modo che non gli si presentasse un'altra opportunità di evadere. Così August aveva dovuto aspettare che i prolissi, flemmatici diplomatici di Parigi, desiderosi soltanto di salvare la faccia, trattassero il suo rilascio. Nulla di tutto questo gli aveva insegnato a pazientare. Aveva al contrario imparato che l'attesa andava bene per chi non aveva altra scelta. Una volta aveva detto a Liz Gordon che l'attesa era l'autentica definizione di masochismo. Il quartier generale dell'ONU sorgeva sul bordo dell'acqua, perciò il colonnello August aveva avvertito gli Striker di portare anche l'equipaggiamento subacqueo. E, poiché sarebbero andati a Manhattan, avrebbero indossato abiti civili. Mentre i dieci componenti della squadra verificavano il materiale in dotazione, August si servì del computer nella ready room per consultare la home page delle Nazioni Unite. Non era mai stato nel complesso di edifici e voleva avere un'idea della sua planimetria. Mentre visitava il sito web, le notizie on line del giorno non parlavano d'altro che della clamorosa cattura degli ostaggi nella sede ONU di New York. Il colonnello era sorpreso non soltanto del fatto che Tom Clancy
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un'organizzazione neutrale fosse stata oggetto di un attacco terroristico, ma che delle truppe statunitensi fossero state allertate in vista di un intervento. Non gli veniva in mente un solo scenario in cui le forze armate americane fossero state pregate di dare una mano in una situazione del genere. Mentre studiava le opzioni del sito web, Sondra DeVonne e Chick Grey comparvero alle sue spalle. C'erano icone per Pace e sicurezza, Questioni umanitarie, Diritti umani e altri encomiabili argomenti. Cliccò sull'icona Database per cercare di trovare una pianta di quel dannato posto. Non solo non c'era mai stato, ma non aveva nessun desiderio di andarci. Con tutti i loro discorsi da strapazzo sulla pace e i diritti, avevano lasciato lui e i suoi compagni dei servizi informativi dell'aeronautica a languire in una prigione vietnamita per più di due anni. Il database conteneva altro materiale di riferimento. Registrazioni di sedute del Consiglio di Sicurezza e dell'Assemblea Generale. Indicatori sociali. Trattati internazionali. Mine terrestri. Corso di addestramento al peace-keeping. C'era persino un sito per un glossario dei simboli usati nei documenti dell'ONU, che era a sua volta un acronimo: UN-I-QUE, che stava per UN Info Quest (Ricerca informazioni dell'ONU). «Spero che Bob Herbert abbia miglior fortuna» disse August. «Non esiste una sola pianta del complesso.» «Forse pubblicarla è considerato un rischio per la sicurezza» suggerì DeVonne. Sin da quando era entrata a far parte dello Striker Team, la graziosa afroamericana seguiva un corso di Geo-Intel (intelligence geografica) che, insieme alla ricognizione programmata, veniva sempre più utilizzata per puntare sul bersaglio i missili intelligenti. «Voglio dire» proseguì «se divulghi un progetto dettagliato, puoi mettere a punto e persino guidare un attacco missilistico senza nemmeno alzarti dalla sedia.» «Lo sai, oggigiorno il problema con la sicurezza è proprio questo» intervenne Grey. «Puoi adottare tutte le più ingegnose misure antiterrorismo che vuoi, ma potranno sempre superarle alla vecchia maniera. Uno stronzo qualunque con un coltello da tavola o uno spillone per cappelli potrà sempre afferrare un'assistente di volo e prendere possesso di un aereo.» «Questo non significa rendergli la vita facile» obiettò DeVonne. «Certo che no» convenne Grey. «Ma non illuderti che qualcosa funzioni davvero. I terroristi continueranno ad andare ovunque vogliano, così come un assassino risoluto riuscirà sempre ad avvicinarsi a un leader mondiale.» Tom Clancy
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Il telefono squillò, e il sergente alla scrivania alzò il ricevitore. La chiamata era per August. Il colonnello si affrettò a rispondere. Se e quando avrebbero lasciato quella stanza, sarebbero immediatamente passati al sistema telefonico portatile TAC-SAT (tattico-satellitare), ma fino ad allora avrebbero usato le linee protette della base. «Parla il colonnello August.» «Brett, sono Mike.» In pubblico, gli ufficiali osservavano il protocollo formale, ma nelle conversazioni private erano due amici che si conoscevano sin dall'infanzia. «Tocca a voi.» «Ricevuto.» August gettò uno sguardo ai suoi uomini, che stavano già radunando l'equipaggiamento. «Ti fornirò il profilo della missione al vostro arrivo» disse Rodgers. «Ci vediamo fra trenta minuti» replicò August, quindi riattaccò. Meno di tre minuti dopo, gli Striker si assicuravano ai sedili con la cintura. Mentre il rumoroso elicottero si alzava nella notte e virava verso nord-est, il colonnello August era ancora perplesso per qualcosa che aveva detto Rodgers. Di norma, i parametri della missione venivano scaricati al velivolo via modem protetto terra-aria; ciò costituiva un risparmio di tempo e consentiva al processo di continuare anche dopo che la squadra era decollata. Rodgers invece aveva specificato che gli avrebbe fornito i parametri della missione solo al loro arrivo. Se questo significava ciò che lui pensava significasse, allora lo attendeva una serata più interessante e insolita di quanto avesse previsto.
15 Sabato, ore 22.08, New York Dopo aver fatto il loro ingresso nella sala del Consiglio di Sicurezza, le giovani violiniste si erano radunate dietro il tavolo a forma di ferro di cavallo. Il loro direttore d'orchestra, la signorina Dorn, era appena arrivata. La ventiseienne insegnante di musica era giunta quello stesso giorno in volo da Washington, dove la sera prima si era esibita in un recital. Mentre la signorina Dorn ripassava la partitura, Harleigh Hood era in piedi accanto alle tende davanti a una delle finestre. Sbirciò fuori, verso le acque scure del fiume, e sorrise osservando le luci tremolanti che si riflettevano sulla superficie. Quelle scintillanti, variopinte macchioline le ricordarono delle Tom Clancy
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note musicali, e si ritrovò a domandarsi perché la musica non venisse mai stampata a colori - un colore diverso per ogni ottava. Harleigh aveva appena lasciato ricadere il lembo della tenda quando udì delle detonazioni nel corridoio. Qualche istante dopo, le doppie porte sul lato nord della sala si spalancarono e alcuni uomini mascherati fecero irruzione. Sia i delegati che i loro ospiti restarono immobili, e le giovani musiciste rimasero dov'erano, disposte in due file serrate. Soltanto la signorina Dorn si mosse, piazzandosi con fare protettivo tra le ragazze e gli intrusi. Questi ultimi non la notarono, impegnati com'erano a correre lungo i lati della sala, circondando i rappresentanti dell'ONU. Nessuno degli uomini mascherati aprì bocca, finché uno di loro non afferrò un delegato, lo tirò da parte e gli disse qualcosa sottovoce, come se temesse di essere ascoltato. Il delegato, che era stato presentato in precedenza alle violiniste insieme ai suoi colleghi - era uno svedese, benché Harleigh non ne ricordasse il nome -, riferì al gruppo che a nessuno sarebbe stato fatto alcun male se fossero rimasti tranquilli e avessero fatto esattamente ciò che veniva detto loro. Harleigh non lo trovò affatto convincente; aveva già il colletto bagnato di sudore, e i suoi occhi guizzavano qua e là come se cercassero una via di scampo. L'intruso parlò di nuovo al delegato, poi lo fece sedere al tavolo circolare e gli porse una matita e un foglio di carta. Due dei suoi compagni controllarono le finestre, aprirono le porte per vedere cosa ci fosse dietro, quindi andarono a occupare altre posizioni. Quando uno dei due si era fermato vicino alla finestra, praticamente a fianco di Harleigh, lei aveva dovuto reprimere l'impulso di dire qualcosa. Avrebbe voluto chiedere a quella persona che cosa stava facendo. Suo padre diceva sempre che una domanda ragionevole, ragionevolmente posta, di rado provocava una risposta irata. Ma Harleigh avvertiva l'odore acre di polvere da sparo - o qualunque altra cosa fosse - emanato dal mitra dell'uomo. E le parve di notare delle tracce di sangue sul suo guanto. Il terrore le paralizzò la gola, ebbe l'impressione che il suo ventre si sciogliesse, e le sue gambe diventarono d'un tratto molli, ma all'altezza delle cosce, non delle ginocchia. Non disse nulla e poi si arrabbiò con se stessa perché aveva paura. Parlando avrebbe rischiato di farsi sparare, o invece forse si sarebbe attirata le simpatie di quelle persone. Magari avrebbero fatto di lei una portavoce o un leader del Tom Clancy
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gruppo o qualcosa che avrebbe distolto la sua mente dalla paura. E se fossero stati tutti quanti uccisi? Non necessariamente da quei tizi, ma da coloro che sarebbero venuti a salvarli. Il suo ultimo pensiero fu che avrebbe dovuto dire qualcosa prima, e mentre osservava l'uomo allontanarsi fu quasi sul punto di farlo, ma la sua bocca rimase chiusa. Poco dopo uno degli intrusi - parlando di nuovo a bassa voce, con un accento in apparenza australiano - iniziò a raggruppare gli ostaggi intorno al tavolo, per prime le ragazze, cui ordinò di lasciare gli strumenti lì dov'erano, sul pavimento. La custodia del violino di Harleigh era già aperta, e lei vi ripose senza fretta lo strumento. Non si trattava di un piccolo, tardivo atto di sfida, né voleva mettere alla prova quell'uomo per vedere se l'avrebbe fatta franca. Il violino era un dono dei suoi genitori, e non avrebbe mai permesso che gli capitasse qualcosa. Per fortuna, l'uomo non le fece caso, oppure decise di lasciar perdere. Sedendosi al tavolo a ferro di cavallo, Harleigh si sentiva esposta. Avrebbe preferito restare dov'era prima, vicino alle tende, nell'angolo. La paura, che sino ad allora era stata come liquida, cominciò a solidificarsi. La figlia di Paul Hood prese a tremare, e provò quasi sollievo quando vide che a una delle ragazze accanto a lei stava accadendo la stessa cosa. Povera Laura Sabia. Laura era la sua migliore amica, ed era un tipo molto emotivo. Sembrava sul punto di mettersi a strillare. Harleigh le toccò la mano e le sorrise. Andrà tutto bene, diceva quel sorriso. La ragazza non ebbe alcuna reazione. Ma reagì quando l'uomo con la maschera da sci si avviò verso di loro. Non dovette dire una sola parola, non dovette nemmeno coprire l'intera distanza che li separava. Gli bastò avvicinarsi un poco per pietrificarla. Harleigh diede dei colpetti affettuosi sulle dita di Laura, poi ritirò il braccio e giunse le mani davanti a sé. Trasse un profondo respiro dal naso e si impose di smettere di tremare. Una ragazza dall'altra parte del tavolo la vide e la imitò, poi, dopo qualche istante, le sorrise. Harleigh ricambiò il sorriso. Aveva scoperto che la paura era come il freddo; se ti rilassavi, riuscivi a sopportarlo. Nella sala cavernosa calò il silenzio. C'era un clima di tesa rassegnazione intorno al tavolo, la consapevolezza che quella quiete era fragile e poteva rompersi da un momento all'altro. All'interno del tavolo, i Tom Clancy
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delegati apparivano più ansiosi delle violiniste, forse perché erano i più vulnerabili. Gli intrusi sembravano furiosi per l'assenza di qualcuno, ma Harleigh ignorava chi. Forse il segretario generale, che era in ritardo. La signorina Dorn, che era seduta a capotavola, fissò una dopo l'altra le sue allieve, per sincerarsi che stessero bene. Tutte, a turno, risposero con un cenno affermativo del capo. Puro e semplice coraggio, Harleigh lo sapeva; nessuno, in realtà, stava bene. Ma in mancanza d'altro, la sensazione del «siamo tutti nella stessa situazione» era pur sempre qualcosa cui aggrapparsi. Harleigh credette di udire dei passi fuori dalla porta. Le forze di sicurezza prima o poi sarebbero intervenute. Si guardò intorno in cerca di un riparo nel caso fosse scoppiata una sparatoria. Il posto più sicuro sembrava essere dietro il tavolo a ferro di cavallo; avrebbe potuto arrivarci in pochi istanti. Sollevò lentamente le ginocchia contro il fondo del tavolo, come faceva con il banco di scuola quando era annoiata, così che sembrasse fluttuare in aria. Il tavolo si alzò leggermente, il che significava che non era imbullonato al pavimento. All'occorrenza, avrebbero potuto rovesciarlo e mettersi al coperto dietro di esso. Mentre Harleigh pensava a come proteggere se stessa e gli altri, sperimentò un lampo di terrore. Si domandò se quanto stava succedendo avesse qualcosa a che vedere con suo padre e l'Op-Center. Lui non parlava mai di lavoro a casa, nemmeno quando litigava con sua madre. Poteva darsi che in qualche modo l'Op-Center avesse fatto torto a quelle persone? Al corso di educazione civica aveva imparato che, fatta eccezione per Israele, gli Stati Uniti erano il bersaglio principale del terrorismo nel mondo. Le violiniste erano gli unici cittadini americani nella sala. Quegli uomini cercavano lei} E se non avessero saputo che suo padre aveva dato le dimissioni? E se avessero voluto tenerla in ostaggio per tenere in pugno lui? Avvertì un gran calore al collo e alle spalle, e iniziò a sudare lungo i fianchi. L'elegante abito nuovo che indossava adesso aderiva al suo corpo come un costume da bagno. Non sta succedendo davvero, pensò. Era il genere di cose che vedevi accadere alle altre persone al telegiornale. Dovevano esserci delle misure di sicurezza in quel luogo, o no? Metal detector, guardie agli ingressi, videocamere di sorveglianza... All'improvviso, l'uomo che stava parlando con il rappresentante svedese Tom Clancy
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chiamò il suo compagno dall'accento australiano. Quest'ultimo, dopo una breve discussione, agguantò il delegato per il colletto, lo alzò di peso e, minacciandolo con una pistola, lo spinse su per le scale, verso la porta. Harleigh avrebbe voluto avere il suo violino da stringere a sé, avrebbe voluto essere tra le braccia di sua madre. Lei doveva essere sconvolta, a meno che non si sforzasse di apparire calma davanti alle altre madri sconvolte. Probabilmente era così. Da qualcuno la figlia doveva pur aver preso. Pensò a suo padre. Quando Sharon aveva portato lei e Alexander dai nonni per meditare sul loro futuro, il padre aveva deciso di lasciare il suo incarico piuttosto che perderli. Si chiese se lui sarebbe stato in grado di guardare a questa come a un'altra crisi e di riflettere con calma, sebbene fosse coinvolta sua figlia. L'australiano rientrò nella sala, e dopo un aspro scambio di battute con il delegato, lo costrinse a scendere le scale. Harleigh suppose che i terroristi avessero consegnato a qualcuno un elenco di richieste. Non la sfiorava più il pensiero di essere lei il bersaglio. Il suo collo si raffreddò. Se la sarebbero cavata, in qualche modo. Lo svedese era tornato a sedersi sul pavimento, con le mani sulla testa, in mezzo agli altri delegati. Harleigh concluse che era il momento di aspettare. Sarebbe andato tutto bene. Suo padre una volta aveva detto che finché le persone parlavano, non sparavano. Si augurava che avesse ragione. Decise di non pensarci. Invece, il più sommessamente possibile, fece quello per cui era venuta. Intonò tra sé A Song of Peace.
16 Sabato, ore 22.09, base aerea di Andrews, Maryland Dopo aver parlato con il colonnello August, Mike Rodgers lanciò un'occhiata all'orologio sullo schermo del computer. Il LongRanger sarebbe arrivato ad Andrews tra circa venticinque minuti. Per allora, il C130 sarebbe stato pronto a decollare. Bob Herbert rivolse al generale uno sguardo scrutatore e aggrottò le sopracciglia. «Mike, mi stai ascoltando?» «Sì. La tua squadra sta scavando nel passato di Mala Chatterjee per scoprire chi potrebbe voler mortificare il nuovo segretario generale Tom Clancy
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dell'ONU. Forse i suoi correligionari indù contrari alla sua presa di posizione pubblica in favore dei diritti delle donne. Stai anche controllando gli ambienti delle persone che Paul ha contribuito a fermare in Russia e in Spagna, nel caso sia lui l'obiettivo.» «Esatto.» Rodgers annuì e si alzò lentamente; quelle dannate bende erano una tortura. «Bob, ho bisogno che tu mandi avanti la baracca per un po'.» Il capo dell'intelligence parve sorpreso. «Perché? Non ti senti bene?» «Mai stato meglio. Vado a New York con lo Striker Team. Una volta là, avrò bisogno di una base operativa. Qualcosa nei pressi delle Nazioni Unite che possa anche servire da zona di attestamento. La CIA deve avere un covo in quei paraggi.» «Ce n'è uno dall'altra parte della strada, credo. In una delle Torri gemelle, quella orientale, United Nations Plaza. Il paravento è un'agenzia di spedizioni, la DSA, Doyle Shipping Agency, se non ricordo male. Tengono d'occhio l'andirivieni di spioni che si fingono diplomatici, e probabilmente svolgono anche attività ELINT, spionaggio elettronico.» «Puoi farci entrare?» «È possibile.» Herbert storse la bocca e lanciò un'occhiata dall'altro lato del tavolo a Lowell Coffey. Rodgers colse il suo sguardo. «Qualcosa non va?» domandò. «Mike, siamo su un terreno piuttosto insidioso per quel che concerne lo Striker Team.» «In che senso, insidioso?» Herbert alzò una spalla. «In molti sensi...» «Spiegati meglio. Dal punto di vista morale? Legale? Logistico?» «Tutti quanti.» «Forse pecco d'ingenuità» replicò Rodgers «ma io vedo soltanto un'unità d'assalto con specifico addestramento antiterrorismo che scende in campo per affrontare dei terroristi. Dove sta l'insidia morale, legale o logistica?» Lowell Coffey prese la parola. «In primo luogo, Mike, non abbiamo ricevuto nessuna richiesta d'aiuto da parte delle Nazioni Unite. Questo di per sé è già un punto a tuo sfavore.» «Te lo concedo» disse il generale. «Ma se tutto va bene, sistemerò la cosa quando sarò sul posto, soprattutto se i terroristi cominceranno a buttar fuori cadaveri. Darrell McCaskey è in contatto con lo staff della sicurezza di Chatterjee tramite l'Interpol...» Tom Clancy
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«A un livello molto basso» gli ricordò Herbert. «Il comandante del servizio di sicurezza dell'ONU non darà molto credito a ciò che gli riferisce di seconda mano un aiutante attraverso un tizio dell'Interpol di Madrid.» «Questo non lo sappiamo» obiettò Rodgers. «Per la miseria, non sappiamo niente di questo comandante, o sbaglio?» «I miei collaboratori stanno esaminando il suo dossier» disse Bob. «Non abbiamo mai avuto alcun tipo di rapporto con lui.» «Poco importa. Si trova in una situazione nella quale probabilmente si vedrà costretto a cercare aiuto all'esterno. Autentico, solido, immediato aiuto, da qualunque parte provenga.» «Non è l'unico problema, Mike» osservò Lowell. Il generale guardò di nuovo l'orologio del computer. L'elicottero sarebbe atterrato tra meno di venti minuti. Non aveva tempo da perdere. «Le nazioni che non sono interessate all'esito di questa crisi» proseguì il legale «non vorranno assolutamente che un'unità segreta di élite americana penetri nel Secretariat Building.» «Da quando ci preoccupiamo di non urtare la sensibilità degli iracheni e dei francesi?» ribatté Rodgers. «Non è una questione di sensibilità» puntualizzò Coffey. «È una questione di diritto internazionale.» «Cristo, Lowell... sono i terroristi che hanno infranto la legge!» «Questo non significa che dobbiamo farlo pure noi. Anche se siamo disposti a violare le leggi internazionali, sinora qualunque azione degli Striker è stata eseguita in conformità allo statuto dell'Op-Center, alla legge americana. Specificatamente, abbiamo sempre ottenuto l'autorizzazione della Commissione di controllo sui servizi segreti del Congresso...» «Non me ne frega niente di finire davanti a una stramaledetta Corte Marziale, Lowell» lo interruppe bruscamente Rodgers. «Qui non si tratta di responsabilità personali» replicò Coffey. «Qui è in ballo la sopravvivenza dell'Op-Center.» «Sono d'accordo. È in ballo la nostra sopravvivenza come efficace forza antiterrorismo...» «No, come agenzia del governo degli Stati Uniti. In base al nostro statuto, siamo autorizzati ad agire, cito le testuali parole, "quando la minaccia alle istituzioni federali e ai suoi elementi costitutivi, o alle vite americane al servizio di tali istituzioni, è ben definita e immediata". Non Tom Clancy
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vedo nulla del genere, in questo caso. Ma prevedo che se entri là dentro, che tu abbia successo oppure fallisca sarà irrilevante.» «Non per Paul e gli altri genitori.» «Non c'entrano loro!» scattò l'avvocato. «C'entra il quadro generale. L'opinione pubblica americana applaudirà. Dannazione, anch'io applaudirò. Ma la Francia o l'Iraq o qualche altro Paese membro farà pressione sull'amministrazione perché ci dia una bella lavata di capo per aver oltrepassato i limiti del nostro mandato.» «Specialmente se verrà fuori che i terroristi sono stranieri e qualcuno di loro resterà ucciso» intervenne Herbert. «Dei soldati americani che giustiziano dei cittadini stranieri in territorio internazionale con tutti i mezzi d'informazione del globo che coprono l'evento... ci distruggeranno.» «E lo faranno secondo le leggi americane, non internazionali» aggiunse Coffey. «Il Congresso non avrà altra scelta che trascinare tutti noi in questa stanza davanti alla Commissione di controllo. Al diavolo le nostre carriere, ma se voteranno per lo scioglimento dell'Op-Center o anche solo dello Striker Team, quante vite non saremo più in grado di salvare in futuro? Quante battaglie che avranno una diretta influenza sulla sicurezza degli Stati Uniti non potremo più combattere?» «Non posso crederci» disse Rodgers. «Stiamo parlando di ragazze tenute in ostaggio!» «Sfortunatamente» notò Herbert «per quanto ci possa far arrabbiare, la minaccia ai rappresentanti dell'ONU e alla figlia di Paul non rientra in quei parametri. Salvarla è un lusso che forse non ci possiamo permettere.» «Un lusso?» sbottò Mike. «Gesù, Bob, stai parlando come una dannata ragazza del Camp Fire!» Herbert lo fissò truce. «Quella era la mia povera moglie. Lei era una ragazza del Camp Fire.» Il generale guardò l'amico, poi abbassò gli occhi. Il ronzio dei ventilatori sul soffitto all'improvviso divenne assordante. «Poiché è stato sollevato l'argomento» continuò il responsabile dell'intelligence «anche mia moglie è stata vittima dei terroristi. So cosa stai provando Mike: la frustrazione. E so cosa stanno provando Paul e Sharon. Ma so anche che Lowell ha ragione. In questa partita, il posto degli Striker è in panchina.» «A girare i pollici.» «Sorveglianza, assistenza tattica, sostegno morale... potremo dare un Tom Clancy
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contributo importante.» «Servono anche coloro che stanno solo ad aspettare» sentenziò Rodgers. «Talvolta, sì.» Herbert batté le mani sui braccioli della sua sedia a rotelle. «Altrimenti, potresti finirci tu seduto ad aspettare. Se non peggio.» Il generale controllò di nuovo l'ora. Lowell Coffey aveva addotto validi argomenti legali. E la sua gaffe su "Yvonne Herbert aveva dato al marito il diritto di sermoneggiare. Ma questo non voleva dire che avessero entrambi ragione. «Ho ancora circa quindici minuti prima di prendere quell'aereo» disse con calma. «Bob, ti ho già affidato il comando. Se vuoi fermarmi, puoi farlo.» Spostò lo sguardo su Liz Gordon. «Liz, puoi dichiararmi mentalmente inabile, affetto da disturbi dovuti a stress post-traumatico o quel cavolo che vuoi. Se lo farete, non me la prenderò con voi. Ma a parte questo, non resterò seduto ad aspettare. Non posso. Non mentre una banda di assassini tiene delle ragazze in ostaggio.» Herbert scrollò lentamente il capo. «Non è tutto nero o tutto bianco, Mike.» «Non è più questo il punto» replicò Rodgers. «Hai intenzione di fermarmi?» L'altro smise di scuotere la testa. «No. Non lo farò.» «Posso domandare perché?» chiese Coffey indignato. Herbert sospirò. «Sì. Nella CIA eravamo soliti chiamarlo rispetto.» Il legale dell'Op-Center fece una smorfia. «Se un superiore voleva "piegare" le regole, le piegavi» proseguì Bob. «Tutto quel che potevi fare era cercare di non piegarle al punto che arrivassero a morderti il didietro.» Coffey si abbandonò contro lo schienale della sedia. «Una cosa del genere me la aspetto da Cosa Nostra, non dal legittimo governo degli Stati Uniti» considerò malinconicamente. «Se fossimo tutti tanto virtuosi, un governo legittimo non sarebbe necessario» osservò Herbert. Rodgers guardò Liz. Nemmeno lei sembrava saltare di gioia. «Allora?» le chiese. «Allora cosa?» disse la psicologa. «Non sono un mattone nel muro di silenzio di Bob, ma non intendo trattenerti. Al momento sei testardo, impaziente, probabilmente pieno di rabbia repressa, e cerchi qualcuno su cui sfogarti per quello che i tuoi aguzzini ti hanno fatto nella valle della Tom Clancy
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Békaa. Ma mentalmente inabile? Da un punto di vista psicologico, non legale, non lo posso affermare.» Rodgers tornò a rivolgersi a Herbert. «Bob, tenterai di farmi entrare nel covo della CIA?» Herbert annuì. Il generale si girò verso Coffey. «Lowell, andrai alla Commissione di controllo? Per vedere se possono convocare una riunione di emergenza?» La bocca sottile dell'avvocato era serrata, e le sue unghie ben curate picchiettavano sul tavolo. Ma sopra ogni altra cosa, era un professionista. Sollevò leggermente il polsino della camicia per sbirciare l'orologio. «Chiamerò il senatore Warren sul suo cellulare. È il membro meglio disposto nei nostri confronti. Ma quella gente è difficile da rintracciare in un giorno feriale, figuriamoci nel fine settimana, di sera...» «Capisco» fece Rodgers. «Grazie. Anche a te, Bob.» Coffey stava già cercando il numero telefonico sulla sua agenda elettronica mentre Rodgers studiava Matt Stoll e Ann Farris. Il mago della tecnologia teneva lo sguardo fisso sulle mani congiunte sul tavolo, e la responsabile dell'ufficio stampa era silenziosa; non sembrava aver voglia di pronunciarsi. Pensò che avrebbe ottenuto la sua approvazione, visto che stava tentando di aiutare Paul Hood, ma rinunciò a chiederla. Invece, si voltò verso la porta. «Mike?» lo richiamò Herbert. «Sì?» «Di qualunque cosa tu abbia bisogno, puoi contare su di noi.» «Lo so.» «Cerca solo di non demolire il Palazzo di Vetro, okay? E... un'altra cosa.» «Spara.» «Non voglio ritrovarmi a dirigere questo dannato posto» disse Herbert accennando un sorriso. «Perciò vedi di riportare qui la tua testarda, impaziente, arrabbiata vecchia carcassa.» «Ci proverò» promise Rodgers, sorridendo a sua volta mentre apriva la porta. Non era esattamente il consenso in cui aveva sperato, ma, mentre attraversava velocemente il dedalo di uffici diretto all'ascensore, almeno non si sentiva come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco: solo. E, per il momento, era già qualcosa. Tom Clancy
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17 Sabato, ore 22.11, New York Il leggendario Office of Strategic Services (Ufficio servizi strategici) era stato fondato nel giugno del 1942. Diretto dall'eroe della Grande Guerra William Joseph «Wild Bill» Donovan, l'OSS era responsabile della raccolta di informazioni militari. Dopo il secondo conflitto mondiale, nel 1946, il presidente Truman aveva creato il Central Intelligence Group, con il compito di acquisire all'estero informazioni pertinenti la sicurezza nazionale. Un anno dopo, con il National Security Act, il CIG veniva ribattezzato Central Intelligence Agency. La legge inoltre ampliava il mandato della CIA, autorizzandola a condurre attività di controspionaggio. Alla trentaduenne Annabelle «Ani» Hampton era sempre piaciuto il mestiere di spia. Era così vario e stimolante dal punto di vista mentale ed emotivo, ti procurava così tante sensazioni. C'era il pericolo e c'era una ricompensa proporzionata al pericolo. C'era l'impressione di essere invisibili o, se venivi catturato, di essere nudo come un verme. C'era la percezione di esercitare il potere sugli altri, e anche di rischiare la punizione e la morte. E c'erano un sacco di altri aspetti coinvolgenti: mettere a punto un piano, saperti collocare al posto giusto, pazientare, cogliere qualcuno nella giusta disposizione d'animo, sedurre sentimentalmente e talvolta fisicamente. In effetti, somiglia molto al sesso, solo che è meglio, rifletté. Nell'attività spionistica, se ti stanchi di qualcuno, puoi sempre ucciderlo. Non che l'avesse mai fatto. Non ancora, perlomeno. Le piaceva essere una spia perché era sempre stata un tipo solitario. Gli altri bambini non erano curiosi quanto lei. Da piccola, si divertiva a scoprire dove gli scoiattoli facevano la tana o a osservare gli uccelli deporre le uova o, a seconda dell'umore, ad aiutare le lepri a sfuggire alle volpi oppure ad aiutare le volpi a catturare le lepri. E si divertiva a spiare il padre che giocava a pinnacolo o la nonna che sorseggiava il tè o le ragazze con cui usciva il fratello maggiore. Teneva persino un diario in cui annotava tutte le notizie che raccoglieva sorvegliando la sua famiglia: quale vicino era «una testa di cazzo», quale zia era «una strega», quale suocera avrebbe dovuto «imparare a tenere il becco chiuso». La madre di Ani una volta aveva trovato il diario e l'aveva requisito, ma non c'era Tom Clancy
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problema. Ani era stata abbastanza furba da farne una copia. I suoi genitori, Al e Ginny, erano proprietari di un negozio di abbigliamento femminile a Roanoke, Virginia. Ani era solita lavorare all'Hampton's Fashions dopo la scuola o nei week-end. Ogniqualvolta era possibile, studiava le clienti che entravano a dare un'occhiata. Cercava di origliare quello che dicevano, e tentava di indovinare che cosa avrebbero guardato basandosi su com'erano vestite o sul modo in cui parlavano. E poi si avvicinava per vendere loro qualche capo. Se era stata attenta e perspicace, ci riusciva. Di solito, lo era. Il gioco era terminato quando il negozio dei genitori aveva dichiarato fallimento, rovinato da una catena di esercizi che vendevano a prezzi scontati. Suo padre e sua madre erano stati obbligati ad andare a lavorare per uno di questi grandi magazzini. Ma l'arte di capire e manipolare le persone non aveva smesso di esercitare il suo fascino su Ani. Aveva vinto una borsa di studio per la Georgetown University di Washington, optando per scienze politiche come prima materia e per affari asiatici come seconda, poiché all'epoca sembrava che il Giappone e gli altri Paesi asiatici che si affacciavano sul Pacifico fossero destinati a diventare i «punti caldi» del Ventunesimo secolo. Sebbene le speranze dei suoi genitori fossero state infrante, Ani non li aveva mai visti tanto orgogliosi come il giorno in cui si era laureata con la lode. Era stato allora che si era prefissa l'obiettivo di renderli ancora più orgogliosi. Ani aveva deciso non soltanto che sarebbe diventata un'agente della CIA, ma che prima di compiere quarant'anni avrebbe diretto l'agenzia. Dopo la laurea, l'esile bionda alta un metro e settantacinque aveva fatto domanda per entrare nella CIA ed era stata assunta, in parte grazie al suo esemplare curriculum accademico, in parte, come aveva appreso in seguito, perché le direttive sulle pari opportunità avevano trovato l'agenzia, notoriamente sciovinista, a corto di personale femminile. Ma i motivi dell'assunzione allora non erano importanti; Ani era «dentro». Ufficialmente, si occupava della concessione dei visti in tutta una serie di ambasciate americane in Asia. In realtà, usava il suo tempo libero per sviluppare contatti nei governi e nelle forze armate. Funzionari statali e ufficiali dell'esercito insoddisfatti. Uomini e donne colpiti dal crollo finanziario asiatico della metà degli anni Novanta. Persone che potevano essere convinte a fornire informazioni in cambio di denaro. Ani era particolarmente brava nell'opera di reclutamento per conto della Tom Clancy
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CIA. Stranamente, aveva scoperto che il suo pregio migliore non era la conoscenza della cultura e dei governi asiatici. E nemmeno il fatto che avesse visto i suoi genitori perdere la loro fetta di «sogno americano» e sapesse come parlare alle persone che si sentivano tagliate fuori. La sua dote più grande era l'abilità nel non restare emotivamente coinvolta con le sue reclute. C'erano state volte in cui si era reso necessario sacrificare delle persone per procurarsi delle informazioni, e lei non aveva esitato a farlo. La scuola, la vita e la storia le avevano insegnato che la gente era la moneta dei governi e degli eserciti, e che non dovevi aver paura di spenderla. In un certo senso, non era diverso dal dire a una cliente che un cappotto, un paio di pantaloni o una camicetta le stava a pennello, pur sapendo che non era così. Il negozio aveva bisogno di soldi, e lei era determinata a ottenerli. Purtroppo, Ani aveva constatato che grinta e talento non erano sufficienti. Quando aveva portato a termine la sua missione all'estero, non era stata ricompensata con una promozione o un'autorizzazione di livello più elevato per accedere a materiale top secret. L'atteggiamento antifemminista era tornato in auge: gli incarichi migliori venivano affidati ai suoi colleghi maschi. Ani era stata inviata a Seul per raccogliere i dati comunicati dai contatti che aveva stabilito. La maggior parte di essi veniva trasmessa elettronicamente, e lei non partecipava neppure alla loro interpretazione. Questo compito era svolto da squadre ELINT nel quartier generale dell'agenzia. Dopo sei messi passati davanti a un computer, lavorando come intel shuffler, aveva chiesto il trasferimento a Washington. Invece, l'avevano trasferita a New York. Sempre come intel shuffler. In ragione della sua esperienza oltremare, Ani era stata mandata a lavorare presso la Doyle Shipping Agency. Il paravento della CIA operava dagli uffici al terzo piano dell'866 di United Nations Plaza. La loro attività clandestina consisteva nello spiare gli alti «papaveri» dell'ONU. La sede della DSA si componeva di una piccola reception con una segretaria - al momento assente, poiché era sabato -, dell'ufficio del direttore, David Battat, e di un altro ufficio per Ani. C'era anche un terzo, angusto locale per i due floaters che si dividevano tra questo e un altro ufficio nel quartiere finanziario. I floaters pedinavano i diplomatici sospettati di incontrarsi con spie o potenziali spie sul territorio americano. L'ufficio fungeva anche da deposito di armi, dalle pistole agli esplosivi come il C-4, che potevano essere utilizzate dai floaters oppure fatte pervenire in valigie Tom Clancy
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diplomatiche agli agenti all'estero. Il piccolo ufficio di Ani, con vista sull'East River, era l'autentico cuore dell'operazione. Era ingombro di pile di documenti, tabelle di spedizione, regolamenti fiscali - il tutto ovviamente falso -, più un computer collegato ad apparecchiature ad alta tecnologia custodite sotto chiave nello sgabuzzino delle scope in fondo al breve corridoio. Il compito di Ani era monitorare l'attività dei pezzi grossi dell'ONU. Per farlo, si serviva di microspie sviluppate dal gruppo ricerche scientifiche e tecnologiche della CIA e testate per la prima volta alle Nazioni Unite «per allenare le cimici», come aveva detto Battat. Le cimici erano dei veri e propri insetti meccanici delle dimensioni di un grosso scarafaggio. Fabbricate in titanio e ceramiche piezoelettriche estremamente leggere materiali che garantivano un bassissimo consumo delle batterie, consentendo di funzionare per anni senza essere sostituite - queste cimici sono sintonizzate elettronicamente sulla voce di un determinato soggetto. Dopo essere state liberate all'interno di un edificio, non hanno bisogno di alcuna manutenzione. I rapidi dispositivi a sei zampe sono in grado di raggiungere qualsiasi punto di un palazzo nel giro di venti minuti e di seguire il proprio bersaglio muovendosi dietro i muri e attraverso i condotti dell'aerazione; le zampe a uncino permettono loro di spostarsi verticalmente sulla maggior parte delle superfici. Le voci venivano trasmesse dalle microspie all'apparecchio ricevente collegato al computer di Ani, soprannominato «l'arnia». Di solito, Ani ascoltava la trasmissione con una cuffia auricolare per escludere i rumori dell'ufficio e della strada. Sette microspie mobili all'interno del complesso degli edifici dell'ONU consentivano alla CIA di ascoltare abusivamente influenti ambasciatori come pure il segretario generale in persona. Poiché tutte le cimici operavano sulla medesima audiofrequenza, molto stretta, Ani poteva accedere soltanto a una alla volta, pur avendo la possibilità di saltare da una all'altra usando il computer. Le microspie contenevano inoltre dei generatori di ultrasuoni che emettevano un ping a intervalli di pochi secondi. L'impulso era concepito per spaventare potenziali predatori. Al costo di due milioni di dollari l'una, la CIA preferiva evitare che le cimici venissero mangiate da qualche pipistrello affamato o da altri insettivori. Sebbene fosse risentita per il trasferimento e l'incarico poco gratificante che stava svolgendo, c'erano tre aspetti positivi. Primo, benché si trattasse di un lavoro piuttosto monotono, le offriva la possibilità di spiare nel modo Tom Clancy
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più clandestino possibile, e questo compiaceva il suo lato voyeuristico. Secondo, il suo superiore trascorreva la maggior parte del tempo a Washington o nella sezione della CIA presso l'ambasciata americana di Mosca - dove si trovava anche in quel momento -, per cui in effetti era lei a gestire il piccolo ufficio. E ultimo, il comportamento discriminatorio del «Chauvinists Institute of America» (Istituto sciovinisti d'America), come aveva scherzosamente ribattezzato l'agenzia, le aveva ricordato che, sia che vendessi abiti da donna sia che vendessi informazioni, dovevi trovare il modo di essere felice. Dal suo arrivo a New York, aveva cominciato poco a poco ad apprezzare l'arte e la musica, i ristoranti raffinati e i vestiti eleganti, l'agiatezza e i piccoli sfizi che poteva togliersi. Per la prima volta nella sua vita, si poneva dei traguardi che nulla avevano a che vedere con il far carriera o con l'inorgoglire qualcuno. Questo la faceva sentire bene. Molto bene. Ani seguiva attentamente la riunione. Disappunto a parte, la situazione richiedeva un ascolto scrupoloso. E quantunque la conversazione che stava intercettando venisse registrata, il suo superiore ne avrebbe preteso un resoconto conciso ma esauriente. Era interessante conoscere le persone dalla loro voce. Ani ormai riusciva a cogliere inflessioni, pause e velocità assai meglio che in un colloquio faccia a faccia. Era divertente sorvegliare quelle persone, soprattutto Mala Chatterjee, una delle due donne sulla sua lista. Passava più della metà del suo tempo in compagnia del segretario generale. Nata a Nuova Delhi quarantatré anni prima, era figlia di Sujit Chatterjee, uno dei più famosi produttori cinematografici indiani. Mala era un avvocato che aveva conseguito sfolgoranti vittorie per la causa dei diritti umani e lavorato come consulente al Centro per la costruzione della pace internazionale di Londra, prima di accettare un posto come rappresentante speciale aggiunto del segretario generale per i diritti umani a Ginevra. Si era trasferita a New York nel 1997 per assumere la carica di sottosegretario generale per gli Affari umanitari. La sua nomina a segretario generale dell'ONU era stata motivata da ragioni politiche e da alcune propizie apparizioni televisive, oltre che dalle sue credenziali, ed era giunta in un periodo nel quale le tensioni nucleari tra India e Pakistan stavano crescendo. Gli indiani erano talmente fieri di questa designazione che persino quando la signora Chatterjee, fresca di nomina, si era recata a Islamabad per avanzare delle proposte al Pakistan riguardo al disarmo, i suoi connazionali l'avevano Tom Clancy
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sostenuta. Questo nonostante l'editoriale apparso in prima pagina sul quotidiano pachistano in lingua inglese «Dawn», nel quale si rimproverava a Nuova Delhi di «aver chiuso vilmente gli occhi di fronte all'annientamento». Nella sua breve carriera di segretario generale, Mala Chatterjee aveva dovuto affrontare i problemi personalmente, affidandosi alla sua intelligenza e al suo carisma per spegnere i focolai di crisi. Era questo a rendere l'attuale momento così eccitante. Ani non era ignara delle vite in gioco o impassibile davanti alla loro situazione. Negli ultimi mesi aveva iniziato a considerare Chatterjee come una cara amica e una stimata collega, ed era estremamente curiosa di vedere come il segretario generale se la sarebbe cavata in questo frangente. Non appena la CIA era stata allertata, Ani si era accertata che nessuno dei delegati con le cimici fosse presente nella sala del Consiglio di Sicurezza. Mala Chatterjee era a colloquio con il vicesegretario generale, il giapponese Takahara, due sottosegretari generali e il comandante delle forze di sicurezza nella grande sala riunioni fuori dal suo ufficio privato. Era presente anche il segretario generale aggiunto dell'amministrazione e capo del personale che, insieme al suo staff, era intento ad aggiornare telefonicamente i governi i cui delegati erano stati presi come ostaggi. Nella stanza si trovava anche l'assistente personale della signora Chatterjee, Enzo Donati. Non si era discusso molto dell'ipotesi di pagare il riscatto. Anche se fosse stato possibile mettere insieme la somma, il che era dubbio, il segretario generale non avrebbe avuto la facoltà di consegnarla. Nel 1973, le Nazioni Unite avevano stabilito una linea di condotta per far fronte alle richieste di riscatto in caso di sequestro di personale dell'ONU. La proposta avanzata dal Consiglio di Sicurezza, e approvata dall'Assemblea Generale con la maggioranza prevista di due terzi dei voti, era che, nell'eventualità di un sequestro, lo Stato o gli Stati colpiti si attenessero alle rispettive politiche nazionali in materia. L'ONU sarebbe intervenuto soltanto in veste di negoziatore. Finora, solamente una nazione coinvolta, la Francia, aveva acconsentito a contribuire al riscatto richiesto. Gli altri Paesi o non potevano impegnarsi senza un'autorizzazione formale o seguivano la politica di non trattare con i terroristi. Gli Stati Uniti, il cui rappresentante, Flora Meriwether, era tra gli ostaggi, rifiutavano di pagare il riscatto ma accettavano di partecipare Tom Clancy
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se fosse stato aperto un dialogo con i terroristi. Chatterjee e il suo staff avevano convenuto di fare una nuova verifica con i Paesi coinvolti allo scadere dell'ultimatum. Il problema immediato che aveva bisogno di una rapida soluzione era a chi spettasse la responsabilità di prendere le decisioni durante la crisi. Se fossero stati tenuti prigionieri solo dei turisti, allora il caso sarebbe stato di esclusiva competenza del Comitato di Stato Maggiore del colonnello Rick Mott. Ma così non era. Secondo lo statuto dell'ONU, le decisioni concernenti il Consiglio di Sicurezza potevano essere prese unicamente dal Consiglio stesso o dall'Assemblea Generale. Poiché il presidente del Consiglio di Sicurezza, il polacco Stanislaw Zintel, era uno degli ostaggi, e poiché l'Assemblea Generale non poteva essere convocata, Chatterjee stabilì che, in quanto capo dell'Assemblea, toccava al segretario generale decidere quali iniziative intraprendere. Ani sospettava che fosse la prima volta nella storia delle Nazioni Unite che qualcosa non veniva deciso mediante votazione. E c'era voluta una donna per farlo, naturalmente. Risolta la questione, Mott informò i funzionari che il grosso delle forze di polizia dell'ONU era stato allontanato dal perimetro e raggruppato intorno alla sala del Consiglio di Sicurezza, e li ragguagliò circa la possibilità di organizzare un assalto con l'ausilio dell'unità del servizio di emergenza del NYPD, che disponeva di personale volontario. «Non possiamo pianificare alcun tipo di risposta militare finché non avremo un'idea più precisa di quanto sta avvenendo là dentro» disse Mott. «Due ufficiali stanno ascoltando attraverso le doppie porte della sala del Consiglio di Amministrazione fiduciaria. Sfortunatamente, i terroristi hanno piazzato dei rivelatori di movimento nei corridoi che conducono alle cabine dei media, perciò non possiamo salire lassù. Hanno anche messo fuori uso le videocamere di sorveglianza. Stiamo cercando il modo di guardare dentro l'auditorium servendoci di obiettivi a fibre ottiche. Useremo dei trapani a mano per praticare due piccoli fori attraverso il pavimento nei ripostigli sotto la sala. Purtroppo, non riusciremo ad avere delle immagini se non parecchio dopo lo scadere dei novanta minuti. Abbiamo utilizzato un collegamento terra-satellite per trasmettere i filmati dei killer registrati dalle videocamere di sorveglianza agli uffici dell'Interpol di Londra, Parigi, Madrid e Bonn, nonché ad altri organismi di polizia in Giappone, a Mosca e a Città del Messico. Speriamo che Tom Clancy
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l'attacco possa presentare qualche analogia con qualcosa che gli agenti hanno già visto in precedenza.» «Il punto è: uccideranno davvero uno degli ostaggi?» chiese il segretario generale Chatterjee. «Credo di sì» rispose Mott. «In base a quali informazioni?» domandò qualcuno di cui Ani non riconobbe la voce o l'accento. «Quelle che mi suggerisce il mio cervello!» replicò il colonnello. Ani poteva immaginarselo mentre si indicava la testa con frustrazione. «I terroristi non hanno nulla da perdere uccidendo ancora.» «Allora quali sono le nostre opzioni prima che scada l'ultimatum?» volle sapere Chatterjee. «Militarmente?» fece Mott. «I miei uomini sono disposti a fare irruzione senza disporre di immagini, se necessario.» «La sua squadra è pronta per un'operazione del genere?» s'informò il segretario generale. Quella risposta avrebbe potuto darla Ani. La forza d'assalto dello Stato Maggiore non era pronta all'azione. Non aveva ancora ricevuto il suo battesimo del fuoco e l'organico non era al completo. In caso di perdita di uno o due dei suoi membri chiave, non c'erano riserve. Il problema era che, così come il resto del personale del segretariato dell'ONU, l'unità militare dello Stato Maggiore aveva subito un taglio del venticinque per cento degli effettivi negli ultimi anni. Per giunta, gli elementi più capaci tendevano a passare al settore privato, dove la paga e le opportunità di promozione erano migliori. «Siamo preparati per fare irruzione e mettere fine alla situazione di stallo» affermò Mott. «Ma devo essere onesto, signora. Se entriamo nella sala con l'intenzione di eliminare i terroristi, c'è un'alta probabilità di perdite non solo tra i miei uomini, ma anche tra i delegati e le ragazze in preda al panico.» «Non possiamo correre questo rischio» osservò Chatterjee. «Le nostre possibilità sarebbero certamente migliori se aspettassimo la ricognizione» ammise il colonnello. «E se usassimo il gas lacrimogeno contro i terroristi?» chiese il vicesegretario generale Takahara. «La sala del Consiglio di Sicurezza è molto grande» spiegò Mott «perciò ci vorrebbero almeno settanta secondi per spargere il gas attraverso Tom Clancy
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l'impianto di aerazione, un po' meno aprendo le porte e lanciando delle granate. In un modo o nell'altro, i terroristi avrebbero il tempo per indossare le maschere antigas, se le hanno, rompere le finestre sparando per diminuire l'efficacia del gas, uccidere gli ostaggi non appena resisi conto di quanto sta accadendo, oppure spostarsi in un altro luogo usando gli ostaggi come scudi. Se, come affermano, dispongono di gas tossico, è ipotizzabile che abbiano con loro delle maschere.» «Uccideranno tutti gli ostaggi comunque» intervenne uno dei sottosegretari generali. Ani credette di riconoscere in lui il portoghese Fernando Campos, uno dei pochi militanti che trovasse ascolto presso il segretario generale. «Se entriamo adesso, almeno potremo salvarne qualcuno.» Si levò un forte mormorio attorno al tavolo. La signora Chatterjee riportò il silenzio e restituì la parola a Mott. «Il mio consiglio, ripeto, è di aspettare finché non avremo qualche immagine della sala» concluse il colonnello. «In tal modo sapremo dove si sono posizionati i nemici e gli ostaggi.» «Il prezzo del tempo aggiuntivo e delle sue immagini sarà la vita dei delegati» obiettò l'uomo che Ani aveva identificato come il sottosegretario generale Campos. «Io dico di entrare e chiudere la faccenda.» Chatterjee rinviò a un secondo tempo la discussione sull'aspetto militare e chiese a Mott se avesse altre idee. Il colonnello rispose che si era pensato di interrompere l'erogazione di energia elettrica e spegnere l'impianto di condizionamento dell'aria per creare disagio ai terroristi. Ma lui e il Comitato di Stato Maggiore avevano deciso che si sarebbe trattato di atti più provocatori che utili. Per ora, non avevano in mente nient'altro. Seguì una breve pausa di silenzio. Ani notò che mancava meno di mezz'ora alla scadenza dell'ultimatum. Aveva la netta impressione di quello che avrebbe fatto Mala Chatterjee: esattamente quello che faceva sempre. «Sebbene i suggerimenti del colonnello Mott e del sottosegretario generale Campos mi trovino d'accordo, non possiamo dare ai terroristi ciò che vogliono» disse infine, la sua voce roca più bassa del solito. «Ma si impone un gesto autorevole per riconoscere il loro status.» «Il loro status?» ripeté il colonnello Mott. «Sì.» «Cosa, per esempio, signora? Sono degli spietati assassini...» Tom Clancy
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«Colonnello, non è questo il momento di esprimere il nostro sdegno» replicò Chatterjee. «Poiché non possiamo dare ai terroristi ciò che vogliono, dobbiamo offrire loro ciò che abbiamo.» «Vale a dire?» «La nostra umiltà.» «Buon Dio» borbottò Mott. «Le ricordo che questa non è l'unità SEAL delle forze speciali della Marina che comandava un tempo» ribatté seccamente il segretario generale. «Dobbiamo "ricercare una soluzione mediante il negoziato, l'indagine, la mediazione, la conciliazione, l'arbitrato, il compromesso...".» «Conosco lo statuto» disse il colonnello. «Ma non è stato scritto per questo genere di situazione.» «Allora lo adatteremo. Il concetto è valido. Dobbiamo ammettere che queste persone hanno il potere di uccidere o liberare i nostri rappresentanti e quelle ragazze. Forse tenendo un atteggiamento conciliante guadagneremo del tempo e la loro fiducia.» «Di sicuro non guadagneremo il loro rispetto.» «Non sono d'accordo» s'intromise Takahara. «È noto che la sottomissione può placare i terroristi. Ma sono curioso, segretario generale. Come intende agire?» Takahara non smetteva mai di stupire Ani. Nel corso della storia, i leader giapponesi non si erano mai trovati a loro agio con la conciliazione - a meno che non fingessero di volere la pace mentre si preparavano alla guerra. Takahara era diverso; era un sincero pacifista. «Andrò dai terroristi» dichiarò Chatterjee. «Inoltre, dobbiamo assicurarci una cosa alla volta. Se riusciamo a ottenere una proroga dell'ultimatum, può darsi che troveremo la maniera di sbloccare la situazione.» «Mi permetto di rammentarle» disse Takahara «che i terroristi hanno messo in chiaro che non accetteranno di rispondere a nessuna comunicazione a parte la notizia che il denaro e l'elicottero sono a loro disposizione.» «Non importa che rispondano. Solo che ascoltino.» «Oh, risponderanno, non c'è dubbio» fece presente Mott. «Con le armi. Quei mostri si sono fatti strada a mitragliate. Non hanno niente da perdere sparando a qualche persona in più.» «Signori, non possiamo pagare il riscatto, e io non autorizzerò un Tom Clancy
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attacco» ribadì Chatterjee. Ad Ani appariva evidente come il segretario generale fosse sempre più frustrato. «Si suppone che siamo i più abili diplomatici del mondo, e al momento non abbiamo altre opzioni all'infuori della diplomazia. Colonnello Mott, mi accompagnerà alla sala del Consiglio di Sicurezza?» «Certamente» rispose l'ufficiale. Sembrava sollevato. Era una mossa intelligente da parte del segretario generale uscire fuori con un soldato al suo fianco. Parla a bassa voce, e portati dietro una grossa mazza, come aveva detto Theodore Roosevelt. Ani udì dei colpi di tosse e un rumore di sedie che venivano spostate. Gettò uno sguardo all'orologio del computer: Mala Chatterjee aveva poco più di sette minuti prima del termine ultimo stabilito dai terroristi. Un lasso di tempo appena sufficiente per raggiungere la sala del Consiglio di Sicurezza. La cimice sarebbe arrivata poco dopo. Ani si levò la cuffia e fece per chiamare David Battat. La linea era protetta, controllata da un'unità avanzata TAC-SAT 5 custodita nella scrivania. Il telefono squillò mentre lei allungava la mano verso l'apparecchio. Alzò il ricevitore; era Battat. «Sei lì» disse il suo capo. «Già» rispose lei. «Ho annullato un appuntamento galante e mi sono precipitata qui non appena è scoppiato il casino.» «Brava ragazza» commentò il quarantaduenne nativo di Atlanta. Le dita di Ani sbiancarono intorno al ricevitore. Battat non era stronzo come tanti altri, e lei non pensava che intendesse essere sarcastico od offensivo. Era solo un atteggiamento cui aveva fatto l'abitudine frequentando il «club spionistico per soli uomini». «Qui i telegiornali hanno appena diffuso la notizia dell'attacco» proseguì Battat. «Dio, quanto vorrei essere lì. Cosa sta accadendo?» La giovane donna informò il suo superiore delle intenzioni del segretario generale Chatterjee. Dopo aver ascoltato, Battat sospirò. «I terroristi faranno fuori lo svedese» concluse. «Forse no» disse Ani. «Chatterjee è piuttosto in gamba.» «La diplomazia è nata per cospargere di borotalco il culo dei tiranni, e non l'ho mai vista funzionare molto a lungo» osservò Battat. «Questa è una delle ragioni per cui ti ho chiamato. Venti minuti fa ho ricevuto la telefonata di un ex agente della CIA di nome Bob Herbert. Attualmente lavora per il National Crisis Management Center e ha bisogno di una base Tom Clancy
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per la sua squadra speciale. Se dall'alto arriverà il via libera, probabilmente tenteranno di liberare gli ostaggi. I ragazzi quassù non hanno problemi a concedergli l'uso della Doyle Shipping Agency, sempre che non ficchino il naso nelle nostre faccende. Tra circa novanta minuti dovrai aspettarti che bussino alla porta un certo generale Mike Rodgers, un tale colonnello Brett August e il resto della comitiva.» «Sì, signore.» Ani riagganciò e si prese una breve pausa di riflessione prima di tornare alla sua cuffia. L'arrivo di una squadra dell'NCMC era una notizia inaspettata. Ascoltava da tre ore ogni conversazione del segretario generale Chatterjee, e non c'era stato alcun accenno a un intervento a opera degli Stati Uniti. Non riusciva a credere a un coinvolgimento militare americano in un'operazione nella sede dell'ONU. Ma se era vero, almeno lei era lì per seguirne gli sviluppi. Magari avrebbe persino potuto aver parte nella preparazione del piano d'attacco. In circostanze normali, era elettrizzante trovarsi nel bel mezzo di quello che la CIA definiva eufemisticamente un «evento», soprattutto quando c'era un «controevento» in vista. Ma quelle non erano circostanze normali. Ani guardò il monitor del computer, che mostrava una pianta dettagliata del quartier generale delle Nazioni Unite insieme alle icone che rappresentavano le microspie. Osservò il procedere della cimice che seguiva Mala Chatterjee; l'avrebbe raggiunta in meno di un minuto. Si infilò la cuffia. Quelle non erano circostanze normali perché c'era un gruppo di persone nella sede dell'ONU. Un gruppo che contava su di lei per scoprire tutto ciò che il segretario generale diceva e programmava. Un gruppo che non aveva nulla a che vedere con la CIA. Un gruppo comandato da un uomo che lei aveva conosciuto mentre cercava nuove reclute in Cambogia. Un uomo che era stato un agente della CIA in Bulgaria e che, al pari di lei, era rimasto deluso dal trattamento riservatogli dall'agenzia. Un uomo che aveva passato anni ad allacciare contatti internazionali per proprio conto, ma non per raccogliere informazioni. Un uomo cui non importava del sesso o della nazionalità di una persona, ma soltanto della sua abilità. Ecco perché Ani quella sera era venuta in ufficio alle sette in punto. Non dopo l'inizio dell'attacco, come aveva raccontato a Battat, ma prima. Voleva essere al suo posto per essere sicura, nel caso Georgiev l'avesse contattata sulla linea telefonica protetta, di potergli fornire tutte le Tom Clancy
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informazioni che gli servivano. Teneva sotto controllo anche il conto di Zurigo; non appena il denaro vi fosse stato depositato, lo avrebbe distribuito in una dozzina di altri conti, quindi avrebbe cancellato ogni traccia. Gli investigatori non l'avrebbero mai trovato. Il successo di Georgiev sarebbe stato anche il successo di Ani. E il suo successo sarebbe stato anche quello dei suoi genitori. Con la sua parte di duecentocinquanta milioni di dollari, il padre e la madre avrebbero finalmente potuto realizzare il «sogno americano». L'ironia era che Battat in realtà aveva sbagliato due volte. Ani Hampton non era una ragazza. E tanto meno «brava», come l'aveva definita lui. Lei era eccezionale.
18 Sabato, ore 22.29, New York Mala Chatterjee era alta meno di un metro e sessanta, e arrivava a malapena al mento dell'ufficiale dai capelli argentei che camminava poco dietro di lei. Ma i centimetri del segretario generale non davano l'autentica misura della sua statura. Gli occhi scuri erano grandi e luminosi, la pelle bruna e liscia. I fini capelli corvini erano naturalmente striati di bianco e le ricadevano a metà delle spalle del semplice ed elegante tailleur nero. Gli unici gioielli che portava erano l'orologio da polso e un paio di piccoli orecchini di perle. Si erano levate alcune voci di dissenso in patria quando, subito dopo la nomina, Mala Chatterjee aveva scelto di non indossare il tradizionale sari. Anche suo padre era rimasto sconvolto. Ma come lei aveva di recente affermato in un'intervista rilasciata a «Newsweek», il suo compito era quello di rappresentare tutù i popoli e tutte le fedi, non soltanto la sua terra natia e i suoi correligionari indù. Per fortuna, l'accordo sul disarmo con il Pakistan aveva fatto cadere nel dimenticatoio la questione del sari, e aveva anche placato le vigorose proteste di alcuni Paesi membri, secondo cui l'organizzazione mondiale aveva optato per eleggere un segretario generale telegenico invece che un diplomatico di fama internazionale. Mala Chatterjee non dubitava della propria abilità nel gestire anche questa situazione. Non aveva mai incontrato un problema che non potesse essere risolto facendo un primo passo conciliatorio. Troppi conflitti erano causati dalla necessità di salvare la faccia; eliminando questo elemento, Tom Clancy
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spesso le dispute si appianavano da sole. Il segretario generale si aggrappava a questa convinzione mentre in compagnia del colonnello Mott scendeva con l'ascensore al primo piano. Era stato consentito l'accesso in quel settore dell'edificio a un ristretto numero di giornalisti, e dovette rispondere ad alcune domande mentre si dirigeva verso la sala del Consiglio di Sicurezza. «Speriamo che la situazione si possa risolvere in modo pacifico... Le nostre priorità sono la sicurezza e la salvaguardia della vita umana... Preghiamo che le famiglie degli ostaggi e delle vittime abbiano la forza...» I segretari generali dell'ONU avevano ripetuto quelle esatte parole, o parole molto simili, così tante volte, in così tanti luoghi del mondo, che erano quasi divenute un mantra. Tuttavia, in questo caso avevano una valenza diversa. Questa non era una situazione in cui la gente combatteva e odiava e moriva da anni. Era una nuova guerra, e il nemico era molto risoluto. Le parole venivano dall'anima, non dalla memoria, e non erano le uniche che le fossero venute in mente. Dopo aver lasciato i giornalisti, lei e il colonnello passarono accanto alla Regola aurea, un grande mosaico ispirato al dipinto di Norman Rockwell, che era stato donato dagli Stati Uniti per il quarantesimo anniversario delle Nazioni Unite. Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Chatterjee pregava che questo principio non venisse ignorato. I rappresentanti degli Stati membri del Consiglio di Sicurezza erano radunati a nord della sala del Consiglio economico e sociale. Tra loro e l'adiacente sala del Consiglio di Amministrazione fiduciaria erano schierate ventisette guardie, l'intera forza che il colonnello Mott aveva ai suoi ordini. C'era anche una squadra d'emergenza di personale paramedico volontario del NYU Medicai Center. Il segretario generale Chatterjee e il colonnello Mott si avvicinarono alla porta a due battenti della sala del Consiglio di Sicurezza, fermandosi ad alcuni metri di distanza. L'ufficiale sganciò dalla cintura la ricetrasmittente, pre-sintonizzata sulla frequenza corretta, la accese e la porse al segretario generale. La mano della donna era fredda quando la prese. Lanciò uno sguardo all'orologio: 22.30. Durante il tragitto, aveva ripassato mentalmente le frasi che avrebbe pronunciato, rendendole più stringate possibile. Sono il segretario generale Chatterjee. Posso entrare? Se i terroristi avessero acconsentito, se l'ultimatum fosse scaduto senza Tom Clancy
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nessun morto, allora si sarebbe aperto uno spiraglio per il dialogo, per la trattativa. Forse sarebbe riuscita a convincerli a trattenerla in cambio delle ragazze. Al dopo, al proprio destino, non aveva neppure pensato. Per un negoziatore il fine era tutto, i mezzi secondari. Verità, inganno, rischio, pietà, indifferenza, fermezza, adulazione... era tutta moneta sonante. Le sue dita sottili strinsero con forza la radio mentre accostava il microfono alla bocca. Doveva sembrare forte ma non censoria. Deglutì per essere sicura di scandire bene le parole. La sua voce doveva essere chiara. Si inumidì le labbra. «Sono il segretario generale Mala Chatterjee» disse lentamente. Aveva deciso di aggiungere il nome di battesimo per rendere meno formale l'introduzione. «Posso entrare?» Nient'altro che silenzio come risposta. I terroristi avevano detto che sarebbero rimasti in ascolto su quel canale; dovevano aver udito il messaggio. Mala Chatterjee avrebbe giurato di poter sentire il cuore del colonnello Mott battergli nel petto. Di certo poteva sentire il proprio, come carta vetrata intorno alle orecchie. Un istante più tardi, ci fu una forte detonazione proveniente da dietro le doppie porte e seguita dalle urla all'interno della sala. Subito dopo, la più lontana delle due porte si aprì verso l'esterno, e il corpo del delegato svedese cadde fuori... tranne la parte posteriore della testa. Quella era rimasta sulla parete della sala.
19 Sabato, ore 22.30, New York Paul Hood si era ricomposto ed era tornato al buffet, proprio mentre arrivavano alcuni funzionari di polizia del dipartimento di Stato. Poiché i genitori erano tutti cittadini statunitensi, l'ambasciatore americano aveva richiesto che fossero trasferiti immediatamente negli uffici del dipartimento sull'altro lato della la Avenue. Questo per ragioni di sicurezza, ma Hood nutriva il sospetto che in realtà si trattasse di una questione di sovranità. Gli Stati Uniti desideravano impedire che dei cittadini americani venissero interrogati da funzionari stranieri su un attacco terrorista compiuto in territorio internazionale. Ciò avrebbe stabilito un pericoloso precedente, consentendo a qualunque governo o suo rappresentante di trattenere degli americani che non fossero accusati di Tom Clancy
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aver violato leggi internazionali o di uno Stato estero. A nessuno dei genitori piaceva l'idea di allontanarsi dall'edificio dove erano tenute prigioniere le loro figlie, ma vi si rassegnarono. Vennero accompagnati dal vicecapo della sicurezza Bill Mohalley, del dipartimento della Difesa, un tipo scuro di capelli sulla cinquantina che, a giudicare dalle spalle ampie e dritte, e dai modi spicci e autoritari, probabilmente era arrivato al ministero dall'esercito. Mohalley continuava a ripetere che il loro governo avrebbe potuto offrire maggiore protezione e più informazioni. Ambedue le asserzioni rispondevano al vero, benché Hood si domandasse quanto le autorità avrebbero effettivamente rivelato loro. Dei terroristi armati erano penetrati nei sistemi di sicurezza americani per raggiungere le Nazioni Unite; se fosse accaduto qualcosa alle ragazze, sarebbe stata intentata una serie di azioni legali senza precedenti. Mentre lasciavano il buffet e iniziavano a salire la scala centrale, lo sparo esploso nella sala del Consiglio di Sicurezza echeggiò nell'edificio. Tutti si bloccarono. Poi delle grida lontane ruppero il silenzio agghiacciante. Mohalley chiese a tutti di continuare a salire velocemente le scale, ma passò un interminabile secondo prima che qualcuno si decidesse a muoversi. Alcuni dei genitori insistettero per tornare nella sala stampa per essere più vicini alle ragazze. Mohalley spiegò che l'area era stata isolata dal personale di sicurezza dell'ONU e non sarebbe stato possibile accedervi, quindi li esortò a proseguire affinché lui potesse metterli in salvo e scoprire cos'era accaduto. Il gruppo riprese a muoversi, ma diverse madri e qualche padre scoppiarono a piangere. Hood mise il braccio intorno alla vita di Sharon, e sebbene anche le sue gambe fossero deboli, la aiutò a salire le scale. C'era stato un solo colpo d'arma da fuoco, per cui presumeva che fosse stato ucciso un ostaggio. Aveva sempre creduto che quello fosse il modo peggiore di morire, privati di tutto per affermare il punto di vista di qualcun altro. Una vita usata come un sanguinoso, impersonale punto esclamativo, gli affetti e i sogni cancellati come se non avessero nessuna importanza. Non c'era nulla di più raggelante di questo da contemplare. Quando raggiunsero l'atrio, Mohalley ricevette una chiamata sulla radio. Mentre si faceva da parte per rispondere, i genitori entrarono in fila nel parco illuminato dai riflettori che si trovava fra il General Assembly Building e l'866 della United Nations Plaza, dove furono accolti da due Tom Clancy
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aiutanti di Mohalley. La chiamata fu breve. Quando ebbe terminato, il funzionario del dipartimento di Stato si riportò in testa al gruppo, lo lasciò sfilare e chiese a Hood se poteva parlargli un momento. «Certamente» disse Paul, sentendosi seccare la gola. «Quello sparo... era un ostaggio?» domandò. «Sì, signore» rispose Mohalley. «Uno dei diplomatici.» Hood provò al tempo stesso un senso di nausea e di sollievo. Sua moglie si era fermata qualche passo più in là. Lui le fece segno di andare avanti, che era tutto okay. In quella situazione, «okay» era un termine piuttosto relativo. «Signor Hood» continuò Mohalley «abbiamo fatto un rapido controllo su tutti i genitori, ed è saltato fuori il suo stato di servizio all'Op-Center...» «Ho dato le dimissioni.» «Lo sappiamo. Ma le sue dimissioni diverranno effettive solo tra una dozzina di giorni. Nel frattempo, abbiamo un problema potenzialmente serio che lei può aiutarci a risolvere.» Hood lo guardò. «Che tipo di problema?» «Non ho libertà di dirglielo» rispose Mohalley. Hood non si era davvero aspettato che l'altro glielo dicesse. Non in quel luogo, almeno. Il dipartimento di Stato era paranoico per quel che riguardava la sicurezza fuori dai suoi uffici, sebbene in questo caso avesse il diritto di esserlo. Ogni diplomatico, ogni consolato, era lì per aiutare il proprio Paese, e questo comportava il restare sempre «in linea» usando qualsiasi strumento, dagli orecchi umani a quelli elettronici, per ascoltare di nascosto le conversazioni. «Capisco, ma è collegato alla situazione in corso?» insistette Hood. «Sì, signore. Vuole seguirmi?» disse Mohalley. Era più un'affermazione che una domanda. Paul gettò un'occhiata verso il cortile. «Mia moglie...» «Le diremo che avevamo bisogno di lei. Capirà. La prego, signore, è importante.» Hood fissò l'uomo negli occhi grigio acciaio. Una parte di lui - quella che si sentiva in colpa per Sharon - voleva mandare al diavolo Mohalley. Lowell Coffey una volta aveva detto: «La ragion di Stato viene prima delle ragioni famigliari». Hood aveva lasciato la pubblica amministrazione per questo motivo. Un rappresentante dell'ONU era appena stato ucciso, e sua figlia era in mano a una banda di terroristi: assassini che avevano dichiarato di voler eliminare una persona ogni ora. Il posto di Paul avrebbe Tom Clancy
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dovuto essere accanto alla moglie. Tuttavia, c'era una parte di lui che non intendeva restarsene con le mani in mano aspettando che gli altri agissero. Se c'era qualcosa che poteva fare per aiutare Harleigh, se poteva raccogliere informazioni utili a Mike Rodgers e agli Striker, non voleva rimanere alla finestra. Sperava che Sharon avrebbe compreso. «D'accordo» disse Hood al vicecapo della sicurezza. I due si voltarono e si incamminarono a passo svelto verso la la Avenue, che era bloccata dalle auto della polizia dalla 42a alla 47a Strada. Al di là c'era un muro abbagliante, le luci delle telecamere. Parcheggiati lungo la strada c'erano tre camion del servizio di emergenza del NYPD con delle squadre FAT Fugitive Apprehension Team, squadre per la cattura di fuggitivi -, nel caso i terroristi fossero americani. Sul posto era presente anche il furgone della squadra artificieri del 17° distretto. In alto, volteggiavano un paio di elicotteri Bell-412 bianchi e blu dell'unità aeronautica del NYPD, che illuminavano con i loro potenti fari il complesso di edifici. Era ancora in corso l'evacuazione del personale delle pulizie e degli assistenti dei diplomatici dalla sede dell'ONU e dalle torri sull'altro lato del viale. Nel bagliore di luci bianche, Hood intravide la figura spettrale di Sharon che veniva condotta dalla parte opposta della strada insieme agli altri genitori. Stava guardando dietro di sé, nel tentativo di scorgere il marito. Lui sventolò la mano, ma la visuale fu subito ostruita dai camion della polizia su un lato della via e dal cordone di agenti sull'altro. Hood seguì Mohalley verso sud e la 42a Strada, dove li attendeva una berlina nera del dipartimento di Stato. I due uomini scivolarono sul sedile posteriore. Cinque minuti dopo attraversavano il rinnovato QueensMidtown Tunnell, diretti fuori Manhattan. Hood ascoltò quel che aveva da dirgli Mohalley. E ciò che udì lo fece sentire come se fosse stato colpito da un pugno improvviso, costretto a compiere un grande passo nella direzione sbagliata.
20 Sabato, ore 22.31, New York Quando lo sparo risuonò all'interno della sala del Consiglio di Sicurezza, il colonnello Mott si spostò immediatamente davanti al segretario generale. Tom Clancy
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Se fossero stati esplosi altri colpi, l'avrebbe spinta dove si trovavano gli agenti della sicurezza, che si erano affrettati a ripararsi dietro ai loro scudi. Ma non ci furono altri spari, soltanto l'odore acre di cordite, l'ovattata, momentanea sordità causata dalla detonazione e l'inconcepibile freddezza dell'esecuzione. Il segretario generale Chatterjee aveva lo sguardo fisso davanti a sé. Il mantra aveva fallito. Un uomo era morto, e con lui la speranza. Aveva visto la morte ricreata nei film di suo padre. Aveva visto le conseguenze del genocidio nei video prodotti dalle organizzazioni per i diritti umani. Ma nessuna delle due cose riusciva neppure lontanamente a cogliere la disumanizzante realtà dell'assassinio. Osservò il cadavere che giaceva a pancia in giù sul pavimento di piastrelle. Gli occhi e la bocca erano spalancati, il volto pareva fatto d'argilla, piatto sulla guancia e rivolto verso di lei. Sotto, il sangue si spargeva uniforme in tutte le direzioni. Le braccia dell'uomo erano contorte sotto il corpo, e i piedi girati in senso opposto. Dov'era l'ombra dell'atman di cui parlava la sua fede, l'anima eterna dell'induismo? Dov'era la dignità che presumibilmente avremmo portato con noi nel ciclo dell'eternità? «Si allontani da qui» le consigliò il colonnello Mott dopo uno o due secondi che parvero infinitamente lunghi. «Sta bene?» Lei annuì. La squadra medica d'emergenza si avvicinò con una barella, su cui venne fatto rotolare il corpo del delegato. Uno dei medici collocò un grosso tampone di garza contro la ferita aperta sul capo, più per ragioni di decenza che per aiutare l'uomo, il quale purtroppo ormai non aveva più bisogno di nulla. Dietro le guardie, i rappresentanti erano muti e immobili. Chatterjee li guardò, e loro ricambiarono lo sguardo. Erano tutti terrei in volto. I diplomatici si occupavano di orrori ogni giorno, ma di rado ne avevano esperienza diretta. Passò un lungo momento prima che Chatterjee si ricordasse della radio che aveva in mano. Si ricompose velocemente e parlò nel microfono. «Perché era necessario?» Dopo un breve silenzio, qualcuno rispose. «Sono Sergio Contini.» Contini era il rappresentante italiano. La sua voce di solito possente era fievole e gutturale. Il colonnello Mott si volse verso il segretario generale. Aveva le Tom Clancy
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mascelle strette e gli occhi scuri scintillanti di rabbia. Evidentemente sapeva quel che sarebbe seguito. «Vada avanti, signor Contini» lo invitò Chatterjee, che a differenza del colonnello serbava ancora un filo di speranza. «Mi è stato chiesto di informarvi che sarò la prossima vittima.» Le parole venivano pronunciate in modo lento, incerto. «Verrò ucciso esattamente...» Si fermò e si schiari la gola. «Esattamente tra un'ora a partire da adesso. Non ci saranno ulteriori comunicazioni.» «La prego, riferisca a quelle persone che desidero entrare» disse Chatterjee. «Gli dica che...» «Non stanno più ascoltando» la interruppe Mott. «Mi scusi?» Il colonnello indicò la piccola luce rossa in cima all'apparecchio rettangolare: era spenta. Il segretario generale abbassò lentamente il braccio. Mott aveva torto. I terroristi non avevano mai cominciato ad ascoltare. «Quanto ci vuole ancora per avere delle immagini dall'interno della sala?» domandò. «Manderò qualcuno di sotto a informarsi. Manteniamo il silenzio radio nel caso siano in ascolto.» «Capisco» fece Chatterjee riconsegnando la radio all'ufficiale. Mott inviò uno dei suoi agenti al piano inferiore, poi ordinò ad altri due di ripulire il pavimento dal sangue del delegato. Se avessero dovuto fare irruzione, non voleva che qualcuno ci scivolasse sopra. Nel frattempo, parecchi rappresentanti cercarono di venire avanti. Il colonnello diede ordine alle guardie di trattenerli, spiegando che nessuno doveva bloccare il corridoio che portava alla sala del Consiglio di Sicurezza. Se qualche ostaggio fosse riuscito a scappare fuori, voleva essere in grado di proteggerlo. Mentre Mott tentava di mantenere disciplinata la piccola folla, Mala Chatterjee si voltò e si diresse verso la finestra panoramica che dava sul piazzale. Di solito era un luogo così animato, anche la sera tardi, con la fontana e il viavai di auto, la gente che faceva jogging o portava a spasso i cani, le luci nelle finestre dei palazzi sull'altro lato della strada. Persino il traffico di elicotteri era stato dirottato lontano dal centro - non per il timore di un'esplosione a terra, ma nel caso i terroristi avessero dei complici. Immaginò che anche la navigazione dei battelli da diporto e delle chiatte fosse stata interrotta sull'East River. Tom Clancy
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L'intera enclave era paralizzata. Proprio come lei. Chatterjee tirò un respiro tremolante. Si disse che non avrebbero potuto fare nulla per impedire l'omicidio del delegato. Non avrebbero potuto mettere insieme la somma del riscatto, nemmeno se le nazioni coinvolte avessero acconsentito a pagarla. Non avrebbero potuto prendere d'assalto la sala del Consiglio di Sicurezza senza causare altre morti. E non potevano trattare, sebbene ci avessero provato. Poi d'improvviso le venne in mente cosa aveva sbagliato. Una cosa piccola ma importante. Si avvicinò ai rappresentanti e comunicò loro che sarebbe andata nella sala riunioni per informare dell'assassinio i famigliari del delegato svedese, dopodiché sarebbe tornata lì. «Per fare cosa?» le domandò il rappresentante delle isole Figi. «Quello che avrei dovuto fare già la prima volta» rispose il segretario generale dirigendosi verso l'ascensore.
21 Sabato, ore 22.39, New York Dopo aver ucciso il delegato svedese, Reynold Downer si avvicinò a Georgiev. A parte alcune ragazze che stavano piangendo e il rappresentante italiano intento a pregare, nella sala erano tutti immobili e silenziosi. Gli altri membri del commando rimasero dov'erano. Downer si fermò a così breve distanza da Georgiev che il bulgaro poteva sentirne il fiato caldo attraverso la maschera. «Dobbiamo parlare» disse l'australiano. «E di cosa?» sibilò rabbiosamente Georgiev. «Di gettare altra legna sul fuoco» ringhiò Downer. «Torna al tuo posto» gli ingiunse Georgiev. «Ascoltami. Quando ho aperto la porta, nel corridoio ho visto venti o venticinque guardie armate.» «Eunuchi. Non azzarderanno un attacco, ne abbiamo già parlato. Pagherebbero un prezzo troppo alto.» «Lo so.» Gli occhi di Downer si posarono su un telefono protetto dentro una sacca da viaggio sul pavimento. «Ma la tua fonte d'informazioni ha detto che solo la Francia era d'accordo a pagare. E non abbiamo preso in ostaggio quel dannato segretario generale, come invece avevamo Tom Clancy
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previsto.» «Una circostanza sfortunata» disse Georgiev «ma non catastrofica. Ce la faremo anche senza un patrocinatore.» «Non vedo come.» «Sapendo pazientare più di loro. Quando gli Stati Uniti cominceranno seriamente a preoccuparsi per la vita delle ragazzine, sborseranno la cifra che gli altri Paesi si sono rifiutati di pagare. La detrarranno dal loro debito con l'ONU e troveranno il modo di farcela avere senza perdere la faccia. Adesso, torna a fare quello che devi.» «Non sono d'accordo» insistette Downer. «Credo che dovremmo alzare la temperatura.» «Non occorre» replicò il bulgaro. «Abbiamo tempo, cibo e acqua...» «Non è questo che intendevo!» lo interruppe l'altro. Georgiev lo fulminò con lo sguardo. L'australiano stava esagerando. Era esattamente quello che si aspettava da lui. Un ritualistico, provocatorio spirito di contraddizione, prevedibile ed estremo quanto un kabuki giapponese. Ma la storia cominciava a diventare troppo lunga e fastidiosa. Era pronto a sparare a Downer e a qualsiasi altro dei suoi complici se fosse stato costretto. Sperava che quel bastian contrario glielo leggesse negli occhi. Downer trasse un respiro. Era più calmo quando riprese a parlare. Il messaggio era stato recepito. «Quello che sto dicendo è che questi bastardi non sembrano aver capito che noi vogliamo soldi, non chiacchiere. Chatterjee ha tentato di negoziare.» «Ci aspettavamo anche questo. E l'abbiamo messa a tacere.» «Per ora» brontolò Downer. «Ma ci riproverà. Quei maledetti bastardi non sanno far altro che parlare.» «E fanno sempre fiasco. Siamo preparati a qualsiasi evenienza» ricordò con calma il bulgaro. «Cederanno, vedrai.» L'australiano stringeva ancora la pistola con cui aveva ammazzato lo svedese, e prese ad agitarla mentre parlava. «Sono sempre dell'idea che dovremmo scoprire cos'hanno in mente e incalzare quei bastardi. Dico che dopo aver fatto fuori l'italiano, potremmo passare subito alle ragazzine. Magari torturandole prima un po', in modo che qualche urlo risuoni nei corridoi. Come quei guerriglieri khmer rossi in Cambogia, che catturavano il cane di casa e lo facevano lentamente a pezzi per attirare fuori la Tom Clancy
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famiglia. Mettiamoli sotto pressione per affrettare le cose.» «Sapevamo che ci sarebbe voluta più di una pallottola per ottenere la loro attenzione» sussurrò Georgiev. «E sappiamo che, nonostante la volontà di sacrificare i rappresentanti, gli Stati Uniti non permetteranno che le ragazze muoiano. Né a causa di un attacco né per colpa di un atteggiamento passivo. Adesso, tornatene al tuo posto. Ci atterremo al nostro piano.» Downer si allontanò imbronciato mugugnando un'imprecazione, e Georgiev rivolse la sua attenzione agli ostaggi. Il bulgaro aveva previsto anche questo. Reynold Downer non era un uomo paziente. Ma conflitto e tensioni mettevano alla prova la risolutezza e rafforzavano il lavoro di squadra. Tranne che alle Nazioni Unite, pensò con sarcasmo. E la ragione era semplice. L'ONU promuoveva la pace invece del profitto. La pace invece del cimento personale. La pace invece della vita. Georgiev era deciso a combattere tutto ciò finché non avrebbe dovuto soccombere alla pace che non si poteva evitare, la pace che alla fine toccava a tutti gli uomini.
22 Sabato, ore 23.08, New York Il grosso C-130 sostava con i motori accesi sulla pista fuori del Marine Air Terminal all'aeroporto La Guardia. All'epoca in cui era stato aperto, nel 1939, il Marine Air Terminal veniva chiamato Overseas Terminal, ed era il principale terminal dell'aeroporto. Costruita accanto al minaccioso Jamaica Bay, l'aerostazione era concepita per ospitare i passeggeri degli idrovolanti a scafo centrale, i mezzi preferiti per i voli internazionali negli anni Trenta e Quaranta. Oggi, il Marine Air Terminal in stile art déco è schiacciato dal Central Terminal Building e dagli edifici gestiti dalle singole compagnie aeree, ma nei suoi giorni più gloriosi era stato testimone della storia. La cosiddetta «pista d'argento», sebbene fosse nera, aveva accolto politici e leader mondiali, stelle del cinema e artisti celebrati, illustri inventori ed esploratori di fama mondiale. Gli immancabili flash dei fotografi davano loro il benvenuto a New York, e le limousine li aspettavano per condurli in città. Tom Clancy
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Quella sera, il Marine Air Terminal era testimone di una storia di genere diverso. Sulla buia pista d'atterraggio, undici Striker e il generale Mike Rodgers erano circondati da una dozzina di MP, i soldati della polizia militare. Nel vederli, Paul Hood si irrigidì per la rabbia e affondò le dita nel cuscino del sedile. Durante il tragitto, il vicecapo Mohalley gli aveva raccontato che gli MP erano arrivati in elicottero da Fort Monmouth, New Jersey, dov'erano aggregati all'Air Mobility Command (comando aereo trasporti). «Secondo le informazioni che ho ricevuto» aveva spiegato Mohalley «la Commissione di controllo sui servizi segreti ha rifiutato ai suoi Striker l'autorizzazione a intervenire nella crisi in atto. A quanto pare, il presidente della Commissione era preoccupato per la scarsa reputazione di cui gode lo Striker Team riguardo al rispetto delle regole, perciò ha contattato la Casa Bianca e ha parlato direttamente con il presidente.» Ovviamente, pensò Hood con amarezza, nessuno si è preso il disturbo di tener conto dell'ottima reputazione di cui gode lo Striker Team riguardo i successi in missione. «Quando il presidente ha cercato di telefonare al generale Rodgers» continuò Mohalley «è andato su tutte le furie apprendendo che lo Striker Team era già in volo. La successiva telefonata del presidente è stata al colonnello Kenneth Morningside, comandante della base di Fort Monmouth. Non mi sorprende che abbiano seguito la linea dura. Circa quindici minuti dopo l'irruzione dei terroristi alle Nazioni Unite, il dipartimento di Stato ha diramato un ordine generale che proibiva a qualunque unità delle forze di sicurezza di mettere piede nel complesso. Sono venuto a sapere che anche il NYPD ha ricevuto un ordine analogo. Qualsiasi incursione deve essere richiesta per iscritto dal segretario generale, e i suoi parametri approvati dall'ufficiale comandante dell'unità.» Quelle parole non fecero che accrescere i timori di Hood per l'incolumità di Harleigh e delle sue compagne. Se lo Striker Team non era autorizzato a salvarle, chi altri poteva farlo? Ma la sua disperazione si tramutò in rabbia quando vide Mike Rodgers, Brett August e gli Striker tenuti sotto custodia. Quegli uomini e quelle donne, quegli eroici combattenti, non meritavano di essere trattati alla stregua di criminali. Hood scese dall'auto e corse verso il gruppo, tallonato da Mohalley. Un vento forte e salmastro soffiava dalla baia, tanto che il funzionario del dipartimento di Stato doveva tenersi il berretto perché non volasse via. Tom Clancy
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Hood invece nemmeno lo sentiva. La collera gli ribolliva dentro, bruciando più intensamente della paura e della frustrazione. Aveva i muscoli tesi e la mente in fiamme. Tuttavia la sua furia non era diretta soltanto a quell'oltraggio e alla perpetua inefficacia dell'ONU. Come benzina gettata su un fuoco che covava sotto la cenere, la sua ira divampava ovunque. Era furibondo con l'Op-Center per essersi continuamente intromesso nella sua vita, con Sharon per non averlo sostenuto di più, e con se stesso per aver gestito il tutto in modo tanto balordo. Il tenente colonnello Solo, comandante della brigata della polizia militare, si fece avanti per accoglierli. Era un uomo basso, nerboruto e quasi calvo, alle soglie dei quaranta, con un'espressione che comunicava rigore e senso pratico. Mohalley si presentò all'ufficiale, quindi fece per presentare anche Hood, ma questi era già passato oltre, diretto verso il cerchio di soldati della polizia militare. Corrugando la fronte, il tenente si voltò e lo seguì a grandi passi, imitato da Mohalley. Paul si fermò appena prima di doversi fare largo a spallate tra i poliziotti. Gli era rimasto abbastanza buonsenso da ricordare che se si fosse scontrato con quella gente, avrebbe avuto la peggio. Il tenente colonnello si incuneò di fronte a lui. «Mi scusi, signore...» Hood lo ignorò. «Mike, tutto bene?» «Sono stato in posti peggiori» rispose il generale. Questo era vero, dovette ammettere Paul. La giusta prospettiva si aggiunse al buonsenso, e si rilassò leggermente. «Signor Hood» insistette l'ufficiale al comando. Hood lo fissò. «Tenente colonnello Solo, questi soldati rispondono a me. Quali sono i suoi ordini?» «Abbiamo la consegna di assicurarci che tutto il personale dello Striker Team risalga a bordo del C-130 e di restare al nostro posto finché il velivolo non ritorna alla base aerea di Andrews.» «Benissimo» replicò Hood con aperto disgusto. «Lasciamo pure che Washington richiami in panchina l'unica speranza che ha l'ONU...» «Non è una mia decisione, signore» lo interruppe Solo. «Lo so, tenente colonnello» disse Paul «e non sono arrabbiato con lei.» Non lo era, infatti. Era arrabbiato con il mondo intero. «Ma c'è una questione che richiede la presenza del mio secondo, il generale Rodgers. Il Tom Clancy
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generale non è un membro dello Striker Team.» Il tenente colonnello Solo spostò lo sguardo da Hood a Rodgers, poi lo riportò su Hood. «Se ciò risponde a verità, allora la mia consegna non riguarda il generale.» Rodgers lasciò gli Striker e attraversò lo stretto anello di MP. Mohalley si aggrondò. «Aspettate un attimo. L'ordine che io ho ricevuto si riferisce a tutto il personale dell'esercito e della sicurezza, incluso il generale Rodgers. Signor Hood, mi piacerebbe sapere qual è la questione che richiede la presenza del generale.» «È personale» rispose Paul. «Se è attinente alla situazione in corso alle Nazioni Unite...» «Lo è. Mia figlia è tenuta in ostaggio. Mike Rodgers è il suo padrino di battesimo.» Mohalley fissò il generale. «Il suo padrino.» «Esatto» confermò Rodgers. Hood non disse nulla. Non importava che l'uomo del dipartimento di Stato l'avesse bevuta; l'importante era che a Rodgers venisse concesso di andare con lui. Mohalley guardò l'ex direttore dell'Op-Center. «Soltanto i parenti stretti sono autorizzati a entrare nella sala d'attesa con lei.» «Allora non andrò nella sala d'attesa» ribatté Paul tra i denti. Ne aveva abbastanza. Non aveva mai colpito un uomo, ma se quel funzionario non si faceva da parte, l'avrebbe spostato di peso. Rodgers, che si trovava giusto accanto al più piccolo Mohalley, stava osservando Hood. Per un lungo momento, l'unico rumore fu quello del vento; sembrava più forte ora, in quel silenzio. «D'accordo, signor Hood» disse infine Mohalley. «Non voglio metterle i bastoni tra le ruote.» Paul espirò. Il funzionario del dipartimento di Stato si girò verso Rodgers. «Vuole un passaggio, signore?» «Sì, grazie.» Il generale aveva ancora lo sguardo fisso su Hood. E Hood all'improvviso si sentì come quando sedevano nel suo ufficio all'OpCenter. Si sentì di nuovo collegato a una rete di amici e collaboratori fidati. Prima di andarsene, Rodgers si voltò verso gli Striker, che scattarono Tom Clancy
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sull'attenti. Il generale e August si scambiarono il saluto militare, poi il colonnello ordinò ai suoi uomini di salire a bordo del C-130. L'anello di soldati della polizia militare si divise per lasciarli passare. Gli MP rimasero sulla pista d'atterraggio mentre Hood, Rodgers e Mohalley tornavano verso l'auto. Paul Hood non aveva nessun piano, e dubitava che Mike Rodgers ne avesse uno. Qualunque cosa il generale avesse avuto in mente di fare, di certo prevedeva l'impiego dello Striker Team. Ma mentre la berlina del dipartimento di Stato si lasciava alle spalle il Marine Air Terminal e la grossa mole del C-130, Hood era un po' meno angosciato di prima. Non era solamente la presenza di Rodgers a confortarlo, ma anche il ricordo di qualcosa che aveva imparato guidando l'Op-Center: che i piani concepiti nei momenti di calma raramente funzionano nei momenti di crisi. Erano soltanto due, ma avevano il supporto della migliore équipe di specialisti del mondo. Avrebbero escogitato qualcosa. Dovevano farlo.
23 Sabato, ore 23.11, New York «Non posso assolutamente permetterle di farlo!» Il colonnello Mott stava praticamente urlando in faccia al segretario generale Chatterjee. «È una pazzia. Anzi, peggio di una pazzia. È un suicidio!» I due erano in piedi a un'estremità del tavolo nella sala riunioni. Il vicesegretario generale Takahara e il sottosegretario generale Javier Olivo erano a qualche metro di distanza, accanto alla porta chiusa. Chatterjee aveva appena parlato al telefono con Gertrud Johanson, la moglie del rappresentante svedese, che si trovava a casa sua a Stoccolma. Il marito era intervenuto al ricevimento in compagnia della sua assistente esecutiva, Liv, tuttora prigioniera nella sala del Consiglio di Sicurezza. La signora Johanson avrebbe preso il primo volo in partenza per New York. Era al tempo stesso triste e ironico, pensò Chatterjee, che così tante mogli di uomini politici finissero per ricongiungersi ai loro consorti soltanto dopo che questi erano morti. Sarebbe successa la stessa cosa anche a lei, se fosse stata sposata? Probabilmente, decise. «Signora, la prego» insistette il colonnello «mi dica che intende Tom Clancy
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ripensarci.» Non poteva. Era convinta di aver ragione. E in base a questa convinzione, non poteva fare nient'altro. Quello era il suo dharma, il sacro dovere legato alla vita che aveva scelto. «Apprezzo i suoi timori» disse il segretario generale «ma credo che sia l'unica opzione che possa offrire qualche possibilità.» «Non lo è» replicò Mott. «Dovremmo avere delle immagini della sala tra pochi minuti. Mi conceda mezz'ora per dar loro un'occhiata, poi guiderò dentro i miei uomini.» «E nel frattempo» fece presente Chatterjee «l'ambasciatore Contini morirà.» «L'ambasciatore morirà comunque.» «Non lo posso accettare.» «Questo perché lei è un diplomatico, non un militare. L'ambasciatore è quello che noi definiamo una "perdita operativa", cioè un soldato o un'unità che non è possibile raggiungere senza mettere a repentaglio la sicurezza del resto della compagnia. Quindi, rinunci al suo proposito.» «Qui non c'è nessuna compagnia in pericolo, colonnello. Solo io. Entrerò nella sala del Consiglio di Sicurezza.» Mott scrollò la testa con rabbia. «Credo che lei voglia farlo per punire se stessa, signora. Ma non ne ha alcun motivo. Ha fatto la cosa giusta cercando di comunicare via radio con i terroristi.» «No» obiettò Chatterjee. «Ho fatto la cosa più miope. Non ho pensato al passo successivo.» «È facile dirlo adesso» osservò il vicesegretario generale Takahara. «Nessuno qui dentro ha avuto un'idea migliore. E se avessimo pensato a questa opzione, avrei dato parere contrario.» Mala Chatterjee guardò l'orologio. Avevano ancora diciannove minuti. «Signori, sono decisa a procedere.» «Si farà ammazzare» la ammonì il colonnello. «E probabile che abbiano messo qualcuno di guardia alla porta per sparare a chiunque tenti di entrare.» «In tal caso, forse la mia morte conterà come l'omicidio programmato per quell'ora e l'ambasciatore Contini sarà risparmiato. Dopodiché, spetterà a lei, signor Takahara, decidere cosa fare.» «Cosa fare» borbottò Mott. «Che altro c'è da fare se non attaccare questi mostri? E c'è qualcos'altro che non ha preso in considerazione. I terroristi Tom Clancy
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ci hanno detto che useranno del gas asfissiante in risposta a qualsiasi azione che miri a liberare gli ostaggi. Siamo di fronte a una situazione estremamente delicata; basta un nonnulla per farla precipitare. Ci sono buone probabilità che interpretino il suo tentativo di entrare nella sala come un attacco delle forze di sicurezza, oppure come un diversivo per coprire un attacco.» «Parlerò loro attraverso la porta» disse Chatterjee. «Chiarirò che sono disarmata.» «Che è esattamente quello che diremmo se volessimo ingannarli.» «Colonnello, in questo caso concordo con il segretario generale» intervenne Takahara. «Si ricordi che non è in pericolo solo la vita dell'ambasciatore Contini. Se farà irruzione nella sala, di sicuro ci saranno gravi perdite tra gli ostaggi, e verosimilmente anche tra i suoi uomini, per non parlare del rischio rappresentato dal gas tossico.» Il segretario generale controllò di nuovo l'ora. «Sfortunatamente, non abbiamo più tempo per dibattere la questione.» «Signora, non vuole almeno indossare un giubbotto antiproiettile?» le chiese Mott. «No» rispose lei. «Devo entrare in quella sala con speranza e anche con fiducia.» Aprì la porta e uscì nel corridoio, seguita da presso dal colonnello Mott. Malgrado l'ottimismo che aveva manifestato nella sala riunioni, Mala Chatterjee sapeva che forse stava camminando verso la morte. La consapevolezza che quelli potevano essere gli ultimi minuti che le restavano da vivere aguzzò i suoi sensi e mutò l'aspetto altrimenti familiare del corridoio. Le immagini, gli odori, persino il rumore delle piastrelle sotto le scarpe, erano insolitamente vividi. E per la prima volta nella sua breve carriera al Palazzo di Vetro, non era disturbata da discorsi e dibattiti, da pressanti questioni di guerra, pace, sanzioni e risoluzioni. Ciò rendeva l'esperienza ancor più surreale. Lei e Mott entrarono nell'ascensore. Mancavano cinque minuti alla scadenza dell'ultimatum. Solo allora si avvide di quanto sembrasse terribilmente definitivo quel termine.
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Georgiev era in piedi accanto all'apertura del tavolo a ferro di cavallo, tenendo d'occhio i delegati e anche l'orologio. Vandal e Sazanka continuavano a sorvegliare gli ingressi, mentre Barone era inginocchiato al centro della sala, appena prima della galleria, lo sguardo fisso sul pavimento. Quando mancarono due minuti all'ora di scadenza, il bulgaro si voltò e annuì verso Downer. L'australiano, che fino a quel momento aveva camminato su e giù davanti alla porta nord della galleria superiore senza staccare gli occhi da Georgiev, al suo segnale cominciò a scendere le scale. Alcuni degli uomini e delle donne seduti per terra all'interno del tavolo presero a piagnucolare. Georgiev detestava la debolezza, perciò alzò la sua automatica e la puntò verso una delle donne. Era così che faceva con le sue ragazze in Cambogia. Ogni volta che una di loro minacciava di denunciarlo perché era trattata male o veniva pagata meno di quanto promesso, lui non diceva una parola. Si limitava a puntarle una pistola alla tempia. Funzionava sempre: ogni apertura nel volto della ragazza - gli occhi, il naso, la bocca - si spalancava e rimaneva bloccata in quella posizione. Poi il bulgaro diceva: «Se provi ancora a lamentarti, ti ucciderò. Se cerchi di scappare, ucciderò te e la tua famiglia». Dopodiché, nessuna osava più protestare. Delle cento e più ragazze che avevano lavorato per lui nell'anno in cui gestiva il giro di prostituzione, aveva dovuto eliminarne soltanto due. Tutti i prigionieri smisero di singhiozzare, e Georgiev abbassò l'arma. Le lacrime continuavano a scorrere, ma in silenzio. Downer era quasi in fondo alla scala quando il bulgaro vide lampeggiare la spia sull'apparecchio TAC-SAT. La cosa lo sorprese. Aveva parlato con Annabelle Hampton un'ora prima, quando lei lo aveva avvertito che il segretario generale era intenzionato a negoziare. Per un attimo, Georgiev si chiese se i timori di Downer fossero fondati e le forze della sicurezza avessero in mente di sferrare un attacco. Ma questo era impossibile. L'ONU non avrebbe corso un simile rischio. Si avvicinò al telefono. Annabelle Hampton era stato l'acquisto più azzardato ma più importante di Georgiev. Sin dal loro primo incontro in Cambogia, la donna lo aveva colpito per la sua determinazione e la sua indipendenza. Si trovava a Phnom Penh con il compito di reclutare personale che svolgesse attività di Human Intelligence (HUMINT) per conto della CIA. Georgiev le passava Tom Clancy
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le informazioni che le sue ragazze carpivano ai loro clienti e quelle che raccoglieva dai suoi contatti tra i khmer rossi. Benché pagasse i ribelli e venisse pagato per spiarli, riusciva comunque a ricavare un seppur piccolo profitto personale. Al termine dell'operazione UNTAC, nel 1993, l'ufficiale bulgaro aveva cercato di rintracciare Annabelle allo scopo di venderle i nomi delle ragazze di cui si era servito. Venuto a sapere che era stata trasferita a Seul, l'aveva contattata nella capitale sudcoreana, trovandola più arrabbiata che ambiziosa. Quando le aveva accennato alla sua intenzione di lasciare l'esercito per darsi agli affari, Annabelle, più o meno scherzosamente, gli aveva detto di ricordarsi di lei se si fosse presentata qualche opportunità interessante. E così era stato. Fino a quel pomeriggio, quando lei gli aveva fornito il programma dettagliato della soirée organizzata alle Nazioni Unite, Georgiev si era domandato se la donna non si sarebbe tirata indietro. Era abbastanza sicuro che non l'avrebbe tradito, visto che sapeva dove vivevano i suoi genitori, ai quali si era premurato di inviare dei fiori mentre Annabelle era in visita da loro per Natale. Tuttavia, le ultime ore prima di una missione sono, come era solito definirle il grande generale bulgaro del Diciannovesimo secolo Grigor Halachev, «il tempo dei dubbi più seri», quando cioè i piani sono ormai definiti e i soldati hanno la possibilità di guardare dentro di sé. Ma Annabelle non aveva fatto retromarcia. Possedeva la stessa tempra d'acciaio di qualunque soldato in quella sala. Georgiev afferrò il telefono. «Parla» disse. Era l'unica parola cui la donna era stata istruita a rispondere. «Il segretario generale ha deciso di fare un nuovo tentativo» lo informò Ani. «Intende chiedervi il permesso di entrare nella sala del Consiglio di Sicurezza.» Il bulgaro sorrise. «In alternativa» proseguì la donna «spera che la prenderete come bersaglio al posto del rappresentante italiano.» «I pacifisti sperano sempre di essere presi come bersaglio finché non lo fai veramente» osservò Georgiev. «Allora iniziano a piangere e supplicare. Che cosa dicono i suoi consiglieri?» «Il colonnello Mott e uno dei sottosegretari generali sono favorevoli a un attacco non appena avranno delle immagini della sala. Gli altri Tom Clancy
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funzionari non si sono pronunciati.» Georgiev lanciò uno sguardo a Barone. Al servizio di sicurezza non sarebbe giunta alcuna immagine. Quando Annabelle li aveva avvisati del piano, l'ex ufficiale aveva mandato l'uruguaiano nel punto in cui sarebbe stata eseguita la perforazione, con il compito di coprire la minuscola telecamera non appena fosse spuntata fuori. «Nessuna ulteriore discussione circa l'eventuale versamento del riscatto?» chiese il bulgaro. «Nessuna» rispose Ani. «Non importa. Niente immagini, altri morti... cederanno presto alle nostre richieste.» «C'è un'altra cosa. Sono appena stata informata dal mio superiore che un'unità scelta del National Crisis Management Center è in arrivo da Washington.» «L'NCMC? Chi ha dato l'autorizzazione?» «Nessuno. Useranno il mio ufficio come loro quartier generale. Se l'ONU darà il via libera, potrebbero tentare un'incursione.» Era una notizia inattesa. Georgiev era al corrente che l'NCMC aveva effettuato un'operazione degna di elogio in Russia durante il tentato colpo di Stato di oltre un anno prima. Sebbene disponesse di gas tossico e piani di battaglia per la sala del Consiglio di Sicurezza, non voleva essere costretto a servirsene. D'altro canto, l'ONU avrebbe dovuto dare all'unità scelta il permesso di fare irruzione. E lui avrebbe potuto giocare d'anticipo se fosse riuscito ad avere nelle sue mani il segretario generale. Georgiev ringraziò Annabelle e chiuse la comunicazione. Mala Chatterjee sarebbe stata un'ospite più che gradita. Aveva sempre contato sulla possibilità di averla come patrocinante delle giovani orchestrali, pronta ad appellarsi alle nazioni del mondo affinché cooperassero per il loro rilascio. E adesso avrebbe anche potuto dargli una mano a tenere alla larga i militari. Inoltre, quando fosse giunto il momento di andarsene, lei e le ragazze sarebbero state gli ostaggi ideali. Downer arrivò. L'unico problema era cosa fare del rappresentante italiano. Sparandogli, avrebbero minato la credibilità del segretario generale come tutore della pace. Risparmiandolo, avrebbero dato un segnale di debolezza. Decidendo che la credibilità del segretario generale non era affar suo, Georgiev fece un cenno d'assenso a Downer, poi rimase a osservare l'australiano che spingeva e strattonava il piangente Tom Clancy
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ambasciatore Contini su per le scale.
25 Sabato, ore 23.29, New York «Lo faranno ancora.» Laura Sabia era seduta alla sinistra di Harleigh Hood. Fissava davanti a sé con occhi vacui e tremava più di prima. Era come se fosse sotto l'effetto dell'eroina. Harleigh posò le dita sulla mano dell'amica per tranquillizzarla. «Lo uccideranno» disse Laura. «Ssh» fece Harleigh. Barbara Mathis, che era alla sua destra, stava osservando i terroristi. La violinista dai capelli corvini sedeva con la schiena dritta e appariva cupa e fremente. Harleigh conosceva quell'espressione. Barbara era quel tipo di musicista che perdeva irragionevolmente le staffe se qualcuno faceva un rumore che le rompeva la concentrazione. Adesso sembrava sul punto di esplodere. Harleigh si augurò che non accadesse. Le ragazze guardarono il delegato che veniva condotto a forza su per le scale. La vittima cadde carponi su uno dei gradini e strillò qualcosa in italiano. Il tizio con l'accento australiano lo agguantò per il colletto e lo strattonò con violenza. Le braccia del diplomatico cedettero e lui crollò in avanti. Imprecando, l'uomo dal volto coperto si chinò, puntò l'arma tra le gambe dell'italiano e gli intimò qualcosa. Il poveretto si rialzò faticosamente in piedi, e i due ripresero a salire gli scalini. Vicino alle giovani violiniste, al centro del tavolo circolare, la moglie di un delegato stava confortando un'altra donna, tenendola vicino a sé e premendole la mano sulla bocca. Harleigh immaginò che si trattasse della consorte dell'uomo che stava per morire. Laura ora stava letteralmente vibrando, come se fosse percorsa dalla corrente elettrica. Harleigh non aveva mai visto nulla di simile. Chiuse le dita intorno alla mano della compagna e la strinse. «Devi calmarti» le disse sottovoce. «Non posso» rispose Laura. «Non riesco a respirare. Devo uscire di qui.» «Uscirai presto. Verranno a salvarci. Appoggiati allo schienale e chiudi gli occhi. Cerca di rilassarti.» Il padre di Harleigh una volta aveva detto a lei e al fratello che, se mai si Tom Clancy
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fossero trovati in una situazione del genere, l'importante era restare lucidi e cercare di non farsi notare. Dovevano contare i secondi, non i minuti o le ore. In una crisi con ostaggi, più tempo passava, maggiori erano le probabilità di una negoziazione e maggiori le probabilità di sopravvivenza. Se si presentava un'opportunità di fuga, bisognava usare il buonsenso. La domanda da porsi non era: c'è una possibilità di farcela? Ma piuttosto: c'è una possibilità di non farcela? Se la risposta era sì, allora era meglio starsene fermi. Suo padre le aveva anche consigliato di evitare, per quanto possibile, di incontrare lo sguardo dei sequestratori, perché altrimenti ciò poteva umanizzarla ai loro occhi e ricordargli che era una delle persone che odiavano. Doveva anche rimanere in silenzio, per non rischiare di dire la cosa sbagliata. E soprattutto, doveva provare a rilassarsi, pensare a cose belle, come ai suoi due musical preferiti, Peter Pan e The Sound of Music. «Laura?» fece Harleigh. L'amica non diede segno di aver sentito. «Laura, devi ascoltarmi.» La ragazza sembrava sorda. Era come scivolata in una sorta di stato soprannaturale. I suoi occhi erano fissi nel vuoto, le labbra serrate. I due uomini avevano raggiunto la cima della scala. Accanto a Harleigh, Barbara Mathis era l'esatto contrario di Laura, tesa come una corda di violino. Sul suo volto era stampato un ghigno che Harleigh conosceva bene. La figlia di Paul Hood si sentiva come la statua del dipartimento della Giustizia, solo che invece che ai piatti della bilancia si trovava in mezzo a due opposti stati emotivi. All'improvviso, Laura si alzò di scatto dalla sedia. Harleigh le stava ancora tenendo la mano. «Perché ci state facendo questo?» strillò Laura. «Voglio che la smettiate, subito!» Harleigh le tirò delicatamente la mano. «Laura, basta...» Quello che sembrava il capo della banda si trovava a metà della scala. Si volse e guardò con occhio torvo le ragazze. La signorina Dorn, seduta tre posti più in là, si alzò lentamente. «Laura, siediti» disse in tono fermo. «No!» Laura liberò la mano dalla stretta di Harleigh. «Non posso rimanere qui!» urlò, e corse intorno al tavolo, dirigendosi verso la porta sull'altro lato della sala. Il capo scese di volata le scale mentre Laura attraversava di corsa il Tom Clancy
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pavimento rivestito di moquette, seguita dalla signorina Dorn che le gridava di tornare indietro. L'uomo che piantonava l'altra porta lungo la parete opposta della sala lasciò la sua postazione e si lanciò dietro l'insegnante. L'australiano in cima alle scale si era bloccato e li stava osservando. Gli occhi di tutti erano puntati su Laura, mentre il capo del commando e la signorina Dorn si avvicinavano alla porta contemporaneamente all'altro terrorista. Quest'ultimo afferrò la donna per la vita, la tirò indietro, la fece ruotare e la scaraventò a terra. Il capo raggiunse la porta mentre Laura la stava aprendo, la richiuse con una spallata e spinse via la ragazza. Laura incespicò, cadde, si rialzò e si precipitò verso le scale, sempre urlando. La porta non è chiusa a chiave. Quel pensiero balenò d'un tratto nella mente di Harleigh. Ovvio che non fosse chiusa a chiave. I terroristi avevano aperto le porte e non avevano le chiavi per chiuderle. Avevano aperto la porta verso cui si era fiondata Laura, e anche quella che si trovava alle spalle di Harleigh. Lei stessa li aveva visti farlo, per riporre parte del loro equipaggiamento nell'atrio attiguo. La porta che era a poco più di sei metri da dove lei e Barbara erano sedute. La porta da cui il terrorista si era allontanato per immobilizzare Laura. La porta che nessuno stava sorvegliando. Il capo stava inseguendo Laura. La signorina Dorn era rimasta senza fiato, ma continuava a lottare con l'uomo che l'aveva gettata a terra. La tensione doveva aver avuto la meglio su di lei; non stava riflettendo. Harleigh invece sì, con lucidità e sicurezza di sé. Stava pensando non solo di fuggire e salvarsi, ma di portare all'esterno ciò che Bob Herbert chiamava «intel», informazioni. La teenager si girò lentamente e guardò di sottecchi la porta. Poteva coprire facilmente la distanza con uno scatto. A scuola aveva vinto la gara dei cento metri due volte in quattro anni. Era sicura di poter raggiungere la porta a due battenti prima che uno dei terroristi riuscisse a fermarla. E una volta fuori di lì, doveva esserci un modo per entrare nella sala del Consiglio economico e sociale. Aveva notato le doppie porte su quel lato durante la visita guidata che avevano fatto in precedenza. I tacchi alti non erano certo l'ideale per correre, perciò si sfilò la scarpa sinistra usando la punta dell'altra, poi fece altrettanto con la scarpa destra. Tom Clancy
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Intanto, le sue compagne continuavano a osservare la lotta che si svolgeva nella sala. Con cautela, Harleigh spostò indietro la sedia, quindi, senza alzarsi, la fece ruotare leggermente su una gamba in modo da avere l'uscita direttamente davanti a sé. «Non farlo» disse Barbara con l'angolo della bocca. «Cosa?» «So quello che stai pensando, perché sto pensando la stessa cosa. Resta qui. Vado io.» «No...» «Sono più veloce di te» sussurrò Barbara. «Ti ho battuto due volte di fila.» «Ma io sono due passi più vicina» obiettò Harleigh. Barbara scosse il capo. Nei suoi occhi c'erano rabbia e determinazione. Harleigh non sapeva che fare. Non voleva mettersi a gareggiare con l'amica; avrebbero finito per intralciarsi a vicenda. Le ragazze videro il capo dei terroristi acciuffare Laura a metà della scala, sollevarla e scaraventarla indietro. La poveretta ruzzolò giù dai gradini e si fermò al fondo della scala; muoveva le braccia e la testa lentamente, dolorosamente. L'uomo scese in fretta verso di lei. Barbara trasse alcuni brevi respiri e posò le mani sul bordo del tavolo di legno. Attese finché non fu sicura che nessuno guardasse dalla sua parte, poi schizzò via dal tavolo e si mise a correre. Le sue gambe erano ostacolate dall'abito aderente. Harleigh sentì il tessuto lacerarsi sul fianco, ma l'amica proseguì la corsa, tenendo lo sguardo fisso sul pomello della porta, ignorando chiunque tra i terroristi o i delegati le stesse urlando di fermarsi. Harleigh la vide raggiungere la porta. Corri!, pensò. Barbara si arrestò per aprire la porta. Udì la serratura scattare, i battenti schiudersi, e poi un colpo secco, simile allo schiocco di una frusta, che le invase le orecchie come l'improvvisa esplosione di musica quando il suo walkman aveva il volume troppo alto. La cosa successiva di cui Harleigh ebbe cognizione fu che Barbara non era più in piedi. Teneva ancora il pomello della porta, ma era in ginocchio. La sua mano scivolò giù dalla maniglia, il braccio le ricadde floscio lungo il fianco. Tom Clancy
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Il busto di Barbara rimase eretto, ma solo per un istante, poi si accasciò di lato. Non era più arrabbiata.
26 Sabato, ore 23.30, New York Il segretario generale Chatterjee si bloccò non appena udì il colpo smorzato d'arma da fuoco, seguito da urla acute e qualche attimo più tardi da un secondo sparo, più vicino al corridoio rispetto al primo. Immediatamente dopo, la porta della sala del Consiglio di Sicurezza si aprì, l'ambasciatore Contini venne gettato fuori e il battente frettolosamente richiuso. Il colonnello Mott si precipitò verso il corpo, squarciando con i suoi passi l'assoluto silenzio che regnava nel corridoio. Dietro di lui accorse la squadra medica d'emergenza. La vittima, vestita con eleganza, giaceva su un fianco, il viso bruno rivolto verso di loro. La sua espressione era rilassata, le palpebre abbassate, le labbra socchiuse. L'uomo non sembrava morto, non come l'ambasciatore Johanson. Poi il sangue iniziò a raccogliersi in una pozza sotto la sua guancia morbida. Mott si accosciò accanto al cadavere e guardò dietro la testa: c'era un'unica ferita, come nel caso precedente. Mentre gli infermieri caricavano il corpo di Contini su una barella, Chatterjee si avviò verso l'ingresso dell'auditorium, distogliendo lo sguardo mentre passava accanto al cadavere. Mott si rialzò e le sbarrò il passo. «Signora, non ha nulla da guadagnare entrando là dentro adesso. Aspetti almeno di avere a disposizione le immagini.» «Aspettare...» esclamò Chatterjee. «Ho già aspettato anche troppo!» Proprio in quel momento, un uomo del servizio di sicurezza arrivò dalla sala del Consiglio economico e sociale. Il tenente David Mailman era stato assegnato a un'improvvisata squadra di ricognizione di due uomini. Lui e il suo collega avevano recuperato dal magazzino un Remote Infinity Eavesdropping Device, un dispositivo per l'intercettazione di comunicazioni telefoniche vecchio di quindici anni, e l'avevano modificato per captare le voci attraverso le cuffie del sistema di traduzione di cui era dotato ogni posto nella sala del Consiglio di Sicurezza. Poiché la portata Tom Clancy
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era di soli otto metri, dovevano operare dal locale adiacente, cioè il piccolo corridoio che conduceva all'area riservata ai media del secondo piano e che era comune all'aula del Consiglio di Amministrazione fiduciaria e a quella del Consiglio di Sicurezza. «Signore» disse il tenente Mailman al colonnello «abbiamo motivo di credere che qualcuno abbia appena tentato di evadere dalla sala del Consiglio di Sicurezza. Abbiamo visto il pomello girare e sentito lo scatto della serratura giusto prima del primo sparo.» «Si trattava di un colpo d'avvertimento?» chiese Mott. «Riteniamo di no. Chiunque fosse dietro la porta, l'abbiamo udito gemere dopo lo sparo.» Il tenente abbassò gli occhi. «Non... non sembrava un uomo, signore. Era una voce... delicata.» «Una delle ragazze» disse Chatterjee con orrore. «Questo non lo sappiamo» replicò Mott. «C'è qualcos'altro, tenente?» «No, signore» rispose Mailman. L'ufficiale si allontanò. Il colonnello serrò i pugni, poi gettò uno sguardo all'orologio. Stava aspettando notizie sulla videosorveglianza. Erano stati richiesti degli apparecchi telefonici protetti alle forze della sicurezza diplomatica del dipartimento di Stato; finché non fossero arrivati, ogni comunicazione doveva avvenire di persona. Mala Chatterjee non aveva mai visto un uomo dall'aria tanto frustrata. Il segretario generale era ancora di fronte alla porta. La morte dell'ambasciatore Contini non l'aveva sconvolta quanto quella di Johanson, e questo la turbava. O forse la sua reazione era stata attenuata dalle notizie recate dal tenente Mailman. Può darsi che abbiano sparato a una ragazzina... Chatterjee fece un passo verso la porta. Mott la trattenne gentilmente per il braccio. «Per favore, non lo faccia. Non ancora.» Lei si fermò. «So che non c'è nulla che possa fare dall'esterno» disse. «Se sarà necessario entrare in azione, lei non avrà bisogno di me, qui. Ma all'interno, potrei rendermi utile.» Il colonnello la scrutò per un lungo istante, poi le lasciò il braccio. «Vede?» fece la donna con un dolce sorriso. «Diplomazia. Non ho dovuto tirare via il braccio.» Mott non pareva affatto convinto mentre la osservava bussare alla porta. Tom Clancy
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27 Sabato, ore 23.31, New York Paul Hood e Mike Rodgers sedevano sul sedile posteriore della berlina mentre Mohalley occupava quello anteriore a fianco dell'autista. Mentre tornava a Manhattan, a Paul il luogo appariva del tutto diverso. Il Secretariat Building sembrava spiccare di più rispetto a quando lui e la sua famiglia erano arrivati. Era successo soltanto il giorno prima? L'edificio era illuminato dai riflettori piazzati sui tetti dei grattacieli vicini, ma gli uffici erano bui, conferendo alla struttura un aspetto spettrale. Il Palazzo di Vetro non gli ricordava più il fiero e vigoroso «simbolo del pipistrello». Non era il petto pulsante di vita della città, ma somigliava a qualcosa di già morto. Quando avevano lasciato l'aeroporto, poco dopo le ventitré, il vicecapo Mohalley aveva chiamato il suo ufficio per conoscere gli ultimi sviluppi della situazione. Il suo assistente lo aveva informato che, per quanto ne sapevano, non era accaduto nulla dopo la prima esecuzione. Nel frattempo, Hood aveva ragguagliato Rodgers, il quale, come sua abitudine, aveva ascoltato senza dire una sola parola. Al generale non piaceva rivelare quello che pensava in pubblico. Per lui, «in pubblico» significava trovarsi insieme a una qualsiasi persona che non facesse parte della sua cerchia fidata. Entrambi gli uomini rimasero in silenzio mentre percorrevano il tunnel per raggiungere Manhattan. In prossimità dell'uscita, Mohalley si girò per la prima volta verso di loro. «Signor Hood, generale Rodgers, dove devo lasciarvi?» «Dove scende lei» rispose Paul. «Io vado al dipartimento di Stato.» «Andrà benissimo.» Hood non aggiunse altro. Aveva ancora intenzione di recarsi al covo della CIA in United Nations Plaza, ma non voleva che Mohalley lo sapesse. Ancora una volta, il funzionario del dipartimento di Stato non parve soddisfatto della risposta, tuttavia non provò a insistere. L'automobile emerse nella 37a Strada. Mentre l'autista proseguiva lungo la la Avenue, Mohalley si rivolse a Mike Rodgers. Tom Clancy
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«Voglio che sappia che trovo detestabile ciò che è accaduto all'aeroporto.» Il generale si limitò ad annuire una volta. «Ho sentito parlare molto degli Striker» continuò l'altro. «Si sono fatti un'ottima reputazione. A mio avviso, la cosa migliore era mandare là i vostri ragazzi e farla finita con questa faccenda.» «È uno schifo» intervenne Hood. «Tutti probabilmente la pensano come lei, ma nessuno dà l'autorizzazione.» «È tutto un gran casino» osservò Mohalley mentre il suo telefono squillava. «Centinaia di teste e nessun cervello. Una vera tragedia.» L'uomo rispose alla chiamata mentre la vettura si fermava a un posto di blocco sulla 42a Strada. Un paio di agenti di polizia in tenuta antisommossa si avvicinò. Mentre l'autista mostrava loro il tesserino del dipartimento di Stato, Mohalley ascoltava in silenzio. Hood studiò il volto dell'uomo alla luce di un lampione. Era divorato dalla curiosità. Poi osservò il quartier generale dell'ONU. Da quell'angolazione, guardando dal basso in alto, il Secretariat Building si stagliava enorme e imponente sullo sfondo del cielo nero. La sua Harleigh gli sembrava così piccola e vulnerabile mentre se la immaginava chiusa all'interno di quel mostro bianco e blu. Mohalley riattaccò e si volse. «Cosa succede?» domandò Hood. «Hanno sparato a un altro rappresentante. E forse... dico forse... anche a una ragazza.» Paul lo fissò. Ci volle un attimo perché il suo cervello traducesse «forse una ragazza» con «forse Harleigh». Quando accadde, fu come se la vita si fermasse. Hood sapeva che non avrebbe mai scordato l'espressione cupa di Mohalley in quel momento, il bagliore bianco sul parabrezza, e dietro di esso la sagoma tetra e indistinta del Palazzo di Vetro. Era l'immagine della speranza perduta, ora e per sempre. «C'è stato uno sparo prima di quello che ha ucciso il delegato» proseguì Mohalley. «Un uomo della sicurezza dell'ONU che si trovava nel locale attiguo ha sentito qualcuno che tentava di uscire dalla porta laterale. Allo sparo è seguito un urlo o un gemito.» «Nessun'altra informazione?» chiese Rodgers, mentre i poliziotti facevano passare l'automobile. «Nessuna comunicazione dalla sala del Consiglio di Sicurezza, ma il Tom Clancy
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segretario generale è intenzionato a cercare di entrare.» La berlina accostò al marciapiede e si fermò. «Mike» disse Hood. «Devo andare da Sharon.» «Lo so.» Rodgers aprì la portiera e scese. «Generale, desidera venire con me?» chiese Mohalley. Rodgers si fece da parte mentre Hood usciva dall'auto. «No» rispose «ma la ringrazio.» Mohalley allungò a Paul un biglietto da visita. «Mi faccia sapere se ha bisogno di qualcosa.» «Grazie, lo farò senz'altro.» Il funzionario del dipartimento di Stato parve sul punto di domandare qualcosa, ma non lo fece. Rodgers richiuse la portiera. La berlina ripartì, e l'ex direttore dell'Op-Center e il suo vice rimasero soli, uno di fronte all'altro. Hood udì il rumore lontano del traffico e il ronzio degli elicotteri che volteggiavano sul fiume e sulla sede dell'ONU. Udì le grida dei poliziotti e i tonfi sordi dei sacchetti di sabbia che venivano lasciati cadere dietro le barriere di legno lungo la 42a e la 47a Strada. Tuttavia, non gli sembrava di essere lì. Era ancora dentro la berlina, lo sguardo fisso su Mohalley. E continuava a sentirlo dire: «Forse anche a una ragazza». «Paul» lo chiamò Rodgers. Hood stava guardando gli edifici ritrarsi nell'oscurità della la Avenue. Doveva fare uno sforzo per respirare. «Non devi venire con me» gli disse il generale. «Mi servirà il tuo aiuto più tardi, mentre Sharon ha bisogno di te adesso.» Paul assentì con il capo. Mike aveva ragione. Eppure, non riusciva ancora a uscire da quella dannata macchina, lontano dal viso rabbuiato di Mohalley e dall'orrore di quel momento. «Vado dall'altra parte della strada» proseguì Rodgers. «Brett mi aspetta al covo della CIA.» La frase catturò l'attenzione di Hood. I suoi occhi si spostarono sull'amico. «Brett?» «Abbiamo notato gli MP quando stavamo rullando sulla pista verso il terminal. Non ci voleva molto a capire il motivo per cui si trovavano lì. Brett mi ha detto che in qualche modo se la sarebbe svignata e che ci saremmo incontrati qui.» Il generale accennò un sorriso. «Conosci Brett. Non è tipo da starsene con le mani in mano.» Tom Clancy
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Hood si riscosse dal suo stato. Chiunque fosse la possibile vittima, c'erano altre vite a rischio. Alzò lo sguardo sulla torre del dipartimento di Stato. «Devo andare.» «Lo so. Prenditi cura di lei.» «Hai il mio numero di cellulare...» «Certo» rispose Rodgers. «Non appena scopriremo qualcosa o ci verrà in mente qualche idea, ti chiamerò.» Paul lo ringraziò e si incamminò verso il palazzo di mattoni rossi.
28 Sabato, ore 23.32, New York Georgiev stava riportando al suo posto la ragazza caduta in preda al panico quando Barbara Mathis si accasciò a terra. Downer, che aveva sparato il colpo, stava scendendo dalla galleria. Barone stava accorrendo a sua volta; era stato lui a urlare a Barbara di fermarsi. Incurante della propria incolumità, una delle mogli dei rappresentanti asiatici si era alzata dal tavolo e si stava dirigendo verso Barbara, dimostrando molta accortezza. Non si mise a correre, e si fermò dando la schiena alla porta, facendo capire che non aveva propositi di fuga. Il bulgaro non intimò alla donna di tornare indietro. Lei posò a terra la borsetta, si inginocchiò accanto alla ragazza e strappò con cautela l'abito intriso di sangue intorno alla ferita. Il proiettile l'aveva colpita al fianco sinistro. Il sangue stillava dal piccolo foro. L'adolescente non si muoveva, le sue braccia sottili erano pallide. Georgiev proseguì verso il tavolo circolare, chiedendosi se tutto quello non facesse parte di un piano prestabilito: una ragazza si mette a correre urlando per attirare l'attenzione generale mentre un'altra scatta nella direzione opposta tentando di scappare. Se era così, si trattava di una manovra abile e temeraria. Georgiev ammirava il coraggio, ma la giovane musicista, al pari di alcune delle ragazze che avevano lavorato per lui in Cambogia - molte delle quali non più vecchie di lei -, aveva disobbedito, e per questo era stata punita. Purtroppo, in apparenza la lezione non aveva sortito alcun effetto sugli altri ostaggi, che stavano anzi diventando sorprendentemente arditi. Alcuni erano spinti dalla paura, altri dall'oltraggio per quanto accaduto alla ragazza e ai delegati. Un sentimento di massa, anche tra i prigionieri, Tom Clancy
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poteva mettere a tacere la ragione. Se gli si fossero rivoltati contro, avrebbe dovuto ucciderli, anche se ciò lo avrebbe privato della sua arma di ricatto e il rumore di spari e le grida avrebbero indotto le forze della sicurezza a intervenire. Ovviamente, non avrebbe esitato a eliminarli, se vi fosse stato costretto. Ciò di cui aveva davvero bisogno per cavarsi d'impaccio erano le ragazzine. Anche una sola sarebbe bastata, nel caso. D'un tratto, altri due delegati si alzarono. Quello era il problema quando si dava un po' di corda a qualcuno. Tutti presumevano di averne diritto. Georgiev lasciò cadere Laura sulla sua sedia, dove rimase stordita e singhiozzante, quindi ordinò ai rappresentanti di sedersi. Non voleva troppa gente in piedi, altrimenti qualcun altro sarebbe stato tentato di fuggire. «Ma la ragazza è ferita» protestò uno dei due delegati. «Ha bisogno di soccorso.» Il bulgaro spianò la pistola. «Non ho ancora deciso chi sarà il prossimo a morire. Non mi faciliti la scelta.» Gli uomini si sedettero. Quello che aveva parlato sembrava voler aggiungere qualcosa, ma la moglie lo esortò a stare zitto. L'altro guardò tristemente in direzione di Barbara. Alla loro destra, la moglie di Contini era scoppiata in un pianto isterico. Una delle altre donne la stringeva forte tra le braccia per impedirle di lamentarsi. Vandal ritornò con la maestra di musica e le ingiunse di sedersi. La signorina Dorn replicò che Barbara era sotto la sua responsabilità e che doveva permetterle di prendersi cura di lei. Il francese la spinse giù, ma lei fece per rialzarsi. Con gesto rabbioso, Georgiev si voltò verso la donna e le puntò l'arma alla testa. Vandal arretrò di qualche passo. «Se esce un'altra parola dalla tua bocca o da quella di chiunque altro, morirete» disse tra i denti. «Una sola parola!» Il bulgaro osservò la donna allargare le narici e sgranare gli occhi, esattamente come le prostitute cambogiane. Ma rimase in silenzio. Con riluttanza, si sedette e rivolse la sua attenzione alla ragazza che aveva provato a scappare. Vandal indugiò qualche istante, poi tornò a occupare la sua posizione. Downer raggiunse Georgiev nello stesso momento di Barone. Quest'ultimo si avvicinò fino a un palmo dall'australiano. Tom Clancy
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«Sei impazzito?» ringhiò. «Ho dovuto farlo!» «Hai dovuto?» disse l'uruguaiano, attento a tenere la voce bassa. «Dovevamo cercare di non ferire le ragazze.» «La missione sarebbe stata a rischio se fosse riuscita a fuggire» ribatté Downer. «Mi hai sentito gridare, mi hai visto correre verso di lei... L'avrei bloccata prima che arrivasse alla porta esterna.» «Forse sì, forse no» intervenne Georgiev. «L'importante è che non sia scappata. Ora, tornate ai vostri posti. Vedremo di assisterla meglio che possiamo.» Barone gli scoccò un'occhiataccia. «È una ragazzina.» Il bulgaro lo guardò a sua volta di traverso. «Nessuno le ha detto di mettersi a correre!» L'uruguaiano, fumando di rabbia, non replicò. «Adesso abbiamo un ingresso sguarnito, e dobbiamo occuparci del cavo a fibre ottiche» continuò Georgiev. «Oppure preferiamo mandare tutto a monte a causa di quello!» Indicò la giovane ferita. Downer grugnì e si avviò verso la scala. Barone, sbuffando e scuotendo la testa, tornò davanti alla galleria. Georgiev li osservò allontanarsi. Che gli piacesse o no, l'episodio aveva cambiato le cose. Il crimine è un impegno che rende più intensi gli stati d'animo. Lo spazio ristretto acuisce le emozioni, e un dramma inatteso aggrava ulteriormente la situazione. «Deve consentirmi di portarla fuori di qui.» Il bulgaro si voltò. La donna asiatica era in piedi accanto a lui. Non l'aveva nemmeno sentita avvicinarsi. «No» rispose. Era distratto. Doveva ritrovare la concentrazione, recuperare la fiducia dei suoi uomini, fare maggiori pressioni sull'ONU. E pensava di sapere come. «Ma morirà dissanguata...» protestò la donna. Georgiev andò verso una delle sacche da viaggio. Non voleva che la ragazza ci lasciasse le penne perché ciò avrebbe potuto suscitare la ribellione. Tirò fuori dalla borsa una piccola scatola blu, tornò sui suoi passi e la consegnò alla donna. «Usi questa.» «Una cassetta di pronto soccorso? Servirà a poco.» Tom Clancy
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«È tutto quello che posso darle.» «Ma potrebbe esserci un'emorragia interna, degli organi lesionati...» Un cenno della mano di Downer richiamò l'attenzione di Georgiev. L'australiano stava indicando la porta. «Dovrà arrangiarsi con quella» tagliò corto il bulgaro, facendo segno a Vandal di raggiungerlo. Quando il francese arrivò, gli disse di assicurarsi che la donna asiatica non tentasse di filarsela, poi si diresse verso la scala. Si fermò accanto a Downer. «Cosa c'è?» «È qui» biascicò l'australiano. «Il segretario generale. Ha bussato a questa stramaledetta porta e ha chiesto di entrare.» «Non ha detto altro?» «No.» Georgiev guardò al di là dell'australiano. Concentrati, rammentò a se stesso. Le cose erano cambiate. Doveva riflettere. Se avesse lasciato entrare Chatterjee, gli sforzi della donna sarebbero stati diretti a ottenere assistenza medica per la ragazza, non la somma di denaro che avevano richiesto. E se avesse lasciato uscire la violinista, la stampa avrebbe scoperto che una ragazza era stata ferita, forse uccisa. Ciò avrebbe aumentato le pressioni per un intervento militare, nonostante i rischi per gli ostaggi. C'era anche la possibilità che la ragazza riprendesse conoscenza in ospedale, nel qual caso avrebbe potuto descrivere al personale della sicurezza come erano distribuiti i terroristi e i sequestrati. Naturalmente, Georgiev poteva sempre consentire l'ingresso del segretario generale e negare il rilascio della ragazza. Che cosa avrebbe fatto Chatterjee? Avrebbe messo a repentaglio le vite delle altre violiniste rifiutandosi di collaborare? Non è da escludere, pensò. E averla lì tra i piedi a sfidare la sua autorità poteva imbaldanzire i prigionieri o anche indebolire l'influenza che esercitava sui suoi uomini. Georgiev si voltò verso gli ostaggi. Aveva chiarito all'ONU come mettersi in contatto con lui e che cosa dire. L'istinto gli suggeriva di scendere le scale, afferrare un altro rappresentante e fargli ripetere il discorsetto del suo collega defunto. Perché mai avrebbe dovuto modificare il suo piano, lasciando pensare che mancava di risolutezza? Perché situazioni del genere sono fluide, si disse. Poi gli venne in mente, tutto a un tratto, come sempre accadeva con le sue migliori idee, il modo di dare a Chatterjee ciò che voleva senza Tom Clancy
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compromettere le sue richieste. L'avrebbe incontrata. Ma non come lei si aspettava.
29 Sabato, ore 23.33, Washington, D.C. Bob Herbert era quasi sempre stato un tipo bonario. Più di quindici anni prima, le sue ferite e la perdita della moglie lo avevano fatto cadere in uno stato depressivo che era durato quasi un anno. Ma la fisioterapia lo aveva aiutato a sconfiggere l'autocommiserazione, e tornare a lavorare per la CIA era servito a fargli ritrovare l'autostima andata distrutta nell'attentato all'ambasciata americana di Beirut. Da quando, quasi tre anni or sono, aveva contribuito a varare l'Op-Center, Herbert aveva conosciuto alcune delle sfide e gratificazioni più grandi della sua carriera. Sua moglie avrebbe trovato molto divertente che l'inguaribile musone che aveva sposato, l'uomo che aveva dovuto costantemente tirar su di morale, fosse noto nel National Crisis Management Center come Mister Ottimismo. Seduto da solo nel suo ufficio buio, rischiarato unicamente dal bagliore diffuso dal monitor del computer, Herbert non si sentiva né bonario né ottimista. Non era turbato soltanto dal fatto che la figlia di Paul Hood fosse uno degli ostaggi trattenuti alle Nazioni Unite. Né soltanto dalla consapevolezza che situazioni di quel tipo si concludevano invariabilmente con un bagno di sangue. Talora si risolvevano rapidamente, se il Paese o l'organismo interessato stanava gli intrusi prima che fossero ben asserragliati, altre volte lentamente, evolvendosi da una condizione di stallo a un assedio, che sfociava in un assalto non appena veniva formulato un piano. Nelle rare occasioni in cui si raggiungeva un accordo negoziato, ciò di solito accadeva perché i terroristi avevano catturato degli ostaggi solo per richiamare l'attenzione su una causa. Quando invece esigevano del denaro o il rilascio di prigionieri - che era il caso più comune -, allora le cose erano più complicate. A preoccuparlo erano soprattutto due fatti. Primo, il bersaglio erano le Nazioni Unite, un'organizzazione che non aveva mai subito attacchi del genere e che mai in passato, in nessuna circostanza, era ricorsa alla linea dura con enti ostili. Secondo, l'allarmante e-mail che aveva appena ricevuto da Darrell McCaskey riguardo la lista degli invitati alla serata Tom Clancy
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dell'ONU. Che diavolo di organizzazione amministravano quelle candide anime internazionali? McCaskey si trovava nell'ufficio dell'Interpol di Madrid. L'ex agente dell'FBI di recente aveva aiutato l'amico Luis Garcìa de la Vega a sventare un golpe e si era fermato in Spagna per trascorrere un po' di tempo con la sua compagna ferita, Maria Corneja. Le immagini dell'assalto al quartier generale dell'ONU riprese dalle videocamere di sorveglianza erano state trasmesse all'Interpol per vedere se qualche attacco terrorista nei loro archivi corrispondesse al modus operandi di questo commando. All'Interpol era stato inviato anche un elenco dei rappresentanti e degli ospiti intervenuti al ricevimento nella sala del Consiglio di Sicurezza. Mezz'ora prima, McCaskey aveva fatto pervenire l'informazione a Herbert. Tutti i partecipanti erano legittimi rappresentanti dei loro Paesi, il che però non faceva necessariamente di loro dei membri del corpo diplomatico. Per oltre cinquant'anni, innumerevoli spie, contrabbandieri, sicari e corrieri della droga erano sgattaiolati dentro e fuori il Palazzo di Vetro sotto le spoglie di diplomatici. Tuttavia, le Nazioni Unite avevano stabilito un nuovo primato personale negativo non effettuando alcuna verifica su due degli invitati. Quando si erano presentati all'ONU, appena due giorni prima, avevano fornito dei dati biografici che non trovavano conferma negli archivi informatici di nessuna delle scuole e delle imprese menzionate. O i loro governi non avevano fatto in tempo a violare quei file e inserirvi i dati, oppure i due non si aspettavano di restare a New York abbastanza a lungo da essere scoperti. La domanda cui Herbert aveva bisogno di dare una risposta era: chi erano? McCaskey aveva ottenuto le loro fotografie dal segretario generale aggiunto dell'amministrazione e capo del personale delle Nazioni Unite. Non appena gli giunsero per posta elettronica, il capo dell'intelligence dell'Op-Center le fece girare in un database che conteneva le foto segnaletiche di oltre ventimila tra agenti stranieri, contrabbandieri e terroristi internazionali. I due invitati erano in quel file. Herbert lesse le poche informazioni disponibili sul passato della coppia: quelle autentiche, non quelle false che avevano propinato all'ONU. Non sapeva nulla degli individui che avevano occupato la sala del Consiglio di Sicurezza, ma sapeva questo: per quanto pericolosi fossero quei cinque Tom Clancy
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terroristi, questi due potevano essere considerati a ragione molto peggio. Gli Striker lo avevano avvisato che stavano tornando a Washington senza il generale Rodgers e il colonnello August. Ignorava dove si trovasse August, ma era certo che Rodgers fosse insieme a Hood. Senza perdere tempo, chiamò il suo ex direttore sul cellulare.
30 Sabato, ore 23.34, New York Non una sola volta nella sua lunga storia la Cambogia aveva conosciuto la pace. Prima del Quindicesimo secolo, la Cambogia era una potenza militare in espansione. Sotto il bellicoso regno dei grandi imperatori khmer, la nazione aveva conquistato l'intera valle del Mekong, governando un territorio che comprendeva l'odierno Laos, la penisola di Malacca e parte del Siam. Tuttavia, nelle indomite regioni del Siam e nello stato di Amman, nel Vietnam centrale, sorsero degli eserciti che, nel corso dei secoli successivi, ricacciarono poco per volta indietro le armate khmer, fino a minacciare la stessa monarchia. Nel 1863, il disperato re della Cambogia accettò il protettorato francese. Un lento e costante potenziamento militare portò alla riconquista di territori che vennero nuovamente perduti con l'occupazione giapponese dell'Indocina durante la Seconda guerra mondiale. L'autonomia fu ripristinata dopo il conflitto, con il principe Norodom Sihanouk alla guida del Paese. Sihanouk venne destituito nel 1970 con un golpe capeggiato dal generale Lon Nol e sostenuto dagli USA. Sihanouk formò un governo in esilio a Pechino mentre i khmer rossi comunisti scatenavano una guerra civile che avrebbe rovesciato il regime di Lon Nol nel 1975. Sihanouk tornò al potere con un traballante governo di coalizione in quella che all'epoca aveva preso il nome di Kampuchea Democratica. Il suo primo ministro era Son Sann, un individuo spietato e fanatico anticomunista. Ma Sihanouk e il suo governo furono ben presto rimpiazzati dal più moderato e incapace Khieu Samphan, che aveva come primo ministro il crudele e ambizioso Pol Pot, un maoista convinto che l'istruzione fosse una sciagura e che il ritorno alla terra potesse trasformare il Paese in un'utopia. Invece, sotto la sua feroce tirannia, la Cambogia divenne sinonimo di campi di sterminio; tortura, genocidio, lavori forzati e carestia causarono la morte di oltre due milioni Tom Clancy
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di persone - un cambogiano su cinque. Il dominio di Pol Pot durò sino al 1979, allorché i vietnamiti invasero la nazione, conquistando Phnom Penh e insediando un governo comunista guidato da Heng Samrin. Ma Pol Pot e i khmer rossi controllavano ancora vaste zone di quella che adesso si chiamava Repubblica Popolare di Kampuchea, e la guerra continuò a devastare il Paese. I vietnamiti si ritirarono nel 1989 davanti all'alto tributo di sangue pagato dalle truppe di occupazione a causa della guerriglia. Il loro ritiro lasciò il nuovo primo ministro Hun Sen a fronteggiare gruppi che comprendevano i khmer rossi di sinistra, i khmer blu di destra, l'Armata Nazionale di Sihanouk, fedele al deposto principe, le Forze Armate Nazionali khmer di Lon Nol, i khmer loeu (le tribù delle colline), i khmer vietminh, appoggiati da Hanoi, e quasi una dozzina d'altri. Nel 1991, con l'economia e l'agricoltura nazionali allo sfascio, le fazioni in lotta siglarono finalmente un accordo che prevedeva un cessate il fuoco, un disarmo su larga scala, la presenza di una forza di pace delle Nazioni Unite ed elezioni sotto la supervisione dell'ONU. Si formò una nuova coalizione con il partito di Hun Sen, che restaurò la monarchia e riportò sul trono Sihanouk. Preoccupati di dover cedere troppo potere, i khmer rossi ripresero i combattimenti. La lotta perse un po' del suo slancio nel 1998 con la morte di Pol Pot. Ciononostante, altri ufficiali superiori e quadri dei khmer rossi rimasero sul campo e giurarono di proseguire la guerra. La conseguenza di un così gran numero di entità politiche e militari in lotta per il potere fu una feroce competizione tra la polizia segreta del governo e gli agenti ribelli per accaparrarsi armi e informazioni, il che diede origine a una rete clandestina senza precedenti di spie, sicari e contrabbandieri. Alcuni di questi lavoravano per quello che credevano fosse il bene della loro patria, altri solo per il proprio tornaconto personale. Per quasi un decennio, la trentaduenne Ty Sokha Sary e il trentanovenne marito Hang Sary erano stati agenti dell'antiterrorismo al servizio delle Forze Armate Popolari di Liberazione Nazionale, il braccio militare del Fronte Popolare di Liberazione Nazionale dei khmer, fondato nel marzo del 1929 dall'ex primo ministro Son Sann con lo scopo, almeno inizialmente, di scacciare i vietnamiti dalla Cambogia. Una volta raggiunto questo obiettivo, il Fronte Popolare si dedicò a liberare la nazione da qualunque influenza straniera. Benché Son Sann fosse stato designato a far parte del Consiglio Nazionale Supremo, che governava il Paese sotto Sihanouk, il leader in privato osteggiava il coinvolgimento delle Nazioni Tom Clancy
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Unite. Sann era soprattutto contrario all'intervento di soldati cinesi, giapponesi e francesi; non credeva potesse esistere un esercito di occupazione benevolo. Sebbene le truppe fossero impegnate nel mantenimento della pace, la loro sola presenza bastava a corrompere il carattere e la forza della nazione. Ty e Hang erano pienamente d'accordo con Son Sann. E venendo in Cambogia, un ufficiale straniero aveva fatto assai più che contaminare la loro cultura. Aveva distrutto qualcosa di molto prezioso per Hang. Ty Sokha si inginocchiò accanto alla ragazza americana ferita. Non doveva avere più di quattordici o quindici anni. La donna cambogiana aveva visto tante adolescenti come lei, ferite o agonizzanti... o già morte. Una volta aveva aiutato Amnesty International a localizzare una fossa comune nei dintorni di Kompong Cham dov'erano seppelliti oltre duecento cadaveri decomposti, appartenenti perlopiù a donne anziane e bambini. Alcuni di loro avevano degli slogan antigovernativi dipinti o incisi sul corpo. Ty aveva anche causato almeno tre dozzine di morti conducendo Hang da infiltrati e ufficiali nemici affinché potesse strangolarli o conficcargli uno stiletto nel cuore durante il sonno. A volte Ty non si prendeva il disturbo di avvisare il marito. A volte completava il lavoro da sola. Al pari della gran parte degli agenti segreti dell'esercito che operavano da soli o in coppia, Ty era addestrata in interventi di primo soccorso e aveva esperienza di sbrigliamento delle ferite. Sfortunatamente, la cassetta di pronto soccorso che le era stata data era inadeguata al caso. Non c'era foro di uscita, il che significava che il proiettile era ancora all'interno. Se la ragazza si fosse mossa, avrebbe potuto causare danni ulteriori. Ty usò l'antisettico per pulire meglio che poteva la piccola ferita rotonda, poi la coprì con della garza che fissò con strisce di cerotto. Lavorava con cautela ed efficienza, ma con meno distacco del solito. Sebbene fosse ormai da lungo tempo desensibilizzata al terrorismo e all'omicidio, quella ragazza e le circostanze dell'attacco le erano troppo penosamente familiari. Si trattava di Phum, naturalmente, la cara sorella minore di Hang. Ripensò agli eventi che li avevano portati in un luogo tanto improbabile. Un luogo così lontano da quello da cui erano partiti. Ty era cresciuta in un minuscolo villaggio di contadini a metà strada tra Phnom Penh e Kampot sul Golfo del Siam. I suoi genitori erano periti a causa di un'inondazione quando aveva sei anni, ed era andata a vivere con Tom Clancy
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il cugino di secondo grado Hang Sary e la sua famiglia. Ty e Hang si adoravano, ed era sempre stato dato per scontato che si sposassero. Alla fine lo avevano fatto, appena prima di partire insieme per una missione nel 1990. Erano da soli, tranne un sacerdote e suo figlio, in mezzo a un violento temporale che aveva spazzato via la capanna del religioso. Era stato il momento più bello della sua vita. Il padre di Hang era un acceso sostenitore di Sihanouk, e scriveva articoli per il giornale locale su come la politica liberista del principe avesse aiutato gli agricoltori. In una scura, afosa notte d'estate del 1982, mentre Ty e Hang erano in città, alcuni soldati dell'Armata Nazionale della Kampuchea Democratica di Pol Pot avevano portato via con la forza il padre, la madre e la giovane sorella di Hang. Lui aveva ritrovato i genitori due giorni più tardi. Suo padre giaceva in un canale lungo una strada sterrata. Aveva le braccia legate dietro la schiena per lussare le spalle; i piedi e le ginocchia erano stati rotti affinché non potesse né camminare né strisciare; la bocca era stata riempita di terra e la gola bucata in modo da provocare una lenta morte per dissanguamento. Sua madre era stata strangolata davanti al marito inerme. Di sua sorella, nessuna traccia. Il mondo dei due cugini era cambiato. Hang si era messo in contatto con il Fronte Popolare di Liberazione Nazionale di Son Sann, che appoggiava il principe, dicendo che intendeva continuare a scrivere articoli dello stesso tenore di quelli del padre, ma non soltanto per favorire Sihanouk. Quello che voleva era attirare allo scoperto i sicari dell'Armata Nazionale di Pol Pot e ripagarli per ciò che avevano fatto alla sua famiglia. Prima di permettere a Ty e Hang di fare da esca, il capo dei servizi segreti del Fronte Popolare li aveva addestrati all'uso delle armi. Due mesi dopo, la piccola banda di khmer rossi si era presentata alla loro capanna. Hang e Ty erano preparati ad accoglierli e li avevano uccisi ancor prima che la guardia del Fronte Popolare potesse chiedere aiuto. In seguito, avevano appreso le tecniche di sorveglianza e si erano affinati nell'arte dell'assassinio. Un manuale della CIA trovato in Laos aveva insegnato loro a utilizzare spilloni per cappelli, calze piene di pietre, persino carte di credito rubate per infilzare occhi, spezzare colli e tagliare gole. Avevano acquisito queste capacità per servire il loro Paese, e anche nella speranza di scovare un giorno il mostro che aveva ordinato l'esecuzione di Phum. Il mostro che era loro sfuggito perché era sotto la protezione dei khmer Tom Clancy
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rossi. Il mostro di cui avevano perso le tracce quando aveva lasciato la Cambogia, e che avevano ritrovato solo di recente. Il mostro che si trovava da qualche parte in quella sala. Un mostro di nome Ivan Georgiev.
31 Sabato, ore 23.35, New York Hood si sentiva solo e spaventato mentre saliva con l'ascensore fino alla sala d'attesa del sesto piano del dipartimento di Stato. Era lì che si trovavano tutti gli altri genitori. Non c'era nessun altro nella cabina, soltanto il suo dolente riflesso, distorto e colorato dalle lustre pareti dorate. Se non fosse stato certo che le telecamere della vigilanza lo stavano osservando e che avrebbe finito per farsi trascinare via come un pericolo pubblico, si sarebbe messo a urlare e a menare pugni all'aria. Era profondamente turbato per le voci di una sparatoria, e non sopportava di restare inattivo. La porta dell'ascensore si aprì, e mentre lui si dirigeva verso la guardia della sicurezza seduta alla scrivania, il suo cellulare squillò. Si fermò e diede le spalle all'agente prima di rispondere. «Sì?» «Paul, sono Bob. Mike è con te?» Hood conosceva bene la voce di Herbert. Il capo dell'intelligence parlava in fretta, e questo significava che era preoccupato per qualcosa. «Mike è andato in quell'agenzia di cui gli hai parlato. Perché?» Paul sapeva che Bob avrebbe dovuto esprimersi in modo obliquo, poiché la linea non era sicura. «Perché ci sono nella zona due persone di cui deve essere informato.» «Che genere di persone?» domandò Hood. «Tizi con un bel curriculum» rispose Herbert. Individui schedati, con una lunga serie di precedenti. C'era di che impazzire. Doveva saperne di più. «La loro tempestiva presenza in quel luogo potrebbe essere una coincidenza» proseguì il capo dell'intelligence «ma non voglio rischiare. Rintraccerò Mike nell'altro ufficio.» Hood tornò verso l'ascensore e premette il pulsante. «Ci sarò anch'io Tom Clancy
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quando lo farai. Qual è il nome?» «Doyle Shipping.» «Grazie» disse Paul mentre arrivava l'ascensore. Interruppe la comunicazione ed entrò. Sharon non l'avrebbe mai perdonato. Mai. E lui non poteva biasimarla. Oltre a lasciarla sola con degli estranei, era sicuro che il dipartimento di Stato non stava tenendo al corrente della situazione i genitori. Ma se i terroristi avevano dei complici all'interno di cui nessuno era a conoscenza, lui voleva rendersi disponibile per aiutare Rodgers e August. Mentre scendeva, estrasse dal portafoglio il tesserino identificativo dell'Op-Center. Attraversò in fretta l'atrio, uscì nella la Avenue, raggiunse di corsa l'altro lato della strada e proseguì per quattro isolati. Mostrò il tesserino al poliziotto di guardia fuori delle torri di United Nations Plaza. Sebbene le costruzioni di per sé non facessero parte del complesso dell'ONU, parecchi rappresentanti vi avevano i loro uffici. Varcò l'ingresso. Hood era senza fiato mentre firmava il registro e si dirigeva verso la prima fila di ascensori che portavano ai piani più bassi. Aveva ancora voglia di gridare e prendere a pugni l'aria, ma almeno di lì a poco sarebbe stato coinvolto in quanto stava accadendo. Almeno avrebbe potuto focalizzare la sua attenzione su qualcosa che non fosse la paura. Non una speranza, ma qualcosa di quasi altrettanto bello. Un'offensiva.
32 Sabato, ore 23.36, New York Era lui. Il tono monocorde, il contegno arrogante... era lui, che fosse maledetto! Ty Sokha non riusciva a credere di aver ritrovato Ivan Georgiev dopo dieci anni. Ora che gli era stata abbastanza vicina da sentire bene la sua voce sotto la maschera, da annusare il suo sudore, sapeva quale di quei mostri fosse. Diversi mesi prima, a Ustinoviks, un mercante d'armi che riforniva i khmer rossi, era stato chiesto di incontrare Georgiev in vista di un acquisto. Un informatore tra le fila dei khmer rossi, sapendo che Ty e Hang Sary lo stavano cercando, aveva venduto loro il nome del trafficante. Tom Clancy
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Benché non avessero fatto in tempo a intercettare il bulgaro quando era venuto a New York per il primo abboccamento con Ustinoviks, erano riusciti ad avvicinare il russo dopo che Georgiev se n'era andato e gli avevano fatto una semplice proposta: o li avvisava quando il suo acquirente sarebbe venuto a ritirare le armi oppure lo consegnavano all'FBI. Il russo aveva accettato di rivelargli l'ora e la data della consegna a condizione che non catturassero Georgiev durante la transazione, e loro avevano acconsentito. Peraltro, non intendevano mettere subito le mani su di lui. Volevano prenderlo mentre era intento a fare ciò per cui era venuto, quando il resto del mondo avrebbe visto, quando avrebbero potuto richiamare l'attenzione generale sul loro popolo e porre termine all'infinita sequela di omicidi cui avevano preso parte cercando di fermare i khmer rossi e minare il governo pietosamente debole di Norodom Sihanouk. Avevano osservato Georgiev e la sua banda concludere l'affare dal tetto del club vicino alla carrozzeria di Ustinoviks. Ty non era riuscita a vederlo chiaramente come quando lavorava come cuoca al campo dell'ONU, tenendo d'occhio gli infiltrati dei khmer rossi e assistendo alle scene degradanti di cui il bulgaro era responsabile. Ma le autorità governative non potevano fare nulla senza prove, e chiunque cercasse di procurarle - o tentasse di fuggire, come la povera Phum - non viveva abbastanza per riuscirvi. Dopo che Georgiev e i suoi uomini avevano ritirato le armi, Ty e Hang li avevano seguiti fino all'hotel. Le camere attigue alle loro erano prenotate, così avevano preso la stanza esattamente sotto. Avevano fatto passare un filo attraverso il soffitto sino al pavimento della camera di Georgiev, collegato un amplificatore e ascoltato i terroristi ripassare i piani. Quindi si erano recati nella sede della delegazione permanente del Regno di Cambogia dall'altra parte della strada e avevano aspettato. Ty Sokha distolse i grandi occhi scuri dalla ragazza ferita distesa accanto a lei, appena più vecchia di quanto fosse Phum quando era stata assassinata da uno degli scagnozzi di Georgiev. Ty rivolse lo sguardo a Hang, che era seduto sul pavimento, all'interno del tavolo a ferro di cavallo. L'agente segreto cambogiano aveva cambiato leggermente posizione in modo da poter vedere la moglie senza dare l'impressione di osservarla. Lei fece un cenno d'assenso con il capo. Lui annuì a sua volta. Tom Clancy
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Quando Georgiev avesse ridisceso le scale, allora sarebbe stato il momento.
33 Sabato, ore 23.37, New York Georgiev si fermò davanti alla doppia porta in fondo alla sala del Consiglio di Sicurezza. Stringeva in pugno la sua automatica, sebbene non pensasse che gli sarebbe servita. Reynold Downer era appostato a destra della porta, un'arma in ciascuna mano. «Vuoi farla entrare?» sussurrò. «No. Vado fuori io.» Georgiev notò l'espressione sbalordita dell'australiano dietro la maschera. «In nome di Dio, perché?» «E una lezione per dimostrare la futilità dei loro sforzi» spiegò il bulgaro. «Futilità? Ma prenderanno te come ostaggio!» ribatté Downer. Il segretario generale chiese nuovamente di essere ammesso nella sala. «Non correranno un rischio simile» disse Georgiev all'australiano. «Questo li convincerà che non hanno altra scelta che cooperare... e in fretta.» «Mi sembri un dannato diplomatico, adesso. E se riconoscessero il tuo accento?» «Parlerò con voce bassa e profonda. Probabilmente mi scambieranno per un russo.» Ora che ci pensava, sarebbe stato divertente se dell'intera operazione fosse stata incolpata Mosca o la mafia russa. «No, non sono d'accordo, maledizione!» sbottò Downer. Figuriamoci, pensò Georgiev. L'australiano sapeva usare i muscoli, ma non il cervello. «Non mi succederà niente» lo rassicurò. Lentamente, allungò la mano verso il pomello del battente di sinistra, lo girò e dischiuse la porta. Attraverso la fessura, vide Mala Chatterjee con le braccia lungo i fianchi, la testa e la schiena erette. Qualche passo più indietro c'era il capo della sicurezza, alle spalle del quale scorse alcune guardie con i loro scudi. Il volto del segretario generale era calmo, ma risoluto; l'ufficiale invece sembrava sul punto di sputare fiamme dalla bocca. Georgiev apprezzava Tom Clancy
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un simile atteggiamento in un avversario; ti impediva di compiacerti troppo. «Desidero parlare con lei» disse Chatterjee. «Ordini a tutti di indietreggiare» replicò Georgiev. Non reputò necessario aggiungere che se gli fosse accaduto qualcosa, gli ostaggi ne avrebbero subito le conseguenze. Chatterjee si volse e annuì verso il colonnello. Questi fece segno ai suoi uomini di arretrare. Le guardie obbedirono. Mott rimase dov'era. «Ho detto tutti» sibilò il bulgaro. «Faccia come ha detto, colonnello» disse Chatterjee senza voltarsi. «Ma, signora...» «Si allontani, per favore» ribadì lei in tono perentorio. Mott espirò dal naso, poi girò sui tacchi e raggiunse la sua squadra. Si fermò a meno di dieci metri, guardando il bulgaro in cagnesco. Ottimo, si disse Georgiev. Quella donna aveva appena «evirato» il suo capo della sicurezza. Il colonnello ora sembrava morire dalla voglia di estrarre la pistola e piantargli una pallottola in corpo. Mala Chatterjee continuava a fissare il capo dei terroristi. «Adesso, vada indietro anche lei.» La donna parve sorpresa. «Vuole che vada indietro anch'io?» Lui assentì. Lei arretrò di tre passi, poi si arrestò. Georgiev aprì un po' di più la porta. Gli scudi si sollevarono lievemente mentre le braccia dietro di essi si irrigidivano. Era come se una piccola scossa di ansia avesse percorso da un capo all'altro la fila di guardie. Sperava che il segretario generale potesse vedere, sentire, quanto fosse insostenibile la sua posizione. Un branco di oratori e scolaretti alle prime armi, ecco tutto quello che aveva. Georgiev rinfoderò la pistola, uscì e chiuse la porta dietro di sé con calma, senza timore. Era tentato di grattarsi la testa o il fianco soltanto per veder sobbalzare i pivelli in divisa che aveva di fronte. Ma non lo fece. Gli bastava sapere che lo avrebbero fatto. E soprattutto lo sapevano anche loro. Sapevano chi aveva più fegato, chi era maggiormente a suo agio. Uscire fuori era stata la cosa giusta da fare. Guardò la signora Chatterjee. «Che cosa vuole?» domandò. «Voglio risolvere questa situazione senza ulteriore spargimento di sangue» rispose la donna. «Dipende da lei. Deve solo darci quello che abbiamo chiesto.» Tom Clancy
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«Ci sto provando. Ma i Paesi interessati si sono rifiutati di pagare.» Se l'era aspettato. «Allora dovrà pagare qualcun altro» suggerì il bulgaro. «Lasci che gli Stati Uniti salvino di nuovo il mondo.» «Ne parlerò con il governo americano» promise Chatterjee «ma ci vorrà del tempo.» «Tutto il tempo che vuole. Il prezzo è una vita ogni ora.» «No, la prego. Ho qualcosa da proporle. Una moratoria. Avrò maggiori possibilità di soddisfare le vostre richieste se potrò dire che state collaborando.» «Collaborando? Siete voi che state sprecando tempo.» «Ma ci vorranno ore, forse giorni.» Georgiev fece spallucce. «Allora saranno le sue mani a macchiarsi di sangue, non le mie.» Mala Chatterjee sosteneva sempre il suo sguardo, benché avesse perso un po' della sua compostezza. Aveva il respiro accelerato, gli occhi più inquieti. Buon segno. Georgiev voleva remissività, non una trattativa. Dietro di lei, notò il capo della sicurezza muoversi nervosamente. Non doveva provenire dai ranghi del comando ONU; sembrava una tigre in gabbia. Il segretario generale abbassò gli occhi e scosse lentamente il capo. Non aveva mai dovuto affrontare nulla del genere prima d'ora. Georgiev provò quasi pena per lei. Cosa può fare un diplomatico quando il suo interlocutore continua a dire di no? «Le do la mia parola» insistette lei. «Interrompa le esecuzioni. Le farò avere tutto ciò che vuole.» «Me lo farà avere comunque» replicò lui. Chatterjee lo guardò. Sembrava cercare qualcos'altro da dire, ma ormai era già stato detto tutto. Georgiev si voltò verso la porta. «Non lo faccia» lo pregò Chatterjee. Lui posò la mano sul pomello. Lei gli si avvicinò. «Ma non capisce? Questo non gioverà a nessuno.» Gli afferrò il braccio, disperata. Georgiev tirò indietro il braccio, ma la donna non mollò la presa. «Mi deve ascoltare!» implorò. Quindi la pacificatrice sapeva usare anche gli artigli. L'uomo si divincolò con uno strattone. Mala Chatterjee finì contro la parete vicino alla porta. Georgiev tornò a girarsi. Il bulgaro udì dei passi alle sue spalle. Allungò la mano per prendere l'automatica e si voltò proprio mentre un gomito attraversava fulmineo il suo campo visivo. Un turbine rosso gli Tom Clancy
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velò gli occhi, il ponte del naso e la fronte persero ogni sensibilità, la testa prese a girargli. Stava lottando per riprendersi dallo stordimento quando un secondo colpo fece calare il buio.
34 Sabato, ore 23.42, New York «È appena successo qualcosa» disse Mike Rodgers a Paul Hood. Il generale era seduto davanti al computer con Ani Hampton. Hood li aveva raggiunti pochi istanti prima, ancora ansante per la corsa. Ani lo aveva controllato con la telecamera di sorveglianza piazzata fuori dalla porta e lo aveva fatto entrare. Rodgers era impaziente di sapere cosa l'avesse portato lì, ma ciò che stava accadendo con Mala Chatterjee era quello che i militari chiamavano «notizie in diretta». Ani aveva collegato l'audio della cimice agli altoparlanti del computer. Sebbene venisse tutto registrato, non voleva perdersi una sola parola della conversazione quasi impercettibile tra il segretario generale e il terrorista. «Paul Hood, Annabelle Hampton.» Rodgers fece le presentazioni ora che non riusciva praticamente a sentire più nulla. Ani salutò con uno sguardo fugace e un cenno del capo; sembrava profondamente assorta negli avvenimenti in corso. «Pensiamo che sia accaduto qualcosa fuori dalla sala del Consiglio di Sicurezza» spiegò Rodgers a Hood. «Uno dei terroristi è uscito per parlare con il segretario generale. Da quel che si è capito, lei ha urlato e poi qualcuno... probabilmente il colonnello Mott delle forze di sicurezza dell'Onu, che a quanto pare non era lontano... ha assalito il terrorista. Dovrebbe essere caduto nelle loro mani, ma non possiamo esserne certi. Parlano tutti a bassa voce.» Ascoltarono in silenzio ancora per un istante, poi Hood disse: «Può darsi che non c'entri niente con quello che sta avvenendo, ma ho appena ricevuto una chiamata da Bob. Ci sono due persone all'interno dell'aula del Consiglio di Sicurezza che hanno trascorso otto anni con le Forze Armate Popolari di Liberazione Nazionale dei khmer in Cambogia. Hanno iniziato come agenti antiterrorismo combattendo i khmer rossi e poi sono diventati sicari al servizio di Son Sann». Ani gli scoccò un'occhiata. «Sono entrati nel Paese due giorni fa con il benestare di qualcuno del Tom Clancy
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loro governo, benché i loro precedenti fossero stati intenzionalmente occultati» proseguì Hood. «Il punto è: si trovano lì per caso, stanno collaborando con i terroristi, oppure c'è qualcos'altro in ballo di cui siamo all'oscuro?» Rodgers scrollò la testa mentre qualcuno suonava alla porta. Sullo schermo del computer apparve l'immagine ripresa dalla telecamera di sorveglianza: era Brett August. Rodgers rivolse un cenno d'assenso ad Ani e la donna allungò una mano sotto la scrivania per azionare il pulsante d'apertura della porta. Il generale si scusò e andò ad accogliere il comandante dello Striker Team. Mentre si affrettava verso l'area della reception, rifletté sul fatto che quello era il genere di situazione che i negoziatori di ostaggi di tutto il mondo affrontavano ogni giorno. Alcune delle crisi erano eventi politici di ampie proporzioni che facevano notizia; altre erano piccole e riguardavano una o due persone in un appartamento o in un negozio. Ma tutte, ovunque si verificassero e chiunque vi fosse coinvolto, avevano una cosa in comune: la volubilità. Per sua esperienza, le battaglie potevano cambiare rapidamente, ma tendevano a cambiare in massa. Acquistavano inerzia e proseguivano in una sola direzione con l'avanzare e il retrocedere degli eserciti in lizza. Le situazioni con ostaggi erano diverse. Erano soggette a un'estrema fluidità. Procedevano attraverso scatti in avanti, fasi di stallo, scarti, sobbalzi, e poi prendevano pieghe imprevedibili. E più era la gente coinvolta, più era probabile che le cose mutassero in maniera drammatica da un momento all'altro. Specialmente se quella gente era un miscuglio di adolescenti spaventati, terroristi fanatici, assassini risoluti e diplomatici la cui unica arma era la parola. Il colonnello August era coperto di sudore e sporco d'olio. Salutò Rodgers, quindi gli spiegò che era rotolato giù dalla rampa di carico idraulica del C-130 mentre veniva sollevata. Poiché era buio, nessuno se n'era accorto. C'era un salto di un metro e mezzo tra il bordo della rampa e la pista, ma il colonnello se l'era cavata solo con qualche ammaccatura; il giubbotto antiproiettile in kevlar che indossava sotto la felpa aveva attutito parzialmente l'impatto. Poiché era travestito da turista, aveva con sé il portafoglio e abbastanza soldi per pagare la corsa in taxi fino a Manhattan. Rodgers lo mise al corrente degli ultimi sviluppi della situazione mentre si dirigevano verso l'ufficio di Ani. August si fermò all'improvviso. Tom Clancy
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«Aspetta un attimo» disse a bassa voce. «Qualcosa non va?» gli chiese il generale. «Ci sono un paio di killer cambogiani nella sala del Consiglio di Sicurezza?» «Sì, esatto.» August restò un attimo pensoso, poi accennò con il capo verso gli uffici. «Lo sapevi che la tua signorina lì dentro lavorava per la CIA in Cambogia?» «No» rispose Rodgers, decisamente sorpreso. «Raccontami tutto.» «Ho scaricato il suo file durante il volo» spiegò il colonnello. «Ha reclutato agenti in Cambogia per quasi un anno.» La mente di Rodgers passò in rassegna alcuni possibili scenari in cerca di qualche nesso. «Ho notato che ha firmato il registro di entrata circa un quarto d'ora prima dell'attacco. Ha detto che doveva rimettersi in pari con del lavoro.» «Può darsi che sia vero.» «Già, può darsi. Però è venuta qui presto ed è attrezzata per ascoltare abusivamente le conversazioni del segretario generale. Inoltre, ha una TAC-SAT in ufficio.» «Non fa parte della dotazione standard della CIA» osservò August. «Infatti» convenne Rodgers. «Mi sembra un bel sistema se vuoi trasmettere informazioni alle persone coinvolte in questo attacco.» «Sì, ma da che parte della barricata?» «Non lo so.» «La TAC-SAT è accesa?» «Non so dirtelo. È dentro una borsa.» August fece una risatina. «Passi troppo tempo dietro una scrivania. Rimboccati le maniche.» «Che intendi dire?» domandò il generale. «Avvicina il braccio all'unità.» «Continuo a non seguirti.» «I peli. Elettricità statica.» «Merda! Hai ragione.» Un apparecchio isolato, quando è in funzione, genera una scarica elettrica: elettricità statica. Questo gli avrebbe fatto rizzare i peli del braccio quando si fosse accostato. Rodgers annuì, e proseguirono verso l'ufficio. Nessuno dei due uomini era un allarmista. Ma sin dall'inizio delle loro carriere, che fossero una oppure migliaia le vite umane che dipendevano dalle loro decisioni, non avevano mai preso nulla alla leggera. E mentre varcava la soglia dell'ufficio, il generale ricordò a se stesso qualcosa che la CIA aveva imparato sulla propria pelle: la volubilità non apparteneva solo al mondo esterno. Tom Clancy
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35 Sabato, ore 23.43, New York Per qualche istante, il silenzio nel corridoio fuori dal Consiglio di Sicurezza fu assoluto. Poi il segretario generale Chatterjee si discostò dalla parete contro cui era stata scagliata e spostò lo sguardo dal terrorista prono a terra al colonnello Mott. «Non aveva alcun diritto di farlo!» sussurrò con asprezza. «Era stata aggredita» bisbigliò l'ufficiale di rimando. «È mio dovere proteggerla.» «Sono stata io ad afferrarlo per...» «Non importa.» Mott fece segno a due delle guardie schierate di venire avanti, poi si volse verso Chatterjee. «Ormai siamo in ballo.» «Contro il mio volere!» scattò la donna. «Signora, discuteremo di questo più tardi. Non abbiamo molto tempo.» «Per cosa?» I due uomini della sicurezza arrivarono. «Spogliatelo» ordinò Mott sottovoce, indicando il terrorista. «In fretta.» I due si misero subito all'opera. «Ma che intenzioni ha?» volle sapere il segretario generale. Il colonnello cominciò a sbottonarsi la camicia. «Voglio entrare» rispose. «Con i suoi vestiti.» Chatterjee era attonita. «No, nel modo più categorico.» «Ce la posso fare. Siamo più o meno della stessa taglia.» «Non senza la mia autorizzazione.» «Non mi occorre la sua autorizzazione» replicò lui mentre si levava la camicia e le scarpe. «Articolo 13C, comma 4 del regolamento di sicurezza. Nell'eventualità di una minaccia diretta contro il segretario generale, devono essere adottate tutte le misure necessarie. Quest'uomo l'ha colpita. Ne sono stato testimone. Per qualche motivo, la telecamera a fibre ottiche non funziona. Ci stiamo avvicinando allo scoccare di un'altra ora, e potrebbero fare del male a qualche altra ragazza. Mi aiuti a mettere fine a questa faccenda. Aveva un accento particolare?» «La scopriranno.» «Non abbastanza presto.» Conscio di ogni secondo che passava, Mott si chiedeva quanto a lungo i terroristi all'interno della sala avrebbero Tom Clancy
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aspettato il ritorno del loro compagno, temendo ciò che avrebbero potuto fare per riaverlo. «Adesso, per favore» insistette «aveva qualche accento?» «Dell'Europa orientale, credo» rispose Chatterjee. Sembrava inebetita. Il colonnello abbassò lo sguardo mentre uno dei suoi uomini toglieva la maschera a Georgiev. «Per caso lo conosce?» Lei fissò il volto massiccio e non rasato; c'era del sangue sullo spesso dorso nasale. «No» disse piano. «E lei?» Mott girò gli occhi verso la porta del Consiglio di Sicurezza. «Neanch'io.» Che si trattasse dell'ansia che provava o dell'istinto del vecchio poliziotto che lavorava sotto copertura, percepiva una crescente tensione all'interno della sala. Doveva allentarla prima che esplodesse. Fece cenno al suo uomo di passargli la maschera, la indossò, quindi si curvò sul terrorista svenuto e si strofinò un po' del sangue del suo naso sul boccaglio. «Adesso non dovrò parlare con nessun accento.» Chatterjee lo osservò mentre terminava rapidamente di indossare il maglione, i calzoni e le scarpe. «Porta tutti nella sala del Consiglio di Amministrazione fiduciaria» disse il colonnello al suo ufficiale in seconda, il tenente Mailman. «Vi voglio accanto alle porte, rapidi e furtivi. Formate due squadre: una per difendere il perimetro, l'altra per tirare fuori gli ostaggi. Entrate quando sentite sparare.» Mott raccolse l'automatica di Georgiev e controllò il caricatore: era quasi pieno. «Non aprirò il fuoco finché non sarò nella posizione giusta per colpire uno o più terroristi. Cercherò di restare sul lato nord per attirare il loro fuoco lontano da voi. Sapete come sono vestiti; eliminateli. Assicuratevi solo di non sparare al tizio che sta sparando contro di loro.» «Sì, signore» rispose il tenente. «Signora, mi metterei in contatto con l'Interpol per scoprire chi è questo individuo.» Il colonnello sputò praticamente fuori la parola. «Se qualcosa andasse storto, l'informazione potrebbe tornare utile per fermarli.» «Colonnello, sono contraria a tutto questo» protestò Chatterjee. Il segretario generale aveva ripreso la padronanza di sé e si stava inalberando. «Metterà in pericolo la vita di coloro che si trovano nella sala.» «Quelli là dentro andranno tutti all'altro mondo se non li tiriamo fuori» replicò lui. «Non è ciò che le ha detto questo tipo?» Indicò Georgiev con il piede. «Non è per questo che ha tentato di trattenerlo?» «Volevo che la smettessero di uccidere...» Tom Clancy
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«E a lui non fregava un bel niente di quello che voleva lei» ribatté Mott in uno stridulo sussurro. «No, è vero» ammise Mala Chatterjee. «Ma potrei ancora entrare, provare a parlare con gli altri...» «Non dopo questo. Vorranno sapere dov'è il loro complice. Che cosa racconterà loro?» «La verità. Potrei persuaderli a cooperare. Magari potremmo scambiarlo con degli ostaggi.» «È da escludere. Abbiamo bisogno di lui per cavargli delle informazioni. E succeda quel che succeda, questo bastardo sarà processato.» Mott aveva sempre ammirato la perseveranza della signora Chatterjee, ma al momento gli appariva più ingenua che utopica. Mentre il tenente Mailman formava due gruppi, il colonnello fece cenno alla squadra medica di emergenza di avvicinarsi. Caricarono il terrorista su una barella, alla quale lo assicurarono con il paio di manette di uno degli agenti della sicurezza. «Portatelo in infermeria, e tenetelo ammanettato» disse Mott al capo dell'équipe medica. Il tenente segnalò al suo superiore che era pronto. Il colonnello Mott gli indicò trenta con le dita. Controllò l'ora mentre le due squadre di Mailman si dirigevano verso la sala del Consiglio di Amministrazione fiduciaria. Poi iniziò a contare trenta secondi. «Colonnello, la prego...» lo esortò Chatterjee. «Se entra lei, non potrò farlo io.» «Lo so» disse lui. Venticinque secondi. «Ma è un errore!» insistette lei, alzando per la prima volta la voce. Ci fu uno scricchiolio alla porta del Consiglio di Sicurezza, come se qualcuno vi si fosse appoggiato contro. Lo sguardo di Mott si spostò dalla porta al segretario generale, al suo orologio. Restavano venti secondi. «Sarà un errore soltanto se falliremo» replicò lui pacatamente. «Per favore, signora. Ormai non c'è più tempo per discutere. Adesso si faccia indietro, così non rischierà di essere ferita.» «Colonnello...» riprese la donna, poi si interruppe. «Che Dio la protegga. Che Dio protegga tutti voi.» «Grazie.» Ancora quindici secondi. Tom Clancy
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Con riluttanza, Chatterjee arretrò di qualche passo. Il colonnello Mott focalizzò la sua attenzione su ciò che stava per fare. Poteva sentire il sapore del sangue del terrorista attraverso la maschera. C'era qualcosa di appropriatamente barbaro, vichingo, in questo. Infilò la pistola del terrorista nella cintura, poi fletté le dita coperte dai guanti, ansioso di entrare e portare a termine la sua missione. Dieci secondi. Oltre vent'anni prima, quando era un cadetto del NYPD all'accademia tra la 20a Strada e la 2a Avenue, un istruttore di tattica e strategia gli aveva detto che il loro lavoro poteva essere paragonato al gioco dei dadi. Ogni poliziotto, ogni soldato, aveva un dado con sei facce: determinazione, destrezza, inflessibilità, ingegnosità, coraggio e forza. Per la maggior parte del tempo, effettuavi dei lanci di prova. Ti addestravi, facevi la ronda, pattugliavi le strade, cercando di perfezionare il movimento del polso, di acquisire l'istinto e le malizie del mestiere. Perché quando sarebbe venuto il momento di gettare i dadi sul serio, dovevi saper impiegare tutte quelle qualità meglio del tuo avversario, spesso in una frazione di secondo. Mott l'aveva sempre tenuto a mente durante i suoi vent'anni di servizio a Midtown South. Se lo ricordava ogni volta che si introduceva in un appartamento senza avere la minima idea di chi ci fosse dall'altro lato della porta, o fermava un'auto senza sapere cosa fosse nascosto sotto il giornale posato accanto al conducente. E se lo ricordò anche adesso. Richiamò ogni riflesso immagazzinato nella memoria, nelle ossa, nell'anima. E per maggior sicurezza, vi aggiunse le parole che uno degli astronauti del Mercury - non rammentava quale - aveva pronunciato, mentre aspettava di essere lanciato nello spazio: «Signore, ti prego, non farmi combinare un casino». Cinque secondi. Pronto e vigile, Mott si avvicinò alla porta del Consiglio di Sicurezza, gemendo come se fosse stato ferito, la spalancò e varcò la soglia della sala.
36 Sabato, ore 23.48, New York Quando i genitori arrivarono nella sala d'aspetto del dipartimento di Stato, vennero messi a loro disposizione alcuni telefoni. Sharon scelse una poltrona nell'angolo della stanza ben illuminata e per prima cosa chiamò Tom Clancy
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Alexander in hotel. Voleva sincerarsi che stesse bene, e in effetti era così, benché lei sospettasse che il figlio avesse smesso di giocare con i videogame e si fosse sintonizzato sul canale SpectraVision della camera. Alexander era sempre irritabile quando era impegnato con i suoi videogiochi, come se il destino della galassia poggiasse sulle sue spalle. Quando gli telefonò, verso le undici, sembrava dimesso e impaurito, come Charlton Heston dinanzi al roveto in fiamme nei Dieci comandamenti. Sharon lasciò perdere. Non gli disse nemmeno quello che stava accadendo. Aveva la sensazione che il figlio avrebbe dormito come un ghiro quella notte, e sperava che tutto fosse già finito per il mattino seguente, quando si sarebbe svegliato. Quindi fece il numero di casa; non voleva chiamare i suoi genitori a meno che non avessero visto i notiziari e lasciato un messaggio nella sua segreteria. Non godevano di buona salute ed erano apprensivi; preferiva evitare di metterli in agitazione. Ma sua madre aveva telefonato. Aveva appreso la notizia dal telegiornale, perciò la richiamò e le riferì ciò che le era stato detto, cioè che si stava cercando di negoziare un accordo e che non c'erano altre novità. «E Paul che ne pensa?» chiese sua madre. «Non lo so, mamma.» «Che vuoi dire?» «Se n'è andato con un funzionario del dipartimento di Stato e non è ancora tornato.» «Probabilmente sta cercando di dare una mano.» Sharon avrebbe voluto precisare: «Cerca sempre di dare una mano... agli altri». Invece, disse: «Sono certa che è quello che sta facendo». Sua madre le domandò come stava, e lei rispose che, così come gli altri genitori, si aggrappava alla speranza, visto che non si poteva fare altro. Promise di avvertirla se ci fossero stati nuovi sviluppi. Pensare a Paul e alla sua devozione verso gli altri la turbò profondamente. Voleva riabbracciare la figlia ed era disposta a qualsiasi sacrificio purché si salvasse. Ma sapeva che il marito si sarebbe comportato allo stesso modo anche se Harleigh non fosse stata coinvolta. Non aveva dato libero sfogo al pianto finora, ma quel pensiero fu la goccia che fece traboccare il vaso. Diede le spalle agli altri genitori, asciugandosi le lacrime man mano che sgorgavano, cercando di convincersi che Paul stava agendo per il bene di Tom Clancy
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Harleigh, e che a ogni modo qualunque cosa stesse facendo l'avrebbe aiutata. Ma si sentiva disperatamente sola, adesso. Ed essere del tutto all'oscuro di quanto stava accadendo e delle condizioni della sua bambina la fece di nuovo montare in collera. Poi le venne un'idea. Sharon prese un fazzoletto di carta dalla borsetta, si soffiò il naso e sollevò il ricevitore del telefono. Paul aveva ancora con sé il cellulare, e lei ne digitò il numero, traendo forza dalla rabbia.
37 Sabato, ore 23.49, New York Ty Sokha era sempre china sulla ragazza stesa a terra. Non c'era nient'altro che potesse fare per lei, e del resto non era venuta lì per salvare delle vite. Prendersi cura di lei era servito a un unico scopo: permetterle di stabilire quale di questi uomini fosse Ivan Georgiev. Quale di loro possedesse la voce che aveva udito accompagnare i clienti dentro e fuori le tende del campo dell'ONU. Quale di loro avesse ordinato al suo aiutante di inseguire e uccidere Phum quando aveva tentato la fuga. Nel caso Ty e Hang non fossero riusciti a eliminare tutti i terroristi, volevano essere sicuri di eliminare lui. Avevano entrambi una Browning High Power 9mm, Ty nella borsetta, Hang in una fondina fissata alla cintura. Le armi avevano superato i controlli di sicurezza dell'ONU dentro valigie diplomatiche. Avrebbero preso quel bastardo in un fuoco incrociato e poi abbattuto gli altri terroristi. Non solo avrebbero attuato la loro vendetta, non solo sarebbero stati considerati degli eroi per aver salvato gli ostaggi, ma avrebbero richiamato l'attenzione del mondo sulla loro causa: una Cambogia forte e di destra sotto la guida di Son Sann. Le ingiustizie sarebbero cessate. I khmer rossi sarebbero stati finalmente braccati e annientati, e la Cambogia sarebbe stata libera di diventare una potenza politica e finanziaria del continente asiatico. Ma tutto questo dipendeva da quel che sarebbe avvenuto nei minuti seguenti. Ty era rincresciuta di aver lasciato che Georgiev uscisse dalla sala, ma era una mossa che non aveva previsto. E non voleva aprire il fuoco su di lui prima che anche Hang lo avesse identificato, per timore che gli altri terroristi potessero neutralizzarla. Tom Clancy
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La donna estrasse un fazzoletto di seta dalla borsetta, che lasciò aperta sul pavimento mentre asciugava la fronte della giovane ferita. Il calcio della Browning era rivolto verso di lei. Riponendo il fazzoletto, sbloccò la sicura. Sentiva crescere l'ansia. Sperava che quella miserabile creatura non raggiungesse un accordo con il segretario generale Chatterjee. Era furiosa con se stessa per non averlo ucciso quando ne aveva avuto l'opportunità, quando poco prima l'aveva avuto accanto a sé. Avrebbe potuto perire nel tentativo, ma sarebbe morta sapendo che Hang e gli spiriti della sua famiglia sarebbero stati orgogliosi di lei. All'improvviso, una delle doppie porte in cima alle scale si spalancò. Il terrorista che vi stava appostato dietro balzò di lato mentre Georgiev si precipitava dentro la sala, tenendosi la parte inferiore della maschera. Richiuse la porta sbattendola, estrasse la pistola e la agitò rabbiosamente verso l'ingresso, quindi camminò impettito oltre il suo complice. Quando questi cercò di seguirlo, il bulgaro gli fece cenno di restare dov'era, poi cominciò a scendere con passo malfermo le scale. Sembrava un po' intontito, come se avesse ricevuto una botta. Non aveva affatto l'aria contenta. Bene, pensò Ty. Secondo la dottrina degli anziani nel buddhismo theravada, un uomo che moriva scontento rimaneva tale anche nella vita successiva. Georgiev non si meritava niente di meno. Il bulgaro, sempre con la pistola in pugno, si fermò a metà della scala e si sfregò il mento. Appariva esitante. L'uomo in cima ai gradini si mosse per raggiungerlo, così come uno di quelli in fondo alla scala. Dannazione!, imprecò tra sé Ty. Doveva agire subito. Di lì a poco sarebbero stati in tre nello stesso punto, ostruendole la linea di tiro. Lanciò uno sguardo a Hang, il quale stava evidentemente pensando la stessa cosa. Lei infilò la mano nella borsetta mentre il marito si alzava, sfoderava l'arma e si girava verso il bersaglio. Ty tirò fuori la rivoltella e prese la mira. Hang sparò per primo, esplodendo tre colpi in direzione di Georgiev. Un proiettile non andò a segno, ma due chiazze rosse apparvero sulla fronte del bulgaro, che venne scagliato di schiena contro la parete e poi scivolò a terra tracciando due lunghe strie scarlatte sulla carta da parati verde e oro. La coppia corse avanti cercando riparo sotto le scale. I due terroristi sui gradini si gettarono dietro le sedie e spianarono le armi verso gli assalitori, Tom Clancy
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imitati dai due compagni sull'altro lato della sala. In quel mentre, la porta che conduceva alla sala del Consiglio di Amministrazione fiduciaria si aprì, e quattro membri delle forze di sicurezza dell'ONU fecero irruzione. Per un istante, gli unici rumori furono i singhiozzi delle ragazze; i due cambogiani si erano voltati per vedere chi avessero alle spalle, e i terroristi si erano fermati per mirare ai bersagli più vicini. Il diversivo permise agli uomini vicino a Georgiev di sparare a Ty e Hang, che erano acquattati accanto alla parete ai piedi della galleria. Hang venne colpito alla spalla, Ty alla coscia. La donna si contorse e si accasciò senza un gemito, suo marito cadde carponi e lanciò un urlo interrotto da un colpo alla testa che lo fece crollare a terra. Ty aveva perso la pistola e si stava allungando per recuperarla quando un secondo proiettile la centrò al braccio e un terzo all'addome. Si portò le mani al ventre, ma si bloccò all'improvviso, raggiunta da una quarta pallottola al cranio. Ci era voluto poco più di un secondo perché i cambogiani cadessero e morissero, ma la loro presenza aveva disorientato i poliziotti dell'ONU, che non sapevano se aprire il fuoco su di loro oppure no. Quell'indugio consentì ai terroristi sul lato nord della sala di voltarsi, prendere la mira e sparare dall'alto in basso verso la porta. Uno degli agenti della sicurezza, con una gamba trafitta da un proiettile, piombò a terra e dovette essere portato via. I suoi tre compagni si accovacciarono e risposero al fuoco per coprire la ritirata. Uno di loro, notando la ragazza ferita, la afferrò sotto le ascelle e la trascinò fuori. Uno dei terroristi sul lato sud venne colpito e ruzzolò per qualche scalino prima di sbattere la testa contro una delle sedie, mentre una guardia, centrata da un proiettile in pieno volto, stramazzava a terra. La sala riecheggiava di fragorose detonazioni e urla mentre i terroristi battagliavano con la polizia dell'ONU e gli ostaggi strillavano. Molti di questi tentavano di ripararsi e al tempo stesso di impedire agli altri prigionieri in preda al panico di mettersi a correre e attraversare la linea del fuoco. Lo scontro terminò quando le forze dell'ONU si ritirarono e la porta che dava nell'aula del Consiglio di Amministrazione fiduciaria si richiuse con violenza. Gli spari cessarono, ma non le grida. Né il clima di follia che, per alcuni micidiali secondi, sembrava aver contagiato tutti gli esseri umani presenti nella sala. Tom Clancy
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38 Sabato, ore 23.50, New York Reynold Downer depose a terra il corpo insanguinato di Georgiev mentre Etienne Vandal si curvava su di lui. «Farai meglio a tornare alla porta» disse il francese. «Può darsi che riprovino a entrare.» «D'accordo.» Downer sfilò i guanti rossi di sangue da sotto il corpo del bulgaro e perlustrò con lo sguardo la sala. Il più piccolo degli altri due terroristi stava scendendo di corsa le scale. Questo significava che era stato Sazanka a beccarsi una pallottola. Osservò Barone chinarsi sul giapponese, poi rialzarsi e passarsi un dito sulla gola. Il loro pilota era andato. Downer imprecò. Lo stesso fece Vandal. L'australiano abbassò gli occhi. Il francese aveva tolto la maschera a Georgiev. Solo che non era Georgiev quello disteso sul pianerottolo. «Allora l'hanno preso» disse Downer. «Mi era sembrato di sentire dei rumori là fuori. Quei bastardi l'hanno catturato.» Sputò sul volto dai lineamenti americani. Vandal gli tastò il polso, poi lasciò ricadere il braccio dell'uomo. «È morto.» Guardò i corpi che giacevano vicino alla galleria. «Quelli che sono entrati erano agenti di sicurezza dell'ONU, e scommetto che questo tizio era uno di loro. Ma chi erano gli altri due?» «Probabilmente dei poliziotti travestiti» suggerì Downer «infiltrati al ricevimento per garantirne la sicurezza.» «Allora perché non si sono mossi prima?» si chiese Vandal ad alta voce. «Perché non hanno cercato di salvare i delegati?» «Magari hanno inviato all'esterno qualche segnale e aspettavano dei rinforzi.» «Non credo. Parevano quasi sorpresi quando hanno visto la squadra delle Nazioni Unite fare irruzione.» Downer tornò in cima alle scale, e Vandal si girò e scese in fretta i gradini. Era preoccupato per le porte, sebbene non pensasse che ci sarebbe stato un altro attacco a breve. Le forze dell'ONU erano uscite malconce dallo scontro. Avevano portato via la ragazza ferita, ma dubitava che fosse quello il loro obiettivo. Da come erano entrati, pareva che volessero stabilire una testa di ponte; quattro uomini dentro e dei rinforzi in attesa di Tom Clancy
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avanzare al centro. Ma perché i rinforzi non avevano tirato fuori la ragazza? La sparatoria aveva costretto gli ostaggi ad appiattirsi a terra o a rifugiarsi sotto il tavolo. Vandal per ora li avrebbe lasciati dov'erano. Si udiva singhiozzare e piagnucolare, ma erano tutti rimasti terrorizzati dall'attacco. Nessuno avrebbe osato andare da nessuna parte. Vandal si avvicinò alle due persone uccise ai piedi della galleria. Erano asiatiche. Si chinò per frugare nelle tasche della giacca dell'uomo. Aveva un passaporto cambogiano. C'era un nesso, dunque. Georgiev era stato implicato in parecchie spregevoli attività durante l'operazione UNTAC, dallo spionaggio allo sfruttamento della prostituzione. Forse si era trattato di una ritorsione di qualche tipo. Ma come facevano a sapere che il bulgaro si trovava lì? Barone lo raggiunse. Il francese lasciò cadere il passaporto e si rialzò. «È morto?» domandò l'uruguaiano, accennando con la testa in direzione di Georgiev. «Non è lui» rispose Vandal. «Cosa?» «Lo hanno preso quando è uscito. Hanno fatto uno scambio.» «Chi l'avrebbe mai detto che avessero i cojones per fare una cosa del genere? Ecco perché le guardie della sicurezza hanno fatto irruzione. Erano guidate dal loro uomo.» «Molto probabile.» Barone scosse il capo. «Se Ivan gli fornisce informazioni sui conti bancari, possiamo anche filarcela da qui con il denaro, ma se lo riprenderanno subito.» «Garantito» convenne Vandal. «E allora che facciamo?» «Abbiamo ancora quello che vogliono» disse il francese, riflettendo a voce alta. «E siamo ancora in grado di far fuori gli ostaggi se tenteranno un'altra incursione. Perciò suggerisco di attenerci al piano originale, con due modifiche.» «Quali?» Vandal si volse verso il tavolo delle riunioni. «Gli diremo che vogliamo i soldi in contanti» spiegò, avanzando di qualche passo, «e stringeremo i tempi.» Il suo sguardo lasciò il posto vuoto dov'era seduta la ragazza che aveva cercato di scappare e si posò su Harleigh Hood. C'era qualcosa in lei, una vaga aria di sfida, che non gli andava a genio. Tom Clancy
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Ordinò a Barone di prenderla.
39 Sabato, ore 23.51, New York La cimice nel corridoio captò i colpi d'arma da fuoco provenienti dalla sala del Consiglio di Sicurezza. Le detonazioni erano attutite, così come le grida, ma per Hood e gli altri era chiaro che una delle due parti aveva preso l'iniziativa. Le urla continuarono anche dopo il cessare della sparatoria. Hood era in piedi alle spalle di Ani. La giovane agente si era trasferita un attimo a un'altra scrivania dove c'era un computer portatile per cercare di migliorare la qualità dell'audio, aveva spiegato, ma a parte questo movimento era rimasta al suo posto. Appariva calma e molto concentrata. August era alla sinistra di Hood. Rodgers si era levato la giacca, aveva rimboccato le maniche della camicia e aveva preso una sedia da un'altra scrivania. Aveva chiesto, e ottenuto, un libro che conteneva i progetti della sede delle Nazioni Unite. Paul gli diede un'occhiata sbirciando da sopra la spalla del generale. L'FBI evidentemente aveva raccolto quegli elaborati negli anni Quaranta al fine di piazzare dei primitivi congegni per l'ascolto abusivo nei materiali da costruzione. Alcuni appunti sulle pagine suggerivano che anche la CIA di recente si era servita dei disegni per programmare gli itinerari delle sue microspie mobili. Sul pavimento, vicino a dove Rodgers aveva preso la sedia, c'era una borsa di tela con la cerniera aperta, dentro la quale Hood aveva notato un'unità telefonica TAC-SAT. Mentre l'ex direttore dell'Op-Center era intento ad ascoltare, il suo cellulare squillò. Suppose che si trattasse di Bob Herbert o Ann Farris con delle informazioni. Sfilò il telefonino di tasca mentre Rodgers si alzava e si avvicinava. «Pronto?» «Paul, sono io.» «Sharon!» esclamò Hood. Cristo, non adesso, pensò. Rodgers si fermò. Lui volse la schiena alla stanza. «Mi dispiace, tesoro» disse piano. «Stavo per venire da te quando è successo qualcosa. Qualcosa che aveva a che fare con Mike.» «È lì con te?» «Sì.» In realtà, più che ascoltare la moglie, stava cercando di sentire cosa avveniva nel Secretariat Building. «Tieni duro, mi raccomando» le disse. Tom Clancy
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«Mi stai prendendo in giro?» chiese lei. «Paul, ho bisogno di te.» «Lo so. Ascolta, siamo nel bel mezzo di qualcosa di molto importante. Stiamo cercando un modo per tirare fuori Harleigh e gli altri ostaggi. Non posso richiamarti tra un po'?» «Certamente, Paul. Come sempre.» Sharon riattaccò. Per Hood fu come ricevere uno schiaffo. Come potevano due persone così vicine la notte prima essere tanto distanti il giorno dopo? Ma non provava rimorso. Provava rabbia. Stava facendo del suo meglio per salvare Harleigh. Sharon non era felice di ritrovarsi da sola, ma non era per questo che gli aveva sbattuto il telefono in faccia. Il motivo era che l'Op-Center li aveva separati per l'ennesima volta. Chiuse il cellulare e lo mise via. Mike gli posò una mano sulla spalla. D'improvviso, udirono distintamente la voce di Mala Chatterjee. «Tenente Mailman, cos'è successo?» domandò il segretario generale. «Qualcuno ha sparato al colonnello Mott prima che il resto della squadra facesse irruzione» rispose l'ufficiale senza fiato. «Temo sia morto.» «Mio Dio, no!» «Hanno ucciso uno dei miei uomini e poi noi abbiamo colpito uno dei terroristi prima di disimpegnarci» continuò Mailman. «Abbiamo anche trasportato fuori una ragazza ferita. Non c'era modo di entrare senza provocare delle vittime.» Hood sentì le ginocchia piegarsi. «Scoprirò chi è» gli assicurò Rodgers. «Non chiamare Sharon. Potresti farla preoccupare per niente.» «Grazie.» Il generale andò al telefono dell'ufficio e si mise in contatto con Bob Herbert. Per rintracciare noti terroristi e personaggi della malavita - molti dei quali venivano regolarmente feriti in esplosioni, incidenti d'auto o scontri a fuoco - l'Op-Center disponeva di un programma collegato a tutti i policlinici delle maggiori città e interfacciato con la Social Security Administration. Ogni volta che un numero di codice della previdenza sociale era inserito nel computer di un ospedale, veniva automaticamente effettuato un riscontro con il database dell'Op-Center per accertarsi che la persona non fosse ricercata dalla polizia o dall'FBI. In questo caso, Herbert avrebbe incaricato Matt Stoll di controllare chiunque fosse stato ricoverato in un ospedale newyorkese nei dintorni delle Nazioni Unite nell'ultima mezz'ora. Intanto, la conversazione nel Palazzo di Vetro proseguiva. «Avete fatto la cosa giusta, ritirandovi» approvò la signora Chatterjee. Tom Clancy
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«C'è un'altra cosa» disse il tenente. «Due dei rappresentanti erano armati e hanno fatto fuoco.» «Chi?» «Non saprei. Uno della mia squadra che ha avuto modo di vederli ha detto che si trattava di due asiatici, un uomo e una donna.» «Quindi giapponesi, sudcoreani o cambogiani.» «Entrambi sono stati abbattuti dai terroristi.» «Contro chi sparavano i delegati?» volle sapere il segretario generale. «Che lei ci creda o no, sparavano al colonnello Mott.» «Al colonnello? Devono averlo scambiato per...» «Il terrorista di cui aveva preso il posto» la anticipò Mailman. In quel momento, una radio fece bip, e la donna rispose. «Parla il segretario generale Chatterjee.» «È stata una mossa stupida e avventata» disse la voce maschile all'altro capo della linea. Era una voce debole e stridula, con un marcato accento, ma Hood riusciva a capire gran parte di ciò che diceva. Concentrarsi su questo serviva a distrarre la sua mente dal pensiero della ragazza ferita. «Mi rincresce per quanto accaduto» replicò Chatterjee. «Cercavamo di ragionare con il vostro compagno...» «Non tenti di addossare la colpa a noi! » scattò l'uomo. «No, è stata colpa mia...» «Conoscevate le regole e le avete ignorate. Adesso abbiamo nuove istruzioni per voi.» «Prima mi dica, quali sono le condizioni del nostro ufficiale?» «È morto.» «Ne è sicuro?» gli chiese implorante Chatterjee. Si udì uno sparo. «Adesso lo sono» rispose il terrorista. «Qualche altra domanda?» «No.» «Potrete recuperare il corpo quando ce ne saremo andati. Tra quanto tempo, dipende solo da voi.» Seguì una breve, dolorosa pausa di silenzio. «Vada avanti» disse infine il segretario generale. «La ascolto.» «Vogliamo l'elicottero con sei milioni di dollari americani» dichiarò il terrorista. «In contanti, niente bonifici. Avete il nostro uomo nelle vostre mani; potrebbe rivelarvi i nostri nomi. Non vogliamo che i conti bancari vengano congelati. Fateci sapere quando sarà qui l'elicottero. Riprenderemo le esecuzioni tra otto minuti, e poi ogni mezz'ora. Solo che stavolta non uccideremo un delegato, ma qualche signorina.» Tom Clancy
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Hood si rese conto di non aver mai saputo cosa fosse l'odio fino a quel momento. «La prego, no!» esclamò Chatterjee. «L'avete voluto voi.» «Mi ascolti, vi daremo ciò che volete, ma non devono esserci altre vittime. Ce ne sono già state troppe.» «Avete otto minuti da adesso» tagliò corto l'uomo. «No! Dovete concederci qualche ora!» lo scongiurò Chatterjee. «Collaboreremo con voi. Pronto? Pronto!» Silenzio. Hood poteva immaginare quanto fosse profonda la frustrazione del segretario generale. August scrollò il capo. «Le truppe dovrebbero tornare all'attacco adesso, colpirli in modo fulmineo quando meno se lo aspettano.» «Noi avremmo dovuto attaccare» osservò Hood. «Hanno detto che avrebbero usato del gas tossico» intervenne Ani. «Ma non l'hanno fatto durante il primo assalto» fece notare August. «Questi individui vogliono portare a casa la pelle. Ecco perché hanno preso degli ostaggi. Non rinunceranno a questo vantaggio.» Rodgers abbassò la cornetta del telefono e annunciò: «Non era Harleigh la ragazza a cui hanno sparato. Si chiama Barbara Mathis». Tutto era relativo. Harleigh era sempre tenuta prigioniera, e una delle sue compagne era ferita. Tuttavia, Paul non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. Nonostante il fatto che sua figlia fosse ancora là dentro, doveva convenire con il colonnello August. Quei tizi asserragliati nella sala del Consiglio di Sicurezza non erano kamikaze o terroristi politici. Erano pirati venuti a saccheggiare, e volevano uscirne vivi. Dopo qualche istante, Mala Chatterjee informò il tenente Mailman che si sarebbe recata in infermeria per parlare con il terrorista catturato. Dopodiché, la trasmissione si interruppe. «È fuori dalla portata della cimice» spiegò Ani. Rodgers guardò l'orologio. «Abbiamo meno di sette minuti» disse brusco. «Cosa possiamo fare per fermarli?» «Non c'è tempo sufficiente per raggiungere il Consiglio di Sicurezza e provare a entrare» affermò August. «Lei è rimasta in ascolto per quasi cinque ore» continuò il generale rivolto ad Ani. «Si sarà fatta un'idea. Cosa pensa che accadrà?» «Non saprei.» «Tiri a indovinare.» «Be', sono rimasti senza un capo, non si può dire quel che faranno adesso.» «Come fa a saperlo?» domandò Hood. Lei lo guardò con aria Tom Clancy
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interrogativa. «Che sono senza un capo» chiarì lui. «Chi altro sarebbe uscito per parlamentare, altrimenti?» Suonò il telefono, e Ani rispose. Era Darrell McCaskey per Rodgers. Ani gli passò il ricevitore. Ma passò anche qualcos'altro tra il generale e la donna. Uno sguardo di disapprovazione. Oppure era sospetto? La conversazione fu breve. Rodgers non pronunciò che poche parole mentre McCaskey lo ragguagliava. Quando ebbe finito, restituì il ricevitore ad Ani, che si girò e lo depose sulla forcella. «La sicurezza dell'ONU ha rilevato le impronte del terrorista catturato e l'ha identificato» disse Rodgers. «Darrell ha appena ricevuto l'informazione.» Il generale si voltò verso Ani, si curvò sulla poltroncina con le rotelle su cui sedeva la giovane donna e posò le mani sui braccioli. «Non ha niente da dirmi al riguardo, signorina Hampton?» «Che cosa?» fece lei. «Mike, che succede?» domandò Hood. «Il nome del terrorista è colonnello Ivan Georgiev» proseguì Rodgers, senza staccare gli occhi da Ani. «Ha prestato servizio con l'UNTAC in Cambogia. E anche lavorato per la CIA in Bulgaria. Non ha mai sentito parlare di lui?» «Io?» chiese Ani. «Proprio lei.» «No.» «Però sa qualcosa di questa faccenda che noi non sappiamo.» «No...» «Sta mentendo.» «Mike, cos'è questa storia?» volle sapere Hood. «È venuta in ufficio prima dell'attacco. Per lavorare, così ha detto.» «Esatto.» «Mi sembra vestita un po' troppo bene per andare al lavoro» osservò il generale. «Avevo un appuntamento, ma mi hanno tirato un bidone» si giustificò la donna. «Avevo un tavolo prenotato da Chez Eugénie, può verificare. Ehi, non capisco perché devo difendermi da...» «Perché sta raccontando un sacco di frottole» la interruppe Rodgers. «Sapeva quello che sarebbe accaduto?» «Naturalmente no!» negò lei. «Ma sapeva che qualcosa sarebbe accaduto. Lei ha svolto degli incarichi Tom Clancy
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in Cambogia. E il colonnello Mott è stato ucciso da due cambogiani che si fingevano rappresentanti alle Nazioni Unite. Pensavano per caso di sparare a Ivan Georgiev?» «Come diavolo faccio a saperlo?» Rodgers diede una spinta alla poltroncina, che dopo una breve corsa sul pavimento piastrellato finì contro uno schedario. Ani fece per alzarsi, ma lui la ricacciò a sedere. «Mike!» urlò Hood. «Non abbiamo tempo da perdere in stronzate, Paul» replicò il generale. «Tua figlia potrebbe essere la prossima vittima.» Fissò Ani con occhio truce. «La sua TAC-SAT è accesa. Chi stava chiamando?» «Il mio superiore a Mosca.» «Lo chiami adesso.» Lei esitò. «Lo chiami adesso!» tuonò Rodgers. Ani rimase immobile. «Chi c'è all'altro capo della linea?» domandò lui. «C'erano i cambogiani? Oppure ci sono i terroristi?» Ani non rispose. Rodgers sbatté una mano sopra una delle sue, posate sui braccioli, e gliela bloccò, poi infilò il pollice sotto l'indice della donna e lo piegò all'indietro. Lei urlò di dolore e cercò di liberarsi con l'altra mano, ma lui glielo impedì utilizzando la mano libera, senza smettere di esercitare pressione sul dito di Ani. «Chi c'è all'altro capo di quel dannato apparecchio?» gridò. «Gliel'ho già detto!» Rodgers continuò a piegarle indietro l'indice finché l'unghia quasi sfiorò il polso. Ani cacciò un altro urlo. «Chi c'è all'altro capo della linea?» incalzò il generale. «I terroristi!» strillò lei. «Ci sono i terroristi!» Hood provò un senso di nausea. «C'è qualche altro elemento esterno oltre a lei?» chiese Rodgers. «No!» «Qual era il suo prossimo compito?» «Avvertirli non appena il denaro fosse stato consegnato.» Rodgers le lasciò la mano e si raddrizzò. Paul stava fissando la giovane donna. «Come ha potuto aiutarli? Come?» «Non abbiamo tempo per questo, ora» gli rammentò Mike. Tom Clancy
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«Uccideranno un altro ostaggio fra tre minuti. Il problema è: come li fermiamo?» «Pagando il riscatto» rispose August. Rodgers lo guardò. «Spiegati meglio.» «Ci facciamo dare il numero di Chatterjee dall'Op-Center, la chiamiamo e le diciamo di comunicare via radio ai terroristi che ha il denaro. Poi la signorina qui presente sarà così gentile da confermarlo. Contattiamo il NYPD, mandiamo là un elicottero come hanno richiesto, e quando mettono fuori il naso gli facciamo trovare una squadra SWAT pronta ad accoglierli.» «Ma quando usciranno fuori, porteranno con loro degli ostaggi» obiettò Hood. «Dovremo comunque mettere a rischio gli ostaggi, a un certo punto» considerò August. «In questo modo almeno ne salveremo di più di quanti ne potremmo salvare irrompendo nella sala del Consiglio di Sicurezza... e uno di loro per certo.» «D'accordo, fallo» disse Hood, lanciando un'occhiata all'orologio. «In fretta.»
40 Sabato, ore 23.55, New York Mala Chatterjee si precipitò giù dalle scale mobili, al fondo delle quali fu raggiunta da uno dei suoi assistenti. Insieme, si diressero verso l'infermeria, che era situata al primo piano, non lontano dal grande atrio. Il giovane assistente era Enzo Donati, uno studente universitario di Roma che stava accumulando attestati per la sua laurea in relazioni internazionali. Donati aveva con sé il cellulare del segretario generale ed era in contatto con la sede dell'Interpol a New York. Avevano appreso che il nome del prigioniero era Ivan Georgiev, un ex ufficiale dell'esercito bulgaro. L'ambasciatore di Bulgaria non era presente al ricevimento ed era stato avvertito. Chatterjee oltrepassò l'ingresso riservato ai rappresentanti accanto alla mostra su Hiroshima e proseguì lungo i corridoi illuminati a giorno. Cercava di non pensare al colonnello Mott, al personale della sicurezza e ai delegati che avevano perso la vita. La sua attenzione era focalizzata sull'approssimarsi della mezzanotte, sulla morte imminente di una giovane Tom Clancy
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violinista, e su come evitarla. Aveva in mente di proporre a Georgiev un accordo. Se avesse sollecitato i suoi complici a rinviare l'esecuzione e l'avesse aiutata a risolvere pacificamente la situazione, lei avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per fargli ottenere clemenza. Non avendo ancora parlato con i medici da quando avevano portato via il terrorista, Chatterjee poteva solo supporre che avesse ripreso conoscenza. In caso contrario, non sapeva che pesci pigliare. Le restavano meno di cinque minuti. L'assalto di Mott era stato respinto, e i suoi sforzi diplomatici erano falliti. Collaborare era un'opzione, ma ci sarebbe voluto del tempo per mettere insieme sei milioni di dollari. Aveva chiamato il vicesegretario generale Takahara e lo aveva pregato di riunirsi con gli altri membri del comitato di emergenza per studiare una soluzione al problema. Sapeva che se anche avessero pagato, il sangue non avrebbe smesso di scorrere. Il NYPD e l'FBI sarebbero intervenuti non appena i terroristi avessero cercato di tagliare la corda. Ma almeno c'era la possibilità che mettessero in salvo un certo numero di ostaggi. Perché le crisi internazionali sembravano molto più facili da gestire di questa? Perché le conseguenze erano più gravi? Perché c'erano due o più fazioni in cui nessuno voleva realmente premere il grilletto? Se ciò era vero, allora in effetti lei non era una pacificatrice, ma semplicemente uno strumento, come un telefono o persino uno dei film di suo padre. Può darsi che fosse nata nella terra di Gandhi, ma di certo non gli somigliava. Nemmeno un po'. Svoltarono un angolo e si avvicinarono all'ingresso dell'infermeria. Enzo scivolò avanti per aprire la porta, poi si fece da parte. Chatterjee varcò la soglia, e si arrestò di colpo. Due tecnici di medicina d'urgenza giacevano sul pavimento della reception. Un'infermiera era stesa a terra nello studio medico, così come due guardie della sicurezza. Enzo corse verso i corpi più vicini. C'erano delle macchioline di sangue sulle mattonelle. I tecnici erano vivi ma incoscienti, evidentemente in seguito a un colpo in testa. Anche l'infermiera era priva di sensi. Non c'erano strappi nei loro indumenti, nessun segno di colluttazione. Non c'era alcuna traccia delle manette, né tantomeno di Georgiev. Chatterjee si concesse un momento per elaborare l'accaduto, ma c'era un'unica conclusione da trarre: qualcuno si era appostato lì in attesa.
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41 Sabato, ore 23.57, New York Hood chiamò Bob Herbert e gli disse di procurargli il numero di cellulare del segretario generale Chatterjee. Mentre attendeva in linea, Rodgers legò il polso sinistro di Ani Hampton al bracciolo della poltroncina con del nastro isolante nero che aveva trovato nel ripostiglio. C'era anche dello spago da imballaggio sullo scaffale, ma usare il nastro era una consuetudine degli interrogatori sul campo: non lasciava segni e non lacerava la pelle, ed era molto difficile da allentare. Rodgers aveva anche scoperto diverse pistole e altro equipaggiamento della CIA nel ripostiglio. Le armi erano custodite in una rastrelliera di metallo chiusa a chiave. Dopo aver immobilizzato Ani, Rodgers aveva frugato nella giacca della donna, che era appesa nello stanzino, in cerca del suo portachiavi. Il regolamento della CIA stabiliva che chiunque avesse la responsabilità di un covo doveva aver accesso al materiale di autodifesa. Trovata la chiave giusta, il generale aprì la rastrelliera e afferrò due Beretta per sé e altre due per il colonnello August. Ciascuna pistola era dotata di un caricatore da quindici colpi. Si munì anche di un paio di ricetrasmittenti, di un panetto di C-4 e di alcuni detonatori. Ripose l'esplosivo in uno zaino imbottito di gommapiuma che si mise in spalla. Non era l'abituale kit dello Striker Team - visori notturni a intensificazione di luminosità e pistole mitragliatrici Uzi sarebbero stati l'ideale -, ma bisognava accontentarsi. Sperava di non doversene servire, tuttavia voleva essere preparato al peggio. Tornato nell'ufficio, Rodgers fissò Ani dall'alto in basso. «Se collabora, la aiuterò quando usciremo da qui.» La giovane donna non aprì bocca. «Ha capito?» la incalzò Mike. «Ho capito» disse lei, senza sollevare lo sguardo. Dopo aver consegnato ad August le sue armi, Rodgers prese il colonnello per il braccio e lo condusse da Hood, che era sempre al telefono. «Qualcosa non va?» chiese il comandante degli Striker. «Ho una brutta sensazione riguardo la nostra prigioniera» bisbigliò il generale. «Perché?» domandò Hood. «Tra qualche minuto, ci avrà in pugno. Supponiamo che Chatterjee accetti di chiamare i terroristi. E che poi questa donna si rifiuti di confermare la bugia. A che punto saremo?» «Più o meno dove siamo adesso, direi» fece August. «Non esattamente» Tom Clancy
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precisò Rodgers. «I terroristi saranno stati attaccati e presi in giro. Vorranno rendere pan per focaccia: sparare a un ostaggio come stabilito e aggiungerne un altro per rappresaglia.» «Stai dicendo che è meglio rinunciare al nostro piano?» volle sapere Hood. «No, non vedo alternative. Se non altro, ci permetterà di guadagnare qualche minuto in più.» «Per cosa?» «Per prendere il controllo della situazione. Per lanciare un'operazione a "collo di bottiglia".» Paul scosse il capo. «Con quali forze?» domandò. «Voi due?» «Può funzionare.» «Ripeto... con due soli soldati?» «In teoria, sì.» Hood non sembrava soddisfatto della risposta. «Abbiamo fatto delle simulazioni» riprese Rodgers. «Brett possiede un addestramento specifico.» «Mike, anche se riuscite a entrare» osservò Paul «gli ostaggi saranno estremamente vulnerabili.» «Come ho già detto, cosa credi che succederà se la nostra amica qui all'ultimo momento si rifiuta di cooperare?» chiese il generale. «Stiamo avvicinando un fiammifero acceso a un barilotto di polvere da sparo umana. I terroristi potrebbero farlo saltare.» Hood doveva ammettere che Rodgers aveva ragione. Gettò un'occhiata all'orologio. «Bob?» disse nella cornetta. «Eccomi » rispose Herbert. «Ci siamo con quel numero di telefono?» «Non ci crederai, ma il dipartimento di Stato ha solo il numero del segretario generale Manni. Ho detto a Darrell di darsi da fare per ottenerlo tramite l'Interpol, e Matt sta provando a rintracciarlo inserendosi in qualche sistema. Scommetto che lo scoprirà lui per primo. Ancora un minuto o due.» «Bob, abbiamo i secondi contati.» «Capito.» Hood guardò Rodgers. «Come pensate di entrare?» «Entrerà solo August» spiegò il generale. «Io prenderò posizione fuori dalla sala del Consiglio di Sicurezza.» Si girò verso il colonnello. «L'accesso al garage dell'ONU è situato sul lato nord-est del complesso, giù da una rampa di scale che porta dritta all'ingresso principale dell'edificio. E da lì che entrerai.» Tom Clancy
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«Come sai che il garage sarà aperto?» chiese Hood. «Era aperto quando sono venuto qui, e ovviamente lo lasceranno così nel caso dovessero trasferire del personale o dell'equipaggiamento all'interno. Il rumore di una porta grande come quella che viene chiusa e poi riaperta potrebbe mettere sul chi va là i terroristi, avvertirli che si sta preparando qualcosa.» Il ragionamento non faceva una piega, pensò Hood. «Probabilmente, non troverai nessuna guardia della sicurezza nel roseto che conduce al garage» continuò Rodgers rivolto ad August. «Si limiteranno a difendere il perimetro per sfruttare al meglio il personale disponibile. Se ci sono degli elicotteri, i cespugli e le statue ti offriranno un riparo adeguato. Una volta che avrai attraversato il giardino e sarai penetrato nel garage, l'unico problema sarà il corridoio tra l'ascensore e il Consiglio di Sicurezza. Secondo le planimetrie, tra il pozzo dell'ascensore e la sala ci sono una quindicina di metri.» «È un grosso problema?» s'informò Hood. «No davvero» rispose il colonnello. «Posso coprire una simile distanza piuttosto rapidamente. Butterò giù come birilli tutti quelli che mi sbarreranno la strada, se sarà necessario. L'elemento sorpresa funziona anche con gli amici, non solo con i nemici.» «E se il personale della sicurezza apre il fuoco?» «Ho sentito degli accenti stranieri attraverso la nostra piccola cimice. Sono certo che c'è qualche guardia dell'ONU che potrò usare come scudo. Una volta dentro la sala, non avrà più importanza quello che faranno.» «Rappresenta comunque un ostacolo supplementare» notò Hood. «Forse possiamo convincere Chatterjee a darci una mano, se sarà il caso» suggerì August. «Se la balla del riscatto non dovesse funzionare, dubito che sarà disposta a raccontarne un'altra» disse Hood. «I diplomatici che non sono mai stati dei soldati non comprendono la natura fluida e caotica della guerra.» «Può darsi che a quel punto non abbia altra scelta» intervenne Rodgers. «Il colonnello sarà già dentro.» «Chi credi ci sia a sorvegliare l'ingresso del garage?» gli chiese August. «Probabilmente hanno lasciato che se ne occupasse il NYPD. È verosimile che il grosso delle forze dell'ONU si trovi al piano superiore.» In quel momento, Bob Herbert avvisò Hood che il mago dell'informatica dell'Op-Center, Matt Stoll, era riuscito a scovare il numero introducendosi Tom Clancy
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nel riservatissimo elenco on line delle Nazioni Unite prima che Darrell McCaskey potesse ottenerlo tramite i suoi contatti all'Interpol. Paul annotò il numero. La linea non era criptata, ma doveva correre il rischio. Non era rimasto molto tempo. Avrebbe dovuto rischiare un sacco di cose, decise. Diede il suo okay al piano di Rodgers, e August si allontanò immediatamente. Hood compose il numero di cellulare. Rispose un uomo dall'accento italiano. «Questa è la linea del segretario generale...» «Sono Paul Hood, direttore dell'Op-Center di Washington. Devo parlare urgentemente con il segretario generale.» «Signor Hood, abbiamo una situ...» «Lo so!» scattò Paul. «E possiamo salvare la prossima vittima se ci muoviamo in fretta. Me la passi.» «Attenda un attimo.» Hood lanciò un'occhiata all'orologio. Supponendo che i terroristi rispettassero la scadenza, restava poco più di un minuto. «Parla Mala Chatterjee» disse una voce di donna. «Signora, sono Paul Hood, direttore di un'agenzia di gestione delle crisi a Washington. Uno degli ostaggi è mia figlia.» Gli tremava la voce. Si rendeva conto che ciò che si accingeva a dire avrebbe potuto salvare Harleigh oppure condannarla. «Sì, signor Hood?» «Ho bisogno del suo aiuto. Deve contattare via radio i terroristi e comunicare loro che ha il denaro e l'elicottero che hanno chiesto. Se lo farà, noi faremo in modo che le credano.» «Ma non abbiamo queste cose. Né è probabile che le otterremo.» «Quando i terroristi se ne accorgeranno, saranno già fuori dall'edificio, e la polizia sarà pronta a neutralizzarli.» «Abbiamo già tentato un assalto, e ci è costato molto caro» disse Chatterjee. «Non ne autorizzerò un altro.» Hood non voleva che lei sapesse che ne era a conoscenza. «Questa volta andrà diversamente. Se i terroristi si trovano all'esterno, non potranno controllare tutti gli ostaggi, e noi saremo in grado di metterne alcuni in salvo. E se utilizzano il gas tossico, ci troveremo in una posizione migliore per soccorrere le vittime. Ma deve chiamarli adesso. Deve anche aggiungere che l'offerta non è valida se uccideranno altri prigionieri.» Chatterjee esitò. Hood non ne capiva il motivo. Dopo il duro colpo subito dalle forze di sicurezza, c'era una sola risposta da dare: «Sì, lo farò. Aiuterò a salvare una vita e stanare quei bastardi!». Oppure si illudeva Tom Clancy
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ancora di poter aprire un dialogo, di poter persuadere i terroristi ad arrendersi? Se avesse avuto più tempo, Paul le avrebbe fatto notare che il colonnello Georgiev molto probabilmente aveva contribuito a trasformare l'operazione UNTAC in una vergognosa messinscena. Le avrebbe chiesto come poteva ancora credere a ciò che propagandava, che il mantenimento della pace e il negoziato erano la strada maestra da seguire e la forza una via secondaria. «Signora, ci resta meno di un minuto!» insistette. Lei continuava a tentennare. Hood non aveva mai provato tanto disgusto per i despoti quanto ne provava ora per quella cosiddetta pacifista. Qual era il suo cruccio? Dover mentire a dei terroristi? Dover spiegare alla Repubblica del Gabon perché lo statuto delle Nazioni Unite era stato aggirato? Perché i restanti membri dell'Assemblea Generale non erano stati consultati prima di autorizzare gli Stati Uniti a mettere fine a una situazione drammatica? Ma non era il momento di mettersi a discutere, e sperava che anche Chatterjee lo capisse. In fretta. «D'accordo» rispose infine il segretario generale. «Farò questa chiamata per salvare una vita.» «La ringrazio» disse Hood. «Mi terrò in contatto.»
42 Domenica, ore 00.00, New York Harleigh Hood era in ginocchio di fronte alla porta chiusa della sala del Consiglio di Sicurezza. L'australiano era in piedi alle sue spalle e la teneva saldamente, dolorosamente, per i capelli. Dietro di lui, l'altro uomo, quello dall'accento ispanico, guardava l'orologio. Il volto della ragazza era gonfio sopra la guancia sinistra, dove il terrorista l'aveva colpita con la canna della pistola quando lei aveva cercato di morderlo. C'era del sangue sulla sua bocca, conseguenza di un violento manrovescio. Il suo abito era strappato sulle spalle, il collo escoriato per essere stata trascinata a forza fin lassù, senza aver mai smesso di tirare calci al pavimento, alle pareti, alle sedie. E ogni respiro le provocava una fitta lancinante al fianco sinistro per via della scarpata che aveva preso appena pochi secondi prima. Di certo, Harleigh non era salita spontaneamente al patibolo. Tom Clancy
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La ragazza fissava davanti a sé in modo assente. Le doleva ovunque, ma nulla era tanto doloroso quanto la totale perdita della sua umanità, qualcosa che non poteva neppure toccare. Realizzò, in un istante di sorprendente lucidità, che probabimente era così che doveva sentirsi la vittima di uno stupro. Privata di ogni possibilità di scelta. Privata della dignità. Timorosa in futuro di qualunque stimolo potesse richiamare alla mente quell'esperienza, che si trattasse di una casuale tirata di capelli o della sensazione di un tappeto sotto le ginocchia. La cosa peggiore di tutte era che questo non dipendeva da qualcosa che aveva detto o fatto. Lei era solo una comoda preda per l'ostilità di qualche animale. Così doveva essere la morte? Senza angeli né trombe? Lei non era nient'altro che carne? No. Harleigh lanciò un urlo di rabbia che le veniva dal profondo. Gridò di nuovo, e poi i suoi muscoli indolenziti guizzarono e cercò di levarsi in piedi. La morte era così se si permetteva che fosse così. L'australiano la tirò brutalmente per i capelli, costringendola a girarsi. Lei cadde sulla schiena e prese a dimenarsi nel tentativo di rialzarsi, ma il suo aguzzino la inchiodò a terra mettendole un ginocchio sul petto e le infilò in bocca la canna della pistola. «Urla dentro questa, adesso» le disse. Harleigh lo fece, con spavalderia, e lui le spinse la canna nella gola finché lei non ebbe un conato di vomito. «Forza, un'altra volta, angioletto. Urla ancora e urlerà anche lei.» Una pozza di saliva dal sapore metallico si formò rapidamente in fondo alla gola di Harleigh. Il sangue si mescolò alla saliva, e lei dovette smettere di strillare per cercare di deglutire. Ma non riusciva a inghiottire, né a tossire o a respirare. Sarebbe soffocata prima ancora che il terrorista potesse spararle. Tentò disperatamente di spingere indietro la mano dell'uomo, ma lui le afferrò i polsi con la mano libera e forzò facilmente le sue braccia sottili fino a farle cedere. «È ora» sentenziò Barone. Harleigh emise un suono gutturale mentre Downer la fissava con sguardo bieco. In quel momento, suonò la radio. «Aspetta» disse l'uruguaiano, poi rispose alla chiamata. «Sì?» «Sono il segretario generale Chatterjee. Abbiamo il denaro, e l'elicottero è in volo.» Tom Clancy
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Downer e Barone si scambiarono uno sguardo. Barone premette il tasto del muto. I suoi occhi si strinsero con sospetto. «Sta mentendo» affermò l'australiano. «Non può aver fatto così in fretta.» Barone disinserì il muto. «Come ci è riuscita?» chiese. «Il governo degli Stati Uniti ha garantito un prestito della Banca della Riserva Federale di New York. Stanno mettendo insieme la valuta, poi la porteranno lì.» «Attenda una mia comunicazione» disse l'uruguaiano, voltandosi e iniziando a scendere di corsa la scala. «Non ucciderete l'ostaggio?» domandò Chatterjee. «Ne ammazzeremo due se ci ha raccontato una balla» replicò lui. Spense la radio e si affrettò verso l'apparecchio TAC-SAT accanto al tavolo circolare.
43 Domenica, ore 00.01, New York Mentre aspettavano che l'unità TAC-SAT si mettesse a suonare, Rodgers chiamò Bob Herbert e lo mise al corrente. Il capo dell'intelligence disse che si sarebbe messo in contatto con il comandante della polizia di New York, Gordon Kane. I due uomini avevano lavorato insieme all'epoca del tentato golpe a Mosca, orchestrato con l'aiuto di alcune spie russe con base a Brighton Beach. Herbert era in buoni rapporti con il comandante e sapeva che avrebbe colto al volo l'opportunità di salvare gli ostaggi... e l'ONU. Quando Rodgers ebbe terminato, fece un'altra telefonata per controllare i messaggi, disse. Non era vero, ma non voleva che la giovane donna lo sapesse. Chiese in prestito il cellulare di Hood per fare la chiamata, poi si piazzò tra Ani e la scrivania in modo che lei non potesse vedere quello che stava facendo. Era un trucco che aveva imparato da Bob Herbert, il quale si serviva del telefono montato sulla sua sedia a rotelle per spiare le persone dopo aver lasciato una riunione. Il generale disattivò la suoneria del telefono dell'ufficio e poi chiamò il numero usando il cellulare di Paul. Rispose all'apparecchio dell'ufficio, inserì il viva voce e lasciò entrambe le linee aperte. Infine, facendo attenzione che non si spegnesse, ripose il cellulare nella tasca dei calzoni. Tom Clancy
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Rodgers si sedette alla scrivania, dalla parte opposta di Annabelle Hampton. Hood passeggiava nervosamente avanti e indietro. Più passavano i secondi, più Mike si convinceva che le cose non sarebbero andate come aveva sperato. La giovane donna continuava a tenere lo sguardo fisso davanti a sé. Il generale non aveva dubbi su cosa stesse guardando: il futuro. Ani Hampton non gli aveva dato l'impressione di essere il tipo dell'«analista del dopopartita». Parecchi membri dei servizi segreti e delle forze armate operavano come maestri di scacchi o di ballo da sala. Seguivano schemi ben collaudati e deviavano il meno possibile da mosse e strategie spesso complesse. Quando tali deviazioni si verificavano, venivano studiate a posteriori e inserite nel libro degli schemi oppure scartate. Ma c'erano anche molti agenti sul campo della CIA che si distinguevano per un approccio più «disinvolto» alle tattiche. Questi erano i cosiddetti «squali», di norma tipi solitari il cui modus operandi era muoversi in continuazione e guardare sempre avanti. Non importava se bruciavano i ponti alle loro spalle; probabilmente non sarebbero comunque tornati indietro. Era il genere di individui che riusciva a infiltrarsi in villaggi stranieri, cellule terroristiche e basi nemiche. Rodgers era pronto a scommettere che Ani Hampton fosse uno squalo. Se ne stava lì seduta senza pentirsi di nulla, riflettendo su cosa fare. E lui immaginava che cosa le passasse per la testa, ecco perché aveva chiesto al colonnello August di entrare in azione. Caso mai... Osservando la giovane donna, Rodgers avvertì una sensazione di gelo dentro di sé. Ciò che lei aveva fatto gli ricordava qualcosa che aveva imparato durante il suo primo turno di servizio in Vietnam: che sebbene il tradimento fosse l'eccezione, non la regola, lo si poteva trovare ovunque. In ogni paese, in ogni città, in ogni villaggio. E non c'erano profili attendibili, né regole certe, per individuare i traditori. Potevano essere di qualunque età, sesso e nazionalità. Lavoravano nel settore pubblico e in quello privato, con incarichi che permettevano loro di entrare in contatto con gente e informazioni. E ciò che facevano poteva essere dettato da ragioni personali o motivato esclusivamente dal profitto. C'era qualcos'altro che caratterizzava i traditori, rendendoli unici: quando venivano catturati, diventavano più pericolosi. Posti di fronte alla condanna per i loro crimini, non avevano più niente da perdere. Se avevano l'opportunità di compiere un'ultima mossa, per quanto vana o Tom Clancy
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distruttiva, la tentavano. Nel 1969, la CIA era stata avvertita che il Vietnam del Nord utilizzava un ospedale sud-vietnamita a Saigon per distribuire droga alle truppe americane. Rodgers ci era andato con il pretesto di far visita a un commilitone ferito, e aveva visto le infermiere sud-vietnamite accettare dollari americani da soldati sud-vietnamiti «feriti» - in realtà infiltrati vietcong dai quindici ai diciotto anni di età - come compenso per aver trasferito eroina e marijuana dallo scantinato ai kit di medicazione campale. Al momento dell'arresto, due delle tre infermiere avevano levato la sicura ad alcune bombe a mano che, oltre a loro, avevano ucciso sette soldati ricoverati nel reparto. Crocerossine e adolescenti trasformate in killer... il Vietnam era unico sotto questo aspetto. Era la ragione per cui a tanti veterani erano ceduti i nervi al loro ritorno a casa. In tranquilli villaggi, le bambine venivano di frequente ad accogliere i soldati americani. Alcune chiedevano caramelle e soldi. Spesso era tutto quello che volevano. Altre volte, le ragazzine avevano con sé delle bambole esplosive, e talora saltavano in aria insieme ai loro micidiali giocattoli. Le donne anziane di tanto in tanto offrivano agli americani ciotole di riso con aggiunta di cianuro, riso che loro stesse mangiavano per rassicurare i militari. Erano forme di distruzione più spaventose di un M16 o di una mina terrestre. Più di qualsiasi altro conflitto, il Vietnam aveva privato i soldati americani del concetto che ci si potesse fidare di qualunque cosa in qualunque luogo. E molti reduci di guerra avevano scoperto di non essere più capaci di aprirsi con le mogli, i parenti, persino i figli. Questo era uno dei motivi per cui Mike Rodgers non si era mai sposato. Diventare intimo con qualcuno che non fosse un compagno d'armi era impossibile. E tutte le terapie, tutte le argomentazioni del mondo non potevano cambiare questa realtà. Una volta uccisa, non si poteva far rivivere l'innocenza. Rodgers non era affatto felice di sperimentare nuovamente quel senso di diffidenza con Annabelle Hampton. La giovane donna aveva venduto per lucro delle vite innocenti e disonorato il governo per cui lavorava. Si chiese come qualcuno potesse essere contento di intascare del denaro sporco di sangue. L'edificio era silenzioso, dall'esterno non proveniva alcun rumore. La la Avenue era stata chiusa al traffico poco più in là, così come la Franklin Delano Roosevelt Drive, che passava giusto dietro il quartier generale Tom Clancy
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dell'ONU. Ovviamente, il dipartimento di polizia di New York voleva avere libero accesso in caso di necessità. Anche la strada senza uscita davanti all'edificio in cui si trovavano era chiusa. Quando la TAC-SAT squillò, tutti sussultarono. Hood smise di andare su e giù nella stanza, fermandosi accanto a Rodgers. Ani alzò lo sguardo sul generale; c'era un'ombra di compiacenza nei suoi occhi azzurro chiaro. Rodgers non ne era stupito. Dopotutto, Annabelle Hampton era uno squalo. «Risponda» le disse. Ani lo fissò con occhi di ghiaccio. «Se non lo faccio, mi torturerà ancora?» «Preferirei di no.» «Lo so» fece lei con un sogghigno. «Le cose sono cambiate, vero?» C'era decisamente qualcosa di diverso nella voce della donna. Aggressività. Baldanza. Le avevano concesso troppo tempo per pensare. Si era aperta la danza, ed era Annabelle Hampton a guidarla. Rodgers era lieto di aver preso le sue precauzioni. «Può costringermi a rispondere piegandomi di nuovo il dito» continuò lei. «Oppure farmi del male in altri modi. Aprire una graffetta o trovare una puntina da disegno e premerne l'estremità nella pelle morbida sotto il mio occhio. Un comune metodo di persuasione della CIA. Ma in tal caso il dolore trasparirebbe dalla mia voce, e capirebbero che agisco sotto coercizione.» «Ha detto che avrebbe collaborato» le ricordò Hood. «E se invece non collaboro, cosa farete?» domandò Ani. «Se mi sparate, l'ostaggio morirà di sicuro.» Guardò espressamente Hood. «Magari proprio sua figlia.» Paul si irrigidì. Quella donna era più in gamba di quanto si aspettasse, pensò Rodgers. La danza era diventata un braccio di ferro, e lui sapeva la piega che avrebbero preso le cose. Ciò che gli premeva adesso era guadagnare tempo per August. «Che cosa vuole?» chiese. «Voglio che mi liberiate e poi lasciate la stanza. Risponderò alla chiamata, poi me ne andrò.» «Non se ne parla.» Tom Clancy
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«Perché no? Non volete sporcarvi le mani scendendo a patti con me?» «Sono sceso a patti con gente peggiore di lei» disse Rodgers. «Non voglio fare un accordo perché non mi fido. Lei ha bisogno che l'operazione abbia successo. I terroristi non pagano in anticipo. È così che si garantiscono la lealtà dei complici. Vista la situazione in cui si è ficcata, le occorre la sua parte del riscatto.» La TAC-SAT squillò una seconda volta. «Che lei si fidi o no» ribatté Ani «se io non rispondo al telefono, penseranno che mi è successo qualcosa e la ragazza sarà spacciata.» «Nel qual caso» replicò Rodgers pacatamente «lei verrà giustiziata oppure passerà il resto dei suoi giorni in carcere per complicità.» «Mi beccherò dai dieci ai vent'anni se collaboro. L'ergastolo o una condanna a morte se non lo faccio. Qual è la differenza?» «Circa trent'anni. Forse non è importante adesso, ma lo sarà quando ne avrà sessanta.» «Mi risparmi questa solfa.» «Signorina Hampton, per favore» intervenne Hood. «Non è troppo tardi per aiutare se stessa e decine di persone innocenti.» «Lo dica al suo amico, non a me.» La TAC-SAT suonò per la terza volta. «Ci saranno cinque squilli in totale» riprese Ani. «Dopodiché, una pallottola farà esplodere la testa di una ragazza nella sala del Consiglio di Sicurezza. È questo che volete? Tutti e due?» Rodgers fece un passetto avanti, incuneandosi tra la donna e Hood. Non sapeva se quest'ultimo avrebbe abboccato, ordinandogli di assecondarla, ma non intendeva correre rischi. Hood era ancora il direttore dell'OpCenter, e il generale voleva evitare un diverbio con lui. Soprattutto visto che Paul ignorava ciò che stava avvenendo in quel preciso momento. «Lasciatemi andare, e io dirò loro quello che volete» ribadì Ani. «Perché invece non dice quello che vogliamo e poi la lasciamo andare?» rintuzzò Rodgers. «Perché così come voi non vi fidate di me, io non mi fido di voi. E adesso come adesso, voi avete bisogno di me più di quanto io ne abbia di voi.» Il quarto trillo dell'apparecchio risuonò nella stanza. «Mike...» fece Hood. Sebbene Hood avesse approvato l'operazione a «collo di bottiglia» Tom Clancy
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ovviamente auspicava che fosse possibile restare fedeli all'idea originaria: attirare fuori i terroristi. Ma Rodgers indugiò. Pochi secondi in più potevano fare la differenza tra il successo e il fallimento. «Sono contrario» disse il generale ad Annabelle. «E non sopporta il fatto che ciò non abbia alcuna rilevanza» osservò la giovane donna. «No, mi è già capitato di dover mangiare merda prima d'ora. Siamo tutti adulti e vaccinati, qui. Quello che non sopporto è di dovermi fidare di qualcuno che già una volta ha mancato a una promessa.» Il generale si infilò una pistola nella cintura, frugò nella tasca dei calzoni e ne cavò fuori un coltello a serramanico. Fece scattare la lama con un rapido movimento della mano e cominciò a tagliare il nastro isolante con cui aveva legato la prigioniera. La TAC-SAT squillò per la quinta volta. Annabelle allungò la mano. «Finisco io» disse. Rodgers le porse il coltello e indietreggiò, nel caso decidesse di usarlo contro di lui. «Vi voglio fuori di qui» riprese Ani. «Voglio vedervi con la telecamera di sorveglianza, nel corridoio. E ridatemi le chiavi.» Rodgers prese il portachiavi dalla tasca dei pantaloni e lo gettò sul pavimento di fronte a lei, quindi afferrò la giacca dallo schienale della sedia e seguì Hood fuori dall'ufficio. La donna finì di liberarsi, poi sintonizzò il monitor del computer sulle immagini riprese dalla telecamera. Mentre Hood e Rodgers attraversavano l'atrio dell'ufficio, lei si chinò a prendere l'unità TAC-SAT. «Parla» disse. Rodgers non era a portata d'orecchio quando lei pronunciò quella parola, ma lo sarebbe stato presto. Uscì in corridoio e passò sotto la telecamera di sorveglianza. Al pari di Annabelle Hampton, il generale era uno squalo. Ma nonostante tutte le audaci minacce e le bugie di cui lei si era dimostrata capace, lui aveva qualcosa che a lei invece mancava. Trent'anni nell'acqua.
44 Domenica, ore 00.04, New York Tom Clancy
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Non appena Rodgers e Hood oltrepassarono l'obiettivo grandangolare della telecamera di sorveglianza, il primo tirò fuori il cellulare dalla tasca. Si fermò nel corridoio e ascoltò in silenzio, poi premette il tasto di fine conversazione e consegnò il telefonino a Hood insieme a una delle sue due pistole. «Ha detto loro la verità?» chiese Paul. «Ci ha fottuto per bene» rispose il generale. Estrasse il ricetrasmettitore dalla tasca della giacca e pigiò il pulsante in cima all'apparecchio. «Brett?» «Sì, generale.» «Via libera per il collo di bottiglia. Ce la farai?» «Ce la farò.» «Bene. Quando vuoi il feedback?» «Tra due minuti.» Rodgers guardò l'orologio. «L'avrai. Mi porto in posizione, lato nord dell'edificio. Sarò pronto tra sette minuti.» «D'accordo» disse August. «Buona fortuna.» «Buona fortuna anche a te.» Il generale ripose la radio nella tasca. Hood scosse il capo. «Ne avremo davvero bisogno.» «Già» convenne Rodgers, sbirciando di nuovo l'orologio. «Ascolta, io devo andare. Tu chiama il NYPD affinché procedano a isolare questo piano e ad arrestare la nostra signorina. Probabilmente sarà armata, perciò, se esce prima dell'arrivo della polizia, forse dovrai neutralizzarla.» «Posso farlo» affermò Hood. Tutti i funzionari dell'Op-Center avevano seguito un corso di addestramento all'uso delle armi in quanto possibili bersagli di attentati terroristici. Al momento, Paul non pensava di avere alcun problema a sparare ad Anna-belle Hampton, e non soltanto perché lei li aveva traditi, ma perché Rodgers era talmente pronto all'azione, talmente preso dal suo ruolo di comando, che non c'era verso di contestare i suoi ordini. In fondo, la leadership militare non era altro che questo. «Ho anche bisogno che tu faccia il tentativo che hai suggerito prima.» «Chatterjee?» Il generale annuì. «So che è un'impresa ardua, ma spiegale cosa sta per accadere. Se non vuole cooperare, dille che non c'è nulla che possa fare per interrompere quello che abbiamo iniziato...» Tom Clancy
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«Conosco la prassi.» «Bene. Aggiungi che c'è un'unica cosa che voglio da lei e dai suoi uomini.» «Che cosa?» domandò Hood. Rodgers adocchiò il cartello che indicava l'uscita e corse verso le scale. «Che se ne stiano fuori dai piedi.»
45 Domenica, ore 00.05, New York Il colonnello Brett August avanzava come un leopardo nel giardino silenzioso. Non c'erano elicotteri sopra quel settore; i loro fari erano tutti puntati sul quartier generale delle Nazioni Unite e sulle immediate vicinanze. A parte la luce diffusa dai riflettori intorno al complesso dell'ONU, la zona era immersa nell'oscurità. Il passo di August era lungo e sicuro, il suo corpo curvo in avanti, l'equilibrio perfetto. L'importanza della posta in gioco invece di intimorirlo gli infondeva energia. Nonostante le probabilità fossero a suo sfavore, era ansioso di entrare in azione, di mettersi alla prova. E nonostante in battaglia non ci fosse mai nulla di garantito, era fiducioso. Confidava nel suo addestramento, nelle sue capacità, e non aveva dubbi circa la necessità di ciò che stava facendo. E confidava anche nella bontà del piano. Quello che il generale Rodgers aveva detto circa la natura fluida e caotica della battaglia era assolutamente vero. E il collo di bottiglia consentiva a un'unità di contenerla in qualche modo. L'operazione a collo di bottiglia è una classica manovra utilizzata la prima volta nel Tredicesimo secolo - per quanto sia stato possibile determinare - da uno sparuto e raccogliticcio esercito di contadini russi guidato dal principe Aleksandr Nevskij. I russi stavano combattendo contro gli invasori teutonici, e l'unico modo immaginabile per sconfiggere gli avversari più numerosi e meglio armati era spingerli su un lago gelato, dove il ghiaccio si sarebbe rotto sotto il peso delle loro pesanti corazze. Di fatto, tutti i soldati nemici morirono affogati. La strategia era stata adattata dal defunto comandante dello Striker Team, tenente colonnello Charles Squires, per offensive con personale ridotto. L'idea era quella di selezionare un'area in cui fosse sufficiente coprire Tom Clancy
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due fianchi di una forza nemica - come per esempio una gola, un bosco o la sponda di un lago. Una volta individuato il luogo adatto, l'unità, per quanto esigua, si divideva in due parti. Un gruppo aggirava il fianco della forza avversa, mentre l'altro avanzava a ranghi compatti, muovendosi, per così dire, lungo il collo della bottiglia. Il nemico non poteva fuggire, poiché avrebbe rappresentato un facile bersaglio per un'unità nascosta che avesse seguito i suoi spostamenti. E se tentava una controffensiva, la forza nel collo di bottiglia era in grado di attaccare frontalmente, sulla destra o sulla sinistra. Mentre l'assalto ricacciava indietro gli avversari, questi venivano sorpresi dalla forza che si era portata alle loro spalle. A quel punto, l'azione congiunta dei due gruppi poteva annientare il nemico. Se eseguita correttamente, con la complicità della notte e della conformazione del terreno, la manovra a collo di bottiglia consentiva a una piccola forza di sconfiggerne una numericamente soverchiante. Il colonnello August non poteva penetrare nella sala con il favore del buio. Anche se fosse riuscito a spegnere le luci per un secondo o due, questo avrebbe messo il nemico sull'avviso. Preferiva l'effetto sorpresa. Sfortunatamente, con le luci accese, i terroristi si sarebbero accorti di avere di fronte un uomo solo. Lo avrebbero visto entrare nella sala, così come in precedenza avevano visto la squadra della sicurezza dell'ONU. Se reagivano in fretta, il collo di bottiglia poteva essere rotto. Ma anche in questo caso, August avrebbe goduto di alcuni vantaggi. Possedeva l'addestramento di un soldato, non di una guardia della sicurezza. I sedili all'interno della sala gli avrebbero offerto riparo. Grazie alle lunghe scale aperte, per i terroristi sarebbe stato difficile arrivare di soppiatto alle sue spalle, specialmente se lui avesse continuato a muoversi restando basso attraverso le file superiori. E se avessero cercato di usare gli ostaggi come scudo, il comandante dello Striker Team poteva sfruttare due ulteriori vantaggi. In primo luogo, la vista acuta. Brett August era uno dei tiratori più micidiali delle forze speciali, e aveva una collezione di medaglie a dimostrarlo. Soltanto Mike Rodgers ne aveva vinte di più. L'altro elemento a suo favore era che non avrebbe avuto timore di sparare. Se doveva rischiare la vita di un ostaggio per eliminare un terrorista, era pronto a farlo. Come aveva detto Rodgers, se non agivano con determinazione e rapidità, gli ostaggi sarebbero morti comunque. Il giardino si estendeva per qualche isolato verso sud. In effetti, si trattava di un piccolo parco piantumato in cui torreggiava una scultura di Tom Clancy
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san Giorgio che uccide il drago. La statua, dono dell'ex Unione Sovietica, era realizzata con frammenti di missili balistici sovietici SS-20 e americani Pershing che erano stati smantellati secondo le clausole del Trattato sulle armi nucleari intermedie del 1987. Al pari delle stesse Nazioni Unite, l'opera era un gesto di pubbliche relazioni: una grossolana, sfacciata bugia in onore della pace. I sovietici sapevano sin troppo bene che la pace non funzionava se non avevi i missili SS-20 e Pershing a sostenerla. O una buona lattica come il collo di bottiglia, pensò. Quello era un monumento russo che poteva rispettare. Grossi topi grigi si muovevano furtivi tra le piante di rose. In questo caso, i ratti erano ottimi esploratori; se erano in giro, probabilmente significava che più avanti non c'era nessuno. Gli animaletti si dispersero frettolosamente al suo passaggio. Il colonnello si abbassò ancora di più avvicinandosi alla fine del parco. Oltre la vegetazione c'era uno spiazzo largo una ventina di metri che conduceva all'atrio principale del General Assembly Building. C'erano ancora troppi cespugli e alberi per vederlo chiaramente. August impugnava una delle due Beretta che gli aveva consegnato Rodgers; l'altra la teneva nella tasca dei calzoni. Il colonnello si era finto un turista nella sua recente missione in Spagna, un travestimento che gli aveva insegnato a indossare pantaloni provvisti di tasche abbastanza profonde da nascondervi una pistola. Aveva con sé anche la ricetrasmittente, che avrebbe potuto tornargli utile per introdursi all'interno. In caso contrario, l'avrebbe spenta e lasciata da qualche parte. Una comunicazione o una scarica statica nel momento sbagliato poteva rivelare la sua posizione, ma per ironia era proprio quello che avrebbe potuto servirgli per penetrare nell'edificio. Quando si trovò a poco meno di ottanta metri dal General Assembly Building, August si fermò e guardò al di là delle altre, più piccole sculture in direzione del complesso dell'ONU. Oltre ai tre elicotteri che volteggiavano sull'area, nell'ampio piazzale i riflettori erano accesi e davanti all'ingresso dell'atrio principale stazionava una mezza dozzina di agenti del NYPD. Rodgers aveva ragione. I poliziotti avevano lasciato i loro posti di comando sulla strada per sostituire le guardie dell'ONU. August non poteva rischiare di farsi scoprire. Il NYPD non era come il servizio di sicurezza dell'ONU. I suoi uomini erano più simili agli Striker; sapevano come neutralizzare gli avversari. Quando era consulente della Tom Clancy
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NATO, August aveva passato del tempo con un ex capodipartimento del servizio di emergenza del NYPD che istruiva gli strateghi del Patto Atlantico sulle situazioni con ostaggi. La tattica del dipartimento di polizia di New York era stabilire e rafforzare un perimetro interno, quindi introdurvi armi speciali e pesanti giubbotti antiproiettile, e tenersi pronti ad affrontare i sequestratori in caso di rottura delle trattative. La situazione in corso sarebbe stata risolta già da ore se Chatterjee non fosse stata tanto compiacente. Era tutto conseguenza dell'atteggiamento mentale assunto dal mondo dopo Desert Storm. Qualcuno infrange la legge. Poi, in nome della pace planetaria, tutti si affannano a dialogare e intavolare negoziati mentre il trasgressore diventa sempre più forte e meglio arroccato. Quando finalmente si decide di fare qualcosa, c'è bisogno di una coalizione. Era una stronzata. Tutto quello che occorreva era inquadrare il responsabile nel mirino del fucile, e lui avrebbe fatto marcia indietro abbastanza in fretta. August prestava di rado attenzione agli orologi. Era solito muoversi il più velocemente ed efficientemente possibile, presumendo di avere meno tempo a disposizione di quanto in effetti ne avesse. Sinora, aveva sempre rispettato le scadenze. Ma anche senza controllare l'ora, adesso sapeva di non avere il tempo di spiegare ai poliziotti chi fosse e cosa ci facesse lì. Invece, decise di lasciare il giardino e scendere sulla Franklin Delano Roosevelt Drive. L'autostrada correva sotto la spianata che delimitava a est il parco. Avrebbe dovuto calarsi giù invece che usare le scale dietro le Nazioni Unite, ma era l'unico modo per raggiungere inosservato il garage. Svoltando verso il fiume, August proseguì lungo il bordo del vialetto di ghiaia che conduceva al passaggio pedonale di cemento, quindi attraversò lo spiazzo, raggiunse una bassa ringhiera di ferro e la scavalcò. Disteso sul ventre, rivolto verso est, guardò oltre il ciglio del passaggio pedonale. L'autostrada era tre metri e mezzo più in basso, ma non c'era alcun appiglio. Estrasse dalla tasca dei calzoni la ricetrasmittente e la sostituì con la pistola, poi si levò la cintura, ne infilò l'estremità con i buchi attraverso la custodia della radio e tirò finché la custodia non si bloccò contro la fibbia. Fece passare la cinghia intorno a una delle sottili sbarre che sorreggevano il corrimano, e tenendosi a entrambi i capi si calò oltre il bordo. Infine, continuando a stringere l'estremità con la fibbia, mollò l'altra per il salto di un metro e mezzo che lo separava dall'asfalto. Atterrò con le ginocchia leggermente piegate e fu lesto a rialzarsi. Dritto Tom Clancy
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davanti a lui, a sud, c'era il garage delle Nazioni Unite, parzialmente nascosto dall'angolo di un edificio sul lato nord-est della strada. Il colonnello si rinfilò la cintura mentre scivolava in un silenzio surreale sotto l'autostrada. Avvicinandosi all'entrata del garage, scorse due poliziotti di guardia a est del portone aperto. L'interno dell'autorimessa era illuminato, ma fuori era buio pesto; se fosse riuscito a far allontanare i due agenti, non sarebbe stato un problema raggiungere non visto l'ingresso. Gettò uno sguardo all'orologio. Tra venti secondi, Rodgers avrebbe alzato al massimo il volume della sua radio. Quando lui avrebbe fatto altrettanto con la propria, il sovraccarico avrebbe generato un feedback statico. A quel punto, i poliziotti avrebbero fatto una di queste tre cose: entrambi sarebbero andati a investigare; uno avrebbe indagato mentre l'altro sarebbe rimasto al suo posto; oppure avrebbero chiamato rinforzi. August si aspettava che ambedue gli agenti si allontanassero. Non potevano permettersi di trascurare un'eventuale minaccia, ed era immaginabile che il NYPD seguisse la stessa linea di condotta sul campo di tutti i dipartimenti di polizia delle grandi città: agli agenti non era consentito affrontare una situazione potenzialmente pericolosa da soli. Se ciò non fosse avvenuto, August sarebbe stato costretto a neutralizzare uno o entrambi i poliziotti. Non gli faceva piacere dover attaccare degli uomini che facevano parte della sua stessa squadra, ma era pronto a farlo. Si preparò mentalmente allo scontro, concentrandosi sul fine e non sui mezzi. Il colonnello si mosse rapido nell'ombra sotto l'autostrada, quindi posò la radio accanto al cordolo del marciapiede, accertandosi che il volume dell'apparecchio fosse al massimo. Dopodiché, quando restavano solo pochi secondi, si acquattò nel vano buio di una porta dalla parte opposta del garage. Si trovava all'incirca a dieci metri dall'angolo dell'edificio, e più o meno alla stessa distanza dall'autorimessa. August si levò le scarpe. Meno di cinque secondi dopo, uno strillo lacerante squarciò la notte. Brett osservò gli agenti di polizia guardarsi intorno. Uno estrasse la pistola e la torcia, e si avviò verso la strada, mentre il suo compagno lanciava via radio un 10-59, che identificava un rumore non correlato al crimine. «Sembra una radio» riferì l'uomo. «Abbiamo qualcun altro nei paraggi?» «Negativo» rispose il coordinatore all'altro capo della linea. «Vado a controllare con Orlando.» Tom Clancy
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Il primo agente si avvicinò con cautela tenendo la torcia puntata verso il lato dell'edificio sull'angolo nord-est. Il suo collega rimase leggermente da parte, con la pistola spianata e la radio accesa. Il comandante degli Striker era pronto a scommettere che i due uomini gli avrebbero sparato a vista, e doveva assicurarsi che non lo facessero. Mentre la ricetrasmittente continuava a gracchiare a tutto volume, August seguì con lo sguardo i due poliziotti. Non appena li vide raggiungere l'angolo, si abbassò e attraversò di corsa la strada, senza fare alcun rumore né sentire nulla di ciò che calpestava con i piedi scalzi. L'obiettivo era l'unica cosa ad avere importanza. Ed entrando nel garage e vedendo davanti a sé l'ascensore, aveva un solo obiettivo. Vincere.
46 Domenica, ore 00.06, New York Il segretario generale era sempre nel corridoio fuori dall'auditorium del Consiglio di Sicurezza. Ben poco era cambiato dall'inizio dell'assedio. Alcuni rappresentanti se n'erano andati, altri erano sopraggiunti. Gli agenti della sicurezza erano più agitati di prima, soprattutto quelli che avevano preso parte al fallito attacco. Il giovane tenente Mailman, un inglese trasferito alle Nazioni Unite dopo aver contribuito a pianificare Desert Fox, era il più irrequieto di tutti. Dopo che Chatterjee ebbe chiamato i terroristi per riferire loro il messaggio di Hood, l'ufficiale si avvicinò. «Signora?» Il silenzio era opprimente. Sebbene stesse bisbigliando, la sua voce sembrava assordante. «Sì, tenente?» «Signora, quello del colonnello Mott era un buon piano» insistette lui. «Non potevamo prevedere la variabile costituita dagli altri due tiratori.» «Che cosa vuole chiedermi?» «Sono rimasti soltanto tre terroristi, e io ho in mente un piano che potrebbe funzionare.» «No» replicò lei con fermezza. «Come fa a escludere che ci siano altre variabili?» «Non posso» ammise il tenente. «Il mestiere del soldato non è predire il futuro, ma combattere le guerre. E non lo si può fare restando alla finestra.» Tom Clancy
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Si udirono dei rumori dietro la porta della sala del Consiglio di Sicurezza. Gemiti, percosse, voci irose... stava accadendo qualcosa. «Le ho già dato la mia risposta» tagliò corto la donna. Un istante dopo, Paul Hood richiamò. Enzo Donati le porse il cellulare. «Sì?» disse Chatterjee con ansia. «Siamo stati fregati.» «Dio, no! Ecco cosa sta succedendo.» «Cosa?» «Una colluttazione. Stanno per uccidere l'ostaggio.» «Non è detto» fece Hood. «Uno dei miei uomini sta per arrivare. È vestito con abiti civili e...» «No!» lo interruppe il segretario generale. «Signora, lasci che ce ne occupiamo noi. Lei non ha un piano, mentre noi...» «Voi avevate un piano, l'abbiamo messo in atto... ed è andato a monte.» «Questa volta...» «No, signor Hood!» ribadì Chatterjee, chiudendo la comunicazione. Aveva voglia di mettersi a urlare. Il telefonino squillò di nuovo. Lei lo spense e lo riconsegnò a Donati. Disse al suo assistente di andarsene. Era come se qualcuno facesse girare il mondo come una trottola. Si sentiva frastornata, eccitata ed esausta al tempo stesso. Era questa la guerra? Un fiume dalle acque tumultuose che trascina in luoghi dove il meglio che si possa fare, il meglio che si possa sperare, è approfittare di qualcuno un po' più frastornato ed esausto? Mala Chatterjee fissò la porta del Consiglio di Sicurezza. Doveva provare nuovamente a entrare. Che altro c'era da fare? In quel momento, ci fu del trambusto nel corridoio, appena oltre la sala del Consiglio economico e sociale. Alcuni dei rappresentanti si voltarono, mentre degli agenti della sicurezza andavano a vedere cosa stava accadendo. «Sta arrivando qualcuno!» gridò uno di loro. «Zitto, maledizione!» sibilò Mailman. Il tenente corse verso il cordone di guardie, e lo raggiunse proprio mentre August, a piedi nudi, si faceva largo a spallate tra la folla di delegati. Il colonnello alzò entrambe le mani per mostrare che era disarmato, ma non smise di avanzare. «Lasciatelo passare!» ordinò Mailman. La linea di camicie blu si aprì immediatamente, e August la superò, estraendo nel frattempo le due Tom Clancy
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Beretta dalle tasche dei pantaloni. I suoi movimenti erano rapidi e sicuri. Nessun gesto superfluo. Si trovava ormai a poco più di tre metri dalla porta; tra lui e la sala del Consiglio di Sicurezza era rimasta solo Mala Chatterjee. Il segretario generale scrutò in volto il nuovo venuto. I suoi occhi le ricordavano quelli di una tigre allo stato brado che aveva visto una volta in India. Quell'uomo aveva fiutato la sua preda, e non avrebbe permesso che nulla si frapponesse tra loro. Al momento, quegli occhi le parevano l'unica cosa stabile nel suo vorticoso universo. Non era così che doveva essere. Trockij una volta aveva scritto che la violenza sembrava essere la distanza più breve tra due punti. Il segretario generale non voleva crederci. Quando studiava all'università di Delhi, il professor Sandhya A. Panda, un seguace di Mohandas Gandhi, insegnava il pacifismo come se fosse una religione. Mala Chatterjee aveva praticato quella fede con devozione. Eppure, nelle ultime cinque ore, tutto si era rivelato vano: tutti i suoi sforzi, la sua abnegazione, le sue pacate considerazioni. Perlomeno, il fallito tentativo del colonnello Mott era servito a far portare in ospedale una ragazza ferita. Proprio allora, un grido lamentoso e sommesso provenne dall'altro lato della porta. Era una voce di bambina, acuta e smorzata. «No!» diceva tra i singhiozzi. «Per favore, no!» Chatterjee soffocò un urlo involontario e si girò d'istinto per andare dalla ragazza, ma August la bloccò con un deciso colpetto di gomito mentre le sfrecciava accanto. Armato di pistola, Mailman lo seguì, per poi fermarsi a qualche passo da lui. Chatterjee fece per seguirli, ma il tenente si volse e la trattenne. «Lo lasci andare» disse piano. Chatterjee non aveva né l'energia né la volontà per opporre resistenza. In un manicomio, soltanto i matti sono a casa loro. Rimasero entrambi a osservare il colonnello che sostava davanti alla porta, ma solo per un attimo. Girò il pomello con la mano sinistra. Di nuovo, ogni suo movimento era misurato ed efficiente. Una frazione di secondo più tardi, entrò con le pistole in pugno.
47 Domenica, ore 00.07, New York Tom Clancy
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Subito dopo aver risposto alla chiamata di Barone, Annabelle Hampton andò nel ripostiglio, prese una delle ultime Beretta rimaste e uscì nel corridoio: era deserto. I bastardi che avevano cercato di fare i duri con lei se n'erano andati. Si diresse verso le scale, passando accanto agli uffici chiusi, allo sgabuzzino e ai bagni. Annabelle non voleva prendere l'ascensore per due motivi. Primo, c'erano delle videocamere di sorveglianza nel soffitto. Secondo, era possibile che gli uomini dell'Op-Center la aspettassero nell'atrio. Sarebbe scesa nello scantinato e sarebbe sgusciata fuori dall'uscita laterale. Più tardi avrebbe incontrato Georgiev, come programmato. Aveva mandato i due floaters della CIA a prelevare il bulgaro dall'infermeria dell'ONU. Ani avrebbe raccontato al suo superiore che si era reso necessario portare via Georgiev a causa di ciò che sapeva sulle operazioni della CIA in Bulgaria, in Cambogia e nel resto dell'Estremo Oriente. Non voleva che quelle informazioni cadessero nelle mani delle Nazioni Unite. Gli avrebbe anche detto che gli uomini dell'Op-Center erano in combutta con i terroristi, il che li avrebbe tenuti alla larga abbastanza a lungo da permetterle di intascare la sua parte del riscatto e lasciare il Paese. Se non fosse stato pagato alcun riscatto, avrebbe sempre potuto usare il denaro che Georgiev le aveva versato in anticipo per scappare in Sudamerica. La porta si aprì verso l'interno. Era di metallo pesante, come richiedevano le norme antincendio, e senza finestrelle, per cui la giovane donna la dischiuse con cautela nel caso ci fosse qualcuno dall'altro lato. Ma non c'era nessuno in agguato. Annabelle lasciò che la porta si richiudesse e si incamminò sul pianerottolo di cemento. C'erano quattro piani fino allo scantinato; là sotto avrebbe sempre potuto trovare ad attenderla Hood o uno dei suoi uomini. Non pensava invece che ci fosse la polizia. La tattica del NYPD era gettare una rete a maglie fitte. Gli agenti sarebbero saliti al terzo piano per intrappolarla, non le avrebbero concesso un'opportunità per fuggire. Aveva appena iniziato a scendere i gradini, quando le luci si spensero di colpo, così come le lampade d'emergenza, che potevano essere disattivate solo dal ripostiglio. Giusto accanto al bagno degli uomini, pensò con rabbia. Sia maledetto chiunque di quei bastardi ci ha pensato. Era ancor più furiosa con se stessa per non aver controllato la stanza. Ani valutò la possibilità di tornare sui propri passi, ma non voleva Tom Clancy
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sprecare tempo prezioso e rischiare una resa dei conti con chi aveva spento le luci. Passando la pistola nella mano sinistra, afferrò il corrimano con la destra e scese lentamente. Raggiunse il pianerottolo, girò l'angolo e iniziò a scendere la seconda rampa di scale, compiacendosi dei suoi progressi. Finché una luce abbagliante si accese all'improvviso di fronte a lei e una fitta lancinante le morse la coscia sinistra. Cadde in avanti, incapace di respirare e perdendo la pistola mentre il dolore le scuoteva l'intero fianco sinistro. «Riaccenda! » gridò qualcuno. Le scale tornarono a illuminarsi, e Annabelle alzò lo sguardo e vide un uomo nerboruto dai capelli neri torreggiare su di lei. Indossava una camicia bianca e un paio di pantaloni blu scuro. Nelle grosse mani stringeva una radio e un manganello da poliziotto. Apparteneva al servizio di sicurezza del dipartimento di Stato. Sulla targhetta di riconoscimento era scritto: VICECAPO BILL MOHALLEY. Mohalley raccolse la sua pistola e la infilò nella cintura. Ani cercò di alzarsi, ma invano. Riusciva a malapena a respirare. Poi udì aprirsi la porta sul pianerottolo del terzo piano. Mentre il funzionario del dipartimento di Stato avvertiva via radio il resto della sua squadra di salire al terzo piano, Hood scese di corsa le scale. Doveva essere stato lui a spegnere le luci. Paul si fermò sul pianerottolo e guardò dall'alto in basso la giovane donna. La sua espressione era triste. «Pensavo... che avessimo un patto» ansimò lei. «Io pure. Ma so che cosa ha fatto. L'ho sentita.» «Sta mentendo. Io... l'ho vista... con la telecamera.» Hood si limitò a scuotere il capo. Mohalley si avvicinò mentre i suoi uomini si precipitavano su per le scale. «Adesso si occuperà di tutto la mia squadra» disse Mohalley a Hood. «Grazie per l'aiuto.» «Grazie a lei per avermi dato il suo biglietto da visita. Ha notizie della ragazza ferita?» L'altro annuì. «Barbara Mathis è in sala operatoria. Ha perso molto sangue, e non hanno ancora estratto il proiettile. Stanno facendo tutto il possibile, ma le sue condizioni sono serie.» Guardò Annabelle. «Ha solo quattordici anni.» «Non volevo... che succedesse qualcosa di brutto alle ragazze» disse lei. Hood fece un passo indietro, poi, scrollando nuovamente la testa, si voltò e corse giù per le scale. Tom Clancy
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Annabelle reclinò il capo mentre sopraggiungeva il personale della sicurezza del dipartimento di Stato. La coscia le pulsava dolorosamente, e la schiena le faceva male dove aveva sbattuto sui gradini. Ma almeno riusciva di nuovo a respirare. Ciò che aveva detto a Mohalley era vero. Le rincresceva che una delle giovani violiniste fosse in pericolo di vita. Questo non sarebbe dovuto accadere. Se il segretario generale avesse collaborato, se avesse fatto la cosa giusta, a nessuna delle ragazze sarebbe stato torto un capello. Sebbene il suo cervello facesse fatica ad accettare l'idea, Annabelle sapeva che probabilmente avrebbe trascorso il resto della sua vita in prigione. Per quanto sgradevole fosse quella prospettiva, ciò che la infastidiva di più era il fatto che Paul Hood si fosse dimostrato più furbo di lei. Che una volta ancora, un uomo si fosse intromesso fra lei e la sua meta.
48 Domenica, ore 00.08, New York La porta di legno della sala del Consiglio di Sicurezza si aprì verso l'esterno e il colonnello August si piazzò nel vano, cercando con lo sguardo il killer e al tempo stesso offrendosi come bersaglio. Indossava il giubbotto antiproiettile ed era disposto a uno scambio di colpi se ciò fosse servito a salvare la vita di un ostaggio. Il terrorista non poteva sparare a un prigioniero se stava sparando contro di lui. La prima persona che vide fu una ragazzina esile inginocchiata a meno di cinque metri di distanza. Non era certo di chi fosse la poveretta, che piagnucolava e tremava come una foglia. Il terrorista era in piedi dietro di lei. Usando la visione periferica, August individuò la posizione degli altri due terroristi. Uno si trovava dietro il tavolo a ferro di cavallo, l'altro accanto alla porta da cui si accedeva alla sala del Consiglio di Amministrazione fiduciaria. Gli uomini erano tutti vestiti di nero e avevano il volto coperto da maschere da sci. Quello più vicino a lui stringeva i lunghi capelli biondi della ragazza per le radici, in prossimità della fronte, cosicché il suo visino era rivolto verso l'alto, e le teneva una pistola puntata alla testa. August aveva nel mirino metà della maschera dell'uomo, ma non voleva far fuoco per primo. Se avesse colpito il terrorista, le sue dita avrebbero Tom Clancy
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potuto contrarsi intorno al grilletto e l'ostaggio sarebbe stato spacciato. Il colonnello sapeva che era un errore; se aveva la possibilità di centrare il bersaglio, doveva sfruttarla. Ma il pensiero che la ragazza potesse essere la figlia di Paul Hood lo trattenne. Il terrorista esitò, poi fece qualcosa che colse August di sorpresa. Si lasciò cadere dietro la ragazza e, trascinandola con sé, si gettò nella fila di sedili alla sua destra. Evidentemente, preferiva evitare uno scontro a fuoco, e adesso aveva uno scudo umano a proteggerlo. Avrei dovuto sparare, maledizione!, si rimproverò August. Così, invece di avere un avversario in meno da affrontare, ora erano tutti in pericolo. Il terrorista e il suo ostaggio erano quattro file più giù. August infilò in tasca la Beretta che aveva nella mano destra, girò a sinistra e percorse velocemente qualche metro sul fondo della galleria. Silenziosamente, si appoggiò al corrimano dietro i sedili di velluto verde dell'ultima fila e saltò dall'altra parte. Subito dopo scavalcò anche la fila successiva. Soltanto due file di posti a sedere lo separavano dall'uomo e dalla ragazza. «Downer, sta venendo verso di te!» urlò uno degli altri terroristi con accento francese. «Alle tue spalle!» «Vattene o la uccido!» intimò l'australiano. «Le faccio saltare le cervella!» August era sempre a due file di distanza. Il tizio dall'accento francese si mise a correre verso di lui; avrebbe raggiunto la scala in due o tre secondi. Il terzo uomo teneva sotto tiro gli ostaggi. «Barone, il gas!» gridò Vandal. L'uruguaiano si precipitò verso una sacca da viaggio aperta vicino alla grande finestra panoramica sul lato nord. August si affrettò a scavalcare la terza fila di sedili. Adesso riusciva a scorgere Downer e la sua prigioniera sul pavimento dietro la quarta fila. L'uomo era disteso sulla schiena con la ragazza supina sopra di lui. Il comandante dello Striker Team aveva un problema. Il collo di bottiglia aveva come prerequisiti di evitare la morte dell'ostaggio, inabilitare il più vicino dei tre terroristi e stabilire una testa di ponte sul fondo della sala prima che intervenisse il generale Rodgers. Questo non si era verificato. Sfortunatamente, non solo la manovra era fallita sul nascere, ma il colonnello era costretto a rivedere le sue priorità. Doveva fare i conti con il gas. Barone, protetto dal tavolo circolare e dagli ostaggi, si era già liberato Tom Clancy
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della maschera da sci e aveva preso dalla sacca tre maschere antigas. Se ne infilò una e distribuì le altre ai compagni, che però non le indossarono poiché avrebbero pregiudicato la loro visione periferica. Poi l'uruguaiano tornò vicino alla borsa e tirò fuori una piccola bombola nera. August si voltò e corse verso il lato nord della sala. Nel frattempo, Vandal aveva raggiunto le scale sul lato sud. Il colonnello non aveva intenzione di fermarsi e regolare i conti con lui a colpi d'arma da fuoco. Anche se il francese lo avesse preso di mira, August sarebbe stato in una posizione migliore per eliminare Barone trovandosi sullo stesso lato della sala. Il tavolo e il fitto gruppo di ostaggi costituivano sempre un impedimento. «Nessuno si muova!» urlò August. Mettendosi a correre, avrebbero potuto frapporsi tra lui e il terrorista. Tutti rimasero immobili. Il colonnello raggiunse le scale e cominciò a scendere con il braccio destro di traverso sul petto; se lo avesse tenuto sul fianco, l'arto sarebbe stato più vulnerabile. Il francese era esattamente dall'altra parte della sala; all'improvviso si fermò ed esplose una serie di colpi, due dei quali raggiunsero August alla vita e alle costole. L'impatto lo gettò contro la parete, sebbene il giubbotto antiproiettile avesse bloccato le pallottole. «Ti ho beccato, bastardo!» esultò Vandal. «Downer, coprimi!» gridò, mentre tagliava attraverso una delle file di mezzo della galleria, diretto verso il lato nord. L'australiano tirò da parte la ragazza e si alzò in piedi lanciando un ruggito di rabbia. Staccandosi dalla parete, August riprese a strisciare giù dai gradini, sforzandosi di ignorare l'acuto dolore al fianco. Da dove si trovava, dietro i sedili, il francese non poteva colpirlo, e Barone ormai era quasi in vista. In quel momento, una forte detonazione risuonò al fondo della sala. Con la coda dell'occhio, August vide il francese cadere tra due file di posti. Downer si gettò prontamente a terra mentre il tenente Mailman si chinava nel vano della porta con la pistola spianata. «Vada avanti, signore!» strillò l'inglese. Ben fatto, tenente, pensò August. Mailman aveva sparato al francese, ma il colonnello non avrebbe saputo dire se il colpo fosse andato a segno. Raggiunse l'ultimo scalino mentre Barone staccava una striscia di Tom Clancy
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plastica rossa dall'imboccatura della bombola, la gettava via e iniziava a svitare il coperchio di protezione della valvola. August sparò due volte. Entrambi i proiettili centrarono Barone alla testa, facendolo cadere all'indietro. La bombola cascò sulla moquette, e un sottile filo di vapore verde avvolse il collo del contenitore. Imprecando, August si alzò in piedi e si precipitò verso la porta che metteva in comunicazione la sala del Consiglio di Sicurezza con quella del Consiglio di Amministrazione fiduciaria. La sua idea era di raggiungere la bombola e chiuderla oppure, se non ce l'avesse fatta, di coprire gli ostaggi mentre uscivano di corsa dalla porta. Ma non riuscì a metterla in pratica. Il francese riemerse incolume sul lato nord della galleria e aprì il fuoco, questa volta mirando alle gambe del colonnello. August avvertì due feroci morsi, uno alla coscia sinistra e l'altro allo stinco destro. Crollò a terra, digrignò i denti e si trascinò avanti, nonostante le ferite gli bruciassero terribilmente. L'addestramento alla gestione del dolore gli aveva insegnato a porsi obiettivi piccoli e realizzabili. Era così che i soldati restavano coscienti e operativi sul campo di battaglia. La bombola era poco lontana da lui, ma il gas cominciava a disperdersi nell'ambiente ed era necessario riavvitare il coperchio di protezione. Non aveva tempo per girarsi e sparare. D'un tratto, ci fu un potente scoppio meno di quattro metri davanti a August. Le grandi tende marroni della finestra più a nord si spalancarono e pezzi di vetro blindato volarono all'interno della sala. Quasi simultaneamente, la parte superiore dell'enorme vetrata si fracassò a terra con uno schianto tremendo. Un istante dopo, in perfetto orario, Mike Rodgers fece irruzione nella sala.
49 Domenica, ore 00.11, New York Questa non è un'operazione a collo di bottiglia, pensò cupamente Mike Rodgers perlustrando con lo sguardo l'aula del Consiglio di Sicurezza. Quella era la dimostrazione dell'assioma dello Striker Team secondo cui non c'era nulla di garantito. Tom Clancy
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Il generale aveva attraversato il roseto come August prima di lui. Quando era arrivato al cortile, tuttavia, la sparatoria era già scoppiata, e gran parte delle forze dell'ordine fuori dall'atrio era entrata nell'edificio. Lui era riuscito a raggiungere di soppiatto la siepe sul lato orientale del cortile, era strisciato fin sotto la finestra sul lato nord della sala del Consiglio di Sicurezza e senza perdere tempo aveva piazzato e fatto detonare il C-4. Aveva utilizzato solo una piccola quantità di plastico per ridurre al minimo la propagazione di schegge. Sospettava che non appena il fondo della finestra fosse esploso verso l'interno, il resto della lastra di vetro sarebbe crollato. Non si era sbagliato. Entrando nella sala, Rodgers vide Brett August a quattro metri da lui. Il colonnello era in ginocchio e sanguinava da entrambe le gambe. Tra loro c'era un terrorista morto e una bombola che perdeva gas. Scorse anche il bandito armato sulla scala. Qualcosa era andato decisamente storto. Sparando due colpi in direzione del terrorista nella galleria per ricacciarlo tra i sedili, il generale si volse e afferrò la tenda. Lo scoppio l'aveva lacerata nel mezzo e, tirando con violenza, riuscì a strapparne la metà inferiore. Molti gas tossici risultavano letali se entravano in contatto con la cute, perciò preferiva cercare di contenere la diffusione dell'agente chimico piuttosto che tentare di chiudere la bombola. Rodgers tirò il pesante drappo di stoffa sopra il contenitore cilindrico, calcolando che questo gli avrebbe fatto guadagnare almeno cinque minuti, un tempo sufficiente per far uscire tutti gli ostaggi. Li avrebbe fatti passare attraverso la finestra in frantumi; poiché si trovava dietro di lui, gli sarebbe stato più facile coprire l'evacuazione. Mentre il generale si voltava verso le ragazze riunite intorno al tavolo, August si girò sulla schiena e si tirò su a sedere. Era rivolto verso il fondo della sala e impugnava ancora una delle sue Beretta. «È tutto a posto» disse Rodgers, guardando i loro visi. «Voglio che usciate tutte dalla finestra, e alla svelta! » Guidate dalla signorina Dorn, le giovani violiniste si affrettarono verso la terrazza esterna e la salvezza. «Dov'è il terzo terrorista?» domandò Mike a Brett August. «Quarta fila dall'alto» rispose il colonnello. «Ha con sé una delle ragazze.» Rodgers imprecò. Non aveva notato Harleigh Hood tra le ragazze. Doveva trattarsi di lei. Intanto, August si era trascinato sulle ginocchia fino alla scala. Tom Clancy
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Puntellandosi alla balaustra di legno, si alzò in piedi e iniziò a salire i gradini. Camminare era un'autentica agonia per il colonnello; cercava di poggiare il peso quasi interamente sul braccio sinistro, mentre quello destro era teso, la Beretta puntata davanti a sé. Mike non ebbe bisogno di chiedergli che intenzioni avesse; stava facendo da esca per attirare l'attenzione del terrorista. Rodgers si trovava tra gli ostaggi e la galleria. Diversi delegati si alzarono e si affannarono per uscire, spingendo da parte le ragazze mentre correvano. Se fosse stato per lui, avrebbe sparato loro contro, ma non voleva dare le spalle alla galleria, non con uno dei terroristi ancora lassù. La sala si stava svuotando, e la spessa tenda per il momento sembrava riuscire a trattenere il gas. Rodgers avrebbe voluto spostarsi sul lato nord per coprire August, ma sapeva di dover badare all'incolumità degli ostaggi. Osservò il colonnello avanzare zoppicando sulle scale. Il generale si girò un attimo per dare un'occhiata alle ragazze. Erano state tutte evacuate, e anche gli ultimi delegati stavano raggiungendo la finestra. Tornando a voltarsi, udì uno sparo proveniente dalla galleria, e vide le braccia di August scattare all'indietro mentre il colonnello finiva barcollando contro la parete e infine cadeva di schiena. Rodgers lanciò un'imprecazione e corse verso la scala, ma il terrorista si alzò e aprì il fuoco su di lui. Poiché non indossava un giubbotto antiproiettile, il generale fu costretto a buttarsi a terra davanti alla galleria. «Non ti preoccupare!» tuonò il bandito. «Verrà anche il tuo turno!» «Farai meglio ad arrenderti!» gli urlò Rodgers mentre strisciava sul ventre verso la scala. L'uomo non rispose. Non con le parole. Quel che giunse all'orecchio di Mike furono due spari e poi un grido. Ti ucciderò, pensò il generale mentre si rialzava rapidamente, sperando di colpirlo prima che potesse girarsi e prendere la mira. Ma era in ritardo. Osservò il terrorista lasciar cadere la pistola e accasciarsi sullo schienale di uno dei sedili: c'erano due grandi, rossi fori d'uscita nella sua schiena. Avvicinandosi alla scala, Rodgers vide August, sempre sdraiato sul dorso; sulla sua tasca sinistra c'era un grosso buco. «Quel figlio di puttana avrebbe dovuto fare più attenzione» disse il comandante dello Striker Team estraendo dalla tasca la seconda pistola. La canna luccicante della Beretta fumava ancora. Rodgers tirò un sospiro di sollievo, ma non era affatto contento mentre Tom Clancy
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si voltava verso la galleria. C'era ancora un terzo terrorista, quello che a quanto sembrava teneva in ostaggio Harleigh Hood. Era rimasto sinistramente silenzioso durante tutta la sparatoria. L'ufficiale delle forze di sicurezza dell'ONU era accovacciato nel vano della porta. A eccezione del sibilo smorzato della bombola di gas sotto la tenda, nella sala regnava la quiete. E poi una voce risuonò tra i sedili nella parte superiore della galleria. «Non avete vinto» dichiarò Reynold Downer. «Non avete fatto altro che offrirmi una fetta più grossa del riscatto.»
50 Domenica, ore 00.15, New York «Sono fuori!» urlò un giovane uomo nella sala d'attesa. «Le ragazze sono uscite, sane e salve!» I genitori reagirono alla notizia con lacrime e risate di gioia isterica, alzandosi e abbracciandosi l'un l'altro prima di dirigersi verso la porta. La conferma ufficiale della liberazione degli ostaggi arrivò mentre uscivano in fila nel corridoio, dove c'era ad accoglierli un funzionario in uniforme della sicurezza del dipartimento di Stato. Era una donna di mezza età, dai corti capelli castani e dai grandi occhi nocciola, con una targhetta su cui era scritto il nome BARONI. Li informò che le ragazze sembravano in buone condizioni, ma sarebbero state accompagnate in via precauzionale al NYU Medicai Center, e che di lì a poco un autobus sarebbe stato a loro disposizione per portarli in ospedale dalle figlie. I genitori espressero la loro riconoscenza alla donna come se fosse stata lei in persona l'autrice del salvataggio. Il funzionario del dipartimento di Stato si fece strada all'interno della sala mentre indirizzava i genitori verso un ascensore in fondo al corridoio. Aveva l'aria di cercare qualcuno in particolare. Quando vide Sharon Hood, le toccò il braccio. «Signora Hood, mi chiamo Lisa Baroni» le disse. «Posso scambiare due parole con lei?» La richiesta provocò a Sharon un immediato attacco di nausea. «Qualcosa non va?» chiese. Lisa la guidò gentilmente lontano dall'ultimo dei genitori. Le due donne si fermarono accanto a uno dei divani. «Cosa c'è?» domandò Sharon. Tom Clancy
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«Signora Hood, temo che sua figlia sia ancora là dentro.» Quelle parole suonavano ridicole. Un momento prima erano tutte in salvo, e lei era felice. «Cosa vuol dire?» «Sua figlia è ancora all'interno della sala del Consiglio di Sicurezza.» «No, sono uscite!» replicò Sharon andando in collera. «Quell'uomo ha appena detto che sono uscite!» «La maggior parte è stata evacuata attraverso una finestra rotta. Ma sua figlia non faceva parte del gruppo.» «Come no?» «Signora Hood, perché non si siede?» le suggerì la donna, indicando il divano. «Io rimarrò qui con lei.» «Perché mia figlia non era con le altre?» insistette Sharon. «Cosa sta succedendo là dentro? Mio marito è con loro?» «Non conosciamo esattamente la situazione» rispose Lisa con dolcezza. «Quello che sappiamo è che al momento ci sono tre agenti all'interno della sala. A quanto pare, sono riusciti a eliminare tutti i terroristi, tranne uno...» «E lui tiene in ostaggio Harleigh!» urlò Sharon, stringendosi le tempie. «Oh, mio Dio! Ha la mia bambina!» La donna le prese i polsi delicatamente, ma con fermezza, e inserì le sue dita tra quelle serrate di Sharon. «Dov'è mio marito?» strillò lei. «Signora Hood, mi ascolti. Sappia che stanno facendo tutto il possibile per proteggere sua figlia, ma forse ci vorrà del tempo. Deve cercare di essere forte.» «Voglio mio marito!» disse Sharon tra i singhiozzi. «Dov'è andato?» chiese Lisa Baroni. «Non lo so. Ha... ha detto che doveva fare qualcosa... ha con sé il cellulare. Devo chiamarlo!» «Perché non mi dà il suo numero? Lo chiamerò io per lei.» Sharon diede alla donna il numero di cellulare di Paul. «Bene.» Lisa le lasciò le mani e indicò uno dei tavoli. «Vado a telefonare. Lei resti seduta qui. Torno subito.» Sharon annuì, poi riprese a piangere. Rimase seduta a singhiozzare mentre Lisa Baroni si avvicinava al tavolo con i telefoni. Provò a comporre il numero, ma il cellulare di Hood era spento. Sharon non riusciva a ricordare un'occasione in cui avesse provato tanta Tom Clancy
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rabbia e disperazione. In quel momento non aveva bisogno di un funzionario del dipartimento di Stato che le tenesse la mano. Aveva bisogno di suo marito. Aveva bisogno di parlare con lui, per non sentirsi completamente sola. Qualunque cosa lui stesse facendo, dovunque si trovasse, almeno questo glielo doveva. Solo questo. Comunque fosse andata a finire, Sharon era sicura di una cosa. Non avrebbe mai perdonato Paul. Mai.
51 Domenica, ore 00.16, New York Paul Hood stava attraversando di corsa il parco quando udì l'esplosione e scorse il lampo dietro le Nazioni Unite. Poiché non sentì né vide volare schegge di vetro, ne concluse che Mike Rodgers aveva fatto saltare la finestra verso l'interno. Si lanciò avanti, osservando i poliziotti di guardia all'ingresso dell'atrio accorrere sul posto. Le ragazze e i delegati stavano già uscendo attraverso la vetrata infranta. Ce l'hanno fatta, pensò Hood con orgoglio. Sperava che Rodgers e August stessero bene. Era senza fiato quando raggiunse il cortile. Uno dei poliziotti era corso via in direzione della la Avenue; evidentemente, aveva avvertito via radio i tecnici di medicina d'urgenza e voleva mostrare loro dove allestire le loro postazioni nel parcheggio, lontano dall'edificio. Nel frattempo, gli altri agenti stavano scortando gli ostaggi liberati attraverso il cortile, in direzione del posteggio. Camminavano tutti con le proprie gambe e sembravano illesi. Hood si fermò e rimase a guardarli mentre si avvicinavano. Non vide Harleigh tra loro, ma riconobbe una delle sue amiche, Laura Sabia. Le andò incontro. «Laura!» gridò. Uno dei poliziotti gli sbarrò la strada. «Mi scusi, signore, ma dovrà aspettare che sua figlia...» «Non è mia figlia, agente. Sono Paul Hood, dell'Op-Center di Washington. Abbiamo organizzato noi l'operazione di salvataggio.» «Congratulazioni, ma devo chiederle di allontanarsi dalla zona e lasciarci...» «Signor Hood!» disse Laura, uscendo dalla fila. Tom Clancy
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Paul sgusciò intorno al poliziotto, raggiunse la ragazza e le prese la mano. «Laura, grazie a Dio. Stai bene?» «Sì.» «E Harleigh? Non la vedo.» «È... è ancora dentro.» Quelle parole ebbero l'effetto di un pugno nello stomaco. «Dentro?» chiese Hood. «Nel Consiglio di Sicurezza?» Laura fece di sì con la testa. Lui la guardò negli occhi arrossati. Non gli piacque quello che vi lesse. «È ferita?» «No» rispose la ragazza scuotendo il capo e iniziando a piangere. «Ma lui l'ha presa.» «Chi?» «L'uomo che ha sparato a Barbara.» «Uno dei terroristi?» Laura annuì. Hood non attese di sentire altro. Lasciando la mano di Laura e ignorando le urla dell'agente di polizia, si precipitò verso la terrazza.
52 Domenica, ore 00.18, New York La testa di Harleigh spuntò sopra i sedili. Downer era nascosto dietro i posti a sedere e la teneva saldamente per i capelli. Il viso della ragazza era pallido e rivolto verso l'alto, gli occhi tirati sui lati. La canna della pistola era premuta sulla sua nuca. Mike Rodgers era ai piedi della galleria, al centro. Dalla sua posizione, l'unico bersaglio che gli offriva il terrorista era la mano sinistra. Ma era troppo vicina al collo di Harleigh, e inoltre era la destra a impugnare la pistola. Il generale teneva comunque la Beretta puntata sulla mano, benché sapesse di non poter tirare la faccenda troppo per le lunghe. La tenda avrebbe contenuto il gas tossico ancora soltanto per pochi minuti, e se anche fosse riuscito a impossessarsi di una maschera antigas, questo non avrebbe aiutato Harleigh. August stava strisciando lungo la scala sul lato nord della sala, a destra di Rodgers. Seppure azzoppato e chiaramente sofferente, il colonnello non aveva alcuna intenzione di darsi per vinto. Dietro le spalle del terrorista, Tom Clancy
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l'ufficiale della sicurezza dell'ONU rientrò con circospezione nella sala dalla porta sul fondo. Doveva trattarsi del tenente Mailman, quello che aveva ragguagliato Chatterjee sul fallito blitz. D'improvviso, Rodgers udì un rumore alle sue spalle. Si girò mentre Hood compariva nel telaio della finestra fracassata. Il generale gli fece cenno di stare indietro. Paul indugiò un istante, poi si ritirò nell'oscurità della terrazza. Mike tornò a puntare la pistola in direzione del terrorista. «Ehi, eroe!» gridò l'uomo. «Hai visto che ho la ragazza?» La sua voce era forte, provocatoria, inflessibile. Non sarebbero riusciti a intimidire quel tipo. Ma Rodgers aveva un'altra idea. «Hai visto?» ripeté Downer. «Sì, ho visto.» «E la ammazzerò, se dovrò farlo!» abbaiò l'australiano. «Le farò un bel buco nella sua dannata testolina!» «Ti ho visto uccidere il mio collega. Ti credo.» August si fermò e guardò Rodgers, che gli fece segno di rimanere immobile. Il colonnello obbedì: doveva fingersi morto. «Cosa vuoi che facciamo?» chiese il generale. «Primo, voglio che chi si sta avvicinando di soppiatto alle mie spalle se ne vada immediatamente fuori» rispose il terrorista. «Da qui, riesco a vedere i suoi piedi. Posso vedere anche la finestra, perciò, se qualcuno cerca di introdursi nella sala, me ne accorgerò.» «D'accordo, niente trucchi. Ti ascolto.» «Lo spero bene. Quando se ne sarà andato, voglio che tu posi a terra la pistola e alzi le mani. Quando sarete fuori tutti e due, voglio che mandi dentro quella cagna di un segretario generale con le mani sulla testa.» «Non hai molto tempo» gli fece notare Rodgers. «Il gas comincia a...» «So del gas!» urlò Downer. «Non avrò bisogno di molto tempo se chiudi il becco e ti muovi!» «Va bene.» Il generale alzò lo sguardo verso la porta. «Tenente, per favore, si assicuri che il segretario generale sia nel corridoio e poi esca dalla sala. La raggiungerò subito.» Mailman tentennò. Rodgers puntò la pistola verso la fronte dell'ufficiale. «Tenente, le ho detto di uscire di qui.» L'uomo corrugò la fronte e lasciò la sala camminando all'indietro. Mike si chinò, depositò la pistola sul pavimento e sollevò le mani, Tom Clancy
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quindi si diresse verso la scala sul lato sud dell'aula e cominciò a salire rapidamente. Non pensava che il terrorista si sarebbe preso il disturbo di sparargli. Fino all'arrivo del segretario generale Chatterjee, lui era il suo unico mezzo di comunicazione con l'esterno. Il generale era quasi all'altezza della quarta fila dal fondo, dov'era rintanato il terrorista. Passando, gettò uno sguardo a Harleigh, che gli dava le spalle. L'esile ragazzina era immobilizzata per i capelli. Non stava piangendo, ma questo non lo sorprese. Parlando con molti prigionieri di guerra, aveva imparato che il dolore generava concentrazione. Sovente era una grazia, una distrazione dal pericolo o da una situazione apparentemente disperata. Avrebbe voluto dire qualche parola d'incoraggiamento alla figlia di Hood, ma al tempo stesso non voleva fare qualcosa che potesse infastidire il terrorista. Non con una canna di pistola premuta sul cranio della ragazzina. Rodgers uscì a ritroso dalla porta, il che gli permise di lanciare un'ultima occhiata al lato nord della sala. Non riuscì a localizzare Brett August; o il colonnello si era rannicchiato vicino ai sedili, oppure aveva perso talmente tanto sangue che era svenuto. Sperava che la seconda ipotesi fosse quella sbagliata; le cose erano già abbastanza complicate così. Trovò Chatterjee nel corridoio. La donna lo fissò per un istante, poi si mise le mani sul capo e fece per avviarsi verso la porta. Rodgers le sbarrò la strada con un braccio. «Sa del gas tossico?» le domandò. «Il tenente mi ha informata.» Il generale si fece più vicino. «L'ha informata anche che c'è ancora uno dei miei uomini dentro?» sussurrò. Lei parve stupita. «Il terrorista crede che il mio uomo sia morto» spiegò Rodgers. «Se il colonnello August avrà la possibilità di colpirlo, non se la farà sfuggire. Non voglio che lei appaia sorpresa e tradisca la sua presenza.» L'espressione del segretario generale si rabbuiò. Mike abbassò il braccio e la donna gli passò accanto. Mentre entrava nella sala del Consiglio di Sicurezza e chiudeva la porta dietro di sé, lui ebbe l'impulso di correrle dietro e riportarla fuori. Provava una sensazione di disgusto, la sensazione che malgrado tutto quello che era successo, Tom Clancy
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Chatterjee credesse ancora in una politica non scritta delle Nazioni Unite. Una politica che l'organizzazione mondiale aveva ripetutamente appoggiato contro il buonsenso e i fondamenti della morale. L'idea che i terroristi avessero dei diritti.
53 Domenica, ore 00.21, New York La mente e l'anima di Mala Chatterjee erano tormentate mentre entrava nell'aula del Consiglio di Sicurezza. Il terrorista era steso sul pavimento. La donna vide la testa della prigioniera, e vide la pistola puntata contro di essa. Era addolorata per la ragazza, e quell'atto terroristico la ripugnava. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per salvarla. Ma il segretario generale era turbato dall'idea di permettere che venisse commesso un omicidio quando forse c'era un'altra via da seguire. Se fosse diventata come quegli individui, se avesse ucciso senza scrupoli di coscienza, incurante della legge, che senso avrebbe avuto la sua vita? Non sapeva nemmeno se quell'uomo avesse davvero ammazzato qualcuno, se fosse capace di ammazzare qualcuno. Chatterjee cominciò a scendere le scale. «Ha chiesto di parlare con me» disse. «No, ho chiesto che entrasse» la corresse Downer. «Non voglio parlare. Voglio andarmene di qui... e con quello per cui sono venuto.» «Desidero aiutarla» continuò lei, fermandosi all'inizio del passaggio tra le due file. «Lasci andare la ragazza.» «Basta parlare!» si spazientì Downer. Harleigh strillò mentre l'australiano le tirava più forte i capelli. «C'è del gas tossico che sta uscendo da una bombola, laggiù. Ho bisogno che predisponga un posto dove io e la signorina possiamo aspettare mentre lei mi procura i soldi e un mezzo di trasporto. Voglio sei milioni di dollari.» «D'accordo.» Chatterjee notò qualcosa che si muoveva sulla scala a nord. C'erano degli occhi che sbirciavano da sopra il bracciolo dell'ultimo sedile. L'uomo si sollevò leggermente e si portò l'indice davanti alle labbra. Il segretario generale era combattuto. Era sul punto di diventare partecipe di un tentativo di liberazione oppure complice di un assassinio a Tom Clancy
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sangue freddo? Quel soldato americano e il suo compagno avevano salvato gran parte degli ostaggi. Poteva darsi che fossero stati costretti a uccidere, ma questo non dava loro il diritto di continuare a farlo. L'obiettivo di Chatterjee era sempre stato ricercare una soluzione incruenta al conflitto. Non poteva rinunciarvi mentre c'era ancora una possibilità. E poi c'era la questione della fiducia. Se fosse riuscita a convincere il terrorista che intendeva aiutarlo, forse poteva convincerlo anche ad arrendersi. «Colonnello August» disse «è stato versato già troppo sangue, oggi.» August si irrigidì. Per un attimo, lei si chiese se fosse sul punto di spararle. «Con chi sta parlando?» volle sapere Downer. «Chi c'è?» «Un altro soldato.» «Allora non è morto, quel bastardo!» sbraitò l'australiano. «Per favore, deponga le armi e se ne vada, colonnello» lo pregò la donna. «Non posso» rispose con amarezza August. «Sono ferito.» «E ci lascerai le penne se non esci subito da qui!» minacciò Downer. L'australiano fece voltare rudemente Harleigh, la tirò su per i capelli, si inginocchiò dietro di lei e puntò l'automatica verso August. Esplose una breve raffica mentre il comandante degli Striker si lasciava cadere indietro sulla scala e schegge di legno dei braccioli volavano in ogni direzione. L'eco degli spari indugiò qualche istante nell'aria dopo che il terrorista aveva rilasciato il grilletto. Con un grugnito, Downer si volse a guardare Chatterjee, tenendo sempre Harleigh tra sé e August. All'altro capo della sala, il segretario generale poteva scorgere il gas tossico cominciare a spargersi intorno ai bordi della tenda. «Lo faccia uscire!» ruggì il terrorista. «Sto cercando di aiutarla!» strillò la donna. «Lasci che...» «Si tappi quella bocca e faccia come le ho detto!» tuonò Downer, girandosi verso di lei. Per un attimo, il suo petto fu rivolto in direzione della finestra rotta. Un colpo d'arma da fuoco lacerò l'aria. La pallottola penetrò nel collo dell'australiano, sul lato destro, lontano da Harleigh. Il terrorista lasciò cadere l'automatica e mollò la ragazza mentre l'impatto gli faceva scattare indietro le braccia. Paul Hood si rialzò dalla parte anteriore della sala del Consiglio di Tom Clancy
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Sicurezza; impugnava la Beretta che Mike Rodgers si era lasciato dietro. «Buttati giù, Harleigh!» gridò. Lei si coprì il capo con le mani e si gettò a terra. Un istante più tardi, due spari in rapida successione risuonarono nella scala sul lato nord. Con il primo proiettile, il colonnello August centrò la guancia sinistra del terrorista, con il secondo, gli perforò la tempia mentre cadeva. Il sangue si raccolse sul pavimento ancor prima che il corpo toccasse terra. Chatterjee lanciò un urlo. Paul Hood lasciò cadere la pistola e corse verso la scala. August gli fece segno di proseguire, e lui in un istante fu al fianco di sua figlia.
54 Domenica, ore 00.25, New York Una volta uscito dalla sala del Consiglio di Sicurezza, Mike Rodgers aveva avvisato il nucleo specializzato nel trattamento di sostanze pericolose del NYPD a proposito dell'emissione di gas tossico. La squadra si era radunata nel cortile sul lato nord, pronta a intervenire non appena la sala fosse stata sgomberata. L'intero complesso dell'ONU era stato isolato; adesso era in quarantena: porte e finestre erano coperte con teli di plastica dai bordi sigillati con schiuma a essiccamento rapido. Poiché non era rimasto nessuno in grado di precisare alla polizia di quale tipo di gas si trattasse, un laboratorio mobile del servizio di emergenza era giunto sul posto per effettuare le necessarie analisi. Squadre del comando del servizio medico di emergenza del dipartimento dei vigili del fuoco di New York erano impegnate a montare delle tende nel Robert Moses Playground, poco più a sud del quartier generale dell'ONU. Il Marine 1 del FDNY, il New York City Fire Department, stava facendo altrettanto. La presenza dei vigili del fuoco era richiesta dalla legge in situazioni caratterizzate dall'uso di materiali altamente rischiosi. Molti gruppi terroristici adottavano la strategia della terra bruciata: se non potevano vincere, si assicuravano che nessun altro potesse farlo. Dal momento che uno dei terroristi era sparito dall'infermeria dell'ONU, e che il NYPD non poteva escludere l'esistenza di altri complici, le forze dell'ordine dovevano essere preparate a qualunque eventualità. Incluso un atto finale di rivalsa. Paul Hood e la figlia si strinsero in un lungo abbraccio. Lui piangeva Tom Clancy
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come una fontana, e Harleigh era scossa da un violento tremore, avvinghiata al padre e con il capo appoggiato sul suo petto. Un tecnico di medicina d'urgenza le gettò una coperta sulle spalle, prima di condurli verso le tende. «Dobbiamo avvisare la mamma» disse Paul tra le lacrime. Harleigh annuì. Dietro di loro, Mike Rodgers stava osservando i medici portare via Brett August. Il generale disse a Hood che avrebbe mandato qualcuno a prendere Sharon, e aggiunse che era fiero di lui. Paul lo ringraziò. Ma la verità era che quando Rodgers aveva lasciato la sala del Consiglio di Sicurezza e lui vi si era introdotto di soppiatto, sapeva che nulla - né la propria incolumità né la legge nazionale o internazionale - gli avrebbe impedito di cercare di salvare Harleigh. Hood e la figlia si diressero verso la scala mobile insieme ai delegati e al personale della sicurezza. Mentre scendevano, lui non riusciva a immaginare cosa passasse per la mente di Harleigh. Lei continuava a tenerlo stretto e a guardare fisso davanti a sé con occhi vitrei. Non era in stato di shock; non aveva subito nessun danno fisico che potesse avere conseguenze di tipo ipovolemico, cardiogeno, neurogeno, settico o anafilattico. Tuttavia, per cinque ore la ragazza aveva visto sparare a delle persone, compresa una delle sue migliori amiche, e per poco non era rimasta uccisa lei stessa. Lo stress post-traumatico sarebbe stato intenso. Hood sapeva per esperienza che gli eventi di quel giorno avrebbero accompagnato la figlia in ogni momento della giornata per il resto della sua vita. Gli ex ostaggi non erano mai veramente liberi. Erano perseguitati da un senso di disperata solitudine, dall'umiliazione di essere stati trattati come oggetti, non come esseri umani. La dignità poteva essere ricostruita, ma in maniera frammentaria, come un mosaico; la somma delle parti non era mai eguale al tutto andato in pezzi. Sono le dure prove a cui ci sottopone la vita, rifletté Hood. Ma sua figlia era sana e salva tra le sue braccia. Mentre arrivavano in fondo alla seconda scala mobile, Paul scorse Sharon che attraversava di corsa l'atrio. Se qualcuno aveva cercato di trattenerla, chiaramente non c'era riuscito. Una donna del dipartimento di Stato tentava disperatamente di tenerle dietro. «Il mio tesoro!» stava gridando Sharon. «La mia bambina!» Harleigh si staccò dal padre per correrle incontro. Si gettarono l'una tra Tom Clancy
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le braccia dell'altra, scoppiando in un pianto convulso. Hood si tenne in disparte. Rodgers si avvicinò in compagnia di Bill Mohalley. Alle loro spalle, nel cortile, il segretario generale Chatterjee stava parlando con i giornalisti, gesticolando rabbiosamente. «Voglio stringerle la mano» disse Mohalley serrando la destra di Paul in una morsa poderosa. «Voi tre oggi avete riscritto il manuale di gestione delle crisi. Sono onorato di esserne stato testimone.» «La ringrazio» fece Hood. «Come sta Brett?» «Si riprenderà» rispose Rodgers. «I proiettili hanno mancato l'arteria femorale. Le ferite hanno causato più dolore che danni.» Hood annuì, senza distogliere lo sguardo dalla signora Chatterjee. C'erano macchie di sangue del terrorista sul completo, sul volto e sulle mani della donna. «Non ha l'aria molto felice» commentò. Mohalley scrollò le spalle. «Sentiremo un mucchio di cazzate su quello che avete fatto qui. Ma gli ostaggi sono salvi, quattro dei terroristi riposano sottoterra, e una cosa è certa.» «Cosa?» domandò Rodgers. «Passerà un bel pezzo prima che qualcuno si azzardi a rifare qualcosa del genere.»
55 Domenica, ore 00.51, New York Alexander dormiva quando Hood entrò nella stanza d'albergo. Sharon aveva accompagnato Harleigh al NYU Medicai Center. Oltre a sottoporsi a un esame clinico generale, era importante che parlasse il prima possibile con uno psicologo, affinché si rendesse conto che non aveva fatto nulla per meritarsi quanto le era successo e che non doveva sentirsi in colpa per essere sopravvissuta. Prima di curare qualunque altro danno, era necessario che comprendesse questo. Hood si fermò accanto al grande letto e fissò il figlio. La vita del ragazzino era cambiata, le esigenze di sua sorella sarebbero state differenti, e lui nemmeno lo sapeva. Il sonno dell'innocenza. Paul si voltò e si diresse in bagno. Riempì il lavabo e si sciacquò la faccia. Anche la sua vita era cambiata. Aveva ucciso un uomo. E che Tom Clancy
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quell'uomo se lo meritasse o meno, lo aveva ucciso in territorio internazionale. Probabilmente ci sarebbe stato un processo, e forse non si sarebbe svolto negli Stati Uniti. Il procedimento avrebbe potuto protrarsi per anni, e compromettere la sicurezza dell'Op-Center. Come facevano a sapere determinate cose? Fino a che punto la CIA e il dipartimento di Stato erano coinvolti? Qual era il collegamento tra il governo degli Stati Uniti e Georgiev, il bulgaro svanito nel nulla? Le agenzie governative non avevano autorità in nessuno di quei campi. L'ironia era che le Nazioni Unite rischiavano di apparire come la parte lesa, la vittima di una cospirazione americana. Dal rifiuto di pagare quanto dovuto all'installazione di microspie al Palazzo di Vetro, gli Stati Uniti avevano violato molte delle norme sottoscritte dai Paesi membri dell'ONU. Paesi che sponsorizzavano il terrorismo, trafficavano in stupefacenti e calpestavano i diritti umani avrebbero agitato il dito con indignazione contro l'America. E con i riflettori dei media puntati addosso, l'America avrebbe sopportato stoicamente, senza batter ciglio. Hood aveva sempre pensato che la televisione e l'ONU fossero fatti l'una per l'altro. Ai loro occhi, tutti avevano lo stesso valore. Paul si asciugò e si guardò nello specchio. Tristemente, non riteneva che la battaglia più difficile si sarebbe combattuta con i suoi nemici, bensì quando lui e Sharon avrebbero cercato di parlare: non soltanto del suo comportamento di quella sera, ma di un futuro che all'improvviso sembrava molto diverso da quello che avevano progettato. «Basta, adesso» si disse. Gettò l'asciugamano su un mobiletto e bevve un sorso d'acqua del rubinetto, poi ritornò lentamente nella stanza da letto. Aveva le gambe molli e le reni affaticate per aver corso con la schiena curva nella sala del Consiglio di Sicurezza. Si distese accanto ad Alexander e gli diede un piccolo bacio dietro l'orecchio. Erano anni che non lo faceva, e se ne sorprese. Gli sembrava di avvertire ancora il profumo della prima infanzia. La pace del bambino confortò l'uomo adulto. E mentre scivolava nel sonno, l'ultimo pensiero di Hood fu che era tutto davvero strano. Aveva contribuito a mettere al mondo due figli. Tuttavia, era vero anche il contrario. Con i loro bisogni e il loro amore, quei figli avevano creato un padre.
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56 Domenica, ore 7.00, New York Erano le sette del mattino quando una telefonata di Bill Mohalley svegliò Paul di soprassalto. Il funzionario del dipartimento di Stato lo chiamava per informarlo che sua moglie, sua figlia e le altre famiglie sarebbero state condotte all'aeroporto La Guardia, dove le attendeva un volo per Washington. Mohalley aggiunse che Sharon era stata avvertita in ospedale e che entro un'ora una scorta della polizia sarebbe arrivata all'albergo per accompagnare lui e il figlio all'aeroporto. «Come mai tanta fretta?» domandò Paul. Era dolorante e intontito, e la luce bianca e splendente del sole era come un bagno acido nella sua testa. «Principalmente per causa sua» rispose Mohalley «anche se non vorremmo dare l'impressione di volerci liberare di lei il prima possibile.» «Non la seguo. E perché se ne occupa il NYPD invece del dipartimento di Stato?» «Perché la polizia è abituata a proteggere i personaggi che fanno notizia. E volente o nolente, lei è appena diventato uno di loro.» Squillò il cellulare. Era Ann Farris. Hood ringraziò Mohalley, scese dal letto e si avvicinò alla porta, dove non avrebbe svegliato Alexander e la stanza era misericordiosamente in penombra. «Buon giorno.» «Buon giorno» disse Ann. «Come stai?» «Stranamente bene.» «Spero di non averti svegliato...» «No, ci ha pensato il dipartimento di Stato.» «Qualcosa di importante?» chiese lei. «Già» fece Paul. «Vogliono che parta in fretta e furia.» «Meglio così. Al momento, sei piuttosto esposto.» «E anche all'oscuro di tutto. Cosa diavolo sta succedendo, Ann?» «Quello che noi professionisti dell'informazione definiamo una "bufera di merda". Poiché nessuno conosce l'identità dei due "agenti SWAT" - così li chiamano - che sono entrati prima di te, l'intera vicenda è diventata il Paul Hood Show.» «Con la cortese partecipazione di Mala Chatterjee.» «Be', non è esattamente una tua fan. Dice che hai messo inutilmente a rischio la vita di tua figlia per una rapida e criminale risoluzione della crisi.» «Vaffanculo» replicò Hood. «Posso citare la frase tra virgolette?» scherzò Ann. «Puoi Tom Clancy
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farne un titolo a tutta pagina, se vuoi. Quali sono gli effetti collaterali, finora?» «Dal punto di vista della sicurezza, Bob Herbert ha la situazione sotto controllo. Sei l'unico volto di una squadra che ha contribuito a eliminare i terroristi di tre diversi Paesi. Bob ha appena iniziato a vagliare i possibili nessi con altri gruppi terroristici o con psicopatici nazionalisti che potrebbero volerli vendicare.» «Già... be', perdonami se non mi sono preoccupato di questo» commentò Hood con amarezza. «Non è una questione di colpa o perdono» osservò la responsabile dell'ufficio stampa. «Si tratta di interessi particolari. È quello che ripeto a tutti voi da anni. La manipolazione delle notizie non è più un lusso. Visto come ogni sistema al mondo è interconnesso, è una necessità.» Quella simbiosi era vera, dovette ammettere Hood. E talvolta era vera in modi inaspettati. Quindici anni prima, le informazioni raccolte dalla squadra della CIA di Bob Herbert venivano normalmente rese disponibili ad altre agenzie di intelligence americane, incluso il servizio segreto della marina. Negli anni Ottanta, l'analista della marina Jonathan Pollard passava informazioni top secret agli israeliani, molte delle quali in seguito venivano cedute a Mosca in cambio del rilascio di esuli ebrei. I falchi comunisti si servivano di quelle informazioni per complottare contro il governo russo. Anni dopo, quando l'Op-Center era intervenuto per scongiurare il colpo di Stato, i dati raccolti da Herbert erano stati usati contro di lui. «E come sono i commenti sui giornali?» chiese Hood. «Sui quotidiani nazionali, direi ottimi» rispose Ann. «Per la prima volta nella storia, la stampa conservatrice e quella progressista sono concordi. Ti dipingono come un "papà-eroe".» «E la stampa internazionale?» «Se ti candidassi alla carica di primo ministro in Gran Bretagna e in Israele, probabilmente vinceresti. A parte questo, le reazioni non sono positive. Il segretario generale ti ha descritto come "un altro impaziente americano armato di pistola". Chiede l'apertura di un'inchiesta e gli arresti domiciliari. Il resto della stampa mondiale che ho visionato finora è dello stesso tenore.» «E in fin dei conti?» «Quello che hai detto tu, nient'altro. Ti fanno partire in fretta e furia. Nessuno al dipartimento di Stato o alla Casa Bianca ha ancora deciso che Tom Clancy
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linea seguire. Immagino ti vogliano qui per dar loro una mano. Comunque, ti informo che Bob ha preso la precauzione di contattare la polizia di Chevy Chase affinché mettano sotto protezione casa tua. Sono già sul posto. Per ogni eventualità.» Hood ringraziò Ann, poi svegliò Alexander e gli disse di prepararsi. Era sempre stato franco con i suoi figli, e mentre si vestivano raccontò per filo e per segno al ragazzino quello che era accaduto la sera prima. Alexander parve dubbioso, almeno finché non comparve la squadra del NYPD per scortarli dall'hotel all'aeroporto. I sei agenti trattarono Hood come uno di loro, complimentandosi con lui mentre guidavano padre e figlio attraverso lo scantinato fino al garage e a un corteo di tre auto della polizia. Quell'uscita da rockstar impressionò Alexander più di qualunque altra cosa avesse visto a New York. Gli Hood e le altre famiglie tornarono a Washington su un 737 dell'aviazione militare. Sharon rimase silenziosa durante l'ora di volo. Sedeva a fianco di Harleigh, la testa della figlia posata sulla spalla. Paul le osservava dall'altra parte del corridoio. Così come alla maggior parte delle giovani violiniste, a Harleigh era stato somministrato un blando sedativo per aiutarla a dormire. A differenza delle sue compagne, però, il suo sonno era punteggiato da piccoli gemiti, strilli e spasmi. Forse la tragedia più grande, realizzò Hood, era che non aveva salvato la figlia da quella maledetta sala. La povera ragazza era ancora là: con lo spirito se non con il corpo. Il velivolo atterrò alla base aerea di Andrews, apparentemente in modo che l'esercito potesse tutelare la privacy delle minorenni. Ma Hood conosceva il vero motivo. L'Op-Center aveva la sua sede ad Andrews, e mentre l'aereo rullava sulla pista, scorse il furgone bianco dell'agenzia che lo aspettava sulla piazzola asfaltata. Attraverso lo sportello laterale aperto, riconobbe Lowell Coffey e Bob Herbert. Sharon si accorse di loro solo mentre scendeva la scaletta. Hood fece loro un cenno con il capo. I due uomini rimasero nel furgone. Il dipartimento di Stato aveva messo a disposizione delle sedie a rotelle per chi ne avesse avuto bisogno e un autobus che avrebbe riportato tutti a casa. Un funzionario informò i genitori che le loro vetture sarebbero state ritirate dall'aeroporto più tardi in giornata. Sharon e Paul aiutarono Harleigh a sistemarsi su una sedia a rotelle. Alexander prese risolutamente posto dietro alla carrozzella mentre Sharon si voltava verso il marito. Tom Clancy
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«Tu non vieni con noi, giusto?» chiese. La sua voce era piatta e controllata, i suoi occhi distanti. «Non sapevo che fossero qui, davvero» disse lui, alzando un pollice in direzione del furgone. «Ma non sei sorpreso.» «No» ammise Paul. «Ho ucciso una persona in territorio internazionale, e ci saranno delle conseguenze. Ma non preoccuparti. La polizia sorveglierà casa nostra giorno e notte. Ci ha pensato Bob.» «Non ero preoccupata» replicò Sharon, girandosi verso la sedia a rotelle. Lui le prese la mano. Lei si fermò. «Sharon, non farlo.» «Non fare cosa? Tornare a casa con i nostri figli?» «Non tagliarmi fuori.» «Non ti sto tagliando fuori, Paul. Sto solo cercando di restare calma e affrontare le cose, come fai tu. Ciò che decideremo nei prossimi giorni influenzerà nostra figlia per il resto della sua vita. Voglio essere emotivamente preparata a prendere quelle decisioni.» «Noi dobbiamo essere preparati a prendere quelle decisioni» osservò Hood. «È nostro dovere.» «Lo spero» disse Sharon. «Ma hai di nuovo due famiglie, e io non ho intenzione di sprecare altre energie lottando perché tu divida equamente il tuo tempo.» «Due famiglie? Sharon, non ho chiesto io che succedesse questo. Ero fuori dall'Op-Center! Se sono tornato, è perché sono immischiato in un incidente internazionale. Io... noi non riusciremo a gestire la situazione da soli.» In quel momento, si avvicinò il funzionario del dipartimento di Stato per informarli che l'autobus li stava aspettando. Sharon disse ad Alexander di andare avanti, e che l'avrebbe raggiunto poco dopo. Paul strizzò l'occhio al figlio e gli raccomandò di badare a sua sorella. Alexander promise che l'avrebbe fatto. Hood tornò a girarsi verso la moglie. Sharon alzò lo sguardo su di lui: aveva gli occhi velati di lacrime. «E quando questo incidente internazionale sarà finito?» volle sapere. «Allora ti avremo con noi? Pensi davvero che sarai felice di contribuire a dirigere una casa invece di guidare una città o un'agenzia del governo?» «Non lo so» confessò lui. «Dammi una possibilità per scoprirlo.» Tom Clancy
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«Una possibilità?» Sharon sorrise. «Paul, questo forse non avrà alcun senso per te, ma la notte scorsa, quando ho saputo quello che avevi fatto per Harleigh, ero arrabbiata con te.» «Arrabbiata? Perché?» «Perché hai rischiato la tua vita, la tua reputazione, la tua carriera, la tua libertà, per salvare nostra figlia.» «E questo ti ha fatta arrabbiare? Non posso credere che...» «Sì, invece» lo interruppe Sharon. «Quello che volevo da te era qualche pezzetto della tua vita. Tempo per un saggio di violino, una partita di calcio, una vacanza una volta ogni tanto. Cenare come una famiglia. Passare le ferie dai miei genitori. Di rado sono stata accontentata. Non mi eri vicino nemmeno ieri sera mentre la nostra bambina era in pericolo.» «Ero troppo impegnato a cercare di tirarla fuori...» «Lo so. E l'hai fatto. Mi hai dimostrato ciò che puoi fare quando vuoi. Quando tu vuoi.» «Stai insinuando che non voglio stare con la mia famiglia?» domandò Paul. «Sharon, sei stressata...» «Sapevo che non avresti capito.» Le lacrime le rigavano le guance. «Sarà meglio che vada, adesso.» «No, aspetta. Non così...» «Per favore, mi stanno aspettando.» Sharon ritrasse la mano e corse verso l'autobus. Hood osservò la moglie allontanarsi. Quando la porta a fisarmonica si richiuse e il motore si accese brontolando, si incamminò verso il furgone bianco. Adesso era lui a essere arrabbiato. Non riusciva a crederci. Persino sua moglie aveva trovato da ridire su quello che aveva fatto nella sala del Consiglio di Sicurezza. Forse lei e Mala Chatterjee avrebbero dovuto tenere una conferenza stampa congiunta. Ma la rabbia lasciò il posto a un misto di dubbio e rimorso nel momento in cui vide Bob Herbert tendere la grossa mano per dargli il benvenuto. Nel momento in cui si rese conto che non era più solo. Nel momento in cui Paul Hood si pose una semplice e dolorosa domanda. E se Sharon avesse ragione?
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57 Domenica, ore 10.00, Washington, D.C. I saluti furono calorosi e sinceri quando Hood entrò nel furgone. C'era Lowell Coffey al volante. Dopo che Herbert ebbe chiuso lo sportello e Hood si fu sistemato sul sedile del passeggero, partirono per il breve tragitto fino all'Op-Center. L'avvocato informò Paul che si sarebbero trattenuti all'agenzia solo il tempo necessario per consentirgli di fare una doccia, radersi e indossare l'abito pulito che Herbert aveva preso a casa sua. «Perché?» chiese Hood. «Dove dobbiamo andare?» «Alla Casa Bianca» rispose Coffey. «Cosa mi aspetta, Lowell?» «Onestamente, non lo so» ammise il legale. «Il segretario generale Chatterjee è in volo con l'ambasciatrice Meriwether per vedere il presidente Lawrence. L'incontro è fissato per mezzogiorno. È il presidente che desidera la tua presenza.» «Hai idea del perché?» «Non credo che il presidente voglia ascoltare le diverse versioni dell'accaduto. Qualunque altra cosa mi venga in mente, non è nulla di buono.» «Cioè?» «Forse vuole rispedirti a New York sotto la custodia dell'ambasciatrice americana» spiegò Coffey. «Per essere sicuro che tu sia nei paraggi per rispondere alle domande che il segretario generale e i delegati vorranno rivolgerti. Un gesto di buona volontà da parte nostra.» La sedia a rotelle di Herbert era sistemata dietro, tra i sedili. «Un gesto» sbuffò il capo dell'intelligence. «Paul ha salvato quel fottuto posto. Ci è voluto un gran fegato per fare quello che ha fatto. Anche Mike e Brett sono stati fantastici. Ma Paul... quando ho saputo che eri stato tu a far fuori l'ultimo terrorista... be', non sono mai stato più orgoglioso di qualcuno. Mai.» «Sfortunatamente» osservò Coffey «il diritto internazionale non tiene conto dell'orgoglio come difesa.» «E io ti dico, Lowell» ribatté Herbert «che se Paul viene mandato a New York, o all'Aja con la sua dannata Corte Internazionale di Supposta Giustìzia, o in qualsiasi altro posto del cavolo dove servono capri espiatori Tom Clancy
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cotti alla brace, sarò io a prendere degli ostaggi.» Era una tipica discussione Herbert-Coffey e, come al solito, la realtà stava da qualche parte tra i due estremi. C'erano senz'altro delle questioni di diritto, ma i tribunali prendevano anche in considerazione gli stati emotivi. Paul non era preoccupato tanto per questo, quanto per il prossimo futuro. Voleva stare con la sua famiglia, aiutare Harleigh durante la convalescenza, e non avrebbe potuto farlo se avesse dovuto difendersi dalle accuse in un Paese straniero. Hood desiderava anche restare con l'Op-Center. Forse le dimissioni erano state una reazione eccessiva. Forse avrebbe dovuto prendersi un periodo di congedo. E forse ormai sono tutti discorsi puramente accademici, ricordò a se stesso. Alcuni giorni prima, il suo futuro era ancora nelle sue mani. Adesso era nelle mani del presidente degli Stati Uniti. Poiché nessun altro era al corrente dell'arrivo di Hood, non era presente nessun membro dello staff principale in servizio nei giorni feriali. La squadra del fine settimana si complimentò con Hood per il suo eroismo e il salvataggio di Harleigh, gli assicurò il suo appoggio e gli augurò buona fortuna per qualunque cosa lo aspettasse. La doccia calda fu un toccasana per i suoi muscoli indolenziti, e gli abiti puliti lo fecero sentire ancora meglio. Quarantacinque minuti dopo essere atterrato ad Andrews, Paul era di nuovo a bordo del furgone con Bob Herbert e Lowell Coffey.
58 Domenica, ore 11.45, Washington, D.C. Mentre sedeva nella limousine diretta alla Casa Bianca, Mala Chatterjee si sentiva sporca. Questo non aveva nulla a che vedere con il suo stato fisico, sebbene sapesse di aver bisogno di un buon bagno e di una bella dormita. Invece, aveva dovuto accontentarsi di una doccia in ufficio e di un pisolino durante il volo. La sensazione che provava derivava dall'aver assistito alla morte della diplomazia in un luogo di carneficina. Benché non fosse stata in grado di evitare lo spargimento di sangue, era determinata a vigilare affinché venisse fatta pulizia. Da cima a fondo. Tom Clancy
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Chatterjee aveva scambiato poche parole durante il viaggio con l'ambasciatrice Flora Meriwether. Poiché aveva fatto gli onori di casa insieme al segretario generale in occasione del ricevimento di sabato sera, anche la cinquantasettenne ambasciatrice era arrivata in ritardo al Consiglio di Sicurezza. Così, né lei né il marito erano stati presi in ostaggio. Tuttavia, non era rimasta con gli altri delegati dopo l'attacco terrorista, ma era andata nel suo ufficio, sostenendo che si trattava di una faccenda che toccava a Chatterjee e ai suoi consiglieri risolvere. Era vero, benché Meriwether non avrebbe potuto mettere maggior distanza tra sé e il teatro degli eventi. Chatterjee sapeva che l'ambasciatrice non voleva dare l'impressione di premere sull'ONU affinché autorizzasse l'intervento di negoziatori americani o personale SWAT. Il che era un'ironia, visto come si era concluso l'assedio. Quello che Chatterjee non sapeva era ciò che passava adesso per la mente dell'ambasciatrice americana. O per quella del presidente degli Stati Uniti. Non che avesse importanza. Il segretario generale aveva insistito per quell'incontro perché aveva bisogno di riaffermare immediatamente il diritto delle Nazioni Unite a regolare le proprie dispute e punire i Paesi rei di aver infranto le leggi internazionali. L'ONU non aveva perso tempo nel condannare l'Iraq per l'invasione del Kuwait, e sarebbe stata altrettanto rapida nel biasimare l'interferenza degli Stati Uniti nella crisi. Un folto gruppo di cronisti di tutto il mondo accolse la limousine quando superò il cancello sud-ovest. L'ambasciatrice Meriwether rifiutò di parlare, ma attese mentre Chatterjee rilasciava una dichiarazione. «Gli eventi delle ultime sedici ore sono stati una prova difficile per l'Organizzazione delle Nazioni Unite e la sua famiglia, e piangiamo la perdita di tanti nostri stimati collaboratori. Pur essendo felici che gli ostaggi siano stati restituiti ai loro cari, non possiamo che biasimare i metodi utilizzati per porre fine alla crisi. Il successo delle Nazioni Unite e delle sue operazioni dipende dall'acquiescenza delle nazioni ospiti. Ho richiesto questo incontro con il presidente e l'ambasciatrice Meriwether al fine di cominciare a lavorare per il raggiungimento di due importanti obiettivi. Primo, ricostruire gli eventi che hanno minato la sovranità dell'ONU, il suo statuto e il suo impegno all'uso della diplomazia. E secondo, per avere l'assoluta certezza che la sua sovranità non sarà nuovamente violata in futuro.» Tom Clancy
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Chatterjee ringraziò i giornalisti, ignorando il fuoco di fila di domande e promettendo che avrebbe detto loro di più dopo il colloquio con il presidente. Sperava di aver comunicato l'impressione di sentirsi offesa dal comportamento di alcuni membri dell'esercito americano. La Sala Ovale si raggiunge dopo un percorso a zigzag che conduce il visitatore oltre l'ufficio dell'addetto stampa e la Stanza del Gabinetto, al di là della quale c'è l'ufficio della segretaria esecutiva del presidente. Questo è l'unico ingresso della Sala Ovale, piantonato giorno e notte da un agente dei servizi segreti. Il presidente era pronto a mezzogiorno in punto, e uscì personalmente a dare il benvenuto a Mala Chatterjee. Michael Lawrence era alto un metro e novanta, con i capelli grigio argento tagliati rasi e la carnagione scura, temprata dal sole. Il suo sorriso era largo e sincero, la stretta di mano vigorosa, la voce profonda. «E un piacere rivederla, signor segretario generale» disse. «Anche per me, signor presidente, sebbene vorrei che le circostanze fossero diverse» replicò lei. Gli occhi grigio-azzurri di Lawrence si spostarono sull'ambasciatrice Meriwether. La conosceva da quasi trent'anni. Avevano studiato entrambi scienze politiche all'università di New York, e lui l'aveva prelevata dal mondo accademico offrendole un incarico alle Nazioni Unite. «Flora, le spiace concederci qualche minuto?» le domandò. «Niente affatto» rispose la donna. Mentre la sua segretaria chiudeva la porta, il presidente fece segno al segretario generale di accomodarsi. Le spalle di Mala Chatterjee erano erette, il collo dritto e rigido. Vestito con un completo grigio, senza cravatta, Michael Lawrence appariva maggiormente a suo agio mentre spegneva con il telecomando il televisore, che era sintonizzato sulla CNN. «Ho sentito le dichiarazioni che ha rilasciato alla stampa» esordì il presidente degli Stati Uniti. «Quando parlava degli eventi che hanno minato la sovranità dell'ONU, si riferiva all'attacco terrorista?» Chatterjee si sedette su una poltrona gialla, giunse le mani in grembo e incrociò le gambe. «No, signor presidente» rispose. «Mi riferivo all'intervento non richiesto del signor Paul Hood, del suo National Crisis Management Center e di due membri dell'esercito americano non ancora identificati.» «Vuol dire l'intervento che ha portato alla liberazione degli ostaggi e alla Tom Clancy
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soluzione della crisi?» domandò amabilmente Lawrence. «Il punto non è il risultato» ribatté Chatterjee con fermezza. «Al momento, sono i metodi a preoccuparmi.» «Capisco.» Il presidente si sedette dietro la scrivania. «E cosa vorrebbe fare al riguardo?» «Vorrei che il signor Hood tornasse a New York per rispondere ad alcune domande circa il suo operato.» «E vuole che parta subito? Mentre sua figlia sta cercando di ristabilirsi dopo la terribile esperienza che si è trovata a vivere?» «Non deve partire immediatamente. A metà della prossima settimana sarebbe un termine accettabile.» «Capisco. E con queste domande, cosa spera di ottenere?» «Ho bisogno di accertare formalmente se sono state violate delle leggi e oltrepassati dei limiti.» «Signor segretario generale» disse Lawrence «se mi posso permettere, credo che le stia sfuggendo il quadro più generale della situazione.» «Vale a dire?» «Ritengo che le unità del dipartimento di polizia di New York, del dipartimento di Stato, dell'FBI e dell'esercito degli Stati Uniti presenti sul posto abbiano agito con straordinaria moderazione e rispetto, tenuto conto del numero di giovani vite americane in pericolo. Allorché la situazione si è aggravata e le vostre forze di sicurezza sono state respinte... sì, tre dei nostri sono entrati nella sala del Consiglio di Sicurezza. Ma lo hanno fatto con altruismo ed efficacia, com'è consuetudine dei soldati americani.» «Il loro coraggio non è in discussione» replicò Chatterjee. «Ma i molti che rispettano la legge non compensano i pochi che la disprezzano. Se sono state infrante delle leggi, si impongono dei rimedi giuridici. Non è un mio capriccio, signor presidente. È il nostro statuto. La nostra legge. E sono già state avanzate richieste affinché tali leggi vengano applicate.» «Da chi?» chiese Lawrence. «Dalle nazioni i cui terroristi sono rimasti uccisi nell'attacco?» «Dalle nazioni civili di tutto il mondo.» «E per soddisfare la loro civile sete di sangue vuole mettere Paul Hood sotto processo?» «Noto del sarcasmo nelle sue parole, ma... sì, il processo è una possibilità. Le azioni del signor Hood lo richiedono.» Il presidente si appoggiò allo schienale. «Signor segretario generale, la notte scorsa Paul Hood è diventato un eroe per me e per circa altri duecentocinquanta Tom Clancy
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milioni di americani. Abbiamo avuto qualche canaglia in questa storia, incluso un agente doppiogiochista della CIA che probabilmente trascorrerà il resto dei suoi giorni in prigione. Ma in nessun luogo al mondo può verificarsi il fatto che un uomo venga processato per aver salvato la propria figlia da un terrorista.» Chatterjee fissò per un istante il presidente. «Non permetterà che venga interrogato?» «Penso che ciò riassuma abbastanza bene la posizione di questa amministrazione.» «Gli Stati Uniti sfideranno la volontà della comunità internazionale?» «Apertamente e con fervore. E in tutta franchezza, credo che i rappresentanti delle Nazioni Unite si dimenticheranno presto dell'intera faccenda.» «Non siamo il Congresso, signor presidente. Non sottovaluti la nostra capacità di rimanere concentrati.» «Non sia mai. Anzi, sono sicuro che i rappresentanti dovranno concentrarsi molto per trovare scuole e appartamenti adeguati quando questa amministrazione caldeggerà il trasferimento delle Nazioni Unite da New York a un'altra capitale mondiale, diciamo Khartoum o Yangon.» Chatterjee si sentì avvampare. Questo bastardo vuole intimidirmi. «Signor presidente, non rispondo alle minacce.» «Mi sembra che l'abbia appena fatto.» La donna impiegò un attimo a realizzare che aveva ragione. «A nessuno piace ricevere delle pressioni» continuò Lawrence. «Quello che ci serve è trovare una soluzione al problema, senza bracci di ferro o minacce. Una soluzione che accontenti tutti.» «Per esempio?» volle sapere Chatterjee. Per quanto fosse frustrata, era pur sempre un diplomatico. Avrebbe ascoltato la proposta. «Per esempio, se gli Stati Uniti cominciassero con il saldare il loro debito di due miliardi di dollari, questo sarebbe un modo più produttivo per placare l'ira di quei delegati. Avrebbero più soldi per i programmi dell'ONU, come il Consiglio Mondiale per l'Alimentazione, il Fondo per l'Infanzia, l'Istituto di Formazione e Ricerca... E se facciamo le cose per bene, penseranno di aver ottenuto qualcosa. Avranno ottenuto la resa dell'America sul problema del debito. E la sua posizione di certo non ne soffrirà» sottolineò Lawrence. Chatterjee lo guardò freddamente. «Signor presidente, apprezzo il suo sforzo, ma ci sono questioni legali che non possono essere messe da Tom Clancy
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parte.» Lawrence sorrise. «Signor segretario generale, quasi venticinque anni fa, un russo - Aleksandr Solzenitcyn -, durante un discorso in occasione della consegna delle lauree, disse una frase che questo avvocato non ha mai dimenticato: "Ho passato tutta la vita sotto un regime comunista, e vi dico che una società senza nessun imparziale criterio giuridico è davvero terribile. Ma neppure una società che non ha altri criteri se non quello giuridico è degna dell'uomo".» Chatterjee scrutò il presidente. Per la prima volta da quando era entrata nella Sala Ovale, vide nei suoi occhi, nella sua espressione, qualcosa che si avvicinava alla sincerità. «Signor segretario generale» proseguì Michael Lawrence «dev'essere esausta. Posso darle un consiglio?» «La prego.» «Perché non se ne torna a New York, si riposa, e riflette su quanto ci siamo detti? Pensi a come possiamo lavorare insieme per fissare nuovi obiettivi morali.» «Invece di realizzare quelli vecchi?» «Invece di rimasticare quelli che creano divisioni. Abbiamo bisogno di sanare i contrasti, non di inasprirli.» Chatterjee sospirò e si alzò in piedi. «Credo che su questo punto si possa convenire, signor presidente» disse. «Ne sono lieto» fece lui. «Sono sicuro che anche il resto si sistemerà.» Il presidente si alzò a sua volta, girò intorno alla scrivania, le strinse la mano e la accompagnò alla porta. Il segretario generale non si aspettava che l'incontro prendesse quella piega. Sapeva che il presidente si sarebbe opposto alla sua richiesta, ma pensava di usare la stampa per smuoverlo. Adesso, cosa avrebbe raccontato ai giornalisti? Che Lawrence era un bastardo? Invece di consegnare alla giustizia un padre americano, aveva offerto solide basi finanziarie all'ONU per aiutare migliaia di altri padri nei Paesi sottosviluppati di tutto il mondo. Mentre attraversavano lo spesso tappeto blu con lo stemma presidenziale color oro, Mala Chatterjee pensò all'ironia della cosa. Venendo alla Casa Bianca, si sentiva sporca perché la diplomazia era morta. Tuttavia, in quella stanza, aveva appena ricevuto una lezione di abilità e intelligenza. Perché allora si sentiva ancora più sporca di prima? Tom Clancy
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59 Domenica, ore 12.08, Washington, D.C. Paul Hood si era trovato in mezzo a troppe situazioni cariche di tensioni politiche ed emotive, sia a Wall Street che nel governo, per ignorare il fatto che l'esito di importanti riunioni spesso era deciso prima che tali riunioni venissero convocate. I personaggi-chiave, in molti casi non più di due, si incontravano e si accordavano in anticipo, e quando gli altri partecipanti arrivavano, la discussione perlopiù serviva a salvare le apparenze. Stavolta, non ci si era preoccupati nemmeno di questo. Non dentro l'ufficio, a ogni modo. Lungo la strada, Hood aveva salutato i giornalisti con un cenno della mano, ma si era rifiutato di rispondere a qualunque domanda. Aveva trovato l'ambasciatrice Meriwether intenta a conversare con la segretaria esecutiva del presidente, la quarantaduenne Elizabeth Lopez. Le due donne si stavano scambiando le impressioni sui fatti del giorno precedente, ma si interruppero al suo ingresso. Paul aveva sempre trovato la signora Lopez cortese ma eccessivamente formale. Quel giorno invece lo accolse con calore, giungendo perfino a offrirgli un caffè dalla caffettiera personale del presidente. Lui l'accettò volentieri. Anche l'ambasciatrice, di solito imperscrutabile, era stranamente espansiva. Era buffo, pensò Hood, che l'unica madre a disapprovare il suo comportamento fosse la madre dei suoi figli. Meriwether lo informò che Mala Chatterjee era a colloquio con il presidente nella Sala Ovale. «Mi faccia indovinare» disse lui. «Sta chiedendo che io appaia di fronte a qualche commissione ad hoc composta da persone che detestano gli Stati Uniti.» «Lei è stanco, Paul» osservò l'ambasciatrice. «Può darsi, ma non mi sbaglio.» «Il segretario generale non è una donna irragionevole, soltanto idealista e ancora un po' inesperta. Tuttavia, questa mattina presto, il presidente e io abbiamo discusso una possibile soluzione al problema, e riteniamo che il segretario generale la troverà accettabile.» Hood sorseggiò il caffè nero, e stava per mettersi a sedere quando la porta della Sala Ovale si aprì. Mala Chatterjee uscì, seguita dal presidente. Tom Clancy
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Il segretario generale non aveva l'aria felice. Paul posò la tazza mentre Lawrence tendeva la mano all'ambasciatrice Meriwether. «Non gliel'ho detto prima, ma le sono grato per essere venuta, e sono lieto di vedere che sta bene» disse. «La ringrazio, signore.» «Il segretario generale e io abbiamo appena avuto un proficuo scambio di idee. Forse potrei metterla al corrente mentre vi riaccompagno al cancello sud-ovest.» «Molto bene.» Gli occhi del presidente si spostarono su Hood. «Paul, mi fa piacere rivederti» disse, tendendogli la mano. «Coma sta tua figlia, oggi?» «È ancora piuttosto scossa.» «È comprensibile. Ti siamo tutti vicini. Se c'è qualsiasi cosa che possiamo fare, non esitare a chiedere.» «Grazie, signore.» «In effetti, credo che le cose qui siano sotto controllo. Perciò, perché non torni a casa da tua figlia?» «Grazie di nuovo, signore.» «Ti faremo sapere se c'è qualcos'altro. Comunque, sarebbe una buona idea se ti tenessi alla larga dai giornalisti per qualche giorno. Lascia che dei media si occupi l'ufficio stampa dell'Op-Center. Almeno finché il segretario generale non ha avuto la possibilità di parlare con i suoi collaboratori a New York.» «Naturalmente.» Hood strinse la mano al presidente, all'ambasciatrice, e infine al segretario generale. Era la prima volta che lei lo guardava dalla notte precedente. Gli occhi della donna erano tristi e stanchi, la sua bocca piegata all'ingiù, e nei suoi capelli c'erano degli spruzzi di grigio che non aveva notato prima. Chatterjee non disse nulla. Non era necessario. Non aveva vinto nemmeno quella battaglia. Tra la fine del corridoio principale e l'ingresso dell'ala ovest c'era un'area riservata alla sicurezza. Lowell Coffey e Bob Herbert si erano fermati lì a chiacchierare con un paio di agenti del servizio segreto. Non erano stati invitati alla riunione, ma volevano restare nei paraggi nel caso Hood avesse avuto bisogno di supporto morale o tattico, o magari di un passaggio, a seconda di dove avrebbe dovuto recarsi al termine del colloquio. Si avvicinarono a Hood mentre il presidente, il segretario generale e l'ambasciatrice uscivano per incontrare i giornalisti. «Hai fatto in fretta» disse Herbert. «Com'è andata?» domandò Coffey. «Non lo so» rispose Paul. «Io e l'ambasciatrice Meriwether non abbiamo Tom Clancy
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partecipato all'incontro.» «Il presidente ti ha detto qualcosa?» Hood sorrise debolmente e posò una mano sulla spalla dell'avvocato. «Mi ha detto di tornarmene a casa da mia figlia, ed è esattamente quello che intendo fare.» I tre uomini lasciarono la Casa Bianca. Evitarono i cronisti dirigendosi verso la West Executive Avenue, quindi proseguendo in direzione sud verso l'Ellipse, dove avevano parcheggiato. Hood non poteva fare a meno di essere dispiaciuto per Mala Chatterjee. In fondo, non era una cattiva persona. E non era neppure la persona sbagliata per quell'incarico. Il problema era l'istituzione in sé. Le nazioni invadevano altre nazioni o si macchiavano di genocidio. Poi l'ONU offriva a esse una tribuna da cui giustificare le loro azioni. Il solo fatto di permettere a quei Paesi di far ascoltare la propria voce aveva l'effetto di legittimare il loro comportamento immorale. Gli venne in mente che forse c'era un modo in cui l'Op-Center poteva contribuire a rimediare a quegli abusi. Un modo in cui sfruttare le risorse dell'agenzia per identificare i criminali internazionali e assicurarli alla giustizia. Prima che colpissero, se possibile. Era un'idea su cui riflettere. Perché, sebbene fosse debitore a sua figlia di un padre e di una famiglia normali, le doveva anche qualcos'altro. Qualcosa che pochi genitori potevano sperare di lasciare in eredità. Un mondo più sano nel quale poter crescere i suoi figli.
60 Domenica, ore 15.11, Los Angeles L'Artico, i tropici... Aveva visitato molti luoghi del mondo, ciascuno con la sua bellezza e il suo fascino particolari. Ma non era mai stato in un luogo che gli fosse parso da subito tanto seducente come quello. Uscì dal terminal e inspirò l'aria mossa da una brezza tiepida. Il cielo del pomeriggio era di un limpido azzurro, e avrebbe giurato di sentire in bocca il sapore dell'oceano. Infilò il passaporto nella giacca sportiva e si guardò intorno. I bus di cortesia si fermavano lungo il marciapiede, e lui ne scelse uno diretto a uno di quegli hotel dal nome famoso. Non aveva prenotato una stanza, ma una volta al banco della reception avrebbe detto di averlo fatto. Aveva scordato il numero di conferma, ma era compito loro ricordarselo, non suo. Anche se non avevano camere libere, si sarebbero affrettati a trovargli Tom Clancy
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un'altra sistemazione. I grandi alberghi lo facevano sempre. Sedette nel bus e si voltò per guardare fuori dal finestrino. L'affusolata sagoma bianco avorio della torre di controllo gli saettò accanto. Il verde era lussureggiante ai lati della strada. Il traffico scorreva veloce, non come a New York e a Parigi. A Ivan Georgiev sarebbe piaciuto stare lì. Gli sarebbe piaciuto anche il Sudamerica, ma le cose non erano andate come previsto. Talvolta succedeva. Ecco perché, a differenza degli altri, aveva preparato un piano di fuga alternativo. Se qualcosa fosse andato storto, Annabelle Hampton avrebbe mandato i suoi tirapiedi a prelevarlo. Più tardi, si sarebbero incontrati in hotel, dove lui l'avrebbe pagata con una parte del riscatto o attingendo ai suoi fondi personali. Quando lei non si era fatta viva, aveva subito pensato al peggio. In seguito, quando i due uomini della CIA erano tornati per metterlo su un aereo e farlo uscire dal Paese, aveva appreso che Annabelle era stata arrestata. Probabilmente, avrebbe patteggiato una pena di quindici anni di reclusione rivelando alle autorità il legame CIA/UNTAC. Questo era il motivo per cui lui doveva tagliare la corda. La CIA ovviamente intendeva negare tutto. Da Los Angeles, in teoria Georgiev avrebbe dovuto partire per la Nuova Zelanda. Ma il bulgaro non voleva andare in Nuova Zelanda. Preferiva che la CIA non sapesse dove si trovava. Inoltre, soldi e idee non gli mancavano. Era in stretto contatto con alcuni espatriati dell'Europa orientale, soprattutto romeni, che avevano fondato delle case di produzione a Hollywood. Un sorriso si disegnò sulle sue labbra. I suoi soci gli avevano detto che l'industria cinematografica era un'attività spietata ed eccitante. Un'attività nella quale un accento straniero veniva considerato esotico e colto, ed era un invito garantito alle feste. Un'attività in cui la gente non ti pugnalava alle spalle in privato, ma ti pugnalava al cuore, in pubblico, dove gli altri potevano vedere. Georgiev sorrise di nuovo. Aveva l'accento giusto e sarebbe stato ben felice di pugnalare le persone ovunque desiderassero. Sì, gli sarebbe piaciuto stare lì. Gli sarebbe piaciuto moltissimo. FINE
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L'Italia, per trent'anni sotto i Borgia, ha conosciuto guerra, terrore, omicidi e massacri... e ha prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. La Svizzera ha avuto amore fraterno, cinquecento anni di democrazia e pace, e che cos'ha prodotto? L'orologio a cucù! Orson Welles
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