Kamila Shamsie
Ombre bruciate
Traduzione di Guido Calza
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Hiroko esce in veranda. Dal collo in giù il suo corpo è u...
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Kamila Shamsie
Ombre bruciate
Traduzione di Guido Calza
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Hiroko esce in veranda. Dal collo in giù il suo corpo è una colonna di seta bianca, con tre gru nere che si slanciano da una parte all’altra della schiena. Guarda le montagne e tutto le sembra più bello rispetto a com’era di prima mattina. Nagasaki le sembra bellissima. Volta il capo e vede le guglie della cattedrale di Urakami; anche Konrad la sta guardando, quando uno squarcio si apre fra le nuvole. La luce del sole lo attraversa, e spinge ancora più lontano le nubi. Hiroko. E poi il mondo diventa bianco.
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Prologo ......................................................................................................... 6 IL MONDO ANCORA IGNARO ....................................................................... 7 UCCELLI VELATI .......................................................................................... 29 GUERRIERI, IN PARTE ANGELI .................................................................. 120 LA RAPIDITÀ NECESSARIA PER SOSTITUIRE LA PERDITA .......................... 231 Ringraziamenti ......................................................................................... 344 Approfondimenti ..................................................................................... 345
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OMBRE BRUCIATE
Ad Aisha Rahman e Deepak Sathe
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... un tempo per ricordare ogni ombra, ogni cosa che la terra stava perdendo un tempo per pensare a ogni cosa che la terra e io avevamo perduto, a tutto ciò che avrei perduto e che andavo perdendo. Agha Shahid Ali, A Nostalgist’s Map of America
Nelle guerre passate bruciavano soltanto le case, ma stavolta non sorprendetevi se prenderà fuoco anche la solitudine. Nelle guerre passate bruciavano soltanto i corpi, ma stavolta non sorprendetevi se prenderanno fuoco anche le ombre. Sahir Ludhianvi, Parchaiyaan
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Prologo
Una volta nella cella lo liberano delle manette e gli ordinano di spogliarsi. Si toglie il cappotto grigio con fare efficiente e sbrigativo, poi – mentre lo osservano, a braccia conserte – i suoi movimenti si fanno lenti, le dite impacciate per il terrore sulla fibbia della cintura, sui bottoni della camicia. Aspettano che sia completamente nudo, raccolgono i vestiti e se ne vano. La prossima volta che porterà qualcosa addosso, sospetta, sarà una tuta arancione. Il suo corpo raggrinzisce davanti al bagliore gelido della panca d’acciaio. Starà in piedi, finché è possibile. Come siamo arrivati a questo, si domanda.
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IL MONDO ANCORA IGNARO Nagasaki, 9 agosto 1945
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In futuro, chi di loro due sarà sopravvissuto ricorderà una giornata grigia, eppure il mattino di quel 9 agosto sia Konrad Weiss, il berlinese, sia Hiroko Tanaka, l’insegnante, escono di casa e notano l’azzurro perfetto del cielo, in cui sbocciano le fumate bianche della fabbrica di munizioni. Da casa sua, a Minamiyamate, Konrad le ciminiere non le vede, però sono mesi ormai che i suoi pensieri vagano in direzione dello stabilimento in cui Hiroko Tanaka trascorre le giornate a misurare col micrometro lo spessore dell’acciaio, mentre immagini di aule di scuola le irrompono nella mente, così come il ricordo del volo può insinuarsi nella mente di un uccello con le ali rotte. Quel mattino, tuttavia, mentre apre le porte scorrevoli che costituiscono la facciata e il retro della sua casetta in legno da custode e guarda verso il fumo, Konrad non tenta nemmeno di immaginare la scena che stancamente si svolge nel reparto della fabbrica. Hiroko ha una giornata libera: una vacanza, l’ha definita il suo capo, malgrado tutti, in fabbrica, sappiano che non c’è più acciaio da misurare. Eppure a Nagasaki tanta gente continua a pensare che il Giappone vincerà la guerra. Konrad immagina i coscritti spediti fuori, di notte, a irretire le nuvole, per poi liberarle al mattino dalle ciminiere, per creare un’illusione di operosità. Esce nel portico sul retro della casa. Foglie verdi e marroni giacciono sparse sul prato della grande proprietà, come se fosse un campo di battaglia dove si siano coricati i soldati degli eserciti in guerra; come unico pensiero, nella morte, la prossimità. Alza lo sguardo verso il pendio di Azalea Manor; nelle settimane dopo la partenza dei Kagawa insieme a tutti i loro domestici, ogni cosa ha preso un aspetto fatiscente. Un’imposta rimane semiaperta, e quando si alza il vento picchia contro il davanzale. Bisognerebbe aggiustarla, lo sa, ma gli dà conforto sentire quella parvenza di attività provenire dalla casa. Azalea Manor. Nel 1938, quando per la prima volta attraversò le porte scorrevoli per entrare nella grande sala con i pavimenti di marmo e il camino neoclassico, furono le fotografie lungo le pareti ad attirare la sua attenzione, più che il folle miscuglio di stili architettonici giapponesi ed europei: tutte scattate all’interno della proprietà durante qualche ricevimento, con gli europei e i giapponesi che si mescolavano senza tante complicazioni. Aveva creduto alla promessa di quelle immagini, provando un’inconsueta gratitudine nei riguardi di suo cognato James 8
Burton, l’inglese che settimane prima, con queste parole, gli aveva comunicato che non era più il benvenuto nella sua casa di Delhi: «A Nagasaki c’è una villa. Apparteneva a mio zio George, uno scapolo eccentrico che ci è morto pochi mesi fa. C’è un muso giallo che continua a spedirmi telegrammi per chiedere cosa ne deve fare. Perché non vai a starci tu per un po’? Per tutto il tempo che ti pare». Konrad non sapeva niente di Nagasaki — eccetto, a onor del vero, che non si trovava in Europa e non era dove abitavano James e Ilse — e quando era sbarcato nel porto della città dai tetti color porpora, disposta ad anfiteatro, gli era parso di entrare in un mondo incantevole. Sette anni più tardi buona parte dell’incantesimo è rimasto: la vitrea bellezza dei fiori ghiacciati in inverno, la grazia elegante degli edifici euronipponici sul lungomare; ma la guerra spezza qualunque vista. Oppure la blocca del tutto. A chi andava in collina a passeggiare, qualche tempo prima, veniva chiesto di non abbassare lo sguardo sull’arsenale in cui si costruiva la nave da guerra Musashi, così segreta che erano stati tesi pesanti tendoni per nasconderla ai passanti. Funzionale, riflette Hiroko Tanaka nel portico della casa di Urakami, mentre passa in rassegna i pendii terrazzati, la quiete del mattino animata dal frinire delle cicale. Se c’è un aggettivo capace di descrivere il modo in cui la guerra ha cambiato Nagasaki è proprio questo, decide lei. Tutto quanto si è distillato o distorto nella sua forma più funzionale. Qualche giorno fa Hiroko è passata vicino agli orti sui pendii e ha visto il terreno che si accigliava per lo smarrimento: perché patate dove una volta c’erano azalee? Dov’è andato l’amore di un tempo? Come spiegare alla terra che sarebbe stata più funzionale come orto piuttosto che come giardino, così come le fabbriche erano più funzionali delle scuole e i ragazzi più funzionali in qualità di armi che di esseri umani? Passa un vecchio con la pelle così sottile da sembrarle disegnato sopra una lanterna di carta. Hiroko si domanda che impressione possa fargli, a lui o a chiunque altro. A Konrad. Una figura sparuta, vestita come tutti senza colore, immagina, poi con un sorriso ricorda come Konrad avesse confessato il desiderio, al loro primo incontro, di dipingerla vestita così com’era — e com’è adesso — in camicetta bianca e pantaloni da lavoro grigi. Non si trattava di un ritratto, aveva aggiunto subito. Il contrasto stridente che formava col verde rigoglioso e curato del giardino dei Kagawa, che dieci mesi prima lei aveva attraversato per venirgli 9
incontro, gli aveva fatto venire voglia di roversciarle addosso qualche secchio di vernice, cascate di colori vivaci che le scendessero dalle spalle (fiumi di azzurro giù per la camicia, pozzanghere arancio ai suoi piedi, rivoli smeraldo e rubino che si intrecciavano lungo le braccia). «Magari l’avessi fatto» aveva detto lei nel prendergli la mano. «Si sarebbe vista molto prima la pazzia, sotto quell’apparenza di saggezza». Lui aveva liberato la mano da quella di lei con uno sguardo a metà fra la scusa e il rimbrotto. La polizia militare avrebbe potuto sorprenderli in qualsiasi momento. L’uomo con la pelle sottile si volta a guardarla, si tocca la faccia come per ritrovare l’uomo giovane sotto le rughe. Negli ultimi mesi ha già incontrato parecchie volte questa ragazza del quartiere — la figlia del traditore — , e ogni volta sembra che la fame in cui tutti quanti vivono contribuisca a renderla più bella: la rotondità infantile del suo volto si è dissolta completamente, rivelando l’eleganza spigolosa degli zigomi, con un neo posato sopra. Eppure, in qualche maniera, i suoi lineamenti non hanno la minima traccia di durezza, soprattutto quando, come adesso, la bocca si piega da una parte e a pochi millimetri dal sorriso compare una piccola piega, come a segnare un confine che diventa visibile solo se tenti di varcarlo di soppiatto. Il vecchio scuote la testa, consapevole di quanto debba apparire sciocco nel guardar fisso una giovane che nemmeno si è accorta di lui, eppure allo stesso tempo grato di trovare qualcosa, al mondo, ancora in grado di farlo comportare da sciocco. Le grida metalliche delle cicale vengono sommerse dal suono delle sirene antiaeree, che ormai è familiare quanto il richiamo degli insetti. La nuova bomba!, pensa il vecchio, e si volta per raggiungere in fretta il rifugio più vicino, tralasciando le sciocchezze. Hiroko, al contrario, sbuffa impaziente. Ormai fa caldo. Negli affollati rifugi antiaerei di Urakami sarà intollerabile, in particolare sotto il mantello imbottito con cappuccio che, per quanto scettica, è costretta a indossare, se vuole evitare le prediche del responsabile dell’Associazione del quartiere, ansioso di dare il buon esempio ai bambini. È un falso allarme; è quasi sempre un falso allarme. Forse altre città del Giappone hanno risentito molto delle incursioni aeree, ma Nagasaki no. Poche settimane prima ne parlava con Konrad: l’opinione comune è che a Nagasaki saranno risparmiati danni gravi perché è la città più cristiana del Giappone, ma Konrad le ha fatto notare che ci sono più cristiani a Dresda che a Naga10
saki. Da quel momento ha cominciato a prendere un po’ più sul serio le sirene. Però nel rifugio farà un gran caldo. Perché non restarsene a casa? È quasi sicuramente un falso allarme. Perché rischiare, pensa invece Konrad. In casa recupera il giaccone col cappuccio e s’incammina spedito verso il rifugio che i Kagawa hanno fatto scavare nel giardino. Si ferma a metà strada, guarda il muro che separa la proprietà dal terreno abbandonato dall’altra parte. È dall’ultimo acquazzone che non dà un’occhiata ai suoi uccelli. Butta sull’erba il mantello, cammina a grandi passi verso il muro e lo scavalca, rasentandolo il più possibile per non farsi vedere da un passante o dalla polizia militare. Se qualcuno mai lo notasse, lo troverebbe ridicolo: un europeo allampanato che ruzzola giù da un muro di cinta, tutto braccia gambe e occhi socchiusi, coi capelli e la corta barba di un colore così insolito per Nagasaki che Hiroko, vedendolo per la prima volta, aveva pensato che con l’età i capelli degli occidentali arrugginissero, invece di ingrigire. In seguito aveva scoperto che Konrad aveva solo ventinove anni: otto più di lei. L’erba secca crepita sotto i suoi piedi — ha l’impressione di rompere la schiena a delle piccole creature — mentre cammina verso il gigantesco albero della canfora cui sono legati gli uccelli, che ruotano lentamente nella brezza leggera. È stata Hiroko a ribattezzare così i suoi taccuini viola, il giorno che si sono conosciuti; l’unica volta che è entrata in casa. Ne aveva preso uno dalla scrivania, lo aveva aperto e fatto planare per la stanza. Rispetto alla vivacità di quel gesto, le parole da lui scritte gli erano sembrate esanimi: frasi buttate giù anno dopo anno per fingere che stare lì avesse senso, un pretesto per accucciarsi in un mondo così lontano dal suo che gli pareva impossibile restarne coinvolto. Nondimeno, da quando la resa della Germania ha mutato la sua situazione a Nagasaki da alleato a qualcosa di più ambiguo, che implica la sorveglianza costante della polizia militare, quelle parole senza vita hanno preso abbastanza forza da fargli rischiare la galera. E questo la dice lunga sulla paranoia del Giappone imperiale: quegli appunti sull’atmosfera cosmopolita che per poco tempo si era creata nel raggio di un miglio da dove vive, verrebbero considerati prova di tradimento. Yoshi Watanabe lo aveva messo in guardia, non appena era parsa imminente la resa della Germania. Descrivi una Nagasaki piena di stra11
nieri, ed è ovvio che la desideri intensamente. Manca poco che tifi per l’occupazione americana. E così, la sera che la Germania aveva capitolato, Konrad aveva costruito una scultura mobile con lo spago e vi aveva appeso i suoi otto taccuini viola. Si era arrampicato sul muro che divideva la proprietà da quella vuota confinante e aveva legato a un albero la scultura. Gli uccelli dalle ali purpuree volteggiavano al vento nel chiaro di luna. Era ancora convinto che nessuno avrebbe mai pensato di andare in cerca di tradimenti tra le foglie di un giardino abbandonato. Basta un po’ di fantasia per sfuggire a chi è disposto a setacciare ogni granello di polvere di una casa, pur di trovare segni di attività eversiva. Chino sotto un ramo che scende a precipizio tende il braccio e trova i taccuini di pelle ancora asciutti e intatti, appena sbiaditi. Alza con gratitudine lo sguardo sulla volta protettiva delle foglie, prima di notare la strisciata bianca su una copertina: commento di un uccello autentico su quegli impostori vermigli. Il volto gli esplode in un sorriso di quelli che a volte lo fanno sembrare bello. Mentre si allontana dall’albero si accorge della nota di vago turbamento che si è insinuata nel richiamo dolente delle sirene antiaeree. Non avrebbe senso buttare una bomba qui, pensa mentre si fa strada con calma verso il rifugio antiaereo di Azalea Manor. Oltre che dallo spreco di spazio che l’ha sempre contraddistinto, l’insediamento straniero in cui vive è caratterizzato adesso anche dall’assenza di abitanti. A Urakami, in uno spazio simile ci potrebbero stare dieci famiglie!’ aveva esclamato Hiroko la prima volta che si erano incontrati, gesticolando in direzione di Azalea Manor. Per poi aggiungere: I ricchi! Quanto sono assurdi!’, e voltarsi a chiedere quanto intendesse pagarla per il lavoro di traduzione di cui aveva bisogno. Qualche settimana dopo, per scherzo, l’aveva accusata di aver alzato il prezzo facendo leva sul suo senso di colpa. Be’, certo, aveva risposto lei con la franchezza che la caratterizzava; gli scrupoli e la fame non vanno d’accordo. Poi aveva spalancato le braccia e strizzato gli occhi, come concentrandosi al massimo per immaginare un altro mondo: quando la guerra finirà, diventerò buona. E aperti gli occhi aveva aggiunto, sottovoce: come mia madre. Lui non poté fare a meno di pensare che sua madre non avrebbe mai accettato che si innamorasse di un tedesco, o anche solo che si facesse accompagnare a casa da lui camminando per le colline di Nagasaki. Non lo confortava pensare che la sua 12
felicita era legata alla morte della madre di Hiroko, ma poi lei gli aveva preso la mano, e lui aveva capito che nessuno, nemmeno una madre adorata, avrebbe potuto dirle cosa fare. Perché le regole di comportamento devono essere l’unica cosa che la guerra ha lasciato intatta?, gli aveva chiesto lei una volta. Tutto ciò che viene dal passato è finito. Spingendo in avanti a calci il mantello, Konrad entra nel capace rifugio antiaereo ricavato da un pendio del giardino di Azalea Manor. L’aria è stantia, permeata di amarezza. Ecco il mazzo di carte con cui Konrad, Yoshi Watanabe e Keiko Kagawa si tenevano compagnia nei primi giorni delle incursioni, quando all’esortazione delle sirene si associava più il terrore che la noia; ecco la sedia in legno di quercia dalla quale Kagawa-san sorvegliava il comportamento dei vicini, della famiglia e del personale nelle rare occasioni in cui le sirene lo sorprendevano ancora in casa; ecco i riquadri tracciati da Konrad nella polvere, per far giocare a campana i bambini più piccoli dei Kagawa; ecco la bottiglia di sakè nascosta, di cui il cuoco era convinto nessuno fosse al corrente; ecco l’altra bottiglia di sakè che i Kagawa adolescenti venivano a cercare a notte fonda, quando il rifugio era deserto. Sapevano che Konrad li avrebbe visti dalla sua casetta; ma se dopo sette anni i loro genitori si sentivano ancora in imbarazzo nei riguardi del padrone di casa, che inarcava il suo corpo allampanato nella minuscola costruzione in fondo al giardino, i Kagawa più giovani sapevano di poterlo considerare un alleato, e ben volentieri lo avrebbero accolto nei loro festini alcolici, se mai si fosse dimostrato interessato. Adesso, invece, quando lo vedono arrivare i Kagawa attraversano la strada. È bastato un giro di interrogatori della polizia militare sulle presunte simpatie politiche del padrone di casa per farli sloggiare da Azalea Manor. Konrad si sistema sulla seggiola di quercia di Kagawa-san, il mantello in bilico sulle ginocchia. E così immerso nel passato che gli occorre un attimo per capire che la figura apparsa sulla soglia, col mantello in mano, appartiene al presente. È Yoshi Watanabe. Come se chiedesse il permesso di partecipare a una festa, Yoshi dice, in inglese: «Posso entrare? Non mi offendo se mi lasci fuori». Konrad non risponde, però mentre Yoshi mormora una parola di scusa e fa per andarsene, gli grida: «Non fare l’idiota, Joshua. Come credi 13
che mi sentirei se ti cadesse addosso una bomba?» Yoshi s’infila dentro, inforca gli occhiali e batte in fretta le palpebre. «Non saprei». Prende in mano le carte e si inginocchia a terra, le mescola, ne toglie dieci dal mazzo e ne posa altrettante nello spazio che lo separa da Konrad. Yoshi Watanabe è il «muso giallo» ai cui telegrammi aveva fatto riferimento James Burton, mentre spediva Konrad a Nagasaki. Suo nonno Peter Fuller, dello Shropshire, era stato il vicino e l’amico più intimo di George Burton. Quando Konrad era arrivato a Nagasaki, c’era Yoshi ad aspettarlo al porto per dargli il benvenuto; era stato Yoshi a fargli fare il giro di Azalea Manor, Yoshi a trovargli un insegnante di giapponese, Yoshi a tirar fuori i Kagawa come se fossero un mazzo di fiori che teneva nascosto nella manica, poche ore dopo avergli sentito dire che avrebbe preferito l’intimità della casetta del custode, Yoshi a intrattenerlo raccontandogli della Nagasaki cosmopolita dei primi del secolo: un ambiente unico in Giappone, con i suoi quotidiani in lingua inglese, il suo Circolo internazionale, le relazioni e i matrimoni interrazziali fra uomini europei e donne giapponesi. E quando Konrad aveva avuto bisogno di qualcuno che traducesse in giapponese le lettere del libro che intendeva scrivere sull’ambiente cosmopolita, era stato Yoshi a presentargli Hiroko Tanaka, che insegnava il tedesco a sua nipote. Fra Konrad e Yoshi era nata una di quelle amicizie che quasi subito si dimostrano inevitabili e indistruttibili. E poi, nel corso di una conversazione durata meno di un minuto, era finita. Vengono sempre più spesso a controllarmi, Konrad. Mia madre di cognome si chiamava Fuller. Sai com’è. Non voglio che pensino che faccio il doppio gioco. Finché non sarà finita la guerra starò alla larga da tutti gli occidentali di Nagasaki. Ma solo finché non sarà finita la guerra. Poi, Konrad, tornerà tutto come prima. Joshua, se vivessi in Germania, diresti ai tuoi amici ebrei: scusa, non posso nasconderti in soffitta ma vieni a cena quando cade il nazismo. «Cosa ci fai qui?» Yoshi alza lo sguardo dal ventaglio di carte che ha in mano. 14
«Ero a casa quando ho sentito le sirene. Questo è il rifugio più vicino». Poi, in risposta allo sguardo aggrottato di Konrad, soggiunge: «Lo so, nelle ultime settimane sono andato al rifugio della scuola. Ma con questa nuova bomba... non volevo rischiare di stare all’aperto qualche minuto in più». «Dunque al mondo esistono rischi maggiori che essere amici di un tedesco? È confortante. Quale nuova bomba?» Yoshi posa le carte. «Non hai sentito? Di Hiroshima? Tre giorni fa?» «Tre giorni? Sono tre giorni che non parlo con anima viva». Nel rifugio di Urakami, Hiroko è talmente stretta fra i suoi vicini che non può nemmeno alzare una mano per asciugarsi il sudore sulla fronte. Dopo i primi giorni dei bombardamenti qui dentro non è più stato così affollato. Che cosa può aver spinto il responsabile dell’Associazione di quartiere a radunare tutti freneticamente, ordinando di andare al rifugio? Hiroko sospira e si volta appena verso la moglie del responsabile, che reagisce girandosi subito dall’altra parte. È impossibile capire se per il rimorso o lo sdegno. La moglie del responsabile era molto amica della madre di Hiroko: se le ricorda quando ridacchiavano insieme leggendo il nuovo numero di Sutairu, nei giorni prima che la guerra ne sospendesse la pubblicazione: non c’era posto, nel Giappone in guerra, per una rivista che consigliasse alle donne la biancheria giusta da indossare sotto i vestiti occidentali. In fin di vita, la madre di Hiroko aveva chiamato al suo capezzale l’amica con una sola richiesta: proteggi mio marito da se stesso. In Giappone per gli artisti iconoclasti c’era ancora meno posto che per le riviste sulle ragazze moderne. A lungo la moglie del responsabile aveva tenuto fede alla promessa, e convinto suo marito a considerare le sfuriate di Matsui Tanaka contro l’esercito e l’imperatore come un segno del lutto che aveva subito, così grave da fargli perdere la ragione. Ma in primavera, mentre passava accanto a una casa del quartiere, Matsui Tanaka aveva visto i festoni di fiori di ciliegio che commemoravano il sacrificio di un ragazzo quindicenne morto in un attacco kamikaze. Senza dire niente a Hiroko, che camminava in silenzio al suo fianco, si era scagliato in avanti e, toltosi di tasca un pacchetto di fiammiferi, aveva dato fuoco ai festoni. 15
Pochi secondi dopo giaceva a terra insanguinato, mentre il padre del ragazzo morto si divincolava fra le braccia dei vicini che avevano finalmente deciso di trattenerlo, e Hiroko, nel chinarsi verso il padre, si era sentita tirar su dalla moglie del responsabile. «Vai a denunciarlo tu stessa» le diceva quella donna che per lei era stata come una zia. «In questo momento è l’unico aiuto che posso darti». Non le aveva dato retta, naturalmente — le privazioni del tempo di guerra potevano aver stemperato i suoi scrupoli, ma non la sua lealtà — e il giorno dopo erano successe tre cose: la polizia militare aveva rinchiuso il padre in prigione, dov’era rimasto per due settimane abbondanti; il preside della scuola dove insegnava tedesco l’aveva licenziata dicendo che non c’era posto per la figlia di un traditore, né bisogno che gli allievi imparassero una lingua straniera (mentre lo diceva si era ingobbito, come se fosse convinto che occupando meno spazio si sarebbe reso meno disprezzabile); arrivata a casa, aveva trovato il responsabile di quartiere ad aspettarla per comunicarle che era stata precettata a lavorare in una fabbrica di munizioni. Adesso vorrebbe dire alla moglie del responsabile che sa che ha fatto del suo meglio, e a lungo; anche se in parte sarebbe per umiliarla. Nel rifugio entrano altre persone, e tutti si pigiano ulteriormente verso il fondo; a segnalare l’indecorosità di quel contatto con le ascelle e le parti intime di un estraneo, tuttavia, è giusto qualche mormorio di scusa. Hiroko si ritrova in uno spazio che si è aperto — per necessità, più che per possibilità fisica — fra due ragazzi di tredici, forse quattordici anni. Li conosce, questi adolescenti di Nagasaki. Non questi due in particolare, ma conosce quella loro aria. Immagina che il più alto, con la testa piegata in modo arrogante, abbia l’abitudine di corteggiare le ragazze o di attirare l’attenzione degli insegnanti più giovani raccontando cosa gli passerà per la mente durante il volo senza ritorno verso il ponte di una portaerei americana (fra poco, pochissimo, perché i piloti più giovani sono appena più vecchi di lui), il tutto senza smettere di insinuare che la femmina con cui si sta dando da fare sarà cruciale in quegli ultimi, eroici pensieri. «Non ci credo» bisbiglia il più giovane. Il più alto scuote la testa. 16
«A quelli più vicini ha strappato via la carne dalle ossa: sembravano scheletri. Invece a chi era più lontano ha solo sbucciato la pelle come a un acino d’uva. E adesso che hanno questa nuova bomba gli americani non smetteranno di usarla finché non saremo tutti ridotti a degli scheletri o a degli acini d’uva». «Smettila» lo ammonisce Hiroko con il suo tono da maestra. «Smettila di raccontare bugie». «Non sono...» cerca di ribattere il ragazzo, subito zittito dal sopracciglio alzato di lei. Un suo ex allievo, Joseph, aveva davvero guidato il suo Ohka contro una portaerei americana. Una volta le aveva detto che durante il suo ultimo volo avrebbe portato con sé due fotografie: una dei genitori in piedi sotto un ciliegio, e una di Myrna Loy. Una foto di Myrna Loy, aveva chiesto lei, mentre distruggi una nave da guerra americana? Ma lui non ci vedeva nulla di ironico. Era il ragazzo del quartiere a cui erano dedicati i fiori di ciliegio incendiati dal padre di Hiroko: forse l’aveva fatto per lei. Non trovava altro modo per dirle che capiva il dolore e la rabbia che lei reprimeva dentro di sé. Hiroko non sa cosa la stupisca di più: la possibilità che sia davvero andata così o il fatto di non averci pensato prima. Dopo la morte della madre aveva preso a interpretare i silenzi del padre come una mancanza di idee che valesse la pena di comunicare, invece che come un’incapacità di dare nuova forma al rapporto con la figlia, adesso che non c’era più la moglie a far da tramite. «Scheletro o acino?» bisbiglia il ragazzo alto. Lei sente il suo alito cattivo. Fuori ci sono aria, alberi e monti. Vale la pena di rischiare. Si fa largo in avanti, e tutti quelli che si sono dimostrati gentili con chi voleva entrare adesso si scandalizzano per i suoi tentativi di andarsene. «Cosa vuole fare... non c’è spazio... stia indietro, indietro...» Le arriva una gomitata nelle costole. «Mio padre!» grida lei. «Devo trovare mio padre». Alcune donne cercano di lasciarla passare prendendo in braccio i bambini. Una voce annuncia: «Suo padre è Matsui Tanaka, il traditore» e nel 17
rifugio ondeggia un mormorio di disapprovazione; altri le fanno spazio, ma come per suggerire che non la vogliono più qui. A lei non importa. Adesso è all’aperto, inghiotte l’aria pura che in confronto sembra quasi fredda. Cammina in fretta per allontanarsi dal rifugio, poi rallenta, consapevole del vuoto che ha attorno. Sotto un albero dalle foglie pallide alza le braccia per vedersi addosso le macchie in movimento disegnate dal sole e dall’ombra, mentre i rami ondeggiano in una brezza impercettibile da terra. Dà un’occhiata alle sue mani tese in alto: sono piene di vesciche per il lavoro in fabbrica e le esercitazioni con le lance di bambù. Non era così che immaginava i suoi ventun anni. Semmai era a Tokyo che pensava: Hiroko Tanaka nella metropoli, vestita all’occidentale, che lascia segni di rossetto su bicchieri di vino nei jazz-club, i capelli tagliati appena sotto le orecchie, impegnata a resuscitare lo stile della «ragazza moderna» degli anni Venti, tramandato per tutto il decennio successivo dalle pagine di Sutairu. Ma quelli erano sogni d’infanzia. Sogni presi a prestito, in verità. Vedeva sua madre ridere e sospirare sui racconti delle ragazze moderne e immaginava il loro mondo come l’unica via di fuga da una vita di doveri. Anche se, crescendo, si era sempre più convinta che la madre — così devota al marito, alla figlia, alla casa — non avesse desiderato davvero la fuga, ma si accontentasse di crederla possibile. E in questo erano completamente diverse. In Hiroko, la conoscenza si trasformava in desiderio. Ma il mondo sbirciato nelle riviste le era molto meno noto di quello che poteva toccare con mano, afferrandone le radici dei capelli color ruggine. Adesso i sogni dell’infanzia sono passati. Adesso c’è Konrad. Non appena finirà la guerra ci saranno lei e Konrad. Non appena finirà la guerra ci saranno cose da mangiare e seta per vestirsi. Hiroko non si vestirà mai più di grigio, non riciclerà mai più le foglie di tè, non prenderà mai più in mano una lancia di bambù né metterà piede in una fabbrica o in un rifugio antiaereo. Non appena finirà la guerra ci sarà una nave che porterà lei e Konrad lontano, in un mondo senza doveri. Quando finirà la guerra? Mai abbastanza presto. Se ne va da Azalea Manor, quasi di corsa. Sente Yoshi che lo chiama, gli grida di aspettare il cessato allarme, 18
ma lui riesce soltanto a pensare che se deve cadere un’altra delle nuove bombe, cadrà su Urakami: sulle fabbriche, sulla gente stipata insieme. I rifugi non basteranno, se è come ha detto Yoshi. E se deve cadere su Hiroko, tanto vale che cada anche su di lui. Affretta il passo, supera correndo i ricordi di lei: il cancello da cui era entrata per cercarlo, non appena il nipote di Yoshi le aveva consegnato la lettera in cui Konrad le chiedeva di tradurre in tedesco lettere e diari, per un compenso da definire; il cortile della scuola dove si trovavano ogni settimana i primi mesi, con lo scambio di traduzioni e denaro che diventava un aspetto sempre più marginale dell’incontro; la strada che portava ai binari del tram, dove, alle cupe lamentele di lui sui razionamenti, lei aveva risposto cantando «Yes, We Have No Bananas», rivelandogli che il suo inglese era fluente quanto il tedesco; il quartiere cinese, dove per la prima volta era scoppiata a ridere, quando le aveva rivelato i nomi che aveva dato agli ortaggi che non conosceva: cavoli scompigliati, nodi di terra, fossili di fiori, patate allampanate; MeganeBashi, il ponte degli occhiali, dove erano fermi a guardare l’acqua quando un pesciolino argentato era balzato fuori dal riflesso del petto di Konrad per tuffarsi in quello di lei, che aveva fatto un gridolino e un passo indietro, e per poco non perdeva l’equilibrio, tanto che lui le aveva passato un braccio attorno alla vita per trattenerla. E qui — rallenta, suona il cessato allarme, il pericolo è passato — le sponde dell’Oura, dove le ha raccontato del suo primo inverno a Nagasaki, di quando, passeggiando lungo il fiume, aveva visto delle macchie di colore sotto la superficie. «Mi avvicinai per guardare, e sai cosa vidi? Il nome di una donna: Hana. Scritto in rosso da un artista esperto o da un amante ossessivo, capace di dipingere sull’acqua appena prima che ghiacciasse, per fissare i caratteri». Invece di scuotere la testa e venirsene fuori con una spiegazione realistica per quel nome sigillato nel ghiaccio, come lui si sarebbe aspettato, lei aveva avuto un fremito. «Il primo inverno che hai passato qui è stato quello del ‘38. Perché non ci siamo conosciuti prima? Che peccato». Era stato per lui il primo bizzarro, meraviglioso segnale di come i suoi sentimenti fossero almeno in parte ricambiati. 19
Si rimette in marcia, con la risolutezza che subentra al panico. Fin dalla resa della Germania le va dicendo che non è sicuro, per la figlia di un traditore, passare troppo tempo insieme a lui. Perciò si vedono solo due volte la settimana, per un’ora, sempre in un luogo pubblico all’aperto, seguiti in certi casi dalla polizia militare, e parlano ad alta voce, in giapponese, della gloriosa storia del paese, fingendo che lei lo stia istruendo sull’argomento. Lui ha abbandonato l’usanza settimanale di prestarle libri in tedesco e in inglese, sebbene fosse uno dei suoi più grandi piaceri vedere le diverse espressioni di gioia con cui lei accoglieva Yeats, Waugh e Mann; per quanto fosse lungo o fitto il libro, nel giro di una settimana lei avrebbe senz’altro finito di leggerlo — anche due volte. Adesso, però, i libri sono entrati nell’elenco delle intimità temporaneamente negate. Ogni volta che si vedono lei si lamenta che nel mondo ci sono già abbastanza razionamenti, ma lui non cede. Dopo la guerra, dice sempre. Dopo la guerra. Adesso capisce quanto si è lasciato influenzare dai ragionamenti di Yoshi. Entra nella valle di Urakami e alza lo sguardo sulla cattedrale, con le sue figure di pietra che si stagliano contro il cielo: quando è coperto il loro grigiore fa pensare che ogni nuvola stia per trasformarsi in una statua, per mano di uno scultore che la tirerà giù e sbozzandola le darà solidità. Lui pure è divenuto solido nello stesso modo: sono finiti i tempi dell’inconsistenza, del non sapere cosa ci faceva in Giappone, del sentirsi in fuga da un paese che aveva amato, per o contro il quale aveva da tempo rinunciato a combattere. Sa perfettamente perché si trova qui, perché è questo l’unico luogo in cui vivere. Ormai lontano dal fiume e dalla cattedrale, svolta in direzione del pendio che lei gli ha descritto, con l’albero spoglio dalla corteccia argentea pitturato di nero, in modo che la luna non lo trasformi in una torre d’acciaio attirando il fuoco nemico (e sui rami più in alto qualcuno ha dipinto delle stelle). Ecco là i tetti vermigli del quartiere di lei, che le fanno venire in mente i taccuini, così che ogni sera, quando torna a casa dalla fabbrica, vede i suoi uccelli, e si addormenta sotto le loro ali spiegate. «Konrad-san?» In piedi nella veranda di casa sua, lo guarda preoccupata. Che cosa può averlo portato a Urakami, dove tutti i vicini possono vederlo? Lui sorride e fa un gesto di finta disperazione. Mesi fa le ha chiesto 20
di chiamarlo semplicemente Konrad, e lei ha risposto: «È un bel nome, ma da solo sembra spoglio». Poi gli aveva lanciato un sorriso malizioso: «Un giorno forse non sarà un problema». «Tuo padre è in casa?» «È in collina a passeggiare. Vieni». Lei apre la porta scorrevole e lui armeggia per levarsi le scarpe prima di entrare. Lei è già per le scale prima che sia entrato, così si concede giusto il tempo di guardarsi attorno nel piccolo soggiorno, il cui punto focale è un paesaggio di Nagasaki dipinto a inchiostro dal padre di Hiroko, come indovina Konrad, colto da un’ansia inaspettata. Una volta Hiroko ha detto di aver imparato a dubitare delle regole del mondo dal suo esempio, più che dai suoi insegnamenti, e Konrad non può fare a meno di sospettare che la disimpegnata opera educativa di Matsui Tanaka si concluderà nel momento preciso in cui la figlia gli presenterà il tedesco di cui è... che cosa?... innamorata? Di sopra, entra in una stanza in cui c’è un futon arrotolato, ma che non è ancora stato riposto. Cerca di non guardare il letto di lei. Hiroko esce sul balcone e si appoggia alla ringhiera. La casa è piuttosto in alto sul pendio e, malgrado sia circondata su tre lati da altre case, dal balcone non si vedono che alberi e colline. E nient’altro che alberi e colline la guardano. «Non mi avevi detto che abiti a un tuffo di distanza da un oceano di foglie liquide» dice Konrad. Lei gli tocca la manica. «Stai bene? Hai un’aria strana. E sei qui. Perché?» Come sempre la conversazione si muove fra il tedesco, l’inglese e il giapponese. Per loro è come una lingua segreta che nessuno dei loro conoscenti può decifrare del tutto. «Devo chiederti una cosa. Non voglio aspettare che sia finita la guerra per sentire la risposta». Nel dirlo capisce il vero motivo per cui è venuto. «Vuoi sposarmi?» La reazione è immediata. Raddrizza la schiena e appoggia le mani sui fianchi. «Come osi?» Lui fa un passo indietro. Come ha potuto sbagliarsi in questo modo? 21
«Come osi insinuare che la cosa fosse in dubbio? La settimana scorsa, quando parlavamo di viaggiare insieme per il mondo dopo la guerra, in che ruolo pensavi che avrei accettato di seguirti, se non come moglie?» La fine della frase è soffocata dalla camicia di lui, mentre lei lo tira vicino a sé. La pace, riflette. Ecco che sensazione dà. «A Delhi no» dice lui. Sono seduti sul balcone, con le dita intrecciate. «Ma voglio conoscere Ilse. È tua sorella, la devo conoscere». «Sorellastra» la corregge lui. «E ormai è un pezzo che non è più Ilse Weiss. Adesso è soltanto Elizabeth Burton. E comunque la conoscerai, ma non durante la luna di miele. Francamente, l’unica persona che valga la pena di conoscere a ‘Bungle Oh!’ è Sajjad, ammesso che sia ancora lì. Un ragazzo musulmano simpaticissimo che lavora per James Burton. È lui che mi ha raccontato la storia del ragno nell’islam, ricordi?» Lei allontana la testa dalla sua spalla. «Bungalow?» «Bungle Oh!1 È un gioco di parole. Bungle Oh!, Civil Lines,2 Delhi. Forse hai ragione, ci dovremmo andare. Chi può resistere a un indirizzo simile?» «Non parli sul serio» brontola lei. «È la prima volta che te ne lamenti». La bacia sulla testa. «Ilse non ci vorrà fra i piedi. Ti ho spiegato che si vergogna dei suoi collegamenti con la Germania’, come li chiama lei. È a questo che ha ridotto anche mio padre e me. Collegamenti. E la guerra non era neppure cominciata: forse adesso fingerà di non conoscermi. Probabilmente racconta in giro di esser nata dalla fronte anglosassone di sua madre, perfettamente formata». «D’accordo» risponde lei. «Lasciamo perdere Delhi. Che ne dici di New York?» Lui si domanda se abbia sentito parlare di questa «nuova bomba». Il 1
Bungle: un lavoro mal fatto, un casino, che seguito da Oh! suona come bungalow, casa a un solo piano. [n.d.t.] 2 Zona di Delhi assegnata ai civili durante il dominio britannico. [n.d.t.]
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pensiero gli fa venire voglia di stringerla più vicina. Lei decide di non fargli notare che, malgrado il cielo coperto, fa troppo caldo per un contatto fisico simile. La mente scatta in avanti verso gli altri generi di contatto fisico che il matrimonio renderà necessari. Si domanda se lui abbia un’idea meno vaga della sua, riguardo a ciò che avviene la prima notte di nozze. La curiosità di lei è completamente astratta. «Tuo padre sta per tornare dalla passeggiata» dice Konrad. Si alza rammaricato e l’aiuta a tirarsi su. «Non è così che voglio che veda per la prima volta il futuro genero». «Allora torna per cena. Ti servirò tutte le scodelle che vuoi della miglior zuppa di miso annacquata di Urakami». «Perfetto». Adesso la sta guardando in un modo che la spinge a toccarsi la bocca per togliere quello che deve aver visto lui, qualcosa che dev’esserci rimasto appiccicato. Lui ride piano, le mette le mani attorno alla vita e la bacia. L’ha già baciata, naturalmente. Molte volte. Ma sempre di fretta: presto, dai, prima che ci vedano. Adesso è diverso. Lei sente qualcosa di umido: la sua lingua. Dovrebbe essere rivoltante, ma non lo è. Tutt’altro. La stupisce la reazione del suo corpo: una sensazione nuova, eppure familiare. Si stacca e dice: «Rimani», poi torna dentro di lui. Konrad scuote la testa come per dire: «No, è troppo presto». «Rimani». Ma lui fa un passo indietro. Ha il sospetto che lei non capisca fino in fondo le implicazioni di quella richiesta, già a un soffio dall’essere inevitabili. «Torno per cena». Cammina all’indietro, senza staccare gli occhi dal suo volto. Fa le scale così, e lei non può trattenersi dal ridere. Sembra un film proiettato per sbaglio al contrario. «Dove stai andando?» «Non so... Alla cattedrale di Urakami?» 23
«Oh. È lì che ci sposiamo?» chiede in tono dispiaciuto. «Certo che no. Non sei nemmeno cattolica». «Quello non è un problema. Voglio sposarmi su una montagna da cui si veda il mare». «Io vedrò soltanto te». Il suo sorriso riesce a rendere l’affermazione più sensuale che sentimentale. Le è del tutto nuovo questo lato di Konrad, e si sorprende della propria speranza mentre agita la mano a scacciare quell’assurdità. Ormai è arrivato in retromarcia fino alla veranda. «Allora perché vai alla cattedrale?» «Padre Asano ha detto che mi presterà dei libri. Non mi interessano, ma non voglio offenderlo, visto che è uno dei pochi che sono ancora disposti a farsi vedere con me». «Ci lasceremo tutti alle spalle, Konrad. Troveremo un’isola dove potremo abitare noi due soli». È la prima volta che la sente dire il suo nome senza il suffisso formale. Fa un passo avanti, preme di nuovo la bocca contro quella di lei, incurante dei vicini. Quando se n’è andato, Hiroko corre su per le scale per vederlo scendere per il pendio, ma l’angolazione della casa non lo consente. A un tratto, è indecentemente consapevole del proprio corpo, in un curioso miscuglio di peso e leggerezza: le membra soffuse di un piacere che le rende esauste, e tuttavia la sensazione di avere due ali pronte a sollevarla da terra. In un angolo della stanza c’è il baule in cui suo padre tiene i ricordi più preziosi della moglie. Lo apre e tocca il kimono di seta, piegato fra una conchiglia e una busta piena di lettere. Lo prende e lo getta in aria. La seta strusciando si spiega, e quello che salendo era un quadrato riscende come un rettangolo; di nuovo lo butta su, e il kimono colpisce la lampada e resta impigliato nel paralume, poi cade serpeggiando fra le sue braccia aperte. Stringe a sé il tessuto che le dà l’impressione di essere avvolta da una cascata d’acqua, e pensa di abbracciare Konrad, nudo. Si sveste in fretta, togliendosi gli odiati pantaloni grigi da lavoro e la camicia che un tempo è stata candida, e adesso ha soltanto il colore dei 24
troppi bucati che ha subito. Poi si leva tutto il resto. Nel suo corpo sta succedendo qualcosa di insolito, che non capisce; sa tuttavia che non vuole che finisca. Infila un braccio nella manica del kimono, la seta elettrica sulla pelle nuda. Konrad attraversa la valle di Urakami e sente il cuore ripiegarsi sempre di più su se stesso. Hiroko esce in veranda. Dal collo in giù il suo corpo è una colonna di seta bianca, con tre gru nere che si slanciano da una parte all’altra della schiena. Guarda le montagne e tutto le sembra più bello rispetto a com’era di prima mattina. Nagasaki le sembra bellissima. Volta il capo e vede le guglie della cattedrale di Urakami; anche Konrad la sta guardando, quando uno squarcio si apre fra le nuvole. La luce del sole lo attraversa, e spinge ancor più lontano le nubi. Hiroko. E poi il mondo diventa bianco. La luce è fisica. Scaraventa giù Hiroko, in avanti. Nel cadere le entra in bocca e nel naso la polvere, e brucia. Il primo pensiero è il timore di aver strappato il kimono di seta della madre. Si tira su, lo guarda: il kimono è sporco ma non ha strappi. Però c’è qualcosa che non va. Si alza in piedi. Di colpo l’aria è bollente, la sente sulla pelle. La sente sulla schiena. Si passa la mano sulla spalla, sente carne dove si aspetterebbe di trovare seta. Fa scorrere la mano giù per la schiena, tocca qualcosa che non è né carne né seta, ma entrambe le cose. Forse ha a che fare con il bruciore che ha provato cadendo, riflette. Ora non sente più nulla. Picchietta il punto che non è né seta né carne. Nessuna sensazione. La vicina esce nella veranda di fianco. «Che cosa è stato?» domanda. Hiroko riesce soltanto a pensare che ha i vestiti stracciati e deve andare a cambiarsi. Si volta per entrare in casa e sente l’urlo della vicina. Si passa le dita sulla schiena e sale i gradini dove pochi minuti prima aveva seguito Konrad. Sente qualcosa, poi niente, pelle e qualcos’altro. Dove c’è pelle, sente qualcosa. Dove c’è l’altra cosa, niente. Con le dita strappa dei frammenti conficcati in quell’altra cosa. Frammenti di pelle, o forse di seta? Si dimena per togliersi il kimono, che le scivola via dalle spalle ma non cade a terra. Qualcosa glielo tiene addosso. Che strano, pensa mentre si lega inutilmente le maniche del kimono 25
attorno al corpo, appena sotto i seni. Va alla finestra da cui aveva cercato di vedere Konrad e guarda giù dal pendio, tenta di capire. Case, alberi, gente che si è radunata fuori per farsi domande a vicenda, scuotendo la testa e annusando l’aria. E poi. Hiroko si sporge dalla finestra, dimentica di essere seminuda. Ha qualcosa di strano agli occhi. Vedono perfettamente fino in fondo al pendio, poi non vedono più. Piuttosto si inventano delle visioni. Fuoco e fumo, e al di là del fumo il nulla. Al di là del fumo, terra che assomiglia alla sua schiena, nei punti in cui non prova niente. Tocca quella strana cosa. Le dita sentono la schiena, ma la schiena non sente le dita. Seta carbonizzata, carne bruciata. Com’è possibile? La valle di Urakami è diventata la sua carne. La sua carne è diventata la valle di Urakami. Fa scorrere il pollice su quella che una volta era pelle. È ruvida e grinzosa, senza vita. Tante cose da imparare. Il contatto con la carne morta. L’odore — ha appena capito da dove viene questo odore acre — della carne morta. Il rombo del fuoco: chi si immaginava che potesse tuonare con tanta rabbia, correre così veloce? Adesso corre su per la collina, presto la raggiungerà. Non soltanto la sua schiena, ma tutto di lei diventerà la valle di Urakami. Un diamante nato dal carbone: per un attimo si immagina così, immagina Nagasaki come un diamante che squarcia la terra e cade giù fino all’inferno. Si sporge ancora di più, cerca nel fumo le guglie della cattedrale di Urakami, quando sente il grido della vicina. Hiroko abbassa gli occhi, vede un rettile che striscia sul sentiero verso casa sua. Adesso capisce. La terra si è già squarciata, ha già vomitato fuori l’inferno. La figlia della vicina sta già correndo verso il rettile con un’asta di bambù nella mano, la tiene nel modo sbagliato. Il rettile alza la testa e la bambina si lascia sfuggire la lancia, grida il nome del padre di Hiroko. Perché aspettarsi che la aiuti?, si chiede Hiroko, e intanto la bambina continua a cantilenare «Tanaka-san, Tanaka-san» e guarda fisso il rettile stringendosi il volto fra le mani. L’unica luce viene dai fuochi. La vicina la sta chiamando, da qualche parte, lì intorno. È in casa, sente i suoi passi sulle scale. Dov’è la cattedrale di Urakami? Hiroko agita le mani in aria, tentando di spazzare via quella cosa che le impedisce di vedere le guglie. Dov’è la cattedrale? 26
Dov’è Konrad? Perché sta cadendo?
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«Eccolo. Vedi? Laggiù». «Come fai a sapere che è lui?» «A Nagasaki nessun altro getta un’ombra così lunga».
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UCCELLI VELATI Delhi, 1947
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Sajjad Ali Ashraf teneva gli occhi fissi sul cielo e pedalava parallelo al fiume Yamuna, tentando di identificare il punto esatto del firmamento in cui Dilli diventava Delhi. Dilli: la sua città, luogo di «viottoli e vicoli, insidiosi come una partita a scacchi», cuore che batte al ritmo della cultura indiana (non solo Sajjad aveva scarsa considerazione dei pareri opposti, ma tendeva a considerarli uno scherzo), il posto in cui i suoi antenati erano giunti dalla Turchia più di sette secoli prima per entrare nell’esercito di Qutb ud-Din Aibak, re dei mamelucchi. E poi — per poco Sajjad non finì a terra, i piedi riluttanti sui pedali come accadeva ogni volta che la sua attenzione si rivolgeva altrove — c’era Delhi: città dell’impero, dove tutte le ville degli inglesi avevano giardini lussureggianti, circondati da vasi di fiori rossi. Così si conclusero le riflessioni di Sajjad sull’India britannica. I vasi da fiori riassumevano tutto. Per gli inglesi niente alberi nei cortili, niente stanze raccolte attorno ai cortili: piuttosto confini e demarcazioni. Sajjad sorrise. Era proprio così. Sarebbe stato questo l’argomento della conversazione odierna con James Burton. Non vasi da fiori, ma confini. Naturalmente, quasi tutta la saggezza che affinava e rifiniva nella mente durante il viaggio del mattino verso Delhi rimaneva inespressa. Ma tant’è: come diceva James Burton, l’importante è sentirsi pronti. Quanto ai confini... Sajjadd alzò di nuovo lo sguardo ma nel farlo, stavolta, fermò la bicicletta e saltò giù. Sì, ecco, era quello il limite fra Dilli e Delhi. Là, dove il cielo si svuotava e non c’erano aquiloni in picchiata l’uno verso l’altro, con i fili rivestiti di vetri; e solo un piccione isolato, lasciato lo stormo, frullava sui tetti della Città vecchia, dove la famiglia di Sajjad viveva da generazioni. Io sono come uno di quei piccioni isolati, pensò Sajjad. Di casa a Dilli, mi stacco dal mio stormo per esplorare l’aria di Delhi. Rimontò in bicicletta e si mise a pensare a un distico sui piccioni e gli indiani che lavoravano per gli inglesi. Quasi subito il pensiero lo rese insofferente. Non aveva talento per la poesia e soltanto a Delhi gli capitava di parlare con fervore dell’atmosfera di cultura in cui era cresciuto; a Dilli, mentre 30
i fratelli, le cognate, le zie, i cugini e la madre si scambiavano distici, Sajjad pensava alle partite di scacchi che lui e James Burton rimandavano da un giorno all’altro, come storie di sultani e jinn. In tutta onestà aveva nostalgia dei tempi in cui erano le pratiche legali, e non gli scacchi, a occupargli la mente ogni mattina; tuttavia non c’era dubbio che un giorno si sarebbe tornati alla normalità. Glielo aveva promesso James Burton. Pochi minuti più tardi entrava nella proprietà dei Burton a Civil Lines, e camminava per il vialetto fiancheggiato da vasi di fiori. Si fermò accanto alla Bentley per guardarsi riflesso nel finestrino e quando non vide altro che l’interno della macchina si spostò imperterrito verso la superficie del cofano, che luccicando gli restituì la sua immagine. Non si soffermò sui lati del suo aspetto che spingevano sua madre a pregare per tener lontano il malocchio — i capelli fini ma abbondanti, i lineamenti dalle proporzioni perfette (eccetto il naso, da certe angolazioni), i baffi curati, la pelle chiara degli antenati turchi, l’aria sicura di un ventiquattrenne che non ha mai conosciuto il fallimento — e si concentrò invece sulla giacca beige di cashmere di Savile Row, accarezzandola con piacere sensuale. «È arrivato il pavone» annunciò Elizabeth Burton mentre guardava fuori dalla finestra di camera sua, convinta che Sajjad si compiacesse della propria snellezza, invece che della morbida lana. Quando lo vide portarsi la manica alle labbra — rosa e carnose in modo imbarazzante — distolse spazientita lo sguardo. «Dicevi?» chiese James dalla soglia. «Vorrei che non gli regalassi i tuoi vestiti» rispose Elizabeth senza voltarsi. «Si è messo a guardare tutto quello che ti metti come se fosse roba sua: hai visto com’era seccato ieri quando ti sei macchiato di inchiostro la camicia?» «Vestiti scartati come metafora dell’impero in declino. Questa sì che è interessante. Non mi interessa come guarda le mie camicie, finché sono io a decidere quando regalargliele». Elizabeth appoggiò la guancia alle imposte aperte e James la fissò per un istante: i capelli ramati che le scendevano lisci appena sopra le spalle, la figura statuaria, l’abbassarsi sensuale delle palpebre. A trentasette anni non stava appassendo, ma soltanto affilando i contorni. Cercò 31
di ricordare l’ultima volta che avevano fatto l’amore, e ripensò invece alla furiosa passione che li aveva consumati ogni notte dopo la morte di Konrad, e il sollievo che avevano provato entrambi — ne era certo — quando poi si era spenta. («Allora per gli animali dev’essere così, il sesso» aveva detto lei una notte durante quel periodo frenetico, mentre James era ancora dentro di lei. Non era riuscito a guardarla in faccia per il resto del weekend.) Elizabeth prese la tazza di tè dal davanzale ed ebbe la sensazione di posare per un ritratto: Signora in contemplazione del suo giardino coloniale. Valeva la pena contemplarlo, ammise fra sé. Il sole di febbraio non aveva nulla dell’antagonismo tipico dei mesi successivi, e il giardino aveva risposto alla sua benevolenza con un’esplosione di colore. Elizabeth lo inventariò mentalmente, muovendo lo sguardo da un lato all’altro della casa: verbene, bocche di leone, speronelle, rose, piselli odorosi, phlox. E quelli erano soltanto i fiori sul fondo, contro il muro di cinta. Nella Delhi coloniale, i giardini erano per le mogli ciò che il cricket rappresentava per i mariti: ogni volta che la conversazione si faceva tesa, affettata o impacciata, si ripiegava su Donald Bradman o sui gladioli. E febbraio, quando i crisantemi cedevano il passo alle rose, era il culmine dell’anno floreale. Tutti quegli interminabili pranzi per signore! Forse quest’anno avrebbe finalmente rivelato che non erano i fiori invernali quelli che aspettava tutto l’anno, ma l’albero di fuoco — o gulmohar, come lo chiamavano più romanticamente gli indiani. Immaginò l’indignazione delle mogli di Delhi se avesse ripudiato i fiori invernali della città — che erano anche i fiori estivi dell’Inghilterra — in favore di quella pianta, la più sfrontata del paese, con i suoi fiori di un rosso dorato che in estate fiammeggiavano per tutta la città e resistevano al sole accecante, smascherando la codardia dei fiori invernali. «Le mie ribellioni immaginarie si fanno ogni giorno più patetiche» disse. Non si aspettava che James fosse ancora lì; da un pezzo avevano perso l’abitudine di fermarsi ad aspettare la risposta dell’altro. Tuttavia sperò per un momento di sentirsi chiedere che cosa intendesse. Ma James stava già scendendo lentamente le scale: la gamba non gli era ancora del tutto guarita da quando era caduto da cavallo due mesi prima. 32
Sajjad lo aspettava in fondo alle scale, e James sorrise alla vista del giovane in quella giacca che gli stava a pennello. «Quale delle tue povere cognate è rimasta sveglia tutta la notte per adattarla alla tua taglia?» gli chiese mentre superava con un salto gli ultimi due gradini, buttando il peso sulla gamba buona. «Qudsia». Sajjad tese una mano per aiutare James, che nel toccare terra stava perdendo l’equilibrio. «La moglie del tuo fratello minore?» Sajjad fece un verso che sembrava di conferma. In realtà era lui il minore, ma considerava inutili gli occasionali tentativi di James Burton di dipanare il garbuglio di consonanti e gradi di parentela che costituivano la sua famiglia. Insieme attraversarono il locale con le piastrelle a quadri e uscirono nella veranda dove erano stati preparati due tavoli: uno per la scacchiera con la partita già iniziata, e l’altro vuoto. Su questo secondo tavolo James depositò le pratiche che si era portato dietro, mentre dava una scorsa al giardino cercando qualcosa di pennuto. «C’è una nettarinia nel suo malvone, signor Burton». «Sembra una battuta volgare. Va’ a vedere, su» disse agitando la mano verso il giardino. «Intanto darò un’occhiata alla miseria di lavoro che mi hanno mandato questa settimana». Sajjad balzò nel prato dalla veranda, ignorando i gradini. Elizabeth vi avrebbe visto qualcosa di esibizionistico, James lo sapeva: un tentativo di sottolineare il contrasto fra l’eleganza del suo balzello e l’incespicante calata di James poco prima. James, però, era felice della noncuranza con cui l’indiano sentiva di poter scagliare il proprio corpo da una superficie all’altra; così in contrasto con la formalità che aveva caratterizzato il suo rapporto con James all’inizio, otto anni prima. Era stato Konrad a scovare Sajjad («Lo dici come se avessi scoperto un continente» aveva commentato Elizabeth una volta che lui se ne vantava). Durante il suo breve soggiorno a Delhi era rincasato dai Burton dopo una mattina passata a visitare la città, con un ragazzino indiano incredibilmente bello al seguito. «Non puoi trovargli un lavoro?» aveva domandato entrando nel sog33
giorno, dove Henry, che muoveva i primi passi, stava arrampicandosi sulle ginocchia di James. «Parla benissimo l’inglese, una volta che ti abitui all’accento, e non vuole fare il calligrafo nella ditta di famiglia». «Konrad, non puoi andartene in giro così a raccattare giovinastri e a portarceli in casa» aveva risposto James spazientito, dando un’occhiata al giovane che stava fermo sulla soglia, con gli occhi bassi. James lo vide alzare la testa per un attimo, e capì dall’espressione del volto che il suo inglese era abbastanza buono da permettergli di capire ciò che aveva detto, e di offendersi. James lo guardò con più attenzione. No, non era un giovinastro: la polvere che aveva sui vestiti di mussola bianca non era quella di uno che si è buttato a terra per fare a botte, ma quella di chi ha un abito solo. Inoltre era significativo che Lala Buksh, il cameriere, non tentasse affatto di accompagnarlo nell’atrio o nel vialetto ad aspettare che i sahib decidessero del suo destino. Dopo un anno a Delhi, James sapeva di potersi servire di Lala Buksh come di una bacchetta da rabdomante, per orientarsi tra i misteri del sistema sociale indiano. Fece cenno al ragazzo di avvicinarsi con un movimento dell’indice. «Che cosa sai fare?» Sajjad Ali Ashraf alzò lo sguardo e fissò James. «Posso essere inestimabile» rispose. Sentendo la risata soffocata di Elizabeth, arrossì. «Prezioso» si corresse. «Posso essere prezioso». Chi avrebbe detto che un giorno quella dichiarazione gli sarebbe sembrata riduttiva, pensò James mentre guardava il ragazzo — ormai fattosi uomo — che camminava quatto quatto per il prato, verso la nettarinia. Sajjad si accovacciò nei pressi del malvone rosso scuro da cui l’uccello si stava cibando, le piume iridescenti del collo che mandavano bagliori di cremisi, nero e verde smeraldo mentre abbassava e ritraeva il capo. Quando si fosse sposato, fantasticava a volte, avrebbe lasciato la casa di famiglia per comprarsene una tutta per sé e per la sua sposa, e il cortile centrale sarebbe stato un giardino fiorito che col suo nettare e i suoi colori vibranti avrebbe richiamato gli uccelli di Delhi. La nettarinia volteggiò per un attimo fra Sajjad e il malvone prima di sfrecciare via. Sajjad si fermò a chiedersi chi gli avrebbero scelto per 34
moglie la madre e le zie. Ci avevano visto giusto per i primi due fratelli, ma per il terzo... Sajjad scosse la testa al pensiero della donna astiosa e ottusa che aveva sposato Iqbal. Curvò la schiena in modo che James Burton non lo vedesse, poi si sporse in avanti e guizzò la lingua verso il malvone, nel vano tentativo di assaporarne il nettare. Ebbene, chiunque fosse stata la prescelta, pensò Sajjad mentre si alzava e tornava alla veranda, presto si sarebbe sposato. La malattia e la morte di suo padre, due anni prima, avevano interrotto il primo giro di ricerche della madre, e il secondo si era dimostrato un’eccessiva perdita di tempo: se la cugina di sua cognata intendeva tirarsi indietro perché non l’aveva fatto subito, senza aspettare che iniziassero i preparativi delle nozze? La faccenda aveva scoraggiato tutti quanti, finché nelle ultime settimane le donne di casa sua avevano ricominciato a interessarsi del futuro di Sajjad. Di tanto in tanto, Sajjad immaginava di trovarsi una moglie da solo, ma poi pensava ai Burton. «Giochiamo a scacchi» propose James liquidando il contenuto della pratica con un gesto della mano. «I vicoli di Dilli sono ‘insidiosi come una partita a scacchi’». Sajjad si sedette di fronte a James e si sfregò il mento per togliere il polline che credeva di avere addosso. «Non è d’accordo?» «Stupidaggini». James porse il suo fazzoletto a Sajjad, indicando la macchia di polline che aveva sul naso. «Gli scacchi non sono insidiosi. Toccava a me, vero?» La domanda era in realtà una vecchia battuta, legata ai tempi in cui Sajjad era troppo consapevole della distanza sociale che li divideva per contraddire in alcun modo l’inglese. Adesso, ogni volta che giocavano e toccava a Sajjad fare la prima mossa, James sosteneva che fosse il suo turno. «Sì, tocca a lei» Sajjad si sfregò il naso e restituì il fazzoletto. Sapeva quanto fosse importante per James inscenare questi momenti di cameratismo per minare le rigide barriere che li separavano. Che spettasse solo a James stabilire quando indebolirle e quando riaffermarle era un fatto che Sajjad accettava come inevitabile e che l’altro nemmeno considerava. James inarcò le ciglia. «Non è vero. Toccava a te». 35
«Certo, signor Burton». Guardando a malapena la scacchiera, Sajjad spostò il cavallo sul percorso del pedone di James. «Perché sei così impaziente? Tira indietro quel cavallo, Sajjad, non essere ridicolo». «Perché gli scacchi non sono insidiosi?» «Ci risiamo con quel dannato libro, eh? Mi stai citando quel dannato libro». Il «dannato libro» era Crepuscolo a Delhi di Ahmet Ali, pubblicato durante la guerra da Hogarth Press. La madre di James gliene aveva spedita una copia per Natale e a lui erano bastate un paio di pagine per stabilire che era un cumulo di iperboli pretenziose. Lo aveva passato a Sajjad al solo scopo di mostrargli quali assurdità venissero celebrate come capolavori indiani. «Virgina Woolf ed E. M. Forster al massimo del paternalismo. Perfino tu potresti scrivere di meglio». Invece Sajjad aveva apprezzato moltissimo il romanzo e si era messo a citarlo di continuo, nella speranza di dischiuderne a James la bellezza. Sajjad riportò il cavallo nella posizione precedente e spostò avanti il pedone al suo posto. «Crede che un inglese potrà mai scrivere un capolavoro in urdu?» «No». James scosse il capo. «L’epoca in cui ci interessava entrare nel vostro mondo è finita da un pezzo, ammesso che sia mai iniziata. E anche se ci provassimo, voi non sapreste che farvene di noi». A Sajjad pareva che a furia di ribadirle, congetture come questa si trasformassero in fatti. Lui avrebbe saputo cosa fare di un capolavoro in urdu scritto da un inglese: lo avrebbe letto. Perché complicare tanto le cose? «In ogni caso sarebbe già accaduto, se avesse dovuto accadere. Fra non molto arriverà il nuovo viceré, a sovrintendere alla dipartita del ragià da questi lidi». Si appoggiò allo schienale per ispezionare Sajjad e il giardino alle sue spalle come se di entrambi fosse responsabile. «Perfino gli innings migliori devono finire, suppongo». Sajjad si domandò come James Burton avrebbe visto la fine dell’impero se non avesse avuto a portata di mano il paragone col cricket. James tornò a concentrarsi sugli scacchi e sorrise nel riconoscere la trappola che Sajjad gli stava tendendo. «Chi si intende di queste cose è convinto che la creazione del 36
Pakistan sia una possibilità molto concreta. È assurdo, davvero». Sajjad fece girare in aria le dita in quello che James aveva imparato a riconoscere come un gesto indiano di indifferenza. «In un modo o nell’altro per me non cambierà nulla. Io morirò a Dilli. E prima ancora vivrò a Dilli. Che sia India britannica, Hindustan, Pakistan... per me non fa nessuna differenza». «Continui a ripeterlo, ma secondo me è una sciocchezza». «Perché sarebbe una sciocchezza? Gli inglesi hanno avuto ben poco effetto sulla vita della mia mohalla». Vedendo lo sguardo confuso di James tradusse «quartiere», senza troppo sforzarsi di celare la propria impazienza nei confronti dell’inglese, che dopo tutto questo tempo non conosceva il significato di quella fondamentale parola urdu. «Le cose non cambiano mai. Certo, ci sono state delle interruzioni — nel 1857 e forse quando gli inglesi se ne andranno — però mi creda, nel corso del prossimo secolo Dilli continuerà a fare quello che ha fatto negli ultimi due secoli: sfiorire a un ritmo molto lento e poetico». All’affermazione che la partenza degli inglesi non sarebbe stata che un’interruzione James reagì con uno sbuffo incredulo, ma si accontentò di ribattere: «Se davvero le cose stanno così, ti sbagli nel pensare che ci resterai tutta la vita. Non sei tagliato per un mondo che sfiorisce». Se Sajjad avesse avuto con James Burton il genere di rapporto che a volte si convinceva di avere, mentre inventava discorsi e argomenti di discussione lungo il tragitto fra Dilli e Delhi, adesso sarebbe scoppiato a ridere e avrebbe risposto: «E questa invece sarebbe una vita in fiore? Passare le giornate a giocare a scacchi con te? Non sarebbe ora che tornassimo allo studio legale, James Burton?» Invece tenne lo sguardo fisso sulla scacchiera e annuì lentamente, come per riconsiderare a fondo il suo rapporto con la mohalla. «Non mi credi?» domandò James. E quando Sajjad rispose con un sorriso e un’alzata di spalle, James gli posò la mano sul braccio. «Non conosco nessuno più in gamba di te». In momenti come questo Sajjad voleva un gran bene a James Burton. Non tanto per il complimento — Sajjad non aveva bisogno di complimenti da nessuno — , quanto per il modo in cui James aveva compresso nell’espressione «in gamba» una complessa matrice di emozioni, che racchiudeva in sé i rapporti fra sovrano e suddito, principale e dipen37
dente, padre e figlio, giocatore di scacchi e giocatore di scacchi. Dall’ingresso giunse il rumore della porta che si apriva e l’eco della voce di Lala Buksh che diceva: «La prego di attendere. Avverto la signora Burton». James e Sajjad udirono il suo passo pesante salire le scale. «Chi sarà mai?» disse James alzandosi dalla poltrona e incamminandosi verso l’atrio, seguito da Sajjad. Vide una donna, che tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni guardava il ritratto di James, Elizabeth e loro figlio Henry appeso sul muro. Oltre ai pantaloni azzurri, scampanati sotto il ginocchio, indossava un pullover color crema con le maniche tirate su fino ai gomiti; i capelli scuri erano tagliati all’altezza delle orecchie. Sebbene voltasse loro le spalle, James capì subito che non assomigliava a nessuno di sua conoscenza. «Cerca mia moglie?» chiese. Lei si voltò. «Santo Dio» esclamò James quando si rese conto che la donna era giapponese. «Sono Hiroko Tanaka. Lei dev’essere James Burton».
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Hiroko Tanaka sapeva tre cose di James Burton, nel momento in cui entrò in casa sua. Che era il cognato di Konrad. Che suo zio George aveva fatto costruire Azalea Manor. Che aveva un assistente musulmano. Così, quando Lala Buksh le aprì la porta, e fra il bianco e nero delle pareti e delle piastrelle lei vide il dipinto appeso al muro, concepito apposta per dare ai visitatori una prima impressione della famiglia, fu James che si avvicinò a esaminare, invece che Ilse. Chi era quest’uomo, su cui Konrad non aveva speso neanche una parola? Nel guardare il ritratto — l’abito elegante, una mano posata sulla spalla della moglie e l’altra su un mobiletto pieno di trofei sportivi — notò subito in James Burton un lato che il pittore aveva colto alla perfezione: la vanità. Capì dunque il motivo per cui Konrad non avesse niente da dirgli, o da dire su di lui. Ferma davanti a James, che la osservava confuso senza badare alla sua mano tesa, pensò che assomigliasse a uno schizzo poi scartato del ritratto a olio. I capelli, rossicci nel dipinto, erano in realtà di un castano scuro, la pelle pallida appena abbronzata e lentigginosa, gli occhi verdi più vicini di quanto l’artista avesse voluto ammettere. Eppure, mentre le buone maniere allontanavano con ferma eleganza lo stupore dal volto di James e lo spingevano a prendere la mano di Hiroko come se fosse rimasto ad aspettarla per tutto quel tempo, lei vide che il ritratto era azzeccato: quest’uomo si sentiva bene nell’agiatezza. «Come fa a sapere il mio nome?» domandò lui. E poi, come se la risposta esatta gli facesse vincere una bottiglia di champagne, dichiarò trafiggendo l’aria con un gesto trionfale: «Konrad!» Sajjad, che inosservato stava alle sue spalle, trasalì. Ed ecco ciò che Elizabeth sentì: la voce di Lala Buksh che le annunciava una visita dal Giappone, e poi, mentre scendeva di fretta le scale l’esclamazione deliziata di James, la cui voce arrivò fino a lei: Konrad! Il suo cuore, se non la mente, era già arrivato a un’impossibile conclusione quando sbucò dalla curva delle scale e vide la figura completamente estranea che le voltava le spalle. 39
Quando James distolse lo sguardo per guardare verso le scale, anche Hiroko si voltò. E scoprì un nuovo aspetto del dolore. Konrad, trasformato in una donna di grande bellezza. I capelli rossi fattisi di rame, le palpebre pesanti dall’aspetto sensuale invece che assonnato, la magrezza divenuta eleganza. Di fianco a Hiroko, James stava dicendo: «Mia moglie Elizabeth. Cara, ti presento la signorina... Tanker?» e una voce d’uomo alle sue spalle lo corresse: «Tanaka», ma Hiroko si limitò a guardare fissa la figura che scendeva le scale. Negli ultimi diciotto mesi non era quasi passato giorno senza che Hiroko pensasse a Konrad che camminava all’indietro, declinando il suo invito a restare, e a un certo punto il ricordo era diventato tutt’uno con l’emozione violenta che lo accompagnava. A Tokyo, pochi mesi fa, stava ballando con un soldato americano quando un suo gesto le aveva rammentato il saluto di Konrad: non aveva perso nemmeno un passo, aveva continuato a ballare fino alla fine della canzone, poi si era scusata, e dopo essersi chiusa a piangere della propria insensibilità nella toilette delle signore aveva ripreso a ballare. Ormai, a Hiroko Tanaka restava ben poco da imparare sulle vergognose capacità di recupero del cuore umano. E tuttavia, nel vedere Elizabeth che scendeva le scale, le parve che fosse soltanto ieri che Konrad si era congedato da lei per andare incontro alla morte. «Signorina Tanaka» esordì Elizabeth tendendo la mano alla donna che la fissava sconcertata. Intuì subito che si trattava di qualcuno che aveva conosciuto Konrad abbastanza bene da rimanere turbato dalla somiglianza della sorellastra. Non ricevendo risposta, allungò il braccio e prese la mano di Hiroko, che pendeva dimenticata lungo il fianco, così che per un attimo si tennero semplicemente per mano, prima che la novità del contatto con Elizabeth e la freschezza della sua pelle togliessero di mezzo il fantasma di Konrad e consentissero a Hiroko di riprendersi e stringerle vigorosamente la mano. «Ilse» rispose. Le venne da pensare che avrebbe dovuto chiamarla «Signora Burton», ma nei discorsi di Konrad lei era sempre stata «Ilse». «Elizabeth» la corresse l’altra, con un sorriso di scusa da cui traspariva il senso di colpa per aver abbandonato il soprannome dell’infanzia. «E lei come desidera essere chiamata?» «Hiroko». 40
«Possiamo offrirle una tazza di tè, signorina Tanker?» disse James. «Fuori nella veranda si sta benissimo». Perché Elizabeth non era così affabile anche con le mogli dei suoi clienti? «Lala Buksh, chai!» ordinò all’uomo con i capelli tinti di henné che aspettava sul pianerottolo. Poi allungò una mano in direzione della veranda, per invitare le due donne a precederlo. Hiroko aspettò di vedere la reazione di Elizabeth — aveva già deciso da che parte stare, pensò Sajjad — e soltanto dopo aver ricevuto un sorriso e un cenno del capo si incamminò per il corridoio, subito seguita dall’altra donna. Lungo il percorso indugiò con lo sguardo sull’indiano che si era messo da una parte per lasciarli passare. «Sajjad, trovati qualcosa da fare. Di quelle pratiche ci occuperemo più tardi». «Sajjad?» domandò Hiroko fermandosi davanti a lui. «Sì?» Avrebbe voluto allungare la mano e toccare la scura macchia in rilievo che aveva sullo zigomo, per vedere se faceva parte di lei o era un piccolo scarabeo, che dopo essersi posato sulla guancia aveva ripiegato le ali e deciso di restare lì per sempre. Hiroko gli sembrava una donna capace di concedere simili libertà — agli scarabei e agli uomini curiosi — sempre che le intenzioni non fossero scortesi. Stava per dirgli che Konrad le aveva parlato di lui, ma prima che potesse aprire bocca Sajjad la diffidò con uno sguardo e scosse il capo impercettibilmente. Che regole ha questo posto, si domandò Hiroko mentre gli sorrideva insicura e proseguiva sotto lo sguardo incuriosito di James ed Elizabeth. Chissà se anche Konrad si era sentito tanto sperduto quando era arrivato a Nagasaki? Se soltanto Hiroko avesse avuto i suoi taccuini rosso porpora; se almeno di lui fosse rimasto quello. Invece, il 9 agosto, l’albero a cui Konrad aveva appeso la scultura mobile si era ridotto a un moncone annerito, malgrado la bomba non avesse causato altri danni nel quartiere. Secondo Yoshi Watanabe, non poteva esser stata l’esplosione: forse qualcuno si era acceso una sigaretta mentre passava vicino al terreno abbandonato, e spaventato dal lampo aveva lasciato cadere il fiammifero o la stessa sigaretta oltre il muretto. «Sarebbe comunque colpa della bomba» aveva risposto Hiroko. Il desiderio di sedersi in terra a piangere era forte, ma Hiroko uscì nella veranda. E in un altro mondo. Tutto era colore, e cinguettio di uc41
celli. Era come entrare nella fantasia di qualcuno che non avesse altre possibilità di svago. Era tutto così bello, eppure così delimitato. Si accomodò sulla poltrona che James aveva spostato per lei e accettò il tè che le era stato offerto. «Come mai si trova a Delhi? È qui da molto?» James incrociò le gambe all’altezza del ginocchio e si mise comodo, coi gomiti che sporgevano appena dai braccioli. Elizabeth lo osservò con interesse, mentre si sistemava con fare più composto. Tuttora, dopo undici anni insieme, rimaneva affascinata dalla capacità del marito di fare impressione sul prossimo. Con quanta disinvoltura le aveva rivolto la parola chiamandola «cara», pochi attimi prima. Lo faceva spesso, in pubblico o ai ricevimenti, ma sentirglielo dire al mattino, davanti a Sajjad che aveva alzato gli occhi sorpreso, aveva reso particolarmente singolare questa parodia di affettuosità. «Sono appena arrivata. Non volevo più stare in Giappone» rispose Hiroko. James la incoraggiò annuendo, come se avesse approvato l’inizio di una commedia e segnalato il suo interesse per la trama, ma Elizabeth capì che Hiroko era già arrivata in fondo alla risposta. «E conosceva Konrad?» le domandò la donna. Hiroko annuì. «Le ha detto che aveva dei parenti a Delhi?» Mentre parlava si passò le mani sul vestito, come per lisciare delle pieghe inesistenti. Nemmeno credesse che i fiori stampati sul cotone le fossero caduti addosso dagli arbusti che si sporgevano nella veranda, pensò Hiroko. Era un Konradpensiero. «Bungle Oh!, Civil Lines, Delhi» disse piano, dando voce al ricordo. «‘Chi può resistere a un indirizzo simile’ mi disse». James si chinò leggermente in avanti. «Arriva da Nagasaki?» Gli sembrava troppo... integra per appartenere a quelle fotografie, che ancora riteneva insensato pubblicare su giornali su cui avrebbe potuto mettere le mani un bambino. Come Henry, che aveva otto anni. Papà, anche lo zio Konrad è diventato così quando è morto?, aveva chiesto indicando qualcosa dalle sembianze a malapena umane su una rivista che Elizabeth aveva stupidamente portato a casa. «Da Tokyo. Ho trovato lavoro là subito dopo la guerra. Come tradut42
trice. Poi una donna che conoscevo mi ha detto che un suo amico era in partenza per l’India, per Bombay. Me l’ha presentato e io l’ho convinto a portarmi con lui. E da Bombay sono venuta in treno fino a Delhi». «Ma come, da sola?» James lanciò un’occhiata a Elizabeth per dirle: si sta inventando tutto. A Hiroko non sfuggì lo scambio di sguardi; dopo la bomba aveva preso a osservare le coppie sposate con il vivo interesse di chi sa di non avere altre possibilità per approfondire l’argomento. «Sì. Perché? In India le donne non possono viaggiare da sole?» Elizabeth trattenne una risata. Questo faceva piazza pulita di tutte le storie che aveva sentito sulla pudicizia delle donne giapponesi. Quella che aveva davanti avrebbe strizzato il sole in un pugno, se ne avesse avuto l’occasione, per poi rovesciare indietro la testa e berne la luce liquida. In che momento, si domandò Elizabeth, si era convinta che una vita fatta di costrizioni fosse anche virtuosa? Batté i tacchi spazientita. Davvero, la virtù non c’entrava affatto. «Be’, la legge non lo vieta, se è questo che intende». James era stranamente allarmato da questa donna, che gli riusciva difficile collocare. Indiani, tedeschi, inglesi, perfino americani... sapeva come osservare la gente per capire da che ambiente veniva. Ma questa giapponese in pantaloni, che diavolo rappresentava? «Però ci sono delle regole, e c’è il buon senso. Di sicuro non consentirei mai a Elizabeth di...» Esitò quando Hiroko lanciò un’occhiata a Elizabeth, per vedere come reagiva alla scelta di quel verbo. «Diceva che è traduttrice? Aveva conosciuto Konrad per lavoro oppure...?» Elizabeth fece un gesto vago, che riuscì a esprimere la sua completa ignoranza della vita di Konrad in Giappone. «Ci siamo conosciuti per quel motivo. Le traduzioni per il suo libro. Era...» Hiroko si interruppe. L’unico con cui aveva parlato di Konrad era Yoshi Watanabe, e con lui non c’era bisogno di dire molto. Perciò, adesso, dovette aspettare un paio di secondi prima di esprimere il futuro che aveva perduto. «Se il nostro mondo non fosse andato in frantumi, sarei diventata sua moglie». L’arrivo di Lala Buksh col tè eliminò la necessità di una risposta immediata. James se ne restò comodo in poltrona, senza curarsi di nascondere la propria incredulità. Elizabeth intanto pensava: Non lo cono43
scevo per niente! Nulla, nell’immagine che aveva del fratellastro — un uomo chiuso in se stesso, che considerava gli altri come fastidiose distrazioni dalla bellezza di una foglia o di un’idea — le consentiva di immaginare come avesse fatto colpo su una donna tanto vivace. Si domandò che significato avesse il matrimonio per i giapponesi. Richiedeva l’amore? Proprio non riusciva a immaginarselo. A immaginarsi Konrad e Hiroko Tanaka innamorati, anzi appena innamorati, quando tutto ciò che conta al mondo viene distillato in due corpi. All’improvviso fu consapevole della presenza fisica di James, come non le capitava da tempo. Chi può resistere a un indirizzo simile? Era quella strana frase a frullargli per la testa, mentre James annuiva alla giapponese — come si chiamava? — fingendo di assimilare la notizia del fidanzamento con Konrad. Che fosse venuta con l’intenzione di restare? Poteva forse aspettarsi che la invitassero a farlo, per il semplice fatto di essersi presentata come la fidanzata di Konrad? Anche se a dire il vero non l’aveva fatto. Le guardò di sfuggita le mani. Non portava anelli. «E terribile quello che è successo a Konrad» intervenne James, quando si rese conto che Elizabeth non avrebbe parlato per prima. «Davvero spaventosa, tutta la faccenda. Era da un po’ che non ci sentivamo, signorina Tan...» Si portò la tazza alle labbra, tentando di mascherare la propria smemoratezza. «Ma naturalmente saremmo lieti di sapere come viveva in Giappone. Deve assolutamente venire a cena, prima di ripartire. Intende trattenersi a Delhi per un certo tempo?» James, razza di bastardo. A un tratto Elizabeth provò un atteggiamento protettivo nei riguardi di questa giapponese che ovviamente era venuta qui perché non aveva altro posto dove andare. Una decisione assurda, senza dubbio, ma che certo non giustificava il gelo con cui James la stava mettendo alla porta. A parte un lieve rossore delle guance, tuttavia, Hiroko non dava segni di turbamento. «Ho un certo patrimonio a disposizione e non ho legami. Di conseguenza non sono tenuta a fare programmi». In verità di soldi ne aveva pochi — il viaggio da Tokyo aveva dato una falciata ai suoi risparmi — ma confidava che la conoscenza di tre lingue e le entusiastiche lettere di raccomandazione degli americani sarebbero bastate a procurarle un im44
piego ovunque nel mondo. «Bisognerà vedere se io e Delhi andiamo d’accordo». Si voltò verso Elizabeth con un movimento quasi impercettibile della schiena e liquidò James con la stessa efficacia con cui James aveva liquidato lei. «Potrebbe consigliarmi una buona pensione? Ho le referenze degli americani di Tokyo e di Yoshi Watanabe, nipote di Peter Fuller dello Shropshire». Senza ben sapere se per semplice curiosità, per simpatia o per il desiderio di contraddire James, Elizabeth si ritrovò a dire: «Perché non si ferma qui per qualche giorno, mentre organizziamo la sua sistemazione? Il bagaglio?» «L’ho lasciato fuori, a quel signore» Hiroko tentò di mettere insieme la scarsa considerazione di Konrad per Ilse, la sorella che lo aveva fatto sentire di troppo a Delhi, con il calore e l’ospitalità di questa donna. «Però la prego, non voglio recare disturbo». «Elizabeth, una parola». James si alzò e uscì in giardino. Dopo un momento lungo quanto bastava per contenere un lampo di rassicurazione, Elizabeth lo seguì. Hiroko si premette le dita appena sotto la scapola. Da Tokyo a qui aveva acquistato sempre più slancio. Aveva pensato più alla partenza che alla meta, traversando il mondo con la terribile libertà di chi non ha nessuno a cui rispondere. Era diventata, in effetti, una figura mitologica. Il personaggio che perde tutto e rinasce nel sangue. E nei miti personaggi simili si riducevano invariabilmente a un unico aspetto: la vendetta o la giustizia. Qualsiasi altro elemento della personalità e del passato veniva abbandonato. Una volta Hiroko aveva passato un pomeriggio intero a osservare un ritratto di Harry Truman. Non sapeva in che maniera avrebbe voluto far male a quell’uomo occhialuto, ma immaginava che avrebbe provato una certa soddisfazione se qualcuno gli avesse sganciato addosso una bomba; quanto alla giustizia, considerava oltraggiosa nei riguardi dei caduti la sola idea che una cosa simile potesse esistere. Era stato per paura di un declassamento, più che per andare in cerca di chissà cosa, che aveva lasciato il Giappone. Aveva già la sensazione che il termine hibakusha cominciasse ad annientare la sua vita. Per i giapponesi era soltanto una vittima dell’esplosione: era quello il suo tratto distintivo. E per gli americani... be’, non le interessava più cos’era per gli americani. Si alzò 45
dalla poltrona con le braccia conserte e scese in giardino. Certi giorni aveva l’impressione che la morte che portava sulla schiena premesse sotto le sue scapole con richieste indecifrabili, impossibili da soddisfare. Sfiorò un albero con le nocche. Curiosamente, il debole rumore della pelle sulla corteccia la rassicurò. Le ricordava qualcosa... qualcosa di Nagasaki che non riusciva a identificare. Sajjad usci in giardino dallo studio di James. I Burton si erano messi a discutere fuori dalla porta dello studio — non sapevano niente di questa donna (sosteneva James), non potevano buttar fuori la fidanzata di Konrad (ribatteva Elizabeth), era evidente che mentiva riguardo ai suoi rapporti con lui (James), non sarebbe stato un grosso sforzo telegrafare a quell’amico di Konrad — Yoshi o come diavolo si chiamava — per saperne di più, dunque perché non fare così, invece di comportarsi in modo così spiacevole (Elizabeth), ah, adesso sarei spiacevole, eh? (James). Sajjad detestava i loro battibecchi — non tanto i litigi di per sé, quanto la sensazione che davano i Burton, perfino nei momenti di massima ostilità, di astenersi dal dire la verità più dolorosa, finché quelle parole non dette riempivano la stanza e spingevano Sajjad a correre a casa sua, dove persino Allah veniva severamente e sonoramente rimproverato per ogni Sua mancanza. Fu un sollievo constatare che le voci dei Burton non raggiungevano il giardino, e che la nuova arrivata era inconsapevole di quanto stava accadendo. Inconsapevole del mondo, si sarebbe detto nel vederla sfregare con forza il dorso della mano contro la corteccia nodosa di un albero. «La smetta» disse, subito impressionato da quanto lei apparisse fragile alla luce del sole. Sembrò non sentirlo, perciò le andò incontro, correndo per il prato, appena prima che dalla sua pelle graffiata sgorgasse il sangue, e allontanò la sua mano dall’albero. Lala Buksh uscì appena in tempo per vedere la mano di Sajjad che stringeva il polso di Hiroko. Guai in vista, pensò.
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«Non credo che finirà bene con la ragazza che avevamo in mente per te» disse Khadija Ashraf mentre si sedeva lentamente sul divano in cortile vicino a Sajjad, che a gambe incrociate, poco prima dell’alba, stava bevendo il tè del mattino. Sajjad cinse la madre con un braccio e bisbigliò: «Mentre gli altri dormono potresti ammetterlo. Sei convinta che in tutta Dilli non ci sia una sola ragazza all’altezza del tuo figlio preferito». Khadija Ashraf appoggiò la schiena al cuscino dopo aver spazzato via qualche foglia di mandorlo e scosse la testa, innervosita per l’indifferenza ostentata da Sajjad. «Quest’assurdità della Lega musulmana di creare un nuovo paese sta mandando all’aria tutto quanto». «Ancora questa storia? Mohammed Ali Jinnah sta per soppiantare Allah come principale imputato dei tuoi problemi esistenziali. Stai dimostrando una devozione che supera perfino quella dei sostenitori più accaniti della Lega». Sua madre si sistemò il gharara in modo da raddrizzare le linee dell’abito, ma si rifiutò di sorridere. Si era impegnata al massimo nelle dovute formalità per negoziare il matrimonio fra Sajjad e Sheherbano, la figlia di Mir Yousuf, e tutto era parso andare per il meglio finché all’improvviso il padre aveva dichiarato che naturalmente la nuova nazione sarebbe diventata una realtà, e naturalmente vi si sarebbe trasferito, e che si sarebbe aspettato ovviamente che il genero facesse lo stesso. Khadija Ashraf non capiva perché non lasciasse alle donne il compito di parlare del matrimonio, ma ormai il danno era fatto. Si era aperta una nuova linea di indagine, ed era emerso che la stessa ragazza si era detta decisa — nel caso in cui a Delhi fossero cominciate le manifestazioni a favore del Pakistan, com’era già successo a Lahore — a emulare la tredicenne Fatima Sughra, che davanti al segretariato del Punjab aveva sostituito l’Union Jack con la bandiera verde della Lega musulmana, tagliata dal suo dupatta. Khadija Ashraf ignorava se mentre compiva 47
quel gesto spudorato la giovane ne avesse un altro sulla testa, e si guardava bene dal domandarlo. «Ammi Jaan...» Sajjad cercava di dire la sua senza offendere la madre. «Quando mi sposerò sarà mia moglie a entrare nella nostra casa; non ho intenzione di entrare io a far parte della sua. La pretesa del padre che mi trasferisca altrove è irrilevante. E per quanto riguarda l’altra questione, hai sempre sostenuto che per me ci vuole una donna con una volontà di ferro, altrimenti mi annoierei». «Io ho una volontà di ferro, ma non per questo mi cade il dupatta dalla testa». «Voglio una moglie moderna». La frase gli era uscita di bocca bruscamente, inaspettata, suggerita dalla sua fantasia, già innamorata della ragazza che sognava di sventolare il dupatta al posto della bandiera inglese. Sajjad non aveva idee politiche precise, ma in campo letterario aveva preferenze inequivocabili: nei racconti storici due dei suoi personaggi preferiti erano la Rani di Jhansi, e la mamelucca Razia, il primo sultano donna della storia musulmana: donne potenti che avevano guidato eserciti e governato insieme agli uomini. Ed era stata sua madre a raccontargli le loro storie e a farlo innamorare di quell’immagine di femminilità. «Moderna?» Sua madre ripeté la parola inglese con disgusto, e Sajjad cercò di non pensare alle risate dei Burton se avessero sentito la sua pronuncia: «Maa-dern». «È così che ti dicono di diventare, i tuoi inglesi? Moderno? Queste parole non fanno altro che allontanarti dalla tua gente e dal tuo passato». Sajjad si scostò dalla madre e si chinò per infilare le scarpe. L’idea che qualcosa potesse allontanarlo da Dilli non era soltanto assurda ma offensiva, e sua madre, ne era sicuro, lo sapeva benissimo. «L’India moderna nascerà il giorno in cui se ne andranno gli inglesi. O forse è già iniziata, quando gli abbiamo detto di andarsene nella loro stessa lingua». Si chiese vagamente se ne fosse davvero convinto. «No, la modernità non appartiene agli inglesi. Semmai è il contrario. Sono arrivati alla fine della loro storia: adesso se ne torneranno nella loro fredda isola e per le prossime dieci generazioni rimpiangeranno quello che hanno perso». 48
«Un po’ come i musulmani in India». Sajjad si alzò, ridendo. «Quando mi sarò sposato, Ammi Jaan, continuerò a voler bere il tè del mattino insieme a te». Le baciò la fronte, prese il suo libro e asciugò con la mano il segno della tazza sulla copertina mentre andava verso l’anticamera. Proprio mentre apriva la pesante porta di legno, suo fratello Altamash sbucò sbadigliando da una stanza e disse: «Cosa ci fa in piedi il piccolo inglese a quest’ora? Passeggiata all’alba col viceré?» Sajjad ignorò il commento e uscì di casa trascinando la bicicletta. Come se aspettasse solo il tonfo sommesso del portone che si chiudeva, il muezzin del Jama Masjid iniziò in quel momento il richiamo alla preghiera. Sajjad voltò la testa e guardò verso la moschea poco distante, con le cupole e i minareti di marmo che parevano quasi dipinti sul cielo. Ricordò una sera a Delhi, seduto sulle spalle del padre in fondo alla scalinata della moschea, lo sguardo completamente occupato da questa e dall’oscurità del firmamento. Suo padre gli aveva detto che l’imperatore Shah Giahan era venuto qui una notte con un paio di forbici appartenute al Profeta, e aveva ritagliato il cielo; il mattino dopo, al risveglio, gli abitanti di Dilli avevano visto il Jama Masjid e si erano fatti un’idea dell’architettura in paradiso. Erano settimane che Sajjad non saliva quei gradini di pietra e non attraversava il cortile pieno di piccioni per le preghiere del venerdì. Adesso non si parlava d’altro che del Pakistan, con l’imam e i membri più conservatori dell’umma che ne sostenevano l’indivisibilità, negando il ruolo delle nazioni, mentre i fautori della Lega musulmana rispondevano che era già chiaro dal comportamento degli induisti che non avrebbero accettato di dividere il potere con i musulmani nell’India postragià, come se non fossero già caduti abbastanza in basso gli eredi dei moghul, dei lodi, dei tughlaq. E i sostenitori del congresso a insistere che il loro non era il partito degli induisti ma degli indiani, e che cosa c’entrava Dilli con il feudalesimo del Punjab che avrebbe governato in Pakistan? E avanti così all’infinito, e in ogni gruppo Sajjad trovava qualcuno che aveva opinioni sensate e altri che gli facevano venire voglia di cospargerli di semi, perché fossero i piccioni a interrompere in un tumulto di piume i loro discorsi. 49
Da lontano Sajjad si sentì chiamare: era il professore dell’università di Aligarh, che una volta in pensione aveva dato lezioni di inglese a lui e alla sorella, mentre i fratelli preferivano imparare dal padre il mestiere di calligrafo. Per quanto, in genere, facesse di tutto per salutare il vecchio, stavolta fece finta di non sentirlo e prese a pedalare per il labirinto di strade risvegliate all’improvviso dall’adhan, evitando la lunga strada che costeggiava il fiume e dirigendosi al Kashmiri Gate, attraversato il quale sarebbe entrato a Civil Lines. Gli aveva detto: «Vieni quando vuoi, sarò sveglia». Non si aspettava di trovarla davvero già vestita e pronta a quell’ora, ma l’invito — o era una sfida? — gli era sembrato una buona scusa per soddisfare il suo antico desiderio di vedere il giardino dei Burton all’alba. Si immaginava seduto in veranda a guardare i fiori che emergevano dalle ombre della notte, mentre in casa tutti dormivano. Invece Hiroko Tanaka era già seduta in veranda quando Sajjad entrava a Delhi, tirandosi uno scialle sulle spalle esili mentre beveva un tè al gelsomino, grata di poter guardare il mondo in posizione verticale. Non era stato così per buona parte di queste due settimane a Delhi. La prima notte dai Burton aveva dormito nella stanza degli ospiti al primo piano, troppo stanca per girare da sola in cerca di un alloggio, ma decisa ad andarsene l’indomani da questa casa in cui non c’era traccia di Konrad, a parte l’idea, formatasi dopo un solo giorno passato con Elizabeth, di che aspetto avrebbe avuto se avesse vissuto una vita infelice. Ma il giorno dopo, scendendo dal letto, le era sembrato di stare in barca nel mare in tempesta: a malapena era riuscita a scendere le scale, poi era crollata a terra. Quando aveva ripreso conoscenza era nella camera da letto al pianterreno, l’aria impregnata del dopobarba di James. Il dottor Agarkar, medico della famiglia Burton, era arrivato nel giro di qualche minuto e aveva diagnosticato un’infezione, contratta forse durante il viaggio per Delhi; niente che un po’ di riposo e qualche farmaco non potessero risolvere. «Si riprenderà, uhm, nel giro di una settimana o dieci giorni» aveva detto, e Hiroko, debole com’era, aveva bisbigliato: «Conosce un posto dove posso andare?» «Non dica assurdità» era intervenuta Elizabeth, brusca e gentile al tempo stesso. «Resterà qui. Chiuso il discorso». 50
Più tardi, mentre il dottor Agarkar se ne andava, Hiroko sentì James che gli parlava nell’ingresso. «Sì, è arrivato un telegramma da quel tizio, Watanabe, un cugino di Julian Fuller che vive a Nagasaki. Si ricorda di Julian? L’aveva mandato qui la sua azienda nel... ‘34 o nel ‘35. Suo zio ha sposato una giapponese. In ogni modo, è venuto fuori che tra lei e Konrad c’era effettivamente del tenero. E che ha perso tutta la famiglia, dice il telegramma. Tutti quanti. Poveretta. Mi sento un mostro». «Dunque starà da voi finché si ferma a Delhi?» «Immagino di sì. Almeno finché non si sentirà meglio. E poi, be’, non so. Vedremo come va. A Elizabeth potrebbe giovare avere ancora qualcuno a cui fare da madre. Anche a sua moglie è successo così, quando Ravi è andato a Eton?» Hiroko si addormentò prima di sentire la risposta del medico. Al suo risveglio, trovò Elizabeth seduta accanto al letto, e a giudicare dalla sua schiena curva doveva essere lì da un certo tempo. Hiroko sorrise, Elizabeth sorrise a sua volta, poi Hiroko si riaddormentò. Due giorni dopo, Hiroko restò finalmente sveglia abbastanza a lungo da cominciare ad annoiarsi. «Le leggo qualcosa» propose Elizabeth. «Ha qualche preferenza?» «Evelyn Waugh». «Davvero? Che strano». «Lo diceva anche Konrad. Diceva che Waugh è per chi conosce gli inglesi e capisce il bersaglio della sua satira. E io rispondevo che forse i suoi libri sembrano migliori se non sai che sono satire e le credi commedie». Elizabeth ci pensò su. «Forse ha ragione. Io lo trovo troppo crudele. E triste, in modo quasi insopportabile». Le dita di Hiroko si mossero impercettibilmente fin quasi a toccare la mano di Elizabeth posata sul copriletto. Era un gesto così cautamente in equilibrio fra la discrezione e la solidarietà che Elizabeth si ritrovò a immaginare una vita in cui Konrad le avesse portato in casa Hiroko come cognata. «Forse, dopo aver passato un po’ di tempo insieme a noi, noterà gli 51
aspetti satirici». «Oh, li noto già» replicò Hiroko annuendo, e subito si tappò la bocca con una mano. Ma Elizabeth Burton rideva. Rideva come non le capitava di fare da molto tempo. Prese la mano di Hiroko fra le sue e la strinse forte. «Lascia perdere quest’assurdità della pensione. Fermati qui. In fondo siamo quasi sorelle». James Burton, fermo sulla soglia, guardò il volto di sua moglie illuminato dalla risata e annuì. Hiroko non era affatto convinta che stabilirsi dai Burton fosse la soluzione ideale, ma era troppo debole per provare altro che riconoscenza davanti alla rinnovata offerta di un letto in cui dormire. Un paio di mattine prima, al risveglio, si era sentita molto più in forze: un sollievo molto maggiore di quanto avesse dato a vedere a chiunque; temeva che gli effetti delle radiazioni, che tanto l’avevano debilitata nel ‘45, fossero tornati o semplicemente si fossero ridestati da un qualche stato di letargo, possibilità che i medici avevano segnalato. Tuttavia, non appena si era sentita tornare in forze, aveva liquidato quei pensieri con gli stessi modi spicci che aveva riservato alle raccomandazioni di Konrad sull’imprudenza di frequentare un tedesco a Nagasaki, e aveva deciso di riempirsi le giornate. Nel corso della convalescenza aveva cominciato a provare per i Burton un affetto che non aveva creduto possibile nel suo primo giorno a Delhi, ma capiva che per tenersi occupata avrebbe avuto bisogno di qualcos’altro, oltre alla loro compagnia. Pensava di aver trovato la soluzione perfetta, ma l’idea che a Delhi qualcuno potesse aver bisogno di un’interprete che parlava inglese, tedesco e giapponese non aveva suscitato troppo entusiasmo nei Burton. Era stato fatto venire il dottor Agarkar, il quale l’aveva informata che non era ancora abbastanza in forze per «bighellonarsene in giro»; in realtà Hiroko aveva un mezzo sospetto che avesse detto così solo in virtù della sua amicizia con i Burton, i quali parevano ritenere un’offesa alla loro accoglienza il fatto che l’ospite trovasse un impiego. Hiroko dunque aveva ripiegato sulla prima alternativa che le si era presentata. «Vorrei imparare la lingua di qui» aveva detto. 52
«Non è necessario. L’inglese va benissimo. Le persone che incontrerai saranno laureati di Cambridge o di Oxford e le loro mogli, oppure domestici come Lala Buksh, in grado di capire un inglese non troppo complicato, specie se ci infili dentro qualche parola urdu. E quelle te le può insegnare Elizabeth» aveva risposto James. Hiroko non aveva mai sentito niente di più strano. «Anche se fosse, mi piacerebbe imparare a leggere e a scrivere nella loro lingua» aveva replicato. «C’è qualcuno che...?» «Sajjad» l’aveva interrotta Elizabeth. «Dava lezioni a Henry, mio figlio». La sua espressione non si era indurita, aveva pensato Hiroko, ma c’era stato un lieve cambiamento che suggeriva un dolore represso nel nominare il figlio spedito un anno prima a studiare in Inghilterra, da dove scriveva di avere nostalgia «di casa, dell’India». «Non ha tempo» aveva ribattuto James. «Sai che non posso permettergli di lavorare solo mezza giornata ora. Non ho più uno studio pieno di impiegati». «Lo studio ce l’hai ancora, James. Fai soltanto finta che la gamba non sia ancora guarita per non andarci. E in ogni caso tu e Sajjad non fate altro che giocare a scacchi tutto il giorno». Che almeno il ragazzo si guadagni lo stipendio, era stato il suo pensiero. Le aveva dato un gran fastidio che Sajjad accettasse l’aumento che gli era stato offerto ai primi del mese: le era parso un gesto sfrontato, oltre che sleale. Hiroko era scivolata giù dal divano per guardare i libri sugli scaffali, sperando in quel modo di rammentare ai Burton che si trovava già in quella stanza prima che iniziasse uno dei loro sgradevoli litigi, e chiedendosi se Sajjad avrebbe accettato di farle da insegnante. Aveva deciso di chiederglielo lei stessa. Se l’avessero fatto i Burton, più che una richiesta sarebbe sembrato un ordine. Invece, quando il giorno seguente James aveva introdotto a denti stretti l’argomento, fu per lei un sollievo constatare che Sajjad sembrava felicissimo. «Le insegnerò l’urdu puro di Ghalib e Mir, così potrà leggere i poeti di Delhi». Poi, vedendo l’aria scontenta di James aveva aggiunto: «E visto che dice di svegliarsi presto, signorina Tanaka, forse potrei farle lezione prima che il signor Burton e io affrontiamo gli impegni del giorno». James aveva fatto un gran sorriso, ed Elizabeth non sapeva bene chi 53
avrebbe voluto prendere a schiaffi — tra Sajjad, James e se stessa — vedendo la naturalezza con cui l’indiano riusciva a far contento suo marito. Hiroko chinò il volto nel vapore che usciva dalla tazza, il tepore del tè in piacevole contrasto con l’aria fredda del mattino d’inverno a Delhi, e si augurò che Sajjad non arrivasse troppo presto. Era rara, e gradita, questa sensazione di essere sola in casa dei Burton, e di non dover modulare le espressioni per non dar motivo di cruccio o di offesa. In presenza di James o di Elizabeth doveva sempre mostrarsi impegnata in qualcosa per non provocare un trambusto di conversazione o attività nato dal panico; si comportavano come se avesse perduto Nagasaki il giorno prima e il loro compito fosse di distrarla dal lutto. Era gentile da parte loro, ma faticoso. Sfregò il pollice sulla trama della poltrona verde di bambù. E poi, anche questo mondo stava finendo. Un paio d’anni al massimo, le aveva detto James, e gli inglesi se ne sarebbero andati. Pareva un privilegio straordinario, essere avvertiti di una sterzata della storia, predisporre la propria esistenza perché si prepari alla svolta. Non aveva idea di cosa avrebbe fatto dopo Delhi. Dopo la settimana successiva. E in fondo perché fare progetti? Era una forma di arroganza che si era lasciata alle spalle. Per il momento le bastava esser qui, nel giardino dei Burton, e contemplare questa coltre di silenzio pervasa dai vivaci richiami degli uccelli, sapendo che non c’era nulla, qui, che non avrebbe potuto abbandonare senza rimpianto. Aveva bevuto metà del suo tè al gelsomino quando vide Sajjad entrare in giardino. Sembrò sorpreso — quasi deluso — di trovarla lì, ma tutto si ridusse a un fremito dello sguardo prima che il suo sorriso cortese rimuovesse ogni traccia di espressività dal suo volto. Hiroko si chiese se anche lei rivelasse e nascondesse sensazioni in modo simile. «Stamattina c’è molta rugiada» gli disse, osservando l’erba che da argentea si faceva verde sotto le impronte di lui. «Sì». Gli sembrò di dover aggiungere qualcosa di intelligente a quell’osservazione, così commentò: «Ai ragni piace. Nelle mattine di rugiada costruiscono ragnatele elaborate. O forse è solo che diventano visibili perché la rugiada viene catturata dalla loro trama». «Il ragno è molto amato dai musulmani». 54
«Sì». Sorrise, oltremodo contento che lei ne fosse a conoscenza, mentre aspettava in piedi accanto al tavolo da bridge che lei si alzasse dalla poltrona e lo raggiungesse. «Me ne aveva parlato Konrad». Il giorno in cui erano stati insieme sul Megane-Bashi e il cuore di lui era balzato in quello di lei in una macchia d’argento. Per lei quell’attimo era indissolubile dal ricordo delle ore passate in un letto d’ospedale dopo aver saputo da Yoshi che nessuno, nei paraggi della cattedrale di Urakami, era sopravvissuto. «Il signor Konrad era...» Sajjad si tirò il lobo dell’orecchio cercando le parole. «Mi piaceva molto». Hiroko sorrise mentre si sedeva al tavolo da bridge. Era così facile capire perché secondo Konrad quest’uomo era l’unica persona che valesse la pena di conoscere a Delhi. «Mi aveva parlato di te. Diceva che eri simpaticissimo». «Simpaticissimo?» «Sì». Lo osservò mentre accoglieva il complimento con grande piacere. «Perché non hai voluto che ne parlassi davanti ai Burton, il giorno del mio arrivo?» Sajjad appoggiò il quaderno a righe che aveva comprato a sue spese per la lezione, passando il polsino sui resti di una macchia di tè. «Non sapevo che cosa avrebbe detto. E comunque non mi sembrava giusto». «Che cosa?» «Io lavoro per il signor Burton». Aggiunse subito: «Non come Lala Buksh. Non sono un domestico. Un giorno diventerò avvocato. So già tutto quello che c’è da sapere del...» Si interruppe per non darsi troppe arie. «Non sono un domestico» ripeté convinto. «Però io sono... lei è...» «Sì?» «Lei era appena arrivata. Un legame con il fratello morto della signora Burton. Non era il momento giusto per fermarsi a parlare con me». In realtà intendeva dire: «Capivo che stavi per parlarmi da pari a pari. Ce ne avrebbero fatto una colpa e non ti avrebbero invitata a restare». «Credo che dovremmo iniziare la lezione». Aprì il quaderno. «Tanto per cominciare si dovrà liberare dell’idea che si scrive da sinistra verso destra». 55
Hiroko scoppiò a ridere, domandandosi se sembrasse sgarbata ma vide che Sajjad era imperturbabile: la testa lievemente china su un lato, lo sguardo curioso, come se stesse soltanto ad aspettare che lei smettesse di ridere e si spiegasse, invece di preoccuparsi di aver detto qualcosa di ridicolo. Lei girò verso di sé il quaderno e scrisse qualcosa sulla pagina. «Questo è giapponese» disse. Sajjad spalancò gli occhi. «Dopo l’urdu dovrà imparare a scrivere in diagonale». Lei rise ancora, si guardarono e poi abbassarono gli occhi. Ognuno per conto suo aveva deciso che era soltanto la scarsa familiarità con i lineamenti dell’altro a suscitare questo desiderio di guardarsi di continuo, presente fin dal loro primo incontro. «La prima lettera è l’alif» spiegò Sajjad, e la lezione ebbe inizio. Nel giro di pochi minuti anche Sajjad si rese conto di ciò che l’insegnante di tedesco di Hiroko e il prete che le aveva dato lezioni d’inglese avevano scoperto prima di lui: che per lei imparare una lingua straniera era come recuperare una nozione dimenticata, non come acquisirne una nuova. In men che non si dica arrivarono alla tredicesima lettera dell’alfabeto. «Questa è la zal, la prima delle quattro lettere dell’urdu che replicano il suono della zeta inglese» annunciò Sajjad, disegnando una forma ricurva con un punto in cima. «Zal, ze, zhe, zad». «Perché quattro lettere per lo stesso suono?» «Non mi dica che è una di quelle persone che non vedono la bellezza nell’eccesso?» esclamò, mostrandole per la prima volta il suo lato volutamente comico. «Come a dire che non lo sai, sensei». «Cosa significa questa parola?» «Maestro». La sorprese vederlo arrossire tanto. Lui prese una penna, se la rigirò fra le dita, si premette il pennino su un dito ed esaminò l’inchiostro blu che scendeva sulla pelle. «Signorina Tanaka, se chiama per nome i Burton, deve chiamare me 56
Sajjad». «E tu devi chiamarmi Hiroko, Sajjad». L’unico aspetto che le era piaciuto degli americani era l’informalità con cui si rivolgevano la parola. Non c’erano soffocanti formule di cortesia a ingabbiare ogni rapporto. Aveva capito grazie a loro quanto fosse stato assurdo chiamare l’uomo che amava «Konrad-san». E aveva perfino cominciato a credere che se l’avesse chiamato «Konrad» lui le avrebbe chiesto di sposarlo prima, e tutto sarebbe andato diversamente. Tutto tranne la bomba. Sajjad si accorse che la mente di Hiroko stava volando via da Delhi e da tutti i suoi abitanti. Sapeva che cosa avrebbero fatto i Burton in una situazione simile: l’avrebbero interrotta, trattenuta nel presente. Per quanto ne sapeva, soltanto in un’occasione Elizabeth le aveva chiesto della sua vita prima di Delhi — Sajjad stava passando davanti alla porta aperta mentre Elizabeth sollevava l’argomento e non aveva potuto fare a meno di fermarsi ad ascoltare. Era rimasto colpito dalla risposta pragmatica di Hiroko. «Dopo la bomba sono stata malata» aveva detto. «Avvelenamento da radiazioni, anche se al tempo non si diceva ancora così. Yoshi Watanabe, l’amico di Konrad, aveva un parente medico a Tokyo. Gli ospedali di Nagasaki erano strapieni, così Yoshi-san mi accompagnò a Tokyo. Si sentiva responsabile, capisci, perché gli sembrava di aver tradito Konrad. E prendersi cura di me era un modo per riparare. Mi fece ricoverare nell’ospedale in cui lavorava suo cugino, poi tornò a Nagasaki. Vennero a visitarmi i medici dell’esercito americano, ero oggetto di curiosità. Io parlai in inglese, e uno di loro chiese se mi interessava lavorare come interprete. Per gli americani? Dopo la bomba, ti chiederai come potevo accettare una cosa simile. Ma l’uomo che me lo chiese aveva un volto così buono che sarebbe stato impossibile incolparlo di quel che era successo. A dire il vero era impossibile considerare di incolpare chiunque... La bomba era stata così... sembrava al di là delle possibilità umane. In ogni caso accettai. «Lavorai come interprete per oltre un anno. Feci amicizia con un’infermiera americana, in particolare, che mi accompagnò a farmi tagliare i capelli corti come i suoi, e mi prestava i vestiti quando di sera andavamo insieme nei night-club. Ero cresciuta durante la guerra: i lussi del tempo di pace mi erano del tutto nuovi. Non avrei mai voluto tornare a Nagasaki, ma ero contenta di stare a Tokyo con gli americani. 57
Finché un giorno — verso la fine del ‘46 — l’americano col volto gentile disse che la bomba era stata una cosa terribile, ma che era stata necessaria per evitare che morissero altri americani. Capii subito che non avrei potuto continuare a lavorare per loro. Quando venne a sapere che me ne andavo l’infermiera venne a cercarmi. ‘Che cosa intendi fare’ mi chiese. Risposi di getto: ‘Voglio andarmene lontano’. ‘Non andartene anche tu’ disse lei. ‘Il mio amico canadese di cui ti parlo sempre vuole imbarcarsi per l’India’. «L’India! Appena lo disse, capii subito dove volevo andare. Glielo comunicai, e lei rispose che era una pazzia. Ma che mi avrebbe trovato qualcuno con cui viaggiare. Mi piace questo lato degli americani, il loro vedere certi tipi di follia come un segno della personalità. Quella sera uscimmo a cena col canadese, gli offrimmo molti bicchierini di sakè, e alla fine della serata brindavamo ai nuovi compagni di viaggio. Nel caso ti chiedessi se non avesse altre mire, Elizabeth, era... che espressione hai usato per tuo cugino Willie?... di inclinazione wildiana». Più tardi, quando a portata d’orecchio di Sajjad Elizabeth riferì tutto questo a James, lui scosse la testa e disse: «Spero che la tua curiosità sia soddisfatta; Ma non credi che adesso sarebbe meglio lasciare che dimentichi tutto?» E da quel momento i Burton non avevano più fatto una sola domanda sul Giappone, o concesso a Hiroko un momento di contemplazione che potesse risvegliare i ricordi. Sajjad rifletté su tutto questo mentre lo sguardo di Hiroko si richiudeva su se stesso, poi si mise comodo in poltrona, rivolto verso il giardino, e la lasciò in pace.
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Hiroko guardava le ombre proiettate sulle rovine di Hauz Khas, nei pressi del quale era in corso un elaborato picnic al chiaro di luna. Le rovine non erano altro che rovine; le ombre impressioni distorte, create dal gioco di luce e oscurità. Insomma, si era arrivati anche a questo: un edificio crollato e la sagoma di un uomo che vi cadeva sopra non intaccavano la sua capacità di voltarsi e ascoltare col sorriso sulle labbra la domanda di una donna inglese. «Come vanno le lezioni di urdu?» Hiroko non ne ricordava il nome, ma sapeva che il marito lavorava per il viceré e che nel suo giardino c’erano gli alberi di jacaranda più belli di New Delhi. «Benissimo, grazie. Dopo tre settimane finalmente abbiamo accettato che riesco solo a pronunciare la K usando il palato e non il retrobocca. Sajjad ci è rimasto male, ma visto che nell’urdu il dolore è inevitabile, non può dare la colpa a me». «Sajjad? Ah, l’impiegatuccio di James. L’ha detto lui, che nell’urdu il dolore è inevitabile? Certo che fanno delle affermazioni ben strane, vero?» Impiegatuccio? Hiroko morsicò un pezzo di pollo arrosto per dare qualcosa da fare alla propria bocca invece di ribattere. Non sapeva come comportarsi con questa gente, i ricchi e i potenti, un certo numero dei quali le avevano chiesto dello stile di vita dei samurai, per poi rimanere incantati dalla sua modestia quando Hiroko rispondeva che il suo contatto più intimo col mondo dei guerrieri era stato in veste di operaia alla fabbrica di munizioni. A due anni dalla fine della guerra trovavano più facile accettare un’alleata di Hitler che un membro di un’altra classe sociale, pensò Hiroko, e rimpianse di non essersi potuta inserire nella Delhi dei quartieri equivalenti a Urakami. Tuttavia era ingiusto nei confronti dei Burton, e in parte anche falso. Le lenzuola soffici, i pasti abbondanti, gli abiti vorticosamente colorati che le aveva passato Elizabeth, la vastità della biblioteca dei Burton, la loro gentilezza... era ol59
tremodo riconoscente per tutte queste cose, e ben consapevole di non averle avute per diritto, ma grazie alla loro generosità. «Perché perde tempo con l’urdu?» domandò Kamran Ali, esponente indiano dell’«Oxbridge set» mentre calava la propria imponente figura sulla coperta da picnic. «Lingua di mercenari e predoni. Sa che il termine ‘urdu’ ha la stessa radice di orda’? Semmai impari il latino. Quella sì che è una lingua che merita lo sforzo». Tese il bicchiere e un cameriere in livrea si fece avanti per riempirlo. «Vini, vidi, vino» recitò Kamran Ali, e la donna inglese seduta vicino a Hiroko rise e lo trascinò nel discorso sulle strane uscite dei domestici indiani. Hiroko sentì qualcuno che le toccava il gomito e alzato lo sguardo vide Elizabeth. «Elizabeth, unisciti a noi!» disse la Signora dei jacaranda senza il minimo accenno a spostarsi per farle posto. «No, ti ringrazio, Violet. Qui c’è un’aria troppo soffocante». E dopo un attimo: «Voglio dire, colpa di quei cosi...» aggiunse indicando le torce alte due metri dalla punta fiammeggiante, messe lì per illuminare l’area del picnic. Hiroko si alzò borbottando una scusa, divertita e al contempo rattristata dall’asprezza dei rapporti fra Elizabeth e questi individui noiosi ma innocui. Mentre le due donne si allontanavano dal gruppo, James, che le guardava da lontano, vide la luce riflessa dal collier di smeraldi della moglie; glielo aveva messo al collo per la prima volta in un mondo così risplendente d’amore che in confronto le gemme verdi gli erano sembrate opache. In una rara manifestazione di fantasia vide Hiroko ed Elizabeth come le due sottili catene gemelle della collana, che procedevano fianco a fianco tranne quando una luccicante interruzione (il viceré, la moglie di un cliente di James, il Nawab di Chissadove) le separava per un attimo, certe di ritrovarsi dopo averla superata. James era convinto che Elizabeth fosse ansiosa di affermare questo schema con l’ospite straniera, senza capire quanto fosse importante per sua moglie trovare finalmente un’amica e un’alleata. A Elizabeth, nelle ultime settimane, era persino capitato di scoprirsi impaziente di uscire, se Hiroko accettava di accompagnarli all’evento mondano della serata (non passava serata senza un evento mondano). «Scusa se sono stata via così a lungo. James non me l’avrebbe mai perdonata, se non avessi parlato del ballo di Pasqua con gli Harridan. Il 60
marito è molto indulgente nei confronti di James e della sua passione per gli scacchi». Hiroko aveva già imparato che era meglio stare zitti quando uno dei Burton parlava dell’altro, ma in quel preciso momento decise di trovare un modo per superare la barriera di leale silenzio di Sajjad in tutte le questioni che riguardavano James Burton, e scoprire il motivo per cui a un avvocato veniva consentito di passare le giornate in veranda a bere tè e spostare ogni tanto un pezzo sulla scacchiera senza che nessuno sollevasse la minima obiezione. I ricchi! Quanto sono assurdi!, si ritrovò a pensare, poi scuotendo la testa concluse che tutto il mondo è paese. In verità, fin dall’inizio della sua carriera legale, la principale e impareggiabile capacità di James era stata quella miscela di fascino, entrature e autorevolezza capace di convincere i clienti — soprattutto i potenziali clienti — della sua affidabilità. Portava quelli che necessitavano di un parere legale nello studio della Burton, Hopkins & Price, poi abbandonava i casi più spinosi nelle mani dei colleghi le cui competenze erano sufficienti a garantire che i clienti non si pentissero della scelta. Da quando si era fratturato la gamba non era più riuscito a salire i tre piani di scale dello studio, malgrado fosse stato instancabile nell’adempiere ai suoi doveri mondani, approfittando della comprensione suscitata dall’infortunio. Ogni settimana Sajjad andava in studio a prendere il lavoro per tenerlo occupato, anche se agli occhi di tutti si trattava di un impegno di facciata o poco più. Nonostante la gamba fosse in via di guarigione, nessuno si era curato di chiedergli quando sarebbe tornato al lavoro, così che a James sembrava assurdo introdurre per primo l’argomento. Altrettanto assurdo, quando ricominciò a fare le scale, gli sembrò sollevare l’argomento del suo ritorno nella camera da letto del piano di sopra. La differenza tra le due situazioni era che di tornare in ufficio non aveva un gran desiderio. Era stato il collasso di Hiroko, il suo secondo giorno a Delhi, a restituire finalmente James al talamo; data la necessità di trasferirla nella stanza da basso, Elizabeth aveva chiesto a Lala Buksh di portare «di sopra» gli effetti personali di James. L’ordine era vago, e James si domandò se non intendesse la stanza degli ospiti, ma con suo grande sollievo Lala Buksh non lo interpretò in quel modo. La prima notte insieme dopo oltre due mesi di intervallo era sembrato inevitabile fare 61
l’amore, ma era stato goffo e poco gratificante; a peggiorare il fastidio, James aveva dato un buffetto sulla testa a Elizabeth appena prima di voltarsi e rannicchiarsi addosso al cuscino, nel modo in cui, molto tempo prima, soleva rannicchiarsi addosso alla moglie. Svegliatosi in piena notte e preso atto del suo desiderio insoddisfatto, si era occupato il più silenziosamente possibile dei propri bisogni pensando a Elizabeth, la quale, sveglia e immobile al suo fianco, era convinta del contrario. Elizabeth prese a braccetto Hiroko mentre si allontanavano da torce e lanterne. Poco prima, quando la Bentley di James era arrivata alle rovine di Hauz Khas, Elizabeth era rimasta sconcertata dalla propria mancanza di tatto nel portare Hiroko in un luogo simile, come a ricordarle che soltanto il tempo e l’incuria avrebbero dovuto essere motivo di tanta devastazione. Nel nostro essere moderni vogliamo accelerare tutto, aveva pensato Elizabeth, persino il disfacimento. Invece Hiroko si era guardata attorno meravigliata, fra le rovine illuminate dal chiaro di luna, e scesa dalla Bentley si era avvicinata alle torce come per entrare in una fiaba. «A volte mi dimentico di quanto è incantevole Delhi» disse Elizabeth sedendosi sul pavimento rialzato di un piccolo edificio in pietra, con pilastri sovrastati da una cupola. «Poi c’è una serata come questa e mi viene quasi da pensare che sentirò la mancanza di questo posto, quando sarà tutto finito». Hiroko si sedette accanto a lei. «Non ti importa, allora? Che gli inglesi se ne debbano andare?» Elizabeth fece una risatina. «Ti dirò una cosa che non ho mai detto a nessuno, nemmeno a James. L’impero britannico mi fa sentire così...» Lanciò un’occhiata a Hiroko, come per valutare se potesse fidarsi, poi ammise: «Tedesca». Frugò nella borsetta argentata che teneva al polso e ne estrasse una sigaretta. Hiroko la accettò con un sorriso ironico. Elizabeth non fumava, ma le dava un certo piacere veder fumare Hiroko davanti ai clienti all’antica di James, così come la divertiva vedere i burocrati che aggrottavano le ciglia davanti agli eleganti pantaloni che Hiroko si era portata da Tokyo. Hiroko si chinò indietro, posò i gomiti sulla pietra e incrociò le gam62
be all’altezza delle caviglie. Per una breve fase, a Tokyo, aveva fatto la vita che pensava di desiderare, una versione anni Quaranta della «ragazza moderna»: jazz-club, sigarette e nessun altro da mantenere con i proventi delle traduzioni. Per un certo tempo le era perfino piaciuto. Adesso era solo per far compagnia a Elizabeth che acconsentiva talvolta a partecipare a questi incontri, con le loro intricate regole di comportamento che sapeva di poter schernire solo fino a un certo punto, per non mettere in imbarazzo James Burton. Era molto meglio starsene rannicchiata su un divano a Bungle Oh!, con i compiti di urdu che le aveva assegnato Sajjad o un libro preso a prestito dai Burton. «Ho sempre creduto di sapere perché Konrad era tanto ossessionato dalla vita degli europei e dei giapponesi di Nagasaki». Ormai poteva parlare senza imbarazzo di Konrad con sua sorella, malgrado James non si fosse ancora del tutto liberato da un’espressione di panico ogni volta che lo sentiva nominare, come se si aspettasse lo sviluppo di un melodramma orientale nel soggiorno di casa. «Ci teneva tanto a vedere popoli diversi che si andavano incontro... è per questo che non cominciò mai il suo libro, sai? Aspettava che finisse la guerra e che tornassero gli stranieri per poter scrivere un finale trionfale. Per lui la guerra era una pausa nel racconto, non l’epilogo». Guardò ancora una volta le ombre che si agitavano sulle macerie e buttò fuori il fumo. «Avevo sempre creduto che quest’ossessione nascesse dal bisogno di credere in un mondo il più possibile diverso dalla Germania delle cosiddette ‘leggi per la protezione del sangue e dell’onore tedesco’». Rise non troppo divertita. «Figurati, trovare un mondo simile in Giappone». «E adesso? Sei arrivata a credere che il motivo fosse un altro». «Sì, Ilse. Sei tu il motivo». «Oh». Elizabeth scosse il capo, negando con un gesto imbarazzato. «Per Konrad non contavo niente. Sua madre, la mia matrigna, mi mandò a studiare in Inghilterra prima ancora che nascesse. E le vacanze le passavo quasi sempre a Londra con i parenti di mia madre. Io e Konrad eravamo due estranei». Hiroko annuì subito. Sarebbe stato crudele spiegare che, a Nagasaki, Konrad era andato in cerca di un mondo in cui non avrebbero dovuto per forza essere estranei, un mondo in cui, se fosse venuto a Delhi, avrebbe ritrovato una sorella che finalmente lo avrebbe trattato da pari a 63
pari, adesso che era cresciuto, senza dover scoprire che le proprie radici tedesche e quelle inglesi di lei erano l’unica cosa importante. «Non sento per niente la sua mancanza» disse lentamente Elizabeth. «Eppure, la prima volta che sei entrata in casa, prima di vederti, per un momento ho pensato che fossi Konrad. Ed è stata...» Si premette le dita appena sopra il cuore. «Una gioia così profonda che non ho idea della sua origine». Così come non aveva avuto idea dell’origine di tutta quella disperata passione dopo la morte di Konrad, quando ogni notte aveva cercato James, non tanto per piangere il fratello quanto per essere rassicurata dell’esistenza del proprio corpo: del fatto di essere carne, di essere sangue, e non un’ombra. Anche se il suo unico rifugio era l’orgasmo, in cui sentiva di annientarsi: ironia della sorte o ennesima crudeltà della vita? Hiroko spostò lo sguardo da Elizabeth agli uomini e alle donne che facevano salotto sulle coperte da picnic, circondati da falene e camerieri che volteggiavano al buio: un languido gesto bastava per cacciare le prime e richiamare gli altri. Ecco Kamran Ali che parlava a un cameriere nel suo urdu sgrammaticato, dal forte accento inglese. Qui era tutto orrendo e — diede un’occhiata a Elizabeth — triste. Ma Hiroko adesso era qui, non aveva un altro posto dove stare. Era questo a farla stare così male, o semplicemente a rattristarla? In ogni caso avrebbe dovuto fare qualcosa — qualsiasi cosa — per liberarsi dalla sensazione di precarietà che accompagnava ogni momento, tranne quelli che passava nella veranda dei Burton con Sajjad, mentre una nuova lingua le cedeva i propri segreti. Il cameriere giunto alle loro spalle annunciò che il signor Burton desiderava essere raggiunto dalla moglie; Elizabeth si tirò su, alzando gli occhi al cielo. «Konrad ti sarebbe piaciuto» disse Hiroko». Se avessi potuto sposarlo, avrei fatto di tutto perché vi trovaste simpatici». Elizabeth le sfiorò delicatamente i capelli. «Non ne dubito. Non te l’ho mai detto, e avrei dovuto farlo: mi dispiace molto per tutto quello che hai perso». Si incamminarono insieme verso il gruppo illuminato dalle fiamme, senza che né luna né l’altra facesse notare che dopo aver nominato Konrad si erano messe a parlare in tedesco, e che era stato come condividere 64
il più intimo dei segreti.
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«E allora la figlia di mio fratello Sikandar ha detto...» «Quale figlia? Rabia Bano o Shireen?» «Shireen. Ha detto che...» Elizabeth chiuse le porte in traliccio di legno che portavano dal soggiorno alla veranda, per non sentire Hiroko e Sajjad che chiacchieravano in urdu. Non poteva essere che sei settimane di lezioni quotidiane fossero bastate a rendere Hiroko così ciarliera, pensò, cedendo al risentimento suscitato dal modo ossessivo con cui Hiroko passava le giornate, scorrendo con le dita i ghirigori dei lessici e dei libri per bambini già usati da Henry per le lezioni con Sajjad. Tornò allo scrittoio, riconoscendo con una smorfia la stupidità di aver chiuso fuori anche la brezza mentre torceva il collo per allontanare il peso dei capelli. Sul tavolo c’erano due fogli di carta da lettera, ciascuno con due parole scritte sopra: Carissimo Henry Willie, Liebling Lasciò che i capelli tornassero a posto e considerò per un attimo di adottare lo stesso taglio di Hiroko, poi impugnò la penna e la tenne sospesa sulla seconda lettera. Willie — il cugino Wilhelm — era l’unico dei parenti tedeschi che Elizabeth avesse mai considerato parte della famiglia. In parte, forse, perché capiva — con il suo debole per gli uomini più giovani ed eleganti — cosa significava sentirsi un outsider nel clan dei Weiss. Lo aveva creduto morto all’inizio della guerra, rastrellato insieme ad altri «di inclinazione wildiana» — un’espressione che gli piaceva usare. Soltanto nel ‘45 Elizabeth aveva scoperto che Willie non aveva mai smesso di aiutare clandestinamente gli ebrei e gli omosessuali sfuggire ai nazisti, e che alla fine della guerra era emigrato a New York. E adesso le scriveva dicendo che era la città più bella del mondo, e che l’unica pecca era l’assenza di lei. La penna guizzò come se avesse dovuto giungere a chissà quale risoluzione, ma appena prima di toccare il foglio deviò verso l’altra lettera. 66
Carissimo Henry... Elizabeth vi premette il pennino e scrisse con decisione: Certo che verrai a casa quest’estate. È vero che ci sono dei guai nel Punjab ma qui a Delhi siamo al sicuro, e a Mussoorie c’è la pace di sempre. Non è il caso che la nonna si preoccupi tanto. Tuo padre si vanta con tutti del tuo punteggio a bowling. Ci rallegra molto sapere che continui a riscuotere tanto successo. Si fermò e mise giù la penna. Perché mai, più Henry si ambientava in collegio più le lettere che si scrivevano diventavano formali? E perché si era arresa all’idea del marito di mandarlo a studiare in Inghilterra? Scacciò una mosca con la mano che teneva la penna, e sul muro di fronte comparve uno schizzo di inchiostro. Le stigmate di chi ha il sangue blu, pensò spostando il ritratto di Henry in modo da coprire la macchia. È la cosa giusta da fare. Così diceva James ogni volta chi apriva o si chiudeva una discussione a proposito degli studi di Henry. Alla fine, però, anche lei aveva avuto i suoi motivi per mandarlo via. Il tramonto imminente dell’impero significava che avrebbero presto dovuto andarsene dall’India tutti quanti: meglio abituare Henry un po’ per volta — l’estate in India, il resto dell’anno in Inghilterra — che troncare il legame bruscamente. Diede un’occhiata alla porta in traliccio. Le bruciava ancora il ricordo di come suo figlio, in lacrime al momento della partenza, avesse buttato le braccia al collo di Sajjad, dichiarando: «Più di tutti mi mancherai tu!» Malgrado fosse assurdo sostenere, come faceva James, che era per gelosia del figlio, Elizabeth aveva detestato Sajjad fin dall’inizio. Questione di istinto, nient’altro. «Non è ancora finita questa lezione?» Nella stanza entrò James, annunciato dal profumo del dopobarba. «Mah, sono lì che parlano in urdu. Non capisco bene se è una lezione o soltanto chiacchiere. Ti sei tagliato col rasoio». «Mhm...» James si toccò la ferita sul mento. «Ogni giorno pare che comincino sempre prima e finiscano sempre più tardi». La goccia di sangue unita all’aria insoddisfatta gli davano un aspetto insolitamente vulnerabile. Elizabeth si alzò facendo perno sulla sedia e 67
gli andò vicina, sentendo la parola «moglie» scivolarle attorno alle spalle soffice come una piuma. «Sei tu che gli paghi lo stipendio, sai? Hai tutti i diritti di dirglielo, se non approvi come passa il tempo». Gli passò un dito lungo la mascella per togliere il sangue, poi distrattamente se lo infilò in bocca. «Vampira» disse James sorridendo. In quell’istante l’atmosfera fra loro era leggera come non succedeva da tempo. Elizabeth gli guardò il mento. C’era ancora una macchiolina di sangue. Per un attimo non desiderò altro che sporgersi e posare la bocca sulla sua pelle, sentire sulle labbra il bruciore del dopobarba e il suo sospiro di soddisfazione e sollievo, come quando, nei primi tempi del matrimonio, un’espressione fisica di desiderio da parte di Elizabeth era il segnale che, qualsiasi battibecco fosse sorto tra loro, era ormai finito. Ma lui stava già pulendosi da solo le ultime tracce di sangue, e si staccò da lei per dare un’occhiata alle lettere sullo scrittoio. Willie, Liebling — James scorse le dita oltre l’appellativo affettuoso e la carta si scurì al tocco delle sue mani ancora umide dopo la rasatura. Il «Liebling» sembrava enfatizzato, e per entrambi prese la parvenza di un’accusa. Era con quel vezzeggiativo che lo chiamava, quando per lei era il tedesco la lingua dell’intimità. Quale delle due cose era svanita per prima, si chiese James: l’uso del tedesco o l’intimità? E com’era possibile che non trovasse risposta? «Hiroko resterà con noi a tempo indefinito?» domandò bruscamente. «Non alzare la voce, James!» «Non intendevo che se ne deve andare». Prese in mano le penne, togliendole una dopo l’altra dall’astuccio per poi rimetterle a posto. Avrebbe davvero dovuto scrivere a Henry, ma le dettagliate missive settimanali di Elizabeth gli lasciavano ben poco da dire. «È chiaro che ti fa piacere averla qui». «A te no?» «Sì, certo. La casa sembra meno vuota». James toccò la macchia blu sulla parete appena dietro la foto di Henry, e protestò con un verso quando l’inchiostro si trasferì sulla sua mano. Insomma, Elizabeth. La stanza è appena stata imbiancata. Vide 68
da come cambiava atteggiamento che si preparava a un altro litigio, e alla sola idea si sentì esausto. «Stavo proprio chiedendomi se dovrei... se dovremmo fare qualcosa per Hiroko. Magari presentarle qualche giovanotto? Inglese o indiano? Il fatto che sia giapponese complica un po’ le cose. Dici che dovremmo scoprire se c’è qualche giapponese a Delhi?» «Non mi sembra molto interessata. Ho provato a sollevare l’argomento, e mi ha risposto che la bomba l’ha marchiata come zitella». «E che cosa vorrebbe dire?» «Oh, James. Non essere ottuso. Ha in testa solo Konrad. Nessun altro è all’altezza». «Lo avevamo sottovalutato, vero?» «Eccome. Molto sottovalutato». Si sedette di nuovo allo scrittoio. James invece si sistemò sul divano per vederla di profilo mentre scriveva, e intanto chiamò Lala Buksh. La sua voce raggiunse Hiroko e Sajjad in veranda. «È l’ora degli scacchi?» domandò lei, ma Sajjad si mise un dito sulle labbra e scosse il capo con aria cospiratoria. «Siamo a metà di una partita che già si aspetta di perdere. Non credo abbia fretta di continuare» disse sorridendo. Hiroko non riuscì a sorridere a sua volta, e Sajjad non vide che un fremito sulle sue labbra. La guardò perplesso: oggi c’era qualcosa che non andava. Per tutta la mattina aveva tentato di coinvolgerla con i suoi racconti, ma le reazioni di Hiroko erano andate poco oltre una formale cortesia. Hiroko lanciò uno sguardo alle porte chiuse. «Sajjad, oggi sarebbe stato il compleanno di Konrad, e lei non lo sa nemmeno». Sajjad non aveva ancora trovato il modo per sollevare l’argomento di Nagasaki e di Konrad, ma più tempo passava in sua compagnia più desiderava farle semplicemente capire che nessuno al mondo avrebbe mai dovuto sopportare tanto dolore, e in particolare non una donna come lei, che meritava di essere felice. «Posso raccontarti come l’ho conosciuto?» le disse. «Sì? È stato a 69
Dilli, nel 1939. Era estate, faceva un gran caldo. Il sole è molto possessivo nei riguardi di questa città, in estate: vuole tutta la sua bellezza per sé e caccia via tutti gli altri. I ricchi nelle loro residenze in collina, e noialtri nella penombra di una stanza o sotto un albero, che con la sua frescura delimita il territorio del sole. Stavo andando al negozio di calligrafìa, dove mi aspettavano i miei fratelli, quando ho visto un inglese. A Dilli, nella mia mohalla. Non a Chandni Chowk o al Red Fort, ma proprio lì, in quelle strade fitte di case l’una attaccata all’altra». «Ma Konrad non era inglese!» Hiroko si chinò in avanti, il mento appoggiato al palmo della mano, mentre si immaginava la scena con grande chiarezza. «Certo. Non avevo mai rivolto la parola a un inglese, né mi era mai venuto in mente di farlo, ma nella sua espressione vidi qualcosa che mi spinse ad avvicinarlo. Era fermo sul lato della strada e annusava l’aria. Era estate, si sentiva profumo di mango. ‘Sahib, si è perso?’ dissi. Lui non capì che stavo parlandogli in inglese. Allora ripetei la domanda. E lui rispose, molto lentamente, come se pensasse che facessi altrettanta fatica a capire il suo accento: ‘Puoi dirmi cos’è questo odore?’ Io non capii a che cosa si riferisse. Non avrei mai immaginato che non lo conoscesse. Stabilii che voleva farsi raccontare una storia come i miei nipoti, e risposi: ‘Dev’essere passato di qua un dio sudaticcio’. Lui tese la mano e strinse la mia, dicendo: ‘È la cosa più bella che ho sentito da quando sono a Delhi. Piacere, Konrad’. Proprio così. ‘Piacere, Konrad’. Non andai al negozio di calligrafia. Attraversammo Dilli a piedi sfidando il sole fino a mezzogiorno, dopo di che lui mi portò qui e chiese al signor Burton di darmi lavoro. E adesso è questa la mia vita. Adesso sono qui, in questo posto, a parlare con te perché a Konrad Weiss è piaciuto come gli ho spiegato il profumo dei mango». Si fermò, preoccupato che la storia riguardasse più se stesso che Konrad. Invece finalmente Hiroko sorrideva, e questo gli parve un successo. «Nei pochi giorni che passammo insieme mi insegnò a vedere le cose diversamente. Mi insegnò a notarle. Era molto sensibile alla bellezza» aggiunse con cautela, attento a non esagerare e a non apparire presuntuoso. «Da quando è morto ho desiderato tanto dire queste cose, ma con i Burton non c’è mai stata l’occasione di farlo». Chinò il capo e senza guardarla disse: «Sono felice che sia arrivata tu». E subito aggiunse: «Così ho potuto parlarne con te. Del signor Konrad». 70
Hiroko si alzò e andò all’estremità della veranda. Tirò a sé il ramo di un arbusto in fiore e inspirò l’odore acre delle sue bacche acerbe. Sajjad non poteva smettere di guardarla, pur sapendo che lei aveva bisogno di un momento per sé. «A volte, se mi sveglio di notte, mi accorgo che sto ancora facendo i conti» disse così a bassa voce che a Sajjad le parole sembrarono giunte per caso da lontano, portate dalla brezza. «L’ora in cui se n’è andato, la velocità del suo passo, la distanza dalla cattedrale. La conclusione è sempre la stessa: quando è caduta la bomba doveva essere là dentro, o nei paraggi. Lo sai, di quelli che erano nella cattedrale sono rimasti soltanto dei rosari fusi. Era a mezzo chilometro scarso dall’epicentro. Però non credo che Konrad fosse già entrato. Penso che fosse ancora a un paio di minuti di distanza. Ho trovato un sasso con sopra un’ombra. La sai la faccenda delle ombre, Sajjad?» Non si voltò per vederlo annuire, o per vedere l’inchiostro sciogliersi in forme sfocate sulla pagina del quaderno che lui stava fissando. Sajjad stava ripensando a quando Konrad Weiss gli aveva fatto fare il giro del giardino, dicendogli i nomi dei fiori e indicandogli quali attiravano gli uccelli con loro profumo e quali con i colori. «Chi era più vicino all’epicentro è sparito completamente, tranne il grasso del corpo, che si è fuso ai muri e alle pietre circostanti, come un’ombra. Una notte, subito dopo l’esplosione, ho sognato di essere in un corteo funebre nella valle di Urakami, dove ognuno cercava di identificare le ombre dei suoi cari. Il mattino dopo ci andai davvero: era proprio diventata la valle della morte, come mi aveva insegnato al catechismo il prete di Urakami. Però di Dio non c’era traccia, e non c’era profumo di mango, Sajjad, ma solo di bruciato. Erano passati giorni — anzi, settimane — dalla bomba, e tutto ancora puzzava di bruciato. Camminai tra quegli strani alberi storti, sopra le pietre fuse — fu questo a colpirmi più di tutto, chissà perché — e cercai l’ombra di Konrad. E la trovai. O almeno trovai qualcosa che potevo credere che lo fosse. Su una pietra. Un’ombra cosi smilza... Lo dissi a Yoshi Watanabe e insieme la facemmo rotolare fino al cimitero internazionale...» Si premette una mano sulla schiena, ricordando. «E la seppellimmo». Strappò la bacca verde dalla pianta e se la rigirò fra le dita. Non poteva raccontare a nessuno, nemmeno a quest’uomo con gli occhi gentili che riconosceva l’odore degli dèi, che quando Yoshi l’aveva lasciata 71
sola per qualche minuto per cercare un badile, lei si era stesa sull’ombra di Konrad, dentro l’ombra di Konrad, con la bocca premuta sull’oscurità del suo petto. «Perché non sei rimasto?» aveva mormorato contro quella pietra inesorabile. Perché non sei rimasto? Si premette la bacca sulle labbra. Perché non ti ho chiesto un’altra volta di rimanere? Sajjad si alzò con calma e le andò vicino. «Ho sentito un’espressione inglese: ‘lasciare qualcuno solo col suo lutto’. Non esiste un equivalente in urdu. L’urdu conosce solo il concetto di radunarsi insieme e condividere il dolore, per diventare ghumkhaur. mangiatori di lutto. Preferisci che pensi in inglese o in urdu, in questo momento?» Dopo un attimo di esitazione, Hiroko disse: «Mi stai dando lezioni di urdu, sensei» e tornata a sedersi al tavolo da bridge, impugnò la penna per scrivere ghum-khaur.
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Elizabeth guardò il polveroso tratto di terra che conduceva al Qutb Minar, la torre vertiginosamente alta che James e Hiroko stavano fiancheggiando per esaminarne le pareti scanalate in pietra arenaria. Rimpianse di aver definito «poco elegante» il minareto e avrebbe voluto non intestardirsi ad aspettarli in mezzo ai pilastri di un corridoio che si levava fra le rovine del complesso di Qutb, mentre loro esploravano la colonna rastremata. E soprattutto avrebbe voluto che Sajjad non si fosse offerto di tenerle compagnia. C’era da aspettarsi una simile, impeccabile gentilezza da parte sua, dato che era incauto e sconveniente che Elizabeth si fermasse lì da sola, fra i cani randagi che scorrazzavano per le rovine e gli estranei di passaggio. Anche se, in tutta franchezza, con tutti gli episodi di violenza che stavano avvenendo a poca distanza nel Punjab e che di tanto in tanto si ripetevano a Delhi, non era da escludere che la stessa presenza di un musulmano potesse dar luogo a situazioni di pericolo. Nervosamente, Elizabeth si guardò intorno alla ricerca di un nascondiglio, aspettandosi da un momento all’altro di vedere Sajjad attaccato da un gruppo di induisti o di sikh armati. Invece non c’era nessuno in vista, nemmeno i cani. Solo quegli inevitabili piccioni. Si passò la mano sul collo: luccicava di sudore. Fra non molto sarebbe venuto il momento di trasferirsi a Mussoorie per l’estate. Era difficile immaginare di andarci senza Henry (avevano deciso che tutto sommato era meglio che passasse le vacanze in Inghilterra, vista l’incertezza della situazione). Il fastidio di Elizabeth si fece più profondo. Che diavolo ci facevano in questo posto? Era stata messa al corrente del progetto soltanto quella mattina, quando James l’aveva svegliata annunciando: «Facciamo una gita. Vestiti, Sajjad sta per arrivare». L’aveva irritata l’essere stata esclusa dalla decisione, e ancor più, scendendo, trovare Hiroko seduta su un gradino e appoggiata a un vaso di fiori che le aveva lasciato un segno rosso sul vestito, che poi era di Elizabeth: quante volte le aveva detto di non farlo? Si sentì spruzzare qualcosa sulle caviglie, e alzando lo sguardo vide Sajjad che agitava il braccio da una parte all’altra davanti a lei, con una 73
bottiglia in mano e un pollice che ne copriva quasi del tutto la bocca. «Che cosa credi di fare, in nome di Dio?» «Così l’aria intorno a lei si rinfrescherà». «Ah». Il profumo dell’acqua che cadeva a terra era già di per sé un sollievo. «Grazie». «Prego». Continuò a spruzzare. «Cosa ci facciamo qui, Sajjad? Il Qutb Minar va visto d’inverno, non in aprile. E se Hiroko voleva vedere i monumenti, certo uno fresco e al chiuso sarebbe stato più sensato». Sajjad sapeva di non poterle dire la verità, soprattutto perché suo marito aveva ovviamente deciso di non farlo. Il giorno prima, verso la fine della lezione, Hiroko aveva detto: «Mi piacerebbe vedere la tua Delhi, Sajjad. Mi ci porterai un giorno?» Se la richiesta fosse stata in urdu, non sapeva — né poteva immaginare — come le avrebbe risposto. Invece era stata fatta in inglese, e James Burton era uscito in veranda appena in tempo per sentirla; non aveva avuto altra scelta che borbottare che era ora di giocare a scacchi, sperando in quel modo di chiudere il discorso. Tuttavia, più tardi aveva detto: «Il Qutb Minar. Una volta sostenevi di avere qualche antico legame familiare con quel posto, non è vero? Insomma è quella la tua Delhi, no? La porteremo lì». A Elizabeth, Sajjad disse soltanto: «Temo che la colpa sia mia, signora Burton. Pensavo che a Hiroko interessasse vedere i resti dei miei antenati di Delhi». La Ilse Weiss che era cresciuta con le storie di fantasmi della nonna riaffermò la propria presenza e si guardò attorno, cercando gli spiriti degli antenati di Sajjad che vagavano fra le rovine. «Non parlo di resti in senso letterale» aggiunse serio Sajjad. «I miei antenati erano soldati negli eserciti mamelucchi. Se non sbaglio gli storici inglesi li chiamano i re schiavi. Il Qutb Minar è il più grande dei loro monumenti rimasti». «I re schiavi?» Pur controvoglia, era incuriosita. «Deduco che non si trattava di veri schiavi». «No, certo. Furono la prima dinastia del sultanato di Delhi. Nel tredicesimo secolo, secondo il calendario cristiano. Il primo sovrano fu 74
Qutb ud-Din Aibak, da cui ha preso il nome il Qutb Minar: uno schiavo che si era fatto strada fino al ruolo di generale. Il secondo fu Altamash, suo genero, anche lui un ex schiavo. È sepolto là». Indicò un punto oltre le rovine della grande moschea. Gli venne in mente che era così che sarebbe dovuta andare: lui, un indiano, che presentava agli inglesi la storia dell’India, che poi era la sua, e non il contrario. Quel pensiero lo sorprese, e per qualche motivo lo mise in imbarazzo. Aveva pensato che il mondo attorno a lui potesse cambiare senza che la sua esistenza ne risentisse. «L’India e tutti i suoi invasori» commentò Elizabeth. Con lo sguardo seguì una farfalla dalle ali pallide, che sbucò dai pilastri, poi tornò indietro barcollando, sbalordita dal caldo. «Come faremo a starci tutti quanti in quell’isoletta, adesso che ci buttate fuori? È così piccola l’Inghilterra, piccola in tanti sensi». Sajjad guardò Elizabeth, appoggiata a un pilastro, il corpo girato verso le due figure vicine al Qutb Minar. Era James o Hiroko che guardava con tanta tristezza? Oppure pensava a suo figlio? Sajjad considerò Henry Burton per un momento e sospirò. Non si era reso conto di quanto ne aspettasse con ansia il ritorno finché James non aveva accennato — quasi per caso, come se non lo riguardasse — che quell’estate il ragazzo sarebbe rimasto in Inghilterra. Per lei dev’essere stato devastante, rifletté senza toglierle gli occhi di dosso. Il modo in cui aveva detto «ci buttate fuori» gli attribuiva un senso di responsabilità e di autorità che, per una volta, gli consentiva di rivolgerle la parola malgrado fosse chiaro che aveva altro per la testa. «In effetti la storia della dinastia degli schiavi che preferisco è quella di Razia Sultana, la figlia di Altamash». «Una tragica storia d’amore?» Nel tono di voce, Elizabeth trasmise in parte la sua gratitudine per essere stata distolta dalle riflessioni sul significato simbolico del tratto di terra incolto che la separava da James. «In certe storie le donne hanno un ruolo diverso» le rispose sorridendo, e attorno ai suoi occhi spuntò una fontana di grinze. Lei gli fece cenno di raggiungerla all’ombra del corridoio, e lui accettò chinando la testa con riconoscenza. Una cordialità improvvisa inattesa ma gradita. «No, fra i figli di Altamash, Razia Sultana era la più dotata, perciò lui la scelse come erede. Ovviamente, appena lui morì uno dei figli si impos75
sessò del trono, ma Razia lo sbaragliò in fretta. Era una donna incredibile: un’abile amministratrice, una guerriera splendida». Quasi timidamente aggiunse: «Se mai avrò una figlia la chiamerò Razia». Fu un momento di sorprendente intimità. Per la durata di un battito di cuore Elizabeth lasciò che aleggiasse fra loro, poi indicò James e Hiroko. «Raggiungiamo quei due. Così potrai insegnare a tutti la storia della torre». «Minareto». «Questa è la prima lezione. Ci sarò venuta almeno dieci volte e non so nemmeno chi l’ha costruito e perché». «La mia storia è la vostra area da picnic» replicò lui, ma senza che il commento contenesse un’accusa; giusto un ombra di sarcasmo al quale lei reagì con un sorriso. James guardò con un certo sollievo Elizabeth e Sajjad che gli andavano incontro. Hiroko stava comportandosi in modo alquanto insolito: pensò addirittura di averla offesa organizzando questo picnic estemporaneo, e lasciandosi indietro gli altri per mostrarle di persona le parti salienti del complesso. Ed eccola qui, che più che camminare vagava in direzione della grande torre. Vedendola la prima volta gli aveva ricordato un uccello ferito, ma adesso c’era qualcosa di più selvaggio in lei. Me ne devo andare, me ne devo andare, pensava Hiroko mentre girava attorno al minareto. Adesso lo capiva con chiarezza. Meglio essere una hibakusha che non essere niente. La sera precedente, quando James Burton aveva sussurrato: «Domattina andremo tutti a visitare la Delhi di Sajjad», si era lasciata andare a un sorriso che non credeva possibile. Dunque il mondo di James non era chiuso a chi non ne faceva parte! I Burton non erano così restii a entrare in un’India diversa dall’impero! Ed era stata proprio lei, Hiroko Tanaka, a far capire a Sajjad e ai Burton che non c’era bisogno di immaginare barriere fra i loro mondi. Aveva ragione Konrad, quando diceva che il metallo di cui erano fatte le barriere si sarebbe fuso, se fosse stato toccato simultaneamente da entrambi i lati. Invece, quando Sajjad era arrivato in bicicletta senza degnarla di uno sguardo, aveva capito che la meta non sarebbe stata la sua mohalla. E mentre la portava in giro per gli edifìci in rovina, indicando il tratto di 76
terra prediletto dai giocatori di polo o il significato di un antico pilastro in ferro per la storia della metallurgia, James Burton sembrava aver del tutto dimenticato che questa gita aveva a che fare con Sajjad. Sentì la sua mente contorcersi per sfuggire all’inevitabile conclusione che presto avrebbe dovuto affrontare: il ritorno in Giappone. «James!» esclamò Elizabeth fermandosi vicino al marito. «Lo sapevi che la famiglia di Sajjad è arrivata qui dalla Turchia sette secoli fa?» «Allora saresti un giovane turco?» disse James, sorridendo a Sajjad. «No, signor Burton» rispose Sajjad senza capire il riferimento. «Sono indiano». Sbirciò Hiroko, che dava loro le spalle e osservava le iscrizioni in arabo sulle pareti del minareto. Era offesa, lo sapeva, ma come rimediare? Guardò James, come prendendo in considerazione qualcosa che non gli era mai venuto in mente prima. «Perché gli inglesi sono rimasti così inglesi? Durante tutta la storia dell’India sono arrivati invasori da tutte le parti, e tutti quanti — turchi, arabi, unni, mongoli, persiani — sono diventati indiani. Se — e quando — dovesse nascere questo Pakistan, i musulmani che se ne andranno da Delhi, Lucknow e Hyderabad per andare a viverci abbandoneranno le loro case. Gli inglesi, invece, quando andranno via torneranno a casa». Hiroko si voltò sorpresa e decisamente imbarazzata verso Sajjad. Gli aveva parlato dell’interesse di Konrad per gli stranieri che si trasferivano a Nagasaki e adesso vedeva le sue parole filtrare nei suoi pensieri e diventare parte della sua visione del mondo. «Henry considera l’India casa sua» disse Elizabeth nel tentativo di sviare quell’attacco inaspettato, che aveva chiaramente ferito James. «Sì» rispose Sajjad con voce tesa. «Una volta era così». E per questo lo avete mandato via, avrebbe voluto dire adesso che il risentimento, inizialmente simulato per far colpo su Hiroko, si era fatto sincero. Lo ricordava bene, il giorno in cui Elizabeth aveva smesso di opporsi alla decisione. Lui e Henry stavano giocando a cricket in giardino quando era venuta fuori e aveva detto al figlio che «era proprio un giovane inglese». Henry si era accigliato, e indietreggiando verso Sajjad aveva risposto: «Io sono indiano». Il giorno successivo, James Burton aveva detto a Sajjad che, con suo grande sollievo, Elizabeth aveva finalmente deciso di accantonare le obiezioni «di carattere sentimentale» riguardo alla decisione di mandare Henry in collegio. 77
«Stai cercando di dire qualcosa, Sajjad?» «No, signora Burton. Però non credo che continuerà a vedere l’India in quel modo ancora a lungo». «Tanto meglio» rispose Elizabeth guardandosi attorno e provando qualcosa di molto simile al dispiacere all’idea che, sette secoli dopo, nel visitare chiese e monumenti indiani, i discendenti degli inglesi non li avrebbero associati al momento in cui la loro storia personale e quella dell’India si erano fuse irrevocabilmente e per sempre. «Perché tanto meglio?» Nessuno aveva mai sentito la voce di Sajjad così vicina alla rabbia. Dopo otto anni in cui un’esagerata cortesia era stata la sua unica arma contro di lei, era difficile dire chi dei due fosse più sorpreso del suo tono. Tuttavia capivano entrambi che non si sarebbe arrivati a questo, se non fosse stato per Hiroko, che con la sua presenza buttava all’aria ogni gerarchia. «Calma, calma» lo ammonì James. Sajjad arrossì violentemente e a occhi bassi borbottò qualcosa per scusarsi. Elizabeth avrebbe voluto prenderlo per il colletto e scuoterlo. Quando mi hanno costretta a lasciare Berlino ero appena più giovane di lui: so bene come si soffre. Tu che ne sai, se la tua famiglia vive a Delhi da secoli? Però, sotto quella rabbia c’era qualcosa di molto vicino al dispiacere. Stavamo appena iniziando ad andare d’accordo, sembrava voler dire. «Sajjad» lo chiamò tirandogli la manica Hiroko, che pur di interrompere l’orrore di quella rabbia che pulsava fra le due persone a cui teneva di più, aveva dimenticato la propria. «Vieni a vedere. Ho riconosciuto una parola». Indicò una parte dell’iscrizione in arabo sul minareto e Sajjad le si avvicinò per capire a cosa si riferisse, finché le loro teste scure quasi si toccarono. La disinvoltura della loro prossimità colpì Elizabeth così come aveva colpito Lala Buksh il giorno in cui era arrivata Hiroko. Intercettò la rapida occhiata lanciatale da Sajjad e ne comprese il significato con più chiarezza di lui. Non si soffermò a chiedersi cosa ne pensasse Hiroko o quando la cosa avesse avuto inizio: capì soltanto di aver finalmente trovato il modo per aggirare quell’armatura di gentilezza e indifferenza che aveva consentito a Sajjad Ali Ashraf di conquistare tutti, in casa sua, pur restando sordo a qualunque sua frase o gesto. 78
«Sajjad e io stavamo solo facendo due chiacchiere» disse ad alta voce, passando un braccio sul fianco di James in un tentativo di disinvoltura che per poco non lo fece trasalire. «Mi stava dicendo come vorrebbe chiamare la sua prima figlia». James la baciò sulla tempia, tenendo le labbra premute più del necessario per inspirare il suo profumo. Con le dita coprì quelle di lei sul suo fianco. Quasi distolta dal suo intento, fu sul punto di proporgli sottovoce di riprendere familiarità con le arcate nascoste del passaggio coperto, nelle quali, in epoca più felice, si erano talvolta appartati durante una partita di polo sul campo vicino, per cercare rifugio dal sole e dagli astanti. Ma poi udì Sajjad dire qualcosa in urdu che fece arrossire Hiroko. La frase era questa: «Tra non molto finirà che verrò io a lezione da te», ma Elizabeth vide soltanto che Hiroko stava allontanandosi da lei per avvicinarsi a Sajjad, come già avevano fatto James ed Henry. «Allora, Sajjad» buttò lì come per caso. «Come vanno i tuoi progetti matrimoniali? Mi dice James che verso la fine dell’anno prenderai qualche giorno di ferie per sposarti». Per un brevissimo istante, l’attesa di ciò che sarebbe avvenuto ebbe il sopravvento su tutto; poi Hiroko girò bruscamente i tacchi e si incamminò verso la macchina. «Ma cosa...?» disse James sorpreso dalla risolutezza del suo passo. «Le ha dato fastidio il caldo». La Elizabeth bambina sentì i fantasmi di chi era ancora legato al mondo dal rimorso premere le loro bocche sulla sua pelle, in un rito di iniziazione. «Meglio andare». «Oh, d’accordo». James guardò con rimpianto il corridoio coperto. «Sajjad, vieni con noi». «Torno a casa da solo, signor Burton, grazie lo stesso». «Andiamo, James!» James lanciò uno sguardo incerto a Sajjad, che gli fece cenno di avviarsi alla macchina. «Camminerò fra le rovine e comporrò grandi poemi per i miei antenati, signor Burton. Non si preoccupi, la prego». Sajjad guardò la Bentley che si allontanava agitando sia la polvere sia i piccioni, e solo quando fu scomparsa si appoggiò con la schiena al minareto e alzò lo sguardo verso il cielo sempre più pallido, cercando di 79
capire perché il cuore gli battesse tanto forte.
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Il giorno seguente, mentre Sajjad andava al lavoro in bicicletta, Civil Lines fiammeggiava di gulmohar fioriti e ogni grappolo di boccioli rosso acceso gli ricordava Hiroko che attraversava di gran carriera un tratto di terra desolato, circondato da monumenti in rovina, una macchia rossa sulla schiena come se il cuore lo avesse insanguinato. Per un attimo aveva pensato che potesse esserci una sola spiegazione per il modo in cui aveva reagito alla notizia del suo matrimonio, ma subito aveva visto la vanità, l’assurdità di quell’idea. Era naturale che si fosse arrabbiata con lui, perché non avrebbe dovuto farlo? Gli aveva parlato della morte di Konrad Weiss, e in cambio lui cosa le aveva detto della sua vita? Nient’altro che bazzecole. Al punto che era toccato a Elizabeth Burton buttare lì una notizia che non c’era ragione di nascondere a un’amica. Un’amica. Sajjad scosse il capo, sbalordito all’idea che gli fosse capitata una cosa simile. Un’amica giapponese. Le ruote della bicicletta ronzarono e la sella scricchiolò mentre lui pedalava più in fretta, poi molto più piano, e poi di nuovo più veloce. Avrebbe potuto invitarla al matrimonio? Che cosa avrebbe detto sua moglie — chiunque fosse — sapendo che fra i suoi amici c’era una donna che non faceva parte della famiglia, una donna che portava i pantaloni e le maglie scollate, e fumava, e non si sarebbe mai sognata di permettere che qualcun altro le scegliesse il marito, ed era bella. No, forse dopotutto era meglio pensare di non invitarla al matrimonio. Eppure immaginò la sua presenza. Se la figurò in piedi a poca distanza dalle donne della sua famiglia, a prenderlo in giro con uno sguardo, appena prima che abbassasse gli occhi sullo specchio che per la prima volta gli avrebbe mostrato il volto della sposa seduta al suo fianco. No, no. Hiroko non poteva, non doveva venire al matrimonio. Quando smontò dalla bicicletta nel vialetto dei Burton, trovò Lala Buksh ad aspettarlo. Sajjad lo salutò con un cenno della testa mentre 81
appoggiava al muro la bicicletta. Erano anni che frequentava la casa, eppure gli aveva a malapena rivolto la parola, se non per riferirgli una richiesta di James o per augurargli frettolosamente Eid Mubarak. Invece, nelle ultime settimane, mentre continuavano i tumulti e la creazione di un nuovo stato appariva sempre più probabile, i due avevano preso l’abitudine di bere insieme una tazza di tè al mattino, per parlare delle ultime notizie di morte, politica e libertà. Lala Buksh porse a Sajjad una tazza fumante e insieme si incamminarono verso l’entrata della cucina, dove Sajjad si sedette sul gradino e Lala Buksh si accovacciò a terra, come non avrebbe mai fatto in presenza degli inglesi. «Io ci vado» annunciò fuori dai denti Lala Buksh. Sajjad lo guardò senza capire, distratto dall’idea che di lì a poco avrebbe visto Hiroko, e ancora non sapeva cosa dirle. «In questo paese per i musulmani. Voglio andare a viverci». Sajjad chinò indietro la testa e la appoggiò alla porta scorrevole. «Gli inglesi fra un anno vanno via. Non sarebbe meglio stare a vedere come si mettono le cose nel ‘48? Rispetto al mese scorso la situazione si è già calmata». Lala Buksh si guardò le mani strette a pugno, osservandole come uno scienziato potrebbe guardare una qualche arma spaventosa e geniale di sua invenzione mentre prende forma. «Ora del ‘48 chissà cosa ne sarà di me». A differenza di Sajjad, Lala Buksh viveva in un quartiere che non era in prevalenza musulmano. Ci abitava solo il venerdì, nel giorno libero, ma confessò a Sajjad che in quei giorni — quando la sua famiglia gli riversava addosso una settimana di storie del Punjab, di musulmani assassinati, di negozi incendiati e donne rapite — doveva per forza stare in casa perché, se soltanto avesse incrociato un induista, il suo sguardo avrebbe tradito ciò che provava e si sarebbe fatto ammazzare. O magari avrebbe incontrato un induista incapace a sua volta di nascondere dallo sguardo cosa provava, e chissà... Sajjad sorseggiava il tè senza sapere come rispondere. Erano anni che vedeva Lala Buksh scherzare con Vijay, il cuoco dei Burton, e fare la corte a Rani, la cameriera di Henry; a volte, entrando in cucina, li trovava tutti e tre a lamentarsi affettuosamente dei Burton. Adesso era 82
questa, con Sajjad, l’unica pausa che Lala Buksh si concedeva dai suoi doveri. Mentre Sajjad finiva il tè in un ultimo lungo sorso e si alzava in piedi, Lala Buksh disse: «Ieri non sei tornato insieme a loro dal Qutb Minar». Sajjad fece un gesto evasivo. «Lei era molto arrabbiata, per qualche motivo» aggiunse, poi prese la tazza di Sajjad e andò in cucina. Nel parlare con Lala Buksh, si rese conto che le atrocità commesse ai danni dei musulmani lo toccavano molto più di quelle commesse dagli stessi musulmani: sapeva quanto fosse sbagliato, ma anche quanto fosse vero. Dalla veranda, Hiroko sentì il cigolio della porta scorrevole della cucina e capì che Sajjad stava uscendo in giardino. Non era sicura di poterlo guardare senza rivelare la propria invidia. La sera prima si era sforzata di ricordare il volto di Konrad, ma gli era sembrato così lontano. Come se facesse parte di un’altra vita. In questa, invece, quello che contava era il desiderio di qualcosa in più: più del ricordo delle sue dita che le scorrevano sulle vene del polso, più del ricordo della sua lingua che sorprendeva quella di lei. Tuttavia, malgrado Konrad si facesse sempre più distante quando cercava di evocarlo, quella cosa che aveva cominciato a succedere nel suo corpo mentre indossava il kimono di sua madre si era risvegliata. Stesa nella vasca, la sera prima, aveva fatto scivolare la mano lungo il suo corpo nudo (salvo che la mano e il corpo non erano i suoi, ma quelli di Sajjad e sua moglie: nemmeno nelle fantasie Hiroko si concedeva di credere che il suo corpo potesse essere oggetto delle carezze di un uomo). E mentre la mano scendeva lei aveva sussultato e col fianco aveva urtato la ceramica, spaventandosi al punto che aveva svuotato la vasca e si era messa subito a letto; qui aveva stretto i pugni e li aveva tenuti ben staccati dal corpo. «Buongiorno» la salutò Sajjad camminando in direzione della veranda. «Oggi va meglio, spero?» «Sì, grazie». Lo guardò e si chiese come doveva essere vedere Sajjad Ali Ashraf che si avvicinava e sapere che potevi toccare il suo corpo. Gli lanciò uno sguardo lievemente accusatorio. «Perché non mi hai parlato di lei?» «Lei chi?» «La tua fidanzata». 83
«Ah». Sajjad fece una smorfia. «Non c’è ancora niente di definito. Mia madre e le mie cognate hanno in mente qualcuno, ma non so neppure come si chiama. È possibile che non se ne faccia nulla». Mise la mano sul tavolo e toccò il dorso del libro su cui erano posate le dita di lei. Hiroko annuì, tentando di ignorare la strana sensazione di fiducia mescolata a impotenza. «Devi essere considerato un ottimo partito. Anche se... posso chiederti una cosa?» «Certo. Qualsiasi cosa». «Una volta mi hai detto che volevi diventare avvocato. Invece trascorri le giornate giocando a scacchi con James Burton. Sono sicura che ti aspetti qualcosa di più dalla vita». In tutto questo tempo, lei era stata la prima a dirglielo. «Se non fosse per James Burton lavorerei con la mia famiglia e non mi piacerebbe affatto. Se vuole giocare a scacchi, io lo accontento. Però ha detto, ha promesso che nel suo studio legale ci sarà sempre un posto per me. Proprio l’altro giorno diceva che con la partenza degli inglesi si libererà una quantità di posti di lavoro, e io posso aspettare. Mi presta i suoi libri di giurisprudenza in modo che possa leggerli a casa. Non sto perdendo tempo. Sto imparando. Mi sto preparando». «Non intendevo dire che stai perdendo tempo. Sono convinta che saresti un ottimo avvocato». Capì che il complimento contava molto per lui, ma non poté fare a meno di domandarsi se fosse davvero possibile diventare avvocati senza alcun tipo di qualifica professionale. «Adesso posso fartela io una domanda? Ti sembra strano che sposi qualcuno che non ho mai incontrato? So che i Burton lo considerano molto... arretrato». «Sajjad, io non sono i Burton. Ho l’impressione di trovare nel tuo mondo molte più tradizioni simili a quelle giapponesi di quante potrei trovarne nella cultura inglese». Lo disse quasi in tono d’accusa, ma poi sorrise, come per ammettere che il suo interesse per le tradizioni era molto limitato. «I matrimoni combinati erano molto comuni in Giappone. Ho sempre pensato che richiedano più coraggio di quanto non ne abbia io». 84
Sajjad non si sentiva tanto coraggioso. «Le cose vanno così». Seguì col dito i caratteri sulla costa del libro, evitando di guardarla. «Tu invece ti sposerai all’inglese?» «Io non mi sposerò mai». Sajjad sussultò per la propria mancanza di tatto. «Mi dispiace. Conoscevo il signor Konrad... Scusa, non sono affari miei». «Non mi sposerò mai» ripeté lei, «ma il motivo non è Konrad». Sajjad annuì. Poi scosse il capo. «Allora qual è?» Hiroko non si chiese se si aspettasse da lui una conferma o un rifiuto della verità che aveva accettato in un ospedale di Tokyo, nel sentire l’espressione di orrore del vecchio medico che la visitava. Al contrario, si alzò e voltò le spalle a Sajjad. «Il motivo è questo» disse cominciando a sbottonarsi la camicetta sulla schiena per esporre la carne nuda. Con un gridolino di sorpresa Sajjad si girò. «Ti prego. Che intenzioni hai?» Hiroko diede uno strattone al tessuto che la copriva e aprì la camicetta come un sipario. «Questa è una delle tante cose che la bomba mi ha portato via. Guardami». «No. Abbottonati». «Sajjad». Il suo tono secco lo spinse a voltarsi. Qualsiasi cosa avesse voluto dire rimase per sempre non detta. Hiroko era uscita dall’ombra gettata dal soffitto, in modo che la violenta luce del sole non lasciasse dubbi sulle tre ustioni a forma di uccello, nere come il carbone, che aveva sulla schiena: la prima sotto la scapola, la seconda a metà della spina dorsale, tagliata dal reggiseno, e la terza poco sopra la vita. Hiroko non poteva vedere le lacrime che si raccolsero negli occhi di Sajjad mentre osservava la sua pelle carbonizzata e avvizzita: poté solo interpretarne il silenzio. «Lo sai cosa dice questa scritta in diagonale, vero? Lo capirebbe chi85
unque. Dice: stai alla larga, non è questo che vuoi». Il dolore di lei mandò in frantumi tutte le difese che Sajjad si era inconsapevolmente costruito dal momento in cui aveva guardato il neo sotto l’occhio di Hiroko e aveva desiderato toccarlo. In pochi passi veloci fu vicino a lei, le mani che toccavano lo spazio fra le due bruciature più in basso, e subito si staccavano al fremito di lei. «Ti fa male?» sussurrò. «No» rispose a voce ancora più bassa. Toccò la grottesca ombra sotto la scapola con fare esitante, furtivo, quasi fosse una reliquia infernale, stringendo i denti contro l’infamia di quei gonfiori che sentiva sotto le dita. Lei non sentiva la mano di lui, ma il calore del suo respiro sul collo bastò a provocare un altro fremito, che la percorse da cima a fondo. Lui chiuse gli occhi e spostò la mano dove la pelle era normale al tocco. Stavolta, quando il corpo di lei si scosse in un modo che, lo sapeva, era privo di paura, anche il suo corpo reagì: in quest’attimo di intimità non c’era spazio per la mortificazione. Fece scorrere il dorso della mano sulle spalle di lei, giù per le curve dei suoi fianchi, per ricordarle che c’era anche questo, che c’erano anche queste sue parti. Per pochi attimi Hiroko si concesse il lusso di quel contatto, sicura che il suo ricordo si sarebbe unito a quello dei baci di Konrad, nel rappresentare tutta quanta la sua esperienza dell’intimità fisica. «Non hai bisogno di essere tanto gentile» disse alla fine, serrando i pugni nel tessuto che ancora stringeva fra le mani. «So quanto sono brutte». «Brutte? No». Se la sua voce non fosse stata tanto dolce avrebbe potuto credergli. «Schiena d’uccello» disse posando la mano sulla bruciatura centrale, mentre con l’altra si asciugava in fretta le lacrime. «Non sai che tutto quello che ti riguarda è bello?» Lei si voltò di scatto, il volto reso estraneo dalla rabbia, costringendolo a rendersi conto di quanto si fosse impresso nella mente ogni espressione quotidiana di lei, per tenergli compagnia nelle ore in cui erano lontani. «La bomba non ha fatto niente di bello» disse colpendolo sul petto con il pugno. «Mi capisci? Non ha fatto niente di bello». 86
Elizabeth Burton, che si era svegliata all’alba disgustata da se stessa, udì le grida mentre si sedeva allo scrittoio. Aprì correndo le porte della veranda, appena in tempo per vedere Hiroko seminuda, che urlava e prendeva a pugni Sajjad, i cui pantaloni nascondevano a stento un’erezione.
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Al mondo non esiste un posto più bello di Mussoorie, pensò Elizabeth Burton. Ferma in cima al pendio del giardino, guardava la foschia che si aggrappava ai picchi lontani dell’Himalaya, mentre dalla collina su cui era annidato il cottage le arrivava il profumo dei boschi di pino. Peccato che la bellezza potesse rivelarsi così insignificante. Anche se doveva ammettere, pensò avvicinandosi alla vecchia quercia, che per quanto le cose andassero male qui, a Delhi sarebbe stato peggio, con il caldo soffocante di giugno, e ancor peggio del solito quest’anno, come aveva letto sul giornale quel mattino. E a parte il caldo, be’, sì, a parte il caldo c’era la faccenda di Sajjad. Per quanto non fosse rimasta meno costernata di James all’annuncio che gli inglesi si sarebbero ritirati dall’India entro la metà di agosto, invece dell’anno successivo — decisione che in effetti escludeva l’eventualità che la Partizione avesse luogo in una parvenza d’ordine — Elizabeth sperava ancora che Sajjad scegliesse miracolosamente il Pakistan e uscisse dalle loro vite prima del ritorno a Delhi in ottobre. Sarebbero tornati solo per fare i bagagli e poi partire, ma sarebbero comunque potute accadere molte cose. E poi perché non guardare in faccia la realtà: l’idea di rivedere Sajjad la imbarazzava. Ancora le veniva la nausea a ripensare al mattino di aprile in cui si era imbattuta in quella scena spaventosa fra lui e Hiroko. Era saltata alla conclusione peggiore — era la prima a riconoscerlo — e nel cacciarlo di casa aveva urlato a Sajjad le cose più orrende. Continuava a non ricordare la reazione di Hiroko, difatti si era a malapena resa conto che la giovane stava maldestramente riabbottonandosi la camicia mentre Sajjad se ne andava incespicando. Poi aveva cercato di parlarle con delicatezza, ma Hiroko era scoppiata a piangere e si era chiusa in bagno rifiutandosi di rispondere a Elizabeth che le chiedeva — e poi le ordinava — di aprire la porta. Alla fine Elizabeth era salita a svegliare James, che aveva prodigiosamente continuato a dormire malgrado le urla. 88
«Se ha cercato di fare quello che penso non potrai impedirmi di chiamare la polizia» gli aveva detto mentre lo scuoteva per svegliarlo. James la guardò con un’aria confusa che in altre circostanze sarebbe apparsa comica. «Sajjad. Il tuo pupillo. L’ho appena sorpreso qui sotto con Hiroko». «In veranda fa troppo caldo per le lezioni» rispose James assonnato, tirandosi su. «Gli dirò di usare il mio studio». «Era praticamente nuda e lo colpiva per toglierselo di dosso. Smettila di sbattere gli occhi, James. Era visibilmente eccitato, lo capisci o vuoi che ti faccia un disegno?» Con un’imprecazione che non gli aveva mai sentito pronunciare, James si alzò in piedi e mentre prendeva la vestaglia tuonò: «Sajjad!» «Se n’è andato. L’ho sbattuto fuori». «Lo inseguo in macchina». Picchiò la mano contro la porta per aprirla, e il rumore della carne contro il legno fu violento e fastidioso. Elizabeth si coprì il volto con le mani per difendersi. Sajjad. Praticamente viveva in casa loro, e non le era mai passato per la testa che potesse costituire una minaccia, almeno in quel senso. Ancor prima che il pensiero prendesse forma, Elizabeth capì di aver commesso un errore tremendo. «James!» gridò. In quel preciso momento James rientrò nella stanza. «Ne sei sicura?» domandò. «Elizabeth, come può essere?» Si avvicinò e gli prese la mano, ricordando il momento in cui li avevano informati che Henry aveva accecato una bambina del posto con una sassata. In seguito si era saputo che si era trattato di un altro Henry — un certo Henry Williams, che a cinque anni era già un delinquente — e per James ed Elizabeth rifiutarsi di crederlo colpevole era stato una prova importante nella loro carriera di genitori. Scesero al piano di sotto tenendosi per mano, mentre Hiroko usciva dalla stanza per andar loro incontro. «Mi dispiace, è tutta colpa mia. Sono stata io a sbottonarmi la camicetta. L’ho costretto a guardarmi. Lui ha solo cercato di accontentarmi. Vi prego. Ho cercato di dirgli delle cose che non ero pronta a dire a nessuno. Scusatemi. Adesso me ne vado. Non punitelo. Mi spiace tanto». 89
La situazione era tutt’altro che chiara, ma ciò nondimeno Elizabeth capì subito che cosa bisognava fare. «Partiremo tutti insieme. È ora di trasferirsi a Mussoorie per l’estate. Fai subito le valigie, Hiroko. Prendiamo il prossimo treno. James, manda Lala Buksh a casa di Sajjad con la sua liquidazione. E fagli riferire che avrà tutte le referenze necessarie per cercarsi un altro lavoro». E dunque eccoli qui, a Mussoorie, una delle più belle e romantiche località collinari dell’India. Si fermò di nuovo ad ammirare la vista stupenda, che presto i monsoni avrebbero in gran parte nascosto con piogge e foschia: finché poteva sarebbe rimasta a guardare quanta bellezza aveva da offrire questo luogo paradisiaco. Non sapeva come avrebbe potuto farcela, in India, se non ci fosse stata Mussoorie, dove l’atmosfera ufficiale di Delhi veniva abbandonata (o meglio trasferita a Simla, la sede estiva del governo) e le gite a Gun Hill, i picnic alla cascata, i balli al Savoy trasformavano il mondo in una specie di sogno, persino in tempo di guerra. Si era aspettata — o forse aveva semplicemente sperato — che Mussoorie avesse su Hiroko lo stesso effetto vivificante che aveva su di lei; invece, semmai la joie de vivre e il fascino del luogo sembravano trascinarla sempre più in quella specie di spazio inaccessibile in cui era entrata quel giorno a Delhi. Elizabeth si fermò sotto la quercia e guardò in su: Hiroko, rannicchiata su un ramo con la schiena appoggiata al tronco, i pantaloni di lino bianco strappati all’altezza dello stinco mentre si arrampicava in un’altra occasione fino a questo punto preferito. Elizabeth continuava a non sapere chi, dei vicini, avesse appeso la scala di corda al ramo dove si sedeva Hiroko, ma sospettava che fosse stato Kamran Ali, del cottage accanto al loro. «Vengo su» annunciò Elizabeth mentre cominciava a salire sulla scaletta. Hiroko avvertì il leggero cedimento del ramo quando Elizabeth si tirò su dall’ultimo piolo e si mise seduta con le gambe che ciondolavano dalla stessa parte, ma non disse niente: continuò a guardare i crinali delle colline tappezzate di boschi, fiori e casette. In una delle poche occasioni in cui aveva ceduto alle insistenze di Elizabeth ed era uscita dalla proprietà dei Burton, aveva incontrato sulla passeggiata un generale inglese in pensione, a detta del quale Hiroko avrebbe dovuto conoscere 90
gran parte della flora locale, visto che Mussoorie era poco più a sud della regione fitogeografica («voglio dire, ‘riguardante il tipo di flora’») sino-giapponese. Quella sera aveva mandato al cottage dei Burton il suo autista con una quantità di fiori delle colline circostanti; a commuoverla non era stato il fatto di conoscerli, quanto di non ricordarne il nome in giapponese e di non avere nessuno con cui consultarsi. Ogni giorno, seduta su quest’albero, con lo sguardo che vagava sugli alberi e i fiori di Mussoorie, alcuni di essi familiari come la trama del tatami sotto i suoi piedi, Hiroko legava insieme ricordi diversi di Nagasaki come se fossero i grani di un rosario: il leggero rumore di suo padre che preparava una pittura sulla pietra dell’inchiostro, il porpora sempre più scuro di un cielo trapunto di costellazioni e ammassi stellari in una serata riempita dai toni familiari delle voci dei vicini, gli alunni che si alzavano in piedi quando lei entrava in classe, le passeggiate sul lungofiume insieme a Konrad, sognando tutto ciò che sarebbe diventato possibile dopo la guerra... In India tutti parlavano del futuro: gli inglesi pianificavano il rimpatrio, Kamran Ali riceveva ogni giorno telegrammi dai cugini già arrivati a Karachi per discutere di immobili, prospettive e suddivisioni patrimoniali, Lala Buksh aveva appena mandato a dire che si sarebbe trasferito in Pakistan prima che i Burton tornassero a Delhi. Quando si parlava del futuro, Hiroko non riusciva a vedere un posto per se stessa, e per la prima volta in vita sua si ritrovò a guardare indietro, sempre più indietro. I Burton, che sembravano decisi a sopperire a questa sua mancanza di immaginazione, le offrivano diverse possibilità: compagna di viaggio... governante... segretaria... giovane moglie di vedovo solo. Ed Elizabeth le aveva appena assicurato che naturalmente sarebbe partita con loro; dal modo in cui lo aveva detto, tuttavia, era chiaro che si rendeva conto di come quella promessa potesse suonare più che altro come una minaccia. E sotto sotto c’era una voce che ripeteva: Giappone, è lì che tornerai prima o poi. «Sì, credo proprio che per la scala tu debba ringraziare Kamran Ali» disse Elizabeth. Hiroko continuò a non guardarla. Si sentiva così in debito con i Burton: come aveva potuto mettersi in una situazione simile? Il vestito di cotone leggero di Elizabeth non la proteggeva molto dal91
la ruvidità della corteccia, e poi c’era un ramo che le solleticava fastidiosamente la testa, comunque si voltasse. «Adesso basta» disse. «Ne ho abbastanza del tuo broncio». «Scusa» rispose Hiroko debolmente. «Dillo e facciamola finita» le ordinò Elizabeth. «Dire cosa?» «Sajjad. Che ce l’hai con me per Sajjad». «Ce l’ho con te?» Ci pensò un attimo. «Sì, forse è vero. Soprattutto non sopporto di averti fornito il pretesto per mandarlo via». La futilità delle sue richieste di assoluzione per Sajjad le avevano mostrato con chiarezza il suo ruolo in casa Burton. «Non ne sarebbe uscito niente di buono. Un giorno lo capirai». «Uscito da cosa?» «Da te e Sajjad. Da quello che provavate l’uno per l’altra. Sarebbe stato impossibile. Il suo mondo è completamente alieno al tuo». Finalmente Hiroko si voltò verso Elizabeth, tentando di dare un senso alle sue parole. La luce filtrava dalle foglie, tutto era così bello che si ricordò di Konrad, quando diceva che il paradiso terrestre non sarebbe mai diventato una storia se non fosse stato per il serpente. E a quel punto capì. «Pensi... L’hai mandato via perché pensi che nella nostra amicizia ci sia qualcosa di inappropriato». «Sì» rispose Elizabeth sollevando il mento. «Un giorno capirai che ho agito nel tuo interesse». Afferrò la mano di Hiroko. «Nel suo mondo, se non ci sei nata, sei destinata a rimanere per sempre un’esclusa. Forse per te sarebbe disposto a rinunciare a quel mondo — se fosse necessario per averti con sé — ma una volta passato il fervore della passione iniziale se ne pentirebbe e darebbe la colpa a te. Sono le donne a entrare nel mondo dei mariti, Hiroko, è così in tutto il mondo. Il contrario non succede mai. Siamo noi quelle che si adattano, non loro. Loro non ne sono capaci. Non ne vedono il motivo». Hiroko riuscì soltanto a guardarla fissa. Il fervore della passione? Quest’inglese era pazza. O forse no? 92
Hiroko allungò la mano fino al punto fra le ustioni dove lui l’aveva toccata. Sajjad la desiderava. Malgrado gli uccelli. Arrossì, capendo finalmente lo strano rigonfiamento nel tessuto dei suoi pantaloni. La desiderava, e lei... l’aveva incoraggiato a toccarla. Dappertutto. Si coprì il volto con le mani, ed Elizabeth comprese che la donna che aveva accanto in realtà era soltanto una bambina. «Hiroko, è impossibile». Hiroko allargò le dita per lanciarle un’occhiataccia da dietro le mani. «Il matrimonio ti ha reso amara. E piena di risentimento». Era un sollievo prendersi la responsabilità di qualcosa. «Forse. Quel che è certo è che sono gelosa di Sajjad. Sono gelosa del fatto che tutte le persone che amo vogliono più bene a lui che a me, e mi dà fastidio essere l’unica persona sulla terra del cui amore non si è mai interessato. Finalmente l’ho ammesso». Hiroko aggrottò le ciglia, non sapendo bene che cosa pensare. «Ti senti meglio?» «Oddio, sì!» Elizabeth si coprì la bocca ed espirò forte. «Dio del cielo, molto meglio. Ah!». Si incrociò le mani sul petto. «Santo cielo. Noi umani siamo proprio delle strane cose». Hiroko non poté fare a meno di ridere. «Non tirarci dentro tutti quanti. La tua stranezza è solo tua». Erano di nuovo amiche. Elizabeth si spostò più vicina a Hiroko sul ramo. «Quel che ho detto non cambia il fatto che il suo mondo non ti appartiene». Hiroko rimase a lungo in silenzio. «Non appartengo nemmeno a questo mondo». Chinò la testa con fare pensoso e smise di fare la bambina. «Mi hai appena fatto un regalo prezioso. La speranza che ci sia ancora qualcosa che vale la pena di cercare. Finora non ho fatto altro che pensare a quello che ho perso. A tutto quello che ho perso. Continuo a pensare a Nagasaki. Una volta mi hai detto che Delhi doveva sembrarmi estranea e sconosciuta, ma niente al mondo potrà mai sembrarmi più estraneo di casa mia quel giorno. Quel giorno indicibile. Indicibile in senso letterale: non saprei parlarne in nessuna lingua. Mio padre, Ilse. L’ho visto pochi attimi prima che mo93
risse e l’ho creduto qualcosa di disumano. Era coperto di squame. Non aveva pelle, capelli, vestiti: soltanto squame. E nessuno, nessuno al mondo dovrebbe mai vedere il proprio padre coperto di squame». Elizabeth strinse la mano di Hiroko e se la portò alle labbra. «E per di più continuo a non capirci niente. Che bisogno avevano di farlo? Perché due volte? Già la prima bomba va al di là della mia comprensione, ma la seconda? Fai una cosa del genere, ti rendi conto di cosa hai fatto e poi lo rifai. Com’è possibile? Lo sai che quel giorno dovevano bombardare Kokura? Ma il cielo era coperto, così hanno fatto dietrofront verso il secondo obiettivo: Nagasaki. E anche lì era coperto. Me le ricordo benissimo quelle nuvole. E per poco non rinunciarono. Stavano proprio per rientrare quando hanno visto uno squarcio nelle nuvole. E bum!» Pronunciò quel «bum» così piano che fu poco più di un respiro. «Avevo sempre pensato di andarmene da Nagasaki, sai. Non ero affatto sentimentale nei confronti della mia città. Ma è solo quando vedi un luogo che conosci da sempre ridotto in cenere che capisci quanto hai bisogno di familiarità. Vedi quei fiori sulla collina, Ilse? Voglio sapere come si chiamano in giapponese. Voglio sentir parlare in giapponese. Voglio bere un tè che abbia il sapore che mi aspetto dal tè. Quando faccio qualcosa di sbagliato voglio che gli altri mi critichino, invece di pensare che non so come va il mondo. Voglio far scorrere le porte invece di spalancarle, voglio tutte le cose che erano insignificanti e che lo sarebbero ancora se non le avessi perdute. Vedi, me ne rendo conto da sola. Me ne rendo conto, ma questo non mi impedisce di desiderarle. Voglio vedere la cattedrale di Urakami. Una volta pensavo che guastasse il panorama, non mi era mai piaciuta. Invece adesso voglio sentirne le campane. Voglio il profumo dei fiori di ciliegio bruciati. Voglio essere sballottata da un tram in movimento. Voglio abitare fra le colline e il mare. Voglio mangiare il kasutera». Voglio. Sentendo ripetere quella parola Elizabeth capì che sensazioni doveva dare una conversione religiosa. Voglio. Se ne ricordava, vagamente. Da qualche parte. Voglio. Quando era successo che la sua vita era diventata un cumulo di cose che non voleva? Non voleva che Henry andasse via. Non voleva essere la moglie di un uomo con cui non riusciva più a parlare. Non voleva nascondere che a volte durante la guerra — soprattutto quando era stata bombardata Berlino — si era sentita pro94
fondamente tedesca. Non voleva accettare che per gli inglesi fosse finito un periodo fortunato. Non voleva tornare a Londra e vivere sotto lo sguardo vigile di una suocera invadente. Non voleva che la propria incapacità di diventare, con l’aiuto del tempo e di qualche lezione, la donna giusta per lui rendesse James infelice. Non voleva sentirsi indesiderata. Non voleva che il futuro somigliasse anche solo lontanamente al presente. Strinse il ramo fra le mani, presa da una vertigine improvvisa, e cercò di concentrarsi sulla voce di Hiroko. «E vuoi sapere cosa non voglio? Non voglio tornare a Nagasaki. E nemmeno in Giappone. Non voglio nascondere queste bruciature che ho sulla schiena, ma nemmeno che la gente mi consideri solo una loro appendice. Una hibakusha. Odio quella parola. Ti riduce soltanto alla bomba. Ogni tuo atomo. Quindi adesso devo trovare qualcosa di diverso da desiderare, Elizabeth. E mi dispiace, siete stati così gentili, così incredibilmente generosi, ma trasferirmi a Londra con te e James non è la cosa giusta. Non è quello che voglio». «Cos’è che vuoi?» «Non lo so. Forse è... Sajjad». Lo disse come per mettere alla prova l’affermazione. Con tutta la delicatezza possibile, e malgrado i ragionamenti che aveva appena fatto sulla propria situazione, Elizabeth rispose: «Devi trovare il modo di dimenticarlo. La sua famiglia...» Le ultime tre parole colpirono Hiroko allo stomaco con una forza terribile. «Lo so. Hai ragione. Lo so». Chiuse gli occhi e posò la testa sulle ginocchia.
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Il mattino dopo aver seppellito Khadija Ashraf, i suoi quattro figli e il genero attraversarono uno dietro l’altro il cortile del Jama Masjid, seguendo un vecchio che spruzzava in terra l’acqua di un secchio per rinfrescare le pietre arroventate. Il vecchio era un asceta sufi che da anni bagnava la pietra arenaria del cortile per i familiari dei defunti. Ogni sera si raschiava la pelle morta dalle piante dei piedi, per assicurarsi che non smettessero di fargli male a contatto col pavimento rovente: avrebbe dovuto sopportare e poi superare la sofferenza per vie puramente spirituali. Khadija Ashraf aveva sempre disapprovato questo modo di pensare. «Sono i cristiani a credere che siamo nati per soffrire. I musulmani invece sanno che Allah — il Caritatevole, il Misericordioso — ha perdonato Adamo ed Eva per esser caduti in tentazione». Al che puntava un dito al cielo in segno d’accusa. «E anche tu avresti dovuto farlo: fosti tu a tentarli proibendo il frutto, non il serpente». Chi è mai questo Dio degli asceti che vuole essere raggiunto tramite la privazione? Sajjad ripeté fra sé le parole della madre, muovendo le labbra senza emettere suono. In punto di morte, Khadija Ashraf gli aveva sussurrato all’orecchio il rituale saluto che gli anziani rivolgono ai giovani — «Continua a vivere» — e adesso l’unica maniera per sopportare la sua mancanza era credere che una parte del suo spirito fosse entrata in lui con quell’ultimo respiro e gli si fosse rannicchiata vicino al cuore. Per quanto non credesse in queste cose, l’idea gli dava conforto. In un modo o nell’altro era sicuro che adesso la madre fosse dentro di lui, a dire la sua, a rimbrottarlo, a farlo ridere. Senza una parola deviò dalla traiettoria segnata dall’acqua e schiacciò forte i piedi per terra mentre si avvicinava al portico che correva lungo il perimetro della corte. Entrando da sotto un arco nell’ombra delle pietre, fu grato di quella frescura. Sentì Altamash che lo chiamava ma gli fece cenno di proseguire, poi circondò un pilastro con un braccio e con le dita ne sfiorò i rilievi, tenendo lo sguardo fisso sul Red Fort. Dilli. La mia Dilli. Oggi, però, l’eco che gli tornava dalla Città vecchia era 96
quello di un’assenza, non quello di un legame. «Sajjad, vieni a casa con noi». A parlare era suo cognato. «Tua sorella e io partiamo nel pomeriggio e prima dobbiamo parlare di diverse cose». «Vengo subito» rispose senza guardare gli uomini della famiglia, fermi alle sue spalle come una falange di guardie. «Se dobbiamo parlare tanto vale farlo adesso» intervenne il fratello Iqbal. «Io vi saluto appena usciti da qui. Oggi ho altri impegni». «Ho detto a vostra sorella che ne avremmo parlato tutti assieme. Non puoi rimandare, Iqbal?» «No». Altamash, il fratello maggiore, sbuffò infastidito. Ormai erano anni che nella mohalla si diceva che Iqbal era diventato l’amante di una cortigiana della Città vecchia. «Credi che non sappiamo di che impegni si tratta? Sei spudorato. L’unica promessa che hai fatto a tua madre è che saresti sempre tornato da tua moglie prima di mezzanotte, e la prima notte da che se n’è andata tu stai fuori fino all’alba». «Minaccia di trasferirsi in Pakistan» rispose Iqbal. Non c’era bisogno di specificare a chi si riferiva. «Ieri sera le ho detto che sono pronto a tutto pur di averla qui». Sajjad si voltò. «Hai minacciato la donna che dici di amare?» «Non l’ho minacciata. Le ho promesso che ci sposeremo». Imprecando, Altamash afferrò il braccio del fratello. «Ti sei dimenticato che hai già una moglie?» «Posso averne un’altra». «Se le tratti tutte e due allo stesso modo e la prima ti dà il permesso» precisò Sikandar, il più taciturno e religioso dei fratelli. «E sappiamo bene che non succederà nessuna delle due cose». «Perfino il Profeta aveva una moglie preferita» rispose Iqbal scostandosi da Altamash. «E se mia moglie non mi darà il permesso di sposarmi una seconda volta sarò ben lieto di chiedere il divorzio». Altamash riafferrò il braccio di Iqbal. 97
«Tu hai una moglie sola, e per i tuoi fratelli resterà comunque una sorella a prescindere da quanto male tu ti comporti. L’altra non l’accetteremo mai, e non accetteremo i figli che potrebbe darti. Non sarete mai i benvenuti nella nostra casa. E smetteremo di pagare i debiti che hai fatto per lei. Quanto ci vorrà perché torni alla vita che ha sempre fatto, quanto ci vorrà perché capisca che suo marito è un poveraccio e che il suo unico talento sono le mani bucate?» Iqbal si rivolse al cognato. «Non sarai tanto scortese con me, vero, fratello? Ci lascerai venire ad abitare con te a Lucknow?» «No, non posso. Non guardarmi in quel modo, Iqbal. Non approvo la tua scelta, e poi...» Distolse lo sguardo dai fratelli. «E poi, che cosa? Anche tu vuoi trasferirti in Pakistan?» Mentre lo diceva, Altamash non degnò di uno sguardo il cognato, continuando a fissare sdegnosamente Iqbal. «Sì». Con un lungo sospiro Sajjad si sedette sul muretto che correva tra i pilastri. Chino in avanti si tappò le orecchie per non sentire il tumulto di grida che seguì. Ormai stava andando tutto a rotoli. Nemmeno tre mesi fa aveva toccato la pelle di Hiroko: un momento, adesso lo riconosceva, di pura esaltazione. Ma l’esaltazione era sempre il campanello d’allarme del pianto: non aveva letto abbastanza poesia per saperlo? Avrebbe tollerato senza amarezza che averle accarezzato la schiena sarebbe rimasto il momento di massima intimità fra loro; malgrado desiderasse tutt’altro, capiva che era necessario e inevitabile. Neppure adesso riusciva a immaginare una circostanza in grado di produrre un esito diverso. Il dolore e il risentimento che lo avevano colto di sorpresa non erano stati causati da Hiroko, ma dal modo in cui i Burton lo avevano messo alla porta. Vedendo arrivare Lala Buksh con la liquidazione e l’offerta delle referenze, aveva capito che Hiroko doveva aver spiegato che Sajjad non era né «una bestia» né «uno stupratore». Per quanto una parte di lui avrebbe voluto buttarsi in ginocchio per il sollievo, un’altra parte, nel vedere quella liquidazione così generosa, aveva compreso che da loro non avrebbe più ricevuto scuse. Non si soffermò a pensare che era Elizabeth, non James, a dovergliele: nonostante i diverbi, i Burton agivano per molti versi in armonia, e se una delle metà non sapeva riconoscere l’ingiustizia che Sajjad aveva subito, toccava 98
all’altra farlo. «Ho chiuso con gli inglesi» aveva detto mentre cominciava a pensare al futuro, sollevato dall’obbligo di riconoscenza che lo aveva tenuto legato a James Burton, malgrado gli fosse chiaro da un pezzo che non avrebbe avuto altre possibilità di avanzamento. Altamash gli chiese di aiutarlo per qualche settimana nella ditta di calligrafìa, finché non avesse trovato un rimpiazzo per i fratelli Nazir: dopo aver lavorato con lui per anni erano in partenza per Karachi e sognavano di diventare i migliori artigiani della lingua in quell’accantonamento militare britannico, che a sua volta sognava un futuro nel nuovo stato del Pakistan non ancora confermato. Sua madre aveva insistito perché prendesse in mano la gestione finanziaria della ditta, così Sajjad aveva accettato il «periodo di prova di sei settimane con decorrenza immediata». Ma alla fine delle sei settimane era arrivato l’annuncio del ritiro degli inglesi e della creazione dei due stati indipendenti il giorno 15 agosto, a poco più di due mesi di distanza. Non era il momento giusto per pensare a un nuovo impiego: tutto era in subbuglio e ogni giorno portava con sé la notizia di nuove atrocità; relazioni che sembravano solide come l’acciaio si disintegravano al contatto con l’acidità della domanda: India o Pakistan? Nemmeno Sajjad riusciva più a fingere che la cosa non lo riguardasse, e nel sentire i racconti delle barbarie in corso si conficcava le unghie nei palmi delle mani e il suo cuore suonava un mesto addio per tutti gli abitanti di Dilli che sostenevano di non poter restare. Poi sua madre si era ammalata e il resto era passato in secondo piano. Ancora con le mani sulle orecchie alzò gli occhi sugli altri, tutti intenti a gridare e a gesticolare. Era affezionato a ognuno di loro, ma — se n’era appena reso conto — non si preoccupava tanto di deluderli. Guardò un fratello dopo l’altro, soppesandone il carattere e cercando di prevederne il futuro: Iqbal non avrebbe mai sposato questa sua donna se Altamash gli negava il sostegno finanziario, tuttavia sarebbe uscito a poco a poco dalle loro vite, rimpiazzando un’amante con un’altra fino a diventare estraneo ai suoi stessi figli. Ali Zaman — il cognato che non si dedicava mai a qualcosa se non buttandovisi a capofitto — si sarebbe trasferito in Pakistan per diventare un fanatico difensore della patria, che avrebbe finito per rendere seccanti le sue future visite a Dilli. Sikandar, la cui crescente religiosità aveva assunto una forma interiore, 99
meditativa, si sarebbe chiuso sempre di più nel suo mondo, al colmo della felicità quando, per esprimere l’armonia del Libro sacro, la sua penna fluida trasformava i versi del Corano in rose spiegate. E Altamash, già egualmente patriarca e poeta, si sarebbe cristallizzato in entrambi i ruoli, e avrebbe dispensato le sue massime in versi a quelli che vivevano con lui, accettando da loro tutto, eccetto la disobbedienza. Sajjad non riusciva a vedersi come un membro della famiglia. Non senza sua madre, che aveva saputo moderare gli eccessi di Iqbal, far rientrare Sikandar nel mondo della vita e delle risate, costituire il motivo principale per cui la figlia affezionatissima era venuta a trovarli da Lucknow due volte l’anno, ridurre Altamash da monarca a bambino con un solo sguardo. E per Sajjad aveva rappresentato la certezza che, per quanto avesse girovagato per Delhi, era al mondo di Dilli che sarebbe poi sempre tornato. Ma adesso quel mondo era sul punto di scomparire, e forse nemmeno la madre sarebbe riuscita a tenerne insieme i resti. Come poteva resistere in mezzo ai frantumi? E alla stessa stregua come poteva andarsene, da solo, quando per lui la solitudine non aveva mai rappresentato altro che l’attesa di rientrare nel mondo dell’amicizia? Si alzò di scatto e i fratelli, sorpresi, si zittirono. «Sto per chiedere la mano di una giapponese. Se accetterà di sposarmi metteremo su casa a Nuova Delhi e sarete tutti i benvenuti. Ma non metterò piede dove non verrà accettata». Allungò le braccia e con un gesto da nuotatore si fece largo tra i fratelli e uscì nella corte, un passo, due, finché il cuore ebbe un sussulto e lui prese a correre a spron battuto. Fuori dal cancello, un mercante che stava togliendosi le scarpe lo vide scattare, si convinse che le pietre fossero più calde del solito, si rimise le scarpe e se ne andò. Il mercante non aveva percorso neanche metà della scalinata quando fu superato da quel tale che correva, che a sua volta si era fermato giusto il tempo necessario per rimettersi le scarpe e adesso superava banchi del mercato, bambini e vecchi venerandi, sconcertando i piccioni che, nel vederlo arrivare, si alzavano in volo creando una pista di ali grigie nel cielo, dal Jama Masjid fino a casa degli Ashraf. E proprio là finì la sua corsa. 100
Quello che aveva in mente sarebbe stato un tradimento nei confronti della madre: lo sapeva. Ma lei gli aveva detto di continuare a vivere e quindi, se la morte l’aveva liberata dalle convenzioni, avrebbe capito che era proprio quello che il figlio stava facendo. Questo luogo, la mohalla, rappresentava già il passato. Presto i fantasmi sarebbero stati più numerosi delle presenze corporee, fra i suoi intimi. E c’era altro. C’era una ragazza che si era fidata di lui fino a spogliarsi per mostrargli i segni del dolore più profondo che Sajjad avesse mai incontrato. Aveva già la mano sulla porta, pronto a spalancarla e a ripetere alle donne ciò che aveva già detto ai mariti, quando con la coda dell’occhio vide qualcosa che lo fece fermare: un gatto rosso che passava come un lampo, ricordandogli il colore del vestito di Elizabeth Burton l’ultima volta che l’aveva vista. E se Hiroko avesse acconsentito, se si fossero trasferiti in una casa costruita senza tener conto di fratelli, cognate e nipoti, e poi anche a loro due fosse successo quello che era successo ai Burton? Eppure non erano infelici quando li aveva conosciuti. Sì, i litigi erano frequenti, ma avevano una certa leggerezza. Henry era una felicità da condividere, non un territorio da contendersi. E di tanto in tanto un gesto casuale — la mano di James sul polso di Elizabeth, le dita di lei che gli raddrizzavano la cravatta — suggerivano un aspetto fisico che a Sajjad faceva venir voglia di alzarsi e uscire, per evitare il complesso miscuglio di emozioni che portava con sé. E poi per gradi, così per gradi che osservarlo era stato una tortura, tutto ciò che li univa era andato in frantumi. Non c’era stato un momento preciso in cui le cose avevano cominciato ad andare storte; piuttosto, un costante accumularsi di offese e fraintendimenti. C’erano state discussioni sull’educazione di Henry, la vita professionale di James, il ruolo della «signora Burton» in società e i piatti offerti agli ospiti per cena, la partenza per Mussoorie, il collegio di Henry, la distanza fra lo steccato e un albero da piantare: diverbi che avrebbero potuto essere da poco, ma non lo erano stati. Il tempo li aveva allontanati l’uno dall’altra: questa era la spiegazione migliore che Sajjad aveva saputo darsi. Dunque che cosa avrebbe impedito al tempo di fare altrettanto a lui e Hiroko, lasciandoli soli in una casa senza altri alleati a cui rivolgersi, 101
altri familiari che riempissero di risate il silenzio? Quando, pochi minuti più tardi, i fratelli rientrarono in casa, trovarono Sajjad fermo davanti alla porta, a tracciare figure d’uccelli sul legno. «Fra noi fratelli eri tu quello che voleva più bene a nostra madre» disse Altamash mettendogli un braccio sulla spalla. «Non c’è da stupirsi che la sua morte ti abbia così scombussolato. Vieni. Appoggiati alla tua famiglia». Bussò con decisione, e quando la porta si aprì Altamash spinse dentro un docile Sajjad, convinto che la crisi fosse passata e non sarebbe stato più il caso di parlarne.
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«Ilse! Non puoi uccidere quel ragno. È un animale molto amato dai musulmani; Konrad mi ha raccontato la storia un giorno sul MeganeBashi, il ponte degli occhiali. Lo chiamano così perché con l’alta marea il riflesso dei due archi del ponte ricorda un paio di occhiali». «Dove quel pesce è saltato dal suo cuore dentro al tuo». «Sì. Oh, te l’ho già raccontato. E ti ho detto del ragno? Tesseva la tela, veloce come un fulmine, sull’apertura della grotta in cui si erano nascosti Maometto e il suo amico in fuga dalla Mecca, e i loro inseguitori si convinsero che non vi fosse entrato nessuno da un pezzo». «Che bella storia. Da chi l’aveva sentita Konrad?» Dopo un breve silenzio, Hiroko rispose in uno strano tono di voce: «Da Sajjad». James, che stava per entrare nel soggiorno del cottage, si era fermato esitante sulla soglia sentendole parlare in tedesco: a volte gli sembrava scortese costringerle con la propria presenza a ritornare all’inglese. Ma quando udì la parola «Sajjad» si voltò e uscì di casa, prendendo al volo l’impermeabile. Dopo giorni e giorni di piogge monsoniche il cielo si era schiarito, ma la visibilità rimaneva scarsa. Mussoorie era avvolta in una coltre di foschia ed era impossibile capire se quella cosa in fondo al giardino fosse un albero o una macchia di nebbia particolarmente fitta. Così fitta da poterla mordere, pensò James ricordando la nonna scozzese che descriveva la nebbia attorno alla casa nelle Highlands in cui era cresciuta. Si immaginò da vecchio, a vivere nelle Highlands nel vano tentativo di ritrovare le estati di Mussoorie. Ormai mancava solo qualche settimana al momento di lasciare l’India. Immaginava che Hiroko sarebbe partita insieme a loro per l’Inghilterra. Pungolò l’erba bagnata con la scarpa. Era l’ipotesi che tutti davano per scontata. E perché no? Sapeva divertire Elizabeth, un talento che lui stesso aveva posseduto in passato, senza sapere che di talento si trattava. 103
James fece il giro della casa, calpestando il giardino inzuppato, fino alla finestra del soggiorno. Che cosa avrebbe visto Elizabeth, se avesse guardato fuori? L’uomo che aveva sposato o una macchia di nebbia fitta? Nessuno, nemmeno Elizabeth avrebbe mai immaginato che potesse considerarsi in questi termini, ne era certo. E in verità non gli capitava spesso. Ma da quando Sajjad se n’era andato — era stato mandato via dopo essersela cercata, naturalmente, ma comunque... — ebbene, aveva l’impressione di essersi sbagliato su tutto. Non avrebbe mai rivisto Sajjad. Il pensiero continuava a riaffacciarsi, lo irritava con la sua insistenza. Continuava a dirsi che era stata la conclusione della faccenda a suscitare in lui questa sensazione di rimpianto. Perfino di rimorso. Eppure, nei momenti di massima sincerità, quando sentiva sua moglie e Hiroko ridere insieme, e una barriera più grande della lingua lo divideva da loro, capiva con chiarezza che la compagnia di Sajjad gli mancava. Il che naturalmente era assurdo. «James Burton». E adesso sento pure le voci, pensò James. «James Burton!» Si voltò. Nella foschia vide Sajjad che avanzava, vestito — come non lo aveva mai più visto, dopo il loro primo incontro — di un kurtapyjama in mussola bianca. Il grosso ombrello che teneva sottobraccio gli aveva lasciato un’impronta bagnata lungo il fianco. «Amico mio» si fece avanti James tendendo la mano. Sajjad la guardò confuso, James rise e gli strinse la spalla. «Non hai portato la scacchiera, suppongo». Sajjad si staccò. «Non sono qui per tornare ai miei doveri». «No, certo che no». James si guardò meravigliato la mano, sospesa a mezz’aria nel gesto di stringere la spalla di Sajjad, come se non sapesse bene che farne. Sajjad lo guardò impietosito, incapace di sostenere l’atteggiamento aggressivo che si era proposto di adottare, e con la mano spinse giù quella dell’inglese. «Ho appena letto un brano di Passaggio in India» disse James. «Un libro assurdo. Con un finale sciagurato. L’inglese e l’indiano si vogliono abbracciare ma la terra, il cielo e i cavalli non sono d’accordo, così 104
rimangono a distanza». «Sì, l’ho letto». «Non è questione di terra, cielo e cavalli, non è vero, Sajjad?» «No, signor Burton». «Puoi chiamarmi James, sai?» Sajjad spinse avanti le spalle dando segno di aver sentito il commento, ma non replicò. «Mi dispiace per quel che ti ha detto Elizabeth. E dispiace anche a lei. Avrai capito che ci siamo entrambi resi conto dell’errore prima ancora che Hiroko ci dicesse com’era andata». «Non lo sapevo, signor Burton. Non avevo modo di saperlo. E in questi mesi non vi siete messi in contatto per dirmelo». «Pensavo che l’avresti capito dal messaggio di Lala Buksh». «Quello che ho capito è che gli inglesi ammettono di aver sbagliato per salvaguardare l’illusione della propria correttezza ed equità, ma non si scusano se gli errori che commettono sono contro un indiano». James fece un passo indietro. «Da quando siamo diventati l’inglese e l’indiano invece di James e Sajjad?» «Giusto. Non è questione di nazionalità, ma di classe sociale. Mi avrebbe chiesto scusa se avessi studiato a Oxford». «Ero imbarazzato, Sajjad, non lo capisci? E anche mia moglie. E poi, che diavolo, come ti salta in mente di stare a guardare una donna che si spoglia? Non sei senza colpa in questa situazione, checché ne dica Hiroko. Come potevo chiederti di tornare, con lei ancora qui? E come potevo scusarmi in maniera credibile se non ero disposto a farti tornare? Maledizione». Batté con forza un rampicante, e urtò con le dita contro il muro di mattoni. Sajjad non riuscì a nascondere un lieve sobbalzo, come se fosse stato colpito. «Perché sei venuto, se non è per giocare a scacchi?» domandò James con calma, cercando di ignorare il dolore pulsante nelle dita. «È morta mia madre». «Mi dispiace, Sajjad, davvero». «Questo cambia tutto». 105
«Non ti riferirai a Hiroko?» «Intende impedirmi di vederla?» «No, naturalmente». «Allora vorrei vederla». «Eccomi». Aveva parlato in urdu. Ferme alle spalle di Sajjad, James vide Elizabeth e Hiroko. «Siamo qui da quando parlavate di E. M. Forster» disse Elizabeth avvicinandosi a James. «Non hai molto spirito di osservazione. Vieni, facciamo qualcosa per quella mano». Gli tirò la manica e lo accompagnò dentro, fermandosi solo per lanciare a Sajjad un inequivocabile sguardo di scusa, al quale lui rispose con un cenno del capo, come a dire che considerava chiusa la questione, anche se non l’avrebbe dimenticata. Quando la porta si chiuse dietro i Burton, Hiroko si avvicinò a Sajjad i loro sguardi fissi l’una negli occhi dell’altro. Gli prese il polso fra il pollice e l’indice, come Sajjad aveva preso il suo il giorno che era arrivata a Delhi. «Com’è morta?» «Un malanno dopo l’altro. L’ultimo è stato una polmonite». Posò la mano su quella di lei, che continuava a stringergli il polso. «L’ultima volta che ci siamo visti... non avevo nessuna intenzione di negare che la bomba sia stata una cosa terribile». «No, certo». Gli lasciò il polso e si allontanò di qualche passo prima di voltarsi di nuovo verso di lui. «Insomma sei venuto qui per me. Perché è morta tua madre». «Sono qui per te. Mia madre... sì, è vero: non sarei venuto se fosse ancora viva». Nelle ultime settimane si era immaginata che venisse a cercarla innumerevoli volte, pur credendolo impossibile. Ma questo non lo aveva immaginato. «Che cosa succede, la sua morte ha mandato all’aria i tuoi progetti matrimoniali? Ti precipiti qui cercando la prima che sia disposta a prepararti il tè al mattino e a massaggiarti la testa con l’olio di sera?» «Per una così non sarei venuto da Dilli fino a Mussoorie». 106
«Sei incredibilmente vanitoso» disse lei voltandogli le spalle e incamminandosi verso la quercia in fondo al giardino. «Fermati, ti prego. Fermati». Lei si fermò, e ancora dandogli le spalle attese che lui si avvicinasse. «Sono cresciuto credendo nella continuità, Hiroko». Non lo aveva mai sentito parlare in un tono così cupo. «Sono rimasto fedele a questo principio». «Non dire assurdità. La continuità per te sarebbe stata la ditta di calligrafia, non certo giocare a scacchi tutto il giorno con un inglese». «Ho zii e cugini che lavorano per gli inglesi. È quello che facciamo durante il giorno, un mestiere come un altro. E quando torniamo a casa ci togliamo la camicia e i pantaloni, li sostituiamo con un kurta-pyjama e ridiventiamo uomini della mohalla. Il nostro vero mondo». «Capisco. Dunque non ti ho mai visto nel tuo vero mondo?» «No, infatti». Alzò la mano nello spazio che li divideva. «E io non ti ho mai vista nel tuo». «Il mio non esiste più». «Nemmeno il mio. E non mi riferisco soltanto a mia madre. Questo Pakistan mi sta portando via tutti gli amici, mi sta rendendo estranee le strade di Dilli. Se ne vanno a migliaia, e se ne andranno altre migliaia. A cosa posso aggrapparmi? A un filo di aquilone appeso al nulla». «E allora?» «Devo imparare a vivere in un mondo nuovo. Con regole nuove. Come hai dovuto fare tu. Anzi, come stai ancora facendo. Forse ci sentiremmo meno soli se ci tenessimo compagnia. Nel cambiamento un po’ di costanza dà conforto». L’umidità del prato le era filtrata nelle scarpe. Aveva freddo, era infastidita e c’erano troppi aspetti di lui che non capiva. «Non potrei mai vivere come si aspettano le tue cognate». Era il suo modo di dirgli addio; Sajjad invece la considerò un’offerta. «Sì, certo» disse sorridendo con una felicità che le risultò incomprensibile. «Ci sono altre possibilità, naturalmente. C’è Nuova Delhi: un mondo completamente diverso, ma a pochi minuti di distanza in bicicletta. Una grande città deve sempre offrirti la scelta, e Dilli-Delhi è la 107
città più grande di tutte. Pensavo di andarci a vivere, sai». «Ah sì?» Adesso Hiroko aveva le idee molto confuse. «Sì, voglio comprare una casa, una casa non molto grande. Una di quelle moderne. E lavorerò in uno studio legale. Pochi giorni fa sono andato a parlare con un avvocato che conosco. Posso cominciare quando voglio». L’avvocato, che era indiano, aveva lavorato nello studio di James, e prima di andarsene aveva raccomandato a Sajjad di andarlo a trovare se mai avesse avuto bisogno di un impiego. «È ora che gli inglesi la smettano di prendersi tutto il merito per il nostro lavoro» gli aveva detto all’inizio della settimana, quando si erano incontrati. «Non hai qualifiche, ma troveremo una soluzione. In fatto di legge la sai molto più lunga di questi ragazzini freschi di laurea. È una sventura che James Burton abbia sprecato così il tuo talento». «Complimenti, Sajjad». Si scoprì sinceramente felice per lui. «Mi fa davvero piacere». «Resta soltanto un problema» disse lui con aria grave. «Ma forse tu mi puoi aiutare. Chi mi preparerà il tè al mattino?» «Oh». Hiroko sbatté le palpebre. «Io detesto il tè indiano». «Ah». Aveva fatto il possibile. Sotto sotto, non aveva mai creduto che lei accettasse. «Be’, allora ti auguro ogni bene». Tese la mano. Lei la strinse, e nessuno dei due lasciò la presa. Rimasero lì per un tempo che parve loro molto lungo, con le dita immobili nella stretta dell’altro. Poi lei prese il fiato, come per prepararsi a un’immersione in un mondo sottomarino. «Vieni con me. Voglio dirti una cosa». Sempre tenendolo per mano lo condusse a una panchina in mezzo a un padiglione, su un pendio vicino alla proprietà dei Burton. Quasi ogni giorno dalla panchina si vedevano chiaramente i monti dell’Himalaya, ma oggi sembrava l’ultima fermata prima del confine con un mondo nuovo. E lì, per la prima volta, Hiroko parlò di ciò che aveva vissuto quando era caduta la bomba. Mentre parlava la foschia si arrese alla pioggia: non una pioggia delicata, che parlasse piano di raccolti e di abbondanza, ma una pioggia violenta e martellante. Parevano fogli di acciaio liquido, e schiacciavano senza pietà ogni piccola creatura in cui si imbattevano. Mostruose 108
forme d’acqua prendevano vita per poi disintegrarsi sotto gli occhi di Sajjad mentre le sue lacrime scalfivano la pioggia. Se si fosse staccato da Hiroko sarebbe scivolato via liquefacendosi. Tutto di lei gli appariva precario. Quando Hiroko finì di parlare era stesa sulla panchina, con la testa in grembo a Sajjad e le mani di lui che le scorrevano leggere fra i capelli, quasi nel timore che cadessero se li avesse toccati con più decisione. «Quindi capisci che per correttezza non posso accettare di sposarmi con nessuno» concluse mettendosi seduta. «Nessuno conosce gli effetti di questa cosa a lungo termine. Non sanno se influirà sulla mia capacità di avere figli. Non sanno se mi ucciderà fra cinque anni». Lui si chinò avanti, in modo che le loro fronti quasi si toccassero. «Mi piace stare con te. Mi piacerebbe poter continuare a farlo. Ci avevo quasi rinunciato da solo per paura di un possibile futuro, ma se questi tempi hanno qualcosa da insegnarci è che non possiamo far nulla per prepararci al domani. Quindi tanto vale parlare di oggi». Lei sorrise. L’ottimismo: era quello il dono di Sajjad. Aprì la bocca per inspirarlo. «Posso chiederti se hai mai baciato una donna?» «Un gentiluomo non risponde a domande simili». «Voglio solo essere certa che tu ne sia capace. La mia decisione potrebbe risentirne». «Vuol dire che mi toccherà dimostrartelo».
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«Dove pensi che siano?» domandò James per la diciassettesima volta (Elizabeth aveva tenuto il conto, e non le era sfuggito che fra una ripetizione e l’altra passava sempre meno tempo). Guardava fuori dalla finestra del soggiorno e non vedeva altro che il calare della sera. «In realtà vuoi sapere cosa stanno facendo» rispose mentre si raggomitolava sul divano e prendeva il libro che aveva fatto finta di leggere da quando era tornata al cottage insieme a James, lasciando Hiroko e Sajjad da soli. «Se possiamo basarci su quello che facevamo noi nei momenti intimi, ai tempi in cui ci guardavamo in quel modo...» «Per l’amor del cielo, Elizabeth». «Ripensarci ti imbarazza» disse lei in tono distaccato. «Niente affatto». James si sedette in poltrona accanto a lei. «Però la situazione mi pare diversa. Non può certo avere in mente di sposarla». «E perché no? Perché sarebbe imbarazzante invitarli al nostro ricevimento di addio con la ‘buona società’ di Delhi? O perché Hiroko potrebbe continuare a contare sulla nostra ospitalità e presentarsi a Londra con lui, aspettandosi un letto? Che cosa direbbe tua madre? E i vicini?» Davanti allo sguardo irritato di James (una volta avrebbe riso e le avrebbe lanciato addosso un cuscino) aggiunse: «La madre di Sajjad è morta e questo cambia tutto. Non sarebbe tornato, se non avesse potuto chiederle di sposarlo. Questo le darà due opzioni: o lui o noi. Tu quale sceglieresti?» «Potresti almeno provare a parlarle». «Non mi ascolterebbe». «Quindi anche tu sei contraria?» si chinò appena in avanti. «Mi innervosisce non riuscire a immaginare come vivrebbe se lo sposasse. Non sappiamo niente di Delhi, al di là della nostra ristretta cerchia». «È un bravo ragazzo». «Un bravo ragazzo non è garanzia di successo per il matrimonio». Si guardarono, e James venne a sedersi sul divano vicino a lei. «Ri110
cominciamo da capo, quando siamo a Londra?» Dall’altra parte della stanza, in una busta chiusa, c’era la lettera che Elizabeth aveva finalmente scritto al cugino Wilhelm. Diceva, in tedesco: Caro Willie, da quanto dici New York sembra molto allettante. Sì, ci voglio proprio venire. Ma non con James: ho intenzione di lasciarlo. Ti prego di non parlarne con nessuno. Non lo sa ancora nemmeno lui. Tornerò in Inghilterra con lui e lo aiuterò a sistemarsi. E poi verrò a New York per capire se c’è ancora qualcosa di tua cugina Ilse da salvare in questo rottame solitario e amareggiato (ma sempre ben tenuto, sarai lieto di sapere) che è la signora Burton. Carissimo, perché non ti ho dato retta quando dicevi che non ero tagliata per fare la brava moglie? Ti scriverò da Londra quando i miei progetti saranno più definiti. Con affetto, I. Elizabeth gli toccò delicatamente la guancia. «Ricominceremo, James». James le diede un buffetto sulla mano e si alzò in fretta per nascondere le lacrime che gli salivano agli occhi. «Per quanto riguarda Londra, penso che ci toccherà partire prima del previsto. Direi il prima possibile». «Credevo che volessimo fare un’ultima stagione a Mussoorie». «Non so cosa succederà in questo paese il giorno in cui finirà il dominio britannico». Cominciò a camminare per la stanza. «Non hanno neanche stabilito i confini. Ci sono milioni di persone che non hanno idea del paese in cui si ritroveranno fra meno di un mese. Sarà una situazione folle. E a Delhi, con tutti i musulmani e gli induisti... Se la violenza arriva fin lì, sarà un massacro». «Ma James, come possiamo lasciare Hiroko in questa situazione, dopo tutto quello che ha passato?» «Be’, allora diglielo tu di non sposarlo». Ma ormai era troppo tardi. Se Kamran Ali, il vicino di casa, fosse entrato nel suo garage avrebbe notato che la MG SU cui aveva dato lezioni di guida a Hiroko era sparita. «Dove andiamo?» le aveva chiesto Sajjad qualche ora prima, sedendosi al posto del passeggero dopo aver spinto la macchina abbastanza 111
lontano dal cottage perché Hiroko potesse mettere in moto senza fare rumore. «Scusa se mi ripeto, ma se non gli importa che usi la sua macchina perché non hai acceso il motore in garage?» «Andiamo a sposarci» fu la risposta di Hiroko, che ebbe l’effetto di distogliere Sajjad dalla sua domanda. «Che cosa ci serve? Una moschea?» «Dovremo fare una cerimonia civile» rispose lui, non sembrandogli saggio abbracciarla ora che era intenta a tirare leve e pomelli sul cruscotto. «Per la legge musulmana non posso sposare qualcuno di un’altra religione a meno che sia cristiano o ebreo. E tu non sei né l’una né l’altra cosa, vero?» «Vero». Finalmente trovò la leva che cercava e accese i fari. I fiori più chiari cominciavano a macchiare la nebbia di colore, ma la visibilità era tutt’altro che buona. «Come si diventa musulmani?» «Si ripete tre volte la Kalima: la illaha ila llah Muhammad, rasul Allah». «Dillo più lentamente». Mentre l’auto saliva accelerando per la collina, i fiori che tentavano di spuntare dal grigiore circostante si fecero sempre meno nitidi. «Perché?» «Così posso ripeterlo tre volte». Sajjad restò in silenzio per un attimo. «Non vuoi nemmeno sapere cosa significa?» disse alla fine. «No. Non lo faccio perché ci credo, ma solo perché non vedo ragione di complicare ulteriormente le cose fra te e i tuoi parenti». Di nuovo lui restò in silenzio, e lei cominciò a preoccuparsi. «Ho offeso i tuoi princìpi?» «Sono soltanto sorpreso del tuo senso pratico». Le toccò il braccio. «E riconoscente». Non appena trovarono una moschea, Hiroko divenne musulmana. E mentre James domandava per la settima volta: «Dove pensi che siano?» Hiroko stava prendendo per mano lo sposo e lo conduceva in un boschetto appartato, con un terreno erboso che faceva cic ciac sotto i piedi nudi. Sajjad aveva una coperta gettata sulla spalla (il notevole sen112
so pratico di Hiroko l’aveva indotta a procurarsela una volta usciti dalla moschea, anche se Sajjad ne vedeva il motivo soltanto adesso). Mentre James ripeteva la domanda per l’ottava volta, i vestiti di Hiroko e di Sajjad erano appesi a un ramo e la brezza vi sparpagliava sopra dei fiorellini gialli. Alla nona volta, Sajjad stava cercando di ritrovare la voce per spiegare a Hiroko che è meglio non strizzare certe parti dell’anatomia maschile. Alla decima, la testa di Hiroko era piegata sotto il mento di Sajjad, e il suo respiro veloce gli arruffava i peli sul petto, mentre con le mani lui tracciava il contorno delle sue bruciature. All’undicesima erano stesi sulla coperta, e Hiroko stava rinunciando a trovare, nelle sue quattro lingue, un’espressione che descrivesse il piacere di far colare le gocce di pioggia da una foglia nell’ombelico di Sajjad, e poi incurvare la lingua per raccoglierle. («È un piacere nettareo» aveva detto Sajjad, e pur non potendolo sentire Hiroko fu certa che stesse toccando uno degli uccelli, e le parole e il gesto la indussero a baciarlo sulla bocca). Alla dodicesima, lei stava cominciando a pensare che il dolore che provava fosse dovuto all’inesperienza di lui, e fu sul punto di dirglielo. Alla tredicesima arrivò una volpe argentata incuriosita dai loro versi; se ne andò poi come un lampo, attraversando di corsa un sottile raggio di luce, e Sajjad si convinse di aver visto, al culmine del piacere, una vampata di luce stellare. Alla quattordicesima, Hiroko, che aveva visto la volpe per quello che era, posò il capo sul braccio di Sajjad e disse che in giapponese la volpe si chiama kitsune, una figura mitologica importante. «Le kitsune più vecchie e sagge sono le kyubi, che hanno nove code e il pelo argenteo o dorato. Muovendo una delle loro code possono provocare una pioggia monsonica» spiegò. «Quindi possiamo presumere che la schiarita di oggi sia un segno di benevolenza della nostra kyubi». «La nostra kyubi?» fece lui. «Sì, credo che abbiamo trovato una guida e un custode». Alla quindicesima, Hiroko pretese di sapere perché con la testa fosse sceso fino alla sua coscia, togliendo così il braccio che le faceva da cu113
scino. Lui glielo fece capire, e lei smise di lamentarsi. Alla sedicesima, scoprirono che il ramo a cui avevano appeso i vestiti era tutto bagnato, ma ne risero e basta. Alla diciassettesima stavano tornando a casa dei Burton, dove avevano stabilito che Hiroko si sarebbe fermata intanto che Sajjad tornava a Delhi e cercava una sistemazione per loro due. La nebbia si era alzata completamente e Sajjad, che non aveva mai visto le montagne, pensò che i picchi dell’Himalaya fossero circondati da turbinanti fiumi di neve, finché Hiroko disse: «Non fare lo sciocco, marito: sono nuvole». Non seguirà il pianto, pensò Sajjad mettendole un braccio attorno alle spalle. L’esaltazione è troppo grande. Nessun dispiacere potrebbe mai tener testa a questa gioia.
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Fermo sulle rive del Bosforo, Sajjad si domandò come avesse potuto trovare belle le moschee di Istanbul. Ora se ne rendeva conto: erano costruzioni tozze, con minareti troppo esili. Lo stesso Bosforo, invece del fiume che avrebbe dovuto essere, era uno stretto. E la lingua scritta, in caratteri romani! Come poteva un paese decidere di abbandonare la grazia dei caratteri arabi? Alla sola idea, intere generazioni di Ashraf calligrafi si rivoltavano nella tomba. No, qui non c’era nulla che soddisfacesse il suo senso estetico: nemmeno il declino di questa città dal grande passato aveva i ritmi giusti, la trama giusta, la maniera giusta di sospirare. James Burton. Era tutta colpa sua se si trovavano qui. Era stato così convincente, la sera che Sajjad e Hiroko erano entrati nel cottage, con Sajjad tremendamente imbarazzato per le macchie umide che aveva sui vestiti, annunciando di essersi sposati. Era ovvio che i Burton si aspettavano una notizia simile, ma forse non in quel momento. Elizabeth, se non altro, aveva simulato un minimo di felicità, mentre James aveva preso Sajjad sottobraccio e l’aveva condotto fuori. «Non puoi portarla a Delhi» aveva detto. Poi aveva cominciato a parlare in toni avvocateschi, come Sajjad non gli sentiva fare da un pezzo. «E i motivi sono questi» aveva detto parlando del possibile aumento della violenza, in vista e in conseguenza della Partizione. Analizzò in dettaglio la composizione della comunità di Delhi. Riferì le proprie riflessioni sulla natura della violenza e i suoi effetti, perfino sugli individui apparentemente più razionali. Gli atti che avrebbero fatto seguito alla disperazione, alla rabbia o alla difesa dei propri interessi. Pose a Sajjad una serie di domande che iniziavano con «Cosa faresti se...», chiedendogli di considerare come avrebbe reagito a una molteplicità di violazioni personali, religiose, comunitarie e familiari. E quando Sajjad si era accovacciato a terra con la testa fra le mani, James si era chinato, e toccandolo su una spalla gli aveva dato il colpo di grazia: «Di certo non vorrai aggiungere nuovi dolori a quello che Hiroko ha già dovuto sopportare». 115
Sajjad aveva sollevato lo sguardo come un supplice davanti a un saggio. «Ma che alternative ho?» James aveva teso la mano per aiutarlo ad alzarsi. L’ultimo suo gesto prima di lasciare questo luogo e questa gente: un ultimo atto di dominio benevolo, contro la marea sanguinosa della dipartita dell’impero dall’India. «A Mussoorie c’è un vecchio generale che vuole farvi un regalo di nozze». Era un’idea di Elizabeth. Sarebbe stato inutile dire a Hiroko di non sposare Sajjad, aveva detto a James; piuttosto, bisognava trovare un modo per tenerli lontani da Delhi finché «questa assurdità della Partizione non si fosse risolta». Si era messa a camminare avanti e indietro con lui, poi aveva esclamato: «Istanbul!» e preso in mano il telefono chiese del generale che aveva fermato Hiroko sulla passeggiata per parlare di fiori. La sua prima moglie, che era morta molti anni prima, era giapponese ed Elizabeth non vedeva ragione di non approfittare del sentimentalismo del vecchio nei confronti del suo amore perduto. «Ha una casa a Istanbul perché la seconda moglie era turca, ma non ci va dal ‘43. Però c’è un custode, e quando ha alzato il gomito il generale offre a chiunque di soggiornare nel suo yali sul Bosforo. E adesso, da sobrio, vi offre ospitalità per una prolungata luna di miele». Le lune di miele erano roba per gli inglesi. Se anche gli fosse venuto in mente di farne una, Sajjad non avrebbe potuto permettersela. Hiroko lo avrebbe capito. I suoi risparmi sarebbero andati tutti nella loro futura casa a Nuova Delhi. Tuttavia nella Città vecchia aveva sentito parlare di difesa, di vendetta, di infedeli e di giustizia, e sapeva che James Burton aveva ragione a dire che Hiroko non doveva assistere ad altre brutalità. Avrebbe trovato il modo per farsi prestare i soldi per la casa una volta tornati a Delhi. Era sembrata una scelta inevitabile, oltre che sensata. Sajjad voltò le spalle all’indiscutibile bellezza della Moschea Blu e tornò faticosamente al traghetto, che lo avrebbe portato allo yali del generale e da Hiroko. Immaginò di trovarla seduta alla finestra, a guardare i riflessi di luce sul Bosforo, e in quell’immagine trovò un barlume di pace. 116
In realtà, in quello stesso momento Hiroko era in piedi su un tavolo con la mano premuta contro il soffitto umido e imbarcato, nel tentativo di stabilire se c’era un pericolo immediato che cedesse. Lo yali, che in passato doveva esser stato magnifico, si trovava ormai in uno stato di totale abbandono. Il legno stava marcendo, la vernice rosso scuro dell’esterno era scrostata e buona parte delle finestre aveva i vetri rotti o non li aveva affatto. Ciò nonostante Hiroko si era affezionata a questo posto, nei mesi che aveva passato qui con Sajjad. Occupavano una stanza sola — quella sul retro che affacciava sul Bosforo, e che secondo Sajjad, da quando vi alloggiavano, si era inclinata in avanti di parecchi gradi — ma per loro due era abbastanza. Hiroko spostò un piede dal tavolo a una sedia e da lì scese a terra e tornò nella stanza, in cui le sembrava che aleggiasse vagamente l’odore che avevano lasciato al mattino facendo l’amore. Passò vicino alla cassettiera di palissandro e sfiorò il primo cassetto come se fosse un talismano. Conteneva il regalo di nozze di Elizabeth. «Questa apparteneva a Konrad» le aveva detto pochi minuti dopo che James aveva preso a braccetto Sajjad per trascinarlo fuori dal cottage. Aveva tolto una scatoletta di velluto da un armadio. «Glielo aveva regalato nostra nonna, per sua moglie. Sarebbe contento di sapere che l’hai tu». Hiroko aprì la scatola, e vedendo la parure di diamanti la restituì bruscamente a Elizabeth. «Lasciamo i grandi gesti agli uomini» disse Elizabeth. «Sei l’unica persona al mondo che ha diritto di averla. Non lo dico per rinfacciarti di aver sposato un altro. Non lo conoscevo bene, ma so per certo che Konrad non avrebbe voluto altro che la tua felicità. Prendila». «Tienilo per tua nuora» disse Hiroko. Non si sentiva affatto in colpa nei confronti di Konrad — le pareva quasi di intravvedere un disegno nel modo in cui aveva spinto sia lei che Sajjad a Bungle Oh! e l’uno verso l’altra — ma non intendeva rivendicare cose che non le spettavano. «E poi quando mai la potrei mettere?» «A volte sei davvero ottusa. Te la sto regalando. È tua. Quello che decidi di farne sono affari tuoi. Se non hai intenzione di mettertela, be’, allora...» Scrollò le spalle e a Hiroko parve di sentire, come se Elizabeth l’avesse pronunciata, l’esclamazione «vendila!». 117
Hiroko aveva teso la mano verso la scatoletta. Per un attimo Elizabeth era stata colta dall’istinto di ritrarsi — la parure era un regalo di James, e la prima notte di nozze lui le aveva messo il collier, il bracciale e gli orecchini mentre giaceva nuda sul letto — ma poi l’aveva lasciata scivolare in mano a Hiroko. Hiroko si allontanò dal cassettone e si mise comoda fra i cuscini disposti sulla poltrona vicino alla finestra. Fra non molto, tornati a Delhi, Sajjad avrebbe venduto il regalo di Elizabeth a un gioielliere di fiducia, e con i soldi avrebbe comprato la casa. Sulle prime si era decisamente opposto all’idea di indebitarsi in quel modo con Elizabeth Burton — buona parte di agosto era stata dedicata a discussioni sull’argomento — ma quando i risparmi avevano cominciato a ridursi e Hiroko si era dimostrata ogni giorno più inadatta a vivere nel rispetto delle tradizioni di famiglia, la sua resistenza si era allentata. Il sollievo di essere giunti a un accordo li aveva talmente sopraffatti che avevano passato le ultime settimane in uno stato di totale armonia, attenti a dimostrarsi generosi e sempre pronti, quasi per riconoscenza, a darla vinta all’altro su questioni di poco conto. Così doveva essere una luna di miele, aveva pensato Hiroko la sera prima, quando Sajjad le aveva spazzolato i capelli e le aveva detto che no, naturalmente non desiderava che fossero più lunghi di così, e chi se ne importava se nessun’altra donna della sua mohalla portava i capelli corti come un ragazzo. Lei si chiese come sarebbero andate le cose una volta conclusa la luna di miele. Si affacciò alla finestra per sentire l’aria fresca del Bosforo. Delhi in ottobre! Sajjad aveva proposto di aspettare ancora a partire, per arrivare più vicini all’inverno, ma lei sapeva che l’aveva detto sperando in un suo rifiuto, così l’aveva accontentato. Aveva visto come lo tormentava essere lontano da casa in settembre, quando i tumulti della Partizione avevano invaso Delhi e la Città vecchia era praticamente sotto assedio. «Non mi interessa tanto esserci» aveva detto una sera, coricato sulla pancia con il conforto del peso di lei sdraiata sopra di lui, le dita intrecciate alle sue. «Che cosa potrei fare? Unirmi agli uomini col mitra spianato che fanno la guardia a ogni entrata del quartiere? Oppure tirarmi indietro e chiudermi nella casa di famiglia? Sarebbe quella la situazione, sai. A Nuova Delhi stanno distruggendo le case dei musulmani, buttano giù dal letto le donne di notte...» Si voltò, e il chiaro di luna mostrò a Hiroko un’espressione insolitamente introspettiva. «Tutto quello che 118
diceva James Burton della violenza si è avverato. È la forma di follia più contagiosa. Non mi va di sapere che un mio amico di infanzia è diventato un assassino mentre eravamo via. Non mi va di sapere che cosa può aver fatto Iqbal di tutta la sua collera frustrata. No, non voglio esserci. Eppure mi sembra di tradirli». Non le aveva detto — né allora né in nessun’altra occasione — che li aveva lasciati per lei. Ma questo accadeva in settembre. Ormai la violenza era cessata, e malgrado Sajjad andasse dicendo che la Delhi in cui avrebbero fatto ritorno sarebbe stata diversa, niente poteva cambiare la vera essenza di Dilli. Lo disse enfatizzando il suono «dil» (che come le aveva spiegato nella prima lezione significava «cuore». Era arrossito nel dirlo, e notandolo era arrossita anche lei. Adesso le veniva da ridere, pensando a tutti i rossori della prima lezione. Quanto erano stati estranei, l’uno per l’altra e ognuno per se stesso). Sentì la porta che si apriva. Finalmente era tornato. Che assurdità dover chiedere al consolato indiano i documenti per rientrare a Delhi. Entrò nella stanza, e le bastò guardarlo per restare senza fiato. Senza dire una parola attraversò la stanza lentamente, trascinandosi con l’espressione di un uomo sconfitto. «Che cos’hai? Cos’è successo?» chiese mentre le si sedeva accanto, con cautela, come se avesse le ossa fragili. «Dicono che ho scelto di andarmene». Pronunciò le parole con lentezza, attentamente, come se fossero in una lingua straniera e cercasse di afferrarne il significato. «Dicono che sono uno dei musulmani che hanno scelto di andarsene dall’India. E la decisione è irrevocabile. Hiroko, non posso tornare a Dilli. Non posso tornare a casa». Hiroko gli restò vicina mentre lui si rannicchiava sul materasso. Lo chiamò per nome e con diverse parole affettuose in inglese, in urdu e in giapponese, ma lui non sentì la sua voce, coperta dal frullare dei piccioni e dal richiamo del muezzin di Jama Masjid e dalla cacofonia dei litigi dei fratelli e dalla baraonda dei mercanti e dei clienti a Chandini Chowk e dal fruscio delle foglie di palma nei monsoni e dalla risata dei nipoti e dalle grida di quelli che facevano volare gli aquiloni e dalla voce roca di un vicino mai visto che intonava ghazal prima dell’alba e poi dal battito del suo cuore, il frenetico battito del suo cuore... 119
GUERRIERI, IN PARTE ANGELI Pakistan, 1982-1983
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Hiroko Ashraf guardò la macchia di luce scivolare sul tavolo verso suo figlio Raza, concentrato sul cruciverba che gli aveva preparato. Il raggio di sole salì sul braccio di Raza, che era piegato sul foglio nella posa difensiva del primo della classe abituato a proteggere il compito scritto dagli sguardi dei compagni. Non riuscendo a convincere Raza a spostare il braccio, il sole strisciò su fino alle spalle, da dove poteva sbirciare la griglia con le definizioni in giapponese e in urdu e le soluzioni in tedesco e in inglese. Hiroko batté gli occhi una, due volte, e l’immagine svanì. Al posto del bambino il cui più grande divertimento erano i cruciverba multilingua e i racconti materni in cui ogni oggetto familiare — uccelli, mobili, sole, briciole, qualunque cosa — acquistava un carattere e un ruolo, vide un sedicenne intento a passare il dito sulle pagine patinate di riviste piene dei gadget elettronici che il suo cugino del Golfo si vantava di possedere. («Non ha una macchina fotografica?» aveva chiesto Sajjad. «Perché non ti manda una foto del suo costoso videoregistratore o della segreteria telefonica o della macchina, invece di questi ritagli di riviste che puoi comprare all’Urdu Bazaar? Ci sarà andato davvero all’estero? È pur sempre il figlio di Iqbal».) Strano, pensò Hiroko, che per più di cinquant’anni non avesse permesso alla nostalgia di insediarsi se non in modo estremamente temporaneo nella sua vita, malgrado tutti quei ricordi luccicanti — le passeggiate per Nagasaki insieme a Konrad, la vita comoda in casa dei Burton, i giorni della scoperta dell’amore a Istanbul con Sajjad — ma da quando Raza era stato risucchiato dall’adolescenza, lei aveva capito il desiderio di vivere in ritardo sui tempi. Una schiva donna giapponese alla fine della giornata, pensò fra sé, con un sorriso e un accenno di compiacimento per l’assurdità dell’idea. Raza alzò gli occhi, si accorse che la madre lo stava guardando e capì che doveva aver visto le foto patinate che lui aveva incollato nel libro di scuola, dopo che suo padre aveva insistito perché studiasse almeno sei ore al giorno per gli esami. Celò l’imbarazzo in un sospiro di insod121
disfazione, poi uscì nel cortile. Di questi tempi era impossibile capire chi sarebbe emerso di volta in volta dalle sembianze di suo figlio: un ragazzo dolce e affettuoso o una creatura torva, tutta silenzi e sfuriate. Ricordava benissimo il momento in cui la seconda aveva annunciato la propria presenza: tre anni prima, quando aveva chiesto al figlio tredicenne perché nemmeno un amico fosse venuto a trovarlo nelle ultime settimane. «Non posso invitare nessuno» aveva urlato in modo così inaspettato che Sajjad era entrato di corsa nella stanza, «con te che vai in giro a gambe nude. Non puoi diventare più pakistana?» In seguito, lei e Sajjad non avevano saputo bene se ridere o piangere al pensiero che la ribellione adolescenziale di loro figlio si manifestasse nel nazionalismo. Tuttavia per un certo tempo Hiroko aveva messo via i vestiti e aveva cominciato a portare un salwar kamiz in casa, un genere di indumento che in precedenza aveva riservato ai funerali e ad altre cerimonie di carattere religioso; Sajjad non aveva detto nulla, limitandosi allo sguardo vagamente offeso di chi vede sua moglie fare al figlio concessioni che a lui invece verrebbero di certo negate. In ogni caso, qualche mese dopo Raza aveva detto che i kamiz di Hiroko erano troppo stretti, e lei era tornata ai vestiti. Posò il giornale, con l’intenzione di ricordargli che era il giorno libero di Chota e avrebbe dovuto sparecchiare dopo mangiato, quando fu distratta dall’improvviso cinguettare dei passeri che mangiavano i semi dal piatto di terracotta appeso all’albero di neem. Guardò fuori in giardino e vide Raza che in piedi sotto l’albero guardava il cielo e intanto si puliva pigramente i denti con un ramoscello che aveva appena strappato. Hiroko sorrise. In aprile, al mattino presto, la brezza era fresca; suo figlio aveva quasi finito con gli esami e presto avrebbe potuto ritornare al mondo del cricket e dei sogni che gli dava tanto piacere; domani lei avrebbe pranzato con un amico del centro culturale giapponese e forse avrebbe rimediato qualche lavoro di traduzione, con cui avrebbe potuto comprare quel dipinto di Vecchia Delhi per i sessant’anni di Sajjad. Volse lo sguardo dal giardino al muro di fronte a lei, appena sopra il tavolo da pranzo. Gran parte delle case del quartiere avevano le pareti della sala da pranzo rivestite di foto incorniciate, dipinti, grandi riproduzioni di magnifici paesaggi o (nel caso dei più religiosi) scene di fedeli alla Ka’ba. Hiroko invece aveva sempre sostenuto che una stanza poteva avere una sola opera d’arte come punto focale. Per venticinque 122
anni, il punto focale di questa stanza era stato un dipinto sumi-e di due volpi annidate insieme, che Sajjad aveva commissionato per il prezzo di un gelato e di una spazzola per capelli colorata alla figlia quindicenne di un’amica di Hiroko del centro culturale giapponese: glielo aveva regalato per il decimo anniversario di nozze. Arricciò il naso con affetto guardando le volpi: le avrebbe trasferite in camera da letto, se fosse arrivato il dipinto di Delhi. Trentacinque anni di matrimonio! Suo marito stava per compierne sessanta, e a lei non mancava poi tanto. Provò a chiamarsi «vecchia» nelle sue varie lingue, ma le venne da ridere. No, non si sentiva affatto vecchia, e sicuramente non considerava vecchio Sajjad. Eppure una distanza incalcolabile li separava dalla coppia di giovani sposi arrivati a Karachi alla fine del ‘47, così incerti del domani. Il passare del tempo non ci ha fatti invecchiare, pensò annuendo, semmai ci ha appagati. Appagamento: a vent’anni avrebbe disdegnato questa parola. Che cosa sognava a quei tempi? Un mondo pieno di vestiti di seta e senza doveri. Rifletté sulla differenza fra «dovere» e «obbedienza»: ancora adesso, a quasi quarant’anni da Nagasaki, non ne voleva sapere della seconda, mentre il primo era diventato un tutt’uno con le parole «famiglia» e «amore». La porta della stanza accanto si aprì rumorosamente. Sajjad entrò sbadigliando in soggiorno e si chinò a raccogliere il giornale abbandonato dalla moglie, e nel farlo le sfregò con il pollice il neo sulla guancia. Quel gesto era un rito nato il primo mattino che si erano svegliati insieme, a bordo di una nave diretta a Istanbul da Bombay, cinque giorni dopo il matrimonio. «Controllo soltanto che lo scarabeo non sia volato via» aveva risposto Sajjad quando Hiroko aveva domandato cosa stesse facendo. «Raza non si è ancora svegliato?» chiese avvicinandosi al tavolo, dove si versò del tè con latte da un thermos e asciugò con la manica del kurta le gocce cadute sulla tovaglia di plastica, strappando a Hiroko un timido sospiro di esasperazione. Quel suono — come la scrollata di capo di Sajjad mentre svitava il tappo del thermos — erano le vestigia degli appassionati litigi del passato. Per Hiroko la schizzinosità era sinonimo di buone maniere. Per Sajjad, una tazza di tè fumante servita a un uomo di prima mattina da una donna della famiglia era una parte essenziale dell’intricato sistema di cortesie che costituivano la vita domesti123
ca. Talvolta, a ripensarci, i primi anni di matrimonio parevano a Hiroko come una serie di trattative: fra il suo concepire la casa come un rifugio privato e l’idea di Sajjad di spazio di socializzazione; fra la convinzione di lui che Hiroko sarebbe stata accolta dalla sua gente se si fosse vestita come loro e avesse onorato le loro festività religiose e la certezza di lei che tutto questo sarebbe passato per insincero, e che invece avrebbero dovuto imparare ad accettarla per quello che era; fra Sajjad il quale sosteneva che un uomo deve mantenere la moglie e la sua decisione di insegnare; fra il desiderio di pace di lui e l’istinto di ribellione di lei. Sapeva che il successo del matrimonio era basato sulla loro rispettiva capacità di accettare senza risentimenti l’esito più o meno vantaggioso di ogni trattativa. E contribuiva anche — come aveva detto una volta Sajjad, prendendole la mano mentre ne parlavano — il fatto di preferire l’uno la compagnia dell’altra a tutto il resto. Contribuivano anche altre cose, gli aveva risposto Hiroko sottovoce, quella notte. «Sì, è sveglio». Si sedette vicino a Sajjad e gli toccò il braccio. «Adesso non fargli la predica sul fatto di non mollare prima del traguardo. Lo farai solo arrabbiare». «Te l’ho già promesso, no? Ti pare che non mantenga le promesse?» Bagnò un tovagliolo di carta e glielo passò sull’attaccatura dei capelli. Da quando i capelli di Hiroko avevano cominciato a ingrigirsi era sempre possibile capire se aveva o non aveva letto i giornali del mattino guardandole le radici. Tracce di inchiostro dimostravano la sua abitudine di toccarsi l’attaccatura dei capelli mentre leggeva. «Non è per me che devi farlo, ma per lui» gli rispose con calma. Sajjad si mise comodo e bevve il suo tè. Si chiedeva spesso come sarebbero stati i rapporti con il figlio se fosse nato prima. Ormai sarebbe stato adulto, avrebbe avuto un lavoro e un buon salario, e a Sajjad si sarebbero risparmiati gli attacchi di panico sul suo futuro ogni volta che sentiva una piccola fitta al torace o si svegliava con un dolore nuovo. Invece, dopo l’aborto che aveva avuto nel ‘48, Hiroko aveva cominciato a temere che le radiazioni subite dal suo corpo avrebbero danneggiato anche un eventuale figlio nato dal suo grembo, e malgrado tutti i suoi tentativi Sajjad non era riuscito a farle cambiare idea. Ma poi a quarantun anni era rimasta incinta. E Sajjad si era ritrovato a contare con pani124
co crescente gli anni che mancavano alla pensione, pur avendo fino a quel momento visto la propria situazione finanziaria con la tranquillità di chi possiede la casa in cui vive (era stata comprata con i diamanti di Elizabeth Burton), non ha figli, si aspetta una buona pensione e ha una moglie che lavora. È strano e imprevedibile come un vicolo possa sbucare in un altro vicolo mentre ci si fa strada nel mondo, rifletté Sajjad mentre masticando pensierosamente inzuppava nel tè un pezzo di pane. All’inizio del 1947 si aspettava di sposare entro l’anno una donna delle cui qualità sarebbe venuto a conoscenza soltanto dopo la firma del contratto; una donna, lo sapeva, scelta soprattutto per la sua capacità di amalgamarsi nel mondo in cui era cresciuto. E si aspettava che quel mondo, il mondo della mohalla, sarebbe stato il mondo per il resto dei suoi giorni, e dei giorni dei suoi figli e dei figli dei suoi figli. Se avesse saputo allora che prima dell’autunno avrebbe perso Dilli — per la donna che aveva scelto contro il volere della famiglia — avrebbe pianto, avrebbe recitato i versi in cui il grande poeta Ghalib piangeva la perdita di Delhi, avrebbe maledetto la follia e l’ingiustizia della passione ed evocato le scene e i rumori di Dilli, il carattere della vita quotidiana che certo lo avrebbero tormentato per sempre, facendo di ogni altro luogo un deserto di tristezza. Mai si sarebbe aspettato di sentirsi a casa a Karachi, e che il rimpianto più amaro fosse aver rinunciato alla sicurezza della grande famiglia tradizionale indiana. Adesso, però, anche quel rimpianto stava svanendo. Raza aveva sedici anni e con un anno d’anticipo rispetto agli altri ragazzi del quartiere stava già dando gli esami di maturità — Sajjad lanciò un’occhiata soddisfatta a sua moglie, a cui aveva sempre attribuito tutto il merito per l’intelligenza di Raza — e presto si sarebbe iscritto a legge, e si sarebbe lanciato verso un reddito sicuro e un futuro luminoso di cui ogni padre sarebbe andato fiero. Solo allora, si riprometteva Sajjad, avrebbe smesso di essere tanto esigente con Raza, di insistere tanto sui risultati, di non avere pazienza con il suo lato più frivolo, e si sarebbe concesso il lusso di rilassarsi in compagnia del figlio. «Eccolo» disse Sajjad alzandosi in piedi mentre Raza tornava in soggiorno, i pantaloni grigi e la camicia bianca appena stirati e i capelli impomatati all’indietro a indicare che oggi avrebbe indossato l’uniforme della scuola per l’ultima volta. In genere i capelli gli cadevano sugli oc125
chi, celando il volto al mondo. Adesso invece la sorpresa degli occhi e gli zigomi di sua madre che cedevano il passo al naso e alla bocca del padre era evidente, e bellissima. «Mi ero dimenticato come sei bello quando ti dai una ripulita» disse. Poi, sentendo Hiroko che sbuffava spazientita aggiunse: «Cosa c’è? Era un complimento». «Devo andare» disse Raza. «Non voglio fare tardi». «Aspetta un attimo. Stasera esci a festeggiare con gli amici?» Raza scosse il capo. «Devono dare quasi tutti ancora un paio di scritti. Usciremo venerdì». «Allora stasera andiamo a mangiare cinese» disse Sajjad con entusiasmo, guardando Hiroko per non perdersi il suo sorriso di piacere. «E tu potrai metterti questa. Ecco, non mi va di aspettare fino a stasera per dartela». Fece cenno al figlio di avvicinarsi, scostò con cautela la tovaglia a fiori dal baule in metallo che faceva da tavolo e lo aprì, liberando un odore di naftalina. «Avrei dovuto darle aria» borbottò Sajjad mentre tirava fuori una cosa avvolta in un tessuto leggero e faceva cenno al figlio di avvicinarsi. «Ecco». Si alzò, tendendo a Raza una giacca di cashmere beige. «Fatta in Savile Row». «Una via di Delhi?» domandò Raza toccando la manica della giacca. «Di Londra». Hiroko vide le mani di Raza staccarsi dalla giacca. Girò i palmi verso la luce per vedere se erano sporchi, poi tornò ad accarezzare lentamente la giacca, con delicatezza. Hiroko sorrise quando Sajjad aiutò il figlio a indossare la giacca che portava la prima volta che si erano visti. «Miei lord» disse divertita, «mi dispiace farvelo notare, ma l’inverno è finito». «Ah, il pragmatismo degli Ashraf! Nel ristorante ci sarà l’aria condizionata e Raza se la potrà mettere una volta entrati». Poi tolse qualcosa che non c’era dal bavero, una scusa per toccare suo figlio. Era in presenza di Hiroko che il suo affetto per Raza si faceva più intenso, indissolubile dall’amore per la moglie. Quei primi anni di matrimonio — con quelle che Hiroko chiamava trattative, sconvolgendolo ancora adesso con il realismo con cui affrontava le situazioni più intime — lui li 126
ricordava in modo completamente diverso. All’inizio, sempre la paura di perderla. Era una donna che sapeva di poter sopravvivere se si fosse lasciata tutto alle spalle. E certe notti si svegliava e la trovava a fissarlo, come immaginandosi di vivere senza di lui, o esercitandosi a farlo. Su Sajjad lo sradicamento aveva un effetto diverso: si era convinto di poter resistere solo perché c’era lei, che senza di lei avrebbe perduto tutto. Quanto alle «trattative», fosse stato per lui gliel’avrebbe data sempre vinta, ma Hiroko lo avrebbe disprezzato. Perciò, alla base di ogni negoziato c’erano i suoi calcoli su dove arrendersi e dove tener duro per non perdere l’amore e il rispetto di lei. Col passare degli anni la paura che lo lasciasse era diminuita, ma non era scomparsa del tutto fino al giorno in cui era nato Raza: era entrato nella stanza d’ospedale e aveva visto la moglie che stringeva il figlio terrorizzata, come se le avessero affidato qualcosa che non avrebbe mai potuto abbandonare, perché se l’avesse perso non sarebbe sopravvissuta. Aveva guardato Sajjad in un modo del tutto nuovo, e lui aveva capito che sarebbe stata quella creaturina piangente a tenerla legata al loro matrimonio. Quando glielo aveva confessato, anni dopo, lei lo aveva preso in giro. «Insomma se avessimo avuto subito un bambino saresti stato un marito dispotico, invece dell’uomo generoso e accomodante con cui ho vissuto per tutti questi anni?» Tuttavia non aveva mai negato di essersi immaginata una vita senza di lui, o che — quando lui le aveva spiegato le sue paure — la nuova vita sarebbe stata in compagnia di Elizabeth Burton, oggi Ilse Weiss, la quale in ogni lettera, i primi anni, non aveva fatto altro che implorare Hiroko di trasferirsi a New York, senza mai nominare Sajjad. «Posso metterla stasera?» domandò Raza mentre accarezzava le maniche della giacca e si chiedeva se il cugino di Dubai, avesse qualcosa di altrettanto bello. Sajjad baciò il figlio sulla fronte. «È tua. Un regalo per il mio giovane avvocato. Sono fiero di te». Raza si tolse la giacca e la piegò con cura. «Non sono ancora avvocato» rispose. «È solo questione di tempo». L’espressione di Sajjad era insolitamente pensierosa. «È così che si fa. Si va a scuola, poi all’università, si 127
danno tutti gli esami, si dimostrano capacità e conoscenze. Poi nessuno può portartelo via». «Sì, aba» rispose automaticamente Raza. Ogni padre del quartiere, ognuno con la sua storia di ciò che aveva perduto e poi ricostruito in Pakistan dopo la Partizione, faceva un discorso simile al figlio. Forse doveva ringraziare il cielo che fosse la legge, invece della medicina o dell’ingegneria, cui ci si aspettava che dedicasse la propria esistenza. Ma anche per quello gli era difficile essere riconoscente quando, fra le dune di sabbia, esisteva un mondo in cui ragazzi come suo cugino Altamash, che nemmeno avevano finito la scuola, potevano lavorare in ufficio in qualche albergo con le scale mobili, gli ascensori e i pavimenti di marmo, e guadagnare abbastanza da potersi permettere tutta quella roba nuova fiammante, e mettere da parte qualcosa da spedire alle famiglie. Per tutti quegli anni si era detto felicissimo del suo posto di direttore generale nella fabbrica di saponette, pensò Hiroko guardando il marito, ma da quando era nato Raza non faceva altro che parlare di avvocati. Aveva fatto un solo tentativo, appena arrivati a Karachi, di rientrare nella professione in cui aveva sempre immaginato di distinguersi in futuro. L’avvocato a cui si era rivolto gli aveva detto che poteva cominciare il giorno dopo, ma con uno stipendio da impiegato, una somma ridicola. Quando Sajjad aveva elencato tutto quel che sapeva fare, l’altro aveva ribattuto: «Non ha qualifiche». Sajjad si era irrigidito, aveva fatto il nome dell’avvocato che gli aveva offerto lavoro a Delhi e si era sentito dire che era morto — no, non durante i tumulti, ma in un incidente di caccia. Dopo una sola notte passata a disperarsi Sajjad era andato a trovare Kamran Ali, appena immigrato e pieno di contatti (con la sua auto lui e Hiroko erano andati a sposarsi nella nebbia di Mussoorie). Tornò a casa raggiante, annunciando: «Direttore generale! Di una fabbrica con più di cento operai!» come se non avesse mai desiderato altro nella vita. Ed era vero, Hiroko lo sapeva, che era soddisfatto di quel ruolo autorevole, di essere rispettato e benvoluto, di poter mantenere la moglie e il figlio, e in buona parte anche la famiglia di quel dissoluto di suo fratello Iqbal, a Lahore. Adesso, però, tutti quegli altri sogni — una carriera che gli avrebbe dato più che una semplice soddisfazione — erano piombati addosso a Raza. Se almeno avesse ammesso di avere altri progetti, lei avrebbe trovato il modo di far capire a Sajjad il danno che stava facen128
do. Invece Raza la buttava sul ridere, quando lei sollevava l’argomento, e diceva: «Habeas corpus! A priori! Aggiungeremo il latino all’elenco delle mie lingue, ami». «Perché mai sarai tanto adorato?» borbottò Hiroko al marito, mentre prendeva la giacca col suo odore penetrante di naftalina e la portava in giardino a prendere aria. «Più adorante che adorato» le urlò dietro lui, poi mise una mano sulla schiena a Raza e gli diede una spintarella. «Vai, mio principe. Ritorna vincitore». Raza si buttò la borsa a tracolla — dentro c’era il libro su cui contava di fare un ripasso all’ultimo minuto, approfittando dell’ora di pausa per il pranzo dopo la lezione di storia — e baciò sua madre sulla guancia prima di incamminarsi per il breve tragitto dalla sua tranquilla via residenziale alla strada dei negozi, dove tre ragazzi del quartiere stavano già aspettando l’autobus. Era presto e buona parte delle botteghe era ancora chiusa, anche se le pubblicità dipinte sulle saracinesche garantivano comunque che ci fosse sempre una qualche forma di presenza commerciale. Dall’altra parte della strada alcuni uomini scaricavano da un furgone casse di polli stramazzanti da portare nella macelleria accanto al negozio di fiori, che faceva affari d’oro nonostante il puzzo di sangue proveniente dal vicino. «Se lavori con matrimoni e funerali» diceva il fiorista, «niente può impedirti di avere successo, a parte la concorrenza di un altro fiorista». «Junior!» gridò Bilal, uno dei ragazzi, per salutare Raza, e fece roteare il braccio per gettargli un torsolo di mela fra le gambe. Raza, già pronto, aveva tirato fuori dalla borsa il libro di scuola, e lo usò per deviare elegantemente il torsolo verso il marciapiede, dove venne subito portato via da un corvo. «Guardate quanto è fico il nostro Junior» disse Bilal serrandogli affettuosamente la testa col braccio. «Tutto impomatato e stirato a puntino». Il nomignolo «Junior» gli era rimasto appiccicato da quando, a dieci anni, i suoi insegnanti avevano deciso che saltasse un anno e prendesse posto fra gli undicenni. «Bilal, l’ho stirata io quella camicia. Se la stropicci mi farai molto arrabbiare». Sentendo la voce di Hiroko i ragazzi si voltarono sorridendo e rad129
drizzarono la schiena, col risultato di rendere improvvisamente infantili i loro volti da diciassettenni. Mentre tutte le altre madri della zona venivano chiamate «zia», Hiroko era «la signora Ashraf»: l’amata ex insegnante, alla quale bastava una minaccia di disapprovazione per ottenere subito obbedienza e rispetto. Nei primi anni Cinquanta, quando si era trasferita con Sajjad e aveva trovato lavoro come insegnante nella scuola del quartiere appena costruito, i suoi primi alleati erano stati gli allievi, che in lei avevano riconosciuto una donna impermeabile ai raggiri e alle lusinghe, ma i cui sorrisi di approvazione e incoraggiamento sapevano rendere eroica una giornata di scuola. Tramite i figli aveva conquistato le madri, che sulle prime si erano mostrate sospettose nei riguardi della giapponese con i vestiti stretti in vita. E una volta che le madri avevano preso posizione, il resto del quartiere si era adeguato. «Non hai preso i soldi per mangiare» disse a Raza porgendogli una banconota da cinque rupie. «E offri qualcosa ai tuoi amici. Adesso sbrigati, che arriva l’autobus». L’autobus di colore vivace stava venendo di gran carriera verso di loro nella quiete del mattino, e più che fermarsi rallentò per far montare i ragazzi, che ci saltarono sopra con esclamazioni vittoriose. «Sayonara!» gridarono tutti insieme a Hiroko mentre l’autobus riprendeva velocità. O almeno tutti tranne Raza, che il giapponese lo parlava soltanto in privato, e non contravveniva a quella regola neppure quando i suoi amici si beavano di mostrare a sua madre che conoscevano un paio di termini imparati da un libro o da un film. Perché avrebbe dovuto far vedere che nella sua mente c’era spazio per la lingua di un paese che non aveva mai visitato? Non bastavano gli occhi, la struttura ossea e una madre che se ne andava in giro a gambe scoperte a distinguerlo? Tanti anni fa, quando aveva messo piede in una classe di bambini più grandi, a un’età in cui un anno fa una differenza considerevole, l’insegnante aveva commentato che non ci aveva messo molto a integrarsi. Non aveva voluto rivelare che non era stato per una dote di natura, ma per la sua esperienza — acquisita fin dall’infanzia — nel minimizzare una manifesta diversità.
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Hiroko lasciò il rifugio della libreria, con i suoi muri spessi e il lento ronzio dei ventilatori, per buttarsi nel caos e nel caldo infernale di Saddar. I primi tempi era questa la parte che preferiva di Karachi, quando praticamente ogni edificio coloniale di mattoni gialli ospitava un caffè o una libreria; ma poi la strada si era riempita dei gas di scarico degli autobus, gli allegri studenti universitari erano spariti nel nuovo campus più lontano e gli immigranti che avevano affollato i campi profughi dei paraggi si erano messi in viaggio in bicicletta per le città satellite. Ormai, ogni volta che ci veniva, qualche altra libreria o caffè aveva chiuso i battenti, per fare spazio in genere a uno di quei negozi di elettronica in cui suo figlio si divertiva a bighellonare. Le mancava soprattutto il Jimmy’s Coffee Shop, le sue scale art-déco che portavano alla «zona famiglie» con i muri di un verde livido, nella quale per anni si era ritrovata con un gruppo di donne giapponesi alle cinque di ogni primo sabato del mese. Gli incontri avevano avuto inizio nei primi mesi del ‘48, quando lei e Sajjad abitavano ancora nel campo profughi lì vicino; una sera lui era corso a dirle che aveva conosciuto una giapponese, che il marito lavorava all’ambasciata e che era seduta in un bar in attesa di conoscerla. Tramite lei, Hiroko aveva incontrato le altre mogli giapponesi di Karachi ed era stata invitata ai loro raduni mensili da Jimmy’s: aveva significato molto, più di quanto avesse creduto, la prospettiva di chiacchierare e ridere in giapponese ogni settimana. Eppure non aveva detto a nessuna degli uccelli che aveva sulla schiena. Ripensandoci adesso, si rendeva conto che aveva cominciato a sentirsi «a casa» a Karachi il giorno in cui era riuscita a raccontare alle amiche del quartiere di essere sopravvissuta alla bomba, mentre con le giapponesi aveva sempre sostenuto che, pur essendo cresciuta a Nagasaki, quel giorno si trovava a Tokyo. Facevano un gelato meraviglioso, in quel caffè, e lei chiuse gli occhi per rievocarlo. La verità era che gli incontri si erano svuotati di significato nel 1960, quando la capitale era stata trasferita a Islamabad e l’ambasciata giapponese aveva subito lo stesso destino. Malgrado gli 131
incontri fossero continuati, il caffè aveva smesso di riservare a loro l’intera «zona famiglie» e la partecipazione di Hiroko si era fatta sporadica dopo la nascita di Raza, finché la demolizione dello stabile pochi anni prima aveva messo fine definitivamente alle riunioni. Hiroko adesso le rimpiangeva, anche se negli ultimi anni le aveva frequentate più che altro perché si sentiva in obbligo: per il gruppo era diventata la fonte di informazione principale su tutto ciò che riguardava Karachi. Verso la fine si era spesso domandata se alle nuove arrivate sembrasse straniera quanto loro parevano a lei: così giapponesi!, le capitava a volte di pensare. La sola con cui ne poteva parlare era Rehana, la pakistana del gruppo, che aveva passato vent’anni a Tokyo prima che il marito, un giapponese, mettesse in piedi una fabbrica di automobili a Karachi. Rehana era cresciuta sulle colline di Abbottabad, e diceva che, pur appartenendo al paese della sua infanzia, Karachi le sembrava straniera quanto Tokyo. «Ma ormai mi sento a casa nel ruolo di straniera» aveva detto, e in quell’istante Hiroko aveva visto in lei un’amica. Da due anni però Rehana era tornata ad Abbottabad — si era trasferita dopo la morte del marito — e potevano passare dei mesi senza che Hiroko vedesse le altre del gruppo al centro culturale giapponese, malgrado fosse ancora affezionata a parecchie di loro. Anche a Saddar era ancora affezionata, nonostante i negozi di elettronica e la scomparsa di Jimmy’s, rifletté mentre si guardava attorno. C’era un mondo a livello della strada — frenetico, sgomitante, tutto concentrato sul momento: venditori ambulanti, grandi vetrine e insegne luminose, tombini spalancati, trattative fulminee, clacson strombazzanti, stridio di freni e rombo di motori, la fretta, il battito della vita cittadina — e poi, più in alto, se stavi fermo immobile malgrado i passanti e guardavi le finestre ad arco, le cupole, i rilievi elaborati, c’era un altro mondo, di edifici costruiti nella convinzione che la vita si muovesse a un passo diverso, più elegante e pomposo. Le andava benissimo che la pomposità fosse stata eliminata, però nell’atmosfera si era infiltrato un altro elemento, ancora peggiore dei negozi di elettronica, che la faceva sentire a disagio. Pochi minuti prima stava comprando Guerra e pace per rimpiazzare la sua copia malridotta e scuotendo la testa si era ricordata con affettuosa esasperazione di Raza, che sosteneva di voler prima imparare il russo e poi leggerlo. In quel mentre le si era avvicinato un uomo dall’aspetto del tutto ordinario, che 132
aveva detto: «Non legga i loro libri. Sono nemici dell’islam». Dopo che se ne fu andato il libraio si scusò. «Viviamo in una strana epoca» disse. «L’altro giorno è arrivato un gruppo di sbarbatelli che si sono messi a tirare giù tutti i libri dagli scaffali. Guardavano le copertine e cercavano quelle nemiche dell’islam». «Cos’è che rende una copertina nemica dell’islam?» domandò Hiroko. «La ritrattistica» rispose lui. «Soprattutto quella femminile. Per fortuna li ha visti un poliziotto che passava di qua. Però non so cosa stia succedendo in questo paese». «Finirà presto» lo rassicurò Hiroko. Quando un collega in sala insegnanti si lamentava dell’ondata di religiosità aggressiva che stava affiorando in certi allievi, Hiroko ribatteva sempre che, paragonato al sogno di diventare kamikaze dei suoi primi alunni lo strano fervore per un mondo fatto di rigidità dei giovani di Karachi era soltanto una posa giovanile. E comunque, per loro niente avrebbe potuto soppiantare il culto del cricket. Hiroko si guardò intorno per cercare suo figlio, e ignorò il mendicante storpio, che si era precipitato dall’altra parte della strada su una cassetta della frutta dotata di rotelle, nella speranza di strappare alla forestiera la pietà da tempo negatagli dalla gente del posto. Raza era in ritardo, cosa insolita, ma nelle ultime settimane, da quando aveva finito gli esami, in effetti era un po’ strano. Non riusciva a spiegare a Sajjad con precisione cosa la disturbasse, oltre a dire che c’era una nota falsa nel ragazzo, quando faceva di tutto per godersela il più possibile prima di iniziare l’università e parlava di diritto in tono concitato, vantandosi che quando fossero stati pubblicati i risultati degli esami il suo nome sarebbe stato in cima alla lista; proprio lui, che era sempre stato così cauto nel parlare dei suoi successi. Hiroko si pentì di avere accettato la proposta degli insegnanti di fargli guadagnare un anno: dal punto di vista intellettivo era pronto, ma fra i sedici e i diciassette anni si matura molto, e Hiroko si chiese se fosse davvero pronto per la prossima fase della vita. «Mamma!» Raza accostò l’auto di Sajjad e si sporse in fuori per toglierle di mano la pesante borsa dei libri, incurante dei clacson che suonavano alle sue spalle. 133
«Aspetta» gli disse lei. «Ho dimenticato dentro le altre cose che ho comprato. Fa’ il giro dell’isolato e torna qui». Senza aspettare risposta rientrò come un fulmine nel negozio. Raza restò dov’era, gustando quasi con masochismo l’umidità immobile che gli bagnava di sudore la camicia. Quando i clacson si fecero più insistenti fece cenno alle macchine di passare, malgrado non ci fosse spazio per farlo. Il mendicante storpio alzò una mano supplicante verso il finestrino, ma l’indifferente «Perdonami» di Raza — un’espressione più abitudinaria che sincera — lo convinse che da lui non avrebbe ottenuto nulla. Mentre quello si allontanava, Raza sfiorò il giornale della sera appoggiato sul cruscotto, il cui riflesso nel parabrezza rivelava delle colonne di nomi: i risultati degli esami. Con una smorfia lo prese e lo infilò sotto il tappetino del posto di guida. Poi quasi subito cambiò idea e lo mise di nuovo sul cruscotto. Se non altro, finalmente era accaduto. Basta con le bugie e con gli inganni. Nel tempo che ci avrebbe messo ad arrivare a casa tutti i ragazzi del quartiere avrebbero visto il giornale. Si domandò chi per primo si sarebbe accorto, scorrendo i nomi dei promossi, che quello di Raza non c’era, e non per una svista. E quando gli avessero chiesto cos’era successo, quando avessero insistito perché facesse ricorso per rimediare a quel palese errore — perché non poteva essere altrimenti, vero Junior?, visto che anche un idiota prende il trentatré per cento sufficiente per passare — che cosa avrebbe detto? Come avrebbe potuto spiegare, quando nemmeno lui lo capiva, che cos’era successo l’ultimo giorno d’esame, quando si era seduto per affrontare lo scritto di studi islamici? Il momento di panico iniziale, quando aveva guardato le domande, non gli era affatto nuovo. Da anni conosceva bene quel nauseante senso di caduta libera quando gli occhi saltavano da una domanda all’altra, incapaci di leggerne una fino in fondo prima di schizzare avanti, mentre parole e frasi si raggrumavano insieme in una massa indecifrabile. Ma poi in genere Raza si calmava, si costringeva a leggere lentamente e le parole si caricavano di significato, le risposte uscivano al volo dalla penna e lui le scriveva il più in fretta possibile. Alcune volte, nel corso di questi ultimi esami, il momento di panico era durato più del normale, ed erano stati necessari tre o quattro tentativi di lettura perché tutto ritornasse a posto. Quel pomeriggio, invece, proprio all’esame conclusivo 134
della sua carriera scolastica niente era ritornato a posto. Il groviglio di parole si era aggrovigliato sempre più; erano comparse macchie di luce e alla mente avevano preso ad affiorare risposte insensate, in giapponese, a domande che neppure aveva compreso. Sapeva di doversi calmare, che il panico non avrebbe generato altro che panico, ma poi aveva ricordato che questo era un esame fondamentale e che non passarlo avrebbe significato essere bocciati in tutto, e allora come avrebbe potuto guardare negli occhi suo padre? Non appena pensò a Sajjad Ashraf — e immaginò la sua espressione fiduciosa e ottimista — la mente gli si svuotò del tutto. Intanto l’esaminatore aveva iniziato a raccogliere i compiti. E il suo era in bianco. Aveva impugnato la penna e scritto: «Non esistono intermediari per l’islam. Allah sa bene cosa sento», e aveva consegnato. Fuori dall’aula aveva trovato un gruppo di amici ad aspettarlo. Fra una pacca sulla spalla e l’altra gli avevano detto: «È fatta, campione! Adesso che vai all’università non possiamo più chia marti Junior!» Uno di loro, Ali, gli aveva buttato un braccio al collo e aveva gridato a un gruppo di ragazze che passavano: «Chi vuol farsi un giro in scooter col mio amico universitario? Uscirà col massimo dei voti». Gli aveva messo in mano le chiavi della Vespa spingendolo verso le ragazze, due delle quali sorridevano nel modo schietto e spontaneo con cui le universitarie sorridono ai compagni. In quel preciso istante Raza aveva deciso di non rivelare a nessuno la verità. Per qualche altra settimana avrebbe ancora potuto essere il Raza brillante e ambizioso, il figlio che avrebbe realizzato i sogni del padre. Quando sua madre si sedette in macchina le porse il giornale e mise in moto; poi con una strana calma disse: «Non l’ho passato. Ho consegnato in bianco l’ultimo scritto». Stupita e amareggiata, Hiroko si lasciò sfuggire un gemito prima di riuscire a replicare. «Che cosa è successo?» «Non so». Avrebbe voluto che lo sgridasse, così avrebbe potuto spazientirsi o arrabbiarsi a sua volta. «Non capivo cosa c’era scritto sul foglio. E poi è scaduto il tempo». Lei aveva insegnato abbastanza a lungo per sapere che cose simili capitano anche agli studenti migliori. «Era lo scritto di studi islamici?» Quando lui annuì, lei si concesse il 135
lusso di una smorfia di disgusto, ma non era diretta a lui. La devozione come evento pubblico, come requisito nazionale. Le faceva pensare al Giappone e all’imperatore in tempo di guerra. «E a cosa ti serve per studiare legge? È ridicolo!» Gli carezzò la nuca. «Perché non me l’hai detto prima, Raza-chan?» Il nomignolo infantile gli fece salire le lacrime agli occhi. «Non voglio diventare l’asino del quartiere». Quel soprannome era rimasto appiccicato ad Abbas, che abitava in fondo alla strada, da quando a otto anni era stato bocciato a scuola. Per i tre anni successivi se l’era cavata per il rotto della cuffia, sempre l’ultimo della classe, e poi era stato bocciato di nuovo. E da allora, nessuno lo aveva più chiamato in un altro modo. Nel quartiere una bocciatura era considerata la vergogna più grande, una sventura per tutta la famiglia. I bambini lo capivano presto, e prendevano le distanze schernendo e insultando chi la subiva. «Raza! Nessuno ti darà mai dell’asino. È solo uno scritto: puoi riprovarci fra qualche mese. Andrà tutto a posto». «Ma come farò a dirlo ad aba?» «Glielo dirò io» rispose lei decisa. «E se si arrabbia e ti dice una sola parola farò in modo che se ne penta». Al suo sorriso di sollievo aggiunse: «In cambio dovrai fare una cosa per me. Dirmi cosa vuoi fare veramente nella vita. So che non è l’avvocato». Raza scrollò le spalle e indicò i negozi di elettronica. «Voglio avere tutto quello che c’è là dentro» disse solennemente. «Non ti ho chiesto cosa vuoi comprare. Ti ho chiesto cosa vuoi fare». Si fermarono a un semaforo, dietro un risciò decorato con due occhi sensuali e una scritta in urdu: GUARDA, MA CON AMORE. Raza si scoprì a tradurre mentalmente la frase in giapponese, in tedesco, in inglese, in pashto: un riflesso condizionato a ogni testo che gli capitava sotto gli occhi mentre guidava per le vie della città. «Voglio parole in tutte le lingue» rispose. Le sue mani lasciarono per un attimo il volante in un gesto esasperato. «Mi accontenterei di vivere in una stanza fredda e spoglia, se potessi passare le giornate studiando qualche lingua nuova». Hiroko, senza parole dopo quel momento di totale onestà, posò la mano su quella di Raza. Per lei imparare le lingue era un talento, per 136
suo figlio una passione. Una passione che tuttavia non poteva avere compimento, almeno non qui. Da qualche parte del mondo, forse, c’erano istituzioni in cui si sarebbe potuto guadagnare da vivere tuffandosi da un vocabolario all’altro. Ma non qui. Il «poliglotta» non era un mestiere che si potesse scegliere realisticamente. Fu sopraffatta da una sensazione di sconforto per il figlio, per quel suo sguardo che le diceva di sapere, di avere sempre saputo che gli sarebbe toccato rinunciare alla parte più speciale di sé. Sapeva come avrebbe risposto Sajjad se lei avesse tentato di parlargliene: «Se quello che perde nella vita è un sogno, e ha sempre saputo che si trattava di un sogno, può ritenersi fortunato». Naturalmente avrebbe avuto ragione, ma questo non placava il dispiacere. Dopo Nagasaki, dopo la Partizione aveva imparato a riconoscere due tipi umani: quelli che sapevano scrollarsi di dosso una perdita, e quelli che vi rimanevano impantanati. Raza faceva parte della seconda categoria, malgrado tutto ciò che avrebbe dovuto ereditare dai genitori, due che guardavano sempre avanti. All’inizio non volle crederle, si convinse che era un brutto scherzo. Poi alzò la voce, gridò che il ragazzo non studiava abbastanza. Ma quando seppe in che materia era stato bocciato e com’erano andate le cose, scosse la testa incredulo e si mise a sedere, incapace di rimanere in collera, come sempre. «Può ridare l’esame in autunno» disse Hiroko sedendosi al suo fianco e prendendogli la mano. «Sapremo l’esito prima che inizino i corsi all’università, e visto che ha soltanto un esame in sospeso gli terranno il posto. È già successo ad altri nostri allievi». Per qualche attimo Sajjad rimase in silenzio, poi finalmente annuì e si portò alle labbra la mano di lei. «Va bene, non me la prenderò con lui. Forse un piccolo incidente non gli farà male. La prossima volta sarà pronto ad affrontarlo». Uscì per vedere il figlio, per dirgli — come aveva raccomandato Hiroko — «Sono cose che capitano». Lungo il tragitto imprecò sottovoce contro il governo, che non rinunciava a imporre la religione in ogni aspetto della vita pubblica. Persino sua madre, che con Allah aveva un rapporto molto intimo, avrebbe volentieri bussato alla porta del presidente perché la finisse di pretendere che i cittadini strombazzassero in pubblico il loro rapporto d’amore con l’Onnipotente. 137
Quando Sajjad uscì di casa fu questo che vide: Bilal e Ali, i migliori amici di suo figlio, che passavano in vespa per la strada sventolando i risultati degli esami con fare vittorioso, e Raza che si nascondeva dietro la macchina di Sajjad.
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Durante l’atterraggio, l’americano Harry Burton — nato Henry — aveva guardato la distesa illuminata di Karachi, una delle città a più alto tasso di crescita al mondo, e si era sentito cogliere dall’emozione del ritorno a casa che accompagna le tribù urbane quando entrano in scenari inesplorati di caos e possibilità. Così va meglio, aveva pensato uscendo dall’aeroporto fra un bailamme di automobilisti che a colpi di clacson si scambiavano complessi e continui messaggi per affermare la propria autorità, dichiarare intenzioni e disprezzo per gli altri. Perfino il mendicante che con una smorfia gli rilanciò addosso la moneta da venticinque paise lo fece sorridere. Dio, che bello essere lontani da Islamabad — la bolla fra le colline, la città dal passato nemmeno ventennale, caratterizzata più che altro dalla presenza del governo dove, dietro la superficie asettica della diplomazia, c’era una profusione di germi. «Insipida ma graziosa»: così gliel’avevano descritta. Ma graziosa non era abbastanza, per uno che aveva passato le estati dell’infanzia a Mussoorie. Dalle città Harry si aspettava il caos, e dai paesi in collina bellezza incontaminata. Una sola volta era andato in macchina da Islamabad alla località collinare di Murri: dal Kashmir Point aveva guardato le montagne innevate, e in quel profumo di pini gli era sembrato che la materia nodosa di spazio e tempo che lo dividevano dalla sua infanzia diventasse sottile come una ragnatela. Karachi, Karachi; aveva voglia di cantare a squarciagola mentre l’auto con la targa del corpo diplomatico sfrecciava per la città. Un furgone che sopravveniva contromano li schivò all’ultimo momento, ma Harry rise divertito. Sei mesi ininterrotti a Islamabad: come aveva potuto resistere? Che sacrifici si fanno per il proprio paese, pensò vedendosi riflesso sul vetro oscurato del finestrino. Il pomeriggio del giorno dopo, tuttavia, Harry era già meno eccitato; quantomeno sul piano mentale, perché su quello fisico era sollecitato da un risciò a motore senza sospensioni, mentre i gas di scarico gli entravano nei pori; in quel traffico fitto avrebbe potuto contare i peli dei baf139
fi al presidente-generale, la cui foto campeggiava sul camioncino che a rilento li precedeva nel centro di Karachi. Pur essendo dicembre, il sole del pomeriggio era ancora caldo e la brezza di mare che un paio di miglia più indietro era stata così fresca qui pareva incapace di aprirsi un varco in mezzo ai fumi. Per distrarsi Harry ammirò l’architettura degli edifici, uno splendido terrazzo coperto che sporgeva da un edificio di pietra gialla in stile coloniale, la metà inferiore in legno delicatamente intarsiato e quella superiore di vetro colorato. Ma poi il risciò superò i resti coloniali della città e le case spaziose dell’aristocrazia in cui Harry aveva soggiornato durante l’ultima visita a Karachi, e zigzagò per le vie di una città cresciuta troppo in fretta perché il piano urbanistico le tenesse dietro: ovunque cemento e poco o niente verde, acacie spinose che invadevano ogni tratto libero di terra, sempre che non avessero ceduto il posto alle abitazioni di fortuna dei poveri, fatte di iuta. E via via che il risciò si allontanava dalle zone familiari, Harry cominciò a temere le circostanze in cui avrebbe forse trovato l’uomo che stava cercando. «Com’è Nazimabad?» aveva domandato due sere prima a un uomo d’affari di Islamabad durante un ricevimento, dopo averlo sorpreso a pescare con le mani nel laghetto dei padroni di casa sotto lo sguardo incerto delle guardie armate, assunte per sparare agli uccelli predatori. «Un deposito di muhajir» aveva risposto l’uomo, alzando a malapena gli occhi. «Non ci sono mai stato. È molto piccolo-borghese». Una delle cose più sconcertanti del Pakistan, aveva scoperto Harry, era la tendenza dell’élite a usare quell’espressione come se fosse il peggiore degli insulti. Non sapeva bene cosa intendesse per «deposito di muhajir»-. sapeva che quella parola in urdu significava «immigrante», e pertanto era un termine in cui si identificava, ma sapeva anche che in Pakistan veniva usata specificamente per chi era arrivato dall’India durante la Partizione. Pur conoscendone il significato non era tuttavia sicuro delle connotazioni che poteva attribuirle un uomo d’affari di origini non identificate. In effetti, Harry aveva ricevuto informazioni particolareggiate sui diversi gruppi etnici dell’Afghanistan, avrebbe potuto dilungarsi sulle tensioni, le ostilità e le alleanze fra i pashtun, gli uzbeki, i tagiki e gli hazara, ma sapeva poco dei gruppi presenti in Pakistan, fatta eccezione per l’Inter-Services Intelligence. 140
Di una cosa tuttavia era certo: Karachi non aveva niente a che vedere con Islamabad, anche se appariva chiaro che non tutti, nella città portuale, intendevano il commento in maniera positiva. L’uomo d’affari in riva al laghetto era stato decisamente critico. «È una città fatta di aspirazioni fallite» l’aveva liquidata. Ma una donna con i capelli che parevano acque scure aveva dissentito. «È piena di vita» aveva detto con semplicità. «Non arriverebbero immigranti da ogni parte del paese, se avvicinandosi al mare tutte le loro aspirazioni fallissero». E per questa sua uscita, oltre che per i capelli, Harry ci era andato a letto; non avevano chiacchierato, dopo, né accennato a scambiarsi i numeri di telefono o i rispettivi cognomi. In effetti, non c’era quasi stato un «dopo». Harry era a malapena uscito da lei, quando lei si rivestì per andarsene. Prima di allora non si era mai reso conto che il sesso poteva farlo sentire ancora più solo. Era stata la solitudine, lo sapeva, a portarlo qui, in cerca di un passato irrecuperabile come il matrimonio dei suoi genitori o la sua stessa infanzia. Erano mesi ormai che ignorava il desiderio di tornare a Karachi per bussare a una certa porta di Nazimabad, e adesso, più di una speranza, era stato il bisogno di placare quel desiderio a mandarlo in cerca della prima persona a cui aveva consapevolmente voluto bene. Il risciò svoltò in una via tranquilla di un quartiere residenziale, una zona di Karachi più aperta di certe altre che conosceva: niente muri di cinta, niente giardini e vialetti a fare da tampone tra un’abitazione e l’altra; piuttosto una lunga fila di case adiacenti, un semplice gradino a separare ogni porta dalla strada. Harry liberò un sospiro di sollievo che non si era reso conto di trattenere: la strada non era niente di che, ma nemmeno aveva l’odore del fallimento o della scontentezza. L’autista si voltò per interpretare lo sbuffo e Harry scosse la testa per rassicurarlo. Sentendo quanto gli sarebbe costata la corsa aggrottò le sopracciglia. L’altro rispose: «Se non calco la mano con gli americani tutti capiranno che lavoro per la CIA». Per quanto fosse ovvio che nessuno poteva vedere le tariffe che applicava, la sfacciataggine di quell’uscita divertì Harry, che pagò senza discutere. «Forse starò via un po’». Indicò un albero davanti alla casa, le cui 141
radici increspavano la strada. «Forse è meglio che parcheggi all’ombra». L’altro annuì. «Parla bene l’urdu». Harry scese a fatica dal risciò — accompagnato dallo sgradevole suono della sua chierica sudaticcia che si staccava come una ventosa dalla capote in vinile — e piegò il capo verso la casa al numero diciassette. «Ci abita il mio primo maestro. Glielo riferirò». I ragazzi che giocavano a cricket per strada si fermarono a guardare Harry che attraversava deciso e suonava il campanello. Restituì lo sguardo, divertito dai pullover bianchi col collo a V che alcuni di loro indossavano nel tepore del pomeriggio. Udì dei passi dietro la porta, e indietreggiò quando a spalancarla venne un giovane — poco più di un ragazzo — in jeans e maglietta rossa sbiadita, e con tratti che Harry riconobbe subito come tipici delle genti mongole, forse degli hazara. O forse dei tagiki. Perfino degli uzbeki. L’intensità della delusione lo sorprese: davvero si aspettava di trovare chi stava cercando a un indirizzo vecchio di vent’anni? Forse, però — smettila di arrampicarti sugli specchi, Burton — quelli che ci abitano sapranno indirizzarmi. «Buongiorno» disse. «Cerco Sajjad Ashraf. So che abitava qui». Raza restò a fissare quell’uomo alto, con gli occhi verdi e i capelli rossi, che neppure l’incipiente calvizie e i chili di troppo avevano privato del fascino conferitogli dalla parlata in stile Starsky e Hutch. Harry ripeté la domanda in urdu domandandosi che lingua parlasse il ragazzo e che cosa ci facesse qui. «Parlo l’inglese» rispose il giovane indispettito. «E il giapponese e il tedesco». Era la prima occasione che aveva di vantarsi da parecchi mesi a questa parte, ed era inevitabile che la cogliesse. «E l’urdu, naturalmente. Anche il pashto. Tu che lingue parli?» Harry Burton non ricordava l’ultima volta che era stato preso così alla sprovvista. «Inglese, tedesco e urdu. E un po’ di farsi». 142
«Allora vinco io» rispose Raza in tedesco. Non c’era arroganza nella sua affermazione, soltanto un debole orgoglio, insicuro del proprio diritto di esistere. «Non c’è dubbio» rispose Harry in inglese, provando l’assurdo desiderio di abbracciare il ragazzo. Poi passò al tedesco. «Sono Harry. Tu devi essere il figlio di Sajjad e Hiroko». «Sì» rispose l’altro sorridendo. «Mi chiamo Raza. Piacere». Tese la mano con il fare incerto di chi esegue una mossa provata allo specchio. Harry la strinse con forza. «Vieni» gli disse il ragazzo prendendolo a braccetto e trascinandolo in casa, con quella familiarità tipica degli uomini pakistani a cui non aveva ancora fatto l’abitudine. «Vado a chiamare aba». Harry entrò in anticamera e da lì in una versione più piccola della casa degli Ashraf che ricordava dall’infanzia: stanze dal soffitto basso, attorno a un cortile dominato da un grande albero. Tuttavia i vasi pieni di calendule, bocche di leone e phlox attorno alla pianta gli riportarono alla mente un altro mondo di Delhi. Un uomo dai capelli grigi vestito di un kurta-pyjama bianco stava innaffiando i fiori, e vedendolo Harry ebbe voglia di ridere per la felicità. Non poteva che andare in questo modo. In una città in cui le radici degli alberi rompevano l’asfalto, i grossi tronchi diventavano tele per i graffiti, e i rami parte dell’architettura urbana quando gli ambulanti vi stendevano un drappo per creare una tettoia improvvisata, era naturale che trovasse Sajjad Ashraf in un giardino picchiettato dal sole, circondato da fiori e da ombre modellate sulle foglie. «Aba, è venuto a trovarti lo zio Harry» disse Raza senza sapere cosa pensare del modo in cui il forestiero guardava fisso suo padre. L’uomo con i capelli grigi si tirò su — lo stesso Sajjad di una volta, a parte le rughe sottili lasciate dall’immancabile risata che ne annunciava la presenza — e guardò il nuovo venuto senza dar segno di riconoscerlo. Fu Hiroko, che uscita dalla camera da letto vide qualcosa di familiare nei suoi capelli rossi e nelle palpebre leggermente cascanti; ma prima che potesse togliersi dalla mente i lineamenti di Konrad, l’uomo disse: «Sono Henry Burton. Il figlio di James e Ilse». Sajjad fece un passo in avanti, e poi un altro passo. «Ma eri un bambino» disse. «Davvero? Henry... Henry baba!» 143
«Adesso sono Harry. Da sei mesi lavoro a Islamabad, all’ambasciata americana. Sono un funzionario consolare: passaporti, visti, cose simili. E non potevo restare in Pakistan senza venirvi a trovare». L’americano fece un passo avanti e tese la mano a Sajjad, che ridendo rispose: «Una volta ti portavo in groppa. Possiamo fare qualcosa di più che darci la mano?» Gli passò un braccio dietro la schiena e si sporse in avanti fino ad avere il mento sopra la spalla di Harry e l’orecchio a pochi centimetri dal suo. Poi si spostò, in modo che a incorniciargli la faccia fossero l’altra spalla e l’altro orecchio di Harry, il quale non ebbe nemmeno il tempo di reagire che Sajjad si era già staccato da lui, sorridendo. «Non ti ricordi? Mi avevi chiesto di insegnarti il gala-milao prima di venire al funerale di mio padre. Entrasti nel cortile, ti levasti le scarpe, salisti in piedi su un divano e abbracciasti tutti i miei fratelli. Pensarono che eri l’inglese più educato di tutta l’India. Avrai avuto nove anni». «Sette. Ne avevo sette. È uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia: la prima volta che sono entrato in casa di qualcuno che non fosse inglese. Perché i miei genitori non c’erano? Questo l’ho dimenticato». Sajjad fu felice di sentire quelle frasi in urdu che sgorgavano veloci dalla bocca del suo ex allievo. Incapace di trovare una risposta che non suonasse sgradevole alle orecchie di questo estraneo che non era un estraneo, si tolse gli occhiali e pulì le lenti nelle maniche del kurta. Quando li inforcò annuì come se avesse recuperato una visione più chiara di quanto era accaduto nel 1944. «Era stata una tua idea. Dicesti: voglio farvi una visita di condoglianza da parte della mia famiglia». Sajjad sorrise e annuì a Raza come per insegnargli qualcosa. «Fui così fiero del mio Henry baba, quel giorno». Al resoconto di quella buona azione giovanile le punte delle orecchie di Harry si imporporarono. Fu sollevato dall’obbligo di trovare una risposta quando Sajjad tese la mano a indicare la donna che stava venendo verso di loro. «Mia moglie Hiroko». «Hiroko-san» disse Harry inchinandosi. Non aveva l’abitudine di farlo, ed era consapevole di apparire vittima di un improvviso crampo alla schiena. 144
Hiroko prese le mani di Harry fra le sue. «Hiroko e basta. Mi fa molto piacere conoscerti, Harry». Il suo sorriso riconobbe — e liquidò — lo stupore con cui Harry stava ricostruendo le associazioni che lei doveva avere con quel nome. «Nel mio cuore c’è sempre posto per i Weiss». Si voltò verso suo figlio e disse: «Raza, ti presento il nipote di Konrad». «Oh». Il ragazzo osservò Harry con rinnovato interesse. «Konrad è il mio secondo nome». Harry annuì come se la notizia gli procurasse più piacere che sorpresa. Nei mesi precedenti alla nascita della loro figlia, prima di sapere se fosse maschio o femmina, Harry e sua moglie avevano cercato a lungo dei nomi capaci di convincerli per la vita (sapevano già che non sarebbe successo altrettanto al loro rapporto, e questo rinforzò il desiderio di trovare un paio di sillabe che accontentassero entrambi, a cui potersi aggrappare dopo aver rinunciato l’uno all’altra). Alla fine era stata la sua ex a suggerire Konrad, se fosse nato un maschio, dopo un weekend passato a New York insieme a Ilse; Harry però aveva liquidato la proposta con un gesto infastidito, per poi insegnarle il significato della parola urdu manhoos, «di cattivo auspicio». E invece proprio Sajjad, che quella parola gliela aveva insegnata, sorrideva nel sentire che suo figlio reclamava il nome del primo amore di Hiroko, cancellato dalla faccia della terra prima di compiere trent’anni. «Sei già all’università, Raza Konrad?» domandò Harry rivolgendosi di nuovo al ragazzo. Dopo aver saputo di quel secondo nome si sentiva in diritto di comportarsi un po’ da zio. Raza chinò la testa di colpo, nascondendo il volto fra i capelli. «Mio padre non ci è andato, all’università. Perché dovrei farlo io?» Aveva parlato in tedesco, e Harry si accorse di una strana tensione nell’aria e dello sguardo lanciato da Sajjad a Hiroko per sollecitarla a tradurre. «Non ce n’è bisogno» rispose Harry in tedesco, sorridendo a Sajjad per assicurargli che non si trattava di un complotto. «Se sai interpretare il mondo in cinque lingue diverse forse starai meglio senza avere il cervello imbottito con le ultime fesserie che vanno di moda». Sajjad vide che il figlio si ringalluzziva, cambiava atteggiamento fin quasi a pavoneggiarsi. Ricordò la spontaneità che aveva caratterizzato il 145
suo rapporto con Henry rispetto alla tensione fra questi e suo padre, meravigliandosi dell’ironia della sorte e di come possono capovolgersi le situazioni. «Tuo padre come sta, Henry?» «Papà? È... irriducibile. Perfino davanti alla morte. Qualche mese fa ha avuto problemi al cuore, sembrava impossibile che se la cavasse alla sua età. Invece è ancora qui, e ogni sera è sempre a qualche festa. Dopo che mamma l’ha lasciato ha avuto il buon senso di sposare una donna che ama questo tipo di cose. Non so se è innamorata di lui, sicuramente lo è del suo stile di vita. E per papà è sufficiente. Se ha voglia di compagnia va al circolo». Si accorse dell’atmosfera di imbarazzo che era calata sul giardino. Naturale. Non poteva dire una parola contro suo padre, nemmeno in presenza di chi ne conosceva bene i difetti; in India erano queste le regole della buona educazione (Sajjad era ancora indiano agli occhi di Harry, che tuttavia si guardava bene dal dirlo). «Mia madre sta bene» disse annuendo a Hiroko, come per ringraziarla dell’amicizia che le legava e che era continuata per lettera fino a dieci anni dopo la Partizione, per poi soccombere all’anarchia della posta intercontinentale. «Sarà felicissima di sapere che vi ho trovati. Ha ancora sul camino una foto di voi due insieme». Raza non sapeva bene come comportarsi quando Harry accettò il tè e la poltrona che gli venivano offerti e fece intendere che per quella sera non avrebbe desiderato di meglio che la compagnia degli Ashraf. Ancora più stupefacente della presenza dell’americano era l’atteggiamento di Sajjad e Hiroko, che sembravano considerare del tutto normale ospitarlo in giardino per parlare di quando vivevano a Delhi. Raza osservava rapito ogni aspetto di Harry Burton: l’esuberanza dei suoi gesti, il modo in cui dava l’impressione che qualunque banalità detta da Sajjad o da Hiroko fosse più interessante di ogni suo possible contributo alla conversazione, il suo modo di pronunciare l’urdu e anche l’inglese. Quando Harry chiese un bicchiere d’acqua, Raza corse a prenderlo, e mentre entrava in cucina fu premiato dalla voce dell’americano che dall’altra parte del cortile diceva: «Che bravo ragazzo. Non avreste da prestarmi un manuale sull’educazione dei figli?» Ma l’esaltazione era sfumata quasi subito. La domanda successiva 146
sarebbe stata: «Che classe fa? Che materie gli interessano?» e i suoi genitori avrebbero spifferato tutto, o peggio ancora si sarebbero sentiti in dovere di mentire. Raza nascose il volto fra le mani e si appoggiò al muro. Ora gli piombavano addosso così, inaspettati, questi improvvisi attacchi di sconforto, di totale disperazione. Era stato bocciato un’altra volta. E la seconda era stata anche peggio della prima. Ancor prima di entrare in aula aveva perso la capacità di dare un senso alle parole; sull’autobus, durante il tragitto, aveva guardato i cartelloni pubblicitari e le scritte sui muri, senza vedere altro che sgorbi informi e sfocati. Quando il commissario d’esame aveva dato il via, il cuore gli batteva così forte che sembrava sul punto di sfondargli il torace. E non ci aveva capito niente. Non riusciva a reggere la penna. Era uscito cinque minuti dopo, incapace di guardare in faccia i genitori quando era arrivato a casa, troppo presto perché potesse avere già finito. Quel giorno aveva visto le lacrime negli occhi di suo padre, e per la prima volta Sajjad Ali Ashraf gli era parso vecchio, mentre implorava il figlio dicendo: «Perché? Perché non puoi fare questa piccola cosa? Ti prego, figlio mio. Fallo per me». I ragazzi del quartiere che la prima volta ci avevano scherzato su — dicendo che era tutta una messa in scena, che tutti i grandi eroi fanno un sacco di scene e che gli sarebbe bastato riprovarci dato che era una materia sola — stavolta restarono senza parole. Quando entrava in una stanza le conversazioni si interrompevano. Ormai mancavano pochi giorni all’inizio dei corsi universitari, e nessuno di loro pensava o parlava d’altro. Non sopportava come cercavano di cambiare argomento in sua presenza, quei silenzi forzati che si creavano, così finiva per starsene quasi sempre in casa. Malgrado lo costringessero a uscire di tanto in tanto, sapeva che era un sollievo per tutti quando veniva il momento dei saluti. Versò l’acqua in un bicchiere alto, e guardò fuori per capire dall’atteggiamento di Harry Burton se avesse già scoperto che il «bravo ragazzo» era in realtà il nuovo asino del quartiere. Ci sarebbe stato un altro esame qualche mese dopo. Suo padre voleva a tutti i costi che ci provasse, ma Raza era certo di fallire di nuovo e aveva risposto di no. Qualcosa dentro di lui aveva smesso di funzionare, 147
tutto qui. Posò con cura il bicchiere su un vassoio, cancellò col pollice l’impronta che vi aveva lasciato e pensò: è altrettanto facile cancellare tutto ciò per cui vale la pena vivere.
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«Non al porto commerciale, al porto del pesce!» Sher Mohammed, l’autista del risciò, sterzò di colpo sentendo Harry che sbraitava dal sedile posteriore. «Scusi, scusi. L’avevo dimenticato. È ancora presto, ho il cervello intorpidito». Un’affermazione poco rassicurante se a farla è chi sta guidando, ma Harry aveva ormai stabilito che Mohammed si destreggiava grazie a un misto di fiuto e provvidenza. Nella calca di mezzogiorno rispettava almeno in parte il codice stradale, ma al mattino presto percorreva le strade semideserte con l’aria di chi non concepisce che un altro veicolo possa minacciare la sua avanzata, e interpreta il diritto di precedenza come una libertà inoppugnabile, che lo accompagna a ogni incrocio e a ogni semaforo. Harry si strinse nello scialle mentre il risciò sfrecciava avanti, attraversato da un vento sibilante. Allora può far freddo anche a Karachi, pensò nel constatare che il fiato si condensava nell’aria dell’aurora. All’entrata del porto, Sajjad e Raza lo stavano già aspettando in macchina. Raza dormiva accasciato sulla spalla del padre. «Sveglia, mio principe». Sajjad sfregò le nocche sulla testa di Raza, che sbatté le palpebre un paio di volte, borbottò la parola «pesce» e si riaddormentò. Con delicatezza — la stessa con cui una volta Harry gli aveva visto maneggiare un uovo caduto miracolosamente intatto da un nido — Sajjad si levò dalla spalla la testa di Raza e la sistemò nel modo più comodo possibile contro la portiera. «Lo sveglieremo per fare colazione» disse mentre scendeva dalla macchina, vestito in modo cha abbinava incongruamente un pesante maglione di lana ai sandali. «Così potremo parlare un po’, Henry baba». Guardò le scarpe di Harry, scosse il capo, risalì in macchina e ne riemerse con in mano le scarpe con la suola di gomma che aveva tolto a Raza. «Mettiti queste». Con le dita rattrappite in punta, Harry stranamente ripensò al suo gatto Billy — quello dei primi anni in America — che aspettava il suo ri149
torno da scuola appollaiato sul bordo del portico. Agitò le dita dei piedi, e il gatto diede una zampata in aria. «Credimi, sarai felice di averle ai piedi» disse Sajjad mentre lo prendeva sottobraccio per guidarlo verso il porto. Forse perché gli era venuto in mente il gatto — il quale considerava ogni forma di insetto una preda — quando varcò i cancelli rugginosi e vide il porto Harry riuscì soltanto a pensare che tutti quei pescherecci, con le sartie che tracciavano un intreccio caotico in cielo, parevano uno sciame di cavallette coricate sulla schiena, con le zampe mosse dalla brezza. Erano centinaia di barche — in una varietà di azzurri, bianchi e verdi scrostati — una di fianco all’altra fino al molo, ammassate in file profonde di quattro, cinque o sei. «Respira dalla bocca finché non arriviamo al porto» consigliò Sajjad camminando svelto verso l’acqua. «Perché?» domandò Harry appena prima che lo investisse una zaffata così orripilante da fargli immaginare un mostro marino grosso come una casa, tagliato in due e lasciato per anni a marcire sotto il sole. «Andiamo, coraggio» lo incitò Sajjad tirandolo per il braccio oltre un altro cancello. «Adesso puoi usare il naso». Erano entrati nel bazaar del pesce. La merce — troppo fresca perché ci fosse odore — era disposta su bancali di ghiaccio lungo lo spiazzo di cemento. Qualcuno versava da una carriola il ghiaccio tritato per rimpiazzare quello sciolto; altri passavano serpeggiando, con cesti zeppi di pesce fra le braccia. Per terra era bagnato; non acqua di mare straripata, come aveva creduto Harry sulle prime, ma ghiaccio sciolto. Era appena l’alba, ma l’attività era frenetica. Harry prese Sajjad per il gomito e avanzò fra due file di banchi del pesce. Azzannatori, salmoni e calderoni pieni di passere di mare. Squali. Anguille. Esseri enormi con baffi e fauci preistoriche. Sajjad si fermò a trattare con un mercante, che tentò scherzosamente di sviarlo dal tonno per proporgli un pesce grosso come un uomo. «E che ci faccio? Me lo porto a letto?» rispose Sajjad. Un uomo si avvicinò a Harry con un piccolo squalo fra le mani, agitando la pinna con le dita. «Per il sesso» gli disse in inglese. 150
«Non ne ho bisogno» rispose Harry in urdu, suscitando le risate di approvazione degli astanti. «Da dove vieni?» chiese il tizio dello squalo. «Dall’America. Tu? Da Karachi?» «No, da Mianwali». Fece un gesto per indicare la gente intorno. «Qui c’è gente di tutte le regioni del Pakistan: baluchi, pathan, sindhi, indù, perfino sikh. Tutte quante. Anche un americano può venire a vendere il pesce, se gli pare». «Grazie» replicò Harry con un sorrisetto. Gli piaceva come i pakistani si trasformassero tutti in guide turistiche, alla vista di uno straniero. «Lo terrò presente». Sajjad li sentì parlare, fermò un ragazzo e chiese a Harry di guardarlo, riprendendo il controllo della gita. «Sono questi però gli abitanti originari di Karachi: i makrani. Discendono dagli schiavi africani, vedi?» Indicò i capelli e i lineamenti del ragazzo in un modo che imbarazzò profondamente l’americano, ma non disturbò affatto il giovane. «La tratta degli schiavi passava dalla costa. Non parlo della vostra tratta, ovviamente, ma di quella orientale». «Non la chiamerei la mia tratta degli schiavi». «Certo, certo» tagliò corto Sajjad mentre con un buffetto sulla testa lasciava andare il ragazzo. «Intendevo dire che questa è una città di gente che va e viene, già da prima della Partizione. Adesso è la volta degli afghani. Perché starsene seduti in un campo profughi quando si può venire a Karachi?» Si chinò su un’ordinatissima pila rotonda di pesci rosa e ne toccò uno. «Cos’è che ti fa ridere, Henry Burton?» «Tu, Sajjad. Una volta parlavi di Delhi come se fosse l’unica città in cui valesse la pena vivere, e adesso guarda con che orgoglio descrivi un posto che un tempo avresti schernito per la sua mancanza di storia, di senso estetico e di patrimonio poetico». Sajjad smise di sorridere, raccolse un pezzo di ghiaccio e ci si pulì il dito. «Dilli è Dilli». Si scostò di lato, fra un banco di barracuda e una cassa di granchi, per allontanarsi appena dalla calca di compratori e mercanti. «Il mio primo amore. Fosse stato per me non me ne sarei mai andato, ma quei bastardi mi hanno impedito di tornarci». 151
«Mi spiace» disse tristemente Harry, senza ben capire perché si sentisse in colpa. «Che cosa è successo ai tuoi fratelli? Sono rimasti là?» «Il maggiore, Altamash, è stato ucciso durante i tumulti della Partizione» rispose Sajjad annuendo fra sé e sé, come per convincersi, dopo tutti quegli anni, che fosse veramente accaduta una cosa simile. «Io ero a Istanbul e nessuno mi ha avvertito. Aspettavano che tornassi a casa. Invece mio fratello Iqbal si è trasferito a Lahore: diceva di non poter rimanere nella città che aveva ucciso Altamash. Ha lasciato lì la moglie e i bambini, e quando hanno tentato di raggiungerlo sono finiti su uno di quei treni. Quelli che sono arrivati carichi di morti». «Cristo, Sajjad. Non ne avevo idea. E poi c’era un altro fratello, mi sbaglio?» «Sikandar. Lui è restato, ma dato che due di noi erano in Pakistan la casa è stata espropriata. Forse avrebbe potuto battersi per salvarne una parte, ma il senso pratico non è mai stato il suo forte. Così ha traslocato, con la sua famiglia e quella di Altamash. Vivono in una situazione così spaventosa che non sopporto di andare a trovarli. Infatti non ci vado quasi mai». Dal tono delle sue parole lo si sarebbe detto senza cuore, ma Harry conosceva abbastanza emigrati da saper riconoscere al volo una strategia di sopravvivenza. «Sai, per un sacco di tempo ho dato la colpa a tuo padre». «La colpa di cosa?» «Di tutto quanto». Sajjad sorrise. «Sì. Capita anche a me. C’è qualcosa in lui che facilita il compito. Adesso non lo fai più?» «Adesso dico che questa è la mia vita e devo viverla». «Fatalismo musulmano?» «No, no. Rassegnazione pakistana: tutta un’altra cosa». Fece un gesto interrogativo all’uomo del pesce che aveva ispezionato e le trattative ripresero. Harry incontrò lo sguardo di un pescatore che fumava una sigaretta, e quello chinò la testa verso di lui con fare accorto. Non capì se il gesto fosse un semplice saluto o significasse qualcosa di più. Si chiese quanta di questa gente fosse coinvolta nel contrabbando d’armi comprate dalla CIA, che l’ISI faceva arrivare dal porto di Karachi fino ai campi di addestramento lungo il confine. 152
Harry provava una certa sensazione di libertà a Karachi, dove il suo unico contatto era Sher Mohammed. C’era una certa libertà anche nell’essere uno sconosciuto, sebbene — ironia della sorte — ogni pakistano desse per scontato che tutti i residenti americani fossero agenti della CIA. Guardò Sajjad, a cui ora pendevano dalle mani due sporte azzurre di plastica zeppe di pesci; un occhio vitreo, premuto contro la sottile superficie del sacchetto, evocò in Harry il ricordo di una gelata all’inizio di un inverno passato, il laghetto di un giardino con i pesci congelati sotto uno strato di ghiaccio. Si domandò se il motivo per cui nessuno degli Ashraf si era informato sul suo ruolo di funzionario all’ambasciata fosse che lo consideravano una copertura. Era assurdo, ma gli dava fastidio passare per bugiardo nella famiglia con cui aveva passato parte degli ultimi tre weekend. Si rammaricò del disgelo che in primavera avrebbe dato nuovo vigore alla guerra per procura degli americani in Afghanistan: sarebbe stato difficile partire senza dare nell’occhio. «Adesso pensiamo al granchio» annunciò Sajjad passandogli una delle borse. «Così a cena ci sarà qualcosa che posso mangiare anch’io. Hai mai assaggiato il pesce crudo, Henry babai» «Il sushi? Lo adoro». «Davvero? In trentacinque anni di matrimonio non è ancora riuscita a farmelo mettere in bocca. Tutti gli altri piatti giapponesi che fa ho imparato ad apprezzarli. Le dico: qualunque cosa cucini, io la mangio. Però dev’essere cotta». Harry girò attorno a un ragazzo che aveva lasciato cadere un pesce e stava tentando invano di raccoglierlo con le mani. «Voi due... Sai, da giovane, quando mi sono innamorato per la prima volta e ascoltavo quella musica fatta apposta per farti stare il peggio possibile, vi consideravo una delle grandi coppie romantiche di tutti i tempi». «Ma no, eravamo soltanto giovani e inesperti. Che ne sapevamo l’uno dell’altra? Quasi niente. È stato un colpo di fortuna scoprire, dopo esserci sposati, che eravamo così compatibili. E poi...» Tacque, si fece girare il sacchetto di plastica intorno al polso e proseguì: «... tutti e due avevamo subito un lutto grave, ancora giovani. E questo ci ha aiutati a capire i lati dell’altro che nascevano da queste assenze». Arricciò il na153
so: un tic che aveva imparato da sua moglie. «Se mi sentisse direbbe che a parlare è il poeta melodrammatico di Dilli che ho dentro. Guarda, ci sono le ostriche: prendiamone qualcuna. Con le ostriche non si sbaglia mai: quando le apri trovi o una perla o un afrodisiaco. Stai sorridendo, Henry baba. Non credevo che conoscessi questa parola in urdu. Spiegami subito il motivo, qui c’è sotto qualcosa». Com’era possibile avere per padre un uomo come questo, pensò Harry, e crescere insicuri come Raza? Se eri figlio di Sajjad Ashraf come potevi non considerare il mondo come la tua ostrica, che fossi una perla o un mollusco? In quell’istante, comunque, Raza non si sentiva nessuna delle due cose: semmai uno a cui avevano rubato le scarpe mentre dormiva. Non vide quelle di Harry, con i calzini appallottolati dentro, mentre si sfregava gli occhi per essere sicuro di essere davvero sveglio, si arrotolava il kamiz all’altezza degli stinchi e scendeva esitante dalla macchina, imprecando in tedesco quando toccò la terra fredda con i piedi. Non v’era traccia di ladri; soltanto un camioncino parcheggiato di fianco. A qualche metro di altezza un pathan stava appollaiato come una gargolla sul telaio del cassone, a guardare il traffico di mare del mattino. «Succede qualcosa di interessante?» gridò Raza in pashto, l’unica lingua che non gli era stata insegnata da Hiroko: l’aveva imparata da solo, negli anni in cui era andato e tornato da scuola su un pulmino guidato da un pathan molto cordiale, il quale, dopo aver saputo che a quel bambino di sei anni interessava la sua lingua, lo aveva sempre fatto sedere al suo fianco. Per quasi dieci anni, l’autista era rimasto il migliore degli insegnanti di Raza. L’uomo si schermò gli occhi con le mani, quasi in un saluto. «Sei afghano?» Raza si toccò gli zigomi per riflesso. Prima che i sovietici invadessero l’Afghanistan non se l’era mai sentito chiedere, ma negli ultimi quattro anni, via via che arrivavano sempre più profughi in Pakistan, si era quasi abituato a essere scambiato per un afghano di qualche tribù mongola. «Sì» rispose, e la plausibilità della bugia gli premette contro la spina dorsale, drizzandogli la schiena. L’uomo saltò giù nel cassone vuoto per guardarlo da vicino. 154
«Chi è la tua gente?» «Hazara» disse Raza con sicurezza. Era quello che aveva pensato Harry Burton vedendolo. «Vieni, ti presento qualcuno» disse l’uomo balzando a terra e buttandogli un braccio al collo. «Abdullah! Svegliati!» La portiera in legno intarsiato sul lato del passeggero fu aperta con un calcio da un piede pallido, e pochi istanti dopo un ragazzo di non più di quattordici anni saltò fuori dalla cabina. Né la grande bocca sorridente né le guance paffute riuscirono a compensare lo sguardo adulto che i suoi occhi castani lanciarono a Raza». «C’è qui un tuo fratello afghano» disse l’uomo. «Un hazara». Ignorando Raza, il ragazzo fece una smorfia all’uomo. «Che effetto fa il Pakistan al cervello della gente? C’è qualcosa nell’aria? Rimbambirò anch’io se ci rimango? Da quando in qua hazara e pashtun sono fratelli?» Pashtun, non pathan, notò Raza. L’uomo sorrise come se riconoscesse l’affettuosità dell’insulto, e fu Raza a rispondere, quasi a dimostrare che non si sarebbe lasciato intimidire da un ragazzino di una spanna più basso di lui. «Da quando i sovietici ci sono entrati in casa e abbiamo dovuto scappare tutti e due dalla finestra: è da allora che hazara e pashtun sono fratelli». Il ragazzo si accigliò. «È tanto che sei via dall’Afghanistan? Parli il pashto come questo pakistano qui». Indicò l’uomo, che stavolta sembrò risentirsi. «È il dari la tua lingua?» «Raza!» Suo padre veniva verso la macchina mostrandogli le borse del pesce, mentre Harry indicava prima i piedi di Raza e poi, con un’espressione sofferente, i propri. «Devo andare» disse Raza. «È americano quel tipo?» chiese Abdullah. Raza sorrise. «Devo andare» ripeté. Il ragazzo annuì, lo sguardo ancora fisso su Harry. 155
«Dove abiti? Non ti ho mai visto a Sohrab Goth». Raza stava per andarsene, ma quando sentì nominare Sohrab Goth si fermò a soppesare il rischio di una figuraccia, se avesse continuato a mentire, rispetto al vantaggio di conoscere qualcuno di Sohrab Goth, dove, stando a un ragazzo del quartiere, si potevano comprare registratori, televisori e telefoni col vivavoce a prezzi decisamente più bassi che in città. Questo ragazzo, era ovvio, avrebbe saputo trattare con un ambulante afghano come Raza non sarebbe mai riuscito a fare, senza rivelare nel tono di voce il timore di insultare il venditore con un’offerta troppo bassa. «Forse ci verrò presto» rispose. «Come faccio a trovarti?» Non fece nemmeno lo sforzo di inventarsi qualcosa su dove viveva: si era reso conto che al ragazzo non interessavano tanto le risposte quanto la possibilità di fare domande, per mantenere uno stile da interrogatorio e affermare la propria superiorità. «Ci sono dei camion parcheggiati vicino al mercato di Bara, basta che chiedi di Abdullah, quello con il camion con sopra il sovietico morto». Allarmato Raza fece un passo indietro, ma poi vide che il ragazzo indicava la fiancata del camion, con i bordi di legno decorati con uccelli, fiori e montagne dai colori vivaci, e guardando nella direzione indicata dal ragazzo, con il ritratto in miniatura di un soldato sovietico steso a terra, con un fiotto di sangue che gli usciva dal corpo come una fontana. Il ragazzo rise. «Tutti conoscono me e il mio camion». L’uomo più anziano si schiarì la gola. «In realtà il camion è di questo Afridi qui, ma l’idea di metterci il sovietico è stata mia». Raza annuì. «La prossima volta chiederò di te» disse. «Sempre che mi trovi. Non si sa mai: un giorno è Karachi, un giorno Sargodha, un giorno è Peshawar. Ho visto di tutto, in giro per il paese». Lanciò un’occhiata a Harry che si era tolto le scarpe e veniva verso Raza a piedi nudi, tenendole in mano come per offrirgliele. «Ma questo non credevo che l’avrei mai visto». 156
Harry arrivò da Raza, si profuse in scuse mentre si inginocchiava e appoggiava a terra le scarpe in modo che Raza potesse infilarsele. In circostanze normali Raza si sarebbe opposto, avrebbe insistito perché Harry le tenesse ai piedi per l’imbarazzo di venire trattato con tanta deferenza da chiunque fosse più vecchio di lui. Però nel vedere l’espressione ammirata di Abdullah — uno sguardo simile a quelli che gli lanciavano i compagni quando passava un esame a pieni voti — si limitò a strizzargli l’occhio e ficcò i piedi nelle scarpe di gomma, muovendo la mano sopra la testa dell’americano come per benedirlo.
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La quindicenne americana porse la videocassetta pirata all’uomo dietro al banco, che nell’infilarla in un sacchetto di carta ne notò il titolo e si accigliò. «Questa non va bene» disse, infilando la cassetta in uno scomparto dietro la scrivania. Le offrì un altro video dicendo: «Perché non prendi questo?» La ragazza lesse il titolo scarabocchiato sull’etichetta e sibilò disgustata dal piccolo spazio che aveva tra gli incisivi, fissandolo con gli occhi a mandorla verdi in un modo che lo sorprese e lo turbò per quanto fosse piacevole. «Se è proibito per legge che prenda l’altro film d’accordo, ma di certo non sarà lei a stabilire che cosa va bene o no». L’uomo trovò buffa questa strana gerarchia che dava più importanza alla legge che al consiglio di un adulto; tuttavia qualcosa in quegli occhi verdi lo convinse che mettersi a ridere non sarebbe stato saggio. «Se tuo padre è d’accordo te la vendo» disse col fare di chi ha trovato un compromesso e si aspetta gratitudine. La ragazza fece un verso che non gli era familiare ma che chiaramente comunicava insofferenza, poi uscì dal negozio e lo lasciò a rimuginare su quella strana creatura con il giubbotto di pelle borchiato, il rossetto nero e i capelli rossi tagliati corti, a parte la coda che le scendeva sulle spalle come quella di un topo. «Daddy Warbucks!»3 Kim Burton chiamò il padre mentre usciva del negozio. «Vuole rifilarmi Annie! In che cavolo di posto siamo?» Harry le fece cenno di rientrare nel negozio e aspettarlo lì, mentre continuava a parlare con l’ambulante che vendeva noci e frutta secca da una carriola di legno. Ignorando il segnale del padre, Kim gli si avvicinò nella piazza del mercato piena di gente, riuscendo quasi a non notare gli sguardi dei passanti. Erano le donne a fissarla più apertamente, lo 3
Riferimento a Oliver Warbucks, il potente capitalista che nel fumetto americano Little Orphan Annie è il padre della protagonista.
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aveva notato nei quattro giorni che aveva passato a Islamabad; alcune si erano fatte avanti e toccando le ciocche impomatate dei suoi capelli l’avevano chiamata «chooha», che suo padre aveva entusiasticamente tradotto in «topolino». Gli si fermò accanto, e lui le passò un braccio sulla spalla mentre continuava a parlare in urdu con l’altro uomo. Il calore della sua accoglienza e la sensazione di sicurezza che provò nel sentirsi stringere furono così improvvisi da spingerla a staccarsi imbronciata. Suo padre era diverso, qui. Più sciolto. Qui stava bene, ecco cos’era. Come aveva detto la nonna. Più tardi, mentre viaggiavano in macchina lungo un grande viale alberato verso la moschea in costruzione che lo chiudeva, con il video di Tootsie sulle ginocchia (all’ultimo momento non aveva avuto il coraggio di dirgli che voleva Porky’s) gli domandò: «Perché dici sempre che detesti Islamabad, quando è ovvio che sei molto più contento qui che a New York, per non parlare di Washington o di Berlino?» Harry Burton guardò sorpreso la figlia. Come la nonna, che adorava, quella ragazzina aveva la capacità di vedere in lui cose che era sicuro di poter nascondere a tutti, e ciò lo rendeva nervoso. Un conto era quando succedeva con Ilse Weiss, che lo conosceva da una vita, ma per sua figlia lui era stato solo una presenza passeggera: aveva divorziato quando lei aveva quattro anni, mettendo fine alla sua vita in famiglia a Washington, svincolandosi dalla moglie e dalla città che entrambi detestavano, ma che si era dimostrata un buon compromesso fra il desiderio della madre di crescere la figlia in America e quello del padre di non rinunciare al lavoro che si era scelto. Sapeva di avere fallito come genitore, perciò quando Kim veniva a trovarlo — prima a Berlino, adesso qui — o quando lui si fermava per qualche giorno a New York per vederla, accettava musi e capricci come una giusta punizione; ma si sentiva a disagio davanti a quei momenti di acume, che lasciavano intravedere la donna che sarebbe diventata. C’erano troppi aspetti della sua vita di cui avrebbe preferito che Kim restasse all’oscuro per sempre. «Infatti detesto Islamabad» rispose deciso. Si fermò a un semaforo, e l’uomo in bicicletta accanto a lui si chinò verso il finestrino di Harry e fece un cenno col capo per far capire che 159
gli piaceva la musica che veniva dall’autoradio. Harry tirò fuori la cassetta e gliela diede, lasciando a bocca aperta Kim, malgrado si trattasse solo di una copia da sentire in macchina e avesse l’originale a casa (l’autoradio aveva l’abitudine di mangiarsi i nastri). Il tizio prese la cassetta con fare incerto, poi domandò: «Amreekan?» Quando Harry annuì, l’uomo infilò un dito in uno dei buchi della cassetta e la sollevò meravigliato, voltandola da una parte e dall’altra come per ammirare un anello di fidanzamento. Poi tolse dal manubrio un sacchetto di mele e lo mise in mano a Harry prima di ripartire scampanellando, con la cassetta ancora incastrata nel dito. «Detesto la città, ma la gente mi piace molto» rispose Harry. «Non i burocrati, parlo della gente vera». «Ah» fu la risposta di Kim a questa informazione. «Strano. Ho sempre pensato che sia stupido non poter diventare presidente degli Stati Uniti se non si è nati lì, perché un immigrante che ci va a vivere sarà di sicuro un cittadino più leale di uno che dà tutto per scontato. E lo pensavo, vedendo che per te l’Inghilterra non significa nulla. Ma poi in fondo non è l’Inghilterra il paese che hai dovuto lasciare, no?» «L’Inghilterra è stata solo una tappa lungo il percorso» rispose Harry provando una certa soddisfazione nell’immaginarsi Kim che lo paragonava al nonno. James Burton sarebbe andato su tutte le furie, mentre Ilse Weiss sarebbe stata contentissima. Kim conosceva bene l’infanzia del padre: era una delle poche storie che Harry raccontava senza reticenze, dal momento che apparteneva al periodo della sua vita in cui non erano ancora necessari segreti e bugie. L’unica cosa peggiore del doversene andare dall’India era stato arrivare in Inghilterra. Era con questa frase che Harry cominciava ogni volta il racconto. La guerra imperversava, il sole non si faceva mai vedere e a scuola tutti lo prendevano in giro per le sue «espressioni indiane» (verbali e fisiche) e volevano sapere che cosa avesse fatto suo padre durante la guerra. E il colmo dell’orrore era stato quando l’unico ragazzo appena arrivato dall’India, che Harry considerava un alleato, aveva rivelato: «Sua madre è tedesca». Quindi, gran parte del primo anno era stato l’abisso della disperazione. La situazione era migliorata soltanto verso Pasqua, quando un ragazzo gli aveva lanciato una palla da cricket dicendo: «Ehi, maragià Fritz, sai giocare?» E quello che aveva imparato 160
da Sajjad — al solo nominarlo si riempiva di malinconia — fece di lui una specie di eroe della scuola. Due anni dopo, quando durante le vacanze pasquali suo padre annunciò che la «breve trasferta newyorkese» della madre, cominciata tre mesi prima, sarebbe diventata permanente, e che Harry l’avrebbe raggiunta là, il ragazzo era combattuto: a undici anni desiderava starle vicino, ma sapeva che a New York l’abilità nel cricket sarebbe stata di poco aiuto. E su che cosa poteva contare, a parte un altro accento straniero, adesso che le inflessioni indiane se n’erano andate? Restava soltanto una possibilità, aveva stabilito Harry: trasferirsi all’inizio dell’estate, e non alla fine come era stato deciso, e prepararsi per tempo. «Insegnami a parlare americano» aveva chiesto il primo giorno al giovane elegantissimo che lo aveva accompagnato a casa di zio Willie nell’Upper East Side («Si dice apartment, non flat: questa è la prima lezione»). Si era tirato indietro ogni volta che sua madre aveva tentato di presentargli qualcuno che sarebbe stato suo compagno di classe in autunno (fall, non autumn). Aveva imparato le regole del baseball, i punteggi di tutti i giocatori degli Yankees negli ultimi vent’anni e si era perfino commosso davanti al nuovo monumento a Babe Ruth. Nonostante tutto, il primo giorno di scuola si era sentito così straniero da restare ammutolito. Per qualche ora aveva bofonchiato, prestando attenzione solo agli insegnanti. Soltanto durante l’intervallo, mentre seduto su un gradino stava ad ascoltare i compagni, si era accorto di essere circondato da un gruppo di immigranti. Tedeschi, polacchi, russi. A legarli, in questa esclusiva scuola privata, erano il ceto sociale e il fatto che, per una ragione o per l’altra, dopo la guerra i genitori non avevano più voluto saperne dell’Europa. Harry guardò il gruppo, poi guardò dei ragazzi sdraiati sotto l’albero, che non avevano addosso nemmeno una traccia del Vecchio mondo. Si alzò, esitò un attimo quando si rese conto che avrebbe affrontato il primo vero rischio della sua vita, andò verso il secondo gruppo di ragazzi e disse: «Ehilà, sono Harry». Quell’inverno, a Londra, James Burton avrebbe raccontato a suo figlio che nella vita la sicurezza di sé porta lontano, e che se Harry fosse stato meno esitante quando era arrivato al collegio in Inghilterra, anche lì avrebbe avuto un’accoglienza amichevole. Harry, tuttavia, aveva te161
nuto d’occhio per tutto l’anno scolastico anche gli altri figli di immigranti, fino a capire che l’America li accettava — anzi, li pretendeva — come parte del proprio tessuto sociale in un modo che non si era mai visto in nessun altro paese. Bastava dimostrare il desiderio di diventare americani, e nel 1949 si poteva forse chiedere di meglio? («E gli studenti neri della tua scuola sarebbero d’accordo con questa tua affermazione, Harry?» «Non dico che sia un paese perfetto, papà, è soltanto il migliore».) «Hai fatto un sacrificio enorme» commentò Kim chiudendo gli occhi per godersi il profumo di gelsomini che era entrato di colpo dal finestrino. «Vivere lontano dal paese migliore del mondo per poterlo servire». Harry la guardò di traverso e sospirò. «Sento molto la tua mancanza, sai. E credimi, se a New York ci fosse bisogno di funzionari consolari arriverei in un lampo». «Piantala con questa stronzata del funzionario consolare» rispose Kim, ancora a occhi chiusi. Ci fu uno stridore di gomme quando Harry frenò di colpo e fermò l’auto al bordo della strada. «Chiedi scusa» disse. Kim aprì la bocca con l’intenzione di dire qualcosa di diverso dalle scuse, ma poi pensò che in macchina poteva esserci un microfono, che se avesse detto come stavano le cose qualcuno avrebbe potuto fargli del male. Si sporse verso di lui e gli buttò le braccia al collo, spaventandolo. «Scusa, papà. Scusa, sto parlando a vanvera». Harry la baciò sulla testa affettuosamente. Era la prima volta che riusciva a vedere la sua bambina dietro la permalosità dell’adolescenza, da quando era arrivata a Islamabad per le vacanze di Natale. Avrebbe voluto dirle che rimpiangeva la scelta, ma il pensiero che la figlia intuisse la falsità di una simile affermazione gli faceva orrore. Ora più che mai aveva l’impressione di fare nella vita esattamente ciò che più lo entusiasmava. Si chiese quando fossero cambiate le cose, mentre Kim si staccava da lui e sprofondava nel sedile a braccia incrociate, mortificata per lo sbotto. E da quando era diventata questione di entusiasmo, invece che di idealismo? Ormai gli sembrava tenue il legame con il giovane 162
che nel 1964 aveva voltato le spalle alla carriera accademica per sceglierne una completamente diversa, spiegando nei colloqui per il nuovo lavoro che voleva diventare uno di loro perché credeva fermamente che il comunismo dovesse essere schiacciato, così che gli Stati Uniti potessero divenire l’unica superpotenza mondiale. A interessargli non era tanto il concetto di potere, quanto l’idea che questo potere si concentrasse in una nazione di immigranti. Né i sognatori né i poeti avrebbero potuto concepire un sistema politico mondiale più saggio: un solo grande paese democratico al potere, i cui cittadini fossero legati a ogni altra nazione del mondo. Era scontato che fosse la giustizia, la nota più ricorrente nei rapporti di quel paese con il resto del mondo. Quello era il futuro che Harry Burton immaginava, un futuro in cui era deciso ad avere un ruolo. E non sarebbe stato uno di quelli che durante una guerra se ne stavano in disparte, pur dichiarando un vivo interesse per il suo esito. Ebbene: adesso quell’interesse era altrettanto vivo, però era tanto che non lo metteva in relazione con la giustizia, e ancor meno con i sognatori e i poeti. Parcheggiò vicino alla grande moschea, in costruzione ormai da dodici anni sotto lo strapiombo verdeggiante delle colline di Margalla, e guardò sua figlia che sorrideva come non aveva ancora sorriso a Islamabad. «Cos’è quella cosa che sembra una corazza di armadillo con quattro arpioni attorno?» aveva domandato la prima sera che l’aveva portata a fare un giro in macchina per la città. Era stata la sua prima frase a non contenere la parola «noia». Adesso la guardò togliere il giubbotto di pelle, infilare il «codino dello scandalo» nella maglietta e sfregarsi vigorosamente le labbra con un fazzoletto di carta: di colpo si era liberata del suo aspetto ispido ed era tornata a essere soltanto una ragazzina che con gli occhi lucidi si avvicinava all’imprenditore edile, l’unico che a Islamabad aveva risvegliato il suo interesse. Harry si chiese che versione avrebbe mostrato di sé — se ispida o no — nel caso in cui l’avesse portata a Karachi dagli Ashraf. Hiroko e Sajjad ci tenevano a vederla, ma a Harry era bastato pensare al divario fra il ragazzo posato e cortese che avevano tirato su e la sua adolescente ribelle per capire che un simile incontro avrebbe potuto rivelarsi disastroso. Eppure, in quel momento, Harry rimpianse di non aver fatto una scelta diversa, anche perché capiva che gli Ashraf gli 163
mancavano, e che un Natale in loro compagnia sarebbe stato come un vero Natale in famiglia. Pazienza: li avrebbe visti fra un paio di settimane. Kim stava partendo, e lui si era fatto dare le chiavi di un capanno sulla spiaggia di Karachi da un collega del consolato. Sorrise immaginando quanto si sarebbe divertito Raza a fare quella gita. Poi diede un’occhiata a Kim e sospirò. Non era difficile far felici i figli adolescenti degli altri. «Puoi dirgli che da vicino ho capito che il tetto è una tenda e non una corazza di armadillo?» disse lei indicando il costruttore, che si avvicinava sorridendo. «Anche se i quattro minareti sembrano proprio degli arpioni». Harry tradusse in parte, tralasciando l’armadillo e gli arpioni, che sospettava non sarebbero stati graditi, pur avendo l’impressione che il costruttore avesse capito buona parte di ciò che aveva detto Kim in inglese. L’uomo annuì, sorrise e li fece entrare nella grande moschea; non avendo caschi di protezione, Harry teneva la mano sopra la testa di Kim, troppo eccitata per reagire con l’irritazione che avrebbe mostrato in circostanze più normali. «Cavolo» continuava a dire mentre il costruttore li portava in giro — accettando per la prima volta di farli entrare — e indicava loro come la strana sagoma del tetto fosse sostenuta da gigantesche travi. È la storia delle generazioni, rifletté Harry. James Burton aveva assistito con costernazione al crollo dell’impero; Harry Burton lavorava al crollo del comunismo; e Kim Burton non desiderava altro che imparare a costruire, un edificio dopo l’altro, interessata più al procedimento che al risultato, si trattasse di una moschea, un museo o una prigione. Tra tutti loro, pensò Harry in un impeto di sentimentalismo, solo su di lei si sarebbe potuto contare perché si accostasse al mondo senza fare danni.
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Da lontano sembrava che pregassero. Harry Burton e Hiroko Ashraf si inginocchiarono ai due lati della vasca di pietra, senza degnare di uno sguardo i gabbiani che sfioravano la superficie dell’acqua alla loro sinistra, né la vita della spiaggia alla loro destra: famiglie sedute sugli scialli a mangiare arance per contrastare l’aria salmastra; un gruppo di ragazzi lanciava a un gruppo di ragazze una pallina da tennis con un biglietto appiccicato sopra, che le faceva ridere e stringersi insieme; cammelli con selle pesantemente lavorate a specchio, altalenando la groppa per alzarsi, strappavano grida ai loro giovani passeggeri; intanto Raza costruiva un complicato fortino di sabbia, perché Harry aveva detto che da giovane era così che si divertiva in spiaggia, e Sajjad incideva versi in urdu sulle pareti del forte con la punta di un osso di seppia. «A volte ti accorgi che ci sono le salamandre solo perché smuovono il fango. Hanno un modo di mimetizzarsi un po’ più efficace del tuo» disse Hiroko indicando vagamente i capelli di Harry, tinti con l’henné e decisamente schiariti rispetto al loro colore naturale. Harry scoppiò a ridere. «Non fare la spiritosa. Perfino i pathan mi credono uno di loro se mi metto un salwar kamiz. Dico che mi chiamo Lala Buksh, ma poi mi tradisce l’incapacità di aggiungere qualcos’altro in pashto. Sai per caso che fine ha fatto? Il vero Lala Buksh?» Hiroko scosse la testa. Voltandosi verso il mare, chiuse gli occhi e sorrise. «Non sai come mi fa piacere essere qui. Viviamo così all’interno che a volte mi dimentico che anche questa città è sulla costa». «Anche?» «Come Nagasaki». Guardò i tre pescherecci di legno che avanzavano in fila indiana verso l’orizzonte: niente vela, e a questa distanza nessun rumore di motori, così che sembravano spinti dalla semplice volontà del mare. Da Naga165
saki a Bombay. Da Bombay a Istanbul. Da Istanbul a Karachi. Tutto quel viaggiare per mare nel giro di un anno, reso ancora più straordinario dal fatto che fino ad allora non si era mai allontanata dal Giappone, e in seguito non si era più allontanata dal Pakistan. Anzi, nemmeno da Karachi: talora Sajjad portava con sé Raza quando andava a trovare suo fratello Iqbal a Lahore o sua sorella a Peshawar, e una volta ogni dieci anni varcavano il confine per far visita ai parenti rimasti a Delhi, malgrado si trattasse di un viaggio demoralizzante. Ma Hiroko non li accompagnava: Sajjad aveva accettato da tempo che una moglie giapponese sarebbe sempre stata un’estranea per la famiglia, che la sua presenza avrebbe messo in imbarazzo tutti quanti, e alla fine aveva smesso di chiederle di partire con loro. Perciò di tanto in tanto aveva queste giornate da passare a Karachi da sola, e ogni volta aveva immaginato di attingere di nascosto ai risparmi e comprare un biglietto aereo per qualche posto — l’Egitto, Hong Kong, New York — facendo ritorno in tempo per accogliere il figlio e il marito. «Ci pensi ancora molto? A Nagasaki?» In genere non faceva domande come questa a qualcuno che conosceva solo da un paio di mesi, ma Hiroko sembrava far parte della sua vita da tantissimo tempo. Lei si toccò la schiena appena sopra la vita. «È sempre con me». Harry annuì, poi guardò giù verso l’acqua della vasca di pietra e si vide riflesso con delle alghe che gli spuntavano dal volto. «Come hai fatto a raccontarlo a Raza? Con Kim... la prima volta che ha chiesto di Konrad me ne sono andato con una scusa. Aveva saputo qualcosa da mia madre: ancora adesso non so bene cosa le avesse detto, ma so che era uscita da quella stanza con un’espressione tremendamente adulta. E aveva otto anni». Hiroko diede un’occhiata a Raza, concentrato sul castello di sabbia. In quel momento era un bambino. «Favole» rispose. «Mi inventavo delle favole». Harry scosse la testa perplesso. Lei fece un respiro profondo. «Ora te lo spiego» disse, lasciando intendere che gli avrebbe rivelato qualcosa di cui era disposta a parlare con ben poche persone. «Ce n’era 166
una in cui il padre in fin di vita di una ragazza le striscia davanti nelle sembianze di una lucertola: è una scena così orrenda e grottesca che le ci vogliono anni per capire che il suo ultimo gesto era stato di andarle incontro, dopo una vita passata a evitarla. Poi ce n’era una su un ragazzo a cui viene tolta la vita, e la ragione è che era un sogno, così come tutto quello che ne faceva parte e che più gli stava a cuore, mentre lo squallore e la solitudine sono la realtà. E un’altra su certi libri viventi che hanno il dorso viola e la costa spezzata, e preferiscono morire che vivere sapendo di non contenere altro che fantasie. Una donna che perde ogni sentimento quando viene attraversata da un fuoco che le entra dalla schiena e le trafigge il cuore, tanto che alla vista di un bambino morto riesce solo a pensare che non sarà l’ultimo. Gli uomini e le donne che vagano per un mondo fatto di ombre, in cerca delle persone che hanno amato. Mostri che spiegano le ali, calano sulla pelle di qualcuno e vi indugiano, aspettando la propria occasione. L’esercito di diavoli del fuoco caduti dal cielo, che uccidono con un abbraccio. L’insegnante alle prese con i libri che prendono vita, inseguita dappertutto dalle illustrazioni di un testo di anatomia: corpi senza pelle, corpi con gli organi in bella vista, corpi che mostrano cosa succede quando gli organi smettono di funzionare». «Dio santo, Hiroko». Quando aveva fatto domanda per lavorare nella direzione operativa della CIA si era aspettato di finire nei guai per essere nato all’estero e per la questione della fedeltà a due paesi diversi; invece l’India e l’Inghilterra erano state a malapena nominate durante il colloquio, e l’unico momento difficile era stato quando gli avevano chiesto cosa ne pensava di Hiroshima e Nagasaki. Ben consapevole di essere collegato alla macchina della verità, aveva risposto: «Sono convinto, come il presidente Eisenhower, che non avremmo dovuto». E adesso il Pakistan stava sviluppando il suo programma nucleare. La CIA ne era al corrente, e per quanto ne sapesse Harry, l’unica reazione era raccogliere conferme di questo fatto e incanalare altri fondi nel paese, per consentire gli enormi investimenti che un programma simile richiedeva. Harry non ricordava Konrad, ma ciò non gli aveva impedito di sognare regolarmente il fungo dell’atomica, dopo che da bambino aveva trovato su una rivista della madre le foto delle vittime della bomba: il suo sguardo era passato da quelle immagini di grumi di uma167
nità carbonizzati al ritratto di zio Konrad da bambino, appena più grande di quanto fosse lui allora, che sorrideva all’obiettivo con un sorriso identico al suo. Era stata Ilse Weiss, non uno psicologo della CIA, a ipotizzare che alla base del suo desiderio di entrare nell’agenzia in piena guerra fredda ci fosse un terrore del conflitto nucleare, una minaccia che poteva essere eliminata una volta per tutte mettendo fine all’ostilità fra l’America e la Russia. Harry si era schermito, rifiutandosi anche in quell’occasione di ammettere la sua vera attività, malgrado sua madre l’avesse capito già ai tempi dell’addestramento a Camp Peary; c’erano state volte, tuttavia, dopo aver letto il rapporto sui programmi nucleari del Pakistan scritto da un collega e indirizzato a Langley, in cui Harry aveva provato una gran rabbia, seduto davanti a qualche funzionario dell’ISI — una rabbia che andava al di là del fastidio e della sfiducia inscindibili dalla collaborazione fra l’ISI e la CIA — e si era chiesto se sua madre non avesse ragione. «Però quelle favole a Raza non le ho mai raccontate» continuò Hiroko. «Neppure una. Continuavo a pensare che un giorno sarebbe stato abbastanza grande. Ma poi perché avrei dovuto far sì che mio figlio immaginasse cose simili?» Tirò su dell’acqua con la mano e la spruzzò sulla testa di Harry, che stava diventando rossa per il sole. «Sa della bomba. Sa che è stato orribile e che sono morti mio padre e l’uomo che avrei dovuto sposare. Una volta gli hanno regalato per il compleanno un libro di storia in cui c’era una pagina tutta dedicata a Hiroshima, con un paragrafo su Nagasaki. C’era la foto di un vecchio giapponese triste, che si teneva una benda sulla testa insanguinata. Pareva che si fosse tagliato cadendo dai rami bassi di un albero. Raza me l’ha mostrata, ha fatto un cenno con la testa e non ne ha mai più parlato». «E le ustioni sulla schiena?» Harry fu preso alla sprovvista dall’espressione di furia che le attraversò il volto, dal tono aspro con cui rispose: «Non stava a tua madre metterti al corrente». «Mi dispiace». Si scoprì spaventato dal suo fastidio, scosso dall’assenza del consueto buon umore nei suoi tratti. Lei si passò una mano sul volto come per spazzare via la collera che vi si era insediata, e tese la mano per dare un buffetto sul polso a Harry. 168
«Perdona la mia vanità. Sajjad è l’unica persona al mondo a cui permetto di...» Si interruppe, sorrise per suggerire che continuando avrebbe rivelato dei particolari troppo intimi e aggiunse: «In realtà Raza non le ha mai viste». «Non le ha viste?» Gli era stato impossibile nascondere il suo turbamento. «Be’, sa che ci sono. Sa che ho dei punti privi di sensibilità. Da bambino si divertiva a sgusciarmi alle spalle e punzecchiarmi con una matita o una forchetta, e si metteva a ridere vedendo che continuavo a fare quello che stavo facendo senza accorgermi di nulla. Sajjad si arrabbiava da matti, ma io ero contenta che Raza potesse accettare la cosa senza troppi problemi». La divertì l’espressione ancora stupita di Harry. «Questo non è un mondo in cui i bambini vedono la schiena nuda delle madri, sai? Non ho dovuto fare nessuno sforzo per evitarlo: è bastato non fare niente di speciale per mostrargli cosa mi avevano fatto. Perché sono brutte, Harry Burton. E io sono vanitosa». Provò un curioso, intenso desiderio di chiederle scusa, di implorare il suo perdono. A fermarlo fu soltanto la certezza che qualsiasi frase sarebbe risultata inadeguata, l’avrebbe solo messa in imbarazzo. «Ma non voglio farti credere che vivo ossessionata dal passato» continuò Hiroko. «Ho sentito dire che la maggior parte delle hibakusha si sentono in colpa per essere sopravvissute. Credimi: non è il mio caso. Sono qui, respiro l’aria di mare, vado in cerca di salamandre e paguri in compagnia di un Weiss mentre mio marito e mio figlio costruiscono un fortino con la sabbia. E ieri ho risposto al telefono e ho sentito la voce della mia vecchia amica Ilse per la prima volta in trentacinque anni». Sorrise, profondamente soddisfatta. Era stato incredibile come tutti gli anni che erano trascorsi si fossero ridotti a nulla: avevano parlato per un’ora senza trattenersi, e la voce di Ilse era felice come non lo era mai stata durante gli anni del matrimonio con James. «E domani mattina entrerò nel cortile della scuola con Bilqees, che è mia amica, collega e vicina di casa, e gli allievi faranno ressa attorno a noi per raccontarci che ieri sono andati allo zoo, parleranno tutti insieme e io non capirò una parola di quello che dicono. Sì, lo so che può sparire tutto in un lampo, ma questo non lo rende meno prezioso». 169
Si chinò indietro e immerse i piedi nella vasca di roccia. Non sapeva come fare a dirgli — senza metterlo a disagio — che anche lui era diventato parte di tutto ciò che considerava prezioso. Era straordinario come era entrato nella loro casa di Nazimabad, nella loro vita di tutti i giorni. Poco prima, mentre guardava Harry giocare a cricket con Raza e un gruppo di ragazzi, aveva capito che Konrad si sarebbe volentieri avventurato in zone della città da cui sua sorella si teneva alla larga; però lo avrebbe fatto con poca naturalezza, ben consapevole della propria trasgressione. E Ilse, malgrado tutti gli anni che aveva passato a New York a «mescolarsi con persone di tutti i generi» — parole sue — non sarebbe riuscita a trovarsi davanti Sajjad senza pensare che per lei era stato poco più di un domestico: era apparso ovvio dall’unica nota stonata della conversazione, quando aveva chiesto: «E tuo marito come sta?» L’atteggiamento di Harry, invece, era di semplice gratitudine per essere stato accolto di buon grado. Questi americani!, pensò guardando Harry che si toglieva di tasca un tubetto di crema solare e se la spalmava in testa. A Tokyo, trentacinque anni prima, era giunta alla conclusione che il loro snobismo non era legato al ceto sociale, ma alla nazione in cui erano nati («La bomba ha salvato tante vite americane!» Ancora adesso, al ricordo, si sentiva infiammare il volto dalla rabbia). Eppure in presenza di Harry si addolciva. Era un funzionario del consolato — il nipote di Konrad, un funzionario del consolato. E le sembrava giusto così: Harry era il custode del cancello fra un paese e l’altro, e quanto Hiroko aveva visto di lui nelle ultime settimane l’aveva convinta che lui il cancello lo avesse spalancato. «La Partizione e la bomba» la interruppe Harry. «Voi due siete la prova vivente che gli uomini possono superare qualunque difficoltà». Superare qualunque difficoltà. Era un concetto così americano, ma Harry cosa intendeva veramente? Sapeva che lo aveva detto in buona fede, per cui sarebbe stato scortese rinfacciargli il feto «sbagliato» che il suo corpo aveva respinto, o le lacrime di Sajjad dopo aver visitato per la prima volta il mondo che aveva perduto a Delhi. Dunque rispose: «A volte guardo mio figlio e penso che forse, se dovessimo superare meno difficoltà, ci sentiremmo meno esasperati». Il vago senso di inutilità che si era impadronito di Raza dopo la se170
conda bocciatura si era fatto più acuto e nelle ultime settimane si era trasformato in vittimismo, da quando Sajjad aveva preso a portarlo con sé alla fabbrica di sapone che dirigeva, all’ora in cui tutti gli amici di Raza prendevano l’autobus per andare in università. «Almeno fallo lavorare in ufficio» aveva detto Hiroko dopo che, il primo giorno, Raza era tornato a casa sporco del grasso delle macchine e si era rifiutato di lavarsi le mani perché l’odore del sapone gli dava la nausea. «Gli ho detto che lavorerà in fabbrica finché non si deciderà a ridare l’esame. Non capisci? Voglio fargli odiare il lavoro e costringerlo a scegliere l’unica via di scampo disponibile. Se fosse per te, starebbe tutto il giorno in casa a deprimersi. Avevi detto di dargli tempo: be’, il tempo l’ha avuto. Adesso lasciami fare a modo mio. All’esame mancano solo poche settimane». Hiroko si era sentita abbastanza in ansia per il torpore del figlio da acconsentire, scuotendo il capo davanti alle sue richieste di intercedere presso Sajjad, ma facendogli regolarmente trovare un mucchietto di cenere e qualche fetta di limone vicino al lavandino perché potesse lavarsi le mani quando tornava dal lavoro. Ricordava benissimo il tanfo acre della fabbrica di munizioni, che le restava nel naso tutto il giorno. «Non capisco» disse Harry. «È un ragazzo così sveglio, qual è il problema?» Lei cercò di spiegargli — dal poco che aveva capito dai discorsi borbottati di suo figlio — la faccenda delle parole che sparivano in sprazzi di luce, delle dita incapaci di reggere la penna, e soprattutto dei brevi momenti di lucidità in cui le risposte gli si affacciavano alla mente incatenandosi logicamente l’una all’altra, tanto che sarebbe bastato acciuffare la prima perché le altre la seguissero come una fila di ballerine che si tenevano sottobraccio, se non fosse che nel tragitto dalla mente alla penna le risposte si disperdevano in un turbine senza senso. «È questo che gli succede?» domandò Harry. Si alzò in piedi, strofinandosi il ginocchio che aveva tenuto premuto contro le rocce. «Se non ti spiace vorrei dire due parole a tuo figlio». Hiroko guardò Harry che si avvicinava a Raza e Sajjad, mettere una mano sulla spalla a Raza e prenderlo da parte. Desiderò credere nell’aldilà per poter pensare che Konrad li stava vedendo. Distolse lo 171
sguardo da loro per osservare altri karachiwalla rilassarsi in spiaggia. C’era quel gruppo di odiosi ragazzini che poco prima aveva preso in giro Raza tirandosi gli occhi con le dita e cantilenando «cinese, giapponese, dale soldi pel favole» finché Harry li aveva cacciati urlando. A darle fastidio non erano stati tanto i ragazzi, quanto l’incapacità di Raza di vedere lo scherzo come un segno innocente della loro ignoranza di bambini. Si domandò se la sua ipersensibilità fosse frutto dell’ansia che gli aveva comunicato durante la gravidanza, mentre cresceva dentro di lei. Guardò le donne sedute in spiaggia. Molte maniche che arrivavano fino al polso, invece che a metà avambraccio, qualche testa coperta. Lo trovava assurdo. «Islamizzazione» era un termine che tutti riconoscevano come lo strumento politico di un dittatore, e ciò nonostante permettevano che cambiasse le loro vite. Non si preoccupava per sé, ma per il figlio, temendo l’effetto che avrebbe avuto su di lui, ancora così immaturo, la confusione di una nazione ancora priva di forma. «Vuoi camminare verso il tramonto in compagnia di tuo marito?» disse Sajjad avvicinandosi. Lei prese la mano che le veniva offerta, felice di venire distolta dai suoi pensieri, e si alzò dallo scoglio proprio mentre Raza e Harry si incamminavano nella direzione opposta, verso la riva. «Non ho ancora avuto la possibilità di darti questa roba» disse Harry aprendo la borsa che aveva a tracolla e infilandoci dentro la mano. «Anche se non ho ancora capito perché la vuoi». Tirò fuori una borsa trasparente e gliela mise in mano. Raza guardò quelle specie di batuffoli appiccicati uno all’altro e con aria incerta conficcò un dito nel sacchetto. «Sono fatti così, i marshmallow?» Un’onda si infranse a pochi metri da lui, che a stento si accorse degli spruzzi d’acqua fredda, a parte la mano aperta sul sacchetto per proteggerlo. «Eh sì. Adesso mi domanderai perché ho chiesto a mia figlia di portarteli da New York, nel bagaglio a mano, oltretutto, perché non si schiacciassero completamente». Aveva detto a Kim che erano per la bambina di un dipendente del consolato, per non affrontare la sua reazione all’idea di un sedicenne pakistano che più di tutto, dall’America, voleva farsi portare i marshmallow. 172
«Mi sono sempre chiesto cosa fossero». Rigirò il sacchetto. «Nei fumetti americani ci sono sempre. Grazie, zio Harry». Harry guardò il volto del ragazzo, così pieno di ammirazione da apparire quasi astratto. Nessuno lo aveva mai chiamato «zio Harry», e prima di conoscere Raza non aveva mai pensato che la cosa potesse mancargli. «Li mangerai con la tua ragazza?» Nello spazio di un sorriso, Raza si trasformò da ragazzino assillato in un giovane pronto e sfavillante, pieno di fascino. L’unico raggio di luce in queste ultime settimane — a parte zio Harry e lo sguardo ammirato di Abdullah, il ragazzo sul camion — era stata la storia d’amore al telefono che aveva iniziato con la sorella di Bilal, Salma. Non lo aveva detto a nessuno, finché quel mattino ne aveva parlato sottovoce a zio Harry, nell’orecchio. «Sai chi mi ha chiesto se avevi la ragazza?» butto lì Harry, prendendo un sasso e lanciandolo in modo da farlo rimbalzare sull’acqua. «Mia figlia Kim». Vide Raza che arrossiva, e cercò di immaginarsi Kim, col suo rossetto nero e le t-shirt strappate, che trovava qualcosa da dire a questo ragazzo che era venuto in spiaggia con addosso i vestiti bianchi da cricket. In effetti aveva voluto sapere se Raza aveva la ragazza, ma era una domanda interessata, fatta per sfruttare il «no» della risposta in modo da sviare i continui elogi di Raza, della sua intelligenza, delle sue buone maniere. «Come sta tua figlia?» chiese Raza come Harry si aspettava, con la galanteria che avrebbe fatto schiattare dal ridere Kim. Se fosse qui, pensò, correrebbe avanti e indietro fra le onde, facendosi beffe di tutta quella gente venuta solo per la sabbia e l’aria buona, e incapace di muovere braccia e gambe nell’acqua. Gli mancava terribilmente, malgrado i loro ultimi scambi fossero consistiti più che altro in violenti litigi e silenzi accigliati. Le compiaciute telefonate della sua ex moglie da Parigi, dove si trovava in vacanza con il fidanzato, non contribuivano di certo a rischiarare l’atmosfera. «Uno di noi deve vedersela ogni giorno con i conflitti veri, Harry, mentre l’altro se ne sta in qualche angolo esotico del pianeta a giocare come un ragazzo» gli aveva detto. «Questa vacanza me la sono meritata». Come se lui ignorasse che era Ilse l’unica a occuparsi dell’educazione di Kim, mentre sua madre svolaz173
zava da un impegno di lavoro a uno mondano. A volte si chiedeva se dopo il divorzio si fosse trasferita a New York proprio per avere sempre a disposizione Ilse come baby-sitter, e zio Willie come riserva. «Sì, Kim sta benissimo» rispose a Raza. «Però sono stato molto in pensiero per un certo tempo. Sai, quando è entrata nell’adolescenza. A certe ragazze vengono i foruncoli, a certe cresce il seno» continuò, guardando divertito Raza che arrossiva di nuovo. «Invece a Kim è venuta la paura degli esami». Raza lo guardò confuso. «Una gran brutta cosa. Me ne ha parlato, una volta. Sapeva tutte le risposte del test fino al momento in cui si sedeva per affrontarlo. Per fortuna c’era un’insegnante che aveva capito cosa stava succedendo. La signora O’Neill, l’angelo custode di Kim. Le ha insegnato certe strategie per superare il problema». Stava alterando soltanto di poco la realtà: a soffrire d’ansia prima degli esami non era stata Kim, bensì un collega di Islamabad, Steve, che una sera, dopo aver alzato il gomito, aveva brindato alla sua vecchia insegnante delle superiori, illustrando con dovizia di particolari come lo aveva aiutato a evitare le continue bocciature, e infondendo in lui la convinzione che è possibile superare qualunque problema se si utilizza la strategia giusta. L’ansia nella valutazione scolastica era un problema reale, scientificamente definito, e ne soffriva anche la figlia dello zio Harry. Raza gli strinse il braccio. «Te le ricordi, queste strategie?» Harry annuì. «Te le mostrerò» rispose. Avrebbe dovuto telefonare a Steve. «Domani. Ti darà una mano tua madre. E una volta superato questo ostacolo il mondo sarà ai tuoi piedi, Raza Konrad Ashraf. L’America pullula di università che non vedono l’ora di avere fra gli iscritti un giovane pakistano brillante e avido di sapere. Se gli esami di ammissione vanno bene, sono loro a pagarti la retta. E io ti darò una mano con la faccenda dell’ammissione. Che ne dici?» Per un attimo si chiese se non sarebbe stato meglio parlarne prima con Hiroko e Sajjad, ma poi stabilì che gli sarebbero stati grati per il suggerimento, considerata la stima di cui godevano gli studi universitari in America presso il ceto medio del Pakistan. Raza annuì, tentando di darsi un contegno. «Ottimo» disse. 174
«Ottimo». Harry alzò il palmo della mano in modo che Raza potesse dargli un cinque. «E potrai conoscere Kim». «Kim». Raza non aveva mai pronunciato quel nome prima di allora, ma l’ansia da valutazione scolastica aveva creato un legame fra di loro. «Bel nome». «Certo» rispose Harry. Molto tempo prima della CIA c’era stato Kipling, e un ragazzo seduto a cavalcioni su un cannone. «Non so se tu e Kim andrete d’accordo, ma sono abbastanza sicuro che tu e l’America vi piacerete. Anzi, sarà amore a prima vista, come è successo nel mio caso. Avevo dodici anni quando sono andato a viverci, e ho capito subito di avere trovato casa mia». «Aba dice che ti piaceva molto Delhi». «È vero. Verissimo. Ma in India sarei sempre rimasto un inglese. Da giovane non me ne rendevo conto, però è così. In America chiunque può essere americano. È questo il bello». «Io non potrei» disse Raza. «Tu somigli a Clint Eastwood e a Kennedy, quindi è ovvio che puoi essere americano. Io non sono né carne né pesce». «Chiunque» ribatté Harry convinto, sapendo che lo avrebbe offeso se avesse riso dei suoi assurdi paragoni. «Chiunque può essere americano. Persino tu, lo giuro». «America». Raza si rigirò la parola sulla lingua. Harry guardò quel giovane dallo sguardo sognante e così dotato per le lingue, una gran voglia di credere in qualcosa e lineamenti che sarebbero passati inosservati in molti paesi dell’Asia centrale e in certe regioni dell’Afghanistan, e un pensiero gli balenò per la mente. Fu solo per un attimo, perché lo scacciò subito.
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Dovette telefonare tre volte perché gli rispondesse lei invece della madre. «Pronto, Fatima?» fece. «Ho quegli appunti per te. Aspetta, prendo il telefono nell’altra stanza». Lui restò in attesa per qualche secondo, e sorrise mentre si faceva scorrere tra le mani il pacchetto di marshmallow ancora chiuso. Quando riprese a parlare, il tono di voce era rauco e sarcastico, aveva perso l’iniziale indifferenza. «Quanto sei gentile a mettere da parte gli impegni per chiamarmi, Raza». «Salma» disse lui con quel tono di tenera adorazione che sapeva le sarebbe piaciuto. «Non fare così. Sono stato in spiaggia con lo zio Harry, sono appena rientrato». «Ah be’, se preferisci stare col tuo americano...» rispose, ma lui capì di aver fatto colpo. «Gli ho chiesto di portarti un regalo da New York». Tastò la morbidezza di un marshmallow nel sacchetto e si chiese se fosse simile alla consistenza dei seni di Salma. «Non mi dire» rispose lei con un filo di voce. Poi cambiò tono. «Non gli avrai parlato di me?» «Certo che no. Ho detto che era per me. Lo vuoi o no? Se lo vuoi bisogna che ci vediamo, e sul serio». «Cosa vuol dire ‘sul serio’?» Lui esitò per un attimo. La situazione era delicata. Ma qualunque università americana sarebbe stata orgogliosa di accoglierlo! E anche Kim Burton soffriva d’ansia prima degli esami! Improvvisamente la stanza si illuminò del suo valore. «Sai benissimo cosa vuol dire... Sono stanco di te che mi ignori ogni volta che vengo a casa tua». Cosa poco frequente, negli ultimi tempi; tuttavia era di un umore tale che non si lasciò abbattere. «E cosa credi che farebbe mio fratello, se sapesse che il suo amico vuole vedermi per... insomma». 176
«Non è questo che intendo dire, Salma. Ormai è più di un mese che ci parliamo tutti i giorni. Come puoi mettere in dubbio il mio rispetto nei tuoi confronti?». Questa uscita non ebbe più successo delle altre volte che l’aveva azzardata. Era chiaro che doveva cambiare tattica. «Ti pentirai di questo tuo atteggiamento, quando me ne sarò andato». «Andato dove? Alla fabbrica di saponette?» Era la prima volta che gli diceva di sapere dove andava ogni mattina con suo padre, e in qualsiasi altro giorno la cosa lo avrebbe devastato. Adesso invece lo fece sorridere. «Andrò all’università in America. Dice lo zio Harry che mi aiuterà con le domande di ammissione e farà perfino in modo che mi paghino per andarci. È così che fanno, laggiù». «Non ti credo». «È la verità. Se ci vediamo ti racconto tutto». «Perché insisti? Non ho intenzione di vederti. Cosa ne sarebbe della mia reputazione se qualcuno lo venisse a sapere?» «Che cosa devo fare, mandarti mia madre con una proposta di nozze? Lo farò, lo sai che lo farò. Andiamo, Salma, sposiamoci e andiamo insieme in America». Lo disse soltanto per dire che non si sarebbe mai comportato in maniera disonorevole con lei, che non la considerava una ragazza facile; invece nel silenzio che seguì ebbe la nauseante sensazione di essere stato preso sul serio. «Raza, i miei genitori non mi permetteranno mai di sposarti» disse lei alla fine, mentre lui cercava un sistema per districarsi dalla situazione in cui si era cacciato. Sorrise, e sollevato allungò il braccio sullo schienale del divano, con un’espressione beata che avrebbe fatto invidia a quella di James Burton nella sua casa di Delhi. «Non capisco perché la differenza d’età abbia tanta importanza. Hai solo due anni più di me. Ma come possiamo andare contro le tradizioni?» «L’età non c’entra. Il problema è tua madre. Tutti sanno di lei». «Cosa sanno?» 177
«Di Nagasaki. Della bomba. Nessuno ti darà in sposa sua figlia a meno che non sia disperato, Raza. Potresti essere deforme. Come facciamo a sapere che non è così?» Raza si irrigidì, strinse il telefono con forza. «Deforme? Salma, tuo padre è il mio medico. Io non sono deforme». «Magari non lo sei in maniera evidente, ma non ci sono garanzie. Potresti avere qualcosa di ereditario e trasmetterlo ai tuoi figli. Ho visto le foto, sai. Dei bambini nati a Nagasaki dopo la bomba». «Io a Nagasaki non ci sono mai nemmeno andato. Sono nato vent’anni dopo la bomba. Fammi il favore. Se non vuoi più rivolgermi la parola, dillo e basta. Ma non tirar fuori queste storie. Non dire che pensi che sono deforme». «È giusto che tu lo sappia. Così pensa la gente di te. Vai pure in America, darling». Quel termine affettuoso, in inglese, era suonato goffo. «E non dire a nessuno la verità. Addio, Raza. Per favore, non chiamarmi più». Col telefono stretto sotto il mento Raza ascoltò il segnale intermittente che gli pulsava nell’orecchio. Il crepuscolo scagliava le ombre dei rami attraverso la finestra e distorceva la simmetria della griglia di ferro e dei ghirigori ispirati alla chiave di violino. Mentre riponeva con calma la cornetta, dopo aver asciugato le lacrime che scorrevano sul ricevitore, capì che aveva atteso troppo a lungo la conferma di essere... non tanto un escluso, no. Non era quello, perché fin dalla nascita aveva vissuto nella stessa mohalla, si era scorticato le ginocchia in ogni strada nel raggio di un miglio. Non tanto un escluso dunque, semmai una tangente. Che entrava in contatto col mondo della sua mohalla, senza però mai intersecarlo. Dopotutto, le intersezioni venivano create dalla storia e dalle vicende personali condivise, dai matrimoni fra gente della stessa zona: un mondo di intersezioni da cui Raza Konrad veniva cacciato. Uscì nel cortile e respirò a fondo la brezza pungente della sera; scosse la testa quando suo padre lo invitò a sedersi per ascoltare la lettera di Sikandar arrivata da Delhi, poi uscì nella strada, che era deserta a parte qualche gatto inselvatichito che si acquattò sulle anche e gli soffiò contro finché Raza non fece dietrofront e se ne andò dall’altra parte annuendo, quasi che il gatto fosse una guida, non una minaccia. 178
Se a chiederla in moglie fosse stato il figlio di Sikandar, lei avrebbe acconsentito. L’idea — per quanto assurda e infondata — gli affiorò nella mente come un dato di fatto. Sì: i genitori di Salma avrebbero accettato il matrimonio con suo cugino Altamash, il figlio minore di Sikandar, che portava lo stesso nome del primogenito degli Ashraf. Le avrebbero permesso di sposare Altamash anche se era indiano e povero e di lui non sapevano niente che valesse la pena di sapere, tranne che era nipote di Sajjad Ashraf e cugino di Raza. Si piegò su se stesso incrociando le braccia, e una donna che lo vide da un balcone si chiese se quel giovane, che l’aveva stranamente colpita, fosse stato colto da un mal di stomaco improvviso. Nel quartiere la gente chiedeva ancora di Altamash, sebbene fosse arrivato a Karachi ormai da cinque anni, insieme alla madre, la quale sperava che il quartiere borghese in cui viveva Sajjad le avrebbe procurato una moglie ricca per il fratello maggiore di Altamash, ancora scapolo. Dei cugini di Delhi, Altamash era l’unico che fosse più o meno coetaneo di Raza, e quando i due ragazzi si erano incontrati era subito nata fra loro un’amicizia turbolenta. Quando uscivano insieme, però, era Altamash che tutti scambiavano per il figlio di Sajjad, non Raza. E poi c’era stato quel venerdì pomeriggio, un gruppo di ragazzi che andavano dalla moschea al campo da cricket, quando Altamash si era rivolto rabbiosamente verso Bilal dopo che questi aveva fermato un risciò, e indicando i due cugini aveva chiesto al conducente di indovinare quale dei due non era pakistano, un gioco che si divertiva a fare già da qualche giorno. «Non è divertente» aveva spiegato Altamash. «In India, quando vogliono insultare noi musulmani, ci danno dei pakistani». Bilal era scoppiato a ridere. «In Pakistan, quando vogliono insultare noi muhajir ci chiamano indiani» aveva risposto. I due ragazzi si erano scambiati una pacca sulla spalla mentre Raza li guardava impacciato e si toglieva il berretto da baseball e cercava di capire perché una simile ingiustizia dovesse essere considerata divertente. Finora non aveva capito che cosa gli avesse dato tanto fastidio nel gioco di Bilal, così come non aveva analizzato il proprio spontaneo bisogno di nascondere la sua conoscenza del giapponese. Ma in quel momento, incapace di sfuggire all’idea che Salma lo compatisse, la cosa divenne inevitabile: nel quartiere non c’era posto per lui. Un fallito, un 179
operaio della fabbrica di saponette, un meticcio segnato dalla bomba. Sputò fuori le parole, più volte: Raza Konrad Ashraf. Konrad. Scoprì i denti mentre lo diceva. Voleva entrare in quel nome e cavarne fuori l’uomo la cui morte era un corpo estraneo incastrato fra le due ali pakistane del suo nome. Strinse i pugni e svoltò in una strada fiancheggiata da negozietti, in cui riconobbe lo spettacolo familiare dei ragazzi che giocavano a cricket urlando «O-ho, Khalifa!» per festeggiare il capitano che si era appena autonominato. Passò una macchina che scansò velocemente i ragazzi e le porte, e rovesciò fuori dai finestrini aperti la voce della bellissima giovane che cantava il nuovo successo, Boom! Boom! Soltanto pochi mesi prima, lui e i suoi compagni di classe avrebbero partecipato a quella stessa partita di cricket, o a un’altra poco distante... Mentre lo pensava vide due suoi ex compagni di classe che venivano verso di lui, intenti a scartare due kebab. Studiavano entrambi ingegneria, e a giudicare dal modo in cui gesticolavano dovevano parlare di qualcosa che avevano imparato quel giorno, agitando i kebab come se rappresentassero... che cosa, aeroplani? Correnti? Linee ferroviarie? Non sapeva niente del linguaggio di cui ormai erano imbevute le loro giornate. Uno dei due gli lanciò un’occhiata, e Raza indietreggiò per nascondersi nell’ombra. Si poteva essere dei falliti o dei meticci segnati dalla bomba, ma non entrambe le cose. Nemmeno per un attimo. E poi ripensò a quella parola. America. Sospirò, rilassò i pugni. Sì, ci sarebbe andato. Grazie allo zio Harry. Il resto non aveva più importanza, davanti a una promessa simile.
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Fermo davanti alla stanza dei genitori, Raza ascoltò i gemiti del padre con un misto di preoccupazione e di rimorso. «Oh Allah — il Caritatevole, il Misericordioso — è questo che hai cercato di risparmiarci!» Raza non capiva cosa c’entrasse Allah con l’aver cacciato di casa Harry Burton la sera prima, ma sapeva di essere il motivo per cui suo padre aveva smentito la propria naturale ospitalità al punto di risentirne fisicamente. Ancora non si capacitava di quanto era avvenuto. La serata era iniziata nel migliore dei modi: una cena in giardino per festeggiare la decisione di Raza di ritentare gli esami, armato delle strategie antiansia dello zio Harry. Raza aveva approfittato della brezza di febbraio per mettersi la giacca di cashmere, e a metà della cena si era sentito in dovere di «restituirla» a Harry. Questi aveva respinto l’offerta, naturalmente, e con una strizzatina d’occhio aveva aggiunto: «Il fatto di averti rubato le scarpe una volta non significa che debba portarti via tutto il guardaroba». Erano tutti allegri e soddisfatti, e i genitori di Raza si erano persino offerti di aprire la bottiglia che zio Harry aveva portato per Hiroko, malgrado a Raza fosse bastato annusarla per capire che il liquore era fermentato. In una sera così il fallimento era lontano un mondo, le bombe un intero universo. Dopo cena, tuttavia, Raza aveva chiesto se davvero a New York le luci erano così chiare che di notte non si riusciva a vedere le stelle, perché in quel caso avrebbe scattato una foto del cielo di Karachi e l’avrebbe appesa al soffitto della sua camera di studente. Poi si era rivolto con noncuranza verso i genitori, che l’avevano guardato incuriositi, e aveva annunciato: «Ah, sì, ho dimenticato di parlarvene. Lo zio Harry mi farà avere una borsa di studio da un’università americana». Fu in quel momento che tutto cominciò ad andare storto. Lo zio Harry disse di non aver promesso niente di simile, ma non vedeva ra181
gione per cui Raza non avrebbe dovuto essere ammesso in un’università americana, sempre che riuscisse a dare il suo esame. Naturalmente ottenere una borsa di studio non sarebbe stato semplice; però avrebbe procurato a Raza uno di quei libri che spiegano in dettaglio le politiche e i metodi di finanziamento dei college statunitensi. Raza ci mise qualche secondo a capire che non stava scherzando. «Ma non avevi detto...?» Si voltò verso suo padre. «Lo aveva detto lui!» «Andiamo, Raza». Harry si sporse in avanti. «Ho detto che ti avrei insegnato delle strategie per combattere l’ansia durante gli esami. Quella è stata l’unica promessa che ho fatto, e l’ho anche mantenuta, vero? È vero sì o no?» «Quegli stupidi esercizi non serviranno a niente» si accigliò Raza. «C’è differenza fra una cosa stupida e una semplice. Smettila di comportarti da bambino. Cristo santo, in questo paese ti fanno credere che se conosci la gente giusta tutto è possibile. Pensi davvero che mi basti far schioccare le dita per farti entrare all’università?» «Hai detto che mi avresti aiutato a fare domanda. Testuali parole». Da qualche settimana le aveva stampate nel cuore. «Be’, naturalmente ti darò una mano a capire i regolamenti di ammissione. Lo farò senz’altro. E ti darò tutte le informazioni di cui dispone l’ambasciata sui test standardizzati». Aprì le braccia per indicare la propria generosità. «Darò un’occhiata anche al tuo curriculum. Altro non posso fare. Se avessi voluto dire qualcosa di più, se avessi voluto darti qualche genere di garanzia, ti avrei detto che non c’era bisogno di ridare l’esame di studi islamici. Le università americane non sanno cosa farsene di quello. Invece no, lo devi ridare, nel caso in cui tu debba ripiegare su un’università pakistana. Non ti ho mai detto di farci conto, sull’America». Raza rimase sconvolto dalle lacrime che iniziarono a scendergli dagli occhi, e lo fu ancor di più quando Sajjad sbatté il bicchiere sul tavolo e se la prese con Harry. «Voi Burton siete tutti uguali! Sei tale e quale tuo padre, Harry, con queste allusioni che hanno il solo scopo di tenerci legati a voi. Continuava a dire che ero il più bravo, quando in realtà intendeva che ero il 182
servo più disponibile e meno lamentoso che avesse mai avuto». Un oltraggio sepolto da anni, riportato alla luce dalla delusione schiacciante letta sul volto del figlio, lo spinse ad alzarsi in piedi e a indicare la porta. «Noi Ashraf non abbiamo più bisogno dei Burton. Lasciate in pace la nostra famiglia». Adesso Raza guardò suo padre, coricato a letto con le mani premute sulle tempie come per spremerne fuori il ricordo del giorno prima, e si chiese perché gli venisse tanto facile peggiorare le situazioni invece che migliorarle. Ebbe l’ispirazione improvvisa di andare in soggiorno, prendere il registratore di Sajjad — il suo oggetto preferito — e portarglielo in camera con una cassetta di musica per sarangi che gli aveva comprato il giorno prima con lo stipendio della fabbrica di saponette. Avrebbe voluto dargliela dopo cena, ma l’allontanamento di Harry Burton aveva distrutto l’atmosfera di festa. Raza collegò il registratore alla corrente, inserì la cassetta e fece partire il nastro, già sorridendo all’idea della reazione deliziata di Sajjad. Invece, al primo suono dello strumento a corde Sajjad gridò: «Spegni!» e Raza, per lo spavento, colpì con tanta forza il tasto «stop» che l’apparecchio perse il suo precario equilibrio sul bordo del comodino e si schiantò rumorosamente a terra. Sajjad voltò la testa, vide i pezzi del registratore e guardò suo figlio giusto per il tempo necessario a dire «Raza...» in un tono di disperazione totale; poi si girò dall’altra parte, dandogli le spalle. Hiroko, che entrò poco dopo con una fetta di pane tostato, guardò in terra e fece un verso dispiaciuto. «Si è rotto! Oh, Raza, il registratore di tuo padre!» Raza uscì indietreggiando dalla stanza. «Mi dispiace» disse, ma Hiroko si era già chinata sul marito per esortarlo a mangiare un po’ di pane. «Sto morendo» disse Sajjad. «Anzi sono già morto. Sono all’inferno». «Se questo è l’inferno io che ci faccio?» rispose lei, mettendosi una mano sul fianco. Sajjad aprì un occhio. «Sei venuta a salvarmi?» domandò fiducioso. 183
«Ebbene sì» disse lei. «Con una fetta di pane tostato. Mangia e smettila di lagnarti, stupido ubriacone». Raza però non sentì quella parte della conversazione. Era in camera sua e stava cacciandosi nella tasca del kurta il rotolo dei soldi guadagnati in fabbrica, con un’espressione risoluta in volto. Un’ora più tardi scendeva sgomitando da un minibus «yellow devil» e si dirigeva verso il parcheggio dei camion vicino al mercato di Bara a Sohrab Goth. Prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, come gli aveva spiegato l’autista pathan dello scuolabus, Sohrab Goth era un villaggio alle porte di Karachi dove i nomadi afghani passavano l’inverno in case di fortuna, quando nel loro paese la terra non aveva niente da offrire, e a Karachi la continua richiesta di beni e manodopera richiamava verso il mare gli uomini delle montagne e delle pianure. Adesso però Sohrab Goth si era espansa fino a far parte di Karachi, allargandosi rapidamente insieme al resto del «settore informale» di cui faceva parte. Era una zona che faceva comodo a molti: ai poliziotti che arrotondavano il misero stipendio con le bustarelle, ai piccoli industriali in cerca di manodopera a basso costo, ai contrabbandieri in cerca di clienti, ai venditori di nuovi luccicanti apparecchi che riflettevano gli occhi dei ragazzini ansiosi di farsi perdonare qualcosa dai genitori. Raza camminava per le strade di Sohrab Goth stringendo il rotolo di banconote nella tasca del kurta, e intanto si chiedeva se non fosse meglio tornare direttamente in fabbrica dalla settimana successiva, piuttosto che perder tempo a ritentare l’esame. Adesso, l’idea che le strategie antiansia di Harry Burton potessero davvero funzionare gli sembrava assurda quanto l’ipotesi che ogni università americana avrebbe volentieri finanziato i suoi studi. Forse doveva semplicemente accettare il destino. Il fallimento. L’idea di essere un meticcio segnato dalla bomba. E il fatto che nessun talismano avrebbe potuto sostituire l’America che lo zio Harry gli aveva strappato di mano per pestarla sotto i tacchi. Al parcheggio dei camion del mercato di Bara non c’era nessuno, ma nel terreno adiacente vide un bambino che frugava nella spazzatura e infilava in un sacco di tela quel che trovava di riciclabile. Raza chiese di Abdullah, «quello col sovietico morto sul camion»; l’altro annuì e fece strada verso un insediamento di abusivi dall’altra parte del mercato. Ra184
za non era mai passato in mezzo a uno slum, e la schizzinosità ereditata dai Tanaka lo fece quasi soprassedere, mentre cautamente si faceva strada per i vicoli sterrati e un rivoletto rivelava col suo tanfo una fogna a cielo aperto. Invece tirò avanti, chiedendosi come avrebbe fatto a trovare Abdullah in quell’ammasso di case di profughi. Fili scoperti pendevano pericolosamente bassi, agganciati alle linee dell’elettricità accanto alle quali era sorto l’insediamento. Da lontano gli erano sembrate crepe nel cielo, che si aprivano nel buio. Raza cercò di non pensare all’igiene quando gli passò accanto un uomo con due secchi pieni d’acqua salmastra. «Abdullah... il sovietico morto sul camion» ripeteva di continuo a chiunque gli passasse vicino (escluse le donne, coperte dalla testa ai piedi: con loro preferì lasciar perdere). Alcuni alzavano le spalle e altri lo ignoravano, ma alcuni di loro sapevano a chi si riferiva e gli indicarono la strada in quel labirinto di case — le più robuste di fango, le altre fragili costruzioni di iuta e tela da sacchi — finché arrivò a una baracca di fango. All’esterno, su un letto di corda, stavano seduti Abdullah e una bambina piccola; lui muoveva il dito su un libro illustrato e intanto la incoraggiava emettendo qualche suono a leggere le sillabe e a concatenarle in parole. «Abdullah?» Il ragazzo alzò gli occhi e sorrise. «Raza Hazara!» esclamò senza alcuna esitazione, come se in quelle settimane avesse ripensato così spesso al loro incontro da mantenere vivida l’immagine dell’altro nella mente. Lo guardò in modo tale — la stessa folgorante ammirazione con cui aveva guardato Harry Burton inginocchiarsi davanti a Raza — che questi spinse in fuori il petto e mutò la sua espressione da quella di un ragazzo che chiede aiuto per trattare su un prezzo a quella di un uomo che acconsente di fermarsi a salutare una vecchia conoscenza. Abdullah toccò il braccio della bambina, le bisbigliò qualcosa e lei sgusciò giù dal letto ed entrò di corsa in casa. «È tua sorella?» domandò Raza. «Sì, ma non di sangue. Abito qui con la sua famiglia. Veniamo dallo stesso villaggio». Raza annuì e si chiese dove fosse la vera famiglia di Abdullah. 185
«Non ero sicuro di trovarti, ma sono contento di esserci riuscito». Il ragazzo pareva sinceramente compiaciuto. «Anch’io sono contento. Afridi è andato a Peshawar col camion e a me tocca restare qui per badare alle donne. Questa è casa di mio fratello, che però è via per qualche giorno. Siediti». Nel sedersi Raza prese il libro illustrato. Lo aveva incuriosito l’espressione concentrata della bambina mentre traduceva in suoni le figure; si era sempre impadronito della sintassi e del vocabolario con tanta facilità che faticava a considerarlo una conquista. «Sei andato a scuola?» domandò Abdullah. «Eh? Oggi?» «Non fare lo spiritoso». Abdullah gli tolse di mano il libro e rispettosamente lo appoggiò da una parte. «In generale. Prima di adesso». A Raza non era mai venuto in mente che qualcuno potesse considerarlo un analfabeta. Si chiese se fosse perché nel mondo dell’altro l’istruzione non era mai data per scontata, o se ci fosse qualcosa di incolto nel pashto che aveva imparato dall’autista dello scuolabus. «Sì» rispose dopo aver capito che non se la sentiva di mentire. «Prima». «Io ero sempre il primo della classe» disse Abdullah appoggiandosi con la schiena al muro di fango. «Vivevi al Nord?» La bambina scostò il telo che faceva da porta e Raza intravide un movimento — femminile, e numeroso — all’interno della casa, prima di distogliere in fretta lo sguardo. La bambina gli porse una tazza di tè verde, sorrise timidamente quando la ringraziò e tornò dentro di corsa. Raza deglutì con forza. «Spero di non offenderti, ma non posso parlare di come vivevo prima di arrivare qui. Ho fatto un giuramento, quando i russi hanno ucciso mio padre». Abdullah non disse nulla, ma gli posò la mano sulla spalla. Questa gentilezza riempì Raza di vergogna, ma ormai era tardi per fermarsi. «Non parlo nemmeno più la mia lingua, solo questa lingua imprestata. Non parlerò la lingua di mio padre, non dirò il nome di mio padre e quello del mio villaggio, né rivendicherò la mia parentela con un altri hazara fino al giorno in cui l’ultimo sovietico se ne andrà dall’Afghanistan. E sarò io a cacciarlo». Nel silenzio che seguì, Raza si chiese se qualche mese prima anche 186
Abdullah avesse visto in televisione quel programma avvicente con i kashmiri e gli indiani al posto degli Hazara e dei sovietici, e in tal caso, quale fosse il prezzo da pagare per una menzogna in un luogo come questo, dove i codici riempivano il vuoto lasciato dalle leggi. Abdullah strinse più forte la spalla di Raza. «Magari litigheremo su chi di noi due caccerà l’ultimo sovietico, ma fino a quel giorno saremo fratelli». Raza sorrise. «Fratello Abdullah, mi aiuti a comprare una cosa? Ho idea che i mercanti di qui non fregherebbero uno come te». Abdullah incrociò le braccia. «Vuoi dire ‘una cosa’ che viene dai campi di papaveri?» «Eh? No, no!» Abdullah sorrise della veemenza di Raza. «Ah, quell’altra ‘cosa’, allora. Aspettami qui». Urlò: «Sto entrando!» e si infilò nella baracca. Raza si guardò attorno mentre si rigirava nella mano il rotolo di banconote da dieci rupie che aveva in tasca. Da quando era sceso dall’autobus nessuno lo aveva degnato di un’occhiata. Era una sensazione strana, quasi deludente. Aveva visto un ragazzo con lineamenti molto simili ai suoi e gli era venuta voglia di dargli dell’impostore. Si era passato la mano sulla faccia. Raza Hazara. Mentalmente fece scorrere il nome avanti e indietro. Razahazara. Arazahazar. Aveva un suo equilibrio. Certamente più di quanto ne avesse Raza Konrad Ashraf. Bevve un altro sorso di tè e si rallegrò di aver indossato il suo kurta salwar più vecchio e sdrucito. «Ecco qui». Abdullah era tornato con qualcosa fra le mani, coperto da un telo. «Tendi le braccia». Raza obbedì, preoccupato che lì sotto ci fosse qualcosa di animato. Era metallo freddo e legno liscio, più pesante di quanto si aspettasse dalla facilità con cui Abdullah lo aveva portato. Fece scorrere le dita sulle sue linee dritte, si chinò in avanti e sentì la curva del caricatore contro lo stomaco. Come un mago Abdullah tirò via il telo, rivelando lo scintillio dell’AK-47: acciaio lucido e legno compensato. «Non l’hai mai tenuto in mano?» disse Abdullah. 187
Raza scosse il capo, attento a non toccare il grilletto mentre tastava di qua e di là. «Non potrai cacciare l’ultimo sovietico se non lo sai usare» disse Abdullah mentre gli toglieva di mano il semiautomatico e se lo appoggiava alla spalla. Aveva un che di eroico. Sorrise disinvoltamente e lo porse di nuovo a Raza. Raza Konrad Ahsraf si pulì le mani nello salwar e si levò in piedi. Ma fu Raza Hazara a imbracciare il kalashnikov e a intuire che quel semplice gesto poteva cambiare tutto di un uomo. Lo alzò in aria, ne sentì il peso contro la spalla mentre imitava la posizione di Abdullah sotto lo sguardo soddisfatto di quest’ultimo e capì, senz’ombra di dubbio, come ci si doveva sentire a esser Amitabh Bachchan o Clint Eastwood. Un gruppo di bambini corse fuori per strada, come se impugnando il fucile Raza avesse acceso un faro; si girò, puntò il fucile contro di loro e rise nel vederli scappare fra urla di gioia e di spavento. Abdullah lasciò che si mettesse in posizione e girasse su stesso, poi gli tolse di mano il fucile e nel giro di pochi secondi lo smontò. «Se vuoi vedere come lo si rimonta devi dirmi cosa ci facevi con quell’americano». Raza prese il caricatore, cercò di rigirarselo con noncuranza fra le mani ma finì per farlo cadere a terra. Abdullah lo colpì sulla coscia, raccolse il caricatore e lo spolverò lentamente con il telo. «Non posso dirti cosa facevo con l’americano» disse Raza nel tentativo di recuperare terreno. «Però si possono mandare via i russi con altri sistemi, senza usare direttamente i kalashnikov. Capisci?» Si stese di nuovo sul lettino di corda, appoggiò i gomiti e si compiacque dell’espressione quasi reverenziale di Abdullah. «Parla il pashto, il tuo americano?» «Un po’. Per lo più parliamo inglese». «Parli inglese?» Raza scrollò le spalle come per una cosa da nulla. «Me lo insegni?» Imparare le lingue era sempre stato facile per Raza, ma non per questo ignorava quale peso si portassero dietro le lezioni di lingua. Se non avesse insegnato il tedesco al nipote di Yoshi Watanabe, sua madre non 188
avrebbe mai conosciuto Konrad Weiss (voleva sposare un tedesco! Malgrado il passare degli anni l’idea continuava a sembrargli assurda). E se non fosse stato per lui, non sarebbe venuta in India a cercare i Burton. E una volta in India, era stato per studiare la lingua che Hiroko e Sajjad si erano seduti allo stesso tavolo, sovvertendo le distanze che altrimenti avrebbero caratterizzato il loro rapporto. E i suoi più teneri ricordi d’infanzia erano legati al dono che sua madre gli aveva fatto delle lingue: quei cruciverba che gli preparava ogni sera, le cose che potevano dirsi in segreto senza abbassare la voce, le idee che potevano condividere usando espressioni tipiche di una certa lingua («non è wabi-sabi» si dicevano a volte per criticare una poesia o un dipinto che Sajjad mostrava loro in cerca di elogio, e ogni volta Raza si stupiva che suo padre non avesse ancora afferrato quel concetto che per lui era naturale come l’idea che sentirsi udaas in urdu fosse diverso dall’essere malinconici in inglese). «Walnut» disse ad Abdullah. Abdullah ripeté lentamente la parola inglese. «Che vuol dire?» Raza rispose che significava «noce», e Abdullah piegò indietro la testa in una risata. «Non ho mai capito perché ci chiamano così». «Perché una noce sembra un cervello in miniatura, testone di un pathan». Abdullah fece un gran sorriso. «Se non fossi mio fratello ti ammazzerei». «Ma io sono tuo fratello. E il tuo maestro. Dammi carta e penna, cominciamo con l’alfabeto». Abdullah si alzò in piedi e raccolse i pezzi dell’AK-47. «Tu mi insegni e io te ne do uno gratis. Nessuno si accorge se ne mancano un paio. Te ne procuro uno dalla prossima spedizione». Raza si trattenne dal fare domande e obiezioni. Come dire a un ragazzo che ti ha appena promesso un kalashnikov che da lui volevi solo un aiuto per trattare sul prezzo di un registratore a cassette economico ma di buona qualità, in modo che Sajjad Ali Ashraf potesse fare echeggiare il suono del sarangi in tutta la casa, gesto che racchiudeva in sé i 189
principi del wabi-sabi ed evocava al contempo l’udaas?
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Harry Burton piegò il bicchiere di whisky verso la bocca e si chiese, non per la prima volta da quando era arrivato in Pakistan, se i tovaglioli di carta servissero a evitare una condensa appiccicosa sui bicchieri oppure a nasconderne il contenuto, qui nella capitale della Repubblica islamica del Pakistan. Liberò il tovagliolo e si asciugò il filo di sudore che gli scendeva dalle tempie alla guancia con la stessa indolenza che in quel caldo da rimbambire sembrava contagiare ogni cosa. Guardò un attimo verso le porte a vetri che lo separavano dalla ressa degli invitati nel soggiorno climatizzato dell’autorevole industriale. Il quale a un certo punto della serata gli aveva stretto la mano presentandosi come «il padrone di casa»; di lui, tuttavia, ricordava soltanto la mano molliccia e sgradevole. L’aria condizionata all’interno lo tentava, ma la gente assiepata no. Tutto considerato stava meglio in giardino, con l’odore dei kebab e il fumo della griglia che arrivavano dal vialetto, lungo il quale erano allineati i tavoli del buffet e i cuochi sudaticci preparavano gli spiedini. Poteva chiudere gli occhi, concentrarsi sugli odori e ricordare quando da bambino aveva accompagnato Sajjad nella Città vecchia. Sajjad. Harry sospirò. Erano passati quattro mesi da quella cena nel cortile degli Ashraf, quando Sajjad lo aveva cacciato e Hiroko lo aveva accompagnato alla porta per stringergli forte le mani. «Per molti versi Raza è ancora un bambino» gli aveva detto. «Si lascia trascinare dalle sue fantasie per il futuro. Per quanto riguarda Sajjad... non è mai in collera per più di qualche minuto. Telefonaci la prossima volta che sei a Karachi. E non portare più il sakè». Lo baciò sulla guancia, prima che si incamminasse per la strada deserta. Allora non aveva avuto intenzione di stare lontano così a lungo, ma ultimamente gli erano mancate le occasioni anche solo per riflettere sulla sua vita privata. E a proposito... in giardino c’era una bella donna che aveva ricambiato il suo sguardo abbastanza a lungo da segnalare interesse. 191
«Non guardare, Harry Burton» gli disse una voce. «È nel libro paga dell’I Shall Interfere». La donna lanciò un’occhiata obliqua a Harry che subito voltò le spalle, seppure imprecando, più per motivi professionali che personali. «Preferisco It’s Sorta Islamic» rispose al suo interlocutore, un uomo biondo e tarchiato. A quella risposta il collega Steve alzò il bicchiere. Uno dei suoi piaceri nella vita era inventarsi dei nomi alternativi per l’Inter-Services Intelligence Agency. «Tu che ne dici» continuò, «sono più bravi loro a spiarci o noi a spiare loro? Credi che sappiano già che presto potrebbero ringraziare Israele per aver armato i loro Sacri Guerrieri?» Nella mente di Harry c’era una carta geografica del mondo in cui ogni paese compariva come una semplice sagoma, in attesa di essere riempita da strisce rosse bianche e blu via via che veniva trascinato nella battaglia strettamente territoriale degli afghani contro i sovietici, a cui nessun altro voleva prendere parte. Quando era arrivato a Islamabad, era un semplice triangolo: l’Egitto che procurava le armi fatte in Russia, l’America che forniva fondi, addestramento e assistenza tecnologica, e il Pakistan che metteva a disposizione i campi. Adesso, invece, la guerra era davvero una faccenda internazionale. Armi in arrivo dall’Egitto, dalla Cina e, presto, da Israele. Reclute da tutto il mondo musulmano. Campi di addestramento in Scozia! Girava perfino la voce che l’India fosse disposta a rivendere parte degli armamenti acquistati dagli amici sovietici; anche se fosse stata soltanto una voce, Harry si divertiva a pensare che il Pakistan, l’India e Israele collaborassero tutti alla guerra degli americani. Un vero caso di internazionalismo, alimentato dal capitalismo. Mondi diversi che si spostavano dalle loro sfere distinte verso un nuovo genere di geometria. Con un misto di soddisfazione, ironia e sconforto Harry alzò il bicchiere e brindò al fantasma di Konrad Weiss. A Karachi, dalla parte opposta del paese, anche Hiroko Ashraf pensava a Konrad, mentre stesa a letto leggeva una lettera di Yoshi Watanabe. Le annunciava di essersi dimesso dal ruolo di preside nella scuola che era nata in quello che era stato Azalea Manor. Dopo la guerra, Kagawa-san, l’inquilino di Konrad, ne aveva rivendicato la proprietà: non 192
ci aveva forse vissuto per anni, appena prima della bomba? Se quella non era casa sua, allora di chi era? E malgrado Yoshi avesse scritto a Ilse per informarla di quel che stava accadendo, nessuno dei Weiss o dei Burton era intervenuto. Nondimeno, dopo aver ereditato la proprietà nel 1955, i figli di Kagawa avevano chiesto a Yoshi, che dopo la guerra era diventato insegnante, di dirigere la scuola internazionale che intendevano fondare in memoria di Konrad Weiss. Fu l’unico segnale che diedero di sentirsi in colpa per gli ultimi mesi di vita di Konrad, quando attraversavano la strada per evitarlo. Spero che il nuovo preside mantenga viva la tradizione di portare gli allievi in visita al cimitero internazionale, dove è sepolta la pietra di Konrad. Hiroko posò la lettera e si premette la mano sulla schiena. Forse un giorno avrebbe portato Raza a Nagasaki. E anche Sajjad. Guardò la sagoma del marito addormentato accanto a lei e prese la foto di Yoshi scattata nel giardino di Azalea Manor con un gruppo di bambini inginocchiati. Erano gli allievi in partenza per l’America, per uno scambio con una scuola nei pressi di Los Alamos. Si chiese che rapporti avrebbe avuto Raza con un gruppo di coetanei giapponesi. Non le importava che in Pakistan sarebbe stata sempre una straniera — non voleva appartenere a niente che fosse incorporeo e nocivo quanto una nazione — ma questo non le impediva di vedere come sussultava Raza ogni volta che un pakistano gli chiedeva dove fosse nato. A volte Konrad le tornava in mente come un’astrazione, e lei si chiedeva come sarebbe stata la loro vita se fosse sopravvissuto. Sarebbero andati a trovare James e Ilse a Delhi? Se Hiroko e Sajjad si fossero incontrati, avrebbero avuto un barlume della vita che potevano condividere? No, naturalmente. Certo che no. Niente era inevitabile: né i rapporti né il fluire degli eventi; più semplicemente, certe situazioni finivano per sembrarlo. Sfiorò la bocca di Sajjad, e con un polpastrello sfregò delicatamente i suoi morbidi baffi grigio argento. No, di ineluttabile non c’era nulla: ogni cosa avrebbe potuto essere diversa. La loro figlia avrebbe potuto vivere. La figlia che aveva perso al quinto mese, quella uccisa dalla bomba (la pediatra non le aveva mai detto di preciso cosa avesse il feto che non andava; solo che certi aborti erano un atto di pietà). Adesso avrebbe avuto trentacinque anni. Col passare degli anni la morte di Konrad e di suo padre erano indietreggia193
te nel suo cuore, ma nel caso della bambina che aveva conosciuto soltanto come qualcosa che le si agitava dentro, una serie di singhiozzi e calci, il senso della perdita rimaneva, per levarsi di tanto in tanto in una grande ondata di rabbia che Hiroko era sempre stata incapace di esprimere e di localizzare, e che soltanto la compagnia di suo figlio riusciva a lenire. Se la primogenita fosse venuta alla luce — Hiroko fra sé e sé la chiamava Hana, il nome che Konrad aveva visto scritto in rosso brillante sotto il ghiaccio — non ci sarebbe stato Raza. Per qualche ragione se ne rendeva conto. Si aprì la porta di casa, creando una corrente che levò da terra le foglie, e Hiroko sorrise del suo tempismo. «Da dove arrivi, mio principe?» chiese andando incontro a suo figlio a metà del cortile. Raza le accarezzò una guancia. «Ti avevo detto che avrei fatto tardi. Non ti sarai preoccupata, eh?» Nelle ultime settimane si era aperto qualcosa in lui, una fioritura che aveva rilasciato il profumo dolce della sua adolescenza. Sajjad lo attribuiva al sollievo di aver potuto ridare l’esame, scoprendo che le tattiche contro l’ansia di Harry Burton consentivano davvero alla penna di volare sul foglio con una disinvoltura che rasentava lo sdegno; Hiroko invece questa fioritura l’aveva notata già da qualche mese e sospettava che fosse per questo, più che per i consigli di Harry Burton, che Raza si era presentato agli esami con sicurezza uscendone a testa alta. «Ho guardato quel libro sulle università americane» gli disse. Era stato recapitato da Sher Mohammed, l’autista del risciò, pochi giorni dopo la cacciata di Harry; Hiroko aveva insistito perché Raza gli scrivesse per ringraziare e lui l’aveva fatto: aveva dedicato a quella lettera più tempo di quanto ne avesse mai riservato ai bigliettini d’amore che mandava a Salma ai tempi della loro storia, e aveva provato un sollievo quasi imbarazzante quando lo zio aveva telefonato da Islamabad augurandosi che il libro gli fosse utile e ne potessero parlare la prossima volta che fosse venuto a Karachi. Raza liquidò l’argomento con un gesto della mano. «È così complicata questa faccenda delle domande, dei test e delle referenze». Non si sarebbe più illuso che l’università in America fosse davvero una possibilità, soprattutto dopo aver visto i moduli di richiesta 194
di aiuto finanziario e aver capito quanti soldi gli sarebbe toccato chiedere. «D’accordo». Hiroko fu più sollevata di quanto si aspettava nel sentire che Raza non intendeva lasciare il paese. «Allora andrai all’università qui. Benissimo. Se poi vorrai studiare all’estero dopo la laurea, un modo lo troveremo». Raza esitò, poi la strinse fra le braccia. «Sarai orgogliosa di me» disse, fermando per abitudine la mano nel punto tra le due bruciature. «Come sarebbe a dire?» rispose lei tentando di staccarsi. «Negli ultimi tempi sei tutto sorrisi e risatine, Raza Konrad Ashraf, e non sei mai di cattivo umore, e io sto cominciando a preoccuparmi sul serio. Dove te ne vai tutti i giorni? Stamattina ho incontrato Bilal. Dice che sono settimane che non ti vede». Raza la lasciò andare. «Se vuoi che mi arrabbi hai trovato il modo giusto. Bilal e tutti gli altri sono impegnati con la loro vita da universitari e hanno fatto nuove amicizie. Io sono contento. Non rovinare tutto». Fece un passo indietro, si inchinò — cosa che come sempre la fece sorridere — e si girò per andare in camera sua. Durante il tragitto fece un salto e allungò le braccia verso il cielo pieno di stelle.
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Ormai erano mesi che Raza aveva una doppia vita. Da una parte era il solito Raza Ashraf, sempre più scialbo ogni giorno che passava, ora che i suoi amici venivano assorbiti dall’università e lui continuava a essere lo studente fallito, l’ex operaio di fabbrica, il ragazzo marchiato dalla bomba. Dall’altra era Raza Hazara, quello che non avrebbe parlato la sua lingua — né della famiglia e del passato, neppure con altri hazara — prima di aver cacciato l’ultimo sovietico dall’Afghanistan; quello per cui un americano si era tolto le scarpe, segno che in qualche modo — malgrado Raza rispondesse con un’occhiata misteriosa a ogni richiesta di chiarimenti — doveva essere importante per la CIA (perché naturalmente gli americani in Pakistan sono tutti nella CIA). Se per Raza Ashraf il massimo dell’orgoglio era vedere la gioia con cui, ogni sera dopo il lavoro, suo padre accendeva il nuovo registratore comprato a Sohrab Goth, per Raza Hazara l’orgoglio si misurava nel numero sempre minore di secondi necessari per smontare e rimontare un kalashnikov. Raza Ashraf passava sempre più tempo da solo, chiuso in un mondo di libri e di sogni, mentre Raza Hazara veniva accolto da grida di gioia ogni volta che metteva piede negli slum di Sohrab Goth per insegnare l’inglese a un gruppo sempre più folto di studenti. Raza Hazara non doveva mai chinare il capo in avanti in modo che i capelli gli nascondessero i lineamenti. Era entusiasmante, emozionante, ma pure faticoso. Ora che passava sempre più tempo in compagnia degli afghani di Sohrab Goth, Raza si rese conto con stupore che gli mancava la sua vita. Gli mancava un mondo libero dai fucili e dalla guerra e dai paesi d’origine occupati. Gli mancava la possibilità di rispondere a qualunque domanda personale senza essere costretto a elaborare bugie. Gli mancava un mondo meno gravato di questo dai princìpi dell’onore e della famiglia, in cui gli uomini recitavano poemi sulle montagne. Gli mancavano le donne, malgrado non avesse quasi mai riflettuto sul peso della loro presenza nella sua vita. Così certi giorni, o addirittura certe settimane si fermava a Nazima196
bad, giocava a cricket coi ragazzi del quartiere e studiava per l’esame. E ogni volta che si preoccupava di come sarebbe andata davanti al foglio bianco, per dissipare l’ansia gli bastava tornare con la mente all’assemblaggio dell’AK-47, al gradevole scatto dei pezzi che si incastravano insieme. Allora veniva preso dall’irrequietezza e dal desiderio di tornare alla vita degli hazara, di percorrere in autobus il tragitto ormai familiare per Sohrab Goth per rivedere Abdullah oppure, in mancanza di questi, uno qualunque degli afghani che adesso lo accoglievano come un insegnante degno del loro rispetto. E se avessero chiesto spiegazioni sulla sua lunga assenza, avrebbe fatto lo stesso sorriso misterioso con cui rispondeva alle domande sull’americano che si era tolto le scarpe per lui. Sapeva, tuttavia, che a lungo andare sarebbe stato impossibile vivere in due mondi distinti. E il giorno in cui avesse finalmente superato con successo l’esame, non ci sarebbero stati dubbi su quale dei due avrebbe abbandonato. Chi mai preferirebbe un sogno preso a prestito a quelli della sua infanzia? Il sogno che Raza temeva di avere perduto — quello di una brillante carriera accademica, di farsi strada grazie alle sue capacità — era di nuovo verosimile. Per gli esami del biennio era bastato qualche esercizio di memorizzazione o poco più, ma al di là di questi si apriva un altro mondo di indizi e collegamenti, di analisi e argomentazioni. Non c’era bisogno di andare in America! Sarebbe diventato avvocato, come suo padre aveva sempre voluto fare. Per la prima volta, dopo che per mesi aveva creduto di non poter entrare all’università, la prospettiva di studiare legge gli pareva eccitante. Non capiva bene in che misura la ritrovata sicurezza e il riemergere del suo amore per lo studio fossero in debito con le ore trascorse in quel ritaglio d’ombra a Sohrab Goth, dove insegnava inglese a giovani afghani di età diverse, seduti a terra con le gambe incrociate e concentrati su ogni sua parola come se fosse la promessa di un mondo che si erano immaginati; in ogni caso, mentre usciva pimpante dall’aula d’esame, era stato colto da un’ondata di affetto per Abdullah, che aveva reso possibile la vita di Raza Hazara, e l’idea di sparire nel nulla, senza una spiegazione o una parola di commiato, gli sembrò una farsa, più di quanto non lo fossero le menzogne che gli raccontava ogni giorno. Pensava a tutto questo, provando un insolito tormento — insolito quantomeno per Raza Hazara — mentre mangiava chapli kebab insieme 197
ad Abdullah in un posto molto amato dai camionisti. Si ricordò di zio Harry, che ne aveva pomposamente definito uno simile «ristorante» (termine che Raza aveva prontamente adottato, senza pensare che avrebbe dovuto sapere meglio dell’americano come si chiamavano le cose a Karachi). Harry aveva detto che la mancanza del muro esterno gli permetteva di immaginare che i passanti inciampassero sul marciapiede stretto e animato, finissero seduti a un tavolo per poi fermarsi a pranzare in compagnia di chiunque lo stesse già occupando. Invece, mentre sedeva di fronte ad Abdullah, Raza si augurò di non dover guardare quel mondo sgomitante che lo circondava, a ricordargli che la sua presenza in esso non era altro che una bugia. Quel giorno erano usciti i risultati dell’esame, e come previsto se l’era cavata bene. E di colpo era venuto il momento di scegliere fra le due vite. Afridi, il camionista, si avvicinò al tavolo dopo aver chiacchierato a lungo con un gruppo di uomini per strada. Afferrò la sedia di Raza per lo schienale e la piegò indietro di una spanna, ridendo dell’urlo spaventato del ragazzo. «Adesso piantatela di litigare, parlate con calma» disse mentre dava ad Abdullah uno buffetto sulla testa. Poi se ne andò di nuovo. I ragazzi si scambiarono un’occhiata sorpresa. Ognuno di loro era rimasto troppo assorto nel proprio mutismo per accorgersi del silenzio dell’altro. «Cosa c’è?» chiesero all’unisono. «Niente» disse Raza. «Sei così silenzioso che temevo di averti offeso». Abdullah si accigliò. «Come potresti offendermi, Raza Hazara?» Molto lentamente, aggiunse in inglese: «Sei l’unico che può chiamarmi walnut». Colto dal rimorso Raza abbassò lo sguardo sul piatto. Non aveva mai incontrato tanta generosità, e Abdullah gliela porgeva come se fosse Raza a fargli un favore, lasciandosi coinvolgere così incondizionatamente nella vita dell’altro. Poche settimane prima Raza si era presentato a Sohrab Goth dopo un’assenza di otto giorni e non c’erano state recriminazioni, solo un gran sorriso di piacere nel vederlo tornare. Era stato Afridi a dirgli, in tono accusatorio, che nei giorni in cui non si era fatto vedere, gli amici avevano dovuto trascinare Abdullah via da Sohrab 198
Goth con la forza, «Altrimenti sarebbe rimasto lì ad aspettare il suo maestro». Da allora Raza non era mancato nemmeno un giorno. «Allora perché sei così taciturno?» domandò Raza. «Ormai ho quattordici anni» disse Abdullah inclinando vertiginosamente all’indietro la sedia di plastica. «I miei fratelli hanno promesso che a quattordici anni mi avrebbero lasciato andare in un campo di addestramento». I fratelli ancora vivi di Abdullah erano tutti mujaheddin, come lo era stato quello che era morto all’inizio della guerra; il resto della famiglia era in un campo profughi alle porte di Peshawar, da cui Abdullah era partito per Karachi a dodici anni, sul cassone di un camion. Qui aveva trovato ospitalità presso una famiglia originaria del suo villaggio, e il camionista con cui aveva viaggiato gli aveva offerto un lavoro: così aveva cominciato a contrabbandare armi da Karachi a Peshawar. «Ah, sì? Quando è stato il tuo compleanno?» In compagnia di Abdullah, il pashto di Raza era diventato sempre più il pashto di Kandahar, non quello di Peshawar. Abdullah scrollò le spalle. «Non lo so con precisione. Verso l’inizio dell’estate». Prese un pezzo di naan e fece un gesto complicato, che Raza non capì assolutamente. «Afridi va a Peshawar la settimana prossima. Dice mio fratello Ismail che se vado con lui possiamo trovarci da qualche parte e mi porterà al campo. Però non so. Una volta dicevi che ci sono altre maniere per combattere i sovietici. Forse mi renderei più utile restando qui con Afridi. Non bisogna sottovalutare l’importanza delle forniture da Karachi». Lanciò a Raza uno sguardo supplichevole. «Non ti pare?» Raza masticò lentamente un grosso boccone di naan e kebab. Da quando passava le giornate con Abdullah aveva cominciato, come lui, a desiderare ardentemente di viaggiare, di arrivare fino al confine settentrionale del Pakistan su un camion, di coricarsi per la notte nel cassone scoperto a guardare le stelle, di fermarsi lungo la strada a sorseggiare chai e mangiare paratha e kebab, senza che i genitori avessero da ridire: nient’altro che la strada aperta, il paesaggio che scorreva e il brivido di contrabbandare le armi. Peshawar. Ci abitavano la sorella e il cognato di Sajjad: anni fa avevano fatto loro visita insieme. L’ultimo giorno, lo zio gli aveva promes199
so di portarlo a vedere il forte, ma poi si era messo a piovere. «Ci andremo alla prossima occasione, lo prometto» aveva detto lo zio, ma l’occasione non si era più presentata; i fratelli Ashraf che vivevano in Pakistan si trovavano ogni anno a Lahore, e l’idea di tornare a Peshawar era rimasta soltanto un’idea. «Raza?» lo richiamò alla realtà Abdullah. «Devo dire a mio fratello che c’è bisogno di me per la fornitura d’armi, vero?» Eccola, pensò Raza. L’opportunità di concludere l’amicizia fra Raza Hazara e Abdullah nel migliore dei modi, in uno scoppio di avventura e cameratismo. Sorrise. «Che succede, ragazzino? Hai strizza?» Abdullah si alzò in piedi e fece cadere di mano il kebab all’amico. «Quando è stata l’ultima volta che hai tagliato la gola a un sovietico?» Gli uomini al tavolo vicino si girarono, e Raza sentì che qualcuno chiamava Afridi. «Siediti» disse, poi allungò la mano e prese il kebab dell’altro dal piatto. Il ragazzo aveva reagito esattamente come Raza si aspettava. Fece cenno ad Afridi che andava tutto bene, e annunciò: «La settimana prossima partiremo insieme per Peshawar». Abdullah lo guardò con gli occhi sbarrati. «Vieni al campo insieme a me?» «E perché no? Un vero afghano non perde tempo con la CIA. I sovietici li attacca direttamente. L’ho imparato da te». Abdullah sorrise pieno di felicità. «Tu e io insieme. I sovietici non la passeranno liscia!» Afferrò l’amico con una mossa da lottatore e ridendo ruzzolò con lui sul marciapiede, dove gli uomini fermi a parlare tesero le braccia per attutire la caduta. «Walnut!» esclamò Raza mentre si tirava su e toglieva la polvere dai vestiti. «Poteva andarmi di traverso il kebab!» Abdullah si appoggiò ai gomiti senza curarsi della sporcizia sul marciapiede e continuò a sorridere a Raza. 200
«Ci sarà ancora tempo per le lezioni, vero? Quando saremo al campo? Mi farai ancora da insegnante?» «Solo se mi insegni a buttare a terra uno che è il doppio di te e a metterlo fuori combattimento». Abdullah balzò su e aiutò Raza a rialzarsi. «Ci divertiremo un sacco». E fu così che una settimana più tardi Raza salì su un camion diretto a Peshawar. Durante quei tre giorni di viaggio imparò molte cose: che nemmeno il traffico folle di Karachi poteva prepararti ai camionisti sulle strette strade di montagna; che quando sei su un camion carico di fucili puoi viaggiare in lungo e in largo per il paese senza che i militari ti tormentino ai posti di blocco; che le bruciature di sigarette sui palmi e i dorsi delle mani degli autisti erano segni del mestiere, testimonianze delle notti passate a spingere il camion e se stessi ai limiti del possibile, al punto di bruciarsi le mani per tener lontano il sonno; imparò che non doveva chiedere ad Abdullah, ad Afridi e a nessun altro, quando si fermavano, se sapevano qualcosa delle antiche incisioni nella roccia lungo la strada, perché si sarebbe sentito rispondere che erano opera degli infedeli; imparò che anche la desolazione aveva una sua bellezza, se ti lasciavi coinvolgere dalle montagne e dalla sola forza della loro presenza; imparò che più ci si avvicinava al confine con l’Afghanistan meno gente si stupiva del suo aspetto; imparò, adesso che gli mancavano, che aveva dato per scontati molti lussi; imparò di avere muscoli di cui ignorava l’esistenza, prima che le ore ininterrotte passate sullo scomodo sedile di un camion in corsa li risvegliassero, facendoli urlare di dolore; imparò soprattutto che gli sarebbe mancata l’amicizia di Abdullah. Ormai l’afghano sembrava aver dimenticato le perplessità iniziali riguardo alla prospettiva di unirsi ai mujaheddin; adesso ne parlava con un tale fervore che Raza si ritrovava interamente coinvolto nell’idea dell’addestramento e della fratellanza nel vasto, emozionante terreno di gioco del Nord, che pareva fatto apposta per consentire ai giovani di lanciarsi in grandi avventure. E poi aveva ripensato al suo piano, che gli era sembrato così chiaro quella sera al kebab lungo la strada: accompagnare Abdullah a Peshawar e poi dileguarsi. Se ne sarebbe andato di soppiatto, poi avrebbe raggiunto la casa di sua zia. Per Abdullah, tuttavia, si sarebbe trattato di una sparizione. Si 201
chiese come l’avrebbe presa: avrebbe pensato che gli fosse mancato il coraggio, oppure che a Peshawar, in quel centro dello spionaggio e della jihad, si fossero fatti vivi i suoi contatti nella CIA. Raza sperava nella seconda possibilità, ma tutto sommato non pensava molto a cosa gli sarebbe successo dopo aver lasciato Abdullah e Afridi: l’idea lo rattristava troppo. Non sapeva quale dei due gli sarebbe mancato di più, ma capiva che nelle ultime settimane la sua vita si era arricchita di qualcosa che non aveva mai conosciuto prima. In certi momenti, a pensarci, gli veniva voglia di arrivare fino al campo di addestramento con Abdullah e di rimanerci per un po’: forse non sarebbe stato un male. L’intenzione però non durava mai a lungo. Si diceva che questo suo scindersi in due era andato troppo in là, e questo spiegava il fatto che non potesse pensare al campo per più di qualche secondo. Tre giorni sul camion con Abdullah, tre giorni per strada col suo fratello afghano, e poi basta. Strinse forte gli occhi ricordando come i suoi studenti si fossero messi in fila l’ultimo giorno a Sohrab Goth, appena prima che lui e Abdullah salissero sul camion, e come ognuno di loro gli avesse consegnato un ricordo di sé: un biglietto scritto in inglese, un piccolo Corano, un paio di calzettoni di lana, un blocchetto di terra afghana, un soprammobile di porcellana a forma di scarpa. La voce che lo accusava di tradirli lottava con l’altra voce che diceva di aver offerto loro mesi di lezioni che non avrebbero mai avuto, non fosse stato per la sua messinscena: quei mesi di lezione erano un regalo, non una promessa. «Sveglia» disse Abdullah scuotendolo. Raza si tirò su e strofinò il lato del suo viso che aveva appoggiato alla portiera del camion mentre dormiva. «Siamo a Peshawar?» domandò non vedendo dal finestrino altro che fango e sassi: una strada di fango e sassi tagliata in una montagna di fango e sassi con un precipizio di fango e sassi fino alla valle di fango e sassi sottostante. Chissà come la montagna riusciva ad apparire maestosa. Se sei grosso abbastanza, pensò Raza guardandola, non ha importanza di cosa sei fatto. Abdullah rise e finse di spingere l’altro fuori dalla portiera, sul lato della strada. La polvere sollevata dalle ruote stava depositandosi lentamente, quasi di malavoglia, nell’aria ferma del primo mattino. Raza agi202
tò un braccio da una parte all’altra e sentì sulla pelle l’aria di montagna. Era ovvio che non erano a Peshawar. Doveva essere un’altra sosta per svuotare la vescica. Si fermo sulla strada e si slacciò il salwar. Il paesaggio era così vuoto. Al di là, lo sapeva, c’erano picchi innevati e pianure fertili, ma saperlo non cancellava la sensazione di trovarsi su un pianeta arido, dove stava in agguato qualche figura mitologica, dove un tengu giapponese sarebbe stato meno fuori luogo di un ragazzo di Karachi. Quando si voltò per tornare al camion vide che Afridi si sporgeva dal finestrino del guidatore per stringere la mano di Abdullah. Poi l’uomo alzò la mano in direzione di Raza. «Non perdetevi di vista, e non litigate sull’ultimo sovietico». «Eh? No, aspetta!» Ma la sua voce fu coperta dal rombo del motore, e poi il camion si allontanò lasciando Raza e Abdullah nel mezzo di un grande vuoto. «Dov’è andato?» Abdullah lo fissò stupito. «A Peshawar, naturalmente. Con mio fratello dobbiamo trovarci da queste parti. Andiamo, ci tocca camminare un po’». Le sue parole riecheggiarono in modo curioso per il valico. Raza si guardò i piedi: gli pareva di avere due grossi pesi legati alle scarpe. Era ovvio che non riusciva a muoversi. «Dai, Raza». Raza prese fiato. Era tutto a posto. Mentre considerava fugacemente l’ipotesi di unirsi ad Abdullah nei campi, aveva escogitato un sistema per venirne fuori. Al momento di andarsene si sarebbe presentato ad Abdullah con un’espressione angosciata in volto, dicendo che aveva appena ricevuto una telefonata da casa e che suo nonno stava morendo. Questo nonno inventato fin dall’inizio si era già rivelato molto utile: unico parente sopravvissuto, viveva con Raza in una baracca vicino alla ferrovia, lontano dagli altri profughi afghani, la vista dei quali avrebbe fatto piangere il nonno di nostalgia per le montagne dei suoi antenati. Certo non avrebbe avuto altra scelta che andarsene dal campo e raggiungere il nonno, con la promessa di tornare subito dopo il funerale. Dopotutto era suo dovere calare nella terra il corpo del vecchio e chiu203
dere le sue palpebre mentre il maulvi pregava per la sua anima vicino alla fossa. Sì, pensò Raza mentre riconsiderava il piano. Sì, avrebbe funzionato. E magari... prima avrebbe passato un paio di giorni nel campo. Avrebbe ascoltato le storie dei mujaheddin, avrebbe imparato a far fuoco con un lanciarazzi. Mosse i piedi verso Abdullah. Gli parve di camminare per ore su quella strada sterrata sempre più stretta, in mezzo al nulla e in pieno sole, a un’ora in cui i monti non offrivano la protezione della loro ombra. Poi, dopo una svolta, Abdullah indicò qualcosa che si levava dalla pianura davanti a loro: una catena di colline basse, che si allungava all’infinito. Anzi, no. Raza guardò meglio: erano tende. Una città di profughi. «Ogni volta che vengo è due volte più grande» disse Abdullah in un tono calmo e solenne che Raza non gli aveva mai sentito. Proseguirono verso la tendopoli e, proprio quando Raza si aspettava di scendere verso la pianura che la ospitava, Abdullah si sedette al lato del sentiero, che si era di nuovo allargato, e voltando la schiena alle tende disse: «Adesso aspettiamo». «Voglio dare un’occhiata» disse Raza accennando col capo alla tendopoli. Da quella distanza, capiva soltanto che era molto estesa. «Cosa c’è da vedere?» scattò Abdullah. «Gente che vive come bestie? Questi posti sono nemici della dignità. E un bene che viviamo laggiù, in quel modo». «In che senso è un bene?» Abdullah voltò la testa e guardò il campo. «Me ne stavo dimenticando, Raza». Lo disse come confessando il peggiore dei crimini. «Sono andato a Karachi, ho visto le luci e le sue promesse, perfino ai confini con Sohrab Goth, e mi stavo dimenticando di questo. È da un anno che non metto piede in un campo profughi. Afridi si offre sempre di fermarsi quando andiamo a Peshawar ma io dico di no, non lo voglio vedere. Stavo dimenticando il motivo per cui non ho altra scelta che diventare un mujaheddin. I ragazzi che crescono nei campi non se ne dimenticano. Si guardano attorno e lo sanno: se questo è il male minore vuol dire che la nostra patria è diventata la porta dell’inferno. E dobbiamo fare in modo che torni a essere il paradiso». 204
Si voltò verso Raza, l’espressione adulta quanto il tono di voce. «Grazie, fratello». Raza distolse gli occhi dai campi per guardarlo, e per la prima volta si sentì meschino ed egoista. «Avevi ragione» disse. «Quando dicevi che ci sono altre strade possibili. La fornitura d’armi, Abdullah, è davvero importante. Tutti i ragazzi che ci sono laggiù» — indicò le tende — «finiranno nei campi di addestramento. E alle armi chi penserà? Come se la caverà Afridi senza te? I campi non servono a nulla, se i mujaheddin non hanno fucili per combattere». Abdullah gli lanciò un’occhiata incuriosita. «Perché lo tiri in ballo proprio adesso?» «Prima non l’avevo capito». Raza si avvicinò ad Abdullah e gli posò una mano sul braccio. «Hai il telefono di quell’amico di Peshawar che ospita Afridi. Devi chiamarlo appena arriviamo al campo, per dire ad Afridi di tornare a prenderci». Abdullah guardò Raza come se non lo riconoscesse più, ma prima che avesse il tempo di rispondere, da dietro la curva, sbucò una jeep che venne verso di loro, e i ragazzi si portarono le mani agli occhi per proteggerli dalla ghiaia alzata dalle ruote. «Sono venuti per portarci al campo, Raza. E non fare il ragazzino di città: qui i telefoni non ci sono».
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La mattina che Raza partì da Karachi, Hiroko si svegliò come di consueto con l'adhan dell’alba. Le piaceva l’eco di quella voce araba che calava con calma nel suo cortile, come un amante che entra di soppiatto in una casa, senza curarsi del fatto che anche oggi la sua amata lo manderà via: il rifiuto è così dolce e frequente che finisce per esprimere una costanza pari a quella di lui. Quel mattino, tuttavia, mentre Sajjad russava piano sulla sua spalla, il silenzio della casa le sembrò diverso e la indusse a scostare il braccio che le stringeva i fianchi e a sgusciare giù dal letto. La porta della camera di Raza era aperta. Fin qui niente di strano. Ormai faceva abbastanza caldo perché la necessità di fare corrente avesse il sopravvento sull’eventuale desiderio di riservatezza di un diciassettenne. Nondimeno attraversò il cortile accelerando il passo. Quando vide il biglietto sul cuscino, scritto in giapponese, capì che c’era davvero qualcosa che non andava. Cosa mai poteva spingerlo a uscire prima dell’alba? Doveva essere sicuro che suo padre non avrebbe approvato, altrimenti perché lasciare a lei l’incombenza di dargli la notizia? Lesse il biglietto; pochi attimi dopo scuoteva Sajjad per svegliarlo e glielo traduceva senza nemmeno provare ad attutire il colpo. Vi prego di non preoccuparvi per me, vado via per qualche giorno col mio amico Abdullah. Viaggeremo per il Pakistan. Ci sono tante parti del paese che non ho mai visto e Abdullah ha amici dappertutto che si prenderanno cura di noi. Vi porterò dei regali. Fra non molto diventerò un serio studente universitario e non ci sarà più tempo per vacanze come questa, quindi non arrabbiatevi con me. Raza. Con grande stupore di Hiroko, Sajjad non le parve affatto allarmato. Semmai era divertito. «Non sai cosa vuol dire essere un ragazzo di diciassette anni» disse sbadigliando, poi allungò la mano per sfiorarle il neo sullo zigomo e fece un verso irritato quando lei si scostò per non lasciarsi toccare. «Se 206
ce ne avesse parlato gli avresti fatto un milione di domande. Dove andate, chi vi ospita, chi è questo Abdullah, cosa fa, perché prima non lo inviti a cena qui, fatti dare il telefono dei suoi, che vestiti ti porti...» Si tirò su a sedere nel letto e avvicinò a sé la moglie. «Nel frattempo sottovaluti il fatto che, per la prima volta da molti anni a questa parte, saremo soli in casa noi due». La baciò delicatamente sul neo. «Sarà come quando eravamo appena sposati». «Sei sciocco e irresponsabile come tuo figlio» disse lei mentre di malavoglia tentava di liberarsi dal braccio che le stringeva la vita. «Chi è questo Abdullah?» «Non aveva un compagno di scuola che si chiamava Abdullah? Dev’essere così. Abdullah... tutti conoscono un Abdullah». «Tutti conoscono un Abdullah» gli fece eco lei, scuotendo il capo disgustata. «Non sai che compagnie frequenta tuo figlio, dove sta andando, e l’unica cosa che riesci a tirar fuori è che tutti conoscono un Abdullah». «Non ti fidi di tuo figlio?» «Di mio figlio sì, di Abdullah no». «Ma non lo conosci nemmeno». «Appunto per questo: perché dovrei fidarmi?» Sajjad si tappò le orecchie con le mani. «Nagasaki, Dilli, Karachi. In qualunque posto siate cresciute, quando diventate madri voi donne ragionate tutte nello stesso modo. Se ci tieni tanto, chiedi a qualche suo compagno di scuola. A Bilal». Lei si alzò bruscamente e lui le afferrò il braccio. «Non adesso. È l’alba. Non si tira giù dal letto la gente a quest’ora». Ma lei lo liquidò con uno sguardo che non ammetteva repliche. Pochi minuti più tardi, Hiroko era entrata dal cancello di servizio della casa di Bilal e bussava alla finestra della cucina, sapendo che vi avrebbe trovato Qaisra, la madre del ragazzo, a bere il tè dopo la preghiera del mattino. Col passare degli anni, l’amicizia tra i figli si era estesa alle madri. «Bilal non c’è» disse Qaisra quando Hiroko le spiegò perché era venuta così presto. «Si è fermato a dormire al pensionato, sta lavorando a un progetto con due suoi compagni. O almeno così mi ha raccontato. Sa Dio cosa combinano, adesso che non devono andare a scuola e si cre207
dono adulti». Porse una tazza di tè a Hiroko. «Però questo Abdullah non l’ho mai sentito nominare. E poi lo sai, i nostri ragazzi non è che si vedano più tanto spesso». «Ci avrebbe detto dove andava, se non fosse stato sicuro che gli avremmo detto di no» continuò Hiroko dopo aver appoggiato la tazza e aver cominciato a togliere le foglie secche dalla pianta in vaso sul davanzale della cucina. «Loro vogliono essere adulti e noi vogliamo che restino bambini, ma in realtà non sono né l’una né l’altra cosa. Non ti pare? Me l’hai detto tu stessa l’anno scorso, quando Bilal ha preso la macchina senza chiedere il permesso. Sta’ a sentire, smettila di preoccuparti. E lascia in pace quella pianta. Tornerà presto, e ovunque sia andato non farà stupidaggini. Avete cresciuto un bravo ragazzo». Abbassò la voce. «E non si può dire altrettanto per certa gente. Hai sentito che il figlio di Iffat ha chiesto il divorzio? Terribile, no?» «Per sua moglie, no» rispose Hiroko. Qaisra buttò indietro la testa e scoppiò in una risata. «Solo tu diresti una cosa simile». Per anni, Hiroko e Qaisra avevano fatto a turno a preoccuparsi e a consolarsi a vicenda per i figli, e adesso, com’era sempre accaduto, Hiroko si sentiva decisamente sollevata quando salutò l’amica, la quale le aveva appena ricordato che Raza non avrebbe mai fatto nulla che i suoi genitori avrebbero davvero disapprovato. Ma intanto che usciva dal cancello sentì una voce che chiamava: «Signora Ashraf!» e Salma, la figlia di Qaisra che era stata sua allieva, la seguì fuori in strada. «È andato dalle parti di Peshawar» disse a voce bassissima. «Questo Abdullah è un ragazzo afghano che ha un camion. Si sono conosciuti qualche mese fa al porto del pesce. Sono andati insieme in un campo di addestramento. Per mujaheddin». «Non dire assurdità» rispose Hiroko. «Cosa vuoi che ci faccia Raza in un campo di addestramento?» «L’ho visto ieri mentre aspettavo l’autobus. Abbiamo attaccato discorso. È stato lui a parlarmene. Ha detto che in due settimane nei campi si impara quello che all’accademia militare ti insegnano in due anni. 208
A sentir lui è una specie di vacanza». Queste cose non gliele aveva dette alla fermata dell’autobus. Non si sentivano da mesi, finché la sera prima Raza le aveva telefonato. «Grazie per il consiglio che mi hai dato» aveva detto in tono trionfale. «Avevi ragione: la gente mi trova più simpatico se non dico chi sono davvero». Ovviamente moriva dalla voglia di raccontare un segreto, e non appena aveva cominciato a parlare lei aveva capito di essere l’unica persona a sapere di Abdullah, l’afghano che avrebbe fatto a gara con Raza Hazara per cacciare l’ultimo sovietico dal suo paese. «Cerchi di fare colpo raccontando frottole a qualche pathan ignorante?» aveva ribattuto Salma, sentendo come aveva convinto Abdullah ad andare al campo. Era stata questa reazione a farlo parlare con minore sincerità, a fargli dire che sarebbe andato al campo con Abdullah «per un paio di settimane». A quel punto sì che era rimasta colpita, tant’è vero che gli aveva raccomandato di fare attenzione e chiesto di telefonarle da là; Raza aveva risposto «forse» e riattaccato. Le era passato per la mente che avrebbe dovuto parlarne con qualcuno — con Bilal, con i genitori suoi o di Raza — ma poi le avrebbero chiesto perché si era confidato proprio con lei. E come avrebbe potuto rispondere? Così si era convinta che Raza inventasse un sacco di storie, come quella del tizio di New York che avrebbe convinto un’università americana a pagargli gli studi. Quando Salma finì di riferire le parole di Raza, Hiroko non volle nemmeno sapere perché il figlio avesse deciso di rivelare i suoi progetti proprio a lei. Invece si voltò e andò subito verso casa; nel tentativo di correre, sforbiciò con le braccia in maniera Convincente, ma le gambe non riuscirono a fare di meglio che muoversi di buon passo. Già in macchina per andare al lavoro, Sajjad aveva inchiodato alla vista di sua moglie che correva al rallentatore, come nella parodia di un film in cui la donna corre a casa per dire al marito che è successo qualcosa di atroce al figlio. Quando sentì quel che Salma le aveva raccontato, il primo istinto di Sajjad fu mettersi a ridere. Che storie riusciva a inventare un adolescente, pur di far colpo su una ragazza! E di certo su Salma qualsiasi giovane avrebbe voluto fare colpo. Anche se era più vecchia di Raza. Avrebbe dovuto sgridarlo di santa ragione quando tornava: era inconcepibile che facesse preoccupare tanto sua madre. Eppure era soddisfatto: molti 209
anni fa aveva detto a Hiroko che Raza assomigliava non poco a suo fratello Iqbal, e questa faccenda dimostrava che aveva visto giusto. Hiroko, che non era affatto d’accordo, lo aveva definito un padre ingeneroso e si era rifiutata di accettare che fra tutti i fratelli Sajjad prediligesse proprio quello, con tutti i suoi difetti. Ma poi — quando Hiroko lo aveva preso per la nuca, di fronte all’idea scioccante che sua moglie lo baciasse lì per strada, in pubblico — tutto ciò che nelle ultime settimane aveva trovato strano nel comportamento di Raza si concentrò in un’unica spiegazione. Tutto quell’interesse per l’Afghanistan! Aveva comprato una carta geografica del paese, aveva fatto domande sulla guerra, non si era lasciato sfuggire una sola notizia sull’argomento, malgrado in precedenza le uniche a interessarlo fossero quelle sul cricket. Sajjad non poté far altro che guardare in faccia la realtà, meravigliandosi di non essere riuscito a capire prima le intenzioni di suo figlio, che lo rendevano felice come solo i progetti più stupidi possono fare, nel caso di un adolescente col carattere di Raza. Delicatamente si liberò dalla stretta di sua moglie. «Lo troverò» disse. «E come? Potrebbe essere ovunque». A titolo di promessa Sajjad le toccò il neo sulla guancia e risalì in macchina. «Vado al porto del pesce, dev’esserci qualcuno che conosce quel ragazzo. Troverò il modo di chiamarti da là. Tu vedi se Salma sa qualcos’altro». Hiroko lo guardò andare via, poi si sentì toccare un braccio. «Non so nient’altro» disse Salma. «Mi dispiace, mi sento responsabile». Fu impossibile prendersela con lei quando ebbe raccontato tutto ciò che aveva detto a Raza mentre parlavano del matrimonio. Impossibile anche prendersela con Qaisra, la sua cara amica, dalla quale Salma doveva aver sentito commentare la «deformità» di Raza. Perché Hiroko aveva in mente una sola cosa: la bomba. Nei primi anni dopo Nagasaki aveva sognato spesso di svegliarsi e scoprire che i tatuaggi erano spariti, che gli uccelli erano entrati dentro di lei: dal becco le gocciolavano veleno nel sangue e con le ali di carbone soffocavano i suoi organi. 210
Ma poi era morta sua figlia, e i sogni erano finiti. Gli uccelli avevano trovato una preda. Invece poi erano tornati, quando era incinta di Raza: sogni più rabbiosi e terribili che mai, dai quali si risvegliava con la sensazione di un battere d’ali nel grembo. Ma quando era nato Raza, con dieci dita ai piedi e alle mani, tutte le membra intatte e funzionanti, Hiroko si era convinta di essere stata risparmiata, che gli uccelli avessero chiuso i conti con lei. Non aveva pensato che potessero volare via ed entrare nella mente di questa ragazza, e da quella nel cuore di suo figlio. Non aveva mai capito bene il bisogno di Raza di sentirsi accettato, la rabbia con cui reagiva ai commenti sui suoi tratti esotici — in realtà aveva considerato quella rabbia poco più di una posa, in un ragazzo così desideroso di padroneggiare le lingue di tribù e paesi diversi — malgrado conoscesse bene il marchio di disonore della bomba. Hibakusha continuava a essere la parola più odiata del suo vocabolario. E la più potente. Per sfuggirle si era imbarcata alla volta dell’India. L’India! Per entrare nella casa di due estranei, in un mondo di cui ignorava tutto. Interruppe Salma con un gesto, senza nemmeno sapere di cosa stesse parlando — perché non sta mai zitta, questa sciocca? — e si incamminò verso casa. Raza era figlio suo. Figlio suo. Come lei, era così intento a scappare che l’unica cosa a sembrargli davvero impossibile era restare fermo. Aprì la porta di casa, entrò nell’atrio e si fermò sulla soglia del cortile. L’ombra dell’albero di neem cadeva proprio dove si aspettava, a quell’ora del mattino; l’aiuola vuota attorno alla pianta le diceva che Sajjad aveva eliminato quel che restava dei fiori primaverili e si accingeva a piantare le zinnie: dunque l’estate era davvero iniziata. E con le zinnie sarebbero arrivate le farfalle. Decennio dopo decennio aveva messo radici qui, aveva imparato ad aspettarsi le giornate sempre più lunghe, le ombre in movimento: non più solo a sorprendersi al loro arrivo. Traversò in fretta il cortile rovente, entrò in camera di Raza e si stese sul letto. Quante volte gli aveva raccontato la sua grande avventura: da Tokyo a Bombay! Da Bombay a Delhi! Eppure non gli aveva mai detto che il suo era stato un gesto disperato, aveva sempre voluto sembrargli impavida, capace di sgusciare di pelle in pelle, di città in città. Perché spiegargli che l’impeto della bomba l’aveva scagliata in un mondo in 211
cui tutto era estraneo e la stessa Nagasaki le era ormai più sconosciuta di Delhi? In assoluto, non aveva visto nulla di meno riconoscibile di suo padre in punto di morte. Eppure aveva sempre voluto che Raza ne sapesse il meno possibile. Perciò la storia di Hiroko Ashraf da giovane non era la storia della bomba, ma quella del viaggio che era venuto dopo. «Non avevi paura?» le aveva chiesto Raza a proposito del suo arrivo in India. Sorridendo aveva risposto: «No», poi aveva riso dello sguardo meravigliato di suo figlio. Era quasi vero. Non aveva avuto paura, ma solo perché non si concedeva di pensare ad altro che alla successiva tappa del viaggio. E Raza adesso dimostrava di essere davvero figlio suo, e niente le avrebbe impedito di vedere tutto quello che sarebbe successo dopo, e dopo, e dopo ancora. Coricata con le braccia strette al cuscino si abbandonò al sonno. Raza, sognò, stava parlando con un ragazzo afghano, che però era anche un suo ex allievo, Joseph, il pilota kamikaze. «Magari non entrerò nell’aeronautica» diceva Joseph. Raza faceva un sorrisetto. «Hai strizza, ragazzino?» Joseph raddrizzava la schiena, spiegava le sue ali nere e quando apriva la bocca ne usciva una cascata di fiori di ciliegio secchi, che ricoprivano l’arida terra dell’Afghanistan.
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Il campo era a più di un’ora di macchina dal punto in cui si trovavano, in cima a un altopiano raggiungibile solamente con una strada sterrata che procedeva serpeggiando dal Pakistan all’Afghanistan. L’unico accesso proteggeva il campo da inconvenienti come quello capitato dove era stato addestrato il fratello maggiore di Abdullah: ci si erano imbattuti per caso alcuni membri di una tribù dopo aver preso una scorciatoia, col risultato che il giorno dopo era stato necessario trasferirlo. L’uomo che guidava la jeep — un tipo tutto barba e naso — indicò un sentiero che si snodava lungo la montagna e disse che uno dei campi degli arabi si trovava laggiù. Sputò fuori la parola «arabi» come se fosse un’imprecazione. «Ma non preoccuparti» aggiunse rivolgendosi a Raza con un sorriso inaspettatamente giovanile. «Dove andiamo noi sono tutti pathan. All’inizio magari saranno un po’ bruschi, a qualcuno non piacerà l’idea di avere un hazara al campo. Però tranquillo: tu sei afghano, sei musulmano e sei amico di Abdullah: ti guadagnerai la loro fiducia». Diede uno scappellotto ad Abdullah, che gli sorrise, e solo a quel punto Raza capì che erano fratelli. Prima ancora di avvistare il campo, Raza ne sentì il rumore. Sulle prime pensò che fosse il mare — ricordò i libri di geografìa con le illustrazioni dei fossili di pesci scoperti su cime di montagne ghiacciate — ma poi il rombo diventò sempre più forte e si trasformò in una sparatoria. «Come fate a tenere segreto un posto così?» urlò per coprire il frastuono. Ismail, il fratello di Adbullah, scrollò le spalle. «Con l’eco è impossibile capire da dove viene il rumore». Parcheggiò la jeep e indicò un sentiero. «Scendete di là. Ci vediamo dopo». Frugò sotto il sedile posteriore, tirò fuori due teli di un marrone grigiastro e li gettò ai ragazzi. «Questo è metà di quello che vi occorre. L’altra metà sono i fucili: ve li daranno quando arrivate». 213
«A cosa serve?» domandò Raza mentre la jeep scendeva in retromarcia a gran velocità per lo sterrato. Abdullah prese il tessuto per un angolo e lo aprì in un rettangolo alto almeno quanto un uomo. «A tutto» rispose. «Gli hazara non hanno pattusi?» Si incamminò verso il sentiero ed esortò Raza con un gesto impaziente. «Ti fa da coperta mentre dormi, da scialle se hai freddo, da mimetica in montagna e nel deserto, da barella se vieni ferito, da benda per coprire gli occhi a quelli di cui non ti fidi, da laccio emostatico, da tappeto di preghiera. Se muori in battaglia ti seppelliscono nel tuo pattusi insanguinato, perché noi mujaheddin non dobbiamo essere lavati e purificati prima di essere seppelliti. Il paradiso è comunque garantito». Sorrise a Raza da sopra la spalla. «Però non c’è nessuna fretta, dunque non camminare sul bordo del sentiero, fratello». Raza fece un salto indietro e si shiacciò contro la montagna. Non si era accorto di essere così vicino al burrone, nella foga di guardare la scena sull’altopiano sottostante: le tende assiepate, il bestiame che non si aspettava di vedere, gli uomini che emanavano una luce dal corpo. La gente di questo pianeta ha qualcosa di angelico, si scoprì a riflettere prima che un’occhiata più attenta rivelasse, fra le braccia di ognuno, un kalashnikov scintillante. Quando raggiunsero l’altopiano — che era caldo e immobile come un forno — Raza si sentì mancare. Non erano solo la fatica della camminata e l’intensità del sole a fargli girare la testa e a sbiancargli le labbra. Come poteva scappare da un posto simile? Se anche fosse riuscito a risalire per il sentiero senza farsi notare, poi dove sarebbe andato? Che cosa aveva creduto di fare? Incoraggiato dai mesi passati a vivere nella menzogna si era convinto di avere tutto sotto controllo, e all’improvviso la sua stupidità e la sua ignoranza gli apparivano chiare. Si sedette — o piuttosto si accasciò — su una roccia, senza badare agli uomini venuti per accogliere Abdullah, che lo guardavano perplessi. Voleva i suoi genitori. Voleva il suo letto e la familiarità delle strade in cui era cresciuto. Per qualche inspiegabile ragione, voleva un mango. Uno degli uomini lo pungolò con un piede. «Ehi, macigno, ti alleni a mimetizzarti col paesaggio?» disse in un tono più divertito che duro. Raza sollevò lo sguardo sugli occhi verdi dell’altro, che lo esamina214
vano con interesse, e di colpo gli tornarono in mente tutte le storie che aveva sentito nel suo quartiere muhajir sulla propensione degli afghani per i ragazzi dai lineamenti delicati, paralizzandolo ancora di più. «Non parla il pashto?» domandò l’uomo ad Abdullah. Abdullah diede un ceffone sulla testa a Raza. «Il pashto è l’unica lingua afghana che parla». Riferì la storia di Raza Hazara e del giuramento secondo il quale una missione di guerra lo separava dalla sua lingua madre. Raza restò ad ascoltare e tentò di ricordare il modo per trasformarsi di nuovo in un hazara: si immaginò di puntare un kalashnikov ma, in mezzo a uomini per i quali un kalashnikov era il pane quotidiano, vide quella posa per ciò che in effetti era. Abdullah si chinò e afferrò Raza per la spalla. «Se ti metti a piangere ti ammazzo» bisbigliò. Raza guardò in su verso Abdullah, verso l’uomo con gli occhi verdi, verso le montagne e il cielo. Gli girava la testa. Premette le mani a terra, sentì le pietre affilate che gli tagliavano la pelle mentre si metteva prono con la testa appoggiata al masso. La vista gli si appannò e fu solo per la rapidità del suo respiro che riuscì a trattenere il conato di vomito. Non aveva mai sentito tanto caldo, né tanta paura. Le voci attorno a lui erano un viavai di note staccate. Forse non si trovava qui ma nella sua camera, a casa, dove la ventola sul soffitto ronzava e sobbalzava ogni volta che completava il giro, coprendo per un attimo i rumori del cortile e circa una sillaba su tre dei discorsi dei suoi genitori. Sentì uno spruzzo d’acqua tiepida sulla faccia e sbattendo gli occhi vide l’uomo che si vuotava nel palmo il contenuto di una bottiglia e poi glielo versava con delicatezza addosso. Abdullah gli diede un altro calcio e l’uomo con gli occhi verdi disse qualcosa che Raza non capì, perché il ventilatore si era accesso di nuovo. E tutto si appannava ancora una volta, fatta eccezione per quegli occhi verdi. Zio Harry, pensò. Poi gli occhi verdi si chiusero e non rimase altro che il buio. Quando riprese conoscenza, si accorse che lo avevano spostato; il pattusi gli faceva da cuscino e la montagna lo teneva all’ombra. Bevve avidamente dalla bottiglia d’acqua che gli avevano lasciato vicino, ap215
poggiandosi su un gomito; poi si coricò e riprese sonno, così esausto che accantonò ogni emozione, mentre il suo fisico accusava finalmente la fatica delle notti trascorse pigiato nella cabina del camion o nel cassone, su un letto di kalashnikov, svegliandosi a ogni brusca frenata o a ogni curva presa a rotta di collo. Più tardi, molto più tardi, un sandalo gli diede un colpo alle costole. Abdullah aveva deciso che l’unico modo per prendere le distanze da questo tipo malconcio era trattarlo come una bestia. Raza si risvegliò al primo calcio ma tenne gli occhi chiusi. Quando ne arrivò un altro prese al volo il piede di Abdullah e lo torse fino a farlo cadere a terra. Il ragazzo si rialzò, ma ormai era troppo tardi: seduti vicino a masticare tabacco fino a sentirsi piacevolmente intossicati, tre mujaheddin stavano già ridendo di lui. «Oggi il tuo amico ti ha insegnato qualcosa» disse uno di loro. «Non dare mai per scontato che uno non possa difendersi solo perché ha gli occhi chiusi». Abdullah si allontanò senza rispondere, e stavolta non fu per stanchezza che Raza si raggomitolò per ritrarsi nuovamente nella sicurezza del sonno. A svegliarlo fu l’uomo con gli occhi verdi, che lo scosse per le spalle e indicò il sole calante. Raza si tirò su, senza capire. «Mentre dormivi hai già perso due preghiere» disse l’altro. «Dai, su, alzati. Non sarai un pathan ma sei pur sempre un uomo. Basta con questa storia». Raza si alzò faticosamente in piedi, malgrado la pesantezza che gli gravava su ogni arto e sul cuore. Guardò l’uomo prendere una manciata di terra e strofinarsela sulle mani, le braccia e il volto. Mimetizzazione, pensò Raza. «Siamo come i primi musulmani nei deserti arabi» disse l’uomo mentre si passava le mani fra i capelli. Raza capì che si stava lavando. Annuì e imitò i movimenti dell’altro, cercando di non pensare a sua madre che ogni giorno gli metteva da parte un mucchietto di cenere, ai tempi in cui lavorava nella fabbrica di saponette. Non si era mai reso conto che il suo era un gesto d’amore. No, a Hiroko non poteva pensare. Né a Sajjad. Se l’avesse fatto si sarebbe sentito assalire da una tristezza 216
ancora più intensa del terrore. Quando Raza ebbe finito di strofinarsi i piedi, l’altro gli fece cenno di andare nello spazio per la preghiera — vicino a un albero spoglio, i cui rami avevano lo stesso colore dei pattusi — dove tutti i membri del campo stavano sistemandosi per file. Dai rami dell’albero, come frutti metallici, pendevano i fucili. Raza notò che la maggior parte dei presenti era più giovane di lui e perfino di Abdullah. Il sole al tramonto smussava gli spigoli del mondo e inondava tutto nel suo bagliore e nelle sue ombre. Faceva più fresco, adesso, e c’era silenzio. All’improvviso Raza capì la bellezza di quel momento e con un senso di riverenza che non aveva mai provato prima stese a terra il pattusi e ci andò sopra. Abdullah si voltò a guardarlo e i due ragazzi annuirono e si sorrisero timidamente, come se entrambi stessero per incontrare le loro future mogli e negli occhi dell’altro riconoscessero qualcosa delle proprie emozioni, un groviglio di euforia e di paura. Raza Hazara sollevò lo sguardo, osservò il mondo e lo trovò straordinario. L’uomo che guidava la preghiera recitò Bismillah in un tono di voce che echeggiò per le montagne. Qui perfino il cielo era diverso: Raza non lo aveva mai visto così striato di sfumature viola. Le parole che gli uscirono dalla bocca venivano da una fede profonda e sincera. Gli era già capitato qualcosa di simile, però mai con tanta forza. Più spesso le preghiere sembravano uscire dalla mente, parole imparate a memoria e quasi prive di significato. In quel momento, invece, malgrado ignorasse il significato preciso di quel che diceva, diede un senso a ogni sillaba che pronunciava in arabo: Signore, Allah, lasciami scappare da qui, liberami, liberami. E dopo quel pensiero quest’altro: Signore, benedici questi uomini. Quando la preghiera finì, Abdullah si avvicinò e gli buttò un braccio al collo. «Mi hai fatto proprio arrabbiare» disse. «Forse ho detto qualcosa che non dovevo». «Non hai detto proprio niente» rispose Raza. «Mi hai solo preso a calci». E in segno di perdono gli diede un colpetto alla caviglia con le dita dei piedi. «Non a te. A lui». Indicò un tizio molto alto, che a braccia incrociate stava fissando Raza. «È il comandante. Ti vuole parlare». 217
«Di che?» Abdullah però si stava allontanando senza più guardarlo. «Vacci e basta». Il comandante fece un brusco cenno con la testa e Raza capì di non avere alternative. L’uomo non disse nulla, lo prese per il collo e lo spinse in una tenda. Ancora una volta Raza si ricordò delle storie sulle inclinazioni dei pathan, poi vide che nella tenda c’era un altro tale che non era affatto un pathan. Era basso, più scuro di tutti gli altri, portava i baffi tagliati corti e stava asciugandosi le mani con cura in un fazzoletto di carta rosa. «È lui?» chiese in un pashto poco convincente al comandante, che annuì e uscì dalla tenda lasciandoli soli. «Nome?» «Raza». «Nome di tuo padre?» Raza Hazara non nominava suo padre da anni. Né l’avrebbe fatto, finché non avesse cacciato dall’Afghanistan l’ultimo sovietico rimasto. «Sajjad Ali Ashraf» rispose. «E un hazara?» «No. I suoi erano di Delhi. Mia madre è giapponese». L’uomo aggrottò le ciglia e si mise comodo. «E come si chiama l’americano che era al porto con te?» domandò passando dal pashto all’urdu. «Harry Burton». L’altro scosse il capo disgustato. «Come possiamo lavorare insieme se non ci si fida l’uno dell’altro?» disse. «Io di lei mi fido» sbottò Raza, e l’uomo fece una risata poco simpatica. «Chi sei? Cosa mi importa se ti fidi o no di me? Harry Burton, Harry Burton». Scosse ancora il capo. «Non l’ho mai incontrato ma conosco la storia. Tu la conosci? Di quando si è tinto i capelli, si è messo il chador e credeva di entrare nei nostri campi senza che la CIA lo venisse a 218
sapere? Che era andato dove il suo governo gli proibisce di andare?» Gli porse il fazzoletto e automaticamente Raza si fece avanti per prenderlo. L’altro sembrò soddisfatto. «Insomma, perché hanno mandato proprio te? Mi sembri un perfetto incompetente». «Non mi ha mandato nessuno». «Mentendo non farai che peggiorare la situazione» rispose l’uomo con calma. «Hai già ammesso di lavorare per la CIA, quindi che senso ha dire che non ti mandano loro?» «Se vuole posso andarmene» disse Raza, e immediatamente si pentì di quell’uscita infelice. Stavolta la risata dell’altro gli sembrò più sincera. «Certo che voglio. Torna dal tuo Mister Burton e digli che non possiamo permetterci il lusso di spiarci a vicenda. Ne ho abbastanza di passare tutto il mio tempo a fare da mediatore tra comandanti afghani e politici che si detestano a vicenda più di quanto detestino i sovietici e i nostri fratelli arabi venuti a combattere in questa jihad. È troppo. Sono mesi che soffro di stomaco per questa faccenda». «Mi spiace davvero» disse Raza. Stavolta la risata dell’uomo era decisamente venata di umorismo. «Non’ho proprio idea di cosa creda di ottenere la CIA con uno come te. Hai soldi?» Raza frugò nelle tasche del kamiz e tirò fuori una manciata di rupie. «Ecco qui». «Adesso so che stai solo facendo l’idiota» disse l’altro, e sorrise. «Tu vieni con me. Subito. Ti porto alla stazione. Quei soldi dovrebbero bastarti per tornare a Karachi. E se ci riprovi, caro il mio Raza Ali Ashraf, non sarò più così clemente. Di’ a Harry Burton che ci sono dei limiti a quello che si può sopportare in nome dell’amicizia». «Sissignore, lo farò». Raza seguì il comandante fuori dalla tenda e su per la strada di montagna verso la jeep che lo avrebbe portato al treno. Continuava a guardare il cielo, sopraffatto dalla gratitudine per l’ineffabile benedizione di quella preghiera esaudita. A metà strada, tuttavia, sentì qualcuno che lo chiamava per nome e vide Abdullah che correva verso di lui. 219
«Dove vai?» Prima che Raza potesse rispondergli, l’uomo si voltò verso il ragazzo e levò una mano in segno di comando. «Lui viene con me. Tu torna giù». Ma Abdullah non si mosse. «È per quello che ho detto?» Spalancò gli occhi per l’orrore, tese la mano e prese Raza per la manica. «Non era vero, non è vero che è della CIA. È qui per combattere con noi, è afghano, vuole diventare un mujaheddin. Non vuole altro. Ho mentito perché ero arrabbiato». «Tornatene giù» ripeté l’uomo con un tono di voce che fece rabbrividire Raza. Abdullah però non si mosse. «Non potete mandarlo via, è qui solo per combattere con noi. Non c’è nessun altro motivo». L’uomo guardò Raza con freddezza. «Muoviti» disse con calma. Raza si staccò delicatamente la mano di Abdullah dalla manica, incapace di guardare il ragazzo più giovane, che aveva il viso rigato dalle lacrime. «Mi spiace» disse Abdullah. «Raza Hazara, fratello...» Raza scosse il capo e si allontanò da Abdullah, mentre a ogni passo la sensazione fisica del dolore e della solitudine si faceva più intensa. «Sono proprio un mucchio di walnuts» disse l’uomo mentre spingeva avanti Raza, in direzione della jeep.
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Al tramonto, il quarto giorno da che Raza era mancato da Karachi, Sajjad Ali Ashraf si era quasi rassegnato all’idea di aver perso altro tempo facendo la spola fra il porto mercantile e quello del pesce, per chiedere notizie di Abdullah, il ragazzo afghano, ai pescatori e ai camionisti. L’unico successo lo aveva avuto il secondo giorno, quando un camionista si era ricordato del giovane, che a suo dire lavorava con un altro pathan: Sajjad si ricordò vagamente del ragazzo e dell’uomo che parlavano con Raza mentre lui e Harry uscivano dal porto del pesce, diversi mesi prima; il camionista però non aveva idea di come rintracciare né l’uno né l’altro. «Ogni tanto li vedo qui o al molo ovest. Prima o poi salteranno fuori». «Non salterà fuori per niente» aveva detto Hiroko, dopo che Sajjad si era arreso ed era tornato a casa la sera. «È in un campo di addestramento vicino al confine con l’Afghanistan. Che cosa speri di trovare al porto, Sajjad?» «Magari il suo amico, l’altro pathan. Potrebbe saperne di più. Cosa vuoi che faccia, Hiroko? Vuoi che stia qui seduto a giocare a carte mentre mio figlio si crede in un film e invece intorno a lui vanno tutti in giro con i kalashnikov veri e Dio sa che altro combinano? Cosa gli faranno quando scopriranno che mente? Un hazara! Cos’è, matto? Drogato? Questi afghani e le loro droghe... Te lo dico io, questo Abdullah gli ha dato qualcosa». Così, ogni giorno prima dell’alba, Sajjad scendeva sulla costa ad aspettare il camionista pathan, senza neppure sapere se l’avrebbe riconosciuto sulla base di un’occhiata e delle descrizioni degli altri camionisti; sapendo però che non avrebbe potuto andare a lavorare come se niente fosse. Giorno e notte attraversava in macchina lo spazio fra il porto del pesce e il pontile ovest, importunato a ogni sosta dai ragazzacci che sovvenzionava quotidianamente perché tenessero gli occhi aperti. L’unico effetto di aver promesso più soldi a chi avesse trovato il pathan era stato una serie di falsi avvistamenti ogni giorno, e niente di più. Sapeva di non poter continuare così a lungo. L’amministratore delegato 221
della fabbrica di saponette — un parente di Kamran Ali, sulla cui macchina lui e Hiroko avevano attraversato la zona di Mussoorie, secoli prima — si era dimostrato comprensivo sentendo come stavano le cose, ma per Sajjad la comprensione si sarebbe tradotta in un numero limitato di giorni d’assenza dall’ufficio. La quarta sera, sul tardi — mentre Raza guardava con sincero disprezzo il proprio volto riflesso nel finestrino del treno — Sajjad andò a piedi alle banchine del pontile ovest. Nel porto erano attraccate navi di tutte le dimensioni e la puzza di nafta era più pungente di qualsiasi odore mai prodotto dal mare. Le gigantesche braccia piegate delle gru a riposo incombevano minacciosamente sui pontili. Ma per Sajjad contava solo una cosa: che finalmente, finalmente aveva riconosciuto qualcuno. Era Sher Mohammed, l’autista del risciò di Harry, che scuoteva il capo davanti alle proteste di un tizio nerboruto e gesticolante. Sajjad aveva passato quattro giorni a pregare. La religione per lui non era mai stata altro che un ronzio costante in sottofondo, eppure la preghiera gli si rivelò come un’attività, un rituale in cui trascorrere il tempo mentre andava avanti e indietro in macchina, vedeva uno dopo l’altro i ragazzi di strada scuotere la testa e dire no, no, forse, magari, però in effetti no; mentre attendeva che il verdetto si annunciasse da solo. Non smetteva mai di muovere le labbra, di ciondolarsi in avanti col corpo mentre recitava l’Ayat-ul-Kursi malgrado avesse capito di non possedere affatto il talento di sua madre nel conversare con Dio come con un amante maldisposto. Non riusciva a sgridare l’Onnipotente come se fosse uno di casa, perciò lo pregava in una lingua che lui stesso non capiva. Si accorgeva però di quanto fosse giustificata l’incomprensione, se pensava alla totale mancanza di pietà dimostrata dall’Onnipotente di fronte all’assassinio di Altamash, al massacro della moglie e dei bambini di Iqbal, e a quel che era successo al consolato di Istanbul; nondimeno il Signore gli aveva dato un figlio che neanche aveva saputo di desiderare tanto ardentemente fino... fino a ora, per dire la verità. Aveva voluto bene a Raza dal momento in cui aveva preso in braccio quel neonato che si divincolava, ma di lì a poco aveva cominciato a darlo per scontato, come faceva per tanti doni del cielo di cui godeva, a eccezione di Hiroko. Ma quando riconobbe qualcosa di familiare nella figura di Sher Mohammed, quando si ricordò del risciò parcheggiato fuori dal porto del 222
pesce la prima volta che Raza aveva incontrato il giovane afghano, Sajjad si sentì letteralmente travolgere dalla gratitudine. Per qualche istante non poté far altro che osservare Sher Mohammed e meravigliarsi che la risposta alle sue preghiere potesse prendere la forma di un ometto con pochi denti sparpagliati sulle gengive e il lobo di un orecchio sbrindellato. Era assolutamente certo che Sher Mohammed lo avrebbe aiutato a trovare Raza; era inammissibile che la sua presenza non fosse un atto della Provvidenza. Avrebbe voluto mettersi in ginocchio per ringraziare il cielo, ma per terra c’era una pozza viscida d’acqua mista a gasolio, e Hiroko avrebbe avuto da ridire se fosse tornato a casa con il salwar rovinato. Decise pertanto di concedersi un attimo per guardare la pupilla inferocita del sole riflessa nell’occhio scuro di gasolio. Diventerò un padre migliore, promise. Lo lascerò libero di fare quello che vuole nella vita. Non aveva dubbi: ciò che era accaduto era interamente colpa sua. Negli ultimi giorni Hiroko aveva a malapena aperto bocca, si era rifiutata di vedere le amiche che venivano a trovarla e quando lo aveva fatto era stato per dire: «Cosa abbiamo fatto di tanto sbagliato?» Non si riferiva tanto alla follia del gesto di Raza, quanto al fatto che avesse convinto un ragazzo afghano a entrare in un campo di addestramento solo perché gli sembrava un’occasione avventurosa per se stesso. Ma dell’altro ragazzo a Sajjad non importava: voleva indietro suo figlio. Voleva avere la possibilità di essere un padre diverso. Come madre, Hiroko aveva fatto tutto il possibile e non aveva colpa per quel che era successo. Le mancanze di Raza erano il segno dei suoi errori come genitore. La laurea in legge! Adesso gli sembrava del tutto priva di importanza. Che differenza faceva se Raza avesse passato o meno un esame, fosse o non fosse diventato avvocato? L’importante era che ci fosse, che stesse bene. Il resto non contava nulla. Ai margini della pozzanghera gorgogliava un arcobaleno di colori. Gli sarebbe piaciuto raccoglierli usando la mano come un setaccio e portarli a Hiroko. Sarebbe entrato nel cortile, li avrebbe buttati in aria così che si impigliassero nei rami del neem e poi avrebbe chiamato Hiroko, che si sarebbe seduta sotto la volta di colori e sarebbe stata a sentire mentre le raccontava di aver trovato il figlio tramite quel tizio con l’orecchio sbrindellato. Le prime settimane che avevano passato a Karachi, in un campo pro223
fughi, Sajjad si svegliava ogni mattino temendo che lei decidesse di tornare dai Burton, in quella casa piena di librerie, cuscini di piuma e giardini. Perciò, ogni giorno diventava l’occasione di trovare qualcosa di bello in quella patria nuova e sconosciuta, qualcosa da mostrarle dicendo: guarda, anche qui c’è un po’ di bellezza. Un giorno una conchiglia col rombo dell’oceano dietro le sue labbra increspate, un giorno un fiore di cactus, un giorno un poeta di Dilli che non potendo permettersi la carta scriveva sulle foglie (ne aveva date un mucchio a Sajjad, che le aveva appiccicate dentro la tenda, appena sopra la branda). Nel tentativo disperato di fare di Karachi un luogo in cui Hiroko potesse immaginare di vivere andò in cerca di motivi per innamorarsi della città, senza rendersi conto che Hiroko lo sapeva benissimo e lo lasciava fare, conscia del fatto che era Sajjad ad aver bisogno di immaginare un futuro in quel posto così diverso — nell’architettura, nell’aria, nei ritmi della vita — dalla città in cui avrebbe voluto vivere e morire. Sajjad si toccò un attimo il cuore e scavalcò la pozzanghera. «Sher Mohammed!» gridò accelerando il passo. «Sher Mohammed!» L’autista del risciò era nel pieno di una discussione con il capitano di una nave che consegnava a Karachi le armi per i mujaheddin. Il capitano aveva ricevuto la visita degli uomini dell’ISI: volevano sapere perché la fornitura non corrispondesse all’elenco della CIA. Avevano accettato la sua spiegazione — l’ipotesi verosimile che si trattasse di un ennesimo errore più a monte nella catena — ma l’incontro lo aveva fatto infuriare. Per cui adesso se la prendeva col responsabile della discrepanza: Sher Mohammed, un uomo della CIA che in passato aveva portato il comandante a un incontro dell’agenzia per convincerlo che nessuno avrebbe notato l’assenza di qualche fucile. «Non ti agitare. Se quelli dell’ISI non ti avessero creduto ti avrebbero già rotto le dita con un martello» disse Sher Mohammed mentre l’altro si fermava per prender fiato. «Cos’è, un tentativo per chiedermi più soldi? Non fare questi giochetti con me». Proprio allora Sher Mohammed si sentì chiamare a gran voce, lì, dove non aveva mai rivelato il suo nome a nessuno. Si voltò verso la voce e vide quel tipo con cui Harry Burton era in grande confidenza. Una volta lo aveva definito «il suo primo maestro», il che aveva convinto Sher Mohammed che quel modesto muhajir di 224
Nazimabad fosse coinvolto nell’addestramento degli agenti CIA. Quest’uomo veniva verso di lui col passo risoluto di un carnefice. Sajjad vide che Sher Mohammed infilava la mano nel retro del suo shalwar e tirava fuori una pistola. Che diavolo sta facendo?, si chiese.
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Hiroko scosse il capo vedendo il tallone screpolato di Sajjad e lo sporco del porto che si era infilato in ogni taglio. «Direttore generale di una fabbrica di saponette!» lo rimproverò mentre gli sollevava il piede e ne strofinava vigorosamente la pianta con una pezza, prima di dedicarsi alle ferite sul tallone. «E guarda come sono ridotta, a lavare i piedi a mio marito! Non ci siamo, Sajjad Ali Ashraf. Non ci siamo proprio». L’ultima parola era stata appena un sussurro, come se la voce di Hiroko si fosse tirata indietro, incapace di presenziare alla scena. Appoggiò delicatamente il piede sul divano, che era stato spostato in mezzo alla stanza per facilitarle il compito di lavare la salma. Adesso aveva finito. Rimaneva una sola cosa da fare per suo marito: avvolgerlo nel lenzuolo bianco su cui giaceva, e poi chiamare dentro gli invitati per un ultimo sguardo prima che i becchini lo portassero via. Ma Sajjad odiava trovarsi stretto sotto le lenzuola, pretendeva che gli si posassero addosso con leggerezza: quando si ritrovava coi piedi impigliati nelle coperte cominciava a scalciare e a dimenarsi. Quante volte l’aveva svegliata in quel modo? Troppe, troppe delle cose importanti che avevano fatto parte della vita insieme a lui erano divenute indistinguibili dal mero processo di vivere. Credeva che Nagasaki le avesse insegnato tutto quello che c’era da sapere sulla perdita, invece era solo con l’orrore che aveva preso familiarità. A ventun anni le era stato impossibile capire ogni sfaccettatura del lutto. Non poteva sapere come sarebbe stato perdere l’uomo che amava da trentasei anni. Seduta sul divano toccò col dito la ferita del proiettile nel torace. Era così piccola che pareva incapace di produrre l’esodo di sangue che gli aveva inzuppato i vestiti e la pelle mentre giaceva in ospedale, in attesa di essere identificato da lei. Il decesso era stato immediato, avevano detto come se la notizia potesse esserle di conforto. Lei non avrebbe voluto che lo fosse, avrebbe preferito tenergli almeno la mano mentre 226
era in punto di morte, dirgli addio in un modo diverso dal: «Perché vuoi andarci ancora? Non scoprirai niente. Rimani qui. Oh, d’accordo, vai» con cui gli aveva detto addio quel mattino. Rimani. Rimani. Rimani. Avrebbe dovuto ripeterglielo come una pazza, sbattere freneticamente la testa contro il muro, prenderlo a sberle, disperarsi. Avrebbe dovuto dirlo almeno un’altra volta, appena più convinta. Avrebbe dovuto prendere fra le mani questa dolce testa e baciarla sugli occhi e sulla fronte. Rimani. La pelle di lui era fredda e rigida dopo una notte all’obitorio. Il sudore le scorreva giù per la schiena malgrado la ventola accesa al massimo sul soffitto, e lui che aveva sempre sudato tanto più di lei così completamente asciutto. Secco come un osso. L’espressione le diede il voltastomaco. Non sopportava di toccargli la pancia, che era sempre stata morbida. Gli avvolse invece la mano attorno al pene, ma la rigidità in quel punto era ancora più intollerabile che in altri. Spostò la mano sui capelli, l’unica parte a sembrare ancora viva. Chiuse gli occhi, fece scorrere le dita e sussurrò parole affettuose in giapponese: le uniche che gli avesse mai insegnato. Né la porta né le imposte chiuse, né del resto il dolore travolgente riuscivano a escludere gli schiamazzi del mondo. Suo cognato Iqbal, arrivato la sera prima da Lahore dopo che Hiroko aveva promesso di rimborsargli il biglietto d’aereo, aveva trovato una prolunga e si era portato il telefono in cortile. Lo sentiva gridare con Sikandar, a Dilli: «Come sarebbe non ti danno il visto? È morto. Tu sei l’unico fratello che mi rimane. Come faccio senza Sajjad?» Era stato Iqbal a entrare nella fossa con Sajjad per chiudergli gli occhi, non Raza. Non riusciva a pensare a suo figlio senza essere travolta dalla rabbia. Poi aveva sentito un’altra voce in cortile e si era alzata dal divano. Era arrivato Harry Burton. Harry, il cui autista Sher Mohammed aveva sparato a Sajjad. L’operaio della gru che lo aveva portato in ospedale aveva raccontato a Hiroko com’era successo: Sajjad che chiama, lo sparo, il tizio con le orecchie sbrindellate che urla: «È della CIA» al capitano della nave, poi si volta e scappa. Dovevano ormai essere tutti e due 227
in pieno oceano, avevano detto a Hiroko i poliziotti. Avvolse un lenzuolo — lasciandolo sciolto — sulle gambe di Sajjad e aprì la porta. Ed eccolo, Harry, con l’espressione smarrita di un bambino. Vedendola, tutti i presenti si alzarono in piedi: gli uomini in mezzo al cortile, le donne sedute all’ombra sotto la sporgenza del tetto. Hiroko guardò soltanto Harry, gli fece cenno di entrare, poi attraversò la stanza per guardare il dipinto delle due volpi mentre lui si accostava alla salma e bisbigliava qualcosa che lei non tentò di capire. «Grazie per essere venuto» disse quando lo udì avvicinarsi. Harry avrebbe voluto abbracciarla ma non lo fece. Quel mattino, dopo esser stato svegliato dalla telefonata di Hiroko, aveva fatto una quantità di chiamate ai suoi contatti dell’ISI e al capo della base CIA di Karachi, e ben prima che il suo aereo decollasse da Islamabad aveva ricostruito, quasi nei dettagli, ciò che era avvenuto al molo ovest. «Perché dovrebbe essere colpa tua se un ragazzino irresponsabile scappa di casa e un figlio di puttana ladro se la fa sotto e spara?» gli aveva chiesto Steve nell’accompagnarlo all’aeroporto, e fu chiaro a Harry che il suo collega non era in grado di riconoscere che era stato il dispiacere, non certo il rimorso, a scollegarlo in quel modo dal suo aspetto di tutti i giorni. «Pensi che siccome era pakistano non potessi volergli bene?» sbraitò. Steve sibilò: «Diavolo», poi rimase zitto per il resto del viaggio. Eppure non aveva del tutto torto, ripensò adesso Harry. Era stato il rimorso a impedirgli di stringere Hiroko, anche se gli pareva assurdo sentirsi in colpa per l’accaduto, quando non lo aveva fatto in tante altre situazioni che per gli standard di moralità più consueti e ristretti avrebbero dovuto farlo singhiozzare in un bar o in qualche altro confessionale laico. «Perché il tuo autista gli ha sparato?» domandò Hiroko voltandosi. «Perché sparare a Sajjad?» «Non lo so». Non era stato per amicizia che Steve lo aveva portato in macchina all’aeroporto, ma per un bisogno professionale di ribadire l’importanza di non rivelare nulla che dovesse restare nascosto. «Credeva che fosse della CIA» disse lei, toccandosi il neo sotto l’occhio per la prima volta quel giorno. «Immagino per causa tua». 228
Harry avrebbe voluto che Hiroko indovinasse la verità, ma lei era lontana. «A volte io e Sajjad ci scherzavamo sopra. Su te che eri un agente della CIA. Qui lo pensano di tutti gli americani, lo sai». Si portò la mano alla bocca. «Credi che Sajjad abbia fatto una battuta simile con quel Sher Mohammed? Che sia stato per quello che...» La voce le morì di nuovo in gola mentre scuoteva il capo e guardava la salma, alla quale Harry dava intenzionalmente le spalle. «Può darsi» rispose senza nemmeno rendersene conto. «Può darsi che sia quello il motivo». In cortile il rumore degli uomini che parlavano e delle donne che pregavano si interruppe, per lasciare il posto a un rumore diverso, a cui Hiroko non badò. Era Raza. Nell’aprire la porta aveva capito per la prima volta il senso della parola «casa», poi aveva visto la gente radunata in cortile e immediatamente aveva compreso di non averne più una. Era stato lo zio Iqbal a prenderlo fra le braccia e a sussurrargli nell’orecchio: «Il tuo papà se n’è andato». Poi era stato circondato da una folla che gli spiegava in termini sconnessi cosa era successo, senza ancora saperlo veramente. Ma Raza sentì: «È quello ha gridato: è della CIA!» e capì che era tutta opera di Harry Burton. Si fece largo ed entrò nella stanza in cui giaceva il corpo di suo padre. Sulle prime avrebbe voluto ridere. Era uno scherzo. Non era possibile che la morte fosse così uguale al sonno. Ma quando scosse Sajjad per la spalla, quando toccò il suo corpo gelido, sentì una fitta al cuore. «Raza» lo chiamò Harry vedendo che Hiroko non riusciva a farsi avanti per abbracciare il figlio in lacrime. Raza era in ginocchio davanti al divano, la spalla gelida del padre ancora stretta nella mano, ma al suono della voce di Harry si levò, e voltandosi tese pugni. In men che non si dica Harry lo aveva immobilizzato contro il muro. «Sei stato tu!» gridò Raza. «Hai ucciso mio padre!» «Raza Konrad Ashraf!» Hiroko spinse via Harry e costrinse suo figlio ad alzarsi in piedi. «Cos’è questa maleducazione?» «Mamma, tu non lo sai» Afferrò la camicia di Harry. «Al campo mi 229
hanno detto tutto di te. È nella CIA, ci ha sempre mentito. Aba è morto per colpa sua». Harry prese il pugno di Raza che gli stringeva la camicia e lo strizzò. «Idiota, tuo padre è morto perché è andato al porto a cercarti». Raza vacillò. Nelle spiegazioni che aveva sentito in cortile, questo particolare gli era sfuggito. Guardò sua madre, e lei capì che d’ora in poi questo lo avrebbe tormentato per il resto dei suoi giorni. Era troppo giovane per un dolore simile, era solo un bambino, il suo bambino. Aprì le braccia e lui si buttò nella sua stretta. Harry si accomiatò da Hiroko, si allontanò in modo che lei non dovesse nemmeno vedere la sua ombra. Si concesse di guardare Sajjad per un attimo — un lungo attimo in cui rivide i momenti più belli della sua infanzia, e vide se stesso giacere al suo posto — poi se ne andò. Le mani di Hiroko carezzavano la schiena e i capelli di Raza, i suoi occhi si posavano su Sajjad. Presto lo avrebbero portato via. Le restavano appena pochi minuti per memorizzare ogni dettaglio: la curva della clavicola, la piccola cicatrice sulla nocca, le vene sul polso.
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LA RAPIDITÀ NECESSARIA PER SOSTITUIRE LA PERDITA New York e Afghanistan, 2001-2002
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Con la punta della lingua cacciata nello spazio fra gli incisivi Kim Burton osservò a bocca aperta il baratro nello skyline di Manhattan. Si sfregò la lingua sul bordo affilato di un dente. Macerie metalliche frastagliate. Sei mesi dopo, tutto era ancora memento o testimonianza. Adesso, dalla finestra larga tre metri e mezzo e alta uno nell’appartamento di sua nonna al trentesimo piano di Mercer Street si poteva guardare diritto avanti a sé senza che nessuna realizzazione umana sbarrasse la vista. Semmai, c’era tanto cielo che pareva di stare nel Montana. Aprì la finestrella sul lato della stanza — la finestra del fumatore, come la chiamava suo padre — e sporse la testa in modo da vedere la strada col suo flusso leggero di traffico umano: operai del turno di notte che tornavano a casa per condividere pochi preziosi minuti di sonno con la persona amata; studenti della New York University eccitati da qualche sostanza che li teneva svegli a studiare la settimana prima degli esami; un uomo con due secchi traboccanti di fiori profumati e gli occhi che lacrimavano di nostalgia per un paese lontano; due travestiti allacciati l’uno alla vita dell’altro, che avanzavano al passo sui tacchi a spillo, come avevano fatto con gli anfibi ai piedi nella vita da soldati che si erano lasciati alle spalle. Da quest’altezza si poteva attribuire ogni sorta di storia alle minuscole figure che passavano lì sotto. A Kim piaceva credere che le sue rivelassero una certa ampiezza di vedute, nonostante sospettasse che avessero a che fare con qualcosa visto in televisione la settimana precedente. Staccò gli occhi dal mondo esterno e con una smorfia li puntò sul vetro che rifletteva il suo volto spigoloso. Occhi verdi appannati dalla fatica, capelli corvini sui quali stavano prendendo il sopravvento le radici ramate, così lunghe che ormai le sembrava di doverle chiamare fusti, pelle pallida e occhiaie profonde al punto da farla apparire più lunare che umana. I voli economici a notte fonda, il caffè e gli incubi sui palazzi in rovina non contribuivano a un bel colorito. Distolse lo sguardo, allungò la mano dietro il calorifero per prendere 232
il pacchetto di sigarette e il piccolo cranio d’argento, che spalancò le fauci e sputò una fiamma decisa quando lei premette sull’osso occipitale. Ormai erano quasi vent’anni che si portava dietro questo accendino, regalo d’addio di un marine dell’ambasciata di Islamabad, con il quale aveva avuto una storiella al solo scopo di infastidire suo padre. Una volta ricevuto in dono l’accendino, le era toccato mettersi a fumare. Qualche mese dopo, a Londra, il nonno James l’aveva sorpresa ad accendere una sigaretta in giardino e aveva detto: «Suppongo che ti abbia incoraggiato tua nonna a fumare, tanto per darmi noia». Sembrava felice di credersi ancora importante per Elizabeth — non la chiamava mai Ilse — malgrado non si vedessero dai tempi del matrimonio di loro figlio. Fece un tiro e si trovò a chiedersi cosa avrebbe pensato del mondo il nonno James, se fosse stato ancora vivo. Il suo sdegno per tutto ciò che arrivava dall’America, eccettuate la nipote e Lauren Bacall, sarebbe aumentato o diminuito negli ultimi mesi? Avrebbe ancora guardato con sgomento alla vita di Harry, chiedendosi quale dei suoi errori avrebbe potuto prevenire, e quali dei suoi fallimenti portavano il marchio del DNA? Che cosa avrebbe pensato della compagna di appartamento della nonna, la vedova di qualcuno che bastava nominare perché lui cambiasse argomento con un’aria di rimorso per il resto totalmente assente dalla sua vita? «Me ne offri una?» Kim ebbe un sussulto; senza che se ne accorgesse le cadde un po’ di brace sulla t-shirt nera, bruciandola. «È tanto che fumi?» «Dal 1945. Grazie a un americano in un bar di Tokyo». Ridendo, Kim porse a Hiroko la sua sigaretta. «Fuma questa. Io ho smesso. Chi era l’americano?» «Un soldato come tanti». Hiroko si sedette sul divano e fece un saluto militare perfetto. «Quando sei arrivata? Pensavo che partissi oggi pomeriggio da Seattle». Fece un tiro di sigaretta e mandò fuori il fumo lentamente, col fare circospetto di chi fuma una volta l’anno. «Hanno spostato a oggi l’incontro, così ho preso il volo di notte» rispose Kim mentre scrutava l’altra donna. C’era una fragilità in Hiroko che non esisteva tre anni e mezzo pri233
ma, quando era entrata in questo appartamento con l’aria di chi sa di essere in ritardo — di circa mezzo secolo — ma anche di poter essere scusata. Sarebbe stato assurdo, si disse Kim, non accettare un minimo di debolezza in una donna della sua età. E tuttavia era difficile crederci: c’era qualcosa di così giovanile nella sua posa, le gambe piegate sotto il corpo, il gomito sullo schienale e la mano che reggeva il mento, con la sigaretta che brillava fra le dita. La penombra che avvolgeva l’angolo in cui era seduta contribuiva a rendere inverosimile che questa donna in pigiama di seta e un taglio di capelli corto ed elegante avesse settantasette anni. Kim accese una lampada, e nel volto di Hiroko Ashraf si disegnarono dappertutto delle rughe sottili. Il neo che un tempo era posato sullo zigomo era sceso, ma di poco. Eppure la ciocca verde nei suoi capelli avorio attestava ciò che non era affatto cambiato: la sua immutata disponibilità per le esperienze nuove, senza dar peso al fatto che qualcuno potesse considerarla frivola o sciocca. «Qual è lo scopo dell’incontro? Credevo che avessi già definito tutti gli aspetti del trasferimento a New York». «Sì, ma c’è sempre qualche grana da risolvere» rispose Kim stirando il suo corpo snello nel tentativo di liberarsi dall’indolenzimento del viaggio. «Però sono contenta di essere qui. Appena prima di Natale è il classico momento in cui si fanno vivi gli ex per chiederti di fare un ultimo tentativo, e Dio sa che non ho bisogno di sentirmi fare un discorso simile da Gary. Sai già che mi fermo fino a dopo Natale, no?» «Tu sarai incapace di comunicare con chi ti sta vicino, ma questo non implica che anch’io e tua nonna abbiamo lo stesso problema» rispose Hiroko sorridendo. «Certo che lo so. E sono contentissima». Indicò il quotidiano, aperto accanto alla tazza di Kim mezza piena sul tavolino. «Cosa sta succedendo nel mondo?» «L’ultimo incendio si è quasi spento» rispose Kim con un gesto in direzione del vuoto che si profilava fuori dalla finestra, poi venne a sedersi sul divano. «Quello non è il mondo, è soltanto il quartiere» commentò Hiroko bruscamente. Kim aggrottò le ciglia. «Certo, come no» disse in un tono sarcastico. «È giusto un incendio 234
di quartiere». Hiroko alzò la mano in segno di scusa. «Mi spiace, non intendevo quello». Kim le prese la mano e la strinse con delicatezza. «Che ti succede, Roko?» Certe volte le sembrava impossibile, la miopia di Kim Burton. E ancora più impossibile le sembrava prendersela con una donna tanto sincera nel suo affetto e nella sua gentilezza, una donna che aveva tutti i lati buoni di Konrad, di Ilse e di Harry nel tocco delle dita, nell’espressione preoccupata di quel volto aperto e schietto, nel suo desiderio di sapere esattamente cos’era andato storto questa volta. Hiroko si era praticamente innamorata di lei pochi minuti dopo averla conosciuta. «Sono quegli stupidi degli uomini con le loro pose, ecco cosa succede. Come al solito» disse Ilse Weiss mentre usciva dalla sua camera. Si fermò vicino al vecchio mappamondo appoggiato sul mobile bar e lo fece girare, spostando verso ovest i continenti fino ad avere sotto le dita la massa ancora compatta dell’India e, appena visibile, il confine tracciato a penna da Harry bambino, per il quale un mappamondo sorpassato era un oggetto inutile. «Ti trovo in forma, nonna». Ilse sbuffò e venne a sedersi fra Hiroko e Kim, e nel farlo diede un ceffone alla gamba che questa teneva appoggiata al tavolino. «A novantun anni puoi solo sperare di conservarti bene. Come un cetriolo sottaceto». Piuttosto vero, pensò Hiroko senza cattiveria. Malgrado la magrezza che un tempo le aveva dato una spigolosità singolare e la quantità di rughe che ricordavano la carta geografica di un terreno particolarmente frastagliato, il volto di Ilse portava con sé un ricordo così forte della bellezza che la gente si fermava ancora a guardarla, immaginando cosa si sarebbe rivelato se fosse stato possibile sbucciare via gli strati del tempo. «Non dicevi che saresti morta entro stamattina?» Ilse sorrise a Hiroko. «Non è ancora del tutto mattina». 235
Hiroko le prese il polso e premette le dita sulle vene. «In effetti non hai polso. Forse siamo morte tutte e due e questo è quello che viene dopo. E Kim è venuta a trovarci!» «Che assurdità. Ci arriverò di sicuro prima di te. Come sono arrivata prima a Delhi, e qui». Tolse la sigaretta dalle dita di Hiroko e diede una breve tirata, poi soffiò fuori il fumo con il sorriso di una scolaretta ribelle. «Però è vero, ieri sera ero sicura che sarei morta nel sonno». «Ti succede almeno due volte alla settimana» brontolò Hiroko nel riprendersi la sigaretta. «Va be’. Prima o poi ci azzeccherò». Picchiettò con un dito il ginocchio di sua nipote. «Non parlarle degli incendi qua fuori come se fossero la cosa più importante del mondo. È sicura che il Pakistan e l’India si butteranno nella guerra atomica». «Oh, merda» fece Kim. «Scusa tanto, Hiroko». «Non dire ‘merda’, Kim. Se proprio devi essere sboccata almeno di’ ‘cazzo’, che ha una sua barbara eleganza». Lo aveva detto soprattutto per far sorridere Hiroko e distrarla, ma l’altra si limitò a buttare fuori il fumo e a guardarlo accumularsi in una nube davanti a sé. Ilse conosceva quella sua espressione. L’aveva già vista in agguato, celata dall’emozione dell’arrivo, quando Hiroko era venuta a New York nel ‘98. «Tutte e due le volte che sei entrata in casa mia c’era di mezzo l’atomica. Passi la prima, ma alla seconda vien da pensare che potevi inventarti qualcosa di meglio» aveva finto di rimproverarla Ilse, ma lo sguardo di Hiroko — quello che era tornato adesso — le disse che la bomba sarebbe rimasto l’unico argomento al mondo di cui mai avrebbe riso. Hiroko spense la sigaretta a metà e con la punta tracciò due ali nella cenere. «Notizie da Harry? Sono diversi giorni che non sento Raza». Nei dieci anni in cui i due avevano lavorato insieme, Hiroko aveva potuto contare, come canale di informazione alternativo, anche su Ilse e lo stesso Harry. In precedenza, nei primi anni dopo la morte di Sajjad, potevano passare mesi senza che avesse sue notizie. All’inizio aveva pensato che fosse arrabbiato con lei o fosse diventato insensibile con 236
l’età, ma poi quando parlavano o si vedevano lui era affettuoso come sempre. Dunque non era per disaffezione che stava alla larga, pensava Hiroko, ma per qualcos’altro, un senso di colpa che doveva suscitare in lui. Il rimorso per la morte del padre. Rimorso, pensava a volte Hiroko, per la vita che faceva lui stesso, ma poi che motivo c’era di sentirsi in colpa? Forse Hiroko non aveva dimostrato abbastanza entusiasmo per il lavoro che si era scelto, e lui pensava che lo giudicasse male. Non era una questione di giudizi però: avrebbe soltanto voluto capire come mai due uomini intelligenti come Harry e Raza avessero deciso di lavorare «nel ramo amministrativo della sicurezza privata»; che razza di soddisfazione trovavano nel supervisionare i sistemi di sorveglianza delle banche e nell’assegnare guardie del corpo ai potenti? A un certo punto aveva creduto che si trattasse di una copertura, che in realtà lavorassero per la CIA, e il pensiero che Harry avesse trascinato Raza in quel mondo l’aveva tanto irritata che li aveva costretti entrambi a giurare sulla tomba di Sajjad che non era così. In quel frangente, nel vederli tutti e due così pallidi, aveva capito che non mentivano. E poi Ilse aveva detto: «Harry non è più nella CIA. Se mentisse me ne accorgerei», e chiedere a lei di giurare su una tomba era fuori questione. Diceva sempre che l’assoluta sincerità era uno dei doni della vecchiaia. Se almeno fosse stato felice. Questa era l’unica cosa che si augurava, ma forse Raza non si sentiva all’altezza di un’aspirazione simile. Si premette la mano sul cuore: a volte le bastava pensare a lui per essere colta da un senso di devastazione opprimente, del tutto sproporzionato rispetto alle circostanze. Kim disse: «Non ricordo nemmeno quando papà mi ha telefonato l’ultima volta». Invece naturalmente se ne ricordava. Come sempre. Era il 31 ottobre e lui aveva avuto un attacco di malinconia: aveva ripensato a quando sua figlia, per Halloween, si era vestita da «pace nel mondo», appiccicandosi carte geografiche ai vestiti, ognuna con sopra il simbolo della pace. Peccato che nel simbolo mancasse uno dei tratti, con l’effetto — aveva commentato Harry — di farla sembrare vestita da «Mercedes-Benz nel mondo». Aveva riso al telefono e Kim, che avrebbe voluto fare altrettanto, felice com’era di sentirlo, si era ritrovata a rispondere: «L’hai detto mesi dopo, vedendo le foto, perché quando è successo non c’eri. Come al solito». Troppo spesso, in compagnia del 237
padre, non riusciva a soffocare un astio o un’adulazione adolescenziali, col risultato che lui non le telefonava più per un sacco di tempo. Anche se forse non si faceva vivo perché lei si era già fatta un’idea di dove fossero lui e Raza e non voleva confermare i suoi sospetti, incapace com’era di mentirle. «Ho parlato ieri con Harry» disse Ilse con un’occhiata di leggero rimprovero alla nipote. «Si può anche fare il suo numero, sai? Invece di aspettarsi sempre che sia lui a fare lo sforzo». Quando per tutta risposta ottenne una scrollata di spalle, Ilse si voltò verso Hiroko. «Stanno bene tutti e due. Non mi ha detto dove sono ma non è il caso di mettersi in testa che sia l’India o il Pakistan. È anche probabile che stiano tornando a Miami». Era là che si trovava infatti la sede dell’azienda, ma poche settimane prima entrambi avevano detto che sarebbero stati in viaggio per un anno per vedere clienti in varie parti del mondo, e che fino a nuovo ordine l’unico modo per contattarli sarebbe stato il telefono satellitare. L’unica a bersela era stata Hiroko. Che adesso annuì senza la minima convinzione. «Ho provato a chiamare Sajjad per chiedergli come stanno le cose lungo il confine, ma non riesco a prendere la linea». «Forse dovresti cambiare medium, tuo marito è morto da anni. Hiroko, non puoi rimbambire prima di me, me l’hai promesso». Vorrei essere vecchia, pensò Kim guardandole. Vecchissima. Abbastanza da lasciarmi alle spalle tutti i guai: il lavoro, l’amore, i rimpianti. I padri. Le madri. Ma si invecchiava mai abbastanza per riuscirci? Hiroko diede un colpetto sul braccio a Ilse. «Non parlo del mio Sajjad, ma di suo nipote: il figlio più giovane di Iqbal». «Iqbal? Ah, sì. Il fratello dissoluto. L’ho visto una volta, era venuto a Bungle Oh! per dire a Sajjad che era morto loro padre. Era inverno, aveva su un mantello favoloso. Mi avrai detto cento volte di suo figlio, ma temo che dovrai ripeterti». A volte, davanti al modo sempre più nitido in cui Ilse ricordava il passato, Hiroko si chiedeva se al contrario la sua memoria si sarebbe lentamente dissolta, con linearità perfetta, a ritroso negli anni finché non restasse alcun ricordo successivo alla bomba, nessuna traccia della 238
sua sopravvivenza tranne le prove che portava sul corpo, ancora così incredibilmente intatto, se non per i tatuaggi carbonizzati che aveva fra le spalle e sulla vita. Fece un cenno impaziente con le dita. «È quello che fa il soldato». «Ah, sì. Nell’esercito indiano?» «Pakistano, Ilse. Quello che è restato in India è Sikandar, non Iqbal». «Be’, sono proprio contenta che tu sia qui, invece che là». Hiroko non rispose. Oggi si era rifatto vivo in modo particolarmente acuto il disagio iniziale di vivere nel lusso di quell’appartamento: a questa altezza, uno dovrebbe trovarsi in collina. Abbottabad, quella località con i suoi echi di Mussoorie, era diventata casa sua dopo la morte di Sajjad. Nel giro di un anno aveva venduto la casa, chiesto il prepensionamento dalla scuola e accettato l’invito della sua vecchia amica Rehana, tornata nei luoghi dell’infanzia dopo la morte del marito, con il quale aveva abitato a Tokyo e a Karachi: le aveva chiesto di trasferirsi insieme a lei ad Abbottabad, lontano dal caos di una città così priva di allegria, da quando mancavano Sajjad e Raza, che viverci era come precipitare nel rimpianto. Ad Abbottabad, aveva scoperto di essere fatta per il verde e le colline, felice di camminare per ore in vallate silenziose, con un pastore tedesco — Kyubi — come unica compagnia e protezione. Ma poi in India erano iniziati i test nucleari e tutti dicevano che il Pakistan doveva fare altrettanto, che non c’era scelta (uniche voci contrarie quelle del generale in pensione che viveva in fondo alla sua stessa strada, del giornalista che le chiedeva sempre di rivedere i suoi articoli e della donna che veniva due volte alla settimana per pulire e far da mangiare, secondo la quale l’unica soluzione era la non violenza). Così aveva tirato su il telefono per chiamare Ilse Weiss a New York e dirle che intendeva trasferirsi a Miami a casa di Raza, e che magari avrebbe fatto tappa a New York. Chissà come quella tappa durava ormai da tre anni, per via della fermezza di Ilse e dell’arrendevolezza di Hiroko. «In effetti Raza mi ha scritto un e-mail ieri» fece all’improvviso Hiroko. «Non per dire dov’è, ma solo per disdire la visita. Non ce la fa a venire». Incrociò lo sguardo comprensivo di Kim: sapevano entrambe cosa significava essere una voce cancellata senza troppo sforzo 239
nell’agenda affollata di un familiare amato. Eppure non capiva come fosse arrivata a questo con suo figlio. Doveva aver fallito in qualcosa, e miseramente. «Che peccato» fu la risposta poco convinta di Ilse. «Ne abbiamo già parlato. Non c’è bisogno che fingi. So che mio figlio non ti sta simpatico, come non ti stava simpatico suo padre». «Ah, ma di Sajjad dovevo essere un po’ innamorata. Non pensi? Era bellissimo, e io sono sempre stata molto leggera in questo genere di cose». Hiroko rise e le strinse la mano. «Sono così contenta di averti come amica, Ilse Weiss». Davvero, quanto mi piacerebbe esser vecchia, pensò Kim guardandole.
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«Kon! Kon-man! Hey, Razor!» Raza Konrad si voltò di scatto verso la voce, pronto ad affrontarla, ma non vide altro che un ragazzo americano sorridente, che prendeva il sole su un telo di spugna, il fisico un assortimento di muscoli pompati, diviso in due da un paio di short neri così minuscoli che parevano disegnati da un censore distratto. Sarebbe stato difficile immaginare un contrasto maggiore fra l’americano e Raza, che nascondeva la magrezza sotto una camicia button-down, i pantaloni lunghi e un’espressione guardinga. «Prendimi una lattina di birra dalla borsa frigo» disse l’uomo passandosi la mano sui capelli tagliati a spazzola, per poi asciugare il sudore sul bordo dell’asciugamano. «E prendine una anche tu». Raza si fermò un attimo a considerare se la frase poteva costituire un insulto: era semplicemente un’offerta amichevole, oppure presumeva che Raza avesse bisogno del permesso del ragazzo per poter prendere quello che voleva dal frigo? L’altro continuava a sorridere; Raza scrollò le spalle e frugò nella borsa frigo che si trovava a pochi passi da lui. Il freddo sulle dita era piacevole: prese un cubetto di ghiaccio e se lo fece scorrere sul collo e sulla faccia. Quando arrivò abbastanza vicino all’altro per lanciargli la lattina il ghiaccio si era già sciolto. «Nel giro di un anno questo posto diventerà un villaggio turistico a cinque stelle» disse l’americano, e con un gesto ampio indicò la base militare con i suoi alti muri di fango e le torrette di guardia. Si picchiettò la testa. «Ho un progetto in mente. Ci vuoi entrare?» Raza scosse il capo e proseguì in direzione del grosso mezzo blindato che non avrebbe dovuto far uscire dal recinto senza autorizzazione. Peccato che non ci fosse nessuno a cui chiederla: erano tutti in giro a dar la caccia ai terroristi, a parte l’amante dell’abbronzatura, che per una caviglia slogata veniva risparmiato dai servizi attivi, i cuochi, gli
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addetti alle pulizie e una varietà di Third Country Nationals4 (gruppo da cui Raza era sempre stato esonerato in virtù del suo salario, più che del passaporto). Avrebbe preferito la jeep — aperta, e quindi meno minacciosa se avessero incontrato uomini armati — ma non voleva impossessarsi dell’unico veicolo a disposizione dei TCN. Anche se non capiva dove sarebbero potuti andare: forse semplicemente «via», considerò mentre con un rombo si gettava nelle pianure polverose dell’Afghanistan alla guida di un Humvee. Era così che si era sentito — quanti anni fa? — quasi diciannove anni prima, dopo la morte di suo padre. Gli bastava trovarsi in questi luoghi, che Sajjad Ali Ashraf aveva riempito con le sue risate e i suoi abbracci. Perciò, quando suo cugino Hussein — il maggiore di Iqbal — lo aveva chiamato da Dubai per fargli le condoglianze, e aveva detto che se ne avesse avuto bisogno c’era un posto di lavoro disponibile nell’hotel in cui lavorava, Raza aveva accettato. Hiroko si era infuriata. «E l’università?» gli aveva detto. «Ci devi andare, come desiderava tuo padre». «Adesso devo pensare a mantenere la famiglia» aveva risposto lui interpretando il ruolo del figlio che mette da parte le aspirazioni personali per farsi carico delle responsabilità comuni. Hiroko non l’aveva bevuta, però capiva che Raza non voleva sfuggire soltanto al ricordo del padre, ma anche al dolore della madre, che in ogni sua manifestazione acuiva in lui il rimorso. E per questo non poteva chiedergli di restare. Era stato allora che la sua coscienza e il suo corpo si erano incamminati in direzioni diverse, si chiese Raza, oppure era successo prima, quando aveva convinto un ragazzino a entrare in un campo di addestramento per mujaheddin? Abbassò i vetri scuri dell’Humvee — infrangendo una precisa regola della compagnia — e cambiò il CD di rap con uno di Nusrat Fateh Ali Khan. Sometimes the walls shake, sometimes the doors tremble... Raza guardò il paesaggio che gli scorreva davanti veloce, impedendogli di distinguere i sassi dalle macerie. Un oggetto metallico che luccicava fra i calcinacci richiamò la sua attenzione: immaginò un orologio ancora 4
Si tratta di mercenari di «terze» nazionalità assunti da un paese o da un contraente da questo incaricato, ma che non rappresentano né il paese in questione né quello in cui si svolgono le operazioni militari. [n.d.t.]
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perfettamente funzionante, su un polso senza vita. Nei dieci anni che aveva passato a Dubai prima che si rifacesse vivo Harry, aveva cercato di entrare in contatto con il maggior numero possibile di nazionalità, imparando lingue con lo zelo di un collezionista: il bengali e il tamil dal personale dell’albergo, l’arabo alla reception, lo swahili dalla jazz band e il francese da Claudia, la più fissa delle sue numerose amanti; e poi il farsi, dalla coppia che gestiva il ristorante all’angolo della sua strada, il russo da due prostitute che abitavano nell’appartamento accanto al suo studio e sapevano di poter sgusciare nel suo letto dopo che i clienti se n’erano andati, per farsi due risate oppure in cerca di comprensione o di un abbraccio platonico; e oltre a questo, un’infarinatura di parole da tutto il mondo. Più lingue imparava, aveva capito, più somiglianze scopriva: qhwa in arabo, gehve in farsi, café in francese, coffee in inglese, kohi in giapponese... Ma dagli afghani stava alla larga. Impadronirsi anche solo di una loro parola gli sarebbe sembrato un furto. Tirò su il finestrino e tutto si fece misericordiosamente irreale. Sparito l’azzurro del cielo, che lo costringeva a ricordare Abdullah, stando al quale il cielo invernale dell’Afghanistan era diverso da qualunque cosa «quei karachiwalla» potessero immaginare. Qualche ora dopo Raza balzò giù dall’Humvee e sbatté gli occhi per riabituarsi alla luce. Si trovava su un ampio passo nelle grandi montagne di fango e sassi che un tempo avevano evocato figure mitologiche nella sua fantasia. Ma i rumori che echeggiavano nel silenzio erano quelli non della guerra, bensì del commercio. Baracche del tè e taxi, carretti tirati da un asino e stipati di qualche mercanzia, bambini che vendevano bottiglie d’acqua minerale e occhiali da sole da pochi soldi. Raza vide un gruppo di uomini che scendevano da un pulmino, facevano cinque o sei metri e ripartivano su un altro pulmino. In un punto di quei cinque o sei metri l’Afghanistan diventava Pakistan. I soldati pakistani in fondo a quel tratto di terreno non sembravano troppo interessati ai documenti dei pathan che facevano avanti e indietro, ma quando si avvicinò Raza uno di loro alzò la mano, quasi premendogli il palmo contro il volto. «Non fate storie con gli afghani che entrano in Pakistan e fermate uno che torna a casa sua» disse Raza in urdu. «Il mondo è proprio di243
ventato strano. Avverti il capitano Ashraf che è arrivato suo fratello». Tornò sul lato afghano e sorseggiò una tazza di tè accovacciato con altri uomini. Il fatto di essere l’unico civile a portare i pantaloni invece del salwar lo metteva leggermente a disagio. Nel giro di pochi minuti vide arrivare il capitano Sajjad Ashraf: era il figlio minore di Iqbal, e vedendolo venire avanti impettito, agitando un bastone, si chiese se Hussein, a Dubai, fosse soddisfatto: aveva lavorato tanti anni nelle cucine di un albergo perché Sajjad potesse avere l’istruzione che gli altri suoi fratelli non avevano avuto, e prospettive che lui stesso poteva soltanto sognare, ai tempi in cui suo padre sperperava i soldi di famiglia al gioco e in puttane. Raza si fece avanti per salutare il cugino, ma quando vide l’altro bloccarsi fece altrettanto. Raza era più vecchio di quasi dieci anni: toccava a Sajjad venirgli incontro. Il cugino gli sorrise da oltre lo spazio che li divideva. «Se vengo verso di te l’esercito pakistano avrà invaso l’Afghanistan». Raza alzò gli occhi al cielo e avanzò. «Benvenuto a casa» gli disse Sajjad mentre lo abbracciava frettolosamente. «Ti trovo bene, si vede che l’esercito americano si prende cura di te». «Non sono nell’...» Si interruppe e alzò le spalle senza finire la frase. La distinzione fra lavorare per l’esercito americano e lavorare per una ditta privata in appalto all’esercito americano era così sottile che tentare di chiarirla sarebbe apparso sciocco. «Come ti vanno le cose? Hussein come sta? E tutti gli altri?» «Bene, tutti bene. Hussein e Altamash sono in espansione: il mese prossimo aprono il terzo supermercato». Raza sorrise all’idea. La sua vita a Dubai si era fatta così distante da quella di Hussein e dell’altro cugino Altamash di Delhi, da quando la sua conoscenza delle lingue e il suo aspetto poco pakistano lo avevano velocemente portato dalle cucine in cui lavoravano insieme (altro che la vita da nababbo di cui favoleggiava Hussein nelle sue lettere) alla reception di un hotel a cinque stelle. Tuttavia aveva messo a tacere il rimorso per la separazione dai cugini finanziando l’apertura del loro pri244
mo negozio, con l’anticipo incassato dalla Arkwright & Glenn al momento dell’assunzione. «Ho appena mandato da loro, a Dubai, mia moglie e i bambini» continuò Sajjad. «Vista la situazione è la scelta più sicura. Indiani bastardi». Agitò in aria il bastone. «Non si fanno mai sfuggire l’occasione. Ma sì, lasciamo che ci sfidino». «Cosa succederà se ci provano?» scherzò Raza. «Li farai scappare con quel bastone?» Sajjad si accigliò, trasformando la sua espressione in quella del fratello minore che per tutta la vita viene preso in giro dai membri più adulti della famiglia. «Abbiamo armi migliori che i bastoni, Raza bhai». «L’opzione nucleare?» disse Raza con fermezza. «Mia madre è preoccupatissima. Le ho detto che nessuno è così pazzo». Sajjad sembrava pensieroso. «Il nostro problema è che l’India è grande. Come possiamo distruggere i loro lanciamissili e le installazioni nucleari nel Sud e nell’Est? I nostri aerei verrebbero abbattuti prima ancora di arrivarci, e i missili che abbiamo a disposizione non vanno così lontano. D’altro canto l’India può portarci via i lanciamissili senza problemi, e a quel punto ci resterebbero le armi nucleari ma non avremmo modo di utilizzarle». Utilizzarle. Gli sembrava un termine così garbato. «Insomma come siamo messi?» «Non abbiamo scelta. Nel momento stesso in cui dovesse iniziare la guerra, prima che quei bastardi ci impediscano di farlo dovremo lanciare i missili. I più grossi che abbiamo. Diritti sul governo di Dilli. Sarebbe un tale casino che scapperebbero a gambe levate e non avrebbero più il coraggio di guardarci in faccia». «A Dilli?» «Sì, Dilli». Raza si sentì tremare la terra sotto i piedi e per un attimo credette che ne sarebbe spuntato fuori Sajjad Ali Ashraf, per trascinare con sé sottoterra il suo omonimo; in realtà si trattava solo di un furgone che arrancava rombando per il passo. L’assurdità della situazione gli apparve chiara all’improvviso, tanto che gli venne da ridere. «E tu riveli queste informazioni top secret a uno che lavora per l’esercito americano». 245
«Sei mio cugino» disse Sajjad con l’aria risentita. «Cosa c’è? Cos’hai da sorridere?» «La vostra strategia. La nostra. Noi siamo più matti di voi. Siamo capaci di premere il pulsante alla minima provocazione, quindi state bene attenti a non farlo. Speravi che riferissi tutto agli indiani tramite il Pentagono?» «Non so di cosa parli» rispose Sajjad. «E se la metti così non ti darò le informazioni che vuoi. Non è stato facile ottenerle, sai?» Raza allungò la mano e strinse il gomito del cugino. «Scusa. Dimmi, ti prego. Cos’hai scoperto?» Il nome e il numero di telefono di un tizio di Kabul: Sajjad non aveva altro da dargli. Nel 1983 era stato comandante del campo in cui Raza aveva trascorso quel pomeriggio terribile. «Sono riuscito a sapere in che campo era, solo perché l’ISI ha un dossier su Raza Ashraf di Karachi, mandato dagli americani» disse Sajjad, con un moto di invidia per l’avventura giovanile del cugino. «Il dossier dell’ISI dice anche se hanno parlato di me a qualcuno del campo? Se gli hanno detto come mi chiamo, cosa credevano che facessi lì?» Sajjad scosse il capo. «È improbabile. L’ISI non dà informazioni a nessuno, se non è indispensabile. E certamente non agli afghani. Ma non mi farei troppe illusioni su questo tizio di Kabul. Ammesso che si ricordi del tuo amico Abdullah, che probabilità ci sono che sia ancora vivo, Raza bhai?» E anche se lo fosse?, pensò Raza mentre tornava verso la base. E se fosse diventato uno di loro, uno di questi uomini in turbante nero che proibivano ogni forma di allegria e facevano saltare in aria le montagne per scolpirci i volti degli antichi profeti? Come dimenticare che Abdullah aveva definito le incisioni lungo la strada per Peshawar l’opera degli infedeli? E le donne: a quattordici anni Abdullah sapeva perfettamente qual era il loro posto nel mondo, e il figlio di Hiroko non poteva concepirlo. Al tempo, per dire il vero, la cosa non aveva importanza; ma adesso, dopo appena due settimane in questo paese, la vista di una donna avvolta in un sudario come un cadavere lo faceva impazzire di rabbia. A Miami come a Dubai erano le donne a impedire che la sua vita diven246
tasse quella di un parassita: il sesso era l’habitat in cui si sentiva più a casa, un equilibrio fra intimità e transitorietà adattissimo al suo temperamento. Si innamorava brevemente ma con intensità, di tutte le donne che lo invitavano nel loro letto, senza mai vedere che quello che amava davvero era la parte di sé che si manifestava in loro compagnia: una parte composta dalla leggerezza del padre e dall’audacia della madre. Al tramonto passò davanti a una moschea; la cupola azzurro cielo gli sembrò così bella che scese dalla macchina per prostrarsi a terra, mentre il richiamo del muezzin turbinava nella pianura. La voce fu coperta dal frastuono di un elicottero che si avvicinò a terra per dare un’occhiata all’Humvee parcheggiato. Raza balzò su, fece un cenno al pilota e tornò in macchina proprio mentre un gruppo di anziani uscivano dalla moschea per vedere cosa stava succedendo. «Scusate l’interruzione» disse in pashto sporgendosi dal finestrino, ma quelli si limitarono a guardare storto prima il veicolo americano, poi quell’uomo dai lineamenti tipici di qualche tribù nemica. Uno di loro imbracciò il kalashnikov che aveva a tracolla — Raza si ricordò di Abdullah che alzava i vestiti per svelare il fucile luccicante — e un altro gli ordinò di andarsene. È l’ultimo viaggio che faccio con questo bestione, pensò Raza mentre rientrava alla base. Liquidò con un gesto gli avvertimenti della guardia, un tizio dello Sri Lanka che aveva assistito alla furia di Harry quando aveva notato l’assenza dell’Humvee. «Chi era sull’elicottero?» domandò. «Americano» rispose l’uomo scrollando le spalle, come a dire che chiunque altro avrebbe viaggiato per terra.
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«Non so se te ne ho mai parlato, ma quando arrivai a New York ero così ansiosa di lasciarmi alle spalle l’esistenza della signora Burton con tutti i suoi vincoli e divieti che giurai di non farmi impressionare dallo stile di vita di mio cugino Willie, che per lettera continuava a mettermi in guardia sulla sua singolare cerchia di amicizie». Ilse si rintanò fra i cuscini del divano, stringendone uno sulla pancia. Quante volte, a Delhi, avevano tirato tardi la sera chiacchierando in quel modo: Ilse seduta proprio così sul divano, Hiroko in poltrona accanto a lei, con una tazza di tè al gelsomino. Allora come oggi, Hiroko aveva fìnto che i racconti di Ilse le fossero nuovi, perché la divertiva la vivacità con cui l’amica riportava i suoi aneddoti preferiti. «Insomma, la seconda notte che ero a New York entro in cucina per bere un bicchier d’acqua e lo trovo lì con questo tizio bellissimo, nudo, a fare una cosa che non avevo mai visto neppure in fotografia. E mi ero così fissata che dovevo adattarmi che dico: ‘Fate come se non ci fossi’, gli passo di fianco e apro il frigo. Il povero Willie è quasi svenuto per l’imbarazzo, mentre il mattino dopo il ragazzo ha ripreso la corriera per l’Iowa e non si è più fatto vedere!» «Ecco perché non ho più ricevuto lettere a Karachi, tanti anni fa!» rispose Hiroko ridendo. «Se mi scrivevi cose simili i censori devono averle incorniciate e appese in ufficio!» «Oh, avevo un gran bisogno di sentirmi liberata!» rispose Ilse dando un calcio in aria. «New York dopo la guerra era meravigliosamente folle. Mi sarebbe tanto piaciuto che ci fossi anche tu». «Ma io ero dove volevo essere» disse Hiroko tranquilla. Ilse allungò un braccio e le strinse il polso. «Lo so. Lo desideravo per il mio bene, non per il tuo. Oddio, magari un po’ anche per il tuo: do troppa importanza alle comodità, l’ho sempre fatto. Non ho la tua stoicità giapponese». «Quante assurdità» fu la risposta affettuosa e al contempo severa di Hiroko. 248
Il rumore della porta che si spalancava e la voce agitata di Kim che chiamava Ilse interruppe la quiete. «Con papà hai parlato? Non riesco a prendere la linea». «Kim, cosa succede?» Ilse tentò di alzarsi, ma era troppo sprofondata nel divano e riuscì solo ad alzare la testa, poi si lasciò andare di nuovo con uno sbuffo di impazienza. «Non hai sentito le notizie? Un uomo ha tentato di far saltare un aereo con una bomba nascosta in una scarpa. Un volo per Miami. E io non riesco a trovare papà». Mentre parlava aiutò Ilse a tirarsi su, e pensò che la nonna fosse improvvisamente rimbambita quando, per tutta risposta, ricevette un buffetto sulla guancia, come una bambina che ha perduto il giocattolo preferito. «Ogni giorno ci sono centinaia di voli per Miami, e ci sono pochissime probabilità che tuo padre ne prenda uno» disse. «E i passeggeri stanno tutti bene» aggiunse Hiroko. «Tranne quell’idiota. Voleva darsi fuoco alla scarpa senza nemmeno toglierla? Dal telegiornale non si è capito». Kim guardò prima Ilse poi Hiroko, incredula della loro indifferenza. «È un aereo» disse. «Un altro attacco suicida a un aereo». «Vieni qui». Ilse la trascinò a sedere sul divano e la cinse con un braccio. «Smettila di fare così. Di provare a immaginare cosa succederebbe a un aereo se ci scoppiasse un bomba mentre è in volo». Kim chiuse gli occhi. «Non sto provando a immaginarlo, nonna. Non posso fare a meno di immaginarlo». Aveva studiato ingegneria civile perché le era sempre interessato capire come facessero le cose a non crollare, a non cadere a pezzi. Solo in questi mesi si era resa conto di quanto aveva dovuto imparare anche del modo in cui crollano e cadono a pezzi. «Cerchiamo tuo padre» disse Ilse mentre componeva il numero di telefono satellitare di Harry, che rispose quasi subito. «Ti sei trovato nelle vicinanze di qualche mocassino infiammabile, oggi?» domandò Ilse. «Che cosa?» berciò Harry per coprire un rumore che poteva essere quello di un elicottero. «Ti riferisci a quel tipo sull’aereo? No, certo che no. E per questo che mi cercava Kim? Ho appena trovato tre sue chia249
mate». Ilse passò il telefono a Kim, che gridò: «Se trovi tre chiamate perse magari potresti richiamare!» «Stavo per farlo!» Avanti così, pensò Ilse mentre scambiava un’occhiata di esasperazione con Hiroko, che si limitò a dire: «Saluti a lui e a Raza» prima di sgusciare in cucina. «Odio questa situazione» borbottò Kim dopo avere riagganciato. Chinò la testa sulla spalla di Ilse senza appoggiarsi davvero, conscia di quanto fossero fragili le sue ossa. «Odio questa sensazione familiare di non riuscire a parlargli. Le ore che ho passato a cercare di prendere la linea con te l’11 settembre...» «Minuti, non ore» disse Ilse. «Guarda, rispetto alla mia hai una pelle così giovane che sembriamo creature di due specie diverse». Posò la mano su quella di Kim e le diede qualche colpetto delicato. «Vorrei solo che il mondo fosse ancora quello di una volta», Ilse non disse nulla, ma continuò a darle colpetti sulla mano. Soltanto con la nonna riusciva a sentirsi in questo modo, sprofondare nella pace. Suo padre avrebbe risposto, in puro stile CIA, con un’analisi dei nuovi trend geopolitici. E sua madre, peggio ancora, con la sua psicologia da quattro soldi: «Ma Kim, tesoro, come vedi tutto questo sta portando alla luce dei sentimenti repressi di perdita e vulnerabilità legati a tuo padre e al nostro divorzio. Capisco, hai scelto questo mestiere perché in qualche modo cerchi di espiare quella che consideri la tua incapacità di salvare il nostro matrimonio. E ogni volta che qualcosa minaccia di crollare o sbriciolarsi risveglia in te quella sensazione di fallimento che hai provato quando il nostro matrimonio si è disintegrato». Le ultime tre parole venivano regolarmente enfatizzate, come a dimostrare che in realtà la passione di Kim per l’ingegneria era tutta imperniata su di lei. «In vita mia ho visto Hitler, Stalin, la guerra fredda, l’impero britannico, la segregazione, l’apartheid e chissà cos’altro. Il mondo sopravvivrà anche a questa, e con un po’ di fortuna sopravvivranno anche le persone che ti sono care. Ma prima che succeda, è molto probabile che tu abbia bisogno di una vacanza». Nel pronunciare l’ultima frase, Ilse diede un colpetto deciso alla mano di Kim. Aveva detto di essere venuta a New York per sistemare gli ultimi dettagli contrattuali del suo trasferi250
mento e sarebbe stata in ferie fino a dopo Natale; invece chissà come si era ritrovata coinvolta in un progetto della sede di New York. Kim si schiarì la voce. «Non so come ho fatto a non preoccuparmi per papà tutti gli anni che è stato nella CIA. Invece adesso...» Si interruppe quando Ilse la pizzicò e accennò col capo alla cucina, da dove potevano facilmente essere sentite. Avevano tacitamente convenuto di lasciare che Hiroko credesse agli eufemismi di Raza ed Harry sul lavoro amministrativo nel settore della sicurezza. Abbassò la voce e disse: «Ci sono molte cose spaventose a questo mondo, ma niente mi spaventa più dell’idea di dove possa essere e cosa stia facendo. Ho sempre paura, sempre. È una cosa che detesto. Dev’essere una noia mostruosa starmi vicino». «Negli ultimi tempi i tuoi argomenti di conversazione sono un po’ limitati» rispose Ilse. «Vorrei aver vissuto a Londra durante la guerra per poterti parlare della forza d’animo della città durante i bombardamenti». «Oh, non ti crucciare. Tanto non avrebbe funzionato». Diede un sonoro bacio sulla guancia alla nonna. «Parlavo sul serio quando dicevo della vacanza» disse Ilse nel tono solenne che usava solo quando era davvero preoccupata per Kim. «Lo so. Ma in questo momento ho bisogno di un posto dove andare cinque giorni alla settimana per avere l’impressione che sia tutto sotto controllo». Ilse, che conosceva Kim molto meglio dei suoi genitori, aveva capito da tempo che a spingerla verso la professione che aveva scelto era stato un bisogno di controllo, più che di espiazione per l’incapacità di salvare, a quattro anni d’età, il matrimonio dei suoi. Ricordava ancora la sua espressione di trionfo, quasi di sfida il giorno che tornando dall’università per le vacanze invernali aveva detto: «Ho imparato a costruire un edificio antisismico». Antisismico! Come se ci si potesse difendere quando la terra si squarcia sotto i tuoi piedi. Povero Gary, si ritrovò a pensare Ilse con sorprendente simpatia per l’uomo che non aveva mai considerato all’altezza della nipote. Tanto per cominciare, Kim lo aveva scelto soltanto perché non l’avrebbe mai fatta sentire fuori controllo. Ne aveva sofferto a sufficienza col padre; per tollerare la sua assenza — e la sua presenza — aveva sempre fatto 251
appello alla freddezza; alla fine si era ridotto a questo ogni sentimento che provava per lui, e la cosa la faceva infuriare. Di conseguenza, con altri uomini simili a Gary le cose si erano invariabilmente deteriorate: Kim era troppo passionale per accontentarsi di qualcuno che la faceva sentire appena tiepida. Un giorno o l’altro troverà chi le farà girare la testa, pensava Ilse. Magari è quello che ci vuole. «Di cosa parlavate con Hiroko prima che vi piombassi in casa come una furia?» Kim si era tolta gli stivali per accoccolarsi sul divano, più rilassata, ora che sapeva che Harry stava bene. «La faccenda di Willie in cucina» rispose Ilse ridendo. «Se esiste il paradiso, lo zio ti sta guardando torvo da lassù» disse Kim scuotendo la testa, malgrado fosse chiaro che apprezzava questo lato indecente della nonna, e lo incoraggiasse spesso con un sorriso o un luccichio degli occhi. «Assurdo. Se esiste il paradiso, Willie sta facendo esattamente quello che stava facendo in cucina. Altrimenti non sarebbe il paradiso. Per lui, quantomeno». Ridacchiò. «Immaginati se quei kamikaze finissero nello stesso posto. Che faccia farebbero». «Nonna, non è divertente». «È esilarante! Hiroko, non lo trovi esilarante?» Hiroko, che stava rientrando nella stanza, porse a Kim una tazza fumante. «I primi tempi che la conoscevo era davvero una persona per bene. Te lo assicuro». La risata di Ilse fu chiara e spensierata: la risata di una donna che capisce quanta fortuna ha avuto a vivere una seconda volta. Fu a quella risata che Hiroko ripensò pochi giorni dopo, mentre Kim era tornata a Seattle per prendere le sue cose e Ilse non rispose quando Hiroko bussò forte alla porta della camera, chiedendole fino a quando avesse intenzione di dormire. Pensò alla risata ancor prima di aprire la porta e di veder confermato ciò che già sapeva. Scostò i capelli dal volto tranquillo della sua vecchia amica e pensò: può finire anche così. Anche senza squame, ombre e ferite di proiettile; è possibile anche andarsene in pace. Prese il telefono sul comodino e chiamò il satellitare di Raza. Le ri252
spose distrattamente, sulle prime, ma si concentrò all’istante sentendo il tono di voce di Hiroko, che diceva: «Raza-chan, oggi devi stare vicino a Harry. Ilse è morta nel sonno». Quando riuscì a convincere Raza che non sarebbe crollata e che non aveva bisogno di qualcuno che le tenesse la mano, Hiroko riattaccò e rimase qualche minuto ancora insieme a Ilse, e pianse per il dolore, ma senza disperazione. Poi prese fiato, chiese a quel che rimaneva dello spirito di Ilse nella stanza di darle forza per quel compito insostenibile e telefonò a Kim per dirle che la sua nonna era morta.
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Era una mattina di sole e Harry Burton camminava per le vie di New York, ma un miscuglio di dolore e di jetlag conferivano a tutto un’aria un po’ stonata. Si era aspettato di tornare e di ritrovare la città come l’aveva vista alla fine di settembre, con un grande feretro in centro e il disagio dei sopravvissuti nelle zone residenziali; invece l’aveva trovata in preda al conflitto tra l’incedere inarrestabile che le era naturale e le esigenze del dramma, che le imponevano di fermarsi e di abbracciare il lutto come un amante in fin di vita. Anche con il suo lutto personale avrebbe voluto chiudere i conti. Era intollerabile, si infiltrava in ogni cosa. Per le strade di SoHo il fantasma di Ilse era ovunque. Chissà se anche Kim si sentiva così? Guardò con la coda dell’occhio sua figlia, che reggeva il suo passo senza difficoltà: ogni particolare del suo aspetto pareva una sfida: i pantaloni militari, gli anfibi con le punte d’acciaio e il bomber mezzo aperto sulla t-shirt nera, i capelli rossi tosati di fresco, le punte ancora tinte di nero. «A che cosa pensi, pantera?» chiese, infastidito dalla banalità della sua stessa domanda. «Mi trasferivo a New York anche per la nonna». Gli lanciò un’occhiata dal basso. «Non lo sapevi nemmeno, eh?» «No, però mi sembra un’ottima idea. Insomma, ti ho sempre immaginata qui. So che sei stata per un po’ a Seattle, ma... le colline, il grunge, tutto quel bere caffè e filosofeggiare... no, non è roba per te. Mi è sempre sembrata un’avventura senza futuro, sai?» «Mi piacciono le avventure senza futuro, papà. Solo un po’ meno che a te». Sorrise e lo prese a braccetto. Sorpreso, ma tutt’altro che scontento, le strizzò il braccio e cercò di pensare a cosa doveva dire un padre in un momento simile, vedendo gli occhi della figlia ancora rossi di pianto dal giorno prima, quando era arrivato appena in tempo per il funerale. «Tesoro, è morta come avrebbe desiderato: nel sonno, tranquilla, e stando a Hiroko dopo una cena chiassosa con la sua migliore amica. 254
Magari fossimo tutti così fortunati». «Non per questo mi mancherà meno» replicò Kim appoggiando il capo alla spalla del padre. Camminarono così per un po’, malgrado la scomodità della posizione. La folla di SoHo si era trasformata nell’inattività post-natalizia, e Harry se ne compiacque. Nelle ultime settimane aveva trascorso troppo tempo in stretti valichi di montagna, e il suo fisico era ancora all’erta. Le scale antincendio che zigzagavano su per gli edifici di ghisa e mattoni parevano spine dorsali deformi, volutamente contorte, e da entrambi i lati della strada incombevano i palazzi con le finestre che luccicavano al sole come la canna di un fucile. «E qual è l’altro motivo? Per cui ti trasferisci a New York?» «Questo». Kim agitò le mani verso le bandiere che sventolavano da ogni edificio, poi verso lo spazio vuoto nello skyline. «Sai, papà, noi ingegneri edili lo abbiamo capito subito. Nel momento stesso in cui abbiamo acceso la televisione e abbiamo visto le fiamme sapevamo già che sarebbe crollato il palazzo. Tutti gli altri hanno avuto qualche minuto di grazia, mentre a noi è toccato il ruolo delle Cassandre, davanti a quelle immagini a dire: viene giù tutto. E poi il secondo. Da quel momento è diventato questo l’unico posto dove volevo stare». Si guardò intorno furibonda. «Continueremo a costruire». Cassandre!, pensò Harry. Per aver previsto il disastro un’ora prima che avvenisse? Solo un’ora prima. «Fermare i cantieri è come darla vinta ai terroristi» disse Harry, e sentì la mano di lei sgusciare via dalla sua. «Immagino che per te sia tutto molto banale. Distruzione e morte. Due cose che fanno bene agli affari e non sorprendono nessuno». Si inginocchiò vicino a un lampione e affondò le mani nel pelo di un collie che vi era legato, furiosa per essersi aspettata la comprensione del padre. Il freddo del marciapiede le entrò nei pantaloni. Harry tese la mano e il collie, che aveva accettato le attenzioni di Kim con l’aria di un aristocratico che riceve quanto gli è dovuto, gli sfregò il muso sul palmo. Traditore, pensò lei. «Non mi sorprende, è vero» disse Harry. In effetti l’11 settembre non 255
l’aveva affatto stupito — già nel ‘95 aveva ipotizzato un legame fra la jihad e le bombe di Oklahoma City — mentre lo avevano turbato la sua stessa reazione, la profondità della rabbia, il desiderio che il mondo intero si fermasse e piangesse con lui per la città che lo aveva adottato da undicenne. In quel momento era nella Repubblica Democratica del Congo, per supervisionare l’avvio delle attività di sicurezza della Arkwright & Glenn per una compagnia diamantifera belga, ed era ben conscio di quanto dovesse apparire eccessivo il suo atteggiamento in un paese che aveva perso oltre due milioni e mezzo di uomini in un conflitto che, invece di una fine, sembrava avere solo delle interruzioni. Il 12 settembre si mise seduto con la calcolatrice e constatò che, al ritmo di duemila morti al giorno, non sarebbero bastati tre anni, eppure non trovò un legame fra quelle cifre e le sue emozioni. «E agli affari fa bene, questo è certo». «Almeno sei sincero» rispose lei alzandosi e pulendosi i pantaloni con le mani a furia di schiaffi molto più forti del necessario. «Questa è soltanto una parte della storia, pantera, ciascuno di noi due conosce solo una parte della storia dell’altro». «Ciascuno di noi due?» Lo guardò fissa e scosse il capo. «Sei tu quello che parte in continuazione». «Adesso sono qui». «E per quanto?» Lui distolse lo sguardo. «Appunto». Malgrado il rammarico era soddisfatta di avere ragione. «Kim, fra non molto... passeremo un sacco di tempo insieme. Tanto che ti verrò a noia. Prendila come una minaccia o come una promessa». «Certo, come no» fece lei scettica. «Quando finirà la guerra al terrorismo... o forse poi vi dedicherete all’orrore e alla miseria?» Lui non poté fare a meno di ridere. «Tuo padre è vecchio. In giugno compio sessantacinque anni: è ora di andare in pensione, tesoro». Kim sbuffò. «Tu in pensione non ci andrai mai». «Be’, sì» ammise. «Però mi prenderò una vacanza. Che ne dici di 256
andare insieme a Delhi? Ti mostrerò i luoghi della mia infanzia». Era una vecchia promessa, ma anche stavolta lei si lasciò trascinare. Ecco cos’era a rendere irresistibile il sorriso di Harry Burton: quando parlava, diceva sul serio. In quel momento. Quando si incamminarono sentirono un verso strozzato alle loro spalle. Voltandosi, Kim vide che il collie tirava il guinzaglio, con gli occhi fissi su Harry. Sei patetico, pensò Kim mentre si lasciava comunque prendere di nuovo a braccetto dal padre. «Dice mamma di farti le condoglianze. Si era offerta di venire, ma non credo di potervi gestire tutti e due allo stesso tempo». Con la sua risata Harry riconobbe che quel commento borbottato aveva un fondo di verità. «Come sta? Continua a nascondere il cuore infranto dietro una patina di felicità assoluta con quel tale?» «Sì, papà, il matrimonio va a gonfie vele. Ma lei si preoccupa un sacco per me. Sono single da tre mesi e lei già crede che sia una condanna. L’ultima volta mi ha detto che quando incontro qualcuno per la prima volta non dovrei dire cosa faccio di lavoro. A sentir lei l’ingegneria è troppo da maschi, spaventa i ragazzi. Magari sta cercando di dirmi che passo per lesbica». «Tu passi solo per te stessa» disse Harry. «E se i ragazzi non si sentono alla tua altezza, forse hanno ragione!» Kim capì che non stava cercando di lusingarla. Qualunque cosa si potesse dire di Harry come padre, non c’era dubbio sul fatto che considerasse sua figlia la cosa migliore che avesse prodotto in vita sua. Lo prese per mano, come quando era ancora abbastanza piccola da potergli chiedere aiuto nell’attraversare la strada. Poco più in là, una donna elegante, con un cappotto cammello e un basco sulle ventitré, fissava intenta la vetrina di un negozio. «Che diavolo sta guardando?» mormorò Harry scandalizzato, mentre con una risata Kim scioglieva il braccio e correva verso Hiroko. La vetrina era dominata da un manichino maschile vestito in pelle aderentissima, con un rigonfiamento improbabile fra le gambe. Kim abbracciò Hiroko e restarono lì — fra il riso e le lacrime — a ricordare Ilse che il giorno del suo novantesimo compleanno si era fermata da257
vanti alla stessa vetrina e aveva detto: «Chissà come sarà questo decennio? Dopo gli ottanta non è andata come pensavo... sai, il Viagra. Tutti quei vecchi amanti rispuntati fuori dalla naftalina». Harry si schiarì la voce dietro alle due donne, e Kim fece l’occhiolino a Hiroko. «Non è il caso di raccontarglielo» disse. Hiroko si alzò in punta di piedi, per quanto le consentissero di fare le sue scarpe comode da vecchia signora, e baciò Harry sulla guancia; vedendolo arrossire capì quanto dovevano essere insoliti per lui simili gesti d’affetto. «Vieni in Cina con me» disse prendendogli il braccio. Kim guardò suo padre che modulava con cura il passo per adattarlo a quello di Hiroko, senza far capire che stava rallentando per lei, e di colpo fu certa che sarebbero andati a Delhi. Harry, Hiroko, lei... e Raza. Kim non aveva mai conosciuto Raza Konrad Ashraf: le visite fulminee che lui faceva alla madre non avevano mai coinciso con i suoi più frequenti soggiorni newyorkesi; però era incorniciato sul camino di Mercer Street, oltre a comparire in una frase su tre pronunciata da Hiroko o da Harry; dunque non c’era da stupirsi se ogni tanto si faceva strada nei sogni di Kim. Compariva nelle situazioni più assurde, e la sua presenza non era mai una sorpresa. Forse si sarebbero detestati, pensava Kim. Ovviamente Raza era una specie di Harry, e le loro personalità sarebbero entrate in rotta di collisione. Sorrise all’idea mentre si attardava dietro a Hiroko e a suo padre in direzione di Chinatown, con la mente già a Delhi. Harry era contento che fosse rimasta indietro, per non dover subire la sua irritazione mentre lui rispondeva con fermezza alla domanda di Hiroko: «Ma certo, Raza non è né in India né in Pakistan. Ti ho promesso di tenerlo fuori pericolo, no?» Fra le tante promesse fatte, quella era una delle poche che Harry aveva cercato in tutti i modi di mantenere. Nei limiti del possibile si era assicurato che Raza rimanesse nello sterile mondo della sede di Miami della Arkwright & Glenn, dove faceva da interprete nelle riunioni con i clienti e traduceva contratti, e-mail e intercettazioni telefoniche. Ma con l’Afghanistan era stato diverso: per la prima volta la A&G aveva ottenuto un appalto dall’esercito americano, un’opportunità di breve e di lungo periodo che aveva fatto girare la testa 258
agli azionisti. E Raza Konrad Ashraf, il genio delle traduzioni che da giovane si era fatto passare per afghano, era un elemento troppo prezioso per essere lasciato a casa. Hiroko non sapeva bene come formulare la domanda successiva. Toccava un argomento di cui non avevano più parlato dal giorno del funerale di Sajjad. Per prendersi un momento di riflessione si fermò davanti a un manifesto sbiadito, appiccicato al muro imbrattato di una vecchia fabbrica ristrutturata. Era la foto di un giovane, con la scritta: SCOMPARSO L’11 SETTEMBRE, SE SAPETE QUALCOSA DI LUIS RIVERA TELEFONATE AL NUMERO... Hiroko pensò alla stazione ferroviaria di Nagasaki, al giorno in cui Yoshi l’aveva accompagnata a Tokyo. Ai muri pieni di annunci per la ricerca di persone scomparse. Si avvicinò a guardare il sorriso di Luis Rivera, il suo disinvolto ottimismo. In momenti come questo le sembrava sbagliato avere l’impressione che la sua storia fosse diversa. «Devi avere ancora degli amici nella CIA». La domanda le ruzzolò fuori dalla bocca. «Hiroko, tutti si danno da fare perché entrambe le parti facciano dietrofront» disse dopo aver capito al volo lo scopo della domanda. Lei si fidò di questa risposta più di qualsiasi rassicurazione sull’inverosimiglianza di una guerra nucleare. Gli diede una pacca sul braccio e voltò le spalle a Luis Rivera, lasciando Kim, che nel frattempo li aveva raggiunti, a guardarlo fisso. Mentre attraversava le caotiche vie di Chinatown, litigiose e arroganti al punto da fare apparire acqua e sapone la strafottenza di Manhattan, Hiroko ripensò all’emozione che aveva provato la prima volta che ci era venuta e aveva trovato tante verdure che non vedeva dai tempi di Nagasaki. Ricordava ancora le parole che sua madre usava per comprarle nel quartiere cinese, e ricordava anche i nomi inventati da Konrad Weiss per quelle che non conosceva: i pak choi erano «cavoli scompigliati», una radice di loto tagliata a metà «fossile di fiore». E i rizomi dello zenzero, che Sajjad consumava copiosamente intingendoli nell’achar come spuntino, erano «nodi di terra». Harry si fermò vicino a un uomo acquattato che spostava tre pesci morti sul marciapiede, mentre altri tre gesticolavano e gridavano. Un gioco di prestigio, o una scommessa: Harry era deciso a scoprirlo. Per 259
Hiroko, fu la possibilità di dare uno sguardo alle cassette di un fruttivendolo stipato di merce. Indicò le sfere gialloverdi in una cassetta e automaticamente disse: «Hong xao», una parola che non pronunciava da Nagasaki. In urdu si chiamavano bair. Non aveva idea di quale nome avessero in inglese. Nagasaki. Hiroko si toccò la schiena. «È bair?» domandò Harry. Hiroko sorrise, riconoscendo in lui il nipote di Konrad. Dopo la morte di Sajjad era sparito per anni. Poi, nei primi anni Novanta si era presentato ad Abbottabad, annunciando di avere cambiato mestiere (senza però dire cosa facesse prima): adesso lavorava nel settore della sicurezza — in sostanza era una superguardia del corpo — ma l’azienda aveva bisogno di traduttori, e chissà se a Raza sarebbe piaciuto lavorare con lui. A Hiroko non venne nemmeno in mente che avrebbe dovuto scusarsi per aver mentito a lei e al marito: Harry era un Weiss, e stava offrendo a Raza la possibilità di uscire da quella trappola senz’anima di Dubai. E naturalmente Raza sarebbe stato al sicuro dai proiettili, le aveva assicurato Harry. Qualche minuto più tardi Kim, Hiroko e Harry erano seduti su una panchina di Columbus Park, e Kim rigirava fra le mani con fare incerto il frutto maleodorante che gli altri due stavano mangiando con il gusto della nostalgia. «Se ti trasferisci a New York dovresti venire a stare in questa zona» disse Harry. «Qui? Perché?» Kim si guardò attorno e cercò di cogliere l’aspetto del quartiere che suo padre trovava adatto a lei: erano i due gemelli raggrinziti coi berretti da baseball, che giocavano a dama cinese sulla panchina di fronte a loro? Le donne che si stringevano addosso i cappotti mentre si chinavano sulle pedine del mahjong? Il cieco che accarezzava lentamente l’aria tra lui e la donna che lo guardava dritto e cantava in toni acuti e lamentosi, accompagnata da un gruppo piagnucoloso di strumenti a corda? «Così» rispose Harry. Non voleva dire che Chinatown era un obiettivo improbabile per un eventuale altro attacco terroristico, perché sua figlia avrebbe risposto che il lavoro lo aveva reso paranoico. Invece lei si voltò a guardarlo, e la sua espressione da confusa si fece comprensi260
va. Ci furono un sorrisetto — di gratitudine per la sua preoccupazione paterna — e poi un cenno del capo. Fu quel cenno del capo a innervosirlo. Kim non ne sapeva abbastanza della paura, per capire a cosa stesse pensando. Ripensò a come si era irrigidita, poco prima, alla vista di un uomo scuro di capelli che si toccava i piedi. Lui aveva riso, dicendo: «Sta solo allacciandosi le scarpe, Kim, non sta facendo esplodere una bomba», ma adesso non lo trovava più divertente. Nelle valli dell’Afghanistan la paura era una necessità: era stato addestrato a servirsene. Ma Kim cosa ne sapeva di come ci si muove per il mondo con la paura alle costole? Armi finite in mano a gente inesperta, pensò, e capì in quell’istante che cos’era di questa nuova New York a farlo sentire a disagio. «Ho detto a Hiroko che staremo tutte e due nell’appartamento della nonna finché non avrò scelto dove abitare» disse Kim. Diede un morso al frutto gialloverde e finse di apprezzarne il sapore amarognolo. «Dobbiamo prenderci cura una dell’altra, su questo siamo d’accordo» spiegò Hiroko. Poi guardò il frutto di Kim e aggiunse: «Ma è acerbo! Dev’essere una schifezza, perché lo mangi?» Kim sputò nel fazzoletto di carta che Hiroko le aveva dato. «Non volevo mancarvi di riguardo». «Santo Dio» sospirò Hiroko. «Sarà un incubo abitare insieme, se non la pianti con quest’ipersensibilità culturale». «Questa roba puzza da morire, come fa a piacervi?» disse Kim. «Così ci siamo» rispose Hiroko sorridendo. «Ti ringrazio. E poi devi diversificare il guardaroba. Quante t-shirt nere possiedi?» Harry le guardò soddisfatto. Comunque andassero le cose nel mondo, se non altro i Weiss-Burton e i Tanaka-Ashraf avevano finalmente trovato uno spazio per convivere, e la complessa storia comune non avrebbe aggiunto altro che ricchezza alla loro riserva di amicizia.
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Nella luce verde Harry Burton pestò una zolla scura e la guardò sfaldarsi, rivelando qualcosa di fosforescente all’interno. Si levò gli occhiali da visione notturna e indicò il tizzone acceso mentre i suoi occhi si abituavano al buio della grotta. «Qui è venuto qualcuno, non molto tempo fa». Fece scorrere le dita sulle pareti della grotta finché sotto la fuliggine trovò un solco, e seguendolo con le dita riconobbe la sagoma di un falco. «Arabi?» chiese Steve, un ex collega che da tempo era passato al braccio paramilitare della CIA. Quello che intendeva era «al Qaeda». Harry scrollò le spalle. «La ritrattistica non c’entra molto con la loro visione dell’islam». «Giusto, invece le stragi vanno bene». Steve indicò stancamente il contractor che era appena entrato dalla grotta adiacente. «Di’ ai ragazzi che torniamo indietro. Qui non c’è niente. Nemmeno qui». «Sembra quasi che ci sentano arrivare» disse quello prima di tornare nell’altra grotta. Harry aveva dubitato fin dall’inizio che avrebbero trovato qualcuno per cui valesse la pena venire fin qui. Se fosse stato un afghano, lui stesso avrebbe acceso e spento fuochi in ogni grotta di montagna e poi sarebbe corso a reclamare il compenso per gli informatori dagli americani, che si comportavano come se i soldi crescessero sugli alberi di una foresta pluviale di loro proprietà. Si sputò sulla manica e pulì attorno al falco. Era un’immagine raffinata, con un artiglio levato in un comando imperioso. Si chiese da quanto tempo fosse lì posato sulla muffa della grotta, ad ascoltare le battaglie che rombavano e si perdevano all’esterno. Forse a piazzarlo qui era stato un mujaheddin negli anni Ottanta. Lo aveva sempre messo a disagio l’introduzione dei «combattenti stranieri» nella guerra degli afghani contro i sovietici. Il motivo — sarebbe stato il primo ad ammetterlo — non era un sentore di come si sarebbero messe le cose nei successivi vent’anni; piuttosto, l’idealismo 262
ancora vivo in lui vedeva un che di nobile nella lotta di un popolo per riconquistare le terre invase da una superpotenza, ma niente di simile in quegli uomini venuti a combattere gli infedeli che occupavano una terra musulmana. Gli sembrava roba da medioevo. Uscito dalla grotta su una cengia, tirò fuori il binocolo dallo zaino e guardò al di là del fiume inaridito e delle gole deserte. Nelle pianure del Gomal il cielo e la terra sembravano appartenere a due epoche diverse: il primo, squarciato dalle lame di un elicottero Huey, l’altra soffocata dai resti di un fortino crollato e di alcune case di fango. Dopo vent’anni di guerra non rimaneva quasi niente di vivo, a parte gli arbusti di ginepro e qualche gruppuscolo di contadini. «Creiamo la desolazione e la chiamiamo pace» disse, non per la prima volta, mentre appoggiava a terra il fucile M4 e stancamente si sedeva lì vicino, appoggiando la schiena alla parete tagliente della montagna. Gli altri uomini della sua squadra, tutti più giovani e in forma di lui, stavano già precipitandosi a valle. Cantavano una canzone che si erano inventati, in cui «Arkwright & Glenn» faceva rima con «dark fighting men», mentre gli afghani al loro seguito se ne stavano zitti. «Vuoi farti ammazzare?» disse Steve mentre tirava su il fucile e lo porgeva a Harry. «Dài, muoviti». «Se mi sparano almeno capiremo dove si nascondono. Io non sono poi tanto prezioso». «Da quando sei diventato così lamentoso?» rispose Steve buttando il fucile sulle ginocchia di Harry e accendendosi una sigaretta. «Molti mi chiedono cosa ti è successo». «È successo che sono circondato da stupidi e la cosa mi innervosisce». «Parla il Grande Veggente Lala Buksh» ribatté Steve con un inchino. Harry non fece lo sforzo di rispondere. Da tempo sospettava che fosse stato Steve, nei primi anni Novanta, a svelare alla CIA l’identità dell’insider che aveva pubblicato su un giornale importante un violento attacco alla CIA, quando aveva voltato le spalle all’Afghanistan dopo la ritirata dei sovietici. Steve era uno dei pochi a sapere che «Lala Buksh» — lo pseudonimo dell’autore — era il soprannome in pashto di Harry. Quest’ultimo non l’aveva presa male: intendeva comunque lasciare la CIA e farlo qualche mese prima non cambiava di molto le cose. 263
«Immagino che adesso sarai soddisfatto. Avevi ragione tu, e tutti gli altri avevano torto. Un ritorno di fiamma della jihad, avevi detto, no?» Steve emise un sibilo dai denti, che Harry riconobbe come la sua espressione di disgusto dopo ogni incontro con gli uomini dell’ISI. «Non l’ho chiamato ritorno di fiamma, e non ho mai creduto che saremmo venuti di nuovo da queste parti. Quello che avevo previsto era una rivolta in Arabia Saudita. A ritrovarsi qui non c’è nessuna soddisfazione... è un fallimento e basta». «Abbiamo strappato la cortina di ferro. Se è un fallimento, mi va benissimo». Steve tolse di mano il binocolo a Harry per evitare che il riflesso delle lenti rendesse ovvia la loro posizione. Harry si trattenne dal far notare che i capelli biondi e palesemente tinti dell’altro avrebbero rappresentato un bersaglio altrettanto facile. «Comunque ti devo delle scuse» disse Steve. Si conoscevano da una ventina d’anni, e questa era la prima volta che riusciva a sorprendere Harry. «Non per averti smascherato, per quello non ho rimpianti. Ma ricordo di aver detto che le milizie private non avevano futuro, e mi sbagliavo. Il futuro della guerra sono le milizie: durante gli scontri e durante la ricostruzione. E tu, Harry Burton, sei un pioniere». «Grazie per il complimento; adesso dov’è il colpo basso?» Conosceva Steve fin troppo bene e doveva ammettere che, pur non trovandolo simpatico, essere così consapevoli l’uno del carattere dell’altro conferiva una familiarità quasi intima a ogni conversazione. «Sei un idiota ad assumere tutti questi TCN. Capisco che abbia senso economicamente, ma piantala di reclutarli in Pakistan e in Bangladesh. Ti comporti come se questa fosse una guerra territoriale e loro fossero neutrali. Semmai prendili nello Sri Lanka o in Nepal, o nelle Filippine. Perfino in India, a patto che non siano musulmani». «Sono anni che lavoro con questa gente» ribatté Harry. Nel frattempo si alzò in piedi e tolse di mano il binocolo a Steve. Evitò, più che altro per stanchezza, di ricordargli come quindici anni prima fosse lui a scherzare sulla differenza tra Vietnam e Afghanistan: «Là avevamo solo i GI, qui abbiamo la jihad». «Harry, Harry, Harry... Svegliati, senti il puzzo dei palazzi che bruciano. Pensi che non ti conosca abbastanza dopo tutto questo tempo a Islamabad? In te c’è troppa nostalgia. Tu guardi questi uomini e vedi la 264
tua gioventù. Il cuoco, il giardiniere, l’autista. Il maestro di urdu». «Se il discorso riguarda Raza, pensaci bene prima di continuare» rispose con un’occhiata casuale in direzione del dirupo sottostante. «Non c’è nessuno bisogno di minacciarmi» rispose Steve facendo un passo indietro. «Davvero non ti dà fastidio che abbia trovato la fede proprio adesso, proprio qui?» Poi, visto lo sguardo perplesso di Harry, aggiunse: «La prima volta che sono venuto l’ho visto prostrato davanti a una moschea. Pensava che non lo vedesse nessuno». «Magari stava fiutando a terra per seguire il profumo di una donna. Di sicuro se usa gli occhi non le trova, da queste parti». «Sai quanto è bravo a fingere. Andiamo, Harry. Un diciassettenne di Karachi che convince gli afghani di essere uno di loro, al punto che lo portano in un campo di mujaheddin. Anzi, peggio! Portano un hazara in un campo di pathan: incredibile! E ancora adesso nessuno lo sa a parte noi, giusto? Circondato da pakistani e nessuno sa che è uno di loro». Steve aveva ragione: ogni sera Raza Konrad cenava con i TCN, faceva da interprete dall’urdu al bengali e al tamil, senza mai rivelare che una di quelle lingue portava in sé il ricordo di suo padre e di tutti i suoi amici d’infanzia. Fra di loro, gli uomini avevano deciso che il suo nome era uno pseudonimo: Raza Konrad non aveva senso. Nel valico sottostante cresceva un unico albero, scolpito dal vento che infuriava tra le montagne: il tronco piegato, coi rami frondosi affusolati a forma di fiamma, era curiosamente impietrito in un gesto energico. Hiroko, Sajjad, Konrad, Ilse, Harry: la storia li aveva spinti tutti quanti fuori rotta, e nessuno di loro era tornato — o aveva fatto tappa — al punto di partenza. Ma era solo nel caso di Raza che il cambiamento gli sembrava un riflesso condizionato, più che un modo di adattarsi. «Cosa ti fa credere di essere l’unico a capirlo davvero? Stiamo parlando di uno che vent’anni fa ti considerava responsabile della morte di suo padre. Che diavolo, Harry, io odiavo mio padre, ma se avessi pensato che qualcuno...» Harry alzò una mano. «Adesso basta». Steve fece un gesto di resa. «Era solo un consiglio da amico prima di partire». 265
«Parti?» «Gli Stati Uniti non parteciperanno alla tua incursione in territorio pakistano, domani». Sorrise e si spense la sigaretta sul braccio, nel punto in cui una vecchia ferita lo aveva reso insensibile. «Vedi di fregare quei bastardi, Harry. Lo zio Sam è stufo dei fallimenti». «Signorsì» rispose Harry, e con un sogghigno fece il saluto militare. «Però potresti chiedere allo zio Sam di fare uno sforzo per raffreddare un po’ gli animi nella zona. Ho già perso uno zio a Nagasaki, e non ci tengo a rivivere quella pagina della storia di famiglia». «Riferirò». Steve accennò a Harry di far strada, e sperò che a sessantacinque anni gli sarebbe restato abbastanza da vivere per godersi la pensione, invece di scalare le montagne nelle zone di guerra. Ora che il convoglio fu rientrato al compound il cielo era fitto di stelle e la temperatura era crollata vertiginosamente. Avvolto in una coperta, Raza sedeva sulla soglia del piccolo edificio che condivideva con Harry. «Ti fanno effetto le impronte delle mani, stasera?» gli chiese Harry. Le pareti del locale erano coperte delle impronte sudicie di un bambino, all’altezza della vita di Raza. Più di una volta, svegliandosi al mattino presto, Harry aveva visto Raza che camminava per la stanza seguendone la pista, sfiorando con le dita quelle macchie d’unto. All’arrivo degli americani il compound era stato abbandonato, e giusto qualche zampa d’uccello aveva disturbato la polvere; la gente del luogo aveva subito raccontato della famiglia che ci abitava, prima che vi facesse irruzione una tribù coinvolta in una faida: non avevano trovato altro che il cadavere di un bambino. Gli altri dovevano essere spariti per una qualche forma di magia nera, si diceva: una magia potente, evocata tramite il sangue del bambino. Raza scosse la testa. «No, mi sentivo solo claustrofobico lì dentro, zio Harry». L’ultima volta che l’aveva chiamato in quel modo era stato più di due anni prima, nel Kosovo, mentre la jeep che li portava a incontrare i comandanti dell’Esercito di liberazione in un «luogo sicuro» passava davanti a una fossa comune. Harry si sedette e posò una mano sulla spalla del giovane amico. Ra266
za dipanò la coperta e ne offrì il tepore a Harry, che si avvicinò, appoggiò all’altro la spalla e tirò su di sé metà della coperta. Da molto tempo, ormai, la naturalezza dei pakistani nel contatto fisico aveva smesso di imbarazzarlo. Steve, che attraversava a grandi passi la zona militare, pensò che sembravano una creatura a due teste, che esaminava il mondo dalla sicurezza del suo bozzolo. «Uno dei tuoi scagnozzi di qui ha portato un tizio sostenendo che è un talebano» disse Raza. «Lo hanno interrogato due nuovi venuti della A&G, volevano che facessi da interprete». «Quali nuovi venuti?» Il tono di voce di Harry era gelido. «Non preoccuparti. Ho risposto che non prendo ordini dai manovali. Comunque alla fine l’hanno lasciato andare. Era soltanto un nemico di vecchia data del tuo scagnozzo. Tu hai mai interrogato nessuno, Harry?» «Sì, ma raramente nel modo che intendi tu. Non è efficace». «C’è qualcosa che non faresti, anche se lo ritenessi efficace?» Ricordò il giorno in cui Harry era venuto a Dubai per cercarlo: Raza gli aveva chiesto se la CIA avesse mai tentato di trovare l’uomo che aveva ucciso suo padre. «L’ho trovato io. E l’ho ammazzato» aveva risposto Harry; pur sapendo che la cosa avrebbe fatto inorridire suo padre e infuriare sua madre, Raza non aveva potuto soffocare un senso di gratitudine nei confronti dello zio Harry, che aveva agito come avrebbe voluto agire lui stesso, se solo ne avesse avuto il coraggio. «Cosa non farei anche se lo ritenessi efficace?» ripeté pensosamente Harry. «Quasi niente. I bambini sono proibiti, lo stupro è proibito, per il resto... quello che funziona funziona. Ma non dirlo a mia figlia quando sarò morto e ti chiederà che uomo ero veramente». Kim Burton. La tanto immaginata Burton che si era ormai convinto di aver visto in ogni donna dai capelli rossi, adesso viveva insieme a Hiroko in un mondo molto distante da questo. Raza incrociò le braccia sulle ginocchia e vi appoggiò la testa. Il paradiso è ai piedi delle madri, aveva detto una volta il suo insegnante di studi islamici; tornato a casa, Raza aveva esaminato con la lente di ingrandimento i piedi di Hiroko, e scherzando aveva detto: «È questo tappeto, il paradiso? O questa formica?», finché lei non lo aveva preso per il colletto e puntandogli in faccia la lente aveva detto: «Ma no, cerchiamo qui. È qui, il paradiso». 267
Harry conosceva abbastanza bene i silenzi di Raza da capire che stava pensando a lei. La madre adorata e trascurata. Gli mise una mano sul polso. Era impossibile convincersi che Ilse non c’era più. Anche così anziana, gli era sembrata la persona più viva al mondo. Voleva dire a Raza che un giorno si sarebbe pentito di aver passato così poco tempo con sua madre, e solo per non farle capire che uomo da poco era diventato; sapeva, tuttavia, che in un simile consiglio Raza avrebbe colto solo il rimpianto, non la saggezza. Perché in effetti forse non ce n’era. «Non sono riuscito a trovare Abdullah» disse Raza a un tratto. «Chi?» «Abdullah, il ragazzo con cui ero andato nel campo d’addestramento nell’83. Mio cugino mi ha messo in contatto col suo ex comandante». Harry aggrottò le sopracciglia e scosse il capo. «Perché ti sei... Da che parte sta il comandante adesso?» «Potresti per un attimo non ragionare da dipendente della A&G? Non so da che parte stia. Non gliel’ho chiesto. Ma nemmeno gli ho detto cosa faccio io. Crede che sia in un’organizzazione di soccorso che ha sede nel Golfo». «Un momento, Raza. Pensi che sia saggio avvertire degli afghani di cui non sai nulla della tua presenza nel paese?» «Il paese è grande e io non ho detto in che parte mi trovo». Gli era venuto in mente che il comandante potesse ricordarlo come il ragazzo che lavorava per la CIA, ma parlandogli aveva scoperto di aver lasciato un ricordo diverso: «Sei l’hazara che sveniva, quello che aveva fatto credere a un ragazzo pathan di essere importante per la CIA solo perché un tipo che sembrava americano gli aveva dato un paio di scarpe». «Che altro ha detto?» domandò Harry. Raza guardò il cielo, mentre con le dita tracciava costellazioni nella sabbia. «L’ultima volta che l’ha sentito, Abdullah era in un campo in Afghanistan che poi è stato decimato dai sovietici». Harry cercò di non irritarsi per il fatto che Raza avesse cercato il ragazzo senza metterlo al corrente. «Mi dispiace. So che lo consideravi un amico. Ma è passato molto tempo». 268
«Dopo la morte di mio padre sono andato da mia madre e l’ho implorata di perdonarmi. Lei ha detto che io non c’entravo niente. Che non potevo immaginare che finisse così, che non ero affatto responsabile. E poi ha detto: ‘Se trovi il modo, devi tirar fuori dal campo quel ragazzo. Se gli succede qualcosa mentre è lì, la responsabilità sarà tua. Ce l’hai mandato tu, quando avresti potuto convincerlo a non andare’». «Non è colpa tua se è diventato un mujaheddin» ribatté Harry. «Invece sì. Se non fosse stato per me avrebbe fatto il camionista, invece di trovarsi sulla traiettoria delle bombe russe. E checché ne dica mia madre, mio padre sarebbe ancora vivo» Nella sabbia legò insieme le stelle di Orione: arco, cintura, ginocchia. Harry spostò leggermente il peso verso Raza. Avrebbe tanto voluto che non fosse toccato a lui dirgli che Sajjad era andato al porto per cercarlo. Pur di risparmiare il ragazzo, sarebbe stato disposto a vivere con la colpa che Raza gli aveva gettato addosso il giorno del funerale. Ma Raza aveva deciso da anni che la responsabilità per la morte del padre era unicamente sua. «I fratelli di Abdullah erano tutti mujaheddin: è cresciuto sapendo che sarebbe stato quello il prossimo passo, come tu sapevi che dopo la quarta superiore si va in quinta». «Sì, sì». Il tono di voce era indurito dalla rabbia. «Ne ero convinto anch’io, così non ho fatto niente per aiutarlo. Non mi sono nemmeno fermato a pensare se potevo fare qualcosa. In vent’anni non ho quasi pensato a lui». «E hai fatto bene. Dio sa quanto bene voglio a tua madre, ma lei non conosce la realtà della guerra». Non appena ebbe pronunciato questa frase si zittì, rosso di vergogna per quel che aveva detto. «È quando non conosci la realtà della guerra che non pensi a cose come questa. Invece venire qui, stare in questo posto, vedere tutti questi giovani che sono stati vecchi per quasi tutta la vita ti fa un effetto strano. E inevitabile che ti faccia effetto, Harry. Non ti senti un po’ responsabile, tu?» «A volte sento questi progressisti americani e mi stupisco di come riescano a ricollegare tutti i mali del mondo a qualche azione del loro paese, oppure a qualche azione mancata. Anche tu vedi il problema sul piano personale, invece che politico. Tu non sei responsabile per Abdul269
lah. E quanto a tuo padre...» «Quanto a mio padre, si dispererebbe se sapesse che razza di uomini siamo diventati io e te». Con un movimento della mano Raza cancellò Orione dalla sabbia. «Da quando giustifichi le tue scelte trasformando la responsabilità in un malanno?» Alzatosi con calma, si liberò della coperta come una crisalide dal bozzolo e andò verso la radio che trasmetteva musica da una stazione pakistana. Tanto meglio, pensò Harry mentre raccoglieva la coperta e ci si intrufolava. Era sentendosi superiore a lui che Raza si metteva a posto la coscienza. Adesso avrebbe smesso di seguire le impronte delle mani, di andare in cerca di un passato che aveva ignorato per vent’anni, e sarebbe tornato a concentrarsi sul lavoro.
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Tre estati prima, quando Hiroko Ashraf era arrivata a New York, l’agente del controllo passaporti — un tale col simbolo della pace tatuato sul braccio — aveva guardato perplesso prima il suo volto e poi il passaporto pakistano, e infine aveva fatto un gran sospiro leggendo il suo luogo di nascita sotto il nome del marito. «È tutto a posto» aveva detto mentre timbrava il passaporto, senza farle nemmeno una domanda. «Qui sarà al sicuro». A sorprendere Hiroko, ancor più della mano tesa a stringere la sua, era stata la totale mancanza d’ironia di quell’uomo. Per lei non era così. Una settimana dopo i test nucleari dell’India, con una reazione simile da parte del Pakistan ormai imminente, Hiroko non vedeva il suo mal di schiena come l’effetto del lungo viaggio in aereo, ma piuttosto come il fastidio degli uccelli perché fra tutti i paesi aveva scelto proprio questo, come rifugio dal mondo nuclearizzato. In fila per il taxi si era resa conto che grazie ai film le era tutto familiare, tranne la strana tangibilità dell’aria del mattino e l’aspetto stanco di tutto, dal terminal ai taxi ai viaggiatori, tanto da farle sospettare che il Pakistan avesse fatto il test mentre lei era in volo da un continente all’altro. Perciò quando era arrivato il suo taxi, e ne era sceso un giovane che poteva essere indiano o pakistano per aiutarla a caricare i bagagli, lei si era lasciata sfuggire, in urdu: «C’è già stato il test in Pakistan?» L’uomo si era irrigidito per la sorpresa, poi era scoppiato a ridere. «Parla l’urdu?» disse. «No, no. Non l’abbiamo ancora fatto. Per il momento. Com’è che parla urdu?» «Ho vissuto in Pakistan dal ‘47» rispose lei in tono stranamente leggero. «Sono pakistana». «Incredibile!» Le aprì la portiera. «Lei è pakistana e io sono americano. Ho avuto la cittadinanza la settimana scorsa». Poi aggiunse in inglese: «Benvenuta nel mio paese, zietta». Si chiamava Omar. Era di Gujranwala, ma una volta era andato a 271
trovare dei parenti lontani a Nazimabad, un sobborgo di Karachi. «Per fortuna non è arrivata ieri» disse mentre superavano un gruppo di ragazzi che giocavano a cricket vicino a un grosso globo d’argento, uno spettacolo che rallegrò enormemente Hiroko. «C’è stato un grosso sciopero dei tassisti. Novantotto per cento di adesioni fra i taxi gialli. Il novantotto per cento!» Sentendo il suo tono di voce Hiroko sorrise. Si ricordò del 1988, quando molti suoi vecchi allievi, di quelli che stavano seduti in fondo all’aula, erano scesi in strada a sventolare le bandiere del partito e a cantare inni di vittoria. Il jetlag le impedì di afferrare i dettagli dello sciopero dei taxi, che rimasero misteriosi anche per la parlata a raffica di Omar, ma una cosa le rimase impressa. «Ci sono tanti tassisti indiani, vero?» Omar annuì nello specchietto retrovisore. «E altrettanti pakistani?» «No, per favore» rispose Omar. «Non mi chieda com’è possibile che qui scioperiamo insieme, e intanto i nostri paesi progettano la fine del mondo. È una domanda da giornalisti. Zietta, siamo tutti tassisti e protestiamo contro un nuovo regolamento ingiusto. Perché dovrebbero impedircelo i nostri governi, che ci hanno scaricati tanti anni fa?» Hiroko abbassò il finestrino e lasciò entrare l’aria di New York. E rise, come provando un senso di vittoria, quando un tassista inturbantato li affiancò e tese il braccio per stringere la mano a Omar. Omar di Gujranwala era il primo newyorkese di cui annotò il numero di telefono. «Faccio il turno di giorno» le disse. «Se ha bisogno di un taxi fra le sei del mattino e le sei di sera mi può chiamare». E il suo sorridente: «Benvenuta nel mio paese, zietta» segnò l’inizio dell’amore di Hiroko per New York. Una città in cui poteva sentir parlare in urdu, in inglese, in giapponese, in tedesco nello spazio di qualche minuto. Che miracolo! A volte prendeva la metropolitana al solo scopo di origliare qualche discorso. Più di tutto la incuriosivano le giapponesi giovani: la loro risata disinvolta, la parlata zeppa di parole incomprensibili, che la costringevano ad ammettere che il suo giapponese apparteneva ormai alla generazione «delle nonne». Non c’era niente di strano, nell’essere stranieri in questa città. «È come la borsa di Mary Poppins» aveva detto Ilse per spiegarle quante cose potesse contenere la piccola isola di Manhattan. Le sem272
brava di avere aspettato di venirci per tutta la vita. E quando crollarono le torri fu travolta da un sentimento di solidarietà che le era nuovo. Di buon mattino, in piedi accanto a Kim — arrivata in macchina da Seattle — aveva offerto da mangiare al personale dei soccorsi; poi aveva chiesto di donare il sangue — cosa importava se era anziana, non le serviva tutto quel sangue — e si era arresa solo quando le avevano detto che veniva da una zona malarica e il suo sangue non poteva essere accettato a prescindere dall’età. Non si era offesa, anzi si era sentita onorata nel ricevere il distintivo riservato ai donatori, perché «l’importante era l’intenzione», come le aveva detto l’esausta infermiera della Croce rossa. Quando Hiroko rispose che il profeta Maometto aveva detto esattamente la stessa cosa — uscita di cui si era sorpresa lei stessa — la donna aveva risposto sorridendo: «Ne sono certa». Ma poi le cose erano cambiate. L’isola le era sembrata piccola, la mentalità della gente ristretta. Come poteva, un posto così pieno di immigranti, prendere tanto sul serio l’idea del patriottismo? Ridendo, Ilse aveva proclamato: «È lo zelo dei convertiti». E Hiroko continuava a ripensare ai discorsi di quel giovane sorridente, a Tokyo, sulle «vite americane». Era un talismano, quell’espressione: era la seconda parola a dare un senso alla prima. Per settimane si era sentita a disagio. Adesso, però, a metà gennaio il mondo le pareva diverso, mentre sedeva davanti a un cruciverba e a un tè al gelsomino in un bistrot del West Village, in quella breve pausa fra la prima colazione e il pranzo in cui non le sembrava scortese attardarsi al tavolo. Alzò gli occhi quando l’unico altro cliente aprì la porta per andarsene: da fuori entrarono il freddo e i rumori — la voce irritata di un tizio al telefono, il latrato di un cane, un camion che passava sui ciottoli — poi l’uscio si richiuse e lei si sentì di nuovo al sicuro, in quel silenzio rotto soltanto dalla cameriera che batteva la matita sul banco. Sarebbe stato eccessivo definirla una sensazione di pace, ma almeno era un momento in cui tirare il fiato. Per la prima volta in più di un mese sembrava ci fosse una presa di distanza dalla guerra nucleare, invece che un avvicinamento, e Hiroko provava un impeto d’affetto per la gente di tutti i paesi, dagli abitanti di New York a un dittatore lontano mezzo mondo. Non che avesse mai avuto fiducia nei capi di stato, in Pakistan non più che in Giappone. Ricordò quando, stesa a pancia in giù sul pavimento di un ospedale di Nagasaki, aveva guardato un bambino che 273
con un paio di bacchette toglieva i vermi dal rossore pulsante del seno di sua madre: era l’unico a non badare alla voce dell’imperatore, che per la prima volta si faceva sentire dai suoi sudditi per annunciare alla radio la resa del Giappone. Malgrado l’iconoclastia ereditata dal padre, Hiroko era rimasta sgomenta nell’udire quanto fosse stridula e fiacca quella voce. Più che dal messaggio, si era sentita tradita da quel suono. «Sette orizzontale?» La cameriera sventolò la sua copia del cruciverba. «La parola QWEET non esiste, vero?» «Purtroppo no, tesoro». La cameriera indicò la porta. «Vado fuori a fumare. Lei se la caverà da sola». Più che una domanda era un’affermazione. Di nuovo la porta aperta, la ventata gelida e il rumore; poi ancora il silenzio. Hiroko tirò fuori il cellulare dalla borsetta. Sapeva chi doveva chiamare per festeggiare questo passo indietro dal baratro nucleare. Per un attimo si domandò se fosse il caso di tornare a casa e telefonare dal fisso — non aveva perso l’abitudine al risparmio, malgrado le grandi somme di denaro che Raza continuava a versarle in banca — ma poi si sentì invasa da una gioia incontenibile e decise di non aspettare. Sulle prime non lo riconobbe. Non sembrava affatto la voce di Yoshi Watanabe, che tre anni prima era venuto in Pakistan insieme a un gruppo di hibakusha, con l’intenzione di fare il possibile per distogliere il Pakistan dai suoi progetti nucleari. Hiroko aveva tradotto in urdu le parole delle donne durante la conferenza stampa; poi aveva passato un pomeriggio pieno di lacrime e di risate in compagnia di Yoshi, e infine si era imbarcata per New York. «Sì, sono io» le disse. «La voce... è quella del tumore». «Yoshi-san!» «È dappertutto ormai. Non possono farci niente». Lei fu colta di sorpresa dalle lacrime che le bruciavano negli occhi. A Nagasaki, Yoshi era stato solo un conoscente, l’amico di Konrad che poi l’aveva tradito. In seguito, lei aveva rappresentato per lui l’espiazione; anno dopo anno, lettera dopo lettera aveva finito per diventare l’unico legame che le rimaneva con Nagasaki. 274
«Mi chiami per festeggiare, immagino» disse in tono appena stizzito. «Per quel tuo paese di matti. A quanto pare non morirò cremato». «Non ti sembra il caso di festeggiare?» Lui abbassò la voce. «Ascolta la mia confessione, Hiroko-san. La diagnosi è stata fatta un mese fa, e nel cervello mi ronzava l’idea folle che se fosse scoppiata la guerra in India io sarei sopravvissuto. O loro o me. O loro o me. E in queste ultime settimane ho acceso la TV ogni giorno, ansioso di vedere i funghi atomici al telegiornale». L’espressione d’orrore di Hiroko ebbe il solo effetto di fargli alzare la voce. «Se la scelta è fra le cellule morte che crescono a fungo nel mio corpo e quelle che distruggono una parte del mondo, be’ allora non c’è scelta. Non è nemmeno questione di scegliere». Si udì il rumore di una breve lotta, poi una donna prese l’apparecchio e disse: «Il tumore gli ha dato alla testa. Non direbbe mai cose simili». In sottofondo Yoshi gridava: «Invece sì!» Quando riattaccò le tremavano le mani. Buttò dei soldi sul tavolo e uscì di fretta dal bistrot. Il vento le piombò addosso: aveva dimenticato i guanti e il cappello. Pazienza. Non poteva tornare in quell’atmosfera da funerale. Camminò mezzo accecata dalle lacrime verso la West Side Highway, incapace di scacciare dalla mente le immagini di una Karachi ridotta a un panorama postatomico, fatto di ombre sovrapposte ad altre ombre e ad altre ombre ancora. Doveva fermarsi sulla sponda dell’isola a guardare l’acqua. Le occorreva spazio per respirare. «Sajjad» ripeteva in continuazione, nel tentativo di evocare qualcosa della sua presenza, della sua capacità di farle credere che si potesse sopportare tutto. Qualcosa del suo ottimismo. Squillò il telefono: Hiroko non voleva rispondere, ma cambiò idea vedendo che era Kim a chiamarla. Nel giro di dieci minuti, dopo aver sentito il tono di voce dell’altra, Kim scendeva sbattendo la portiera da un taxi e correva verso di lei, una figura solitaria sul bordo del molo, i capelli bianchi che le sferzavano il viso. Le mani nude erano appoggiate alla ringhiera, e Kim non parlò prima di essersi levata i guanti e averglieli infilati sulle dita irrigidite. 275
Poi disse: «Non vale la pena prendersi la polmonite per guardare il New Jersey», e intanto si tolse la sciarpa e l’avvolse sulla testa dell’amica. «Vorrei che il mondo la smettesse di essere così orribile» disse Hiroko. Kim non trovò le parole per rispondere. Lei stessa si sentiva a terra per lo stesso motivo, per quanto era orribile il mondo. Ogni mattina leggeva sul giornale delle vittime in Afghanistan e pensava a Harry. Poi andava al lavoro, che per lei era sempre stato un rifugio. Ma la psicologia degli ingegneri civili! All’università ci scherzava su con gli amici. Ci aspettiamo i disastri, calcoliamo la tensione con esattezza matematica. Più sono incasinate le nostre vite, più siamo bravi nel progettare edifici in grado di sopportare la pressione, inevitabile o possibile che sia. Avanti con le tempeste, i terremoti: noi abbiamo calcolato tutto. E attenti, amanti — qui lo scherzo che in realtà non era uno scherzo arrivava al culmine — quando vi pianteremo sarà perché ci saremo fatte un modello della situazione e le dovute simulazioni, e sapremo che verso prenderanno le cose. Ma adesso anche il lavoro era macchiato da ciò che accadeva nel mondo. Un conto erano i terremoti e le alluvioni, ma dover calcolare l’effetto di una bomba o di un aereo era tutt’altra questione. Un aereo di che dimensioni? Una bomba di che potenza? Se un tale? fosse entrato nel palazzo con la dinamite legata al petto? Se fosse stato immesso un gas nel sistema di aerazione? «Non è compito mio immaginarlo!» aveva gridato ieri all’architetto con cui lavorava. «Il mondo non peggiorerà di certo se ci mettiamo al caldo con una tazza di cioccolata» disse Kim. «Anzi, potrebbe quasi migliorare se nella cioccolata ci sono dei marshmallow». «Tra poco vado a scaldarmi» la rassicurò Hiroko con un colpetto sulla mano. «Scusa, non sapevo che avresti mollato tutto per venire qui. Mi sento una stupida». «Dimmi cosa ti passa per la mente» rispose Kim, le mani rintanate nelle tasche del cappotto. «Favole» rispose Hiroko con lo sguardo fisso sul fiume che scorreva veloce. Pochi gradi in meno e sarebbe gelato. C’era qualche artista 276
pronto a scrivere il nome dell’amata sotto il ghiaccio? Hana. La figlia che aveva perso. Guardò Kim con la coda dell’occhio. «Quando Raza era piccolo, non volevo che sapesse per cosa ero passata ma volevo che ne capisse l’atrocità. Mi segui? Perciò mi ero inventata delle storie, ma erano così terribili che alla fine non sono riuscita a raccontargliele. E in questi giorni continuano a tornarmi in mente». Kim annuì. «Me ne ha parlato mio padre, una volta. Non ti dispiace, vero?» «No. Adesso vorrei averle raccontate, non solo a Raza, ma a tutti quanti. Vorrei averle scritte e vorrei averne dato una copia a ogni scuola, a ogni biblioteca, a ogni luogo d’incontro». Si accigliò, come se tentasse di sbrogliare un punto confuso. «Ma vedi, avevo letto i libri di storia. Dopo Truman, Churchill, Stalin, l’imperatore, le mie storie sembravano cose da poco, frammenti minuscoli della vicenda. Perfino le settantacinquemila vittime di Nagasaki erano una piccola frazione dei settantadue milioni di morti della guerra. Una parte minima. Poco più dello 0,001 per cento. Perché tanto chiasso per lo 0,001 per cento?» «Perché tu l’hai vissuto» rispose Kim. «E tuo padre ci è morto. E il tuo fidanzato. Non c’è da vergognarsi a mettere tutto il peso del mondo su quello». Non era la risposta giusta. Hiroko si girò verso di lei, il volto acceso dalla rabbia. «Sarebbe questo il motivo? Il motivo per cui Nagasaki è un crimine così mostruoso? Perché è successo a me?» Si levò i guanti e li buttò addosso a Kim. «Non la voglio la tua cioccolata calda» disse, e si allontanò a grandi passi. Kim raccolse uno dei guanti e lo usò per darsi uno schiaffo. Forte.
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«Raza Hazara?» Raza si staccò dal gruppo di afghani a cui stava facendo da interprete e si premette il telefono satellitare all’orecchio. «Raza Hazara?» ripeté la voce all’altro capo della linea. Steve schioccò le dita in direzione di Raza. «Ti ho detto di dire che lo richiami, chiunque sia». «Chi parla?» chiese Raza in pashto. «Sei Raza Hazara?» «Sì, sì. Chi parla?» Steve abbrancò Raza per un braccio. «Qui sei pagato dall’azienda». Gesticolò verso la delegazione di afghani venuti a dichiararsi fedeli agli americani. «Digli che mi occorre una prova della loro lealtà». «C’è qualcuno che parla urdu?» si intromise Harry. Uno degli uomini alzò subito la mano, come un allievo ansioso di ingraziarsi il professore. «Fai con calma, Raza, qui ci penso io». «Chi parla?» domandò Raza un’altra volta, mentre si allontanava in fretta dagli americani e dagli afghani. «Sono Ismail, il fratello di Abdullah. Hai ancora quel pattusi che ti ho dato vent’anni fa al campo?» Raza si appoggiò all’albero dalle grandi foglie che cresceva nel compound. «È vivo Abdullah?» «Sì». Raza passò un braccio attorno al tronco e ci appoggiò la testa. «Dice di riferirti prima di tutto che si scusa». Da quasi vent’anni era convinto che Abdullah si fosse sentito tradito: Raza non era mai tornato a Sohrab Goth, non aveva mai tentato di contattarlo tramite Afridi o un altro degli afghani che conosceva. E gli era 278
parso inevitabile che, quando la realtà della guerra gli fosse divenuta familiare, Abdullah avrebbe capito che il tradimento più grave, da parte di Raza, era stato spingerlo a entrare nel campo, invece di confermargli che doveva restare a Karachi. Al contrario, il fratello di Abdullah stava dicendo: «Che tu fossi legato o meno alla CIA, Abdullah sa che eri venuto al campo con lui come un fratello. Sono vent’anni che si vergogna di aver detto al comandante in un momento di rabbia che eri una spia americana, per farti mandare via». Raza scosse la testa incredulo. «Perché mi chiami tu invece di Adbullah?» «Il comandante mi ha detto che avevi telefonato, che cercavi Abdullah. Aveva il tuo numero. Dimmi, Raza Hazara, è vero che lavoravi per la CIA?» «Perché mai un afghano dovrebbe ammettere di aver lavorato per la CIA, di questi tempi?» C’era qualcosa che non quadrava, se ne rendeva conto, tuttavia non sapeva come rispondere, quanto della verità dovesse rivelare. «I tempi sono cambiati» disse Ismail. «Allora credevamo che ci aiutassero». Raza fece un verso che poteva essere di assenso. «Ti prego, ho bisogno di sapere una cosa. Hai amici in America?» «Perché mi chiami? Dov’è Abdullah?» Seguì un lungo silenzio: né l’uno né l’altro volevano scoprire il proprio gioco prima di aver visto le carte dell’altro, ma Raza sapeva di essere in vantaggio. «Te lo spiego subito» rispose Ismail. «Perché me l’ha chiesto mio fratello. Ha detto che sarebbe servito». Qualche minuto più tardi Raza era seduto sotto l’albero, col telefono satellitare posato a terra lì vicino. Che paese, che paese... Guardò le colline lontane, già trasformate in sagome scure dal calare della notte d’inverno, e ricordò — più che vederle — le strisce di tessuto colorato legate in cima ai lunghi pali. Alcune ormai sbiancate dalla luce, altre vivide come sangue appena versato: ognuna a segnare il luogo di sepoltura delle vittime di qualche variante della guerra che da vent’anni imperversava in Afghanistan. Raza si considerava uno delle centinaia di migliaia di uomini la cui coscienza era stata sepolta in Afghanistan: per 279
reazione aveva stabilito che se doveva essere annoverato fra i dannati, tanto valeva farlo per soldi. E invece adesso ecco che la sua coscienza gli dava un colpetto sulla spalla per offrirgli un’altra possibilità. Si alzò di scatto, corse nella stanza che divideva con Harry, raccolse dal letto di questi il suo telefono satellitare e chiamò senza indugi uno dei numeri in memoria. «Papà!» rispose Kim Burton. Sarà stato per tutte le volte che aveva sentito quella voce nella segreteria telefonica di Harry, o per chissà quale altro motivo, ma la voce di Kim gli era così familiare che non avrebbe potuto presentarsi come un estraneo. «Ciao, Kim. Sono Raza». «È successo qualcosa a mio padre?» «No, no, Harry sta benissimo» rispose Raza uscendo dalla stanza per guardare Harry, che stava abbracciando l’afghano che parlava urdu e il capotribù, per poi accompagnare i nuovi alleati dell’America fino al cancello del compound. La sentì tirare un sospiro di sollievo. «È ora che vi troviate un altro mestiere, voi due». Lui sorrise per la familiarità di quel «voi due». «Come sta mia madre?» «Potresti chiederglielo tu stesso». Fece qualche passo per uscire dal cantiere e si sfilò il casco per sentire meglio. Nel suo accento indefinibile riconosceva tracce di Harry e di Hiroko. Si era sempre aspettata una voce insolente, invece la trovava accattivante. «Certo, lo farò. Come va la convivenza?» «Ogni tanto c’è qualche intoppo, ma poi si sistema». Fra lei e Hiroko «Non la voglio la tua cioccolata calda» era diventata una battuta che suscitava risate isteriche, appena qualche ora dopo che Hiroko le aveva buttato addosso il guanto. «Come per sfidarti a duello!» aveva detto quella sera, durante la cena che Kim aveva preparato come offerta di pace. «Il mese prossimo vado a stare per conto mio, però resto in zona». «Aha». Kim capì che la cosa non gli interessava tanto. «Devo chiederti un favore» disse lui. «Riguarda un afghano che co280
noscevo da ragazzo, Abdullah». «Abdullah?» ripeté Kim. «Quello con cui eri andato al campo di addestramento? In che zona siete dell’Afghanistan?» Si guardò attorno: i grattacieli, la donna che passava in minigonna e stivali sopra il ginocchio, gli uomini con la kippah fermi davanti a un chiosco di hot dog con la scritta HALAL, e pensò che in effetti avrebbe potuto trovarsi su un altro pianeta. «Non posso dirtelo, Kim, lo sai. Ascolta, devi aiutare Abdullah. E in America. A New York». «Cosa fa a New York?» rispose bruscamente Kim, guardandosi attorno. «Il tassista». «Ovvio». «È un clandestino». «Altrettanto ovvio». «Un paio di giorni fa è andato a trovarlo qualcuno dell’FBl. Quando ha sentito bussare è scappato dalla finestra». Dall’altra parte del compound, su un campo improvvisato, stava per iniziare una partita notturna di cricket rischiarata dai fari degli Humvee. Harry era l’unico fra i giocatori a non essere un TCN, anche se alcuni contractor lo guardavano divertiti quando chiamava gli altri in urdu, trascinando la seggiola di legno che fungeva da wicket. «Come fai a saperlo?» Si accovacciò per guardare dentro il taxi che si era fermato al lato opposto della strada, come se potesse riconoscere Abdullah l’afghano. Da molto tempo Harry gli aveva insegnato a non rivelare, nel corso di qualsiasi operazione, più di quanto fosse strettamente necessario. E com’era successo a Harry, anche per Raza la lezione si era trasferita nella vita privata. «Questo non è rilevante. Quel che conta è che è terrorizzato. È un afghano ed è sfuggito all’FBI. Di questi tempi, per un paese paranoico come il tuo, questo genere di cose è la prova che sei un terrorista». Irrigidita, Kim allontanò il telefono dall’orecchio e lo guardò sbigottita. Paranoia? Il suo paese era in preda alla paura, e gente come Raza Ashraf riusciva soltanto a deriderlo. E poi come mai era diventato il pa281
ese «di lei», quando lui stesso aveva abitato per dieci anni a Miami, aveva la green card ed era in attesa di ottenere la cittadinanza? «Perché è scappato, quell’idiota? L’FBI non è l’INS: se ne fregano se sei un clandestino. Digli di costituirsi e di scusarsi per essere andato in panico». «Scusarsi?» Ripetè lui, imitando il tono di voce e l’accento di Kim con sconcertante precisione. «Parli sul serio? Hai letto il Patriot Act? Eccome se gli importa se sei clandestino o no. Possono trattenere chiunque abbia il minimo problema nel visto, se sospettano anche solo vagamente di lui». Poi si fermò e aggiunse piano: «D’accordo, non hai letto il Patriot Act». «Che senso ha questa telefonata?» «In questo momento non può stare in America. E c’è modo di farlo rientrare in Afghanistan attraverso il Canada. Quindi tu devi fargli passare il confine. Non fermeranno mai una macchina guidata da una come te. E lui a New York non ha nessun amico che ti assomiglia». «E a questo punto ci salutiamo». Chiuse la comunicazione e spense il telefono per evitare la follia di ulteriori richieste, poi tornò di fretta al cantiere. La turbava il pensiero di un afghano che sfuggiva all’FBl, e ancor di più la turbava capire che l’idea la rendeva sospettosa. Quel dannato Raza. Che diritto aveva di telefonarle per... coglierla in fallo? Ecco, sì, era tale e quale Harry. Ti dava in mano un dollaro e ti faceva sentire in colpa perché era falso. Dall’altra parte del mondo Raza era deluso, ma non sorpreso. Va bene, piano B, pensò mentre osservava Harry che strascicava i piedi pigramente per lanciare. Sapeva come avrebbe reagito Harry sentendo che era in partenza per New York per far uscire Abdullah: gli avrebbe dato dell’idiota e del sentimentale, si sarebbe messo a imprecare contro l’inefficienza dell’FBI, l’inettitudine dei politici, la stupidità delle leggi... Poi avrebbe commentato che l’innocenza di Abdullah non sarebbe stata di alcun aiuto a Raza, se l’avessero scoperto mentre tentava di aiutare un presunto terrorista. E infine, constatando che Raza non cambiava idea, avrebbe detto: «D’accordo, allora vengo con te», perché Raza non poteva certo passare la frontiera inosservato come un americano: l’avrebbero fermato. Raza sorrise e si stirò soddisfatto. Gli piaceva l’idea di tornare in America, anche se per poco. Pensò con gusto al get282
to abbondante delle docce, e si domandò se fosse il caso di scusarsi con Kim Burton. Harry fece un lancio a effetto troppo corto, seguito da un’esclamazione di dolore esagerato quando il battitore colpì la palla segnando quattro runs. Steve uscì dalla stanza per vedere cosa fosse tutto quel chiasso. La palla finì vicino a Raza, il quale alzò una mano per segnalare ai fielders che l’avrebbe recuperata lui. Stava chinandosi per raccoglierla quando vide qualcosa muoversi nella torre di guardia. Harry era voltato verso di lui, a braccia tese per ricevere la palla con un sorriso che chiunque avesse voluto bene a Konrad Weiss avrebbe riconosciuto, quando lo sconosciuto nella torretta sventagliò da destra a sinistra il kalashnikov come in una danza. Harry cadde a terra in sincronia perfetta e la sua camicia si tinse di rosso sotto i fari dell’Humvee.
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Raza guardò il fango che si alzava in cerchi concentrici e la terra che si appiattiva tutto intorno. Si era accovacciato sulle ginocchia, le braccia levate per proteggersi dallo spostamento d’aria, rifiutandosi di alzare lo sguardo oltre le cornici di fango che si sollevavano di due dita per poi crollare mentre l’elicottero decollava, portando con sé due mercenari feriti e la salma di Harry Burton. Il frastuono dell’elicottero si affievolì, e Raza sentì un motore che accelerava. La jeep che trasportava i corpi dei tre TCN pakistani stava uscendo senza scorta dal compound, diretta al confine; l’altra jeep, con il cadavere sudicio del tiratore afghano legato per i piedi al paraurti avrebbe aspettato l’alba, prima di andare in giro nella zona circostante a titolo di avvertimento. I cadaveri dei due TCN del Bangladesh erano in un magazzino in attesa di ulteriori decisioni, vista la mancanza di un’ambasciata a Kabul a cui potessero essere inviati. E in qualche punto nascosto due uomini stavano scavando una fossa — Raza sentiva i colpi dei badili nella terra — per il singalese privo di documenti. Per alzarsi in piedi Raza dovette contrastare la resistenza del sangue che gli si era rappreso sui vestiti. Andò lentamente verso la jeep con l’afghano legato dietro, e alzò il piede per provare la soddisfazione di rompergli le ossa con gli anfibi. Invece si girò di scatto e vomitò. Nessuno ricordava di aver mai visto l’afghano. Con tutta probabilità faceva parte del gruppo venuto a giurare fedeltà agli americani. Doveva aver lasciato gli altri di nascosto per entrare nella torretta, dove aveva strangolato la guardia singalese. Il capotribù che aveva portato i suoi uomini nel compound sosteneva di non conoscerlo — ma era scontato che lo dicesse, aveva fatto notare Steve. Raza si sfilò la giacca insanguinata e la lasciò cadere a terra, e intanto si incamminò in direzione della stanza che condivideva con Harry. O meglio, che aveva condiviso con Harry. Al tiratore sembrava che interessassero soprattutto gli americani: i TCN erano morti solo perché si trovavano sulla traiettoria dei proiettili sventagliati fra Harry e gli altri due mercenari. Questi ultimi tuttavia si erano salvati, grazie ai giubbetti 284
antiproiettile. Anche Harry avrebbe dovuto indossarlo sempre: lo stabiliva il regolamento della A&G per tutti i dipendenti che ne erano forniti, il che escludeva i TCN, per i quali l’acquisto dei giubbetti risultava economicamente poco vantaggioso. Per questo Raza si rifiutava di portarlo; si sentiva ridicolo, seduto a cena nel campo illuminato dai fuochi, a essere l’unico impacciato da quel peso. E Harry diceva che se Raza non lo portava, non se lo sarebbe messo nemmeno lui. Nella stanza, Raza sedette sulla branda di Harry e prese in mano il libro che stava leggendo: Le filastrocche di Mamma Oca. Diceva che era l’unica cosa capace di non far perdere la testa a un uomo. Raza chiuse gli occhi e affondò nell’odore di Harry Burton. Avrebbe voluto essere a casa. Non a Miami, ma nella Karachi di vent’anni prima, una città che aveva smesso di esistere da quando gli episodi di violenza avevano fatto di Nazimabad un campo di battaglia e tutti gli amici più intimi di Raza si erano trasferiti in altre zone della città o del Golfo, se non addirittura in Canada o in America. La casa che avevano comprato Sajjad e Hiroko grazie alla collana di Ilse Weiss era stata abbattuta per lare spazio a un edificio «più moderno». «Devi cambiarti i vestiti, puzzano». Raza alzò gli occhi su Steve, che appena entrato aveva sbattuto sul letto la giacca di Raza. «Qual è il modo più veloce per arrivare a New York?» domandò quest’ultimo. «Dice Kim che rimanderanno il funerale fino al mio arrivo». Kim non aveva detto niente di simile: era a Hiroko che Raza, aveva dato la notizia per telefono. Ma cosa ci fai in Afghanistan? — Mamma, scusa, ti racconto tutto quando arrivo. — Raza, sei coinvolto in questa guerra? — Scusa, scusa... — Shhh, smettila di piangere. Anzi no, piangi finché vuoi. E cerca di partire presto. Ti aspetteremo, certo. Così avrebbe voluto Harry. Oh, Raza, com’è possibile che sia morto? Come farò a dirlo a Kim? «Non dire assurdità. Tu non vai da nessuna parte. Interrogheremo tutti gli afghani che hanno messo piede nel compound nelle ultime ventiquattr’ore per capire chi ha aiutato l’assassino... e tu tradurrai ogni parola che uscirà dalle loro bocche malate». «Sono un dipendente della A&G» rispose con calma Raza mentre con cura riponeva Mamma Oca sul comodino, vicino agli occhiali da 285
lettura di Harry. «Non puoi darmi ordini. Anzi, ora che ci penso forse adesso sono io il responsabile delle attività. Sono il dipendente più anziano». «Pensaci bene, prima di usare questo tono» rispose Steve sedendosi sul letto. «I tuoi capi lavorano per me. Infatti ci ho appena, parlato al telefono. Mi hanno dato il controllo operativo fino a che manderanno un sostituto. È una specie di prova, se va tutto bene subentrerò a Harry Burton. L’ufficio di fianco al tuo, mi dicono». «Preparo subito la lettera di dimissioni». «Molto carino da parte tua. Ma non dimenticare i novanta giorni di preavviso. Se Kim Burton vuol mettere sotto ghiaccio Harry fino al tuo arrivo, assicurati che ne abbia abbastanza per arrivare fino ad aprile». Raza chiuse gli occhi e appoggiò la schiena al muro. «Per favore. Ci sono altri che possono fare da interprete, lasciami andare al funerale. Harry era...» Gli mancò la voce. Steve si stese sul letto di Raza e regolò la fiamma della lanterna in modo che facesse ombra sui muri e sul soffitto. «Harry era l’uomo che ammiravo di più» disse. «Anche se non gliel’ho mai detto. Era un visionario. E guarda cos’è diventato: un pezzo di carne marcescente». «Ti prego. Lasciami andare al funerale». «Ma l’unica cosa certa è che sui TCN non ci ha visto giusto. Io l’avevo avvertito. Certo, costano poco. E i loro paesi se ne fregano di cosa gli succede. Ma con la questione della fedeltà come la mettiamo?» Giocherellò con il rubinetto della lampada a gas: le ombre in agguato balzarono su, per poi appostarsi di nuovo. Raza sentì il sudore che gli bagnava le ascelle e rendeva pungente il sangue che imbrattava la sua camicia. Steve si girò a guardarlo. «Non era una domanda retorica. Sto chiedendo il tuo parere». «Hanno un bisogno disperato di soldi» rispose Raza mentre rannicchiava le ginocchia sul torace. Che cosa stava insinuando Steve? Che uno dei TCN avesse fatto entrare di straforo un afghano? «La loro fedeltà nasce dal bisogno di incassare la paga. E dal sentirsi fratelli tra loro». Chiuse gli occhi. Si immaginò seduto alla cassa di uno dei supermercati di Hussein e Altamash, a scandire il codice di un litro di latte 286
o a indicare a un cliente la farina. Era una visione pacifica. Capì che non si sarebbe lasciato alle spalle soltanto la A&G, ma tutta questa vita. Senza Harry non aveva senso. «Ma tu non hai bisogno della paga, Raza Ashraf di Karachi nonché Hazara. Non sei un soldatino che sa di poter essere rimpiazzato alla prima mancanza da un milione di altri disperati. Sei il ragazzo prodigio invecchiato, il genio della traduzione. Puoi chiedere quanto vuoi alle aziende di tutto il mondo. E di sicuro non ti senti fratello di nessuno». «Ero fedele a Harry. Le nostre famiglie...» Di nuovo gli mancò la voce. Quando aveva chiesto a Hiroko di comunicare a Kim la morte di suo padre, aveva pensato a quell’americana che non aveva mai incontrato come a un membro della famiglia, in un certo senso più prossima a lui degli Hussein e Altamash dei supermercati Ashraf di Dubai. «C’ero anch’io in Pakistan vent’anni fa, quando lo cacciasti di casa accusandolo di aver provocato la morte di tuo padre». «Gli volevo bene». Lo disse piano, con semplicità. Una cruda verità che non gli era mai stata tanto chiara. «È per questo che hai fatto cenno al tiratore di sparare?» «Che ho... cosa?» Steve si frugò in tasca e ne estrasse il telefono satellitare di Raza. «Ed è per questo che pochi giorni fa hai telefonato a un noto sostenitore dei talebani di Kabul?» Sangue e ombre dappertutto. Il comandante? «Non sapevo che...» «E mi toccherà anche rintracciare chi ti ha chiamato da quel consiglio segreto di Kandahar, il quartier generale dei talebani, oppure mi risparmierai la fatica e me lo dirai tu, Raza Hazara?» «Sono vent’anni che non mi faccio chiamare in quel modo. Ero solo un bambino». «Quando hai ricevuto la telefonata poche ore fa ero lì vicino a te, lurido bugiardo. Ho sentito come ti ha chiamato il tipo dall’altra parte. Raza Hazara, ha detto». Steve si alzò e prima di andarsene prese il libro di Mamma Oca, il telefono satellitare di Harry e la sua pistola dal cassetto del comodino. «Humpty-Dumpty» buttò lì mentre andava verso la 287
porta con il libro in mano5. La aprì e indicò i due contractor che facevano da guardia appena fuori: gli stessi che Raza aveva liquidato come «mercenari» pochi giorni prima. «Ti spiace restituirmi il telefono?» chiese Raza. «Devo chiamare la A&G, per informare l’ufficio legale delle tue accuse». Steve chiuse la porta e tornò verso Raza con un’espressione estremamente divertita. «Pensi davvero che la A&G pianterebbe una grana alla CIA proprio adesso che hanno avuto quello che cercavano da dieci anni, una fetta del finanziamento statale? E per te?» «Non hai nessuna prova. Le telefonate posso spiegarle». «Oh, puoi spiegare qualsiasi cosa, ne sono certo. Ma sta’ a sentire la brutta notizia: io ti ho visto fare un cenno al tiratore e chinarti appena prima che aprisse il fuoco. Per quanto mi riguarda è una prova sufficiente». Gli mise una mano sulla spalla. «So di che pasta sei fatto. E conto sulla tua vigliaccheria: dimmi chi altro è coinvolto prima che la faccenda diventi spiacevole». Fece un passo indietro. «Ti lascio tempo per pensarci su. Ti schiarirai le idee». Se ne andò, chiudendo piano la porta. Nella mente di Raza c’era qualcosa che gli consentiva di affrontare con concretezza determinate situazioni: la parte del cervello che gli serviva per leggere i rapporti o partecipare a certi incontri di lavoro, da cui risultava chiaro che la A&G era in affari con assassini e crimininali. Quella parte del cervello, una volta, gli aveva consentito di resistere fino alla fine di una riunione in cui un nuovo cliente aveva decantato l’efficacia dello stupro come strumento di guerra. Impassibile, Raza aveva tradotto ogni parola. Più tardi Harry lo aveva trovato che nuotava furiosamente nella piscina olimpionica dell’azienda e aveva detto: «Ho chiarito che non intendo essere coinvolto in questo contratto». Raza aveva risposto: «In ogni caso questa volta me ne vado davvero. Non credere che un aumento possa farmi cambiare idea». Harry si era accovacciato sul bordo della piscina e gli aveva posato la mano sui capelli bagnati. «Non so cosa farei senza di te, ragazzo» aveva detto, e Raza era 5
Humpty Dumpty è il personaggio di una filastrocca di Mamma Oca, un grosso uovo antropomorfizzato seduto in cima a un muretto.
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restato. Mentre indossava un salwar kamiz, dopo essersi metodicamente tolto il sangue di dosso con una spugna e la bottiglia d’acqua di Harry, Raza si ritirò in quella sezione totalmente pragmatica della sua mente. Era stato Harry a scegliere quel casotto per loro due, invece di altri più spaziosi, per un motivo molto particolare: Raza aveva spostato dal muro la sua branda e battuto sul pavimento fino a sentire il suono cupo che confermava la teoria di Harry sulla famiglia svanita nel nulla che ci aveva abitato, secondo le storie del luogo. (Quando Raza aveva chiesto: «E il bambino morto?», Harry aveva risposto: «Era solo un bambino morto».) Raza vagò per la stanza, prese tutto quello che gli poteva tornare utile — un grosso zaino, una bottiglia di acqua minerale, una pila, barrette di cereali, una chiave, il passaporto pakistano e la green card. Riempì il considerevole spazio che rimaneva nello zaino con i soldi che Harry teneva pronti per comprarsi la lealtà degli afghani. Esitò un momento davanti alla foto di Hiroko, Ilse e Kim a New York, poi decise di non prenderla. Non voleva avere addosso niente che lo collegasse a qualcun altro. Tuttavia prese il bomber di Harry: il suo era troppo sudicio, e l’odore avrebbe potuto attirare gli animali. La galleria era stretta e coperta di muffa, troppo bassa perché si potesse camminare in piedi. Raza pensò a Harry, che giusto qualche settimana prima si era chinato e messo di traverso qui dentro per riuscire ad avanzare. «Mi sento come Alice nel Paese delle meraviglie quando è bloccata in quella casa» si era lamentato. Raza, che era abbastanza minuto da poter camminare senza troppo disagio, aveva risposto ridendo che se mai avessero dovuto servirsi del tunnel per scappare sarebbe passato lui per primo, visto che con tutta probabilità Harry sarebbe rimasto incastrato. «E se fosse? Mi lasceresti qui?» aveva detto Harry, inciampando in una pietra mentre si voltava per sorridere all’altro — ecco, qui la luce della torcia appesa alla parete mostrava a Raza la macchia di sangue uscito dalla tempia di Harry. Raza si terse le lacrime dal viso e le sfregò sul sangue di Harry. Poi, piegando il collo in una posizione scomoda e goffa, Raza premette le labbra contro il sangue umido. Che tuttavia non gli sembrò vero. Era trascorsa quasi un’ora quando sbucò infine dalla galleria, in una costruzione priva di tetto che puzzava vagamente di bestiame, malgrado 289
non ci fossero segni di vita. L’odore veniva dal telo cerato grigio che Harry aveva scovato in una stalla piena di escrementi di capra. Sotto c’era una jeep. . Tolse il telo, aprì la jeep con la chiave che aveva preso dal comodino di Harry e uscì in macchina dalla stalla abbandonata. Nell’oscurità intravedeva appena la sagoma delle montagne: erano il confine, il Pakistan. Si fermò e consultò il navigatore satellitare. Il Pakistan era la meta più ovvia. Per lui, ma anche per Steve. Forse al confine avrebbe potuto convincere le guardie a chiamare il capitano Sajjad Ashraf, il quale avrebbe assicurato che Raza era solo uno dei tanti connazionali che gli americani consideravano avversari dopo aver spremuto tutto il possibile da loro. Il problema maggiore, tuttavia, erano i cacciatori di taglie che si aggiravano nei pressi del confine in cerca di «combattenti nemici». Scese dalla jeep e sbottonò la capote. Le stelle luccicavano malevole. Una semplice telefonata di Steve — che forse era già stata fatta — e sarebbe stato inserito nelle banche dati di tutto il mondo come sospetto terrorista. I suoi conti correnti sarebbero stati bloccati. Il telefono di sua madre messo sotto controllo. E-mail, traffico internet, carta di credito e telefonate avrebbero cessato di essere i segni della vita quotidiana — grazie ai quali si districava nel groviglio delle amanti e risaliva a una telefonata alle tre e un quarto di notte con Margo, alla poesia che aveva inoltrato ad Aliya, alla scatola di sabbia di Miami spedita per corriere a Natalie — per trasformarsi in tutt’altro genere di prova. Il fatto che nulla al mondo potesse dimostrare che era l’assassino di Harry Burton sembrava quasi irrilevante, rispetto a ciò che poteva capitargli prima che si riuscisse a stabilirlo. Sempre che qualcuno si curasse di farlo. Mai più di adesso si era sentito impotente per il semplice fatto di essere pakistano. Forse avrebbe dovuto tornare: rifare il tunnel e andare da Steve. Avrebbe potuto spiegare la faccenda del cricket e del fratello di Abdullah e del comandante: Kim Burton avrebbe potuto attestare che le aveva telefonato per parlarne. Ma cosa avrebbe dimostrato? Soltanto che voleva aiutare un tale che non vedeva da vent’anni, in fuga dall’FBI. Se Steve cercava conferma del fatto che Raza stava dalla parte di qualche combattente musulmano l’avrebbe trovata proprio lì, nelle parole di Kim Burton. Appoggiò la testa alla portiera e si lasciò sfuggire un mugolo patetico. 290
No, non poteva più tornare indietro: né al compound né alla sua vita. Aprì lo zaino, buttò via il passaporto e la green card e guardò il vento ricoprire di sabbia fine i documenti che facevano di lui un cittadino in regola. Ancora per un istante respirò a fondo l’aria del deserto: circondato da quella vastità indifferente, provò il terrore del reietto. Poi tornò alla jeep e impostò la rotta nel navigatore satellitare. A New York, Hiroko faceva sempre in modo di sedersi dalla parte opposta al volante, in modo che i tassisti potessero vederla mentre parlavano di sé o di qualsiasi altro argomento: la lontananza dalle famiglie rimaste a casa, l’ambiente esclusivamente maschile che frequentavano a New York, qualche particolare dello sciopero, delle licenze e del leasing, la commissione comunale e l’associazione di categoria, assicurazioni e garage. Da questi discorsi Hiroko cominciò a capire molte cose di questo movimentato gruppo di immigranti, e a saperne di più sulla loro rete di comunicazione: le radio CB, i cellulari, le conversazioni nei parcheggi, le pensioni private e la Taxi Workers’ Alliance. Era stata l’efficacia di questo sistema di comunicazione — e la disponibilità di Omar Gujranwala a servirsene — a indurla a recarsi nella sala di lettura della New York Public Library quattro giorni dopo la morte di Harry Burton. Mentre entrava in quella stanza cupa, a cui tutte quelle lampade sugli scrittoi conferivano un’atmosfera intima, Hiroko si era sentita di nuovo un’insegnante alla vista di tutte quelle teste chine sui libri, in quell’ambiente che solo il ronzio della concentrazione e il fruscio delle pagine voltate strappavano al silenzio, per consegnarlo a una confortevole quiete. Percorse il corridoio fra gli scrittoi, sul pavimento lucido che il riflesso dei lampadari trasformava in un fiume di bronzo. A metà della stanza, un uomo dagli occhi castani e dalle spalle larghe, che indossava un maglione verde scuro, sedeva composto con le dita posate con delicatezza sulle pagine di un libro. Dal nastro isolante blu che gli teneva insieme la montatura degli occhiali Hiroko lo identificò come l’uomo che era venuta a incontrare. Si sedette nel posto libero accanto. Nello sguardo dell’uomo la fiducia lasciò posto al disagio: si alzò portandosi via il libro e scelse un’altra sedia che aveva dei posti liberi su entrambi i lati. Un vecchio dai lineamenti avvizziti seduto di fronte a Hiroko aggrot291
tò le sopracciglia e disse: «È afghano. Non gli piacciono le donne». Hiroko fece un sorriso di cortesia e si fece strada lungo il tavolo fino a uno dei posti liberi di fianco all’afghano con gli occhi nocciola e il mento più chiaro del resto del volto. Lui la ignorò e continuò a fissare una fotografia del suo grosso libro: un frutteto rigoglioso su uno sfondo di montagne. «Abdullah, sono la madre di Raza». La reazione fu immediata: scostò rumorosamente la sedia dal tavolo, con un’espressione incredula in volto. Lei gli toccò il braccio e lui si bloccò, riconoscendo Raza nei lineamenti di lei. «Raza non è un hazara. Io sono giapponese e suo padre era pakistano. Nato a Delhi. Ci siamo trasferiti a Karachi nel ‘47». Il suo accento — Karachi mescolato a qualcos’altro — smentiva l'assurdità di quella spiegazione. Inoltre, Abdullah aveva sentito cosa aveva detto l’altro sugli afghani e le donne, e adesso quella mano posata sul suo braccio gli pareva un modo per respingere il commento. Spinse di nuovo la sedia verso il tavolo. «Ma Raza è in Afghanistan». «Sì». «Perché?» Lei scosse il capo e fece un gesto che non indicava soltanto l’incapacità di capire, ma anche il proprio fallimento. Non avrebbe mai pensato che suo figlio potesse lavorare nel settore bellico. Vedendo che Abdullah continuava a fissarla con uno scetticismo che aspettava solo di essere smentito, lei indicò la foto a doppia pagina nel libro. «Che meraviglia» disse. «È Kandahar. Prima delle guerre». Ci passò sopra la mano, come per sentire la consistenza dei melograni maturi sulla pelle. «Prima hanno abbattuto gli alberi. Poi hanno messo mine dappertutto. E adesso...» Strinse le dita insieme, poi le aprì di scatto. «Le bombe a grappolo». Voltò pagina sulla fotografia di un coppia molto anziana: i due camminavano fra le dune di sabbia, la donna in abiti variopinti, l’uomo con la mano posata sulla spalla di lei, come se nel suo grigiore temesse di diventare parte del deserto, se non si fosse tenuto ancorato a quella 292
colonna colorata che era la moglie. Il cielo era di un azzurro incredibile. «Che luce» commentò Abdullah. «Questa luce c’è soltanto in Afghanistan». Hiroko annuì e sfiorò la pagina con la stessa riverenza. Era difficile trovare foto di Nagasaki prima della bomba, ma Kim le aveva regalato le foto di George Burton che erano rimaste in famiglia — Azalea Manor, il Bund, il Megane-Bashi durante una piena del fiume — e guardandole Hiroko si sorprendeva di come l’infanzia potesse avere il sopravvento sulla sua mente ormai anziana. Abdullah continuò a sfogliare il libro; su certe immagini si fermava per un attimo, su altre a lungo. Ogni tanto indicava un particolare — una capra che si alzava sulle zampe in una posa da ballerina, un aquilone che volava alto sopra una cupola del suo stesso verde, al punto che l’aquilone pareva una tegola volata via. A volte indicava qualcosa e ne diceva il nome in pashto; lei ripeteva la parola, compiacendosi quando trovava un’affinità con l’urdu, felicissima quando la somiglianza era con le espressioni hindko che aveva appreso ad Abbottabad. Giunti all’ultima pagina Abdullah chiuse il libro e disse: «È là che vorrei vivere». «In Afghanistan?» «Nell’Afghanistan di allora». Dopo di che parlò ben poco, finché uscirono insieme per strada, nella luce opaca di fine pomeriggio. Il freddo non aveva nulla della ferocia di cui era capace in quel periodo dell’anno, eppure Abdullah si calò un berretto di lana fino agli occhi e si avvolse intorno al collo una pesante sciarpa di lana. «Non era nemmeno afghano ed è venuto a combattere con noi. Non era pathan e parlava la nostra lingua. E io l’ho fatto mandare via». Hiroko non sapeva di cosa stesse parlando. «E invece di odiarmi, sta ancora cercando di aiutarmi». Quando capì, Hiroko voltò il capo, rimpiangendo di non aver cresciuto un figlio che rispondesse a un’immagine tanto gloriosa. Non era sicura che fosse giusto rivelare come stavano le cose: che suo figlio era un mercenario, che per aiutarlo non aveva fatto altro che telefonare a una donna che nemmeno conosceva, nel tentativo di scaricarle addosso 293
tutta la responsabilità, che malgrado le sue promesse non era tornato per il funerale di Harry e nemmeno si era curato di spiegare perché. Era stata quest’ultima mancanza a convincerla che il suo rapporto col figlio era un cumulo di menzogne: si sentiva ancora tradita, nel ricordare l’ultima volta che gli aveva parlato, poche ore dopo la morte di Harry, quando in un tono che le era sembrato del tutto sincero aveva detto: «Mamma, devo venire al funerale. Devo vederti, devo vederti». Ma poi, quando Kim lo aveva chiamato sul satellitare per chiedergli quando sarebbe arrivato e se gli andava di leggere qualcosa al funerale, un certo Steve aveva risposto che Raza non sarebbe tornato a New York né adesso né nel prossimo futuro, e che non poteva dire altro per motivi di sicurezza. Kim aveva riattaccato scuotendo la testa. «Papà l’ha proprio creato a sua immagine e somiglianza, eh?» Quando Hiroko aveva tentato di protestare, dicendo che doveva esserci una spiegazione, che Raza le aveva assicurato che sarebbe venuto al funerale, Kim aveva fatto sedere Hiroko davanti al computer e le aveva spiegato, con l’ausilio di internet, di cosa si occupava veramente la A&G. Mentre Hiroko stava ancora sforzandosi di sovrapporre il mondo delle milizie private all’immagine di suo figlio, Kim aveva aggiunto, nemmeno fosse cosa di poco conto: «E oltretutto pretendeva che facessi passare il confine a un clandestino afghano». «Avevo chiesto a mio fratello di sentire se Raza — è il suo vero nome? — conosceva qualcuno per farmi passare il confine. L’ultima cosa che volevo era che lo chiedesse a sua madre» rispose Abdullah, mentre dava qualche colpetto alla zampa di un leone di pietra con la familiarità di un rituale, sugli scalini della biblioteca. «Non ci tengo a metterla nei guai». «Non ti preoccupare» disse Hiroko, rimpiangendo il rifugio offerto dai libri. Passava tanto tempo dalle parti del Village che gli incroci regolamentati e frenetici del centro la facevano sentire prigioniera di un cruciverba impazzito. «Sai se tuo fratello ha più parlato con Raza dopo che...» Stava per dire «dopo che è morto Harry», ma si bloccò. «Insomma ci ha più parlato o no?» «Non so. Lo chiamo fra tre giorni». Poi aggiunse, quasi in tono di scusa: «Non ha il telefono in casa. Una volta alla settimana va ai telefoni pubblici». Si tolse di tasca un cellulare e lo guardò pensosamente. 294
«Siamo convinti che a tante cose non ci abitueremo mai, e invece...» «È tanto che sei a New York?» Non aveva idea di chi avrebbe incontrato, venendo qui; l’unica certezza era che doveva scoprire questo pezzo misterioso della vita di suo figlio. Adesso, però, non vedeva in lui il ragazzo che aveva trascinato Raza in una vita fatta di violenza, ma solamente un uomo che sapeva bene cosa significasse perdere il proprio paese e non potervi ritornare. Aveva guardato la foto dei frutteti di Kandahar come Sajjad guardava quelle della sua mohalla di Dilli. «Sono stato coi mujaheddin finché non se ne sono andati i sovietici. Ma poi la pace non è mai arrivata. E non volevo vedere gli afghani che combattevano contro gli afghani, i pathan contro gli hazara... quello no. Così sono tornato a Karachi, per quattro anni». Passò all’urdu. «Facevo il camionista. Ogni volta che andavo al porto del pesce buttavo l’occhio per cercare Raza Hazara. Però i miei fratelli dicevano che uno di noi doveva andare in America per far soldi. Io ero il più giovane, quello più in forma, avevo più possibilità di sopravvivere al viaggio. E mi ero appena sposato, per cui mi sarei lasciato alle spalle solo una moglie, senza figli». «Sei sposato?» «Sì» rispose lui, poi con un gran passo in avanti sollevò di peso un ubriacone che stava sbandando verso Hiroko e con una pacca sulla spalla lo mise giù di nuovo, via da lei. In quel gesto lei vide tutto il suo carattere, ma lui non se ne accorse. «Non è stato facile lasciarla, ma i miei fratelli erano tutti in guerra o cercavano di coltivare la terra in mezzo alle mine, e a Karachi io non guadagnavo abbastanza per mantenere tutti. Così sono venuto qui nel ‘93. E da allora non ho più visto nessuno. Né i miei fratelli né mia moglie. Sei mesi dopo che me n’ero andato ha avuto un figlio. Sapeva di essere incinta, ma non voleva farmi soffrire ancora di più. Quindi andarmene da qui non sarà tanto male. Vedrò mio figlio, mia moglie. La luce dell’Afghanistan. Mica male, no?» Guardò Hiroko con un’espressione incerta, e a lei venne voglia di piangere.
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Tre giorni prima, appena fuori da Kandahar, due pathan erano scesi da una jeep e ancor prima di posare i piedi a terra avevano impugnato i fucili nascosti sotto i sedili. Al passeggero seduto dietro, che muoveva da una parte all’altra la testa, i due uomini sembravano tagliati in più parti, con l’effetto di angosciarlo, oltre che confonderlo. Uno dei due si era guardato attorno nel compound in cui erano entrati, in silenzio nel sole di metà pomeriggio. «È sicuro» aveva gridato alla sagoma seduta dietro. La figura ammantata era scesa incespicando dalla macchina, tentando allo stesso tempo di scoprirsi, manovra che ebbe come risultato una massa scomposta sul terreno fangoso e un grido di esasperazione. «Tranquillo» disse ridendo uno dei due uomini. «Ce l’hai addosso da quasi dieci ore, non morirai se lo tieni mezzo minuto in più». Ancora a terra, Raza si levò il burqa — tirando come una furia nel punto in cui era fissato alla testa — e lo buttò da una parte. Si alzò sui gomiti e respirò a fondo, quasi strozzandosi, ma sorrise quando i suoi occhi poterono muoversi di qua e di là e la brezza leggera gli sfiorò la pelle. «Vieni a bere un po’ di tè» disse il più alto dei due mentre si incamminava verso una delle case di fango. «No, non ho tempo». Si alzò in piedi e porse il burqa al più basso dei due. «Grazie per il travestimento». «Grazie a te per il passaggio» rispose l’altro. Poi indicò il burqa. «Tienilo, può ancora servirti». «Ti ringrazio». Raza si buttò in spalla il telo ormai innocuo. «Ma forse preferisco farmi prendere dagli americani». Pochi minuti prima, una donna vestita come Raza era uscita da una delle case guardando verso di lui. Raza l’aveva guardata a sua volta, immaginando come doveva vederlo a scacchi, e si era chiesto se lo avesse osservato dalla finestra mentre si strappava di dosso il burqa e lo 296
gettava in terra: aveva pensato per un attimo che fosse il gesto di una donna? Abbassò in fretta gli occhi prima che il suo sguardo venisse travisato. O correttamente inteso. Gli pareva che sarebbe impazzito, se a breve non avesse visto il volto di una donna o sentito la sua voce. «Dopo che hai bevuto il tè posso darti un passaggio fino al tempio. Qui gli hazara non sono tanto popolari, nemmeno quelli che parlano pashto bene come te». Era la prima volta che qualcuno nominava gli hazara. All’inizio del viaggio aveva visto quei due uomini che si allontanavano da una macchina finita in un fosso, col semiasse spezzato, e si era offerto di portarli fino a casa loro, nei dintorni di Kandahar. Dopo qualche minuto in loro compagnia aveva capito che per farseli amici sarebbe bastato dire che era in fuga dagli americani. «Hai viaggiato abbastanza» disse Raza. «Ma tornerò per approfittare dell’invito a cena». Pochi minuti dopo — cacciata giù una tazza di tè verde, opzione più sbrigativa che rifiutare l’ospitalità di un pathan — usciva in macchina dal compound con la lingua e la gola in fiamme, e si allontanava da Kandahar. Vent’anni prima, a Sohrab Goth, nei ristorantini lungo la strada o nella cabina del camion con la testa del sovietico morto dipinta sopra, Abdullah gli aveva decantato le bellezze della città: lo smeraldo nel deserto i cui alberi davano per frutto le poesie, la cui lingua era dolce come un fico maturo. L’occhiata di sfuggita che aveva lanciato alla città, invece, non gli aveva rivelato altro che polvere, ferocia, e — un mese dopo la vittoria dei talebani — nemmeno una donna scoperta. La strada per il santuario di Baba Wali era ancor più tortuosa di quella che portava alla periferia di Kandahar. Se avesse dovuto scegliere fra una donna e un’autostrada, Raza non avrebbe saputo decidere. Ovunque, i resti di bombardamenti americani: una porta piantata a terra senza sostegno in un campo pieno di mattoni, una specie di raccolto miracoloso; per strada crateri sparsi come dopo una pioggia meteorica; metallo nero a forma di una jeep in verticale. Se un donna in burqa si fosse trovata vicino a quella jeep in fiamme — pensò Raza — si sarebbe ritrovata con una reticella tatuata sulla faccia? Era così che aveva ricordato di continuo sua madre, mentre viaggiava verso Kandahar. Chissà come, era diventata parte del dolore per la morte di Harry, sebbene il collega297
mento gli sfuggisse. Quando finalmente arrivò al santuario, per prima cosa scese dalla jeep e si rotolò a terra. L’erba! Erba verde, che gli solleticava la pelle. Ne strappò una manciata e se la strofinò sul volto, sulle braccia e sul collo, poi andò verso la terrazza di marmo che circondava il santuario, al quale le cupole turchesi davano un aspetto delicato. Qui, finalmente, intravedeva il mondo a cui Abdullah si aggrappava, la bellezza perduta che gli aveva consentito di affrontare la grottesca violenza della guerra. Non fu al santuario con le sue tegole variopinte che Raza prestò attenzione, e non era questo il motivo per cui Abdullah veniva qui ogni pomeriggio con la famiglia, prima che i sovietici li separassero dal santo che veneravano da generazioni. Era dei frutteti lì attorno che aveva parlato Abdullah, del fiume che scorreva veloce e delle montagne più in là, che a sentire i suoi fratelli erano le schiene ricurve di mostri addormentati. Raza si levò scarpe e calze e attraversò il pavimento di marmo in direzione del fiume Arghandab, lasciandosi il santuario alle spalle. A differenza di Kandahar, qui restavano abbastanza tracce di come doveva essere stato una volta. Una scacchiera di campi verdi e marroni, un verde ricco e vivido; al di là il fiume luccicante e ancora oltre, nella foschia pomeridiana, i monti scolpiti in un cielo senza nuvole. Il primo ad avvicinarsi fu un poliziotto, che volle sapere chi era e cosa faceva. «Il mujaheddin che mi ha insegnato a sparare venerava Baba Wali» disse Raza. Il poliziotto annuì e lo lasciò in pace. Poi arrivò un altro uomo, col volto mezzo sfigurato. «Conoscevi un mujaheddin che veniva qui?» «Sì. Puoi aiutarmi a rintracciare la sua famiglia? Sono in debito con lui e lo voglio ripagare». L’altro si grattò la guancia che gli rimaneva. «Forse sì. Sei un hazara?» «No. Non sono afghano». L’uomo aspettò una spiegazione, ma Raza si voltò a guardare il panorama. «I suoi parenti erano contadini di queste parti. Ogni venerdì veniva298
no al santuario. Lui era Abdullah Durrani, figlio di Haji Mohammed Durrani. Erano cinque fratelli, tutti mujaheddin. Il più vecchio è diventato un martire nel primo anno di occupazione sovietica, quando un MIG ha fatto fuoco sul convoglio d’armi che stava trasportando». Sapeva quanto fosse scortese non rivelare nulla di sé, ma non riusciva più a vagliare ogni parola. L’uomo si allontanò. Raza sedette sul marmo fresco, all’ombra del santuario, e pensò a Harry. Tornò il poliziotto con un bicchiere d’acqua. Raza stava osservando un ragno che strisciava sul pavimento — il ricordo andò a quando Harry gli aveva chiesto dei ragni nell’islam, la storia che Sajjad aveva raccontato a Konrad, Konrad a Hiroko, Hiroko a Ilse e Ilse a Harry — quando si sentì chiamare per nome. Era un tipo col naso adunco, i capelli ispidi e una barba lunga fino al petto. «Raza Hazara» chiamò ancora, e Raza ricordò il sorriso inaspettatamente giovanile di quell’uomo, il giorno in cui aveva accompagnato i due ragazzi al campo dei mujaheddin. Tutto in lui appariva vecchio, adesso. «Perché gli hai detto che non sei afghano?» «Gli americani ti cercheranno» disse Raza, alzandosi in piedi per sentirsi meno intimidito. Sorpreso, si rese conto di essere più alto del fratello di Abdullah. Come si chiamava? «Voglio dire, stanno cercando l’uomo che mi ha chiamato... ieri». Sembrava essere passato molto più tempo. «Lo credono... Ti credono coinvolto nell’uccisione di un americano». L’altro rise. «Gli americani non sono molto bravi a trovare la gente in Afghanistan. Perché lo pensano? Sei coinvolto nell’assassinio di un americano?» Raza pensò a come Harry prendeva in giro certi mercenari che si toglievano il giubbotto antiproiettili soltanto per prendere il sole: un momento delicato in cui veniva raddoppiato il numero di guardie sulla torretta. «Sì» rispose. «Bravo. Sei venuto per avvertirmi? Che mi stanno cercando? Non c’è problema. Ti ho telefonato da un posto pubblico, e il tipo che lo ge299
stisce è un vecchio amico. Abbiamo le cicatrici della stessa battaglia. E comunque siamo a Kandahar: qui nessuno aiuta gli americani. Non siamo come voi hazara». «Sei un talebano?» La domanda era uscita troppo brusca, e il tono — se ne rendeva conto — era accusatorio. L’altro scrollò le spalle, un gesto che per qualche motivo gli ricordò Abdullah. «Per loro ho vent’anni di troppo. Sono un contadino. Aspetta qui». Entrò nel santuario e Raza lo guardò pregare vicino alla tomba del sufi: vederlo lo indusse a chinare il capo a sua volta e a mormorare la Sura Fatiha, ma non per qualcuno che era morto da secoli. «Sai a chi piace tantissimo venire qui?» disse il fratello di Abdullah. Ismail! Ecco come si chiamava. «Al figlio di Abdullah». «Ha un figlio?» «Si chiama Raza». Davanti all’espressione confusa dell’altro, Ismail fece un cenno con la testa. «Sì, l’ha chiamato come l’amico che aveva tradito quando era solo un ragazzo. Raza, il nostro Raza, non ha mai conosciuto il padre, ma si parlano al telefono una volta al mese. Abdullah gli chiede sempre se gli sono cresciute le mani abbastanza da tenere il melograno più grande di Baba Wali». Indicò il frutteto vicino alla terrazza. «Così ogni settimana il nostro Raza viene qui, qualche volta per conto suo, di nascosto. Però, adesso che quei bastardi sono tornati al potere non ha il permesso di uscire da casa da solo. È un bellissimo bambino, Allah sia lodato, ma forse di questi tempi è una maledizione». «Perché?» «Per via del nuovo governatore e dei suoi uomini. Sono gli stessi che comandavano prima dei talebani. A quel tempo non erano al sicuro né le donne né i bambini: poi i talebani li hanno spodestati, hanno liberato le donne rapite e cacciato i dittatori che si contendevano i ragazzi nei bazaar». «Quindi li avete sostenuti? I talebani?» Stava cercando di capire che uomo fosse diventato Abdullah, tramite il fratello che un tempo aveva venerato. «Te l’ho detto, io sono un contadino. A me interessa seminare e mietere. Capisci? E per farlo ho bisogno della pace. Della sicurezza. In 300
cambio posso rinunciare a tante cose». Appoggiò la mano al muro del santuario. «È per questo che ho combattuto: per il diritto di tornare qui con la mia famiglia, di coltivare la terra all’ombra di Baba Wali, di venire al santuario ogni venerdì come ha fatto la mia famiglia per generazioni. Voglio vedere i miei figli che si misurano le mani su un melograno, non su una granata. Ma i talebani non sanno niente di sufismo e di frutteti. Sono cresciuti nei campi profughi senza ricordi di questa terra, pensano solo a lottare contro gli infedeli e gli eretici. Così quando sono arrivati hanno portato delle leggi diverse dalle nostre. E allora? Hanno proibito il calcio? Io vivo lo stesso. Hanno proibito la musica? Mi dispiace, sì, ma quando vedo crescere il raccolto, o i miei figli camminare per strada senza paura la musica ce l’ho nel cuore». «E le tue figlie?» «Hazara, le mie figlie non ti riguardano». Raza lo guardò impassibile per un attimo, poi si voltò e se ne andò. I talebani, la salvezza dell’onore femminile! Bene, aveva fatto quello che voleva fare: aveva avvertito Ismail e adesso non era più un suo problema se Steve lo trovava. Poteva tornarsene con la coscienza a posto dai suoi nuovi amici, i due pathan che avevano promesso di fargli passare il confine senza problemi, da una strada non pattugliata che i combattenti talebani usavano spesso. Una volta in Pakistan, tuttavia, non sapeva bene cosa avrebbe fatto. A parte visitare la tomba di suo padre. Gli doveva almeno questo. «Raza Hazara!» Ismail gli afferrò la mano. «Ti prego, non andare via. Dimmi di mio fratello. Hai trovato un modo per farlo arrivare in Canada?» Davanti al silenzio di Raza, Ismail arretrò e si irrigidì, come se avesse voluto implorarlo ma non ne avesse il coraggio. «Dicevi che deve arrivare in Canada entro il 10 febbraio?» «La nave parte quel giorno». «Quale nave?» «Quella per l’Europa. Da lì potrà raggiungere l’Iran via terra, attraverso il deserto, e poi sarà a casa. Di solito è il mio raccolto di papaveri a fare quel tragitto. Stavolta invece sarà mio fratello, nel verso opposto». «Potresti...» Raza si bloccò. Gli sembrò di sentire la voce di Harry 301
che diceva: Pensaci bene. Quando i due pathan si erano offerti di fargli passare il confine, la proposta gli era sembrata troppo allettante per rifiutarla, e gli aveva fatto dimenticare tutte le sue precedenti cautele. Invece ci aveva visto giusto: Steve si aspettava che andasse in Pakistan, che andasse alla tomba di suo padre a Karachi e da suo zio a Lahore. Gli avrebbero messo l’ISI alle calcagna: in quel modo si sarebbe ricementata l’amicizia con gli americani e dimostrato che lui per l’ISI non era strategico; non avevano motivo di tirarsi indietro. E l’avrebbero trovato. Eccome se l’avrebbero trovato: era pur sempre dell’ISI che si stava parlando. E in tutto il tempo che aveva lavorato per la A&G nessuno lo aveva terrorizzato tanto come quel tipo col fazzoletto di carta rosa. Premette la mano su una colonna di spirali bianche e grigie e rimpianse che Harry non fosse lì a distinguere la realtà dalla paranoia, la mossa inaspettata da quella assurda. Sentì la mano di Ismail sulla schiena. «Non stai bene?» Con un gesto Raza chiese un momento per pensare. Bilal, il suo compagno di classe, abitava in Canada. Lavorava a Toronto, era ingegnere. Abitava con i genitori, la moglie e i figli, e quando Hiroko doveva rinnovare il visto per rimanere in America oltrepassava il confine e andava a trovare la madre di Bilal, sua vecchia amica e vicina di casa. Lo faceva ogni sei mesi. Non ci sarebbe stato niente di strano, niente di nuovo, se l’avesse fatto ancora. E Bilal le avrebbe dato il benvenuto, senza dubbio. Si erano visti a Miami qualche anno prima, e l’amicizia era stata confermata quando buttandogli le braccia al collo Bilal aveva detto: «Mi ha raccontato mia sorella di come ti ha trattato male tanti anni fa. Magari avesse sposato te, invece di quel batterista cecoslovacco pieno di tatuaggi». A Raza, l’idea sembrò del tutto inverosimile. Raza si girò verso Ismail. «Puoi farmi arrivare in Canada?» «Perché?» Perché? Come spiegare il desiderio atroce di vedere sua madre? Gli pareva che tutto il suo mondo fosse scomparso in un lampo e non restasse che lei: un faro, un talismano, un punto verso cui correre, invece di correre e basta. 302
«Al mondo c’è una sola persona a cui voglio bene. Potremmo trovarci lì». E poi, dopo averla vista, avrebbe deciso il da farsi. Ma innanzitutto doveva vederla. Il resto non aveva importanza. Nessun altro aveva importanza. Ismail lo trascinò in un abbraccio inaspettato. «Tutti gli altri sono morti? Allah, cosa abbiamo fatto noi afghani per meritare tanti dispiaceri?» Raza posò la testa sulla spalla di Ismail, ben sapendo che di tutti gli abbracci che aveva ricevuto, questo era quello che meritava di meno.
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In un angolo dell’attico su Brickell Avenue, in mezzo a una montagna di scatoloni Kim Burton era seduta per terra, la testa appoggiata al muro e un bicchiere di scotch in equilibrio sul ginocchio. Non ne beveva mai, tantomeno a metà mattina, ma le rare telefonate che suo padre le aveva fatto da qui cominciavano quasi tutte con l’esortazione: «Tienimi compagnia mentre bevo qualcosa». Oggi, dunque, stringere quel bicchiere era un male necessario, la prima volta che veniva nell’appartamento dove suo padre aveva vissuto per dieci anni. Presto sarebbero arrivati i traslocatori, che avrebbero portato in un magazzino tutta la roba di Harry. Forse un giorno sarebbe riuscita a passarla in rassegna per decidere cosa valesse la pena di conservare, ma adesso no. Adesso avrebbe preso solo il computer portatile, nella cui memoria la cartella più grande era piena di fotografie di Kim, video di Kim, scansioni di sue lettere, delle sue pagelle, della sua tesi di laurea. La foto più recente di loro due insieme risaliva a otto anni prima ed era stata scattata solo perché Ilse aveva insistito. L’appartamento era diverso da come se lo immaginava. Non avrebbe detto che a suo padre interessasse l’arredamento: si aspettava una libreria ordinatamente riempita di saggi, altri mobili costosi e del tutto privi di personalità, pareti nude e un frigorifero vuoto. Invece sul pavimento c’erano grandi cuscini a disegni cashmere, spessi tappeti persiani, una bella spada antica appesa al muro, un frigo zeppo di salse e condimenti, capperi e pepe nero, e ovunque scaffali pieni di poesia e narrativa in inglese, in tedesco e in urdu. E almeno otto copie delle Filastrocche di Mamma Oca. Come dire che quando era arrivata c’erano delle cose. Adesso restavano solo gli scatoloni. Kim si chiese che parte di sé avrebbe perduto con la scomparsa del padre. Nel caso di Ilse era stato ovvio: la Kim espansiva, un po’ petulante e protettiva che esisteva soltanto in presenza della nonna, e i discorsi che solo con lei poteva fare. Invece tutto ciò che riguardava il dolore per Harry era vago e mortificante. Diede un calcio al computer 304
posato a terra: era tipico di suo padre accumulare prove per dimostrare che era stato attento, invece di esserlo veramente. I passi di un uomo, precisi e misurati, si fecero strada nel tunnel di scatole impilate. Sorpresa della propria reazione, Kim si irrigidì, mentre la sua immaginazione creava l’immagine di un tizio barbuto, armato di kalashnikov. «Signorina Burton?» Era Tom, il portiere. «Non riuscivo a chiamarla». Guardò il citofono con la cornetta penzolante a pochi centimetri da terra, poi si voltò di nuovo verso di lei, fingendo di non aver notato il bicchiere di scotch. «Sono arrivati i traslocatori. Li faccio salire?» «Certo». Si alzò e si spolverò con la mano la canottiera di cotone e i pantaloni da lavoro. «Mi scusi, Tom». «Non c’è problema, signorina Burton. Mio fratello lavora alla A&G, il posto glielo ha trovato il signor Burton. Mi ha detto che suo padre è morto in Afghanistan, per cercare Bin Laden. Deve essere orgogliosa di lui». Da quando in qua l’orgoglio neutralizza il dolore? Lei suo padre lo voleva vivo. Cosa ci faceva quest’uomo qui impalato, perché insinuava che certi modi di morire rendono la fine sopportabile? «Se suo fratello lavora alla A&G, magari potrebbe chiedere a uno dei pezzi grossi di richiamarmi». Nei cinque giorni successivi alla morte di Harry non aveva più avuto notizie di Raza: era diventato così dopo aver perso il padre, aveva detto Hiroko. Sempre in fuga. Non ha mai fatto altro, e l’ha imparato da me. Eppure, da quando aveva messo piede in casa di suo padre a Miami, Kim sentiva un bisogno impellente di parlargli. Era l’unico che potesse raccontarle gli ultimi minuti di Harry. Se non addirittura la sua vita. Ieri lo aveva cercato tutto il giorno sul satellitare e lo stesso aveva fatto oggi; quel non ricevere risposta la metteva in ansia. Chi era questo Steve, perché aveva risposto lui al telefono di Raza? Non intendeva allarmare Hiroko, però aveva chiamato più volte la A&G e aveva lasciato tre messaggi per quei tali che al funerale le avevano stretto la mano e avevano parlato con tanto calore di Harry. Tom aveva l’aria di aver preso una sberla. «È solo un autista. Non ha tanta influenza». «Mi dispiace. Davvero, Tom. Sono così... arrabbiata. Mi capisce?» 305
«Lo siamo tutti, signorina Burton». Mentre i traslocatori rimuovevano dall’appartamento i segni della presenza di suo padre, Kim aspettò sul balcone e guardò la sede della A&G a pochi isolati di distanza. Una volta Harry le aveva detto di odiare quella zona, il «Millionaires’ Row»: il figlio snob di James Burton aborriva l’ostentazione. L’amministratore delegato aveva però insistito perché abitasse il più vicino possibile all’ufficio, spiegandogli che quando hai solo un paio d’ore fra una giornata di lavoro e l’altra è meglio non fare i pendolari. E poi Raza era venuto a vivere al secondo piano e si era innamorato del quartiere, così Harry non aveva più pensato a trasferirsi. Per entrare in casa di Raza, Kim aveva usato la chiave contrassegnata con una R che aveva trovato nel cassetto delle posate di Harry. Non si era chiesta perché, lo aveva fatto e basta. Vi aveva trovato l’atmosfera che si era aspettata dall’appartamento di suo padre: tanta tecnologia e zero personalità. Ma poi ripensò alla camera di Hiroko così disadorna, tranne che per il dipinto delle due volpi, e ipotizzò che Raza avesse optato per un gusto giapponese. Le venne il dubbio che fosse un concetto razzista, ma era troppo stanca per ragionarci. Fece scorrere l’anta del guardaroba e notò subito, fra gli abiti appesi, una bella giacca di cashmere. Ne sfiorò il tessuto morbido, poi se la infilò. Le andava quasi a pennello, a parte le maniche un po’ lunghe. Frugò nelle tasche, toccò qualcosa di secco e tolse la mano di scatto. Con cautela la inserì di nuovo e tirò fuori una manciata di petali di rosa. Immaginò Raza che si riempiva le tasche qualche mese prima, durante la fioritura, e godeva di quel contatto sensuale e vellutato ogni volta che infilava in tasca le mani. Resasi improvvisamente conto della stranezza del proprio comportamento, Kim riappese la giacca alla gruccia e uscì di fretta. Adesso guardava dalla finestra il mare e, più in là, Miami Beach, collegata alla terraferma dalla struttura antisismica del McArthur Causeway. Le fondamenta: fusti perforati da 210 centimetri nell’acqua, e da 120 nel terreno. Ma se ci fosse piombato addosso un aereo? Se degli uomini col petto imbottito di dinamite, a ricoprire la follia nei loro cuori avessero...? Se un afghano con un AK-47 ci si fosse arrampicato sopra e avesse fatto fuoco? No, lui non avrebbe fatto danni. Non sarebbe bastato per far crollare il mondo. Uno dei traslocatori uscì sul balcone per avvisarla che avevano finito. 306
«Vi piace il whisky? Ce n’è un paio di bottiglie sotto il lavandino, io non le voglio». Il traslocatore fece due passi indietro e agitò in aria le mani. «No, no!» Kim lo guardò meglio. Le era sembrato un tipo mediterraneo, ma adesso capì che doveva essere arabo. «Musulmano?» Lo chiese in un tono che voleva suonare distaccato, per dirgli che non gliene voleva, anzi si dispiaceva del modo di fare della gente negli ultimi tempi. L’altro scoppiò in una risata sprezzante. «No, non lo dica nemmeno. È che durante i traslochi non possiamo prendere niente dalle case, nemmeno se ce lo regalano. È solo questo il motivo. Le sembro arabo? Sono italiano». «Errore mio» si scusò lei. «Speriamo che non si sbagli nessun altro». «Gli arabi sono brava gente, per lo più» si ritrovò a dire, poi si domandò come quel «per lo più» si fosse insinuato nella frase. «Ma no, non voglio essere razzista. Però è già curioso che mi prendano per cubano, ma arabo... per l’amor del cielo! E poi con Guantánamo proprio qui di fronte». Da quando era arrivata a Miami l’idea non le era nemmeno passata per la mente. Quello che le occorreva, stabilì durante il volo per New York, era un po’ di pace. E sapeva esattamente dove trovarla: nella baita di sua madre sugli Adirondack, un posto dove non c’era nulla che le ricordasse Harry e dove una diatriba sulla proprietà di una carcassa d’alce poteva finire in prima pagina oscurando qualsiasi altra notizia. Da giovane ci aveva passato un po’ di tempo d’estate: avrebbe potuto ritrovare i posti dove per la prima volta aveva ballato con un ragazzo, visto il mondo dalla cima di una montagna, fumato una canna, corso una maratona, e dove credeva di aver perso la verginità. In questo periodo sua madre non c’era — era solo d’estate o in pieno autunno che le veniva in mente di lasciare Parigi per lo stato di New York — ma questo non faceva che accrescerne il fascino. Vivere da sola in mezzo alle montagne, guardare la neve che cade sulle valli silenziose mentre il fuoco ruggisce nel ca307
mino, riconoscere tanti volti noti al telegiornale della zona... Sua madre le diceva che avrebbe trovato confortante una vita simile solo a sessant’anni, e Kim ne aveva sempre riso; adesso, a trentacinque, aveva una voglia disperata di sprofondare in quel mondo e di perdervisi come una lacrima in un lago. Solo Hiroko avrebbe potuto venire a trovarla, pensò mentre saliva in ascensore all’appartamento di Mercer Street. Era l’unica persona al mondo che non avrebbe considerato un’intrusa. Era quasi allegra quando aprì la porta per annunciarle il suo progetto. Appena entrò, dal divano si alzò di scatto un uomo con gli occhi castani e le spalle larghe. «È tutto a posto» disse Hiroko. «È Kim. Kim, ti presento Abdullah». Kim guardò l’uomo, poi Hiroko, poi di nuovo l’uomo. Per quanto annebbiata dalla sorpresa, allungò meccanicamente la mano. L’afghano la guardò, e la sua breve esitazione fu sufficiente perché Kim la ritirasse. «Che cosa ci fa qui?» domandò a Hiroko. «Mi dispiace molto per suo padre» disse l’afghano. «Adesso però è con Allah». «Allah accetta anche i miscredenti?» fece lei, e l’altro abbassò gli occhi. «Non ti aspettavo così presto» disse Hiroko con calma. Aggiunse qualcosa in urdu e l’afghano annuì, disse qualcosa a sua volta e uscì di casa senza più guardare Kim. «Che storia è questa?» disse Kim. «Che cavolo stai combinando? Cosa gli hai detto?» «Non c’è nessun bisogno che tu sia coinvolta» rispose Hiroko, prendendo in mano il suo libro. «Hai trovato qualcuno che lo porta in Canada, vero?» Hiroko non alzò gli occhi dal libro e Kim fece un gesto esasperato con le braccia. Se qualche amico di Hiroko era disposto a farsi tirare dentro a questa follia, la cosa non la riguardava. Adesso voleva solo farsi un bagno caldo e bere un bicchiere di vino. Qualche attimo dopo aveva strappato di mano il libro a Hiroko, e le 308
sventolava sotto il naso la chiave di una macchina. «E questa cos’è?» «Non ne ho idea». Kim alzò l’altra mano, in cui teneva il contratto dell’autonoleggio. «Qui c’è la tua firma. Chi mai noleggerebbe un’auto a una settantasettenne con una patente pakistana?» «Siamo a New York» rispose compiaciuta Hiroko. «Se paghi, tutto è possibile». «Cristo, Hiroko. Non penserai di portarcelo tu?» «Restane fuori, Kim». «Tu hai il passaporto pakistano. Ti fermeranno di sicuro». Sentiva il panico che le montava nella voce. «Non hai mai guidato a destra in vita tua, e nemmeno in autostrada. Fino a dove esattamente può spingersi la tua follia?» «Voi americani siete sempre così apprensivi sulla follia». «Apprensivi!» Kim si cacciò la chiave nella tasca della giacca. «Se non fossi tu, avrei il sospetto che mi stai manipolando». «Come manipolando? Dammi quella chiave, Kim Burton». «No. Lo porto io oltre il confine. Tu rimani qui. E non ti azzardare, Hiroko Ashraf, non ti azzardare a discutere. Aveva ragione Raza. La macchina di una come me non la perquisiscono». Hiroko guardò Kim con un’espressione che riassumeva l’esperienza di una vita nel comunicare scetticismo. «Pensi che sia il caso di fargli passare il confine?» Hiroko sapeva che Kim, più di ogni altro, era convinta che ogni gesto di protesta, ogni manifestazione di scontento potesse avvenire senza infrangere la legge. Rinnegare quell’assunto era per lei una forma di esibizionismo. «Se ti dico che lo faccio, vuol dire che lo faccio. Il resto non ha importanza». «Non voglio farti andare contro i tuoi princìpi». Per chi credeva nella moralità del proprio paese, Hiroko provava la stessa perplessità che aveva per i religiosi: le pareva insensato, ma non avrebbe mai tentato di strappare a qualcun altro la consolazione dell’ordine, per quanto fosse illusorio. 309
«Non lo farai» mentì Kim. «Insomma, vuoi che si salvi oppure no?» La discussione proseguì, ma fu in quel momento che capì di averla avuta vinta. Non aveva idea, tuttavia, che il giorno dopo, al risveglio Hiroko avrebbe ricordato, ormai troppo tardi, che quasi con le stesse parole James Burton aveva convinto Sajjad Ali Ashraf a partire per Istanbul.
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Arrivato a Mascat, Raza decise che quel tale col sangue nell’occhio aveva ragione: non aveva la forza mentale di sopportare il viaggio, era a pezzi. «Così!» aveva detto mentre spaccava un melograno su un tavolo. Poi dal frutto spezzato aveva delicatamente staccato un seme e strizzando l’occhio lo aveva offerto a Raza, e nel suo sguardo quel seme rubino aveva rimpiazzato la lacrima rossa nella cornea dell’altro. «È lui che aiuterà Abdullah a entrare in Canada» aveva detto Ismail, palesemente a disagio nel portare Raza in questo alloggio spartano nel bazaar centrale di Kandahar. L’uomo con l’occhio di rubino aveva fatto un gesto per schermirsi. «Di questo non mi importa. Abdullah ha già fatto il viaggio una volta: con un po’ di fortuna lo farà una seconda. Ma questa è un’altra faccenda. Lasciami solo con lui». Quando Ismail se ne fu andato, Occhio di Rubino fece cenno a Raza di sedersi. «Da come tieni stretta quella borsa, si direbbe che dentro ci siano lettere d’amore, oppure denaro. Spero per te che sia la seconda cosa. Non sei abbastanza disperato per sopportare il viaggio dei miserabili». Raza si tranquillizzò. Adesso era in un mondo che capiva, dove tutto diventava possibile, in cambio della cifra giusta. «Però dall’Iran a Mascat ti toccherà viaggiare come loro». Molte tazze di tè più tardi, Occhio di Rubino agitò la mano verso l’uomo che stava attraversando la stanza accovacciato, per raccogliere uno a uno i semi di melograno che Occhio di Rubino aveva lanciato contro il muro mentre trattava sul prezzo con Raza. «Hai appena perso il viaggio di prima classe per l’Iran, ma se aspetti qualche settimana...» «No» disse Raza, il cui zaino si era non poco alleggerito, malgrado il suo peso evidente suscitasse ancora lo stupore dell’altro. «Parto subito. L’Iran non è tanto lontano da Mascat». 311
Occhio di Rubino sorrise. «La sola traversata in nave ti sembrerà la distanza più grande che un uomo abbia mai dovuto superare». Raza partì da Kandahar all’alba su un pick-up, schiacciato fra l’autista e una guardia armata. Aveva lasciato la jeep a Ismail, insieme a una promessa che entrambi consideravano poco credibile: che avrebbe cercato il modo per portare in Canada Abdullah. Ismail gli aveva offerto ospitalità per la notte, ma Raza aveva preferito fermarsi dai due pathan; Occhio di Rubino lo aveva scherzosamente messo in guardia che a Ismail non avanzava nemmeno una coperta, dopo che aveva venduto tutto per finanziare il ritorno in Afghanistan di Abdullah. Nel cassetto della jeep, Raza aveva messo mille dollari. Gli era sembrata una cifra generosa, eppure non aveva ridotto di molto il peso del suo zaino. Nel pick-up la guardia e l’autista erano taciturni, e con i suoi tentativi di attaccare discorso Raza non sollevò più interesse dei convogli NATO che procedevano goffamente in direzione di Kandahar. Si addormentò, e al risveglio la strada non c’era più: soltanto sabbia e almeno una dozzina di pick-up identici, coi vetri oscurati e la vernice blu luccicante. Erano apparse altre guardie armate, che avevano preso posto sul fondo del pick-up. I mezzi correvano nel deserto a velocità inquietante: un branco di animali evolutisi da un mondo in cui non contavano altro che la caccia e la fuga. «È per me che fate tutto questo?» domandò Raza alla guardia seduta al suo fianco. I due indicarono il retro del pick-up, con gli uomini addormentati sopra i sacchi di tela impilati uno sull’altro, e Raza pensò alle scadenti quantità di eroina che aveva consegnato personalmente ai migliori clienti degli alberghi di Dubai, quando era suo compito procurare qualunque cosa li avrebbe spinti a tornare. A un certo punto, quando Raza aveva l’impressione che dal finestrino non avrebbe più visto che sabbia, accadde qualcosa di straordinario. Il convoglio superò un gruppo di nomadi che attraversavano il deserto a piedi. E finalmente eccole là: le donne. Volti scoperti, una quantità di bracciali, abiti di colori chiari. Aveva sempre pensato che dovevano essere belle, le donne delle favole che con un sorriso distoglievano i principi dalle loro mitiche ricerche. Ades312
so gli bastava constatare che esistevano. «Ferma!» gridò all’autista che naturalmente non gli badò, e nel giro di qualche secondo il paesaggio fu di nuovo tutto di sabbia. Eppure era bastata quell’occhiata per suscitare in lui una profonda malinconia... anzi, non era malinconia quella che provava: era uljhan. Adesso le sue emozioni erano in urdu, e malinconia e ansia stavano l’una a ridosso dell’altra come due sillabe in una parola. Pensò all’uomo in ricordo del quale gli era stato dato un nome che tuttora faticava a considerare suo: il fidanzato tedesco della madre, arrivato in un paese nuovo, dalla lingua aliena, con tutte le intenzioni di conoscerlo. Quel Konrad, ne era certo, avrebbe trovato il modo di fermare il convoglio. Avrebbe visto il deserto come qualcosa di diverso da una spiaggia senza mare. Se fosse rimasto più di un mese in Afghanistan non sarebbe restato indifferente. Raza non aveva idea, mentre pensava queste cose, di essere ormai vicino al confine. Il pick-up si arrampicò su una duna, al di là della quale c’era una serie di case che avevano lo stesso colore della sabbia. «Tu scendi qui» disse la guardia. Indicò gli uomini in attesa del convoglio. «Adesso ti portano via loro». La guardia aveva risposto a ogni domanda di Raza con monosillabi o alzate di spalle, ma ora lo guardò impietosito. «Non dimenticare che prima o poi finisce. E finisce anche il tratto successivo». Il giorno seguente, di prima mattina, Raza ripeteva fra sé queste parole come una preghiera, per tenere lontana la pazzia. Si trovava in un altro pick-up, che aveva il cassone coperto e precedeva di qualche decennio e diversi stadi evolutivi quelli blu che sfrecciavano per il deserto; semmai assomigliava in maniera rassicurante a quello in cui l’autista pathan lo aveva portato avanti e indietro da scuola insieme agli altri ragazzi del quartiere. Al tempo aveva riso dei bambini schiacciati insieme sulle due panche longitudinali nel retro, mentre lui sedeva di fianco al guidatore che gli insegnava il pashto; quando si voltava a guardare gli altri da un finestrino minuscolo, quelli rispondevano con gesti osceni, ma senza cattiveria. Se solo fosse andato a sedersi dietro insieme a loro, pensò adesso, non avrebbe mai imparato il pashto, attaccato discorso con Abdullah, messo in moto il meccanismo per cui si trovava adesso seduto in uno scatolone nel retro di un pick-up, con 313
questi ragazzini pathan che gli tiravano addosso i cavoli. «Alla verdura non servono documenti al confine, quindi devi diventare verdura anche tu» gli aveva spiegato uno degli uomini delle case color sabbia. Ed eccolo qui a cercare di dominare il panico mentre i cavoli si accumulavano nel cassone del pick-up e gli arrivavano alle ginocchia, al petto, agli occhi... «Finirò per soffocare» gridò. «Saresti il primo» rispose un po’ sorpreso. Per buona parte del viaggio restò in piedi, curvo sotto il telone, circondato dai cavoli che gli arrivavano al petto. Ma nei pressi del confine l’autista diede un colpo secco alla parete divisoria, Raza prese il fiato e si immerse nello scatolone. Nel giro di pochi secondi, col movimento del pick-up, i cavoli lo sommersero e lo privarono dell’aria e della luce. Fu dunque in compagnia di quei cavoli — respirandone l’odore e sorreggendone il peso — che Raza giunse in Iran. In quell’oscurità fetida il tempo sembrava non passare mai. Il pickup restò fermo a lungo, o almeno fu questa la sua impressione, prima che le guardie si avvicinassero. I cavoli attutivano ogni suono tranne i battiti del suo cuore. Quando ripartirono non osò alzarsi: gli era stato ingiunto di aspettare il via libera dell’autista. Però gli mancava l’aria. Finalmente l’autista fermò il camioncino e batté di nuovo sulla parete divisoria. Raza schizzò fuori dai cavoli, spostando quelli che aveva addosso con tanta energia da mandarli a sbattere contro il telone, e ingoiando grandi boccate d’aria. Sotto lo sguardo divertito dell’autista si aprì un varco fra le verdure e il telone, poi come un nuotatore si tirò su per uscirne. «Ti sei divertito?» domandò quello mentre gli tendeva la mano per aiutarlo a scendere. «Zuppa di cavolo per cena?» Dopo le guardie di Occhio di Rubino, la compagnia dell’autista Ahmed era un piacere. Veniva da una famiglia di nomadi, spiegò mentre portava Raza a sud, verso la costa, ma la siccità e la guerra li avevano costretti a rinunciare alla vita che facevano da secoli, così, di malavoglia, si erano insediati sul confine: i più fortunati erano diventati autisti, gli altri raccoglievano pietre. 314
«Il peggio sono i campi minati» disse mentre Raza stava ancora cercando di capire se «raccogliere pietre» fosse un eufemismo. «Un tempo per stare sicuri viaggiavamo in grandi gruppi, poi abbiamo cominciato a spostarci in tre o quattro, così se qualcuno pesta una mina potente il danno è limitato: gli altri più indietro vedono i corpi o gli uccelli che gli volano addosso e sanno di dover evitare quel punto». Sorrise disinvolto e Raza non capì se parlasse sul serio oppure no, pur apprezzando il tono confidenziale della conversazione. Raza avrebbe voluto chiedergli dove si sentivano a casa, però, malgrado sapesse come chiedere a qualcuno dov’era nato o dove abitava, la parola «casa» in pashto gli sfuggiva. E mentre cercava di girarci intorno, perse il filo del discorso. Era così impegnato a parlare con Ahmed che gli ci volle un po’ a capire il motivo per cui l’Iran gli sembrava così estraneo, a dispetto delle similitudini topografiche con l’Afghanistan. «Non c’è la guerra» disse ad Ahmed quando finalmente lo capì, verso il tramonto. L’altro annuì, e per una volta non fece battute di spirito. Non aveva bisogno di chiedere cosa c’entrasse quell’affermazione con un discorso sui serpenti velenosi di Dasht-e-Mango, il Deserto della morte, che Raza aveva attraversato nel pick-up senza conoscerne il nome. Si fermarono a dormire in albergo, dove Raza sbalordì Ahmed con la sua padronanza del farsi, e ripartirono al mattino. Si erano appena messi in viaggio quando furono accostati da un’altra macchina, carica di donne col velo e gli occhiali da sole, che a Raza fecero venire in mente le attrici hollywoodiane degli anni Cinquanta che piacevano tanto a Harry. Per qualche secondo l’auto e il pick-up viaggiarono fianco a fianco, con Ahmed che gridava alle passeggere domande che Raza traduceva con un sorriso disarmante: «Chi è che mi sposa? E chi sposa il mio amico? Perché viaggiate per strada, gli angeli non volano?» E quelle che rispondevano: «Non vogliamo un marito che puzza di cavolo. Le donne sono superiori agli angeli, ci stai insultando!», il tutto con gli occhi fissi su Raza. Di lì a poco svoltarono, dopo aver gesticolato per salutare e mandar baci, lasciando Ahmed a struggersi e Raza a mugugnare: «Credo proprio che l’Iran mi piaccia». Si era quasi convinto che il peggio fosse passato e stava cominciando 315
a considerare i cavoli come la prova del fuoco, tanto che per la prima volta da quando era morto Harry si sentì sollevato. Ormai si erano lasciati alle spalle il deserto e quando avvistò il mare Raza urlò di contentezza. Karachi, Dubai, Miami erano tutte città di mare, sebbene non ci avesse mai riflettuto prima di vedere la costa dell’Iran. Tuttavia, più vi si avvicinavano, più Ahmed si faceva silenzioso. «Perché invece non ti fermi qui?» domandò ormai quasi al porto, quando già si respirava aria di mare. «Se scappi dagli americani l’Iran è il posto giusto. Parli perfino la lingua. E le donne sono belle... e sciite, come voi hazara». Raza non capì cosa lo preoccupasse tanto, fin dopo averlo salutato con un abbraccio e la promessa che in tempi migliori sarebbe tornato, per attraversare l’Asia insieme a lui su un pick-up che non fosse carico di cavoli. Poi il capitano della nave cui Ahmed lo aveva affidato fece strada fino a un peschereccio con un piccolo motore, e quando Raza gli domandò dove poteva sedersi l’altro indicò le assi che aveva sotto i piedi e disse: «Qui sotto». Raza scoppiò a ridere, ma il capitano restò serio. «Hai pisciato?» domandò. «Eh?» «Su, dài. Falla dalla barca. Resterai lì dentro fino a Mascat, e non c’è spazio per la borsa». Raza si strinse lo zaino al petto. «Ci sono degli oggetti religiosi qui dentro. Ho promesso a mia madre che...» Il capitano lo interruppe con un gesto. «Sbrigati, dài». Mentre Raza si liberava, il capitano sollevò le assi in un punto. Raza udì delle voci da sotto: quanta gente poteva esserci lì dentro? Tanta. Troppa. Raza guardò nelle viscere della barca e non vide altro che uomini stesi che lo fissavano. Alcuni urlando in farsi o in pashto: «Un altro no! Non c’è più posto!» «Vai». Il capitano lo spinse sulla schiena. «Va’ dentro. Per colpa tua siamo già in ritardo». Raza sbirciò giù: non c’era spazio fra un corpo e l’altro, e quegli uomini stesi gli ricordavano qualcosa di familiare. Ma cosa? Qualcosa che lo spinse a indietreggiare fino nella cabina del capitano, il quale 316
imprecò e lo ricacciò giù nella stiva, fra quei corpi che gemevano di dolore, poi lo spinse di qua e di là finché, chissà come, Raza si ritrovò strizzato fra due tali e la sua voce diventò parte del sospiro — di disperazione e di rassegnazione — che si diffuse per la tolda. Fu solo quando il capitano richiuse di colpo la botola, lasciandoli al buio, che Raza capì cosa gli aveva rammentato quella fila di corpi stesi: la fossa comune nel Kosovo. Nell’oscurità, il tipo alla sua sinistra gli afferrò la mano. «Quanto manca?» disse, e la sua voce rivelò che era un bambino. Raza non rispose. Se avesse aperto la bocca, temeva che avrebbe vomitato per il tanfo — della nafta appiccicosa del porto, del legno umido, di uomini per cui lavarsi era un lusso dimenticato da tempo. Le assi su cui era steso erano viscide, e non volle chiedersi se fosse soltanto acqua salata. Quando la barca partì la situazione peggiorò. All’inizio, i colpi delle onde sotto la testa sembravano un fastidio da poco, invece in mare aperto si fecero così violenti che tutti si tirarono a sedere sui gomiti. Di lì a poco cominciarono a soffrire il mal di mare, e il puzzo di vomito soverchiò tutto il resto. A star peggio era il bambino afghano, che piangeva e chiamava la madre. Raza chiuse gli occhi. Per tanti anni si era seduto intorno al fuoco di un accampamento insieme ai TCN e li aveva sentiti raccontare di com’erano scappati da un posto all’altro, nella stiva di una nave, sotto il pianale di un camion, e non aveva mai pensato a quanto squallore ognuno di loro aveva conosciuto. Abdullah compreso. Abdullah che aveva già fatto questo viaggio una volta, e l’avrebbe affrontato di nuovo. Attraversare l’Atlantico in queste condizioni: non era possibile. Nessuno avrebbe potuto tollerarlo. Che mondo era quello che costringeva a sopportarlo? Si cacciò lo zaino sotto la testa, e coricandosi tirò su di sé il bambino che piangeva e vomitava al suo fianco, per ammortizzare i colpi delle onde. Il ragazzino sospirò e posò la testa sul petto di Raza. Le ore passavano lentamente. Nessuno parlava: la conversazione apparteneva a un altro mondo. A metà del pomeriggio la stiva sembrava un forno. Diversi uomini persero i sensi, compreso il bambino, che or317
mai era un peso morto sul torace di Raza, il quale tuttavia non tentò nemmeno di spostarlo. Pensò che Harry, senza dubbio, avrebbe fatto la stessa cosa per lui. Ma poi pensò che Harry lo avrebbe anche tenuto alla larga da una situazione simile. A un certo punto gli sembrò che la morte in quella stiva sarebbe stata inevitabile. Non riusciva a pensare ad altro che alla madre. Non sarebbe mai venuta a sapere della sua fine. Nessuno avrebbe mai identificato quel carico umano senza vita, e lei avrebbe continuato ad aspettare sue notizie. Per quanto tempo? Quanto ci avrebbe messo a capire che aveva perso un’altra persona che amava? Cominciò a piagnucolare, senza curarsi di cosa potessero pensare gli altri. Quando le assi si alzarono lasciando filtrare il chiaro di luna, non capì che cosa stesse accadendo finché non vide la testa del capitano. «Silenzio!» ammonì quello, in risposta alle scomposte grida di gioia che si levarono dalla stiva. «Raza Hazara, dove sei? Vieni fuori. Gli altri restano qui, non siamo ancora arrivati». In tutta la sua vita Raza non si era mai vergognato tanto: essere identificato come l’unico che se ne andava gli pareva quasi un tradimento. Il bambino che teneva in braccio riprese conoscenza e disse: «Portami con te», ma Raza riuscì soltanto a sussurrare, con voce spezzata: «Mi spiace». Frugò nello zaino, ne estrasse un rotolo di banconote da cento dollari e le cacciò in mano al ragazzo. «Non dirlo a nessuno» gli raccomandò prima di camminare carponi sopra gli altri uomini e tendere la mano perché il capitano lo aiutasse a uscire. Per un attimo considerò di far cadere lo zaino nella stiva, ma sapeva che i soldi gli sarebbero serviti in altre occasioni, così distolse lo sguardo dagli uomini che si sforzavano di godere il più possibile dell’aria fresca e del chiaro di luna prima che la botola si richiudesse. Accanto al peschereccio c’era una barchetta a remi, da cui una voce gridò: «Raza Hazara, sbrigati! L’aereo ti ha già aspettato abbastanza!» Raza scese nella barca, ma prima che potesse sedersi l’altro agitò un remo e lo fece cadere in acqua. Raza ebbe giusto la presenza di spirito di lanciare a bordo lo zaino. Riemerse sputacchiante e intirizzito. L’altro gli porse una borsa. «Qui ci sono i vestiti. Cambiati. E lavati!» aggiunse lanciandogli una saponetta. 318
Malgrado la fretta, gli concesse di rimanere nudo per qualche minuto nell’acqua gelida a guardare il cielo. Non sarò mai più lo stesso uomo, pensò Raza. Lasciò andare i vestiti sporchi di vomito e trattenne soltanto la giacca di Harry. Poi si corresse: Non voglio essere più lo stesso uomo. Sulla barca c’erano acqua, cibo e uno salwar kamiz appena più grande della sua taglia. Di più non avrebbe potuto sopportare: qualunque altro lusso gli sarebbe parso rivoltante. Verso l’alba la barca approdò, e trovò ad attenderlo un altro pick-up blu luccicante. Questa volta non tentò di attaccare discorso con l’autista e la guardia armata, ma continuò a pensare al bambino che si era addormentato con la testa sul suo petto, e rimpianse di non avergli dato il numero di Hussein e di Altamash. Dubai non era tanto lontana da Mascat. Belle strade lastricate e fiancheggiate da palme portavano a una pista di atterraggio privata. L’aereo era già pronto. Una delle guardie del pick-up lo accompagnò a bordo e aprì con un sogghigno il portello. «Benvenuto allo zoo» disse. Dall’aereo uscirono dei rumori del tutto inconsueti. Raza vi entrò con cautela. Un airone blu spalancò le ali, un pavone bianco chiuse a scatto il ventaglio, delle are strillarono, un piccolo formichiere scivolò giù dalla schiena della madre e protestò con un verso lancinante, dei licaoni scoprirono le zanne, delle cose alate svolazzarono sotto un telo nero, qualche suricato si sedette sulle zampe posteriori a osservare la scena. E su un fianco, dormiva un giovane gorilla. La guardia indicò la gabbia che lo conteneva. «Viaggerai dentro alla scimmia» disse. In quel momento Raza capì che Occhio di Rubino aveva avuto ragione. Il cervello gli era andato in tilt, non c’erano dubbi.
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Mentre il suv che aveva noleggiato si avvicinava al confine, Kim Burton si concesse di immaginare cosa sarebbe successo se l’afghano nascosto nel baule fosse stato scoperto. Non pensò alle possibili conseguenze per lei o per lui, ma fantasticò di un mondo in cui alla frontiera si sarebbe tracciato il «profilo politico» dei viaggiatori, e gli agenti del controllo passaporti sarebbero stati addestrati a individuare i progressisti tormentati come lei. Abbassò il finestrino e sorrise al doganiere canadese mentre gli porgeva la patente di guida. «Non è venuta tanto bene in questa foto» disse quello. «Si ferma molto?» «Solo poche ore». «Ma come!» rispose lui. «Non pensa che ci meritiamo più tempo?» «Certo non in gennaio. Tornerò in primavera». «Allora farò attenzione» rispose lui mentre le restituiva il documento e strizzando un occhio le faceva cenno di proseguire. Ma non era perché si sentiva in colpa che stava facendo questo, rifletté, anche se in viaggio era stata più volte presa dai rimorsi pensando a come avesse sempre dato per scontata la libertà di passare a piacimento da un paese all’altro, dato che, se un paese pretendeva che gli americani ottenessero il visto, lei semplicemente non ci andava. L’anno prima, quando aveva proposto a Ilse e Hiroko di andare a Parigi, era rimasta sbalordita nel vedere come sarebbe stato difficile per quest’ultima ottenere il visto. «Non vale la pena faticare tanto» aveva concluso Hiroko rattristata, dopo aver letto i prerequisiti per la domanda. «Adesso puoi uscire» disse quando, lasciatisi alle spalle il confine, si trovavano in un paesaggio di campi innevati. Abdullah scavalcò il sedile e andò a sedersi dietro. «Vuoi che stia qui o che venga davanti?» domandò con quella cortesia sollecita e sconcertante che avvolgeva come un manto la sua perso320
nalità. Kim fermò la macchina in modo che potesse trasferirsi in maniera dignitosa sul sedile anteriore. Abdullah scese dall’auto, fece qualche passo e raccolse da terra una manciata di neve. Kim intanto stringeva il volante e prendeva in considerazione l’ipotesi di ripartire a tutto gas. Abdullah si sedette davanti e alzò il braccio coperto di neve fino al gomito. «È molto alta» disse. «L’anno scorso a Central Park io e i miei amici ci siamo stesi nella neve e abbiamo fatto gli angeli». Lo disse senza guardarla. «Sei uscito spesso da New York?» chiese lei. Mancava mezz’ora al fast-food nei pressi di Montreal dove aveva appuntamento per proseguire il viaggio. Mezz’ora in macchina con un afghano. Lo guardò con la coda dell’occhio togliersi con cura la neve dal guanto nero e si disse che non era il caso di allarmarsi. «Una volta sola» rispose lui. Parlava piano per scegliere con attenzione le parole, o forse perché sapeva di avere un accento poco comprensibile. «Il mio amico Kemal ha noleggiato un pulmino e ci ha portati nel Massachusetts, in una moschea che c’è lì, durante il ramadan. Eravamo in sette: due turchi, un afghano, un pakistano, due egiziani e un marocchino. Tutti insieme in viaggio per l’America». «Una volta sola? In quasi dieci anni?» Poi capì quanto doveva suonare sciocca la sua incredulità, l’incapacità di immaginare una vita senza vacanze e senza viaggi. «Sì. Ed è incredibile come si guida in America fuori città». Sorrise. «E quei cartelli in autostrada! Come abbiamo riso». «Cos’hanno di tanto divertente?» Si accorse di aver teso le labbra in un sorriso, con tutta l’intenzione di trovare qualcosa che facesse ridere entrambi, ma non riuscì a trovarlo nella segnaletica stradale. «Per qualsiasi cosa succede o può succedere c’è un cartello. ATTRAVERSAMENTO CERVI. ATTRAVERSAMENTO ALCI. ATTRAVERSAMENTO ANZIANI. ATTRAVERSAMENTO BAMBINI. CADUTA MASSI». E lei finalmente rise, con sincerità, e mentre rilassava le mani sul volante si rese conto di quanto avesse contratto il collo per la tensione fino 321
a quel momento. Fu quasi tentata di fare una battuta su Sisifo. Abdullah evitò il suo sguardo, ma sorrise e continuò: «PONTE A UN MIGLIO. PONTE COPERTO A UN MIGLIO. BANCHINA CEDEVOLE. STRADA A TRE CORSIE. STRADA A DUE CORSIE. Il mio amico Kemal, che è turco e molto istruito, diceva: che bello vivere in un paese dove ogni possibile evenienza viene annunciata a chiare lettere fosforescenti. Si chiedeva come sarebbe andata se in un paese così fosse successo qualcosa di inaspettato, di imprevisto». Kim lo guardò storto, ma lui era chino in avanti e girava il braccio davanti alla bocchetta del riscaldamento per asciugarsi la manica del cappotto grigio, sempre senza guardarla. Mentre guidava sulla interstatale 87 non aveva notato nessun cartello stradale, però aveva notato le bandiere. Malgrado ne avesse viste tante, negli ultimi mesi in città, qui era rimasta colpita dal loro numero: dietro ai lunotti, negli adesivi sui paraurti, affisse alle antenne o su piccole aste appiccicate agli specchietti esterni, e ancora bandiere che sventolavano dai finestrini, accoglievano i clienti nelle stazioni di servizio (col marchio di qualche azienda discreto ma ben visibile sul fondo, in un gesto di patriottico capitalismo). Le tornò in mente Ilse, che scherzava sulla frase «God Bless America» dicendo che le sembrava uno slogan pubblicitario più che una preghiera (RAGAZZI, QUI TROVATE TUTTO L’OCCORRENTE PER LA SCUOLA! MAMME, PER I VOSTRI BAMBINI TANTO AMORE E LA ZUPPA HEARTY®! DIO BENEDICA L’AMERICA!). Sapeva che entrambi i suoi genitori avrebbero alzato gli occhi al cielo davanti a questa manifestazione di patriottismo, eppure lei ci vide qualcosa di toccante. Continuò comunque a chiedersi cosa ne pensasse il suo passeggero afghano. «E poi la nostra domanda ha avuto risposta» disse lui. «Cosa avrebbe fatto l’America se fosse successo qualcosa di imprevisto». «Eccome se ha avuto risposta» disse lei, scoprendo che tutta la tensione del suo corpo sembrava essersi concentrata nella mascella, al punto che faticava a parlare. Stavolta la guardò diritto negli occhi. «No, non intendevo...» Scosse la testa con l’aria offesa col risultato di farla sentire contrita, e irritata per essersi sentita contrita. «Quella sera, mentre tornavamo a New York, ero mezzo addormentato quando 322
ho visto che le macchine davanti rallentavano per schivare qualcosa. Mi sono svegliato del tutto, pensando che ci fosse un morto in mezzo alla strada, ma poi Kemal è scoppiato a ridere. Davanti a noi, illuminato dai fari, c’era un gran mucchio di peluche azzurri e rosa: coniglietti e orsacchiotti». Kim visualizzò la scena descritta a bassa voce dall’altro, immaginò il traffico che rallentava e deviava in maniera quasi reverenziale, per non dover calpestare un codino azzurro o un morbido orecchio rosa. Doveva esser stato un momento di pace, di stupore, capace di unire chiunque passasse su quell’autostrada buia. «E anche Kemal ha sterzato» disse Kim. Non avrebbe voluto essere una domanda, ma invece di rispondere Abdullah si girò a guardare la neve immacolata fuori dal finestrino. Hanno tirato dritto, hanno tirato sotto i peluche. L’immagine aveva un che di grottesco, pensò Kim, conscia che non lo avrebbe potuto dire senza far pensare che la sua empatia di americana era mal riposta: passino le bombe a grappolo in Afghanistan, ma per l’amor del cielo non investite i coniglietti rosa! Poteva dirglielo?, si chiese Abdullah. Poteva dirle che aveva chiesto a Kemal di passarci il più vicino possibile ai peluche, e che ognuno di loro si era riempito le braccia di orsi e conigli, con quel pelo che era la cosa più morbida che avessero toccato da anni? Avevano tutti un figlio, un nipote, una nipote o un fratellino a cui avrebbero potuto mandare il peluche la prima volta che uno dei fortunati con i documenti in regola fosse ritornato da New York nella parte del mondo che si era lasciato alle spalle. Adesso il figlio di Abdullah dormiva con il morbido coniglio azzurro speditogli, tramite un tassista di Peshawar, dal padre che non aveva mai conosciuto. Però, se lo avesse raccontato a Kim Burton, lei lo avrebbe considerato un ladro: li avrebbe considerati tutti dei ladri, per aver rubato quel carico perso per strada. «Parli bene l’inglese» considerò Kim. «Dove l’hai imparato?» «Quando sono arrivato in America ricordavo soltanto quel che avevo sentito durante le lezioni di Raza. Così, nella prima settimana a Jersey City sono andato alla moschea e ho chiesto all’imam dove potevo imparare. E lui mi ha trovato un insegnante in pensione, un afghano, il quale 323
ha detto che darmi lezioni sarebbe stato suo farz, capisci questa parola? Vuol dire dovere religioso. Per noi è molto importante. Diceva che era suo farz insegnare a un mujaheddin. Non tutti si erano dimenticati di cosa avevamo fatto per l’Afghanistan, per il mondo. Non tutti se n’erano dimenticati». «Non riesco proprio a immaginare come dev’essere stato» rispose Kim, provando mentalmente le parole prima di pronunciarle per non risultare offensiva. «Combattere i sovietici per tutti quegli anni». «No, nessuno può immaginarselo. La guerra è come una malattia. Non la conosci finché non l’hai avuta. Ma poi no, il paragone non regge. Se non altro, con le malattie, le persone pensano che potrebbe capitare anche a loro. Ti fa male qui, ti gonfi là, hai un raffreddore che non passa mai, e ti metti in testa di avere qualcosa di grave. Invece con la guerra... i paesi come il tuo sono sempre stati in guerra, ma sempre da qualche altra parte. La malattia è sempre altrove. È per questo che fate più guerre di tutti gli altri: perché capite la guerra meno di tutti. Sarebbe bene se la capiste di più». Nel silenzio confortevole del fuoristrada, con il riscaldamento regolato un po’ troppo forte, Kim capì quanto si sentisse a disagio quando le mancò la prontezza di rispondergli a tono: «Quindi secondo te... per farla finita con le guerre bisognerebbe che tutti ne combattessero una?» Ma poi perché essere a disagio? Era lei quella che stava mettendocela tutta. Dal canto suo, Abdullah sembrava non sentirsi affatto in debito con lei. Quel mattino, quando si erano incontrati per strada, all’angolo scelto da lui e Hiroko la sera prima, lui l’aveva ringraziata con molta gentilezza e aveva insistito per restare nascosto sotto le coperte finché non avessero superato il confine; se fossero stati perquisiti lui avrebbe detto di essersi infilato nel baule che aveva trovato aperto, in una stazione di servizio della interstatale 87. Ma a parte questo non si era sbilanciato, nemmeno aveva ammesso che Kim stava infrangendo la legge per qualcuno della cui innocenza non poteva essere certa. La neve sulla giacca si era sciolta in una macchia bagnata, che adesso lui stava cercando di asciugare con un fazzoletto. Che motivo c’era di credere alla storia che Raza aveva sentito dal fratello di Abdullah? Come sapevano che l’FBI era andata a cercarlo solo perché era afghano? Come sapevano che era scappato solo perché clandestino e in preda 324
al panico? Il semplice fatto di essere afghano non faceva necessariamente di lui un bugiardo o un terrorista, certo, ma non era altrettanto assurdo — se non addirittura compiacente — dare per scontato che, in quanto afghano, non potesse essere né l’uno né l’altro? Se la sua versione dei fatti era vera, sarebbe semplicemente dovuto andare all’FBI. Per quanto fossero diventati intransigenti in nome della sicurezza, mai e poi mai lo avrebbero trattenuto a tempo indeterminato per il semplice fatto che era un clandestino. Andiamo! New York avrebbe chiuso i battenti, se avessero badato a un crimine come quello. E se pure l’FBI lo avesse consegnato all’INS, che mai poteva succedergli? Alla peggio sarebbe stato deportato. In Afghanistan. Nel comfort di un aereo! Aprì il finestrino e lasciò che il vento forte entrasse sibilando nell’abitacolo, malgrado Abdullah si fosse stretto nel cappotto e si tappasse le orecchie con le mani, forse per proteggersi dal freddo o dal rumore. Era andato tutto così in fretta. Nemmeno dieci ore erano passate dal loro primo incontro alla partenza da New York. «Che senso avrebbe aspettare?» era stata la risposta di Hiroko, quando Kim aveva chiesto il perché di tanta fretta. «L’FBI è già andata a cercarlo al garage che gli noleggia il taxi e a casa dell’altro che usa la macchina nel turno di notte. Oggi pomeriggio ho chiamato questo tale in Canada che sta organizzando le cose e l’ho avvisato che Abdullah arriverà domani, quindi domani deve essere là. Te l’ho già detto, lo porto io». Hiroko aveva reso tutto inevitabile: il viaggio, le tempistiche, persino l’innocenza di Abdullah. E Kim, rinnegando in pieno la sua formazione, nemmeno aveva considerato i punti di sollecitazione sotto cui la versione di Abdullah avrebbe potuto cedere. Non appena Hiroko aveva acconsentito a lasciarla andare al suo posto, Kim se n’era andata a letto e aveva dormito tranquilla. Impegnata com’era a evitare che Hiroko portasse oltre il confine un clandestino, non aveva valutato gli altri rischi, e soltanto adesso se ne rendeva conto. «Hiroko è una donna incredibile, vero?» domandò adesso mentre tirava su il finestrino, in un ultimo tentativo di trovare un terreno comune. «Grazie a lei Raza ha un posto assicurato in paradiso» rispose Ab325
dullah. «Immagina come dev’essere sapere da sempre che hai un posto assicurato in paradiso». «Non capisco». «Si è convertita all’islam. Chiunque converte un altro ha garantito un posto in paradiso per sé, i figli, i nipoti, i pronipoti e così via per sette generazioni. Ma io credo che sia sbagliato onorare soltanto il padre di Raza, che ha operato la conversione. Andrebbe onorato anche il convertito. È anche grazie a sua madre che Raza andrà in paradiso. E dopo di lui i suoi figli e i suoi nipoti. Nemmeno i martiri della jihad possono fare tanto per la loro famiglia. Lo dice il Corano». «Hai letto il Corano?» «Sì, certo». «Lo hai letto in una lingua che capisci?» D’improvviso il traffico sembrava più intenso; erano circondati da una quantità rassicurante di gente, e in Kim il riguardo non riuscì a tener testa all’indignazione, nel sentire Hiroko ridotta a una pista di lancio verso il paradiso per il figlio e il marito, senza neppure che lo stesso diritto spettasse a lei, sulla base dei folli principi di fede afghani. «Io l’islam lo capisco» rispose lui irrigidendosi. «Non direi proprio. Io l’ho letto in inglese e credimi: il Corano non dice niente di simile. E poi che razza di paradiso sarebbe, se per arrivarci puoi prendere una scorciatoia? Sette generazioni?» «Ti prego di non parlare in questo modo». «Dimmi una cosa. Una soltanto». All’improvviso aveva dentro questa rabbia che sovrastava tutto. «Se un afghano muore mentre uccide degli infedeli nel suo paese, va dritto in paradiso?» «Se quelli che uccide sono invasori, sì. Diventa uno shahid, un martire». Con che lentezza, con che riluttanza si era schiuso il pugno di Kim, prima di versare una manciata di terra sulla tomba del padre. In quel preciso momento aveva compreso che tutto il futuro che si erano immaginati insieme — il viaggio a Delhi, i dialoghi privi di recriminazioni, i giorni in cui si sarebbero raccontati ogni cosa — non sarebbe mai venuto. Per via di un solo uomo armato. Aveva sempre creduto che per finire suo padre sarebbe servito molto di più. Invece era bastato un afghano 326
con un fucile, un afghano che considerava Harry Burton null’altro che un infedele, un invasore che morendo gli avrebbe aperto le porte del paradiso. «È un assassino. E il vostro paradiso è un abominio». «È meglio se non parliamo più». «Sì, è meglio». Non scambiarono più una parola; la tensione si fece quasi soffocante, finché lei fermò la macchina nel parcheggio del fast-food. Ma quando lui aprì la portiera per andarsene, disse qualcosa in arabo di cui lei afferrò soltanto la parola «Allah», e poi la frase: «Non mi dimenticherò di quello che hai fatto». Che cosa aveva fatto? Lo guardò attraversare il parcheggio col passo lungo di chi sta per conquistare la libertà, ed entrare nel ristorante seguito da una famiglia con due bambini.
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Il gorilla addormentato era un’opera d’arte: un pulsante sotto il pelo arruffato controllava il meccanismo che faceva alzare e abbassare il torace, una leva nascosta sotto un’ascella lo apriva in due e rivelava la cavità all’interno. Fu solo durante le soste per il rifornimento e l’atterraggio a Montreal che Raza vi dovette entrare; per il resto del viaggio restò in cabina con i piloti del Kuwait ad ascoltare incredulo i racconti di come trasportavano da un capo all’altro del mondo il loro datore di lavoro, un arabo capriccioso. Sulla pista di atterraggio un carrello elevatore aspettava di trasferire la gabbia del gorilla nell’ennesimo pick-up. Raza sentì gli animali e gli uccelli che gridavano e cinguettavano mentre la gabbia veniva sollevata, ma nessun segno umano di protesta. Un tredicenne che vi si era rintanato per sfuggire alla furia del padre ubriaco fu l’unico a vedere il pick-up che entrava nella stalla, l’autista che scendeva, apriva la gabbia, e con una mano sul torace sussultante del gorilla gli infilava l’altra mano sotto la zampa e lo apriva in due. Il ragazzo cacciò la testa nella paglia, più spaventato all’idea di vederne le interiora che a quella di essere notato da quell’uomo dalla forza disumana; quando alzò di nuovo lo sguardo il gorilla era intatto ma esanime, e di fianco al primo uomo ce n’era un altro che gli stava dando la mano. Il ragazzo non ne parlò mai con nessuno. «Mi devi ancora il dieci per cento» disse John, l’autista, mentre uscivano dalla stalla a bordo del pick-up, con Raza seduto più comodamente accanto a lui. «Posso darti quello che ti devo» disse Raza infilando la mano nello zaino, ormai decisamente malconcio. Tirò fuori la somma richiesta, poi inclinò lo zaino per mostrare a John i rotoli di banconote che ancora conteneva. «Oppure potrei darti tutto quello che c’è qui dentro». «Dimmi». «Il mio amico Abdullah partirà in nave dal Canada il mese prossimo. Ha organizzato tutto Occhio di Rubino». 328
«Occhio di Rubino ha soltanto preso i soldi dai suoi parenti in Afghanistan» ribatté John. «Il resto l’ho organizzato io». «Benissimo» disse Raza con calma. «Allora puoi anche organizzare di portarlo indietro nel gorilla». John lanciò un’altra occhiata allo zaino. «Penso di sì. Gliene parlerò domani quando lo vedo. Altrimenti potresti andare tu al mio posto e dargli tu stesso la notizia». Guardò Raza e aggiunse, sorridendo: «Ti ho stupito, eh, talebano?» Era Raza l’uomo che Abdullah vide seduto sulla sedia di plastica arancione, vicino a un tavolo di formica, mentre entrava nel fast-food nei dintorni di Montreal. «Raza Hazara!» disse piano per non allarmare gli altri clienti, nondimeno il tono di voce era affettuoso mentre trascinava Raza in un abbraccio. Si separarono in silenzio, ma entrambi sorrisero e chinarono la testa di qua e di là per riprendere familiarità con l’estraneo che avevano di fronte, e poi Abdullah prese Raza per l’orecchio e lo tirò. «Non avevo idea che saresti venuto tu. Nessuna delle due ne aveva fatto parola». «‘Nessuna delle due’, chi?» La voce si era fatta più profonda, pensò Raza, ma gli occhi e il sorriso non erano cambiati. «Tua madre. E Kim Burton. Non lo sapevi? Mi ha appena lasciato qui». Fece qualche passo verso la finestra, poi scosse il capo. «Se n’è andata. Davvero non lo sapevi?» Kim Burton? Raza fece cenno di no con la testa. Nell’ultima settimana si era chiesto che cosa le avessero raccontato, di cosa si fosse convinta. «Ha un cellulare, potresti chiamarla». Gli porse il suo telefono. «Hai il numero?» domandò Raza. Kim Burton! Qualunque cosa le avessero raccontato, non lo avrebbe mai creduto coinvolto nella morte di Harry. Ne era certo. Ripensò alla storia del ragno. Durante la fuga dalla Mecca a Medina, il Profeta passò una notte in una grotta perché il suo amico Abu Bakr era stato morso da un serpente e doveva riposare. Mentre sedeva nella grotta, consapevole che al chiaro di luna i suoi nemici avrebbero seguito le impronte che aveva lasciato nella sabbia fino alla base del pendio, aveva visto un ra329
gno che se la squagliava in gran fretta. Poi aveva sentito le voci dei suoi inseguitori, e uno di loro aveva detto: «No, qui non è. Qui non entra nessuno da una vita, guardate...» E quando la luna era spuntata da una nuvola, il Profeta aveva visto che la bocca della grotta era tutta chiusa da una ragnatela luccicante. Da tre generazioni quella storia veniva tramandata da una famiglia all’altra. Glielo aveva fatto notare Harry in Afghanistan: «A Kim dovrai raccontarla tu. Perché i Weiss-Burton e i Tanaka-Ashraf si fanno da ragno a vicenda». Poi, lui e Harry avevano fatto il parallelo delle storie che ciascuno dei due conosceva della famiglia dell’altro. Storie di occasioni offerte (tramite Konrad, Sajjad aveva trovato il modo di sfuggire al piccolo mondo della ditta di famiglia), di lealtà dimostrata (Hiroko non aveva voltato le spalle a Konrad, malgrado il mondo lo vedesse a un tratto come un nemico), storie di ospitalità (ben tre volte Ilse aveva trovato una sistemazione a Hiroko: a Delhi, a Karachi, a New York), di incoraggiamento (Ilse non avrebbe mai abbandonato la vita che odiava se non fosse stato per Hiroko), di disastri evitati (James e Ilse avevano fatto in modo che Hiroko e Sajjad fossero lontani durante i massacri della Partizione). E come Raza e Harry ben sapevano, anche storie di seconde possibilità ricevute (per diventare padri e figli migliori). Adesso anche Kim faceva parte di quelle storie. Qualunque cosa gli fosse successa, Raza era certo che si sarebbe occupata di sua madre durante la vecchiaia, via via che il ragno faceva la sua danza. Però Abdullah rispose: «Il numero? No, non ce l’ho». Raza tentò di celare la delusione mentre prendeva l’amico sottobraccio e lo faceva sedere. «Hai conosciuto mia madre?» «Sì, Raza Ashraf. E venuta lei a cercarmi. Avete gli stessi occhi. Adesso che l’ho incontrata ti guardo e mi chiedo come io abbia potuto potuto crederti un hazara». «Mi spiace di averti mentito, di essermi finto afghano. Non è molto che ho capito la gravità di una bugia come questa». Abdullah fece un gesto con la mano, non tanto per liquidare l’argomento, quanto per accantonarlo temporaneamente. 330
«Innanzitutto spiegami come mai siamo qui tutti e due. Non può essere una coincidenza». Raza gli raccontò tutto, semplificando la storia il più possibile senza renderla confusa. Alla fine, Abdullah rise. «Tua madre mi ha detto qualcosa della tua vita, della tua vera vita. Insomma: lei ha perso la famiglia e la casa in guerra; tuo padre è stato strappato alla città dove la sua famiglia viveva da generazioni, nutrendosi di storia e di poesia; il tuo secondo padre è stato ucciso in Afghanistan; la CIA ti crede un terrorista; hai viaggiato nella tolda di una nave, consapevole che se morivi nessuno l’avrebbe mai saputo; per te la casa è un posto da ricordare, non un posto dove vivere; e il tuo primo pensiero, una volta in salvo, è aiutare un amico che non vedi da vent’anni, e questa è la parte della storia su cui ti dilunghi meno. Raza, fratello mio, adesso sei veramente un afghano». Raza gli sfiorò la mano. «L’Abdullah che conoscevo vent’anni fa non sarebbe così clemente». «Quell’Abdullah era molto giovane e molto sciocco. Pensava che i cadaveri insanguinati fossero delle decorazioni adatte alla fiancata di un camion». Guardò di nuovo fuori nel parcheggio. «Mi sento molto a disagio, Raza. La tua amica Kim ha fatto tanto per aiutarmi, e io sono stato... scortese». «La mia amica Kim». Raza scosse il capo. «Non ci siamo mai visti. Siamo soltanto presenze l’uno nella vita dell’altra, da molto tempo a questa parte. Che cosa le hai detto? Com’è?» «Ha i capelli corti come un ragazzo» disse Abdullah, toccandosi il profilo della mascella. «E sappiamo tutti quanto piacciono i bei ragazzi a voi pathan, vero, Walnut?» Raza rise. Abdullah gli afferrò i polsi in una stretta leggera. «Sei sempre lo stesso Raza. Non so che cosa le ho detto. C’è qualcosa... — non ridere di me se lo dico — qualcosa di aperto, nel suo volto. Certi americani ce l’hanno, quest’apertura. Hai l’impressione di poter dire qualunque cosa. E noi eravamo seduti in macchina a parlare, uno di fianco all’altra. Dopo dieci anni passati a guidare taxi, per me era una 331
novità». «Non ci avrai provato?» Abdullah si irrigidì. «Per chi mi prendi?» «Per uno come me. Insomma, che cos’hai fatto?» «Le ho parlato. Come non avevo mai parlato a nessuna donna americana. Volevo che capisse qualcosa, non so bene cosa, di come ci si sente a essere afghani in questo paese. Ho parlato della guerra. Ancora e sempre della guerra, Raza. E poi... non so. Lei ha cominciato a prendersela con l’islam. Adesso sono tutti così, nel taxi, dappertutto... tutti a parlare dell’islam, tutti che la sanno più lunga di te, perché tu che ne sai, sei stato musulmano tutta la vita, cosa vuoi sapere?» Raza mise un braccio su quello di Abdullah. «Abbassa la voce, ci guardano. Abdullah, Kim non è come loro. Ne sono sicuro. Non può essere come loro». «Ha detto che il paradiso è un abominio, se mio fratello c’è andato». Si coprì il volto con le mani. «Adesso non si sente altro, dicono che hanno vinto la guerra fredda e adesso vinceranno anche questa guerra. Mio fratello è morto per vincere la loro guerra fredda. E adesso dicono che il paradiso è un abominio». «Sei stanco» disse Raza prendendo le mani di Abdullah fra le sue. «Vieni con me. La macchina è qui fuori. Puoi dormire in aereo. Abdullah, oggi potrai tornare a casa dalla tua famiglia». «Casa mia è New York» rispose l’altro con voce spezzata. «Casa mia è New York. La mia famiglia sono i tassisti». Oltre alla pietà, Raza provò un curioso senso di invidia. «So che le cose si sono messe male, ma forse non c’era bisogno di scappare. Forse non tutto è perduto. Mia madre e Kim ti aiuteranno, troveranno un avvocato. Queste sono ancora cose importanti, per forza lo sono». «Tu vivi in un altro mondo. Il mio amico Kemal... l’hanno arrestato dieci giorni fa. E nessuno ha più avuto sue notizie. New York è diventata una specie di rete, tesa ad aspettare che ci finisca dentro un musulmano qualsiasi». 332
A quelle parole Raza si voltò pensoso per guardare fuori. Non vide reti, ma un’auto della polizia che pochi attimi prima non era nel parcheggio, e due agenti che parlavano con una donna con i capelli rossi e corti. La donna si voltò verso la finestra, puntò il dito... Raza prese Abdullah per la camicia e lo strattonò, e allo stesso tempo si chinò per non essere visibile da fuori. Cacciò in mano all’amico le chiavi della macchina. «Esci dal retro. E la Mazda grigia. Prendila e scappa. Fidati di me». Spinse via dalla sedia Abdullah. «Raza, ma...» «È per il tuo bene. Va’ subito. Ti prego». Prese il berretto da baseball che aveva appoggiato vicino al gomito e glielo ficcò in testa, e intanto gli porse la giacca — la giacca di Harry — e allungò la mano per prendere il cappotto che Abdullah aveva buttato sulla sedia. «Allah ti protegga» disse Abdullah mentre gli stringeva la mano. Poi uscì in fretta dal retro. Non abbastanza in fretta, però. Erano entrati i poliziotti: uno di loro indicò Abdullah, l’altro alzò le spalle e gli urlò dietro: «Signore!» Raza si alzò in piedi, con addosso il cappotto di Abdullah, e a voce abbastanza forte disse: «Allah Akbar!». La gente ai tavoli vicini si rannicchiò sulle sedie; un tale che stava in piedi vicino agli utensili da cucina prese in braccio la figlia e la strinse con fare protettivo; qualcuno chiamò urlando i poliziotti. Nel parcheggio, Kim Burton stava accovacciata dietro una macchina. Dallo specchietto vedeva la porta del ristorante. Non voleva che lo prendessero; non voleva essere responsabile né in un modo né nell’altro. Quando i poliziotti portarono fuori Abdullah in manette, col cappotto grigio addosso, si sentì allo stesso tempo nauseata e sollevata. E poi gli guardò le spalle, troppo strette per quel cappotto così grande.
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La presa dei due poliziotti era identica. Entrambi gli stringevano l’avambraccio in un contatto che era esclusivamente professionale. Uno dei due era mancino, e Raza si chiese se qualcuno ne avesse tenuto conto prima di farli lavorare insieme. Forse anche i poliziotti, come i battitori nel cricket, lavorano meglio se uno dei due è mancino. Dal cielo grigio cadevano pallottole di ghiaccio. Raza era contento di essere uscito dal ristorante, dove allo spavento era subentrato l’eccitazione: i clienti avevano assistito a una scena di cui si sarebbe parlato al telegiornale e avrebbero raccomandato agli amici di non perderlo. Nel parcheggio c’era una macchina coperta di neve, che doveva essere lì dalla sera prima. Si chiese se il proprietario avesse dormito nel ristorante, si fosse nascosto nella toilette fino all’orario di chiusura, avesse cercato di scovare in cucina qualche avanzo e avesse constatato che era tutto sotto chiave, a parte le salse. O magari nella macchina c’era qualcuno che sarebbe rimasto lì fino a primavera, quando il disgelo avrebbe palesato il cadavere di un uomo così assente che nessuno si era accorto che mancava. Camminava a testa china per non farsi vedere da lei. Non guardava direttamente la macchina, però ricordava di averla vista, senza darle peso, mentre entrava nel fast-food. Adesso vedeva solo il ghiaccio che si scioglieva in ogni piccolo impatto: con l’asfalto, con le scarpe, con la terra delle aiuole vuote accanto all’entrata del locale. Annientato dal contatto, da qualsiasi genere di contatto. «Aspettate!» la sentì gridare. I poliziotti si fermarono, si voltarono leggermente per guardarla. C’era il ragno, e c’era la sua ombra. Due famiglie, due versioni della danza del ragno. Gli Ashraf-Tanaka, i Weiss-Burton: la loro storia comune era quella di una bomba, di una patria perduta, di un uomo ucciso nei pressi del porto, di un giubbetto antiproiettile non indossato, di una fuga solitaria dalla massima potenza mondiale. 334
Pur senza alzare gli occhi, capì dal rumore dei passi che stava avvicinandosi velocemente. Nel parcheggio non si sentiva altro, a parte le auto che sfrecciavano in autostrada in sottofondo, e la sua speranza: ormai Abdullah doveva essere uscito dal retro, aveva preso la macchina, forse aveva già chiamato John dal satellitare per fissare un nuovo incontro. Però non bastava che fosse uscito dal parcheggio, gli serviva tempo per scappare, prima che si sapesse che il ricercato era un afghano con le spalle larghe e gli occhi castani. «Voglio assicurarmi che sia lui» disse Kim. Raza alzò la testa e gridò: «Chup!», la parola mezzo soffocata dal dolore mentre le mani del poliziotto gli premevano sulla testa per costringerlo a inginocchiarsi. Vide gli occhi di Kim Burton che si rifiutavano di vedere ciò che stavano vedendo. Si fece rossa in viso e per un attimo parve in collera, furiosa — le saltavano i nervi come a Harry — come se il mondo intendesse farle uno scherzo che non le piaceva affatto. Poi tese la mano verso di lui, e Raza sussultò per scansarla. «Stia lontana» la avvertì un poliziotto. Raza non era sicuro che lei avesse sentito. Lo fissava come un bambino potrebbe guardare un unicorno o qualche altra creatura leggendaria nella cui esistenza aveva sempre creduto, ma che non si aspettava di vedere dimostrata. In qualunque altra circostanza l’avrebbe guardata nello stesso modo. Nei vent’anni che erano trascorsi da quando Harry gli aveva portato i marshmallow in spiaggia, dicendo che Kim voleva sapere se aveva la ragazza, si era immaginato mille volte il loro incontro. Adesso invece torse la bocca, nel constatare quanto si fosse sbagliato. Con quella smorfia la riportò con i piedi per terra. La vide dirigere lo sguardo verso la finestra del ristorante, poi sul cappotto... La vide fare un passo indietro, domandarsi — ipotizzò a ragione — se fosse stata tutta una trappola, fin da quella prima telefonata dall’Afghanistan. Perché aveva evitato la sua mano, perché aveva detto: «Chup!», una delle poche parole in urdu che Harry utilizzava spesso? Raza doveva esser certo che lei ne conoscesse il significato: «Taci». Cosa pensava che avrebbe detto? Doveva riconoscere in lei l’acume di Harry, quel modo di guardare i singoli pezzi per farsi un’idea dell’insieme. 335
Il ghiaccio le cadeva sui capelli ramati, schegge che si scioglievano luccicando. Raza esitò per un attimo. Sarebbe bastato lasciarla parlare senza interromperla. Sarebbe bastato che dicesse: «Non è lui», e lo avrebbero lasciato andare. E dopo, con una perla di ghiaccio che le si scioglieva sul volto, si sarebbero finalmente seduti faccia a faccia, per parlare di Harry, di Hiroko, di tutto quanto. Ma non poteva fare questo ad Abdullah. Non Raza Konrad Ashraf, che si era steso nella tolda di una nave col peso di un bambino afghano addosso e nell’acqua di mare gelida aveva levato lo sguardo su Orione, giurando che sarebbe cambiato. Avrebbe concesso ad Abdullah ogni occasione, ogni attimo disponibile. Guardò ancora una volta lo spettacolo desolante di quell’auto coperta di neve, e valutò sarcasticamente la maschera di eroismo che cercava di indossare. La verità era che non aveva il carattere giusto per fuggire in quel modo: lo avrebbero preso subito. Forse avrebbero arrestato Bilal, o sua madre, o chiunque avessero creduto suo complice. Magari anche Kim Burton, se fossero partiti insieme da quel parcheggio. Che dono, che dono sorprendente era poter dire che il momento in cui aveva perduto la libertà era servito a qualcosa. «È lui?» disse uno degli agenti. Guardò dritto Kim. «Hanh» disse sottovoce Raza. Hanh. Sì, rispondi di sì. Vide che si era decisa, ma non capì come né perché l’avesse fatto. «Sì» rispose lei. I poliziotti annuirono e fecero alzare in piedi Raza. L’espressione di lei si fece sconvolta nel sentire il tintinnio delle manette. «Non so se ha fatto qualcosa che non va. Aveva solo l’aria sospetta. Mio padre è morto in Afghanistan pochi giorni fa e sono ancora scioccata. Non ha fatto niente, lasciatelo andare, ve ne prego». «Non si preoccupi» rispose uno dei due agenti, nel tono che riservano alle donne considerate isteriche. «Gli faremo giusto qualche domanda. Condoglianze per suo padre». Le passarono davanti, diretti alla macchina. Sapeva che Raza non avrebbe mai dimenticato la sua espressione. Qualunque cosa gli fosse successa, qualunque cosa gli avessero fatto o detto, comunque avessero 336
tentato di spezzarlo lui si sarebbe ricordato dell’espressione di Kim Burton — come della promessa di un mondo che lo aspettava, se fosse sopravvissuto — un’espressione che diceva, più chiaramente di qualsiasi lingua: «Perdonami». Lo avrebbe fatto. Se avesse potuto, le avrebbe tolto di dosso quell’errore per scagliarlo nel cielo in tutta la sua durezza sfavillante. Però sapeva che non sarebbe andata così. Avrebbe solo potuto tentare di farle capire, in quell’ultimo istante prima che lo portassero via, nella tristezza di un sorriso, che vedeva ancora il ragno, oltre alla sua ombra.
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In viaggio sulla West Side Highway — con ogni semaforo che diventava verde al suo arrivo, il fiume illuminato dal riflesso liquido di Manhattan, il cielo di quell’arancione acceso che nelle notti nuvolose passa per oscurità — Kim non era più prossima a capire cosa fosse successo quel pomeriggio, nel ristorante e nella sua mente, di quanto lo fosse stata sei ore prima nel parcheggio. Per un attimo Abdullah le sembrava innocente. In fondo che cosa aveva detto di così grave, per spingerla a denunciarlo come clandestino? Forse che un suo amico aveva investito degli orsacchiotti? Che Hiroko doveva essere rispettata per aver assicurato al figlio un posto in paradiso? Che quelli che difendono la patria dagli invasori sono eroi? E un attimo dopo Abdullah diventava una minaccia, un uomo capace di vedere la virtù solo dal ristretto prisma di una religione che considerava un martire chi aggrediva gli americani. Occorreva consentire agli esperti — gente capace di valutare una minaccia estranea alla sua esperienza — di parlargli e di prendere la decisione che lei non era in grado di prendere. In quel primo istante provava una gratitudine smisurata per Raza, il deus ex machina che a lungo si era nascosto dietro le quinte della sua vita, aspettando il momento adatto per comparire e interporsi tra le cattive intenzioni di lei e la loro attuazione. E naturalmente Raza se la sarebbe cavata. A questa conclusione era giunta ancor prima di arrivare al confine, appena era riuscita a liberarsi della tensione accumulata nel parcheggio e aveva potuto considerare i fatti puri e semplici. Certo che se la sarebbe cavata, non era nemmeno il caso di dubitarne. Per quanto bizzarro, il suo modo di fare non aveva niente di illegale, così come la sua presenza in Canada. Non occorreva che la polizia sapesse che aveva aiutato Abdullah a scappare: avrebbero semplicemente concluso che quella americana era paranoica, che in ogni musulmano vedeva una minaccia. Però l’attimo dopo era così in collera da doversi fermare a lato della strada — capitò diverse volte — per riprendere il controllo. Raza aveva 338
permesso ad Abdullah di scappare. E comunque avesse agito adesso Kim, non avrebbe potuto evitare di smascherarlo come complice. E da quando era questo il confine invalicabile? Era questo il punto che le appariva più confuso, che le faceva venir voglia di strangolare Raza. Sorpresa dalla gravità che vedeva in lui, dalla saggezza e dall’insistenza che leggeva nel suo sguardo aveva fatto una cosa che non faceva mai: sospendere il giudizio e acconsentire. Sentiva la mancanza di Harry. Sentiva la mancanza di Ilse. Sentiva la mancanza di un mondo che non esisteva più. Che non era mai esistito, diceva la voce di Abdullah nella sua testa. Quando entrò nell’appartamento di Mercer Street capì dal buio assoluto che Hiroko si era già addormentata. Kim era tornata in città, invece di fermarsi a dormire sugli Adirondack come aveva in programma di fare, al solo scopo di raccontare tutto a Hiroko; adesso invece le sembrava di poterselo risparmiare. Accese la lampada da tavolo, e seduta sul divano vide Hiroko che la guardava. «Kim, dov’è mio figlio?» «Dio mio, Hiroko, mi hai fatto spaventare». «Ti ho telefonato un mucchio di volte». «Mi si è scaricata la batteria». Chissà perché le sembrò necessario togliersi di tasca il telefono per dimostrarglielo. «È successa una cosa molto strana, oggi pomeriggio». Hiroko si alzò e andò verso la finestra. «Ha telefonato Omar per chiedermi di scendere in strada». «Chi è Omar?» «Omar!» sbottò Hiroko. «Sei salita almeno dieci volte sul suo taxi!» «Sì, certo. Scusa». Hiroko continuò a guardarla per un attimo, poi volse di nuovo gli occhi alle luci appese sopra Williamsburg Bridge: sembravano stelle troppo incuriosite dalla vita di New York per tenersi a distanza. La sua voce riprese il consueto tono di neutralità. «Sono scesa e lui mi ha messo in mano il telefono, dicendo che Abdullah voleva parlarmi. Ho pensato che avesse perso il mio numero, altrimenti perché chiamare Omar? Invece era perché pensava che il mio 339
telefono non fosse sicuro. Che la CIA lo avesse messo sotto controllo. Per investigare sulla morte di tuo padre». «Che ne sa lui della morte di mio padre?» Ebbe qualche difficoltà a pronunciare la frase. «Solo quello che gli ha detto Raza». Aprì la finestra, lasciando entrare una raffica di vento. «Sta scappando, Kim. Proprio come pensavo. È dalla morte di Harry che sta scappando, ma non per il motivo che credevo. Scappa dalla CIA. Sono convinti che sia coinvolto, che abbia organizzato tutto lui». «Organizzato cosa?» «L’omicidio di Harry». Il vento fece sbattere la finestra, entrò qualche fiocco di neve. «Cos’è, uno scherzo?» Vedendo che Hiroko non rispondeva, Kim alzò la voce. «Il tuo amico Abdullah crede di poter scherzare sulla morte di mio padre?» «Telefonava per chiedermi se, costituendosi, avrebbe aiutato Raza o avrebbe peggiorato la sua situazione. Ha detto che ti aveva visto parlare coi poliziotti prima che lo portassero via. Perché ci parlavi, Kim Burton?» Serrò la finestra, lasciandole ermeticamente chiuse nella penombra della stanza. «Me lo spieghi?» Poche ore prima Kim pensava che ci fosse qualcosa di strano e di sbagliato nel mondo. Adesso capì che stava solo avvicinandosi al baratro. «Non sapevo che ci fosse anche Raza. Ho chiamato la polizia, è vero. Avevo i miei motivi, ma l’ho chiamata per Abdullah». «Quali motivi?» Voltava ancora le spalle a Kim, ma nella finestra ognuna vedeva il riflesso dell’altra, vicinissimo al proprio. Avevano investito una pila di orsacchiotti col loro pulmino. Non c’era modo di spiegare il terrore che aveva provato mentre, col suo silenzio, l’afghano le aveva trasmesso quella immagine. Kim fece un gesto di supplica, e con la mano attraversò il riflesso di Hiroko. «Mi sono fidata di quello che so. Non capisci? Se sospetti qualcosa, non puoi far finta di niente solo perché ti piacerebbe — e a me piacerebbe davvero tanto — vivere in un mondo dove i sospetti sui musulmani sono soltanto pregiudizi». 340
«Ah, è questo il punto» disse Hiroko, voltandosi finalmente a guardarla. «No, non è questo. Come puoi pensarlo? Ci vediamo continuamente da tre anni e mi credi una fanatica? Scusa tanto, ma i piloti di quegli aerei non erano certo buddhisti, e non ci sono video di ebrei che festeggiano la morte di tremila americani, e non è stato un cattolico a sparare a mio padre. E tu pensi che sia una fanatica solo perché me ne rendo conto?» «Io penso che sei troppo arrabbiata e spaventata per valutare la situazione. Di cosa avete parlato? Dei frutteti di Kandahar? Di com’è esaltante uno sciopero riuscito e capire che è questo il modo giusto di battersi, che è così che si vincono le battaglie? Avete parlato della paura di deludere una moglie e un figlio?» Kim si mise a sedere dov’era, dalla parte opposta della stanza, con la schiena appoggiata al muro. L’unica lampada accesa illuminava Hiroko, in piedi sullo sfondo di un vuoto cielo arancione. «Non ti ho mai vista così furiosa» disse piano. «Non credo di esserlo mai stata. E non mi piace, non mi piace per niente». Strinse i pugni e li agitò davanti a sé: uno strano gesto che solo per la sua sorprendente acredine non apparve sciocco. «Una volta Ilse ha accusato Sajjad di essere uno stupratore. Per due minuti buoni si era convinta che lo fosse. Poi l’ha ammesso: per quei due minuti si era persa. E guardati: sei proprio sua nipote. E non capisci nemmeno di esserti persa». «Come puoi paragonare due situazioni così diverse? Lei lo conosceva da anni!» «E tu da cinque minuti. Me l’ha detto lui, che avevate parlato per cinque minuti. Oppure mentiva? No, non mentiva, vero? Tu condanni un uomo in base a cinque minuti di conversazione. A suo modo è un crimine non meno grave di quello di Ilse. Cinque minuti! Io ho passato una sera e quasi tutto il giorno dopo a parlarci. Credi che ti avrei lasciata partire in macchina con lui se avessi pensato...?» Tagliò corto, sentendo quanto era strana la sua voce piena di collera. Kim si alzò e fece qualche passo verso di lei. «Se l’avessi guardato e avessi visto in lui l’assassino di mio padre, 341
non sarebbe comprensibile? Non voglio dire che è giusto, ma ammetterai che è comprensibile». «E se guardando te vedessi Truman?» Kim spalancò gli occhi, poi li strinse. Voleva essere questo, il suo asso nella manica? Era assurdo, e pure offensivo. Anche i Weiss avevano perso un familiare a Nagasaki, e quella della morte di Konrad era la storia più spaventosa che avesse sentito da bambina. «Raza se la caverà» disse voltando le spalle a Hiroko. «Ha i legali della A&G dalla sua parte, uscirebbe bene da qualsiasi situazione». «Anche dall’assassinio di Harry?» «Hiroko, sono troppo stanca per parlarne» buttò lì mentre si versava un bicchiere di scotch. Farsi un bagno, bere qualcosa e andare a letto. Esattamente quello che aveva desiderato ventiquattr’ore prima che Hiroko la trascinasse in questo folle progetto. Farsi un bagno, bere qualcosa e andare a letto; e domani avrebbe chiamato l’agenzia per vedere se c’era modo di anticipare l’inizio del contratto di affitto. «Nessuno penserà mai che Raza sia coinvolto nella morte di Harry. Il tuo afghano è un bugiardo, e chissà cos’altro». «Torna qui e siediti». «Non sono una scolaretta di dieci anni, signora Ashraf». Era già quasi in camera quando Hiroko parlò di nuovo. «Quando venne a sapere dei campi di concentramento, Konrad disse che per decimare un popolo è necessario negargli la sua umanità. Ma non è vero». Non fermarti, si disse Kim. Entra in camera tua e chiudi la porta. Invece restò dov’era, stringendo il bicchiere di scotch che le faceva credere che Harry fosse lì con lei. «Basta considerare tutti un dettaglio. Se prendi la seconda guerra mondiale nel suo insieme, come consideri la morte di settancinquemila giapponesi in più? La consideri accettabile, ecco come. Se prendi la minaccia del terrorismo nel suo insieme, un solo afghano che cos’è? È sacrificabile. Forse è colpevole, forse no. Perché rischiare? Kim, sei la persona più buona e generosa che io conosca, ma in questo momento mi hai fatto capire per la prima volta il motivo per cui un paese può applaudire quando il suo governo sgancia una seconda bomba atomica». 342
Il silenzio che seguì era quello di due amiche intime che scoprono di essere diventate estranee. A separarle erano quegli uccelli scuri, le loro piume bruciate erano ovunque. Fu Kim la prima a parlare. Non a Hiroko, tuttavia. Prese il telefono e chiamò in Canada. Parlò con qualcuno, poi con qualcun altro, si ostinò, implorò, rimase in attesa un tempo infinito, finché le chiesero di lasciare il numero e aspettare che la richiamassero. Lei e Hiroko sedettero sul divano, fianco a fianco, in silenzio. Poco dopo telefonò uno dei poliziotti del parcheggio. Kim lo mise in vivavoce. «Mi fa piacere che abbia chiamato» le disse. «Ci tengo a dirle che oggi lei ha fatto assolutamente il suo dovere». «Non è vero» rispose lei. «Quell’uomo non ha fatto niente di male. Sono io quella che ha infranto la legge». Si sarebbe costituita. Avrebbe ammesso che era stata lei a far passare il confine all’uomo che aveva poi denunciato. Avrebbe spiegato che dopo aver chiamato la polizia aveva cominciato a preoccuparsi che quell’uomo la denunciasse a sua volta come complice, e che per questa ragione, nel parcheggio, aveva identificato la persona sbagliata. Avrebbe chiesto che le passassero quell’uomo per scusarsi con lui di persona. «Non c’è niente di illegale nel denunciare qualcuno in base a un’intuizione. E l’arrestato ha fatto molte cose che non doveva fare» rispose l’agente. «Forse non glielo dovrei dire, ma penso che lei meriti di saperlo. Era ricercato dal governo americano, che adesso è molto soddisfatto di averlo messo in stato d’arresto. Signorina, suo padre sarebbe fiero di lei». Hiroko si alzò in piedi e si avvicino lentamente alla finestra. Fuori, se non altro, il mondo non si era fermato.
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Ringraziamenti
Grazie a Omar Rahim, Samina Mishra, Jaya Bhattacharji, Ruchir Joshi per avermi accompagnata nelle «location» di Karachi e Delhi; ad Aamer Mussein, Mohammed Hanif, Elizabeth Porto per i loro commenti sulle varie stesure; a David Mitchell per la generosità con cui ha suggerito percorsi di ricerca a una sconosciuta; a Beatrice Monti della Corte per quel rifugio che è Santa Maddalena; a Victoria Hobbs e ad Alexandra Pringle, che continuano a essere la mia squadra perfetta; a Gillian Stern per il suo occhio attento nella redazione; ad Ali Mir, per Sahir Ludhianvi e le passeggiate a New York; a Bobby Banerjee, per avermi fatto conoscere il mondo delle milizie private; a Karin Gosselink e a Rachel Holmes per il rigore politico e intellettuale; a Biju Mathew per avermi consentito di approfittare delle sue conoscenze; al gruppo a cena a Galle per il titolo; ai miei genitori e a mia sorella, che continuano a essere i miei più grandi sostenitori; ai tanti amici — in particolare Maha Khan-Phillips e Janelle Schwartz — che sono state ad ascoltare quando parlavo del libro o mi hanno trascinato via dalla scrivania quando ne avevo bisogno; a tutto lo staff di Bloomsbury e A. M. Heath; a Frances Coady; a Mark Pringle; infine, e soprattutto, agli scrittori, ai giornalisti, ai registi e ai fotografi che col loro lavoro mi hanno aiutata a immaginare i mondi che ho descritto in questo libro. La traduzione dei versi di Sahir Ludhianvi in epigrafe è mia; il titolo della sezione conclusiva del romanzo è presa dal Paziente inglese di Michael Ondaatje.
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Approfondimenti
Eqbal Ahmed, The Selected Writings Steve Coll, Ghost Warriors John Hersey, Hiroshima Biju Mathew, Taxi! (tr. it. Taxi! Driver in rivolta a New York, Feltrinelli, Milano 2006) Takashi Nagai, The Bells of Nagasaki (tr. it. Le campane di Nagasaki, Garzanti, Milano 1952) Keiji Nakazawa, Barefoot Gen B. K. Zahrah Nasir, The Gun Tree P. W. Singer, Corporate Warriors Mohammad Yousaf, Mark Adkin, Afghanistan — The Bear Trap Robert Pelton Young, Licensed to Kill
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