José Saramago
Oggetto quasi Racconti
Traduzione di Rita Desti Titolo originale Objeclo Quaie © José Saramago e Editori...
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José Saramago
Oggetto quasi Racconti
Traduzione di Rita Desti Titolo originale Objeclo Quaie © José Saramago e Editorial Caminho SARL, 1984. By arragement of Dr. RayGiide Martin Literarische Agentur, Bad Homburg, Germany. La traduzione italiane è stata realizzata con il contributo del Ministero da Cultura de Portugal – Frankfurt 97 S.A., InsLituto Partngoes do Livro e das Bibliotecas, Lisboa. © 1997 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Einaudi
Indice Nota editoriale .......................................................................1 OGGETTO QUASI ............................................................................ 2 Sedia ...................................................................................2 Embargo ............................................................................. 15 Riflusso .............................................................................. 23 Cose .................................................................................. 33 Centauro ............................................................................ 59 Rivincita ............................................................................. 70
Nota editoriale Nell’immaginario di José Saramago gli oggetti si distraggono spesso dalle loro funzioni di oggetti per assumere un’indipendenza pericolosa, come può esserlo la fantasia. Così capita che una penisola possa recidere il proprio legame con il continente per diventare una «zattera di pietra» oppure che una piccola preposizione si inserisca autonomamente in un testo e cambi il corso della storia a partire dall’«assedio di Lisbona». Nei racconti di questo libro – raccolti nel 1978 – l’epidemia di indipendenza si diffonde. In Sedia la protagonista principale è appunto la sedia occupata da una vittima senza nome che cade al rallentatore (ma non è difficile riconoscervi il dittatore portoghese Antònio de Oliveira Salazar, poco eroicamente morto per una caduta dalla sedia su cui riposava). In Embargo il protagonista non è tanto l’impiegato che sta andando a lavorare in auto, ma l’auto stessa, sorta di macchina infernale che si ribella all’embargo sul petrolio voluto dagli arabi e porta alla morte, incollato al sedile, il padroneconducente. In Riflusso la cronaca della costruzione di un gigantesco cimitero serve per esorcizzare la paura di morire di un despota. E un oggetto, un oggetto quasi, è in fondo anche il centauro dell’omonimo racconto, un’anima a cui due corpi e due esperienze della sensibilità non possono dare pace se non nell’istante finale. Nei racconti di Saramago l’elemento fantastico ci restituisce un mondo meno funzionale ma senz’altro più corrispondente al vero. Lo si può attraversare come un nuovo territorio.
Oggetto quasi Se l’uomo è formato dalle circostanze, è necessario formare le circostanze umanamente. K. MARX e F. ENGELS, La sacra famiglia
Sedia La sedia cominciò a cadere, ad andare giù, a cascare, ma non a rigor di termine, a crollare o, come si dice in portoghese, a desabar. In senso stretto, desabar significa “abbassare le falde”. Ebbene, di una sedia non si dirà certo che abbia le falde, e se le avesse, per esempio dei sostegni laterali per le braccia, si direbbe che stanno cadendo i braccioli della sedia e non che si abbassano le falde. Ma è pur vero che desabar si usa per desabar botegas, come a dire “piovere a rovesci”, dico io, anzi, mi viene in mente ora, perché non mi accade di cadere nelle mie stesse trappole: quindi, se “piove a catinelle”, che è solo un altro modo per dire la stessa cosa, non potrebbero alla fin fine anche le sedie abbassare le falde, pur non avendole? Almeno per libertà poetica? Almeno per singolare artificio di un modo di parlare che si proclama stile? Si accetti allora che le sedie crollino, anche se sarebbe preferibile che si limitassero a cadere, a cascare, ad andar giù. E crolli pure, allora, colui che si è seduto sulla sedia, o che non è più seduto, ma sta cadendo, come in questo caso, e lo stile si avvantaggerà della varietà delle parole, le quali in fin dei conti non dicono mai la stessa cosa, per quanto lo si voglia. Se dicessero la stessa cosa, se si riunissero a gruppi per omologia, allora la vita potrebbe essere molto piú semplice, per via di una riduzione successiva, addirittura fino all’onomatopea, anch’essa non tanto semplice, e così via di seguito, probabilmente fino al silenzio che definiremmo il sinonimo generale oppure onnivalente. Ma non si tratta neppure di onomatopea, o non la si può formare partendo da questo suono inarticolato (perché la voce umana non possiede suoni puri e quindi inarticolati, tranne forse nel canto, e comunque bisognerebbe ascoltarlo da molto vicino), che si forma nella gola del cascante o del cadente, anche se non è una stella, parole di risonanza araldica che adesso stanno a designare colui che crolla, perché non si è ritenuto corretto aggiungere a questo verbo la desinenza parallela (ante) che concluderebbe la scelta e completerebbe il cerchio. Ecco dunque provato che il mondo non è perfetto. Già si definirebbe perfetta la sedia che sta per cadere. Ma cambiano i tempi, cambiano le volontà e le qualità, ciò che un tempo era perfetto non lo è più, per motivi indipendenti dalle volontà, ma che non sarebbero motivi se i tempi non li portassero con sé. O il tempo. Poco importa dire quanto sia stato questo tempo, come importa poco descrivere o semplicemente enunciare lo stile di arredamento che, per identificazione, renderebbe la sedia membro di una famiglia certo numerosa, tanto più che come sedia
appartiene, per sua natura, a un modesto sottogruppo o ramo collaterale, niente che si possa accostare, per dimensione o funzione, a quei robusti patriarchi che sono i tavoli, i buffet, gli armadi, o ai piatti o alle stoviglie, o ai letti, dai quali naturalmente è molto più difficile cadere, se non impossibile, visto che proprio alzandosi dal letto ci si può rompere una gamba, o coricandosi si può scivolare sul tappeto, a meno che il fatto di rompersi una gamba non sia proprio la conseguenza di uno scivolone sul tappeto. E non crediamo neppure che sia importante specificare il tipo di legno di cui sia fatto un mobile tanto piccolo, la sedia, che già nel suo nome portoghese, cadeira, sembra destinato a cadere, o forse è un raggiro linguistico questo latino cadere, ammesso che sia latino, perché dovrebbe esserlo. Potrà essere stato usato qualsiasi tipo d’albero, eccetto il pino, perché ormai ha esaurito le sue doti nelle navi dell’India e oggi è un legno ordinario, il ciliegio perché si curva facilmente, il fico perché si spezza a tradimento, soprattutto nei giorni caldi e quando, per raccogliere un frutto, ci si spinge troppo avanti sul ramo; esclusi, dunque, questi alberi per i loro difetti, e tranne qualcun altro per le qualità di cui abbonda, come ad esempio il “legno-ferro”, dove il tarlo non entra, ma che è troppo pesante rispetto al volume necessario. Un altro albero che non è adatto è l’ebano, proprio perché si tratta solo di una diversa denominazione del “legno-ferro”, e si è già visto l’inconveniente di usare dei sinonimi o tali ritenuti. Non si tratta qui di disquisire su questioni botaniche piuttosto che su sinonimi, bensì di verificare due diverse denominazioni che genti diverse hanno dato alla stessa cosa. Ci si può scommettere che il nome di “legno-ferro” sia stato dato o soppesato da chi forse ha dovuto trasportarlo sulle spalle. Si scommette sul sicuro e si vince. Se fosse di ebano, dovremmo probabilmente rimproverare alla sedia che sta cadendo di essere perfetta, e dovremmo farlo perché in tal caso la sedia non starebbe cadendo, o finirebbe per cadere si, ma molto più tardi, diciamo da qui a un secolo, quando ormai non ci servirebbe più la sua. caduta. È possibile che un’altra sedia finirebbe per cadere al posto suo, per poter dare la stessa caduta e lo stesso risultato, ma questo significherebbe raccontare un’altra storia, non la storia di ciò che è stato perché sta accadendo, bensì quella di ciò che forse potrebbe succedere. Il certo è molto meglio, soprattutto quando l’incerto lo si è aspettato a lungo. Una qualche perfezione, comunque, dovremo pur riconoscerla a questa sedia in fondo unica che continua a cadere. Non è stata costruita apposta per il corpo che vi si è seduto sopra per tanti anni, ma è stata scelta per via dello stile, visto che si accordava o non stonava troppo con il resto dei mobili che si trovano lì vicino o poco più lontano, visto che non era di pino, o di ciliegio o fico, per le suddette motivazioni, ma di un legno solitamente usato in mobili di qualità destinati a durare, verbi gratia, il mogano. È uu’ipotesi, questa, che non ci esime dallo spingerci oltre nell’indagine, peraltro non deliberata, sull’albero che si è utilizzato per tagliare, modellare, forgiare, incollare, montare, stringere e far seccare la sedia che sta cadendo,
insomma, che sia mogano e non se ne parli più. Se non per aggiungere quanto sia piacevole e riposante, dopo essersi accomodati e, soprattutto se la sedia ha i braccioli ed è tutta di mogano, sentire sotto le palme delle mani quella dura e misteriosa pelle morbida del legno levigato, e se il bracciolo è curvo, la forma di una spalla o di un ginocchio oppure di un osso iliaco che ha quella curvatura. Purtroppo il mogano, verbi gratia, non resiste al tarlo come vi resiste il suddetto ebano o “legno-ferro”. La prova l’hanno fatta per esperienza le genti e i falegnami, ma chiunque di noi, purché animato da sufficiente spirito scientifico, potrà ripetere in proprio l’esperimento usando i denti sull’uno e sull’altro legno e valutando la differenza. Un normale canino, anche se tutt’altro che addestrato per un’esibizione di forza dentale circense, imprimerà sul mogano un bel segno visibile. Non lo farà sull’ebano. Quod erat demonstrandum. Da qui potremo valutare le difficoltà del tarlo. Nessuna indagine di polizia sarà condotta, anche se era proprio il momento adatto, quando la sedia si è inclinata di due gradi appena, visto che, per dire tutta la verità, lo spostamento brusco del centro di gravità ormai è irrimediabile, soprattutto perché non è stato compensato da un riflesso istintivo e da una forza che vi obbedisce. Ora sarebbe il momento, lo ripetiamo, di dare l’ordine, un ordine severo che facesse ritornare tutto indietro, da questo istante che non si può trattenere fino, non dico all’albero (o agli alberi, giacché niente ci garantisce che i pezzi di legno appartengano a tavole sorelle), ma fino al venditore, al magazziniere, alla segheria, allo stivatore, alla compagnia di navigazione che da lontano ha trasportato il tronco separato da rami e da radici. Fin dove fosse necessario arrivare per scoprire il tarlo originario e chiarire le responsabilità. Alcuni suoni, certo, vengono articolati in gola, ma non riusciranno a formulare l’ordine. Sono ancora esitanti, inconsapevoli di esitare, fra l’esclamazione e il grido, entrambi primari. È quindi garantita l’impunità per ammutolimento della vittima e per disattenzione dei ricercatori, che solo “pro forma” e per prassi andranno ad appurare, quando la sedia avrà finito di cadere e la caduta per il momento ancora non fatale sarà consumata, che la gamba o il piede si sono malauguratamente, nonché criminosamente, rotti. Sarà umiliato colui che andrà a fare tale verifica, giacché non può essere che umiliante avere la pistola sotto l’ascella e ritrovarsi con un pezzo di legno tarlato in mano, sbriciolandolo sotto l’unghia che all’occorrenza non ci sarebbe neppure bisogno che fosse tanto lunga. E poi allontanare con il piede la sedia rotta, senza neppure un po’ di irritazione, e lasciar cadere, proprio così, cadere, la gamba inutile, ora che è finito il tempo della sua utilità, che è proprio quella di essersi rotta. In qualche luogo è successo che il coleottero, sia che appartenesse al genere Hilotrupes o all’Anobium o a qualcun altro (nessun entomologo ha fatto una perizia e un’identificazione), si sia introdotto in questa o quella parte della sedia, da dove poi ha viaggiato, rodendo, mangiando ed
evacuando, aprendo gallerie lungo le venature più morbide, fino al punto ideale di frattura, quanti anni dopo non si sa, premettendo comunque che, considerata la brevità della vita dei coleotteri, dovranno certo essere state tante le generazioni che si sono cibate di questo mogano fino al giorno della gloria, nobile popolo, nazione valente. Fermiamoci un po’ a riflettere sull’opera pazientissima, su quest’altra piramide di Cheope, ammesso che si scriva così l’egizio in italiano, che i coleotteri hanno edificato senza che se ne vedesse nulla dall’esterno, ma aprendo tuunnel che comunque porteranno a una camera mortuaria. Non è obbligatorio che i faraoni siano deposti all’interno di montagne di pietra, in un luogo misterioso e buio, con diramazioni che si affacciano su pozzi e precipizi, là dove poi lasceranno le ossa, e la carne finché non sarà rosa, quegli archeologi imprudenti e scettici che se la ridono delle maledizioni, in quel caso si parla di egittologi, qui forse bisognerà parlare di lusologi o portogallologi, per così dire. Soffermandoci su queste differenze tra il luogo in cui si fa la piramide e quello in cui si deporrà o si è deposto il faraone, apliquemos el cuento, come dicono gli spagnoli e, seguendo le sagge e prudenti parole dei nostri antenati, diciamo che da una parte si mette la frasca e dall’altra si vende il vino. Quindi non stupiamoci che questa piramide chiamata sedia rifiuti non una, ma più volte il proprio destino funerario e che, al contrario, tutto il tempo della sua caduta finisca per essere una forma di congedo, costantemente rivolto al principio, non perché le pesi così tanto la partenza, che in seguito sarà per terre lontane, ma per palese dimostrazione e compenetrazione di che cos’è un congedo, perché i congedi, è risaputo, sono sempre troppo rapidi per meritarne realmente il nome. Non c’è mai occasione né luogo per il dispiacere dieci volte distillato fino alla pura essenza, tutto si riduce a qualche balbettio e a una certa fretta, a una lacrima che stava per spuntare e non ha avuto il tempo di mostrarsi, a un’espressione che avrebbe voluto essere di profonda tristezza, o di melanconia come si usava un tempo, ed è solo un po’ fuori moda. Cadendo così la sedia, non c’è dubbio che cada, ma il tempo di cadere è tutto ciò che possiamo aver desiderato, e mentre guardiamo questo tonfo che niente tratterrà e che nessuno di noi tratterrebbe, considerandolo ormai inevitabile, possiamo farlo tornare indietro come la Guadiana, non per paura, ma per piacere, che è un modo celestiale di godere, anche qui senza dubbio meritato. Con santa Teresa di Avila e con il dizionario impariamo, se possibile, che questo godimento è quella gioia soprannaturale che nell’anima dei giusti crea la grazia. Mentre vediamo la sedia cadere, sarebbe impossibile che non ricevessimo questa grazia, noi che da spettatori della caduta non facciamo né faremo nulla per trattenerla e vi assistiamo tutti uniti. È appurata con ciò l’esistenza dell’anima, per via dimostrativa di un effetto che, lo si è già detto, non potremmo davvero provare senza di essa. Ritorni quindi la sedia in verticale e ricominci a cadere mentre noi riprendiamo il nostro discorso.
Ecco l’Anobio, è questo il nome scelto, per qualcosa di nobile che vi è in esso, un vero e proprio vendicatore che, in groppa al suo cavallo Malacar, spunta all’orizzonte della prateria e ad arrivare impiega tutto il tempo necessario affinché passino i titoli di coda e si sappia, se nessuno di noi ha visto i cartelloni nell’atrio d’ingresso, chi è stato in fin dei conti a realizzare tutto questo. Ecco L’Anobio, adesso in primo piano, con la sua faccia da coleottero a sua volta corrosa dal vento delle distese e da quei grandi soli che tutti noi sappiamo bene quanto risplendano nelle gallerie scavate nella gamba della sedia che si è appena rotta, ragion per cui la sedia comincia per la terza volta a cadere. Questo Anobio, lo si è già detto in forma più legata alle banalità della genetica e riproduzione, ha avuto dei predecessori nella sua opera di vendetta: si chiamavano Fred, Tom Mix, Buck Jones, ma questi sono i nomi rimasti per sempre registrati nella storia epica del Far West e che non devono farci dimenticare i coleotteri anonimi, quelli che hanno avuto un compito meno glorioso, addirittura ridicolo, come l’avere iniziato la traversata del deserto ed esservi morti, o dopo avere percorso un passo dopo l’altro il sentiero nel pantano, l’essere scivolati e rimasti li, sporchi, puzzolenti, coperti di vergogna, castigati dalle risate della platea e della balconata. Nessuno di loro è riuscito ad arrivare al regolamento dei conti, quando il treno fischia tre volte e l’interno delle fondine è ben oliato per estrarre le armi senza indugio, con gli indici già incastrati nel grilletto e i pollici pronti a tirare il cane. Nessuno di loro ha avuto il premio che lo aspettava sulle labbra di Mary, né la complicità del cavallo Fulmine che si avvicina alle spalle del timido cowboy e lo spinge tra le braccia della ragazza, che non aspetta altro. Sotto tutte le piramidi ci sono sassi, sotto i monumenti pure. L’Anobio vincitore è l’ultimo anello della catena di anonimi che lo hanno preceduto, comunque non meno felici, visto che hanno vissuto, lavorato e sono morti, ogni cosa a suo tempo, e noi sappiamo che questo Anobio chiude il ciclo e, come il calabrone, morirà nell’atto di fecondare. Il principio della morte. Una musica stupenda che nessuno ha udito per mesi e anni, incessante, senza sosta, di giorno e di notte, nell’ora splendida e stupefacente del sorgere del Sole e in quell’altra occasione di stupore che è l’addio alla luce fino al mattino dopo, questo rodere costante, continuo, come un infinito organetto a una sola nota che macina, tritura fibra dopo fibra, mentre tutta la gente distratta entra ed esce, occupata con le proprie cose, senza sapere che, a un’ora stabilita, da li uscirà con le pistole in pugno, lo ripetiamo, l’Anobio che, squadrando il nemico, il bersaglio, lo centra, che significa cogliere esattamente nel centro, oppure lo significa da adesso in poi, perché qualcuno doveva pure essere il primo. Una musica stupenda, insomma, composta e suonata da generazioni di coleotteri, a loro godimento e beneficio nostro, tale e quale il destino della famiglia Bach, sia prima che dopo Johann Sebastian. Una musica non udita, e anche se la udisse che cosa farebbe, da colui che seduto sulla sedia cade insieme a essa mentre gli si
forma in gola, per paura o per sorpresa, questo suono articolato che forse non diventerà un grido, un urlo, e tantomeno una parola. Una musica che finirà per cessare, che è cessata in questo istante: Buck Jones vede il nemico cadere inesorabilmente a terra, sotto l’intensa e offuscante luce del sole texano, infila le rivoltelle nelle fondine e si toglie il cappellone dalle larghe falde per asciugarsi la fronte e perché Mary si avvicina correndo, vestita di bianco, adesso che il pericolo è passato. Vi sarebbe, tuttavia, una certa esagerazione nell’affermare che il destino degli uomini è tutto scritto nell’apparato buccale roditore dei coleotteri. Se così fosse, saremmo andati tutti a vivere in case di vetro e ferro, al riparo così dall’Anobio, ma non al riparo da tutto, visto che, insomma, per qualche ragione esiste, e magari anche per qualcun’altra, questo misterioso male a cui noi, potenziali cancerosi, diamo il nome di cancro del vetro, così come esiste quella ruggine talmente banale che non attacca il “legno-ferro”, e qualcuno cerchi di svelare questi altri misteri, ma distrugge letteralmente ciò che sia il solo ferro. Noialtri uomini siamo fragili, ma è pur vero che siamo proprio noi a dover aiutare la nostra morte. Forse è una questione di onore: non rimanere li inermi, consegnandoci, ma dare qualcosa di noi stessi. A che cosa ci servirebbe, altrimenti, essere al mondo ? La lama della ghigliottina taglia, ma chi è che offre il collo? Il condannato. Le pallottole dei fucili perforano, ma chi è che offre il petto? Il fucilato. La morte possiede questa bellezza peculiare di essere chiara quanto una dimostrazione matematica, semplice quanto il gesto di unire due punti con una linea, purché non si ecceda nella lunghezza del righello. Toni Mix spara con le sue due rivoltelle, ma è comunque necessario che la polvere compressa nelle cartucce sia abbastanza potente e in quantità sufficiente perché il piombo superi la distanza nella sua traiettoria leggermente curva (qui il righello non centra) e, avendo rispettato le regole della balistica, perfori a una giusta altezza prima il panciotto di stoffa, poi la camicia forse di flanella e, dopo, la maglietta di lana che d’inverno riscalda e d’estate assorbe il sudore, e finalmente la pelle, morbida ed elastica, la quale si ritrae, prima supponendo, ammesso che la pelle supponga e che non suppuri soltanto, che la forza dei proiettili si spezzerà lì, e poi che le pallottole cadranno per terra, nella polvere della strada, così il cattivo si salverebbe fino al prossimo episodio. Ma non è andata in questo modo. Buck Jones ha già Mary tra le braccia e la parola Fine gli nasce dalle labbra e va a riempire lo schermo. Sarebbe il momento in cui gli spettatori dovrebbero alzarsi, lentamente, proseguire lungo il corridoio verso la luce cruda che viene dalla porta, visto che sono andati a un matinée, sforzandosi di tornare a questa realtà senza avventure, un po’ tristi, un po’ coraggiosi, e talmente maldisposti verso la vita che li aspetta nel poligono di tiro che qualcuno se ne rimane addirittura li seduto per il secondo spettacolo: c’era una volta. Si è appena seduto anche questo vecchio che prima è uscito da una sala e ne ha attraversata un’altra, poi si è infilato in un corridoio che avrebbe
potuto essere quello di un cinema, ma non lo è, visto che è una dipendenza della casa, non diremo sua, ma solo della casa in cui abita, o in cui sta abitando adesso, quindi non sua, ma da lui dipendente. La sedia non è ancora caduta. Condannata, è come un uomo stremato per il momento ancora al di qua del limite estremo della spossatezza: riesce a sopportare il proprio peso. Vedendola da lontano, non sembra che l’Anobio l’abbia trasformata, lui, cowboy e minatore, lui, in Arizona e nelle campagne di São Paulo, in una rete labirintica di gallerie, tale da perdervi il senno. La vede da lontano il vecchio che si avvicina, e la vede sempre più prossima, ammesso che la veda, che dopo tante migliaia di volte in cui vi si è seduto ormai non la vede più, ed è questo il suo errore, lo è sempre stato, quello di non notare le sedie su cui si siede supponendo che siano tutte tali da potere ciò che solo lui può. San Giorgio, il santo, ci vedrebbe il drago, ma questo vecchio è un falso devoto che si è messo in combutta, in intimità, coi cardinali patriarchi, e tutti insieme, lui e loro, in hoc signo vinces. Non vede la sedia, anche adesso sta sorridendo candidamente giulivo, e le si avvicina senza notarla, mentre l’Anobio distrugge faticosamente le fibre restanti nell’ultima galleria e si stringe sui fianchi il cinturone munito di fondine. Il vecchio pensa di riposare lì una mezz’oretta, magari di farsi pure un sonnellino con questa bella temperatura d’inizio autunno, perché certo non avrà la pazienza di leggere i fogli che tiene in mano. Non impressioniamoci: non si tratta di un film dell’orrore. Con cadute del genere hanno fatto e faranno splendide scene comiche, esilaranti gags, come le ha fatte Chaplin, le ricordiamo ancora tutti, o quel Pate Patachon, un dolcetto a chi se ne ricorda. E non anticipiamo, anche se noi sappiamo che la sedia si spezzerà: ma non è ancora il momento, l’uomo deve prima sedersi piano piano, a noi che siamo vecchi dettano legge i tremuli ginocchi, deve posare le mani o afferrare con forza i braccioli o falde della sedia, per non lasciare cadere bruscamente le natiche rugose e il fondo dei calzoni sul sedile che ha sopportato tutto, com’è inutile specificare, ché siamo tutti esseri umani e lo sappiamo. Per quanto riguarda la ciccia, chiariamolo subito, perché questo vecchio ha molte e svariate ragioni, e sono pure antiche, per dubitare della propria umanità. Comunque si siede come un uomo. Non si è ancora appoggiato. Il suo peso, grammo più grammo meno, è ugualmente distribuito sul sedile della sedia. Se non si muovesse, potrebbe rimanere li in salvo fino al calar del sole, periodo in cui l’Anobio suole riacquistare le forze e rodere con rinnovato vigore. Ma lui comincia a muoversi, si è mosso, si è appoggiato alla spalliera, si è perfino sbilanciato di un nonnulla sul lato fragile della sedia. E la sedia si spezza. Si spezza la gamba della sedia, prima ha cigolato, poi l’azione del peso squilibrato l’ha squarciata, e all’improvviso la luce del giorno è entrata abbagliante nella galleria di Buck Jones, illuminando il bersaglio. Per via della ben nota differenza tra la velocità della luce e quella del suono, tra la lepre e la tartaruga, la detonazione si sentirà più tardi, sorda, soffocata come un corpo
che cade. Diamo tempo al tempo. Non c’è più nessuno nella sala, o stanza, o veranda, o terrazzo, o; finché il tonfo della caduta non si sarà sentito, siamo noi i signori di questo spettacolo, possiamo addirittura esercitare il sadismo che, come il medico e il pazzo, possediamo in piccola misura, in un modo, diciamolo subito, passivo, come colui che si limita a guardare e non conosce o in limine rifiuta i doveri sia pure umanitari di accorrere. Da questo vecchio, proprio no. Sta per cadere all’indietro. Eccolo che cade. Qui, proprio davanti a lui, posto privilegiato, possiamo vedere che ha il viso allungato, il naso adunco e affilato come un gancio e tagliente come un rasoio, e se non fosse perché ha aperto la bocca in questo istante, avremmo il diritto, quel diritto che spetta a ogni testimone oculare, il quale per ciò dice io ho visto, di giurare che su di essa non vi sono labbra. Ma lui l’ha aperta, la apre per lo spavento e la sorpresa, perché non capisce, e quindi è possibile distinguere, anche se con poca precisione, due bordi di carne o larve pallide che solo grazie alla diversità del tessuto dermico non si confondono con il pallore circostante. Tremula il frenulo sulla laringe e sulle altre cartilagini, e tutto il corpo accompagna la sedia all’indietro, e subito dopo ecco rotolare da un lato, non lontano perché dobbiamo assistervi tutti, la gamba della sedia che si è spezzata. Si è sparsa una polverina giallastra, per la verità non molta, ma abbastanza perché davanti a tutta questa scena ce la godiamo nell’immaginare una boccetta la cui sabbia fosse escatologicamente costituita dai rifiuti del coleottero: è chiaro, quindi, fino a qual punto sarebbe assurdo introdurre a questo punto Buck Jones e il suo cavallo Malacar, e questo supponendo che Buck abbia cambiato il cavallo nell’ultima stazione di posta e adesso monti il cavallo di Fred. Ma tralasciamo questa polvere, che non è neppure zolfo e che contribuirebbe a creare la scena se lo fosse, bruciando con la sua fiamma azzurrognola e liberando il suo maleodoroso acido solforoso, oh rima. Sarebbe un’ottima maniera di rappresentare così l’inferno, con la sedia di belzebù che si spezza e cade all’indietro trascinando con sé satanasso, asmodeo e legione. Il vecchio ormai non stringe più i braccioli della sedia, le ginocchia, improvvisamente non tremolanti, obbediscono adesso a un’altra legge, e i piedi che hanno sempre calzato gli stivali per non far sapere che sono biforcuti (nessuno ha letto a suo tempo, e con attenzione, la storia della “Dama Pie’dicapra”, là c’è tutto), quei piedi sono ormai per aria. Assisteremo al grande esercizio ginnico, il salto mortale all’indietro, senz’altro ben più spettacolare, anche senza pubblico, di tutti gli altri visti negli stadi e nei circhi, dall’alto della tribuna, quando le sedie erano ancora solide e l’Anobio un’improbabile ipotesi di lavoro. E non c’è nessuno a fissare questo momento. Il mio regno per una polaroid, gridò Riccardo III, e nessuno gli diede retta perché la chiedeva troppo presto. Nulla ci rimane in cambio di tutto questo affannarsi a mostrare la fotografia dei figli, il tesserino da socio e la vera immagine della caduta. Poveri piedi per aria, sempre più lontani dal
pavimento, povera testa sempre più vicina, povera santa Comma, non certo santa degli afflitti, bensì santa padrona di colui che li ha sempre afflitti. Per adesso le figlie del Mondego non piangono ancora la morte scura. Questa non è una caduta qualsiasi, come quelle di Chaplin, non la si può ripetere, è unica e quindi superba, come quando erano ancora uniti i lineamenti di Adamo e le grazie di Eva. E visto che abbiamo parlato di lei, dell’Eva domestica e servizievole, imperiosa nella giusta proporzione, benefattrice di disoccupati purché sobri, onesti e cattolici, pozzo di martirio, potere smisurato e infangato all’ombra di questo Adamo che cade senza mela né serpente, dove sei? Troppo a lungo ti trattieni in cucina, o al telefono a parlare con le figlie di Maria o con le schiave del Sacro Cuore o con le pupille di santa Zita, troppa acqua sprechi a innaffiare i vasi di begonie, troppo ti distrai, ape regina che non accorri, e se accorressi a chi daresti aiuto? È tardi. I santi voltano le spalle, fischiettando, si fingono distratti, perché sanno molto bene che miracoli non ce ne sono, non ce n’è mai stati, e quando nel mondo è accaduto qualcosa di straordinario, fortuna loro è stata che fossero presenti e ne hanno approfittato. Neppure san Giuseppe, che a suo tempo fu un falegname, e miglior falegname che santo, riuscirebbe a incollare quella gamba della sedia in tempo per evitare la caduta, prima che questo nuovo campione dell’atletica portoghese compia il suo salto mortale, mentre l’Eva domestica e governante sta scegliendo le tre boccette di pillole e gocce che il vecchio prenderà, una per volta, prima durante e dopo il prossimo pasto. Il vecchio vede il soffitto. Lo vede soltanto, non ha il tempo di guardarlo. Agita le braccia e le gambe come una testuggine capovolta con la pancia all’insù, e subito dopo è molto più simile a un seminarista con gli stivali che si masturba quanto va in vacanza a casa dei genitori che girano per l’aia. Soltanto questo, e nient’altro. Dolce terra, e bruta, e semplice, da calpestare e poi dire che è tutta di pietre, e che nasciamo poveri e poveri per fortuna moriremo, e perciò stiamo nella grazia del Signore. Cadi, vecchio, cadi. Nota che in questo momento i tuoi piedi sono più in alto della testa. Prima di fare il tuo salto mortale, medaglia olimpica, farai la verticale come non è riuscito a farla quel ragazzo sulla spiaggia, che tentava e cadeva, con un braccio solo perché l’altro gli era rimasto in Africa. Cadi. Ma non avere fretta: il sole è ancora alto nel cielo. E noi, che abbiamo assistito alla scena, possiamo addirittura avvicinarci a una finestra e guardare fuori tranquillamente, e avendo davanti agli occhi il grande panorama ricco di città e paesi, fiumi e pianure, monti e campi coltivati, dire al diavolo tentatore che noi vogliamo proprio questo mondo qui, perché non c’è niente di male se qualcuno desidera quello che gli appartiene. Con gli occhi abbagliati torniamo dentro, ma è come se tu non ci fossi: abbiamo introdotto nella stanza troppa luce e dobbiamo aspettare che si abitui o se ne torni fuori. Adesso sei più vicino al pavimento. Il piede sano e il piede tronco della sedia sono già scivolati avanti, si è perso l’equilibrio. Si distinguono i presagi della
vera e propria caduta, intorno l’aria si deforma, gli oggetti si ritraggono spaventati, stanno per essere aggrediti, e tutto il corpo è una torsione raggrinzita, una specie di gatto reumatico, incapace perciò di compiere in aria l’ultimo giro che lo salverebbe, con un morbido rimbalzo per terra sulle quattro zampe, una bestia vivissima. Quanto sia stata malmessa questa sedia lo si vede, e per di più in aggiunta al male che già era, benché ancora sconosciuto, il fatto che avesse dentro di sé l’Anobio: peggiore, se non altrettanto negativo, in realtà è quello spigolo, o quella punta, o l’angolo di un mobile che tende il pugno chiuso verso un punto nello spazio, per il momento ancora libero, ancora autonomo e innocente, dove il semicerchio compiuto dalla testa del vecchio finirà per interrompersi e rimbalzare, cambiare direzione per un attimo e poi ricominciare a cadere, verso il basso, verso il fondo, inesorabilmente attratto da quello spirito che se ne sta lì, al centro della terra, con miliardi di cordicelle in mano, in giù e in su, facendo laggiù la stessa cosa che quassù fanno con le marionette gli uomini, fino all’ultimo strattone più forte che ci fa scomparire di scena. Non dev’essere ancora arrivato quel momento per il vecchio, ma è evidente che sta cadendo per ricadere di nuovo e per l’ultima volta. E adesso quanto spazio c’è, quanto spazio rimane fra l’angolo del mobile, il pugno, la lancia in Africa, e il punto più fragile della testa, l’osso predestinato? Possiamo misurarlo e rimarremo stupiti di quanto sia pochissimo lo spazio che c’è ancora da percorrere, osservate, non c’entra neppure un dito, molto meno di un dito, un’unghia, una lametta da barba, un capello, il semplice filo di un baco da seta o di un ragno. Rimane ancora un po’ di tempo, ma lo spazio sta per finire. Il ragno ha appena espulso il suo ultimo filamento, ha concluso il bozzolo, la mosca ormai è imprigionata. È curioso questo suono. Chiaro, in un certo senso chiaro, per non lasciare dubbi ai testimoni. che siamo noi, ma soffocato, sordo, discreto, perché non accorrano troppo presto l’Eva domestica e i Caino, perché tutto avvenga in solitudine, come si addice a tale grandiosità. La testa, com’era previsto nel rispetto delle leggi della fisica, ha sbattuto ed è rimbalzata un po’, diciamo un paio di centimetri verso l’alto e di lato, visto che siamo vicini e abbiamo appena fatto altre misurazioni. Da questo momento in poi, la sedia non ha più importanza. E non avrebbe più importanza neppure il resto della caduta, adesso pleonastica. Il piano di Buck Jones, lo si è già detto, includeva una traiettoria, prevedeva un punto. Eccolo li. Quello che succede adesso, avviene all’interno. Prima, però, diciamo che il corpo è caduto di nuovo, in compagnia della sedia, di cui non si parlerà più se non per allusione. È indifferente che la velocità del suono sia improvvisamente uguale alla velocità della luce. Quello che doveva succedere, è successo. Eva può accorrere ansiosa, mormorando preghiere come non dimentica mai di fare nelle occasioni giuste, o forse stavolta no, se è vero che i cataclismi lasciano senza voce, magari non senza strilli, le loro vittime. Perciò l’Eva domestica, pozzo del martirio, si inginocchia e fa
qualche domanda, adesso si, perché il cataclisma non c’è più, ormai è passato, e restano i suoi effetti. Poco dopo cominciano a spuntare i Caino, a meno che in fondo non sia ingiusto chiamarli così, affibbiando loro il nome di uno sventurato da cui il Signore distolse lo sguardo e che perciò, umanamente, si è vendicato di un fratello leccapiedi e intrigante. E non li chiameremo neppure avvoltoi, anche se si comportano come tali, forse no, forse si: piú esatto, dal duplice punto di vista morfologico e caratteriologico, sarebbe includerli nel capitolo delle iene, e questa è una grande scoperta. Con la fondamentale differenza che le iene, come gli avvoltoi, sono animali utili che ripuliscono dalle carogne il paesaggio dei vivi, e perciò dovremmo ringraziarli, mentre questi qui sono al tempo stesso la iena e la sua carogna, e in fondo è questa la grande scoperta di cui si è detto. Il perpetuum mobile, al contrario di quanto continuano a credere gli ingenui inventori domenicali, gli illuminati taumaturghi della falegnameria, non è meccanico. È biologico, è questa iena che si alimenta del suo stesso corpo morto e putrefatto e così perennemente si ricostituisce con morte e putrefazione. Per interrompere il ciclo, non basta neppure tutto, ma la minima cosa sarebbe più che abbondante. Qualche volta, se Buck Jones non fosse assente visto che si trova al di là della montagna a caccia di semplici e onesti ladri di bestiame, una sedia sarebbe utile, e un solido punto di appoggio nello spazio per sollevare il mondo, come disse Archimede a Hieron di Siracusa, e per rompere i vasi sanguigni che le ossa del cranio credevano di proteggere, e scriviamo proprio credevano nel suo significato corretto, perché sarebbe sembrato brutto che delle ossa tanto vicine al cervello non fossero state in grado di compiere, per osmosi o per simbiosi, un’operazione mentale così a portata di mano come lo è il semplice fatto di credere. E comunque, se questo ciclo viene interrotto, bisognerà stare attenti a quello che può innestarsi nel suo punto di rottura, il che potrebbe essere, questa volta non per innesto, un’altra iena che potrebbe nascere dal fianco purulento, come Mercurio dalla coscia di Giove, ammesso che paragoni del genere, e cioè mitologici, siano consentiti. Ma questa sarebbe un’altra storia, magari già raccontata. L’Eva domestica è uscita correndo, ma anche gridando e pronunciando parole che non vale la pena di annotare, visto che sono talmente simili, con ben poca differenza, se non nello stile non tanto medievale, a quelle che pronunciò Leonor Teles quando le uccisero Andeiro, e lei per giunta era una regina. Questo vecchio non è morto. È solo svenuto, e noi possiamo sederci per terra, con le gambe incrociate, senza nessuna fretta, perché un secondo è un secolo, e prima che arrivino i medici e i barellieri, e le iene dai pantaloni listati, piangendo, passerà un’eternità. Osserviamolo bene. Pallido, ma non infreddolito. Il cuore batte, il polso è regolare, sembra che il vecchio dorma, e volete vedere che è stato tutto un grande equivoco, una mostruosa macchinazione per separare il bene dal male, il grano dalla crusca, gli amici dai nemici, coloro che sono favorevoli da coloro che sono contrari,
ammettendo che Buck Jones sia stato, in tutta questa storia della sedia, uno spregevole e schifoso provocatore. Calma, portoghesi, ascoltate e abbiate pazienza. Come sapete, il cranio è una scatola ossea che contiene il cervello, che a sua volta, come possiamo apprezzare in questo atlante anatomico a colori naturali, risulta essere né più né meno che la parte superiore del midollo spinale. Questo, che lungo il dorso era costretto, avendo trovato un po’ di spazio li, è sbocciato come un fiore d’intelligenza. Si noti il paragone, che non è gratuito né disprezzabile. È grande la varietà di fiori, e all’uopo basterà che ricordiamo, o che ciascuno di noi ricordi il fiore che più gli piaccia e, all’opposto, verbi gratia, quello che abbia più in antipatia, un fiore carnivoro, de gestibus et coloribus non disputandum, ammettendo che siamo tutti d’accordo nel detestare ciò che snatura se stesso, anche se, per esigenza di quel minimo di rigorosità che deve sempre accompagnare chi insegna e chi apprende, dovremmo interrogarci sulla giustezza dell’accusa, così come dovremmo pure interrogarci sul diritto che abbia una pianta di alimentarsi due volte, prima dalla terra e poi da ciò che vola in aria nelle molteplici forme degli insetti, se non addirittura degli uccelli. Osserviamo, via facendo, quanto sia facile che il giudizio si paralizzi, che riceva da una parte e dall’altra informazioni;che la prenda per quello che asseriscono di essere e che rimanga neutrale, perché noi ci dichiariamo spirito indiviso e ci sacrifichiamo tutti i giorni sull’altare della prudenza, la nostra migliore fornicazione. Eppure non siamo rimasti neutrali mentre assistevamo a questa lunga caduta. E quanto a prudenza, tralasciamone almeno quel che basta per seguire, con la dovuta attenzione, il movimento della lancetta che si muove su questa porzione di cervello. Osservate, signore e signori, questa specie di ponte longitudinale fatto di fibre: si chiama fornice e costituisce la parte superiore del talamo ottico. Dietro di esso, si vedono due commissure trasversali che ovviamente non vanno confuse con quelle delle labbra. Osserviamo adesso dall’altro lato. Attenzione. Questa protuberanza qui sono i tubercoli quadrigemelli o lobi ottici (attenzione, lobi, non lobby, perché questa non è una lezione di economia). Quest’ampia parte è il cervello anteriore, e qui abbiamo le celebri circonvoluzioni. In questo punto, in basso, c’è ovviamente, come tutti sanno, il cervelletto, con la sua parte interna chiamata arbor vitae, una definizione che si deve, conviene chiarirlo perché non si creda di trovarsi a una lezione di botanica, alla plicatura del tessuto nervoso in un certo numero di lamelle che dànno origine, a loro volta, a pliche secondarie. Del midollo spinale abbiamo già parlato. Osservate questo, che non è un ponte, ma che si chiama ponte di Varolio, che sembra proprio una città italiana, e adesso ditemi che non è vero. Dietro c’è il midollo allungato. Manca poco per arrivare alla fine della descrizione, non innervositevi. La spiegazione potrebbe essere, naturalmente, molto più lunga e minuziosa, ma solo nell’autopsia. Limitiamoci quindi a indicare la ghiandola pituitaria, che è un
corpo ghiandolare e nervoso che nasce dalla base del talamo o terzo ventricolo. E infine, per concludere, informiamo che questa cosa qui è il nervo ottico, roba ben più importante, giacché con questo nessuno oserà dire di non avere visto quanto è successo in questo posto. E adesso, la domanda fondamentale: a che cosa serve il cervello, volgare midollo? Serve a tutto perché serve per pensare. Ma, attenzione, cerchiamo di non cadere adesso nel banale preconcetto che tutto quanto riempie il cranio abbia a che fare con il pensiero e con i sensi. Imperdonabile errore, signore e signori. La maggior parte di questa massa contenuta nel cranio non ha niente a che vedere con il pensiero, non c’entra proprio nulla. Solo un rivestimento assai sottile di sostanza nervosa, detta cortice, dello spessore di circa tre millimetri, e che copre la parte anteriore del cervello, costituisce l’organo della coscienza. Notate, prego, la conturbante somiglianza che esiste fra ciò che chiamiamo un microcosmo e ciò che chiameremo un macrocosmo, fra i tre millimetri di cortice che ci permettono di pensare e i pochi chilometri di atmosfera che ci permettono di respirare, insignificanti gli uni e gli altri e tutti quanti, a loro volta, se paragonati non dico alle dimensioni della galassia, ma al semplice diametro della terra. Stupiamoci, fratelli, e preghiamo il Signore. Il corpo è ancora qui, e vi resterebbe per sempre se volessimo. Qui, sulla testa, nel punto in cui i capelli sono scomposti, ha preso la botta. A prima vista, non è niente di importante. Una lievissima ecchimosi, come dovuta a un’unghia impaziente, che la radice dei capelli quasi nasconde, non sembra che la morte possa entrare proprio da qui. In realtà, è già dentro. Che cosa sta succedendo? Stiamo per impietosirci del nemico vinto? Forse che la morte è una scusante, un perdono, una spugna, un detergente per lavare i crimini? Adesso il vecchio ha aperto gli occhi e non riesce a riconoscerci, e questo lo sgomenta, ma non sgomenta noi, che lui non conosce. Gli trema il mento, vuole parlare, si agita appena ci avviciniamo, ci ritiene gli autori dell’attentato. Non dirà niente. Dall’angolo della bocca socchiusa gli scorre sul mento un filo di saliva. Che cosa farebbe sua sorella Lucia in questo caso, che cosa farebbe se fosse qui, in ginocchio, avvolta nel suo triplice odore di muffa, di sottane e incenso? Asciugherebbe riverente la saliva o, ancora più riverente, si chinerebbe tutta in avanti, prosternata, e con la lingua raccoglierebbe la santa secrezione, la reliquia, per custodirla in un’ampolla? Non lo dirà la storia sacra, né lo dirà, lo sappiamo, quella profana, né l’Eva domestica, con il cuore addolorato, noterà l’offesa che il vecchio compie sbavando sul vecchio. Si sentono dei passi nel corridoio, ma abbiamo ancora tempo. L’ecchimosi si è fatta più scura e, in quel punto, i capelli sembrano increspati. Un affettuoso colpo di pettine potrebbe risistemare tutto sulla superficie che stiamo vedendo. Ma sarebbe inutile. Su un’altra superficie, quella del cortice, si accumula il sangue versato dai vasi che il colpo ha reciso in quel punto preciso con la caduta. E l’ematoma. È là che si trova
l’Anobio in questo momento, pronto al secondo turno. Buck Jones ha pulito la rivoltella e mette nuove pallottole nel tamburo. Stanno per venire a prendere il vecchio. Quel graffiare d’unghie, quel pianto, sono delle iene, non c’è nessuno che non lo sappia. Avviciniamoci alla finestra. Che cosa mi dice di questo settembre? Era da un pezzo che non vedevamo un tempo così. Embargo Si svegliò con la sensazione acuta di un sogno decapitato e vide davanti a sé la lastra grigia e gelata del vetro, l’occhio squadrato del mattino che entrava, livido, tagliato a croce e gocciolante di traspirazione condensata. Pensò che la moglie avesse dimenticato di chiudere le tende quando si era coricata, e s’irritò: se non fosse riuscito più a riaddormentarsi, avrebbe avuto la giornata rovinata. Ma gli mancò il coraggio di alzarsi per chiudere la finestra. Preferì coprirsi il viso con il lenzuolo e voltarsi verso la moglie che dormiva, rifugiarsi nel suo calore e nell’odore dei suoi capelli sciolti, Così rimase ancora qualche minuto ad aspettare, inquieto, temendo la sveglia mattutina. Ma poi gli venne il pensiero del bozzolo tiepido che era il letto e la presenza labirintica del corpo cui si accostava e, quasi scivolando in un lento circolo di immagini sensuali, si riaddormentò. L’occhio grigio della finestra cominciò pian piano a diventare azzurro, fissando le due teste posate sul letto, come dimenticate dopo un trasloco in un’altra casa o in un altro mondo. Quando la sveglia suonò, dopo due ore, la stanza era illuminata. Disse alla moglie di non alzarsi, di sfruttare ancora un po’ il mattino e scivolò nell’aria fredda, nell’umidità indefinibile delle pareti, delle maniglie delle porte, degli asciugamani nel bagno. Fumò la prima sigaretta mentre si sbarbava e la seconda con il caffè, che nel frattempo aveva riscaldato. Tossì come tutte le mattine. Poi si vestì a tentoni, senza accendere la luce in camera. Non voleva svegliare la moglie. Un fresco odore di acqua di colonia ravvivò la penombra, e questo fece sospirare la moglie di piacere quando il marito si chinò sul letto per baciarle gli occhi chiusi. E le sussurrò che non sarebbe tornato a casa per il pranzo. Chiuse la porta e scese rapidamente le scale. Il palazzo sembrava più silenzioso del solito. Forse per la nebbia, pensò lui. Aveva notato che la nebbia era come una conca che attutiva i suoni e li trasformava, dissolvendoli, facendo anche con essi ciò che faceva con le immagini. Doveva esserci la nebbia. Dall’ultima rampa di scale avrebbe già potuto vedere la strada e sapere se aveva indovinato. Invece c’era una luce ancora grigiastra, ma dura e brillante, di quarzo. Sul ciglio del marciapiede, un grosso topo morto. E mentre lui, fermo sulla soglia, si accendeva la terza sigaretta, passò un ragazzo imbacuccato, con il berretto, che sputò sull’animale come gli avevano insegnato e come sempre vedeva fare. L’automobile era cinque palazzi più giù. Una gran fortuna che fosse riuscito a posteggiarla lì. Per una sorta di superstizione, pensava che ci fosse
tanto più pericolo che gliela rubassero quanto più lontano l’avesse lasciata la sera. Pur senza averlo mai detto a voce alta, era convinto che non avrebbe mai più rivisto la macchina se l’avesse lasciata all’altro capo della città. Li, così vicino, era fiducioso. L’automobile gli si presentò coperta di goccioline, i vetri appannati per l’umidità. Se non fosse stato per il freddo intenso, si sarebbe potuto dire che traspirava come un essere vivente. Guardò le gomme, com’era sua abitudine, verificò passando che l’antenna non fosse stata spezzata e aprì lo sportello. L’interno della macchina era gelato. Con i vetri appannati, era una caverna traslucida sommersa sotto un diluvio d’acqua. Pensò che sarebbe stato meglio lasciare la macchina in discesa per farla partire più facilmente. Girò la chiavetta e il motore si accese all’istante, rombando, con un ansimare profondo e impaziente. Lui sorrise, soddisfatto per la sorpresa. La giornata cominciava bene. Poco dopo l’automobile cominciò a sobbalzare, raspando l’asfalto come un animale munito di zoccoli, triturando l’immondizia sparsa per terra. Il contachilometri balzò repentinamente a 90, una velocità da suicidio nella strada stretta e fiancheggiata da macchine in sosta. Che cosa succedeva? Alzò il piede dall’acceleratore, preoccupato. Avrebbe quasi detto che gli avevano cambiato il motore con un altro più potente. Con prudenza pigiò l’acceleratore e dominò la macchina. Niente di importante. A volte non si controlla bene la pressione del piede. Basta che il tacco della scarpa non poggi nel solito posto perché si alterino il movimento e la pressione. È semplice. Distratto dall’incidente, non aveva ancora guardato l’indicatore della benzina. Che gliel’avessero rubata durante la notte? Non era la prima volta. No. La lancetta indicava esattamente mezzo serbatoio. Si fermò a un semaforo rosso, sentendosi la macchina vibrante e tesa sotto le mani. Curioso. Non si era mai accorto di questa specie di fremito animale che percorreva a ondate le lamiere della carrozzeria e le faceva rabbrividire il ventre. Al verde l’automobile parve serpeggiare, allungarsi come un fluido, per superare quelli che gli stavano davanti. Curioso. Ma, in verità, si era sempre considerato un guidatore di gran lunga migliore della norma. Questione di buona disposizione e, oggi, questa prontezza di riflessi quasi eccezionale. Mezzo serbatoio. Se avesse trovato una stazione di servizio in funzione, ne avrebbe approfittato. Per sicurezza, con tutti i giri che doveva fare quel giorno prima di andare in ufficio, meglio qualcosa in più che in meno. Questo stupido embargo. Il panico, le ore di attesa in file di decine e decine di auto. Si diceva che l’industria avrebbe risentito delle conseguenze. Mezzo serbatoio. Altri a quest’ora ne avranno molto meno, ma se possibile meglio fare il pieno. La macchina fece una curva ondeggiando e, contemporaneamente, si lanciò senza sforzo in una ripida salita. Lì vicino c’era una pompa poco conosciuta, forse era fortunato. Come un cane da caccia che accorre all’odore, la macchina s’insinuò nel traffico, svoltò due
angoli e andò a prendere posto nella fila di macchine che aspettavano. Si ricordava bene. Guardò l’orologio. Davanti a lui, dovevano esserci una ventina di auto. Niente male. Ma pensò che sarebbe stato meglio andare prima in ufficio e rimandare i giri al pomeriggio, dopo aver riempito il serbatoio, senza preoccupazioni. Abbassò il finestrino per chiamare un venditore di giornali che passava. L’aria si era rinfrescata molto. Ma lì, dentro l’automobile, con il giornale aperto sul volante, fumando mentre aspettava, c’era un piacevole calduccio, come fra le lenzuola. Fece muovere i muscoli delle spalle, con una torsione da gatto voluttuoso, ripensando alla moglie, a quell’ora ancora raggomitolata nel letto, e si appoggiò meglio allo schienale. Il giornale non prometteva niente di buono. L’embargo continuava. Un Natale al buio e al freddo, diceva uno dei titoli. Ma lui aveva ancora mezzo serbatoio e ben presto lo avrebbe avuto pieno. L’automobile davanti avanzò un poco. Bene. Un’ora e mezzo più tardi stava facendo il pieno, e tre minuti dopo ripartiva. Un po’ preoccupato perché il benzinaio gli aveva detto, senza alcuna particolare intonazione nella voce, tant’era reiterata l’informazione, che lì non ci sarebbe stata più benzina prima di quindici giorni. Sul sedile accanto, il giornale annunciava restrizioni rigorose. Insomma, tra due mali il minore, il serbatoio era pieno. Che cosa fare? Andare direttamente in ufficio o passare prima a casa di un cliente, per vedere se riusciva a prendere l’ordinazione? Scelse il cliente. Era meglio giustificare il ritardo con la visita piuttosto che dover dire di aver passato un’ora e mezzo in fila per la benzina quando gli rimaneva ancora mezzo serbatoio. La macchina andava benissimo. E lui non si era mai sentito così bene nel guidarla. Accese la radio e trovò un notiziario. Notizie sempre peggiori. Questi arabi. Questo stupido embargo. All’improvviso la macchina fece una sterzata e svoltò nella strada a destra, per andare a fermarsi in coda a una fila di automobili più corta della prima. Che cosa era successo ? Aveva il serbatoio pieno, sì, praticamente, che diavolo gli era venuto in mente. Manovrò con il cambio per ingranare la retromarcia, ma quello non gli obbedì. Tentò di forzarlo, ma gli ingranaggi sembravano bloccati. Che sciocchezza. Ci mancava un guasto. L’automobile davanti avanzò. Timorosamente, aspettandosi il peggio, ingranò la prima. Tutto perfetto. Tirò un sospiro di sollievo. Ma come sarebbe andata con la marcia indietro quando ne avesse avuto bisogno di nuovo? Circa mezz’ora dopo metteva mezzo litro di benzina nel serbatoio, sentendosi ridicolo sotto lo sguardo sdegnoso del benzinaio. Diede una mancia assurdamente alta e ripartì accelerando con gran rumore di pneumatici. Che diavolo gli era venuto in mente. Subito dal cliente, o sarà una mattinata perduta. La macchina andava bene come non mai. Rispondeva ai suoi movimenti come se fosse un prolungamento meccanico del suo stesso corpo. Ma la faccenda della marcia indietro dava da pensare. Ed ecco che dovette pensarci sul serio. Un grosso camion in avaria bloccava
la strada. Non poteva aggirarlo, non c’era tempo, ci si appiccicò addosso. Di nuovo la paura, manovrò il cambio e la marcia indietro ingranò con un dolce rumore di suzione. Non ricordava che il cambio avesse mai reagito così, prima. Girò il volante a sinistra, accelerò, e con un solo balzo l’automobile salì sul marciapiede, sfiorando il camion, e scese dall’altro lato, libera, con l’agilità di un animale. Quella macchina diabolica aveva sette vite. Chissà, forse per via di tutta questa confusione dell’embargo, con tutto quel panico, i servizi disorganizzati avevano fatto mettere nelle pompe un tipo di benzina molto più potente. Poteva anche essere divertente. Guardò l’orologio. Valeva la pena di passare dal cliente? Con un po’ di fortuna poteva trovare lo stabilimento ancora aperto. Se il traffico lo avesse aiutato, si, se il traffico lo avesse aiutato, avrebbe fatto in tempo. Ma il traffico non lo aiutò. Sotto Natale, anche se manca la benzina tutta la gente gira per le strade, a intralciare chi ha bisogno di lavorare. E vedendo una traversa non congestionata, rinunciò a passare dal cliente. Meglio raccontare una cosa qualunque in ufficio e rimandare al pomeriggio. Con tutti quei dubbi si era allontanato un bel po’ dal centro. Benzina sprecata. Il serbatoio, comunque, era pieno. In una piazza in fondo alla strada in cui si trovava vide un’altra fila di automobili, in attesa del loro turno. Sorrise deliziato e accelerò, deciso a passare ruggendo contro gli intirizziti automobilisti che aspettavano. Ma la macchina, a venti metri, deviò a sinistra, da sola, e andò a fermarsi dolcemente, come se sospirasse, in coda alla fila. Che diavolo succedeva, non aveva mica deciso di fare benzina! Come mai, se aveva il serbatoio pieno? Rimase lì a guardare i vari indicatori, a tastare il volante, stentando a riconoscere la propria macchina, e in questa sequenza di gesti spostò il retrovisore e si guardò nello specchio. Si vide perplesso e ammise di averne motivo. Di nuovo nel retrovisore scorse un’automobile che percorreva la strada, con tutta l’aria di venirsi a piazzare in fila. Preoccupato all’idea di ritrovarsi lì bloccato quando aveva il serbatoio pieno, tentò rapidamente di ingranare la retromarcia. La macchina fece resistenza e il cambio gli sfuggì dalle mani. Un attimo dopo si ritrovò incastrato fra i suoi due vicini. Diavolo. Che cos’aveva quella macchina? Bisognava portarla in officina. Una retromarcia che funziona a intermittenza è un pericolo. Erano passati più di venti minuti quando avanzò con la macchina fino alla pompa. Vide il benzinaio avvicinarsi e la voce gli si strozzò in gola nel chiedere di controllare il serbatoio. Nello stesso istante, fece un tentativo di sottrarsi alla vergogna, ingranò rapidamente la prima e sobbalzò. Invano. La macchina non si mosse. Il benzinaio lo guardò sospettoso, aprì il serbatoio e, dopo alcuni secondi, andò a chiedergli i soldi per un litro, che intascò borbottando. Dopo un istante, la prima entrava senza alcuna difficoltà e la macchina si muoveva, elastica, respirando ritmicamente. Doveva esserci qualcosa che non funzionava nell’automobile, nelle marce, nel motore, in qualche posto, che se ne andasse al diavolo. O forse era lui che stava perdendo le sue doti di guidatore? O forse stava male? Eppure aveva
dormito così bene, non aveva preoccupazioni nella vita se non quelle di tutti gli altri giorni. Per il momento, sarebbe stato meglio lasciar perdere i clienti., non pensarci per tutto il resto della giornata e rimanersene in ufficio. Si sentiva inquieto. Intorno a lui, le strutture della macchina vibravano profondamente, non in superficie, ma all’interno dell’acciaio, e il motore funzionava con quel rumore impercettibile dei polmoni che si espandono e si svuotano, si espandono e si svuotano. All’inizio, senza sapere il perché, si accorse che stava tracciando mentalmente un itinerario che lo allontanasse da altre pompe di benzina, e quando capì ciò che stava facendo si spaventò, temette di non funzionare bene con la testa. Continuò a girare, allungando e tagliando la strada, finché arrivò davanti all’ufficio. Riuscì a parcheggiare l’auto e tirò un sospiro di sollievo. Spense il motore, tolse la chiave e aprì lo sportello. Non poteva uscire. Pensò che l’impermeabile si fosse impigliato, che la gamba gli fosse rimasta incastrata nell’asse del volante, e fece un altro movimento. Controllò anche la cintura di sicurezza, per vedere se fosse in posizione tale da bloccarlo. No. La cintura era appesa di lato, un budello nero e molle. Che sciocchezza, pensò. Forse sto male. Se non riesco a uscire è perché sto male. Poteva muovere liberamente le braccia e le gambe, flettere leggermente il busto secondo le manovre, guardare indietro, inclinarsi un po’ a destra, verso il cassetto dei guanti, ma le spalle aderivano allo schienale del sedile. Non rigidamente, ma come un arto aderisce al corpo. Accese una sigaretta e all’improvviso si preoccupò di quello che avrebbe detto il direttore se si fosse affacciato a una finestra e lo avesse visto piazzato li, dentro la macchina, a fumare, senza alcuna fretta di scendere. Il suono violento di un clacson gli fece chiudere lo sportello, che teneva aperto sulla strada. Quando la macchina fu passata, lentamente riaprì la portiera, lanciò la sigaretta fuori e, tenendosi con tutte e due le mani al volante, fece un movimento brusco, violento. Inutile. Non sentì neppure alcun dolore. Lo schienale del sedile lo stringeva dolcemente e lo teneva prigioniero. Ma che cosa stava succedendo? Abbassò lo specchietto retrovisore e si guardò. Nessuna differenza sul viso. Solo una vaga sofferenza che dominava a stento. Nel volgere la testa a destra, verso il marciapiede, vide una ragazzina che lo spiava, incuriosita e insieme divertita. Subito dopo comparve una donna con un giubbotto in mano, che la ragazzina indossò senza distogliere lo sguardo. E poi si allontanarono insieme, mentre la donna sistemava il colletto e i capelli alla bambina. Tornò a guardare lo specchietto e capì quello che doveva fare. Ma non lì. C’era qualcuno che lo guardava, gente che lo conosceva. Fece manovra per allontanarsi rapidamente, allungando il braccio per chiudere lo sportello, e percorse la strada il più in fretta possibile. Aveva uno scopo, un obiettivo ben preciso che adesso lo tranquillizzava, tanto che si abbandonò a un sorriso che a poco a poco riuscì ad attenuargli un po’ la sofferenza.
Si accorse della pompa di benzina solo quando stava per passarci davanti. C’era un cartello che diceva “esaurito” e la macchina proseguì, senza la minima deviazione, senza rallentare. Non voleva pensare alla macchina. Continuò a sorridere. Stava uscendo dalla città, era già in periferia, si trovava vicino al posto che cercava. Imboccò una strada in costruzione, svoltò a sinistra e a destra, fino a un viottolo deserto, fra due canali. Cominciava a piovere quando fermò l’automobile. La sua idea era semplice. Si trattava di uscire dall’impermeabile, torcendo le braccia e il corpo, scivolandone fuori, proprio come fa il serpente quando abbandona la pelle. In mezzo alla gente non avrebbe osato, ma da solo, con un deserto intorno, la città che si nascondeva dietro la pioggia così lontana, niente di piú facile. Ma si era sbagliato. L’impermeabile aderiva allo schienale, proprio come aderiva alla giacca, al maglione, alla camicia, alla maglietta, alla pelle, ai muscoli, alle ossa. Fu questo che pensò inconsciamente quando, dieci minuti dopo, ancora si contorceva dentro la macchina urlando, e piangendo. Disperato. Era imprigionato nella macchina. Per quanto si contorcesse verso l’esterno, verso lo sportello aperto da cui la pioggia entrava sospinta da raffiche improvvise e fredde, per quanto puntasse i piedi contro il cambio sporgente, non riusciva a staccarsi dal sedile. Con tutte e due le mani si afferrò al tettuccio e tentò di sollevarsi. Era come se tentasse di sollevare il mondo. Si accasciò sul volante, gemendo, terrorizzato. Davanti ai suoi occhi i tergicristalli, che senza volerlo aveva. messo in movimento in quell’agitazione, oscillavano con un rumore secco, da metronomo. Da lontano giunse il fischio di una fabbrica. E subito dopo, dietro la curva della strada, comparve un uomo che pedalava su una bicicletta, coperto da un grande foglio di plastica nera su cui la pioggia scivolava come sulla pelle di una foca. L’uomo che pedalava guardò curiosamente dentro la macchina e tirò avanti, forse deluso o interdetto nel vedere un uomo solo, e non la coppietta che da lontano gli era parso. Quello che stava succedendo era assurdo. Mai nessuno era rimasto imprigionato così nella propria macchina, dalla propria macchina. Doveva pur esserci un sistema per uscirne. Con la forza non funzionava. Forse in un garage? No. Come avrebbe potuto spiegarlo? Chiamare la polizia? E poi? Si sarebbe radunata gente, tutti a guardare, mentre il poliziotto lo avrebbe ovviamente tirato per un braccio e avrebbe chiesto aiuto ai presenti, ma sarebbe stato inutile, perché lo schienale del sedile lo avrebbe tenuto dolcemente stretto a sé. E sarebbero arrivati i giornalisti, i fotografi, e lui, dentro la macchina, sarebbe apparso su tutti i giornali del giorno dopo, vergognandosi come un animale tosato sotto la pioggia. Doveva trovare un altro sistema. Spense il motore e, senza interrompere il movimento, si lanciò violentemente verso l’esterno come chi attacca di sorpresa. Nessun risultato. Si ferì la fronte e la mano sinistra, e il dolore gli provocò una vertigine che si prolungò, mentre un’improvvisa e irreprimibile voglia di urinare si
espandeva, liberando interminabile il liquido caldo che fuoriusciva e gli scorreva tra le gambe giù fino al tappetino della macchina. Quando sentì tutto questo, cominciò a piangere sommessamente, quasi un guaito, miseramente, e continuò a piangere fino a quando un cane, emerso dalla pioggia, si mise ad abbaiare, squallido e senza alcuna convinzione, davanti allo sportello della macchina. Innestò lentamente la marcia, con i movimenti pesanti di un sogno primordiale, e avanzò per il viottolo, facendosi forza per non pensare, per non lasciare che la situazione gli si raffigurasse nella mente. Sapeva vagamente che avrebbe dovuto cercare qualcuno che lo aiutasse. Ma chi poteva essere? Non voleva spaventare la moglie, ma non c’era altro da fare. Forse lei sarebbe riuscita a trovare la soluzione. Almeno non si sarebbe sentito così sventurato e solo. Rientrò in città, attento ai semafori, senza fare movimenti bruschi sul sedile, come se volesse tranquillizzare i poteri che lo imprigionavano. Erano le due passate e il giorno si era già molto rabbuiato. Vide tre pompe di benzina, ma la macchina non reagì. Avevano tutte il cartello “esaurito”. A mano a mano che entrava in città, cominciava a vedere automobili abbandonate in posizioni anormali, con i triangoli rossi collocati nel lunotto, un segnale che in altre occasioni avrebbe indicato un’avaria, ma che adesso significava, quasi sempre, mancanza di benzina. Per due volte vide gruppi di uomini che spingevano le automobili sui marciapiedi, visibilmente irritati, sotto la pioggia che non era ancora cessata. Quando finalmente arrivò nella strada dove abitava, dovette escogitare un sistema per chiamare la moglie. Fermò la macchina davanti alla porta, disorientato, quasi sull’orlo di un’altra crisi di nervi. Aspettò che accadesse un miracolo, per cui la moglie scendesse a opera e merito del suo tacito appello di soccorso. Aspettò alcuni minuti, finché un ragazzo del vicinato, incuriosito, si avvicinò e lui poté chiedergli, con l’argomento di una moneta, di salire al terzo piano e dire alla signora che abitava là che il marito la stava aspettando giù da basso, in auto. Di scendere in fretta, perché era molto urgente. Il ragazzo andò e tornò, disse che la signora arrivava subito e si allontanò correndo, con la giornata guadagnata. La donna era scesa vestita come stava sempre in casa, non le era neppure venuto in mente di prendere l’ombrello, e adesso era li sulla soglia, indecisa, volgendo inconsapevolmente gli occhi sul topo morto sul ciglio del marciapiede, su quel topo molle, dal pelo ispido, incerta se attraversare il marciapiede sotto la pioggia, un po’ irritata con il marito che l’aveva fatta scendere senza motivo, quando poteva invece salire lui e dirle che cosa voleva. Ma il marito le faceva cenni dalla macchina e lei si spaventò e corse. Afferrò la maniglia, affrettandosi per sottrarsi alla pioggia, e quando infine aprì lo sportello si ritrovò davanti al viso la mano aperta del marito che la respingeva senza toccarla. Ostinata, lei tentò di entrare, ma lui le gridò che no, era pericoloso, e le raccontò quello che stava succedendo, mentre lei,
curva, si prendeva sulla schiena tutta la pioggia e i capelli le si inzuppavano e il terrore le raggrinziva il viso. E vide il marito, in quel bozzolo caldo e soffice che lo isolava dal mondo, contorcersi tutto sul sedile per uscire dalla macchina, senza riuscirci. Trovò il coraggio di afferrarlo per un braccio e lo tirò, incredula, ma neanche così riuscì a smuoverlo. Ma era una cosa troppo orribile per crederci, e quindi rimasero a guardarsi in silenzio, finché a lei non venne in mente che il marito doveva essere ammattito e stava fingendo di non poter uscire. Bisognava andare a chiamare qualcuno per curarlo, portarlo dove si curano i matti. Prudentemente, continuando a parlare, disse al marito di aspettare un pochetto, sarebbe tornata subito, andava a cercare aiuto per farlo uscire, e così avrebbero potuto anche pranzare insieme e lui avrebbe telefonato in ufficio dicendo che era influenzato. E non sarebbe andato a lavorare nel pomeriggio. Che stesse calmo, non era niente di grave, avrebbe fatto presto. Ma quando lei scomparve nelle scale, lui s’immaginò di nuovo circondato di gente, la fotografia sui giornali, la vergogna di essersela fatta addosso, e aspettò ancora qualche minuto. E mentre la moglie, di sopra, telefonava a tutti, alla polizia, all’ospedale, lottando perché credessero a lei e non alla sua voce, dando il proprio nome e quello del marito, e il colore della macchina, e la marca e la targa, lui non riuscì a sopportare l’attesa e la fantasia e accese il motore. Quando la moglie scese di nuovo, l’automobile era ormai scomparsa e il topo era scivolato giù dal ciglio del marciapiede, si, e rotolava lungo la strada in pendenza, trascinato dall’acqua che scorreva dalle grondaie. La donna urlò, ma tardarono ad arrivare e le fu alquanto difficile spiegare il tutto. Fino a tarda sera l’uomo vagò per la città, passando davanti a pompe di benzina esaurite, mettendosi in file senza averlo deciso, preoccupato perché i soldi gli stavano finendo e lui non sapeva che cosa sarebbe potuto succedere quando non avesse avuto più denaro e l’automobile si fosse fermata davanti a una pompa per avere altra benzina. Ma questo non accadde solo perché le pompe cominciarono a chiudere e le code che ancora si vedevano aspettavano solo il giorno dopo: quindi la cosa migliore era evitare le pompe ancora aperte per non doversi fermare. In un viale molto lungo e largo, quasi senza traffico, la macchina della polizia accelerò e lo superò e, mentre lo superava, un poliziotto gli fece segno di fermarsi. Ma lui ebbe di nuovo paura e non si fermò. Sentì dietro di sé la sirena della polizia e vide pure un motociclista in divisa che, venuto non si sa da dove, stava per raggiungerlo. Ma la macchina, la sua macchina, fece un ruggito, diede uno strattone e partì, sobbalzando e dirigendosi verso l’ingresso di un’autostrada. Il poliziotto lo seguiva da lontano, sempre più lontano, e a notte fonda non c’era più traccia di poliziotti e l’automobile sfrecciava su un’altra strada. L’uomo aveva fame. Di nuovo se l’era fatta addosso, troppo umiliato per vergognarsi. E delirava un po’: umiliato, umettato. Continuava a pronunciare parole, alterando le vocali e le consonanti, in un esercizio
inconsapevole e ossessivo che lo difendeva dalla realtà. Non si fermava perché non sapeva a quale scopo fermarsi. Ma, all’alba, per ben due volte accostò la macchina al ciglio della strada e tentò di uscire piano piano, come se nel frattempo lui e la macchina fossero giunti a un accordo pacifico e fosse il momento che ciascuno desse una prova di buonafede. Per due volte parlò sottovoce mentre il sedile lo tratteneva, per due volte tentò di convincere l’automobile a lasciarlo uscire con le buone, per due volte in quella solitudine notturna e gelata, sotto una pioggia incessante, scoppiò a urlare, gridando, piangendo, accecato dalla disperazione. Le ferite alla testa e alla mano ripresero a sanguinare. E lui, singhiozzando soffocato, gemendo come un animale terrorizzato, continuò a guidare la macchina. A lasciarsi guidare. Viaggiò tutta la notte, senza sapere in che direzione. Attraversò paesi di cui non lesse il nome, percorse lunghi rettilinei, salì e scese montagne, percorse e ripercorse snodi e svincoli, e quando cominciò ad albeggiare si ritrovò in una strada abbandonata, dove la pioggia si raccoglieva in pozzanghere increspate in superficie. Il motore ruggiva potentemente, strappando le ruote al fango, e la struttura della macchina vibrava tutta, con un rumore inquietante. Si fece giorno chiaro, ma il sole non era ancora spuntato quando, improvvisamente, smise di piovere. La strada si era trasformata in un semplice viottolo che, poco più avanti, sembrava perdersi da un momento all’altro fra i sassi. Dov’era il mondo? A perdita d’occhio c’erano montagne e un cielo spaventosamente basso. L’uomo lanciò un grido e picchiò i pugni sul volante. In quell’istante vide che la lancetta dell’indicatore della benzina era sopra lo zero. Fu come se il motore si staccasse da se stesso e trascinasse la macchina per altri venti metri. Al di là di quel punto c’era di nuovo la strada, ma la benzina era finita. La fronte gli si coprì di sudore freddo. La nausea s’impossessò dell’uomo e lo scosse dalla testa ai piedi, per tre volte un velo gli coprì gli occhi. A tentoni, l’uomo aprì lo sportello per liberarsi dal senso di soffocamento che stava per sopraggiungere e in quel movimento, perché stava per morire o perché il motore era morto, il corpo cominciò a pendere sulla sinistra e a scivolare fuori dalla macchina. L’uomo continuò a scivolare e rimase lì, sdraiato sui sassi. Aveva ricominciato a piovere. Riflusso Prima, visto che tutto deve avere un inizio, anche se l’inizio è quel punto finale da cui non può separarsi, e dire che “non può” non significa dire che “non vuole” o “non deve”, è il massimo dell’impotenza, perché se una tale separazione fosse possibile, è ben noto che tutto l’universo crollerebbe, giacché l’universo è una costruzione fragile che non sopporterebbe soluzioni di continuità, – prima furono aperte le quattro strade. Quattro larghe strade squadrarono il paese, ciascuna partendo dal proprio punto cardinale, in linea retta o leggermente curva in obbedienza alla curvatura terrestre, e perciò il
più rigorosamente possibile forando le montagne, separando le pianure e vincendo, in equilibrio su pilastri, i fiumi e le valli che talvolta contengono anche i fiumi. A cinque chilometri dal luogo in cui si sarebbero incrociate se questa fosse stata la volontà dei costruttori, o, per meglio dire, se questo fosse stato l’ordine che dalla regal persona a tempo debito avevano ricevuto, le strade si diramarono in una rete di vie ancora principali e poi secondarie, come grosse arterie che per proseguire dovettero trasformarsi in vene e capillari, in una rete che si trovò circoscritta in un quadrato perfetto, ovviamente di dieci chilometri per lato. Questo quadrato che, sempre all’inizio, fatta salva per identiche ragioni l’osservazione universale con cui esordisce questo racconto, aveva cominciato con l’essere costituito da quattro file di segnali disposti per terra, fini per diventare, quando le macchine che scavavano, lisciavano e pavimentavano le quattro strade spuntarono all’orizzonte, divenne in seguito un muro alto, quattro sipari in muratura che, lo si vide subito e già prima nei progetti lo si sapeva, avrebbero delimitato cento chilometri quadrati di terreno piano, o spianato, perché alcune operazioni di sbancamento si dovettero pur fare. Un terreno la cui scelta rispondeva alla primordiale necessità dell’equidistanza di quel luogo dalle frontiere, una giustizia relativa che, per fortuna, fu consolidata in seguito da una notevole quantità di calce che neppure i più ottimisti osavano prevedere nei loro progetti quando fu chiesta la loro opinione: tutto ciò finì per dare grande lustro alla regal persona, come fin dal primo momento si sarebbe dovuto prevedere se si fosse prestata più attenzione alla storia della dinastia. Tutti i suoi re avevano avuto sempre ragione, e gli altri molto di meno, come si fece scrivere ed è rimasto scritto. Un’opera del genere non si sarebbe potuta fare senza una forte volontà e senza il denaro che permette di avere volontà e speranza di soddisfarla, ragion per cui i forzieri del paese pagarono a testa i conti del gigantesco appalto, per il quale naturalmente a suo tempo era stato ordinato un tributo generale che colpì tutta la popolazione, non secondo il livello delle rendite di ciascun cittadino, ma in funzione e in ordine inverso alla speranza di vita, come fu spiegato che fosse giusto e compreso da ognuno: quanto più avanti nell’età tanto più alta l’imposta. Molti furono gli eventi da segnalare in un’impresa di simile portata, molte le difficoltà, non poche le vittime tirate in ballo dopo la sepoltura, cadute dall’alto mentre gridavano invano per aria, o falciate all’improvviso da un’insolazione, o repentinamente congelate e rimaste li per sempre, linfa, urina e sangue sulla fredda pietra. Tutte tirate in ballo. Ma l’espressione del genio, l’immortalità provvisoria, eccetto quella che, intrinseca, veniva assicurata al re per maggior tempo, toccò in sorte e merito al modesto impiegato secondo il quale non erano indispensabili i portoni che, in base al progetto originale, avrebbero dovuto chiudere le mura. Aveva ragione lui. Sarebbe stato assurdo costruire e montare dei portoni che dovessero rimanere sempre aperti, a tutte le ore del giorno e della notte. Grazie
all’attento impiegato, un po’ di denaro fu risparmiato, la somma corrispondente a venti portoni, quattro principali e sedici secondari, distribuiti equamente nei quattro lati del quadrato e secondo una disposizione logica in ciascuno: il principale al centro e due su ogni parte del muro a esso laterale. Quindi non c’erano porte, ma delle aperture dove finivano le strade. Le mura non avevano bisogno dei portoni per reggersi in piedi: erano solide, larghe alla base fino all’altezza di tre metri e poi si assottigliavano a scala fino alla cima, a nove metri dal suolo. Inutile aggiungere che le strade laterali erano servite da diramazioni che defluivano dalla strada principale a una distanza conveniente. Come sarebbe inutile aggiungere che questo schema, geometricamente tanto semplice, era collegato, tramite opportuni raccordi, alla rete viaria generale del paese. Se tutto andava dappertutto, tutto sarebbe finito lì. La costruzione, quattro mura servite da quattro strade, era un cimitero. E questo cimitero sarebbe stato l’unico del paese. Così era stato deciso dalla regal persona. Quando la suprema grandezza e la suprema sensibilità si combinano in un re, è possibile un cimitero unico. Grandi lo sono tutti i re, per definizione e per nascita: se qualcuno volesse non esserlo, lo desidererebbe invano (persino le eccezioni di altre dinastie, lo sono fra pari). Ma sensibili possono esserlo o meno, e non stiamo parlando qui di quella banale, plebea sensibilità che si esprime con una lacrima all’angolo dell’occhio o con un tremore irreprimibile del labbro, ma di ben altra sensibilità, che solo questa volta, e con questa intensità, si è verificata nella storia del paese, e non sappiamo ancora se addirittura del mondo: la sensibilità dovuta a incapacità di sopportare la morte o la semplice vista dei suoi apparati, dei suoi accessori e delle sue manifestazioni, sia il dolore dei parenti sia i segni commerciali del lutto. Così era questo re. Come tutti i re, e come del resto i presidenti, doveva viaggiare, visitare i suoi domini, accarezzare i bambini che il protocollo sceglieva in anticipo, accettare i fiori che la polizia segreta aveva prima controllato in cerca di veleno o di bombe, tagliare alcuni nastri dai colori solidi e atossici. Tutto questo e altro ancora il re lo faceva di buon grado. Ma in ogni viaggio soffriva mille pene: morte, dovunque morte, segnali di morte, la punta aguzza di un cipresso, l’abito nero di una vedova e, non di rado, dolore insopportabile, l’inatteso corteo funebre che il protocollo aveva ignorato imperdonabilmente o che, in ritardo o in anticipo, compariva nel momento più che mai rispettabile in cui il re stava passando o era sul punto di passare. Ogni volta il re, di ritorno angosciato al palazzo, credeva di morire lui. E fu perché aveva sofferto tanto per i dolori altrui e per il proprio personale patimento che un giorno, mentre stava riposando nel terrazzo più alto della reggia, vide in lontananza (giacché quel giorno l’atmosfera era limpida come non lo era mai stata in tutta la storia non solo di quella dinastia ma di tutta quella civiltà) lo splendore di quattro inconfondibili pareti bianche ed ebbe la banale idea che finì per diventare il cimitero unico, centrale e obbligatorio.
Per un popolo che, nel corso di millenni, si era abituato a seppellirsi i morti praticamente davanti agli occhi e alle finestre, fu una rivoluzione terribile. Ma chi temeva una rivoluzione cominciò a temere il caos quando l’idea del re, con quell’andatura ampia e decisa che hanno le idee, tanto più se regali, andò oltre e arrivò fino a quello che i maldicenti definirono delirio: tutti i cimiteri del paese avrebbero dovuto essere svuotati di ossa e di resti, quale che fosse il loro grado di decomposizione, e tutto andava ficcato a caso in nuove casse che sarebbero state trasportate e sotterrate nel nuovo cimitero. All’ordine non sfuggivano neppure le regie polveri degli antenati del sovrano: si sarebbe costruito un nuovo pantheon, magari in uno stile ispirato alle antiche piramidi egizie, e lì, a suo tempo, quando la vita del paese fosse tornata all’antica e disponibile tranquillità, con tutti gli onori, procedendo lungo la strada principale a Nord fra ali rispettose di abitanti, sarebbero finite, quale ultima dimora, le venerande ossa di tutto quanto si fosse mai posto una corona in capo fin da colui che, per primo, aveva saputo dire, e convincere gli altri con le parole e la violenza: “voglio una corona per la mia testa, fatela”. C’è chi afferma che tale egalitaria decisione fu ciò che maggiormente contribuì a placare gli animi di quanti si vedevano depredati della loro parte di morti. Naturalmente, deve pur avere avuto il suo peso quella tacita soddisfazione di quanti altri, invece, consideravano un dovere ben noioso le norme e le tradizioni che fanno dei morti, per la servitù che richiedono, esseri di transizione fra una non più vita e una non ancora vera e propria morte. All’improvviso, tutta la gente cominciò a pensare che l’idea del re fosse la migliore mai nata nella testa di qualcuno, che nessun popolo poteva onorarsi di avere un re del genere, e visto che il destino aveva deciso che un tale re nascesse e regnasse lì, al popolo spettava obbedirgli, a cuor contento, ma anche per conforto dei morti, non meno meritevoli. Nella storia dei popoli vi sono momenti di vera esultanza: questo momento lo fu, questo popolo lo ebbe. Concluso finalmente il cimitero, cominciò la grande operazione di disseppellimento. Nei primi tempi non fu facile: le migliaia di cimiteri esistenti, fra grandi, medi e piccoli, erano anch’essi delimitati da mura, e all’interno del loro perimetro, per così dire, bastava scavare fino alla profondità stabilita di tre metri per maggiore sicurezza e insaccare tutto, metri cubi e metri cubi di ossa, assi di legno marcite, corpi smembrati dalle scavatrici, e poi ficcare tutto in casse di varie dimensioni, dal neonato all’adulto ben robusto, riversando in ciascuna di essa una certa quantità di ossa o carne, anche alla rinfusa, magari due crani e quattro mani, magari una minutaglia di costole, magari un seno ancora sodo e un ventre flaccido, magari, infine, una semplice scheggia o il dente di Budda o l’ornoplata del santo, o ciò che del sangue di san Gennaro è rimasto nell’ampolla miracolosa. Si affermò il principio che ogni parte di un morto sarebbe stata un morto intero, e con ciò si allinearono i partecipanti nell’infinito funerale che da tutti gli angoli remoti del paese, dai villaggi, dai paesi e dalle città, si
dirigeva scrupolosamente, lungo strade che si allargavano sempre più, fino alla rete viaria generale e da lì, tramite i raccordi appositamente costruiti, verso le strade che da allora in poi furono dette dei morti. All’inizio, come si è appena spiegato, non vi furono difficoltà. Ma poi a qualcuno venne in mente, a meno che il merito dell’idea non dovesse andare ancora al prezioso monarca del paese, che prima dell’obbligatoria disciplina dei cimiteri i morti erano stati sepolti un po’ dappertutto, sulle montagne e nelle valli, sui sagrati delle chiese, all’ombra degli alberi, sotto il pavimento delle stesse case in cui avevano vissuto, ovunque capitasse, solo un po’ più in profondità della profondità che raggiunge, per esempio, la punta dell’aratro. E per non dire delle guerre, delle grandi fosse con migliaia di cadaveri sparse dovunque in Asia e in Europa e in altri continenti, anche se forse con qualche morto in meno, visto che di guerre ce n’erano state naturalmente anche nel regno di questo re e quindi c’erano corpi sotterrati a casaccio. Fu un momento di grande perplessità, bisogna confessarlo. Lo stesso monarca, ammesso che fosse stata sua la nuova idea, non la tacque solo perché gli sarebbe stato impossibile. Si inviarono nuovi ordini e, visto che il paese non poteva essere messo sottosopra da un capo all’altro, com’erano stati messi sottosopra i cimiteri, dal re furono convocati i saggi per ascoltare dalla regal persona l’ingiunzione: inventare al più presto qualche strumento capace di individuare la presenza di corpi o resti sotterrati, così come si erano inventati gli strumenti per trovare acqua o metalli. La questione era di una certa importanza, ammisero i saggi subito riuniti in seminario. Tre giorni passarono a discutere, e poi ciascuno si chiuse nel proprio laboratorio. Si riaprirono i forzieri dello stato e fu ordinato un nuovo versamento generale. Il problema finì per essere risolto, ma, come sempre in tali casi, non certo d’un sol colpo. Per fare un esempio, basti citare il caso di quel saggio che inventò uno strumento che emetteva un segnale luminoso e un segnale acustico quando incontrava qualche corpo, ma che aveva il difetto capitale di non distinguere fra corpi vivi e corpi morti. Il risultato fu che lo strumento, logicamente manovrato da gente viva, si comportava come un ossesso, stridendo e agitando lancette luminose, diviso fra tutte le sollecitazioni vive e morte che lo circondavano e, in conclusione, incapace di dare un’informazione sicura. Tutto il paese se la rise del disastrato uomo di scienza, ma lo onorò con elogi e premi quando lui stesso, mesi dopo, trovò la soluzione introducendo nell’apparecchio una specie di memoria o idea fissa: affinando l’udito si riusciva a percepire all’interno del meccanismo una voce che ripeteva senza sosta: “devo trovare solo corpi morti o resti, devo trovare solo corpi morti o resti, o resti, corpi morti, o resti, o resti...” Fortunatamente, anche così vi fu un errore, come si vedrà. Appena lo strumento entrò in funzione, si appurò subito che, adesso, non distingueva fra corpi umani e non umani, ma questo nuovo difetto, ed ecco il motivo per cui si è detto prima fortunatamente, si dimostrò essere un bene: quando il
re comprese il pericolo a cui era sfuggito, rabbrividì. In realtà, qualunque tipo di morte è morte, anche quella non umana: non serve a niente sottrarre agli occhi la visione degli uomini morti, se continuano a morire i cani, i cavalli e gli uccelli. E tutto il resto, tranne forse gli insetti, che sono organici solo a metà (com’era convinzione ben salda della scienza del paese e del tempo). Allora fu ordinata la grande indagine, il ciclopico lavoro che durò per anni. Non rimase neppure un palmo di terra insondato, fino a quei luoghi a memoria d’uomo disabitati da sempre: non sfuggirono le più alte montagne; non sfuggì il fondo dei fiumi, dove furono ritrovati sotto il fango migliaia di annegati; e non sfuggì il segreto delle radici, talvolta intrecciate a quanto rimaneva di chi aveva cercato o cui era capitato di avere bisogno della linfa propria degli alberi. E non sfuggirono neppure le strade, che si dovettero scavare in molti punti e poi ricostruire. Infine il regno si vide liberato dalla morte. Il giorno in cui il re, con le proprie labbra e la propria voce, annunciò ufficialmente che il paese era ormai mondato della morte (parole sue) fu dichiarato festivo e festa nazionale. In giorni del genere è costume che muoia un certo numero di persone in più del normale, per disastri, aggressioni, ecc., ma il servizio nazionale di vita (com’era stato denominato) si serviva di metodi moderni e rapidi: verificato il decesso, il corpo proseguiva immediatamente per la via più breve verso la grande strada dei morti, la quale, necessariamente, cominciò a essere considerata a tutti gli effetti terra di nessuno. Liberatosi così dei morti, il re era felice. Quanto al popolo, avrebbe dovuto abituarsi. La prima abitudine da recuperare sarebbe stata l’abitudine alla calma, quella calma della mortalità naturale che consente alle famiglie di passare indenni dai lutti per anni e anni, e talvolta svariati, nel caso in cui le suddette famiglie non siano numerose. Si può dire, senza esagerazione, che il periodo della traslazione fu un periodo di lutto nazionale, nel senso più rigoroso dell’espressione, una specie di lutto che proveniva da sottoterra. Sorridere, in quegli anni dolorosi, sarebbe stato, per chi avesse osato farlo, una degradazione morale: non è decoroso sorridere quando un parente, sia pure lontano, sia pure cugino di un cugino, viene riesumato dalla fossa, tutto intero o a brandelli, o ricade dall’alto, dal cestello della scavatrice, nella cassa nuova, un tanto a cassa, come se si riempissero stampi di torte o di mattoni. Dopo quel lunghissimo periodo in cui l’espressione fisionomica delle persone si era mantenuta abitualmente nella manifestazione di un nobile e sereno dolore, tornavano il sorriso, il riso, e persino la risata, o la battuta, o lo scherno, e prima l’ironia e l’umorismo, tornava tutto a riacquistare quanto di vitalistico e di celata lotta contro la morte possedeva. Ma la calma non era solo quella di uno spirito rientrato nei soliti binari dopo il grande impatto, era anche la tranquillità del corpo, perché a parole non si può esprimere ciò che rappresentò per la popolazione viva lo sforzo richiesto e per tanto tempo. Non furono solo le opere di edilizia, l’apertura di strade, di ponti, di tunnel, di viadotti; non fu solo la ricerca scientifica, di cui
si è già data una pallida e parziale idea; fu anche l’industria del legname, dall’abbattimento degli alberi (foreste su foreste) al taglio delle assi, all’essiccamento con procedimenti accelerati, al montaggio di urne e casse per cui fu necessaria l’installazione di grandi attrezzature meccaniche per la produzione in serie; fu anche, come si è appena accennato, la riconversione temporanea dell’industria siderurgico-meccanica per soddisfare le richieste di apparecchiature e materiale vario, a cominciare dai chiodi e dai flessibili; furono i tessili, le passamanerie per rivestimenti e addobbi; fu l’industria dei marmi e delle pietre da taglio, che d’improvviso cominciò a sventrare a sua volta la terra per rispondere al bisogno di tante pietre tombali, di tanti capezzali scolpiti o semplici; e furono piccole attività quasi artigianali, come la creazione di iscrizioni in nero o in oro, quella della smaltatura fotografica, quella della lattoneria e del vetro, quella dei fiori artificiali, quella delle candele e dei ceri, ecc., ecc., ecc. Ma forse il maggior sforzo fu compiuto dall’industria dei trasporti, senza la quale peraltro nessuna parte dell’impresa avrebbe potuto essere portata avanti. Neanche questo sforzo si riuscirebbe a esprimere a parole, fin dal suo punto di origine, fin dall’industria dei camion e altri tipi di macchinari pesanti, a sua volta costretta a riconvertirsi, a modificare i piani di produzione, a organizzare nuove catene di montaggio, fino alla consegna delle casse nel nuovo cimitero: si provi a immaginare la complessità della pianificazione di orari integrati, i tempi di trasferimento e confluenza, il successivo inserimento delle file di autoveicoli in flussi progressivamente più sovraccarichi, il tutto in armonia con la normale circolazione dei vivi, sia nei giorni feriali che nei giorni festivi, sia per diletto che per dovere, e senza dimenticare le infrastrutture: ristoranti e locande lungo il percorso perché i camionisti potessero mangiare e dormire, piazzole di sosta per i grandi camion, qualche distrazione per alleviare le tensioni dello spirito e del corpo, linee telefoniche, posti di soccorso e assistenza, officine per riparazioni meccaniche ed elettriche, stazioni di rifornimento di benzina, olio, gasolio, pneumatici, pezzi di ricambio, ecc. Tutto ciò, come si può notare facilmente, a sua volta animava altre industrie in un circuito di reciproca vivificazione, generatrice di ricchezza, al punto che fu raggiunto, al livello più alto della curva di produzione, la piena occupazione. Naturalmente, a quel periodo seguì una depressione, che peraltro non sorprese nessuno, giacché era nelle previsioni degli esperti in economia. L’effetto negativo di questa depressione finì per essere ampiamente compensato, così come avevano previsto gli psicologi sociali, dall’irrepremibile desiderio di riposo che, raggiunto il punto di saturazione occupazionale, cominciò a manifestarsi tra la popolazione. Si entrava realmente nella normalità. Nel centro geometrico del paese, aperto ai quattro venti principali, si trova il cimitero. Assai meno di un quarto dei suoi cento chilometri quadrati fu occupato dai corpi traslati, e questo portò un gruppo di matematici a voler dimostrare, conti alla mano, che il terreno da utilizzare per le nuove
inumazioni avrebbe dovuto essere molto maggiore, tenendo conto del numero probabile di morti dall’inizio del popolamento del paese e l’occupazione media di spazio per corpo, sia pur togliendo quelli che, essendo ormai cenere e polvere, non potevano più essere recuperati. L’enigma, ammesso che lo fosse realmente, rimase comunque a intrattenimento delle generazioni, come la quadratura del cerchio o la duplicazione del cubo, giacché i saggi cultori delle discipline connesse alla biologia dimostrarono davanti al re che in tutto il paese non era rimasto da riesumare un solo corpo degno di tal nome. Dopo avere riflettuto lungamente, fra la fiducia e lo scetticismo, il re emanò un decreto con cui la disputa si riteneva conclusa. Fu per lui un argomento decisivo il sollievo che cominciò a provare quando riprese i viaggi e le visite: se non vedeva la morte, evidentemente la morte non c’era più. Benché il piano iniziale obbedisse a criteri più razionali, l’occupazione del cimitero avvenne dalla periferia verso il centro. Prima vicino alle porte e rasente ai muri, poi secondo una curva che cominciò con l’avvicinarsi alla radiale perfetta e con il tempo divenne cicloide, una fase peraltro anch’essa transitoria del cui futuro non spetta a questo racconto occuparsi. Ma tale sorta di cornice interna che si modellava lungo i muri, dai quali era separata, già durante il lavoro di traslazione si riflesse quasi simmetricamente in una corrispondente forma viva all’esterno delle mura. Non si era previsto che accadesse, ma vi fu comunque chi affermò che solo uno stupido non lo avrebbe immaginato. Il primo segnale, come una piccolissima spora da cui sarebbe nata una pianta, e da questa un cespuglio, e poi una macchia, e dopo una vera e propria foresta, fu un’improvvisata tenda per la vendita di bibite e bevande varie, accanto a una delle porte secondarie del muro a Sud. Anche se ristorati via facendo, i camionisti apprezzarono di trovare lì un nuovo ristoro. In seguito, altri piccoli negozi di rami commerciali identici o affini si installarono presso quella porta e presso le altre, e chi li gestiva dovette necessariamente costruire lì le proprie case, dapprima rozze, alla meglio, poi con materiali più stabili, mattoni, pietre, tegole, destinati a restare e durare. Vale la pena osservare di sfuggita che fin da quelle prime costruzioni si distinsero, a) sottilmente, b) dalle vetrine, i tenori sociali, se è consentito dirlo, dei quattro lati del quadrato. Come tutti i paesi, anche questo non era uniformemente popolato, né i suoi abitanti, malgrado fosse grande la regal compiacenza, erano socialmente simili. C’erano ricchi e c’erano poveri, e la distribuzione degli uni e degli altri obbediva a ragioni universali: il povero attrae il ricco fino a una distanza efficace per quest’ultimo; a sua volta, il ricco attrae il povero, il che non significa che l’efficacia (denominatore costante del processo) agisca a favore del povero. Se per le ragioni valide per i vivi il cimitero, dopo la traslazione generale, cominciò a suddividersi all’interno in compartimenti, la stessa cosa cominciò a distinguersi all’esterno. Quasi non sarebbe necessario spiegare il motivo. Poiché la
regione con piú ricchi era la regione a Nord, quel lato del cimitero assunse, nel suo modo monumentale di occupare lo spazio, un’espressione sociale opposta, per esempio, a quella del lato Sud, corrispondente proprio alla regione più misera. Lo stesso avveniva, in genere, per gli altri lati. A ciascuno il proprio simile. Anche se in maniera meno definita, l’esterno accompagnava l’interno. Per esempio i fiorai, che ben presto cominciarono a comparire ai quattro lati del quadrato, non vendevano tutti la stessa merce: c’erano quelli che esponevano e vendevano fiori preziosi, nati e cresciuti in giardini e serre dispendiose, mentre altri erano gente modesta che andava a raccogliere i fiori spontanei nei campi circostanti. E si dice fiori per indicare tutto il resto che vi si andò installando, com’era prevedibile, affermavano adesso gli impiegati sommersi di richieste e di reclami. Non si deve dimenticare che il cimitero aveva un’amministrazione complessa, un bilancio proprio, migliaia di becchini. Nei primi tempi, gli impiegati delle diverse categorie abitarono all’interno del quadrato, nella parte centrale, ben lontano dalla vista delle tombe. Ma ben presto nacquero i problemi della gerarchia, dei rifornimenti, delle scuole per i bambini, degli ospedali, delle maternità. Che cosa fare? Costruire una città dentro il cimitero? Sarebbe stato un ritorno all’origine, senza contare che con il passare degli anni la città e il cimitero si sarebbero invasi reciprocamente, con i sepolcri a penetrare negli spazi delle strade o a rappresentare i palazzi e le strade che si sarebbero insinuate fra i sepolcri in cerca di spazio per le case. Avrebbe voluto dire tornare all’antica promiscuità, ora aggravata dal fatto che le cose avvenivano entro un quadrato di dieci chilometri per lato con poche vie d’uscita all’esterno. Bisognò allora scegliere tra una città di vivi circondata da una città di morti oppure, unica alternativa, una città di morti circondata da quattro città di vivi. Quando la scelta fu formalizzata e, oltretutto, divenne chiaro che tutti coloro che seguivano i cortei funebri non sempre potevano fare immediatamente il viaggio di ritorno, spesso lungo e molto faticoso, sia per mancanza di forze sia perché non riuscivano a separarsi bruscamente dai loro cari, le quattro città esterne vissero un momento di urbanizzazione accelerata, e proprio perciò caotica. C’erano pensioni in ogni strada e di ogni categoria, alberghi a una, due, tre, quattro, cinque stelle e di lusso, bordelli a profusione, chiese di tutte le confessioni riconosciute legalmente e alcune clandestine, botteghe a carattere familiare e grandi magazzini, un’infinità di case, palazzi con uffici, delegazioni, sedi municipali varie. Seguirono i trasporti collettivi, il mantenimento dell’ordine, la circolazione forzata, il problema del traffico. E un certo grado di delinquenza. Un solo punto fermo si manteneva: tenere i morti fuori dalla vista dei vivi, e quindi nessun edificio poteva essere più alto di nove metri. Anche questo problema, però, finì per trovare soluzione in seguito, quando un fantasioso architetto reinventò l’uovo di Colombo: muri più alti di nove metri per edifici più alti di nove metri.
Con il passare del tempo, il muro del cimitero divenne irriconoscibile: invece della levigata uniformità iniziale che si prolungava per quaranta chilometri, si cominciò a vedere un dentellato irregolare, anch’esso variabile nell’intensità e nell’altezza, in base al lato del muro. Nessuno ha più memoria di quando fosse stato ritenuto conveniente far montare infine i portoni del cimitero. L’impiegato che aveva pensato di risparmiare questa spesa era morto e passato all’interno e non poteva più difendere la propria tesi un tempo buona, ma adesso insostenibile, come egli stesso non avrebbe potuto esimersi dal riconoscere: cominciavano a diffondersi storie di anime dell’aldilà, di fantasmi e apparizioni. Che cos’altro si poteva fare se non montare i portoni? Quattro grandi città si frapposero così fra il regno e il cimitero, ciascuna rivolta verso il proprio punto cardinale, quattro città inattese che cominciarono a chiamarsi CimiteroNord, CimiteroSud, CimiteroOriente, CimiteroOccidente, ma che poi furono più benignamente battezzate e denominate, nell’ordine, Uno, Due, Tre e Quattro, giacché si erano rivelati inutili tutti i tentativi di attribuire loro nomi più poetici o commemorativi. Queste quattro città erano quattro barriere, quattro muraglie vive di cui il cimitero si circondava e con le quali si proteggeva. Il cimitero rappresentava cento chilometri quadrati di silenzio e solitudine quasi totali, circondati dal formicaio esterno dei vivi, da grida, da clacson, da risate, da frasi sconnesse, da rombi di motori, dall’incessante mormorio delle cellule. Arrivare al cimitero era diventata un’avventura. All’interno delle città, dopo tanti anni, nessuno riusciva a ricostruire il tracciato rettilineo delle antiche strade. Era facile dire dove probabilmente passavano un tempo: bastava mettersi in direzione del portone principale di ciascun lato. Ma, tranne alcune porzioni più grandi di pavimentazione riconoscibile, il resto si perdeva nella confusione degli edifici e delle strade, all’inizio improvvisate e poi sovrappostesi all’originario tracciato. Solo in aperta campagna la strada era ancora la strada dei morti. E poi accadde l’inevitabile, ma non si sa ancora in definitiva chi vi diede inizio e quando. Un’indagine sommaria, effettuata in seguito, accertò alcuni casi persino nella periferia esterna della Città Due, la più povera di tutte, quella rivolta a sud, come si è già detto: corpi seppelliti in piccoli giardini domestici, sotto i fiori vivi che si rinnovano a ogni primavera. Nello stesso periodo, come quelle grandi invenzioni che irrompono in più cervelli simultaneamente perché è arrivato il loro tempo e sono maturate, in luoghi poco abitati del regno alcune persone decisero, per tante, svariate e talvolta opposte ragioni, di seppellire i morti proprio lì accanto, dentro grotte, ai lati di sentieri nelle foreste o sul pendio riparato di un monte. AIlora la sorveglianza era molto meno attiva e abbondavano gli impiegati che accettavano di farsi subornare. Il servizio generale di statistica informò che, secondo i registri ufficiali, si stava verificando un calo accentuato della mortalità, il che all’inizio fu logicamente portato a credito della politica
sanitaria del governo, sottoposta alla suprema autorità del re. Le quattro città del cimitero subirono le conseguenze del ridotto afflusso di morti. Certi commerci subirono danni, vi furono non pochi fallimenti, alcuni fraudolenti, e quando infine fu riconosciuto che la regal politica sanitaria, per quanto eccellente fosse, non era certo in grado di concedere l’immortalità, fu emanato un decreto rigidissimo per ricondurre le popolazioni all’obbedienza. Non servì a molto: dopo una breve fiammata di animazione, le città ristagnarono e decaddero. Lentamente, molto lentamente, il regno cominciò a ripopolarsi di morti. Il grande cimitero centrale si ridusse infine ad accogliere solo i cadaveri delle quattro città circostanti, sempre più abbandonate, piú silenziose. A questo, però, il re non assistette. Era molto vecchio, il re. Un giorno, mentre si trovava nel terrazzo più alto della reggia, vide, pure con i suoi occhi molto stanchi, la punta acuta di un cipresso che svettava su quattro mura bianche, che magari poteva essere il segnale di un giardino, e forse lo era davvero, e non di morte. Ma vi sono cose che s’indovinano senza difficoltà, soprattutto quando si è molto vecchi. Il re collegò nella sua mente le notizie e le voci, quello che gli dicevano e quello che gli nascondevano, e si rese conto che era arrivata l’ora di capire. Seguito da una guardia, come prescriveva il protocollo, scese nel parco del palazzo. Trascinando il mantello regale, proseguì lungo un filare di alberi che conduceva nel folto del bosco. Lì, presso una radura, si distese, si distese sulle foglie secche e così, disteso, fissò la guardia che si era inginocchiata e, prima di morire, disse: “Qui”. Cose La porta, alta e pesante, nel chiudersi strisciò contro il dorso della mano destra dell’impiegato e gli lasciò un graffio profondo, rosso, quasi sanguinante. La pelle si era lacerata, ma non allo stesso modo, sollevandosi in alcuni punti subito dolenti, perché naturalmente la sporgenza o la ruvidità aggressiva, non aveva mantenuto una pressione continua e un contatto strisciante che avrebbe trasformato il graffio in una ferita aperta, dai bordi separati, e provocato la rapida fuoriuscita del sangue. Prima di entrare nel piccolo ufficio dove avrebbe fatto il proprio turno a iniziare da lì a dieci minuti e che si sarebbe prolungato per cinque ore di fila, l’impiegato si diresse al servizio medico (srn) per una rapida medicazione: nelle sue funzioni, doveva ricevere il pubblico, e una tumefazione di così brutto aspetto non andava mostrata. Mentre disinfettava la ferita, l’infermiere, informato sulle circostanze dell’incidente, disse che era il terzo caso quel giorno. Causato dalla medesima porta. – Suppongo che la toglieranno, – aggiunse. Con un pennello, passò sopra il graffio un liquido incolore che seccò rapidamente, assumendo il colore della pelle. E non solo il colore: l’opaca struttura non lasciava indovinare l’accaduto. Solo guardando bene da vicino
si poteva distinguere la sovrapposizione. A prima vista, non c’era traccia di ferita. – Domani potrà togliere la pellicola. Dieci ore sono sufficienti. L’infermiere appariva preoccupato. Domandò: – Sa che cosa sta capitando con il divano ? Quello grande, della sala d’aspetto. – No. Sono appena arrivato, per il turno di notte. – Lo hanno dovuto portare qui. È nella sala accanto. – Perché? – La ragione precisa non la conosciamo. Il medico lo ha visitato immediatamente, ma non ha fatto la diagnosi. E del resto non ce n’era bisogno. Un cittadino utente è andato a lamentarsi che il divano riscaldava troppo. E aveva ragione. L’ho verificato io stesso. – Un difetto di fabbricazione. – Si, probabilmente. La temperatura è troppo alta. In altre circostanze, e lo ha detto anche il medico, sarebbe un caso di febbre. – Bene, non è la prima volta. Due anni fa, ho saputo di un caso analogo. Un mio amico ha dovuto restituire alla fabbrica un impermeabile quasi nuovo. Era impossibile tenerlo indosso. – E poi? – Poi, niente. La fabbrica gliene ha consegnato un altro in sostituzione. Non c’è stato più alcun motivo di lamentela. Guardò l’orologio. Aveva ancora dieci minuti. Ma davvero? Era pronto a giurare che nel momento in cui si era graffiato mancavano esattamente gli stessi dieci minuti. O forse questa volta non aveva rispettato la propria abitudine di consultare l’orologio entrando nel palazzo. – Posso vedere il divano? L’infermiere aprì una porta traslucida: – Eccolo lì. Era un divano lungo, a quattro posti, un po’ consumato, ma ancora in buono stato. – Vuole provarlo? – domandò l’infermiere. L’impiegato si sedette. – Allora ? – È piuttosto sgradevole, davvero. Vale la pena trattarlo? – Sto facendo una iniezione ogni ora. Per adesso non noto alcuna differenza. Ed è il momento di un’altra iniezione. Preparò la siringa, aspirò il contenuto da una grande ampolla e rapidamente piantò l’ago nel divano. – E se non si riprende? – domandò l’impiegato. – Lo dirà il medico. Questa è la cura specifica. Se non dà risultati, caso perduto, ritorno alla fabbrica. – Bene. Vado al lavoro. Grazie. Nel corridoio, guardò di nuovo l’ora. Continuavano a mancare dieci minuti. Che l’orologio fosse fermo? Lo accostò all’orecchio: il tictac risuonava
nitidamente, ma le lancette non si muovevano. Capì che sarebbe arrivato con molto ritardo. Lo detestava. Certo, il pubblico non ne sarebbe stato danneggiato, visto che il collega cui avrebbe dovuto dare il cambio non avrebbe potuto lasciare l’ufficio finché egli non fosse giunto. Prima di spingere la porta, diede un’altra occhiata all’orologio: tale e quale. Nel sentirlo entrare, il collega si alzò, rivolse qualche parola alle persone che aspettavano dietro lo sportello, dalla parte di fuori, e lo chiuse. Era il regolamento. La sostituzione degli impiegati avveniva in breve tempo, ma sempre a porte chiuse. – Lei è in ritardo. – Temo di sì. Mi scusi. – L’orario è passato da quindici minuti. Dovrò fare rapporto. – Certamente. Il mio orologio si è fermato. È colpa sua. Ma è strano che continui a funzionare. – Continua a funzionare? – Non ci crede? Guardi. Guardarono tutti e due l’orologio. – È davvero strano. – Osservi le lancette. Non si muovono. Ma si sente il tictac. – È vero, si sente. Non farò rapporto per il ritardo, ma credo che lei debba informare i superiori di quanto accade al suo orologio. – È ovvio. – Si sono verificati molti casi strani in queste ultime settimane. – Il governo è attento e provvederà di certo. Qualcuno bussò alla placca lattiginosa dello sportello. I due impiegati firmarono il registro di entrata e uscita. – Attento alla porta principale, – avvertì l’impiegato che rimaneva. – Si è graffiato? Allora lei è il terzo, oggi. – E la febbre del divano, l’ha saputo? – Lo sanno tutti. – È strano, non è vero? – Infatti, anche se non è un caso raro. Ci vediamo lunedì. – Buon fine settimana. Aprì lo sportello. C’erano solo tre persone in attesa. Chiese scusa, come prescriveva il regolamento, e ricevette dalla prima – un uomo alto, ben vestito, di mezza età – la carta di identità. La introdusse nel verificatore, analizzò i segnali luminosi che comparvero e restituì il documento: – Molto bene. Che cosa desidera? Per favore, sia breve. Anche queste erano frasi da regolamento. Il cliente rispose senza esitare: – Sarò breve. Desidero un pianoforte. – Attualmente non vi sono molte richieste di questo oggetto. Mi dica se è indispensabile. – Vi sono difficoltà particolari?
– Solo per quanto riguarda la materia prima. Per quando lo vuole? – Entro quindici giorni. – Sarebbe quasi più facile darle la luna all’istante. Per un pianoforte ci vuole del materiale molto qualificato, di alta qualità, o di una certa rarità, se preferisce che mi esprima così. – Questo pianoforte serve per un regalo di compleanno. Capisce? – Certo. Allora doveva venire a presentare la sua richiesta molto prima. – Non mi è stato possibile. Le ricordo che sono un cittadino utente delle prime precedenze. Mentre pronunciava queste parole, l’utente aprì la mano destra, con la palma rivolta all’insù, mostrando una C verde tatuata sulla pelle. L’impiegato guardò la lettera, poi lo schermo su cui erano ancora visibili i segnali identificati e fece un cenno affermativo con la testa: – Ho preso nota. Avrà il suo pianoforte fra quindici giorni. – Molte grazie. Vuole che paghi tutto, o basta un acconto? – Basta un acconto. L’utente trasse di tasca il portafoglio e mise il denaro necessario sopra il banco. Le banconote erano rettangoli di materiale sottile e flessibile, di un unico colore ma con tonalità differenti, come differenti erano anche i piccoli visi emblematici che le distinguevano. L’impiegato le contò. Mentre le radunava per conservarle nella cassa, una banconota si arrotolò improvvisamente e gli strinse un dito. Il cliente disse: – Mi è successa la stessa cosa oggi. La zecca avrebbe dovuto essere più rigorosa nella fabbricazione delle banconote. – Ha fatto rapporto? – Naturalmente, com’era mio dovere. – Molto bene. I servizi di ispezione potranno confrontare le due comunicazioni, la sua e la mia. Ecco i documenti. Alla data indicata si rivolga al servizio di consegne. Ma, visto che la sua precedenza è C, penso che il pianoforte le sarà recapitato a casa. – È sempre andata così con le mie richieste. Buonasera. – Buonasera. Cinque ore dopo, l’impiegato era di nuovo davanti alla porta principale. Allungò la mano destra verso la maniglia, calcolò bene la distanza e, con una mossa rapidissima, aprì la porta e passò dall’altro lato, in salvo. La porta, con un suono soffocato simile a un sospiro, o’bbedì all’ammortizzatore e si chiuse molto lentamente. Era quasi buio. Lavorare nel secondo turno gli dava qualche soddisfazione: clientela superiore, rifornimenti di qualità e la possibilità di rimanere a letto un po’ di più al mattino, anche se d’inverno, con le giornate corte, era un po’ deprimente uscire dall’interno ben illuminato nel crepuscolo, troppo presto ma anche troppo tardi. Ma adesso, benché il cielo fosse stranamente coperto, c’era una buona temperatura di fine estate ed era piacevole quella breve passeggiata.
Non abitava lontano. Non c’era neppure il tempo di vedere la città trasformarsi per le sue ore notturne. Qualche centinaio di metri che lui percorreva a piedi, con la pioggia o con il sole, perché i tassisti non erano autorizzati a fare percorsi così brevi e nessun itinerario di autobus prevedeva una fermata nella sua strada. Infilò le mani nelle tasche della giacca e sentì la lettera che aveva dimenticato di imbucare alla posta quando era uscito da casa diretto al servizio di richieste speciali (srs) dove lavorava. Tenne stretta la lettera, per non dimenticarsene di nuovo, e scese le scale del sottopassaggio con cui sarebbe arrivato al di là del viale. Dietro di lui c’erano due donne che chiacchieravano camminando: – Non immagini com’è rimasto mio marito questa mattina. E anch’io, ma lui si è accorto per primo di quello che era successo. – È roba da matti, veramente. – Siamo rimasti tutti e due a bocca aperta, a guardarci. – Ma, durante la notte, nessuno di voi ha sentito rumore? – Niente. Né lui né io. Le voci si allontanarono. Le donne avevano svoltato per un tunnel che andava in un’altra direzione. L’impiegato mormorò: “Chissà di che cosa stavano parlando!”. E questo lo fece pensare a come gli era andata la giornata, alla sua mano destra che stringeva la lettera in tasca, al profondo graffio che la porta gli aveva provocato, al divano con la febbre, all’orologio che continuava a funzionare, ma le cui lancette erano ferme a dieci minuti prima dell’orario in cui doveva entrare in servizio. E alla banconota che gli si era arrotolata intorno al dito. C’erano sempre stati incidenti di questo genere, non molto gravi, solo fastidiosi, anche se in certi periodi con una sgradevole frequenza. Malgrado gli sforzi del governo (g), non era mai stato possibile farli cessare e, in realtà, nessuno si aspettava che ci si riuscisse. C’era stato un tempo in cui il processo di fabbricazione aveva raggiunto un tale grado di perfezione che i difetti erano divenuti rarissimi, al punto che il governo (g) aveva capito che non era conveniente togliere ai cittadini utenti (per lo meno a quelli con precedenza A, B e C) il gusto civico e il piacere del reclamo. Lo consigliava perfino la sicurezza del regime manifatturiero. Quindi erano state date alle fabbriche istruzioni per abbassare il livello delle norme di qualità. Eppure non erano certo quegli ordini i responsabili di una vera e propria epidemia di cattiva qualità di fabbricazione che si verificava da due mesi. Come impiegato del servizio di richieste speciali (srs), lui si trovava in una buona situazione per essere al corrente che il governo aveva revocato gli ordini da più di un mese e imposto modelli di ottima qualità. Senza risultati. Tra i casi che riusciva a ricordare, questo della porta era certamente il più inquietante. Non si trattava di un oggetto qualsiasi, di un semplice utensile, o di un mobile, come il divano dell’ingresso, bensì un oggetto di una certa dimensione. Per la verità, neppure il divano era piccolo. Ma quello era un mobile da interni, mentre la porta era già parte del palazzo, se non addirittura la parte più importante. In fondo è la porta che trasforma uno
spazio appena limitato in uno spazio chiuso. Il governo (g) aveva finito per nominare una commissione con l’incarico di studiare gli avvenimenti e proporre misure da prendere. La migliore attrezzatura di calcolatori era stata messa agli ordini di quel gruppo di periti che comprendeva, oltre a specialisti in elettronica, le principali autorità nei campi della sociologia, della psicologia e dell’anatomia, indispensabili in questi casi. L’ordinanza con cui si era creata la commissione indicava il termine di quindici giorni per la presentazione di un rapporto e di proposte. Mancavano ancora dieci giorni, ed era evidente che la situazione andava peggiorando. Cominciò a piovere, quasi un pulviscolo d’acqua, imponderabile, aereo. In lontananza, l’impiegato vide la cassetta postale dove avrebbe dovuto infilare la lettera. Pensò: “Non posso dimenticarmene di nuovo”. Un grosso camion coperto svoltò l’angolo, gli passò accanto. Aveva la scritta a grandi lettere: “Moquette e passatoie”. Ecco un sogno che non era mai riuscito a realizzare: ricoprire la casa di moquette. Ma un giorno, se tutto fosse andato bene… Il camion passò. La cassetta postale era scomparsa. L’impiegato credette di aver perso l’orientamento, di aver cambiato direzione mentre pensava alla moquette, attratto dalle lettere. Si guardò intorno, sorpreso, ma sorpreso anche di non sentirsi spaventato. Solo una vaga inquietudine, forse un po’ di nervosismo, come chi si trovi davanti a un problema di ragionamento la cui soluzione sfugga per poco. Non c’era alcuna cassetta postale né una sua traccia. Si avvicinò al punto in cui avrebbe dovuto trovarsi, dove la vedeva da tanti anni, con quel corpo cilindrico dipinto di azzurro e la fessura rettangolare, una bocca perennemente aperta, muta, unico e solo ingresso verso uno stomaco. Il suolo su cui la cassetta posava era un po’ smosso e ancora asciutto. Un poliziotto si avvicinò di corsa: – Ha assistito alla scomparsa? – domandò – No, ma solo per caso. Se non era per un camion che mi è passato davanti, l’avrei vista. Il poliziotto prendeva appunti su un notes. Poi lo chiuse, spinse con il piede una zolla di terra che dal buco si era spostata a livello della strada e, con il tono di chi si limita a riflettere a voce alta, disse: – Se fosse stato a guardare, chissà, forse la cassetta non sarebbe scomparsa. E si allontanò, toccandosi il fodero della pistola. L’impiegato del servizio richieste speciali (srs) fece il giro di tutto l’isolato, fino al punto in cui sapeva esserci un’altra cassetta. Che non era scomparsa. Infilò rapidamente la lettera, la sentì cadere sulla rete del fondo e ritornò sui suoi passi. Pensò: “E se scomparisse anche questa cassetta? Dove finirebbe la mia lettera?”. Non era questo che lo preoccupava (si trattava di una semplice lettera di routine), ma il problema per così dire metafisico. Comprò il giornale della sera, che piegò e infilò in tasca. Adesso pioveva un po’ di più. Nel punto dov’era scomparsa la cassetta, c’era già una
piccola pozzanghera. Una donna, riparandosi sotto un parapioggia, si avvicinò con una lettera. Solo all’ultimo istante si accorse della situazione. – La cassetta? – domandò. – Qua non c’è, – rispose l’impiegato. La donna, infuriata: – Non possono farlo. Togliere una cassetta senza prima avvisare gli abitanti. Dovremmo presentare tutti un reclamo. E gli voltò le spalle, dichiarando con grandi gesti che il giorno dopo avrebbe fatto la denuncia. Il palazzo dove l’impiegato abitava era lì vicino. Aprì la porta con mille precauzioni, mentre si rimproverava da solo: “Non comincerò ad avere paura delle porte?” Spinse l’interruttore della luce delle scale e si diresse all’ascensore. Appeso alla grata, c’era un cartello: “fuori servizio”. Ne rimase infastidito, irritato, non tanto per il fatto di dover salire a piedi (abitava a un piano basso, il secondo), ma perché alla quinta rampa di scale mancavano tre gradini da una settimana, il che lo costringeva a una certa cautela e a qualche sforzo. I servizi di rifornimento corrente (src) stavano funzionando male. In altre circostanze avrebbe detto che si trattava di incompetenza della direzione. O forse troppe richieste da soddisfare. O mancanza di personale. O mancanza di materie prime. Ma adesso il motivo doveva essere un altro, e lui non voleva neppure pensarci. Salì le scale senza fretta, preparandosi mentalmente alla piccola acrobazia che avrebbe dovuto fare: superare il vuoto corrispondente alla mancanza di tre gradini, dal basso verso l’alto e quindi con maggiore difficoltà, a forza di polso e di falcata. A quel punto vide che non erano tre i gradini mancanti, ma quattro. Si rimproverava di nuovo, adesso, per la mancanza di memoria, e dopo qualche tentativo fallito riuscì a raggiungere il gradino superiore. Era scapolo e viveva da solo. Si preparava da mangiare, mandava a lavare fuori la biancheria, gli piaceva il suo lavoro. Più in generale, si considerava un uomo soddisfatto. Era difficile non esserlo: il paese governato in maniera eccellente, gli incarichi ben ripartiti, il governo capace e dotato di grande esperienza nella trasformazione industriale. Quanto ai problemi più recenti, anch’essi infine si sarebbero risolti. Era ancora presto per cenare e quindi si sedette a leggere il giornale, come del resto faceva sempre, formulando inconsapevolmente la stessa inutile giustificazione, o meglio, inconsapevole della sua inutilità. Nella prima pagina c’era una nota ufficiosa del governo (nug) circa le carenze verificatesi negli ultimi tempi in vari oggetti, utensili, macchinari e installazioni. Si prometteva ben presto un rimedio alla situazione ritenuta non allarmante, si rimandava di nuovo al lavoro della commissione già nominata cui si era aggregato adesso uno specialista in parapsicologia. Non si faceva alcuna allusione a eventuali scomparse. Ripiegò il giornale accuratamente e lo posò sopra un tavolinetto basso, ai suoi piedi. Guardò l’ora all’orologio sulla parete: mancavano ancora alcuni
minuti all’inizio della trasmissione televisiva. La regolarità del suo tran tran quotidiano era stata intaccata dagli avvenimenti, soprattutto dalla scomparsa della cassetta postale, che gli aveva fatto perdere un certo tempo. In genere aveva il tempo di leggere tutto il giornale, preparare una cena frugale e piazzarsi davanti al televisore, per ascoltare le notizie e mangiare. Dopo, portava in cucina il piatto, il bicchiere e le posate e tornava alla comoda sedia dove rimaneva, ora guardando ora dormicchiando, fino alla fine della trasmissione. Si domandò come avrebbe fatto oggi, e non si curò di trovare una risposta. Allungò la mano e accese l’apparecchio: udì un fischio, lo schermo s’illuminò a poco a poco finché comparve il quadro di sintonizzazione, un complicato sistema di righe verticali, orizzontali e oblique, dalle superfici chiare e scure. Se ne rimase lì a guardare distrattamente, come ipnotizzato dalla fissità dell’immagine. Accese una sigaretta (non fumava mai in servizio, non era permesso) e si sedette di nuovo. Gli venne in mente l’orologio al polso e lo guardò: era ancora fermo e non si sentiva più il tictac. Slacciò lentamente il cinturino nero, posò l’orologio sul tavolo, accanto al giornale, e fece un respiro profondo. Un forte schiocco gli fece voltare il capo rapidamente. “Un mobile”, pensò. E in quel preciso istante, per un lasso di tempo inferiore a un secondo, lo schermo scomparve e al suo posto, come un lampo, comparve il viso di un bambino, con gli occhi spalancati. Scomparve verso il fondo, all’indietro, sempre più lontano, finché si trasformò in un semplice punto luminoso, palpitante, al centro dello schermo nero. Subito dopo ricomparve l’immagine della sintonia, leggermente tremolante, ondulante, come un’immagine riflessa nell’acqua. L’impiegato si passò la mano sul viso, perplesso. Prese la cornetta del telefono, compose il numero dei servizi di informazione televisiva (sitv) e, quando risposero, domandò: – Per favore, che interferenza è quella che è comparsa poco fa nella sintonizzazione? Una voce maschile rispose seccamente: – Non c’è stata nessuna interferenza. – Chiedo scusa, ma io l’ho vista perfettamente. – Non abbiamo alcuna informazione da darle. La comunicazione fu interrotta. “Devo aver agito male. Sarà tutto collegato”, mormorò. Andò a sedersi davanti al televisore, dove l’immagine aveva riacquistato la sua ipnotica immobilità. Si udì una successione di schiocchi, più forti. Non fu in grado di localizzarli. Sembravano al tempo stesso molto vicini e molto lontani, proprio li sotto di lui o in qualche altra parte del palazzo. Si alzò di nuovo e aprì la finestra.: non pioveva più. Del resto non era tempo da pioggia. Doveva esserci stata qualche avaria nel. materiale del servizio di adattamento meteorologico (sam): durante i mesi estivi non pioveva mai. Dalla finestra vide distintamente il punto dove prima si trovava la cassetta postale. Respirò dilatando i polmoni, guardò il cielo, adesso limpido e terso, trapunto di stelle, le più brillanti, quelle che
resistevano all’illuminazione del centro cittadino. La trasmissione stava cominciando in quel momento. Se ne tornò alla sua sedia. Voleva sentire il notiziario con cui il programma si apriva sempre. Un’annunciatrice dal sorriso artificiale e teso annunciò il programma della sera e subito dopo si udirono le note che preludevano alle notizie. Poi, un presentatore dall’espressione squallida comparve annunciando una nota ufficiosa del governo (nug). Era più recente di quella riportata dal giornale. Diceva: “Il governo informa tutti i cittadini utenti che i difetti e le incongruenze di certi oggetti, utensili, macchinari e installazioni (in sigla oumi), ultimamente verificatisi in maggior numero, sono attualmente sottoposti a studio da parte dell’apposita commissione, che conta adesso sulla collaborazione di un parapsicologo. I cittadini utenti devono respingere le voci, le notizie gonfiate, le manipolazioni. Devono mantenere la serenità, sia pur nel caso che intervengano scomparse dei suddetti oumi: oggetti, utensili, macchinari o installazioni. Si raccomanda la più rigida sorveglianza. Nessun oumi (oggetto, utensile, macchinario o installazione) deve, in futuro, essere guardato distrattamente. Il governo considera indispensabile cogliere di sorpresa qualunque oumi: oggetto, utensile, macchinario o installazione, nel momento della sua scomparsa. Il cittadino utente che darà informazioni esaurienti o ritarderà la scomparsa di oumi sarà considerato benemerito e promosso alla precedenza C, qualora sia qualificato in precedenza più bassa. Il governo conta sull’appoggio e sulla fiducia di tutti”. Seguirono altre notizie, ma nessuna altrettanto interessante. Indispettito, quasi fosse stato personalmente offeso, l’uomo spense l’apparecchio: classificato nella priorità H (apri la mano destra e vide la lettera verde), avrebbe dovuto risparmiare per un bel pezzo prima di riuscire a raccogliere il denaro sufficiente per comprare la moquette che sognava da tanti anni. Sapeva molto bene come si fabbricavano le moquette. Riteneva addirittura un insulto la presentazione di servizi tipo questo, introdotti in famiglie che non avevano niente da mettere sul pavimento nudo. Andò in cucina a prepararsi la cena. Si limitò a strapazzare un paio d’uova, che mangiò a un capo del tavolo, accompagnandole con un pezzo di pane e un bicchiere di vino. Poi lavò le poche stoviglie che aveva sporcato. Evitò di bagnarsi la mano che si era graffiato, anche se sapeva che la pellicola biologica era impermeabile all’acqua: funzionava come un’altra pelle rigeneratrice dei tessuti organici e, proprio come la pelle, respirava. Un uomo gravemente ustionato non sarebbe morto se fosse stato possibile ricoprirlo subito con il liquido biologico e solo i dolori gli avrebbero impedito di condurre una vita normale fino alla completa guarigione. Ripose il piatto e la padella, e mentre si accingeva a metter via il bicchiere accanto agli altri due che possedeva, notò uno spazio vuoto nella credenza. Non riuscì a ricordare subito quello che c’era prima. Rimase lì a bocca aperta, con il bicchiere in mano, frugando nella memoria, tentando di capire. Ecco cos’era: la grande brocca, quella di cui si serviva raramente. Posò lentamente il
bicchiere accanto agli altri, chiuse lo sportello della credenza. Poi ripensò alle raccomandazioni del governo (g) e lo riaprì. Tutto era a posto, tranne la brocca. La cercò dappertutto in cucina, spostando gli oggetti con la massima attenzione, guardandoli fissamente, uno per uno, fino ad accettare tre dati di fatto: la brocca non era piú dove l’aveva lasciata, non era nella cucina, non era in nessun posto della casa. Quindi, era scomparsa. Non si spaventò. Dopo aver udito la nota ufficiosa (nu) alla televisione (tv), da buon cittadino utente che si vantava di essere, nonché impiegato, si sentiva membro di un immenso esercito di sorveglianti. Si vedeva in comunicazione diretta con il governo (g), responsabile, forse futuro benemerito della città e del paese, forse destinato alla precedenza C. Tornò in salotto con passo deciso, marzialmente sonoro. Si avvicinò alla finestra, che aveva lasciato aperta. Guardò la strada da una parte e dall’altra, dominatore, e decise che avrebbe approfittato del fine settimana per un lavoro di sorveglianza continua in tutta la città. Sarebbe stata una vera iella se non avesse ottenuto informazioni utili al governo (g), sufficientemente utili per meritargli la precedenza C. Lui non aveva mai avuto ambizioni, ma adesso era arrivato il momento di averne, e con legittimo diritto. La. precedenza C avrebbe significato, per lo meno, funzioni di responsabilità molto maggiore nel servizio di richieste (sr), avrebbe significato, chissà, il trasferimento a un settore più vicino al governo centrale (gc). Aprì la mano, vide la sua H, immaginò al suo posto una C, assaporò la visione del trapianto di pelle nuova che gli avrebbero fatto. Si allontanò dalla finestra e collegò il ricevitore: l’immagine mostrava la fase di lavorazione delle moquettes. Adesso interessato, si sedette comodamente e guardò il programma sino alla fine. Lo stesso annunciatore lesse l’ultimo notiziario, ripeté la nota ufficiosa del governo (nug) e, lasciando qualche dubbio sul probabile nesso reciproco fra le due informazioni, aggiunse che il giorno seguente tutta la periferia della città sarebbe stata sorvegliata da tre stormi di elicotteri, essendo peraltro già assicurato dallo stato maggiore della forza aerea (stufa) il rinforzo di tale sorveglianza con altri velivoli in caso di necessità. L’impiegato spense il televisore e si andò a coricare. Durante la notte piovve, ma si udì più volte stridere all’interno del palazzo. Alcuni inquilini si svegliarono e, spaventati, telefonarono alla polizia e ai pompieri. Gli risposero che la faccenda era sotto esame, che era garantita la sicurezza delle loro vite, anche se, per il momento, purtroppo non poteva dirsi lo stesso per la sicurezza dei beni, ma che il problema si stava avviando a soluzione. E leggevano la nota ufficiosa del governo (nug). L’impiegato del srs dormì un sonno tranquillo. Quando, il mattino dopo, uscì di casa, trovò sul pianerottolo alcuni vicini che parlavano. L’ascensore aveva ripreso a funzionare. Meno male, dicevano tutti, perché adesso erano venti i gradini che mancavano, contando solo le rampe di scale fino al pianterreno. Di lì in su, ne mancavano molti di piú. I vicini erano preoccupati e chiesero informazioni all’impiegato del srs.
Questi ipotizzò che la situazione si sarebbe aggravata ulteriormente per un certo tempo, ma che ben presto si sarebbe normalizzata. Poi si sarebbe entrati in una fase di recupero. – Sappiamo tutti come vi siano state crisi di comportamento. Errori di fabbricazione, pessima pianificazione, pressione insufficiente, difetti nelle materie prime. E a tutto si è sempre rimediato. Una vicina ricordò: – Ma non c’è mai stata una crisi tanto grave e per tanto tempo. Dove andremo a finire se gli oumi continueranno così? E suo marito (precedenza E): – Se il governo non riesce a porvi mano, bisogna eleggerne uno più energico. L’impiegato concordò e si infilò in ascensore. Prima che questo si mettesse in movimento, la vicina lo avvertì: – Guardi che non troverà la porta del nostro palazzo. È scomparsa stanotte. Quando l’impiegato uscì dall’ascensore nell’atrio, gli provocò un vero colpo il vuoto quadrangolare che si apriva davanti a lui. Non c’era altro segnale della porta tranne che, negli stipiti, i buchi dove prima erano incassati i cardini. Nessuna traccia di violenza, nessun frammento. Passava gente per la strada, ma non si fermava. All’impiegato parve quasi offensiva questa indifferenza, ma capì subito appena si affacciò sul marciapiede: non mancava solo la porta del suo palazzo, mancavano altre porte sui due lati della strada. E non soltanto porte. C’erano negozi con il frontone tutto squassato, senza vetrine e senza merci. A un edificio mancava la facciata intera, come se fosse stata tagliata dall’alto in basso con un coltello affilatissimo. Si vedevano gli interni, i mobili, persone che si muovevano sullo sfondo, spaventate. Per una coincidenza inspiegabile sembrava un albero illuminato. Al primo piano si udì una donna gridare: “I miei vestiti? Dove sono i miei vestiti?” E attraversò nuda la camera, esposta alla vista della strada. L’impiegato non riuscì a trattenere un sorriso, divertito, perché la donna era grassa e mal fatta. All’inizio della settimana, i servizi di rifornimenti correnti (src) sarebbero stati sovraccarichi. La situazione si complicava sempre più. Meno male che lui apparteneva al srs. Percorse la strada, attento, in obbedienza alla richiesta del governo (g), a ogni cosa, tanto le cose fisse quanto le mobili, spiando il più piccolo segno di comportamento sospetto. Notò che altre persone si comportavano nella stessa maniera e questa dimostrazione di coscienza civica lo confortò, anche se ognuno era per così dire un rivale per la precedenza C. “Ce ne sarà per tutti?”, pensò. Infatti c’era molta gente per la strada. Era una mattinata chiara, piena di sole, una splendida mattina per andarsene alla spiaggia o in campagna. O per restarsene in casa a godersi il riposo del fine settimana, se non fosse stato evidente che le case cominciavano a perdere sicurezza, non in senso
stretto, ma per lo meno in quell’altro che non va dimenticato in nessuna circostanza: il decoro. Quel palazzo che era rimasto senza la facciata, tagliata di netto, non era uno spettacolo piacevole da vedere: tutti quegli interni offerti così agli occhi di chi transitava per la strada, e quella cicciona che passava, forse inconsapevole, senza uno straccio di vestito addosso e chiedeva (a chi) dove fossero. Cominciò a sudare freddo al pensiero di come si sarebbe sentito frustrato lui se fosse scomparsa anche la facciata del suo palazzo e lui avesse dovuto farsi vedere da tutti (sia pure vestito) senza la protezione opaca, consistente, densa, che lo difendeva dal freddo e dal caldo e dalla curiosità dei concittadini. “Forse, – pensò, – è tutto il risultato della pessima qualità dei materiali. In tal caso, ci sarebbe ancora da ringraziare. Le circostanze stanno liberando la città dai materiali difettosi e il governo (g) sa, senz’ombra di dubbio, senza equivoci, a che cosa deve porre rimedio e come, e da tutto ciò trarrà lezioni per il futuro. Il minimo indugio è un delitto. Bisogna difendere la città e i cittadini utenti”. Entrò in una tabaccheria per comprare il giornale. Il padrone del negozio stava parlando al bancone con due clienti: – ... e sono morti tutti. La radio (r) non ha ancora dato la notizia, ma io lo so da fonte sicura. Un cliente che è stato qui mezz’ora fa, al massimo, abita proprio iì accanto e ha visto. L’impiegato del srs domandò: – Di che cosa state parlando? E aprì la mano, con un gesto che voleva sembrare casuale, ma che era sempre un mezzo per esercitare pressione sugli interlocutori: lì nessuno sembrava avere precedenza superiore alla H. Il padrone della tabaccheria ripeté la sua storia: – Stavo raccontando quello che mi ha detto un cliente. Nella strada in cui abita lui è scomparso un palazzo intero, e le persone che ci vivevano le hanno trovate tutte morte, per terra. Completamente nude. Non avevano più neppure gli anelli. La cosa più strana è che sia scomparso il palazzo intero, perfino le fondamenta. Sono rimasti solo gli scavi. La notizia era grave. Difetti di porte, scomparsa di cassette postali o di brocche, insomma, fin lì si poteva sopportare. Era persino ammissibile che si volatilizzasse la facciata di un palazzo. Ma i morti, proprio no. In tono ufficiale (i tre uomini, con gesti che potevano significare distrazione ma anche casualità, avevano rivolto all’insù le palme delle mani: il padrone del negozio era di precedenza L, uno dei clienti beneficiava della precedenza I, l’altro cercava di non mostrare troppo la sua N) espresse, partecipò la propria indignazione civica: – A partire da quanto è accaduto, è la guerra. Una guerra senza quartiere. Non credo che il governo (g) tolleri aggressioni, e tanto meno assassini. Non c’è che la via della rappresaglia. Il cliente I, solo di un grado inferiore, osò sollevare un minimo dubbio:
– Il male è che gli effetti delle rappresaglie finiscono sempre per ricadere su di noi. – Sì, ha ragione. Ma solo temporaneamente. Non lo dimentichi, solo temporaneamente. Il padrone della tabaccheria: – È sempre stato così, infatti. L’impiegato prese il giornale e pagò. Fu nel fare questo movimento che si ricordò di non aver tolto la pellicola biologica che l’infermiere gli aveva spennellato sulla mano destra. Non importava, avrebbe potuto toglierla in qualunque momento. Salutò, uscì e percorse tutta la strada, fino al viale. Le persone che gli passavano accanto parlavano animatamente, si radunavano a gruppetti. Alcune mostravano un’espressione preoccupata, altre avevano l’aspetto di chi ha dormito male o non ha dormito affatto. Si avvicinò a un gruppo numeroso a cui si rivolgeva un ufficiale delle forze militarizzate (fm): – Dobbiamo evitare il panico. Questa è la prima regola, – diceva lui. – La situazione è sotto controllo, le tre armi sono allertate, non dirò per prevenire, che non sarebbe giustificabile, la polizia di sicurezza industriale interna (psii) ne ha tenuto conto in tutti i suoi aspetti e livelli. Si raccomanda ai cittadini utenti di non uscire di casa senza documenti di identificazione. Alcuni dei presenti portarono la mano alla tasca, rimasero un altro po’ a sentire e si allontanarono con una certa precipitazione: erano tutti coloro che avevano lasciato i documenti a casa. L’impiegato entrò in un bar, si sedette e, contrariamente alle sue abitudini discrete, chiese qualcosa di forte, dopo di che distese il giornale sul tavolo. C’era una dichiarazione congiunta del ministero dell’interno (mi) e del ministero dell’industria (mi), che riprendeva e ampliava le note ufficiose (nu) precedenti. Il titolo principale, a tutta pagina, garantiva: “La situazione non è peggiorata nelle ultime 24 ore”. L’impiegato, nervosamente, mormorò: “E per quale ragione sarebbe dovuta peggiorare?” Sfogliò il giornale. Un piccolo caos: notizie di carenze, di cattivo funzionamento, di scomparse. Di morti, non si parlava. Una fotografia colpì l’impiegato: mostrava una strada in cui tutto un lato era scomparso, come se lì non fosse mai esistita alcuna costruzione. Presa, a quanto pareva, dall’alto di un altro palazzo, l’immagine mostrava il labirinto degli scavi, una lunga fascia divisa in spazi rettangolari, come un gioco da bambini. “E i morti?”, pensò, ricordandosi della conversazione nella tabaccheria. Non c’era alcun riferimento a morti. Forse la stampa stava occultando la gravità della situazione? Guardò intorno, volse gli occhi al soffitto. “E se il palazzo scomparisse in questo istante?”, si domandò di colpo. Sentì il sudore freddo sulla fronte, un crampo allo stomaco. “Sono troppo fantasioso. È questo che mi ha sempre danneggiato”. Chiamò il cameriere per pagare e, mentre quello gli dava il resto, lui gli domandò, indicando il giornale: – Allora? Che cosa gliene pare?
Senza sforzarsi di rendere il movimento naturale, aprì la mano. Il cameriere, che, a quanto era riuscito a vedere, aveva la lettera R, si strinse nelle spalle: – Guardi, se vuole che glielo dica, per me tant’è. Lo trovo addirittura divertente. L’impiegato prese il resto, senza una parola, mise via il giornale. Poi uscì, tutto impettito, e cercò una cabina telefonica. Compose il numero della polizia di sicurezza industriale interna (psii) e quando gli risposero informò rapidamente che nella via tot, bar tot, un certo cameriere teneva un comportamento sospetto. Che comportamento? Aveva detto che per lui tant’era, che lo trovava addirittura divertente. E aveva aggiunto che era ben fatto, che per lui poteva scomparire tutto. Proprio così? Proprio così. Non gli fu chiesto di identificarsi e lui non lo fece: informazioni del genere, così isolate, non avrebbero certo potuto valergli una precedenza C. Ma era un buon inizio. Uscì dalla cabina e rimase nei dintorni. Quindici minuti dopo, un’automobile scura si fermò davanti al bar. Due uomini armati scesero dalla macchina ed entrarono nel locale. Ne ricomparvero poco dopo, portandosi dietro il cameriere ammanettato. L’impiegato sospirò, voltò le spalle e riprese la sua strada, fischiettando. All’aria aperta si sentiva meglio. Era un po’ sorpreso di se stesso, della naturalezza di quell’impulso che lo aveva spinto a telefonare, della tranquillità d’animo che aveva provato nel vedere il cameriere, tra i poliziotti della psii, spinto dentro l’automobile. “Servizio alla città, dovere di cittadino – mormorò. – Se fossero tutti come me, forse tutto questo non starebbe succedendo. Disciplinato, e me ne vanto. Bisogna aiutare il governo (g). Le strade non mostravano grandi danni, ma si notava nella città un generale deterioramento, come se qualcuno fosse andato in giro a strappare pezzettini qua e là, come fanno i bambini con i dolci: all’inizio, quasi non ci si accorge del danno, ma poi si nota che il dolce non è più in condizione di essere servito agli ospiti. Ma vi erano alcuni danni gravi (o forse bisognava chiamarle assenze?) Nell’ultimo tratto del viale, per un’estensione di più di duecento metri, tutta la pavimentazione era sparita. Doveva esserci stata anche una rottura nella condotta sotterranea d’acqua, perché altrimenti come si poteva spiegare l’enorme cratere in cui gorgogliava il fango? Alcuni impiegati del servizio di rifornimento d’acqua (sra) stavano aprendo profondi canali partendo dal bordo del cratere, mettendo allo scoperto la canalizzazione. Altri consultavano la mappa per sapere dove bisognava bloccare l’acqua e deviarla verso un’altra diramazione della rete. C’era un grande assembramento di gente in quel luogo. L’impiegato del srs si avvicinò per vedere meglio e si mise a parlare con uno degli spettatori: – Quando è successo? Il cerimoniale delle mani gli mostrò che il suo interlocutore aveva la precedenza E.
– Stanotte. È stato molto spiacevole, come vede. La strada è scomparsa, con tutto quanto vi era sopra. Perfino la mia automobile. – La sua automobile? – Tutte le automobili. Tutto. Cartelli stradali. Cassette postali. Pali dell’illuminazione. È come la vede lei adesso. Rasata alla perfezione. – Ma il governo (g) non mancherà di indennizzare. Lei riavrà la sua macchina. – Certamente. Nessuno ne dubita. Ma ha pensato che in questo spazio, secondo i calcoli della polizia per il traffico urbano (ptu) c’erano tra le centottanta e le duecento automobili? E non sappiamo se non è successa la stessa cosa in altre strade. Crede sia facile risolvere il problema? – No, veramente non è facile. Duecento macchine da indennizzare, così all’improvviso, sono una bella spesa. Glielo dico io, che sono impiegato del srs. Il padrone dell’automobile gli chiese il nome, si scambiarono i biglietti. Finalmente l’acqua era stata bloccata, e il cratere ondulava appena con gli ultimi zampilli limacciosi. L’impiegato si allontanò. Questa volta era davvero preoccupato. Altri casi del genere e in città sarebbe stato il caos. Era l’ora di pranzo. Adesso si trovava in una zona della città che non conosceva bene, dove passava raramente, ma certo non doveva essere difficile trovare un ristorante adatto alle sue possibilità. Aveva pensato di tornare a casa per mangiare, ma la situazione era tale da giustificare un cambiamento di abitudini. Inoltre non gli aggradava affatto l’idea di chiudersi fra quattro mura, in un palazzo senza porta d’ingresso e in cui mancavano vari gradini. Come minimo. Altre persone (molte) dovevano avere pensato la stessa cosa. Le strade erano gremite di gente e in certi luoghi era addirittura impossibile transitare. L’impiegato si accontentò di un panino e di una bibita, il tutto masticato e bevuto in fretta. I ristoranti che incontrava erano quasi deserti, ma lui ebbe paura di entrare. “È ridicolo”, pensò, inconsapevole di classificare così il proprio timore. “Se il governo (g) non prende rapidi provvedimenti, andrà a finire male”. Proprio in quell’istante un’automobile con apparecchiatura sonora si fermò in mezzo alla strada. Amplificata, si udì la voce della donna che, dentro la macchina, leggeva un foglio: “Attenzione, cittadini utenti. Il governo (g) informa tutti gli abitanti che adotterà rigorose misure di prevenzione e repressione. Sono stati effettuati alcuni arresti e ci si attende che in giornata la situazione si normalizzi del tutto. Nelle ultime ore si sono verificati soltanto casi di cattivo funzionamento, ma nessuna scomparsa. I cittadini utenti dovranno mantenersi vigili, la loro collaborazione è preziosa. La difesa della città non compete solo al governo (g) e alle forze militari e militarizzate (fmm). La difesa della città è una responsabilità di tutti. Il governo (g) prende atto della collaborazione fornita da molti cittadini e ringrazia, ma ricorda che i benefici della sorveglianza, derivanti dalla presenza in massa nelle strade e piazze, finiscono per essere pregiudicati proprio dalla folla. Bisogna isolare il nemico, e non offrirgli
l’opportunità di nascondersi. Attenzione, quindi. La nostra tradizionale abitudine di mostrare il palmo delle mani, a partire da questo momento deve diventare legge e dovere. D’ora in poi, ogni cittadino ha l’autorità di esigere, ripetiamo, di esigere di vedere il palmo della mano di qualsiasi altro cittadino, qualunque siano le precedenze dell’uno e dell’altro. La precedenza Z può e deve esigere che la precedenza A gli mostri il palmo della mano. Il governo (g) darà l’esempio: questa sera, in televisione (tv), il governo al completo presenterà la mano destra alla popolazione. Che tutti facciano lo stesso. La parola d’ordine nella situazione attuale è la seguente: sorveglianza e mano aperta! “ I quattro occupanti l’automobile furono i primi a eseguire l’ordine. Spianarono la mano destra dietro i finestrini chiusi e proseguirono, mentre la donna ricominciava la lettura. Eccitato, l’impiegato si rivolse all’uomo che si stava allontanando: – Mi faccia vedere la mano. E subito dopo, a una donna: – Mi faccia vedere la mano. Questi la mostrarono e a loro volta pretesero la stessa cosa. In pochi secondi, le centinaia di uomini e donne che stavano fermi o che passavano nella strada si mostravano febbrilmente le mani a vicenda, le sollevavano perché tutta la gente intorno potesse testimoniare. E non ci volle molto che tutte le mani si agitassero per aria, ansiose, provando la loro innocenza. Nacque così, contemporaneamente in tutta la città, la prassi più immediata e rapida di riconoscimento e identificazione: non c’era bisogno che le persone si fermassero, si passavano accanto con il braccio teso, piegando il polso all’insù ed esibendo la palma segnata dalla lettera di precedenza. Era stancante, ma faceva risparmiare tempo. Anche se il tempo non mancava. La città si muoveva ancora, ma molto lentamente. Nessuno si azzardava più a utilizzare la metropolitana: i tunnel incutevano paura. Inoltre correva voce che in una delle linee erano scomparsi i rivestimenti isolanti della corrente, ragion per cui il primo treno che era entrato in circolazione aveva elettrizzato tutti i passeggeri che vi viaggiavano. Forse non era vero, o forse era tutto vero, ma i dettagli abbondavano. In superficie, le linee degli autobus erano sempre più rade. Le persone si trascinavano per le strade, stendevano il braccio, proseguivano, sempre più stanche, senza sapere dove andare e dove fermarsi. In quella tetra condizione di spirito, c’erano occhi soltanto per i segnali di assenza, o di distruzioni causate proprio da quell’assenza. Di tanto in tanto, si vedevano camion carichi di militari, e passò addirittura una colonna di blindati, con i cingoli stridenti che strappavano grosse porzioni di manto stradale. Nel cielo, andavano e venivano elicotteri. Le persone si interrogavano reciprocamente, ansiose: “La situazione sarà davvero così grave? È una rivoluzione? Ci sarà la guerra? Ma i nemici, dove sono i nemici?” E se non lo avevano fatto prima, alzavano il braccio e mostravano la mano. Era questo, peraltro, il divertimento preferito dei bambini: si precipitavano sugli adulti come belve,
facevano boccacce, gridavano: “Fammi vedere la mano!” E se gli adulti, irritati, dopo aver scrupolosamente obbedito, pretendevano a loro volta di vedere la mano, quelli rifiutavano, tirando fuori la lingua, o gliela mostravano solo da lontano. Non era importante, anche lì non c’era niente di male: su tutte le mani dei bambini era segnata una lettera, uguale a quella dei genitori. L’impiegato del srs decise di tornare a casa. Era spossato fin nelle ossa. Aveva mangiato male e si era messo a immaginare il piccolo banchetto che si sarebbe preparato a casa. La fantasia gli fece aumentare la fame, lo rese ansioso, mancava poco che cominciasse a salivare. Senza riflettere, affrettò il passo, e poco dopo si ritrovò a correre. D’improvviso si sentì afferrare bruscamente, spingere contro un muro. Quattro uomini gli domandavano gridando perché corresse, lo scuotevano, gli aprivano la mano a forza. Poi dovettero lasciarlo. E lui si vendicò ordinando loro di aprire la mano, immediatamente. Avevano tutti una precedenza inferiore alla sua. Nel suo palazzo non sembrava vi fossero state modifiche. Mancava la porta d’ingresso, mancavano i gradini, ma l’ascensore funzionava. Quando uscì sul pianerottolo e si ritrovò davanti alla porta scorrevole, un fugace pensiero lo lasciò tremante di terrore retrospettivo: e se durante la corsa l’ascensore fosse entrato in avaria, o si fosse disfatto in nulla, e lui d’improvviso fosse caduto giù, come quei morti di cui aveva parlato l’uomo nella tabaccheria? Decise all’istante che, fintanto che la situazione non si fosse chiarita, non avrebbe più usato l’ascensore, ma subito dopo gli venne in mente che mancavano i gradini, che scendere o salire per le scale, adesso, era probabilmente impossibile. Esitante, nel bel mezzo di questo dilemma, cui dedicava un’attenzione morbosamente esagerata, stava percorrendo il pianerottolo diretto a casa sua quando, nel silenzio tra un piede posato per terra e l’altro sospeso in aria, notò il silenzio del palazzo, inframmezzato solo da rapidi e improvvisi stridori indefinibili. Che tutta la gente fosse uscita? Che fossero andati tutti nelle strade a sorvegliare, obbedendo agli ordini del governo (g)? O forse erano fuggiti? Posò lentamente il piede per terra e tese l’orecchio: la tosse di qualcuno, a un piano superiore, lo tranquillizzò. Aprì la porta con grande cautela ed entrò in casa. Fece un giro per le stanze: tutto in ordine. Spiò nella credenza della cucina, con la speranza di ritrovare, magari per miracolo, la brocca al suo posto. Non c’era. Sentì una profonda angoscia: questa piccola perdita personale rendeva più grave il disastro che si era abbattuto sulla città, la calamità collettiva che aveva appena visto con i propri occhi. Gli venne in mente che, solo qualche minuto prima, aveva provato una fame irrazionale. Aveva perso d’improvviso l’appetito? No, ma questo si era trasformato in qualcosa di simile a un dolore sordo da cui nascevano rutti secchi, da vuoto, come se le pareti dello stomaco si contraessero e distendessero ritmicamente. Si preparò un panino che mangiò in piedi, in mezzo alla cucina, con gli occhi un po’ stralunati, le gambe tremanti. Aveva la
sensazione di trovarsi su un pavimento instabile. Si trascinò fino alla camera, vestito com’era si distese sul letto e, senza accorgersene, cadde in un sonno profondo. Il resto del panino rotolò per terra e si aprì cadendo, con il segno dei denti da un lato. Nella stanza risuonarono tre scoppi violenti e, quasi fosse un segnale, la casa cominciò a torcersi, ad agitarsi, conservando tuttavia le sue forme, senza alcuna alterazione nelle varie parti o nel rapporto fra di esse. Tutto il palazzo vibrava da cima a fondo. Negli altri pianerottoli qualcuno gridò. Per quattro ore l’impiegato dormì, senza cambiare posizione. Sognò di trovarsi nudo dentro un ascensore strettissimo che saliva su per il palazzo, rompeva il soffitto e procedeva verso l’alto come un petardo, e poi d’improvviso scompariva, e lui rimaneva lì sospeso nello spazio, per un periodo di tempo che era contemporaneamente un decimo di secondo e una lunghissima ora, o l’eternità, e subito dopo cominciava a cadere all’infinito, a braccia e gambe aperte, mentre vedeva la città dall’alto, o il luogo della città, perché non c’erano più case né strade, ma solo uno spazio vuoto e deserto. Cadde violentemente per terra e sbatté da qualche parte con la mano destra. Il dolore lo fece svegliare. La camera era ormai in penombra, che sembrava consistente come una nebbia scura. Si sedette sul letto. Senza guardare, si strofinò la mano destra con la sinistra e sussultò nel sentire un’impressione di appiccicoso e tiepido. Ancora prima di guardare, si rese conto che era sangue. Ma com’era possibile che sanguinasse così la piccola ferita che la porta del srs gli aveva procurato? Accese la luce e guardò: aveva il dorso della mano di carne viva. Tutta la pelle che la pellicola rigenerante ricopriva era scomparsa. Ancora insonnolito e disorientato per l’incidente imprevisto, si precipitò nel bagno, dove teneva alcuni prodotti medicinali di pronto soccorso. Aprì l’armadietto e prese una boccetta. Il sangue gocciolava rapido per terra o dentro la manica della giacca, secondo i movimenti. Sembrava trattarsi di un’emorragia seria. Aprì la boccetta, intinse il pennello che si trovava in un astuccio a parte e mentre si accingeva ad applicare il liquido biologico ebbe il presentimento che stava per commettere un errore. E se poi fosse accaduta la stessa cosa? Ripose la boccetta, schizzando tutto il sangue intorno. In casa non c’erano bende. Era un materiale che ormai praticamente non si usava più, come le garze e i cerotti, da quando era entrato in commercio il liquido biologico rigenerante. Corse in camera, aprì il cassetto dove teneva le camicie e da una strappò una larga fascia. Aiutandosi con i denti, riuscì a fasciarsi la mano e a stringere con forza. Nel chiudere il cassetto, vide il resto del panino. Si chinò per prenderlo, ne radunò i pezzi e, seduto sul letto, lo mangiò lentamente, ormai senza più fame, solo per una specie di obbligo su cui non voleva discutere. Proprio mentre inghiottiva l’ultimo boccone, notò la macchia scura quasi nascosta dall’ombra di un mobile. Vi si avvicinò, incuriosito, pensando
vagamente che quando finalmente avesse potuto comprare la moquette tutte queste imperfezioni del pavimento sarebbero scomparse. La macchia rossa era stata colta (avrebbe potuto giurarlo) in quello che parve essere un movimento subito interrotto. L’impiegato allungò la punta del piede e la capovolse. Sapeva già quello che avrebbe trovato: era la pellicola che gli era stata spennellata sul dorso della mano, e quel rosso era sangue, il sangue che aveva ricoperto all’interno la pelle lì attaccata. Pensò allora che, quasi sicuramente, non sarebbe mai riuscito a comprare la moquette. Chiuse la porta della camera e se ne andò in soggiorno. Sembrava sereno, tranquillo, ma dentro di lui il panico girava, per il momento ancora lentamente, come un pesante disco armato di punte estensibili che ben presto lo avrebbero lacerato. Accese la televisione e mentre l’apparecchio si riscaldava si avvicinò alla finestra, che aveva lasciato aperta fin dal mattino ed era rimasta così per tutto il giorno. Il pomeriggio stava per finire. C’era molta gente nella strada, ma nessuno parlava, non si erano formati gruppi. Sembrava che le persone camminassero a caso, senza meta, si limitavano a stendere le braccia e mostrare la mano destra. Visto dall’alto, in quel silenzio, lo spettacolo faceva venir voglia di ridere: le braccia salivano e scendevano, le mani, bianche, con le macchie verdi delle lettere, facevano un rapido cenno e subito ricadevano giù, per ripetere lo stesso movimento dopo alcuni passi. Sembravano tutti dei mentecatti nel viale di un manicomio. L’impiegato tornò alla televisione (tv). Sedute a semicerchio a un tavolo rotondo, c’erano cinque persone dall’aspetto serio. Ancora prima di riuscire a distinguere le parole, le prime, l’uomo notò che l’immagine era continuamente interrotta e, con l’immagine, anche il suono. Era il presentatore che parlava: – ... amo qui specialis ... logia, sicurezza industriale, operatività bilogica, pro ... anza ... Per quasi mezz’ora lo schermo del televisore continuò a lampeggiare, lanciando spezzoni di parole, ogni tanto una frase che doveva essere completa senza comunque darne la certezza. L’impiegato se ne rimase lì, senza esser sicuro neppure lui di voler sapere quanto si diceva, solo perché si era ormai abituato a starsene seduto davanti al televisore (tv) e, per adesso, non poteva fare altro. Ammesso che lo avesse mai potuto fare. Voleva vedere il governo (g) mostrare la mano, non perché il gesto avesse importanza, rimediasse ai mali della città o potesse provare una qualche innocenza, se di questo si trattava, ma forse per la rarità di vedere tante precedenze A e B riunite. L’immagine, poi, si fissò per alcuni secondi, il suono si mantenne regolare e una voce nel televisore disse: – ... sembra appurato che non si sono verificate scomparse durante il giorno. Nella giornata si segnalano solo carenze di funzionamento, irregolarità, avarie in generale. Tutte le scomparse si sono avute durante la notte.
L’annunciatore domandò: – Che cosa pensa, allora, che si debba fare durante il periodo notturno? L’intervistato: – Secondo me... L’immagine scomparve, il suono si smorzò, adesso definitivamente. La televisione aveva smesso di funzionare. Il governo non avrebbe mostrato le mani alla città. L’impiegato se ne tornò in camera. Come si aspettava (ma non avrebbe saputo dirne il perché), il pezzo di pellicola rigenerante non si trovava più nello stesso posto. Lo toccò di nuovo con la punta della scarpa, quasi inconsapevole del proprio gesto. Nella sua mente, allora, sentì che si ripetevano le parole del presentatore: “Che cosa pensa che si debba fare durante il periodo notturno ?” Sì, che cosa si deve fare durante la notte? Adesso non si sentiva alcuno scoppio. Il palazzo strideva tutto ininterrottamente, quasi fosse tirato da due volontà in direzioni contrarie. L’impiegato strappò un’altra striscia dalla camicia, si fasciò meglio e con più forza la mano, prese dal cassetto tutto il denaro che possedeva. Anche se aveva caldo, indossò il soprabito: di notte la temperatura sarebbe scesa e lui non contava di tornare a casa fino al nascere del giorno. “Tutte le scomparse si sono verificate durante la notte”. Andò in cucina, si preparò un altro panino, che infilò in tasca, percorse con lo sguardo tutta la casa e uscì. Nel pianerottolo, prima di avviarsi all’ascensore, gridò verso l’alto, nella tromba delle scale: – C’è qualcuno? Nessuno rispose. Tutto il palazzo sembrava oscillare e strideva. “E se l’ascensore non funziona? Come farò a uscire?” Si vide saltar giù nella strada dalla finestra del suo secondo piano e tirò un profondo respiro, di sollievo, quando la porta scorrevole si aprì normalmente e la luce si accese. Timoroso, premette il pulsante. L’ascensore esitò, come se resistesse all’impulso elettrico che riceveva e poi, piano piano, a lenti scossoni, scese fino al pianterreno. La porta si bloccò nel momento in cui veniva spinta, a stento gli lasciò lo spazio per introdursi e scivolare fuori con il corpo, ma nel bel mezzo di quel suo movimento si distese bruscamente, bloccandolo. Il disco pesante del panico girava ormai rapidamente, si tramutò in vertigine. All’improvviso, come se rinunciasse o le bastasse la minaccia, la porta cedette, si lasciò aprire. L’impiegato si precipitò fuori nella strada. Era ormai notte fonda, ma i lampioni erano ancora spenti. Passavano sagome in silenzio, erano rare le persone che adesso alzavano le mani. Ma qua e là c’era ancora qualcuno che accendeva un accendisigari o una pila tascabile per controllare. L’impiegato indietreggiò verso l’ingresso del palazzo. Aveva bisogno di uscire, non sopportava quel palazzo sopra di sé, ma qualcuno avrebbe pur finito per chiedergli di mostrare la mano, e lui ce l’aveva bendata, insanguinata. Avrebbero potuto pensare che la fasciatura fosse un
trucco, un tentativo per nascondere il palmo della mano, con il pretesto di una ferita. Sentì un brivido di paura. Ma il palazzo strideva sempre più forte. Stava per succedere qualcosa. Dimentico della mano per un secondo, balzò in strada. Gli venne una voglia quasi irrefrenabile di correre, ma si ricordò di quanto gli era successo nel pomeriggio e, con la mano in quello stato (di nuovo ripensò alla mano, e adesso fino alla fine), capì a quale punto la sua situazione fosse pericolosa. Aspettò nel buio un momento in cui ci fossero meno sagome e meno accendisigari e pile che si accendevano e spegnevano, e poi, rasente ai muri, si allontanò. Percorse tutta la strada dove abitava senza che nessuno lo interpellasse. Prese coraggio. Alzare il braccio era diventato assurdo in una città dove non c’era illuminazione pubblica e le persone, stanche di una sorveglianza senza risultato, desistevano a poco a poco dall’esigere la verifica del palmo delle mani. Ma l’impiegato non aveva tenuto conto della polizia (p). Nello svoltare un angolo che dava su una grande piazza, s’imbatté in una pattuglia. Tentò di indietreggiare, ma fu sorpreso in quella mossa dal fascio di luce di una pila. Gli intimarono l’alt. Se fosse scappato, sarebbe stato un uomo morto. Si avvicinò alla pattuglia. – Mi faccia vedere la mano. Il fascio luminoso della pila si riflettè sul tessuto bianco. – Che cos’è? – Mi sono ferito sul dorso della mano e ho dovuto mettere la fasciatura. I tre poliziotti lo circondarono. – Una fasciatura? Che storia è questa? Come avrebbe fatto a spiegare che il liquido biologico gli aveva strappato la pelle e adesso si spostava nel buio della sua stanza? (Si spostava verso dove?) – Perché non ha messo un po’ di liquido biologico sulla ferita? Ammesso che abbia davvero una ferita, – bofonchiò uno dei poliziotti. – Ce l’ho, sissignore, ma se levo la fasciatura il sangue ricomincia a scorrere. – Bene. Finiamola con le chiacchiere. Mi faccia vedere la mano. – Nossignori. – Mostri la mano, o si becca una pallottola all’istante. Il poliziotto più vicino, con uno strattone, gli infilò le dita sotto la fasciatura e tirò bruscamente. Il sangue parve esitare e subito dopo, sotto la luce violenta della pila, affiorò su tutta la superficie esfoliata. Il poliziotto rovesciò all’insù il palmo della mano e vide la lettera. – Può andare. – Per favore, aiutatemi a rifare la fasciatura, – implorò l’impiegato. Riluttante, borbottando “non siamo mica un ospedale”, uno dei poliziotti acconsentì. E poi: – Per lei, sarebbe preferibile restarsene a casa.
L’impiegato, a stento trattenendo le lacrime di dolore e di autocommiserazione, mormorò: – Ma quale casa! – Insomma, – rispose il poliziotto. – Se ne vada via. Al di là della piazza c’erano alcune luci. L’uomo esitò. Proseguire fin lì, con il rischio di imbattersi ogni momento in persone che lo costringessero a mostrare il palmo della mano? Rabbrividì di dolore, di paura, di angoscia. La ferita si era già ingrandita. Che cosa fare, allora? Continuare a camminare nel buio, come tanti altri, a tentoni, a spintoni? O tornare a casa? Aveva perduto l’entusiasmo del civico cacciatore con cui era uscito al mattino. Comparisse pure ciò che doveva comparire, ammesso che fosse possibile vedere qualcosa in tutta quell’oscurità, lui non sarebbe intervenuto, non avrebbe chiamato nessuno a fare da testimone o per dare una mano. Si allontanò dalla piazza imboccando una strada larga con due file di alberi che rendevano ancora più spesse le tenebre. Lì nessuno gli avrebbe chiesto di mostrargli la mano. Passava rapidamente qualche persona, ma la rapidità non significava che avesse un posto dove stare o un luogo dove andare. Camminare in fretta era soltanto, in tutti i sensi, una fuga. Ai due lati della strada i palazzi stridevano e scoppiettavano. L’uomo ricordava che in fondo, a un incrocio, c’era un monumento circondato da panchine. Sarebbe andato a sedersi lì per un po’, per far passare il tempo, magari tutta la notte: non sapeva dove andare. Cos’altro fare? Nessuno sapeva dove andare. Quella strada, come tutte le altre, era una lunga fila di persone. Si sarebbe detto che la popolazione della città fosse aumentata. Rabbrividì al solo pensiero. E non si stupì quando si accorse che era scomparso anche il monumento. Le panchine erano ancora lì e c’era qualcuno seduto. Allora l’impiegato si ricordò della mano ferita ed ebbe un attimo di esitazione. Dal buio emersero altre persone che occuparono tutti i posti vuoti. Non poteva piú sedersi. Non voleva sedersi. Svoltò a sinistra, per una strada che prima era stretta ma che adesso presentava larghe e profonde voragini ai lati, veri e propri precipizi dove prima c’erano i palazzi. Ebbe l’impressione che se fosse stato giorno tutti quegli spazi sarebbero sembrati delle prospettive in fila l’una dietro l’altra, verso nord e verso sud, verso levante e verso ponente, fino ai limiti della città, ammesso che tale nome fosse ancora giustificabile. Questo gli fece venire un’idea: uscire dalla città, andare nei dintorni, in aperta campagna, dove non c’erano edifici che scomparivano, automobili che si dileguavano a centinaia, cose che cambiavano posto e poi non erano più lì e non c’erano in nessun’altra parte. Nello spazio che avevano occupato, rimaneva solo il vuoto e, ogni tanto, qualche morto. Riprese un po’ di coraggio: per lo meno sarebbe sfuggito all’incubo di passare una notte così, fra minacce invisibili, vagando da una parte all’altra. Con la luce del giorno, forse si sarebbe trovato finalmente il rimedio a quella situazione. Il governo (g) stava certamente studiando il problema. Si erano avuti altri casi, prima,
benché meno gravi, e sempre si era trovata una soluzione. Non c’era da disperare. In città sarebbe tornato l’ordine. Una crisi, una semplice crisi, e nient’altro. Nelle vicinanze della strada dove viveva c’erano ancora alcuni lampioni accesi. Questa volta non li evitò: si sentiva sicuro, fiducioso, se qualcuno lo avesse bloccato, avrebbe spiegato tranquillamente la storia della ferita, dimostrato che tutto faceva parte, era chiaro, della stessa cospirazione contro la sicurezza e il benessere della città. Non ce ne fu bisogno. Nessuno gli chiese di mostrare il palmo della mano. Le poche strade illuminate erano gremite di gente. Era difficile riuscire ad attraversarle. E in una, appollaiato sopra un camion, un sergente dell’esercito di terra (et) stava leggendo un proclama, o un avviso: – Si informano tutti i cittadini utenti che, per ordine dello statomaggioregenerale delle forze armate (stngfa), sarà bombardato, a partire dalle sette del mattino e da parte dell’artiglieria (ar) e dell’aviazione (av), il settore est della città, come prima misura di rappresaglia. I cittadini utenti che abitano nel settore da bombardare sono già stati evacuati dalle loro case e si trovano attualmente alloggiati in edifici governativi, debitamente sorvegliati. Saranno indennizzati per tutte le perdite materiali e per tutti i disagi morali che il presente ordine inevitabilmente finirà per causare. Il governo (g) e lo statomaggioregenerale delle forze armate (smgf a) garantiscono ai cittadini utenti che il piano di contrattacco elaborato sarà portato fino alle sue estreme conseguenze. Date le circostanze, ed essendosi rivelata infruttuosa la parola d’ordine “sorveglianza e mano aperta”, la stessa parola d’ordine è sostituita dalla seguente: “sorvegliare e attaccare”. L’impiegato tirò un sospiro di sollievo. Non doveva più mostrare la mano. Gli entrò nel petto un nuovo spirito. Si rafforzò il coraggio che aveva provato mezz’ora prima. E all’istante decise due cose: che sarebbe passato da casa a prendere il binocolo e che, con il binocolo, se ne sarebbe andato fuori città, verso est, per assistere al bombardamento. Si unì alle conversazioni che erano iniziate appena il sergente aveva concluso la lettura dell’avviso: – È un’idea. – Crede che darà qualche risultato? – Certamente, il governo (g) non sta dormendo. E, come rappresaglia, non se ne poteva trovare una migliore. – Questa volta sarà pure un buon esempio. Peccato non sia avvenuto prima. – Che cos’ha sulla mano? – Il liquido biologico non ha funzionato e mi ha ingrandito la ferita. – Conosco un altro caso simile. – Anch’io. Mi hanno detto che negli ospedali è stata una calamità. – Probabilmente io sono stato il primo caso. – Il governo (g) indennizzerà tutti.
– Buonanotte. – Buonanotte. – Buonanotte. Domani andrà meglio. – Sì, domani andrà meglio. Buonanotte. L’impiegato si allontanò contento. La sua strada continuava a essere al buio, ma questo non lo turbò. Il lievissimo, imponderabile chiarore che proveniva dalle stelle bastava per orientarsi e, visto che lì non c’erano alberi, il buio non era poi così pesto. Trovò la strada diversa: mancavano alcuni edifici. Ma non il suo. Il suo c’era ancora, probabilmente erano scomparsi altri gradini. Comunque, anche se l’ascensore non funzionava, l’uomo avrebbe trovato il modo di raggiungere il secondo piano. Voleva il binocolo, voleva la rivincita di assistere al bombardamento di un intero settore della città, il settore est, come aveva detto il sergente. Passò fra gli stipiti della porta che era scomparsa e si ritrovò nel vuoto. Al contrario del palazzo che aveva visto al mattino, di questo restava solo la facciata, come una scorza vuota. Alzò la testa e, in alto, vide il cielo e le poche stelle di quella notte. Sentì una grande furia. Nessuna paura, soltanto una grande e salutare furia. Odio. Una rabbia omicida. Per terra c’erano alcune sagome bianche, corpi completamente nudi. Si ricordò di quanto aveva sentito al mattino nella tabaccheria: “Non avevano più neanche gli anelli”. Si avvicinò. Proprio come si aspettava, conosceva tutti i morti: erano alcuni inquilini del suo palazzo. Avevano preferito non uscire da casa e adesso erano tutti morti. Nudi. L’impiegato posò la mano sul petto di una donna: era ancora tiepido. Probabilmente la scomparsa era avvenuta quando lui era arrivato nella strada. Nel silenzio, o fra stridori e scoppi, come ne aveva sentiti dappertutto fintanto che era rimasto in casa. Se non si fosse trattenuto ad ascoltare il sergente, se poi non fosse rimasto a chiacchierare, forse lì ci sarebbe stato un corpo in più, il suo. Guardò avanti, verso lo spazio lasciato dall’edificio e ne vide un altro muoversi proprio lì davanti, diminuire rapidamente di altezza, come un foglio di carta scuro ritagliato, che un fuoco invisibile del cielo stesse corrodendo o consumando. In meno di un minuto l’edificio scomparve. E visto che, poco oltre, c’era uno spazio più grande, si formò una specie di corridoio tutto diritto in direzione est. “Anche senza binocolo, – mormorò l’impiegato tremando di paura e odio, – riuscirò a vedere”. La città era molto grande. Per tutto il resto della notte l’impiegato camminò verso est. Non c’era pericolo di perdersi. Da quel lato il cielo si andava rischiarando. E alle sette, al mattino, sarebbe cominciato il bombardamento. L’impiegato si sentiva distrutto dalla fatica, ma felice. Stringeva forte il pugno sinistro, pregustava il terribile castigo che si sarebbe abbattuto sulla quarta parte della struttura materiale della città, sulle cose che vi si trovavano, sugli oumi. Si accorse che centinaia, migliaia di persone procedevano nella sua stessa direzione. Tutti avevano avuto la stessa bella idea. Alle cinque era già arrivato in aperta campagna. Guardando indietro,
vedeva la città che si stagliava irregolare, alcuni edifici sembravano più alti solo perché erano scomparsi quelli accanto, proprio come un profilo di rovine, anche se per la verità non si trattava di rovine, ma di assenze. Puntati sulla città, decine di pezzi di artiglieria formavano un semicerchio. Ancora non c’erano aerei nel cielo. Sarebbero arrivati alle sette in punto, non c’era bisogno che arrivassero prima. A trecento metri dall’artiglieria, una fila di soldati impediva alla gente di avvicinarsi. L’impiegato si ritrovò in mezzo alla folla. S’indispettì. Si era stancato per arrivare fin lì, non possedeva una casa dove poter rientrare quando il bombardamento fosse finito e non sarebbe neppure riuscito a vedere lo spettacolo, a godersi la rivincita, la vendetta, il piacere. Guardò intorno. C’era gente sopra delle casse. Una buona idea che a lui non era venuta. Ma indietro, a circa un chilometro, c’era una linea di colline alberate. Quello che avrebbe perduto in distanza, lo avrebbe guadagnato in altezza. Gli parve un’idea da seguire. Attraversò la folla, sempre più rada in quella direzione, e tutto lo spazio aperto che lo separava dalle colline. È verso la collina che si trovava proprio davanti a lui, nessuno. Il cielo era di un colore grigio cenere, quasi bianco, ma il sole non era ancora sorto. Il terreno cominciava a salire a poco a poco. In basso, la folla aumentava. Fra l’artiglieria e il limite della città adesso era schierata una fila di mitragliatrici pesanti. Poveri oumi se si fossero diretti verso questo lato! L’impiegato sorrise: sarebbe stata una punizione esemplare. Si dispiacque di non essere nell’esercito. Avrebbe voluto sentire sui polsi, sia pur nella sua mano ferita, non aveva alcuna importanza, il vibrare dell’arma provocato dagli spari, il tremore di tutto il corpo, un tremore che, però, non sarebbe stato di paura, ma di furore e di gioia giustiziera. La sensazione fisica di tutto ciò fu così intensa che dovette fermarsi. Pensò di tornare indietro, per trovarsi più vicino. Ma capì che non sarebbe mai riuscito ad avvicinarsi quanto desiderava, che in mezzo alla folla avrebbe finito per vedere ben poco, e proseguì per la sua strada. Ormai si stava avvicinando agli alberi. Lì nei dintorni non c’era nessuno. Si sedette per terra, voltando la schiena a un gruppo di arbusti i cui fiori gli sfioravano le spalle. Dai settori laterali della città continuavano a riversarsi fiumi di gente. Nessuno voleva perdere lo spettacolo. Quanti cittadini potevano esserci? Centinaia di migliaia. Forse la città intera. La campagna era solo una macchia nera che dilagava rapidamente, che adesso cominciava a trasbordare in direzione delle colline. L’impiegato tremava per il nervosismo. Sarebbe stata, alla fin fine, una grande vittoria. Ormai doveva mancare poco alle sette. Dov’era andato a finire il suo orologio? Si strinse nelle spalle: ne avrebbe avuto un altro anche migliore, più preciso, fatto con materiale più qualificato. Vista da lì, la città era irriconoscibile. Ma tutto sarebbe stato ricostruito a suo tempo. Prima, la punizione. Fu in quell’istante che udì alcune voci dietro di sé. La voce di un uomo e la voce di una donna. Non riusciva a capire che cosa stessero dicendo. Forse era una coppia di innamorati che in prossimità del bombardamento si
era eccitata sessualmente. Ma le voci erano tranquille. E all’improvviso, chiaramente, l’uomo disse: – Aspettiamo ancora un po’. E la donna: – Fino all’ultimo momento. L’impiegato sentì che i capelli gli si rizzavano. Gli oumi. Guardò ansiosamente verso la pianura. Vide che le persone continuavano ad avvicinarsi come neri formicai, ed ebbe il desiderio di conquistare quella gloria, la precedenza C. Aggirò silenziosamente il gruppo di arbusti, poi si abbassò, quasi strisciando dietro un gruppo di alberi molto fitti. Aspettò un poco, e infine si alzò, lentamente, a sbirciare. L’uomo e la donna erano nudi. Quella notte aveva visto altri corpi simili, ma questi erano vivi. Si rifiutava di accettare quello che aveva davanti agli occhi, desiderava che fossero già le sette, che il bombardamento cominciasse. Tra i rami, vedeva la gente della città avvicinarsi rapidamente. Forse erano già a portata di voce. Gridò: – Aiuto! Ci sono degli oumi! L’uomo e la donna si voltarono di colpo e corsero verso di lui. Nessuna altro lo aveva sentito e non ci fu tempo per un secondo appello. Lui si sentì le mani dell’uomo intorno al collo e le mani della donna sulla bocca, che stringevano. E fece ancora in tempo a vedere (come già sapeva) che sulle mani che stavano per ucciderlo non c’era alcuna lettera, erano mani pulite, senza nient’altro che la purezza naturale della pelle. L’uomo e la donna nudi trascinarono il corpo nel bosco. Altri uomini e altre donne, anch’essi nudi, comparvero e circondarono il cadavere. Quando si allontanarono, il corpo era ancora disteso per terra, anch’esso completamente nudo. Senza neppure gli anelli, ammesso che ne avesse avuti. Senza neppure la fasciatura. Dalla ferita sul dorso della mano uscì un po’ di sangue, che subito si fermò e cominciò a raggrumarsi. Fra il bosco e la città non c’era più spazio libero. Tutta la popolazione era andata ad assistere alla grande azione militare di rappresaglia. In lontananza si udiva un sibilo: gli aerei si stavano avvicinando. Gli orologi che ancora funzionavano stavano per arrivare alle sette o per segnarle silenziosamente nel quadrante. L’ufficiale che comandava l’artiglieria stringeva il microfono per dare l’ordine di far fuoco. Centinaia di migliaia di persone, un milione, trattenevano il respiro, ansiose. Ma non fu sparato un solo colpo. Nell’attimo in cui l’ufficiale stava per gridare “Fuoco!”, il microfono gli sfuggì di mano. Inspiegabilmente, gli aerei fecero una curva stretta e tornarono indietro. Questo fu solo il primo segnale. Un silenzio assoluto si diffuse sulla pianura. E all’improvviso la città scomparve. Al suo posto, a perdita d’occhio, comparve un’altra folla di donne e di uomini nudi, emersi dalle viscere di quella che era stata la città. Scomparvero i pezzi di artiglieria e tutte le altre armi, e i militari si ritrovarono nudi, circondati dagli uomini e dalle donne che prima erano stati abiti e armi. Al centro, l’immensa macchia scura della popolazione cittadina. Ma anche questa, un attimo.
dopo, si trasformò e si moltiplicò. La pianura si rischiarò improvvisamente quando sorse il Sole. Dal bosco, allora, uscirono tutti gli uomini e tutte le donne che si erano nascostili quando era cominciata la rivolta, fin dalla scomparsa del primo oumi. E uno di loro disse: – Adesso bisogna ricostruire tutto. E una donna aggiunse: – Non c’era altro da fare, visto che le cose eravamo noi. Gli uomini non saranno mai più rimessi al posto delle cose. Centauro Il cavallo si fermò. Gli zoccoli sferrati poggiarono sui ciottoli rotondi e scivolosi che coprivano il greto quasi asciutto del fiume. L’uomo allontanò con le mani, cautamente, i rami spinosi che gli impedivano la vista della pianura. Stava albeggiando. In lontananza, dove le terre cominciavano a salire, prima in dolce pendio, come ricordava, se lì erano uguali al passaggio da cui era sceso molto a nord, poi interrotte bruscamente da una catena basaltica che si ergeva come una muraglia verticale, vi erano alcune case a quella distanza bassissime, striscianti, e alcune luci che sembravano stelle. Sulla montagna, che nascondeva tutta quella parte dell’orizzonte, si vedeva una linea luminosa, come se una leggera pennellata avesse percorso le vette e, ancora nuda, si spandesse a poco a poco sui versanti. Da lì sarebbe sorto il sole. L’uomo lasciò andare i rami con un movimento distratto e si graffiò: emise un suono inarticolato e si portò il dito alla bocca per succhiare il sangue. Il cavallo indietreggiò picchiando le zampe, spazzò con la coda l’erba alta che assorbiva quel po’ di umidità che ancora si manteneva sulla sponda del fiume grazie al riparo creato dai rami pendenti, una cortina a quell’ora oscura. Il fiume era ridotto a un filo d’acqua che scorreva nella parte più profonda del letto, fra i sassi, aprendosi qua e là in pozze d’acqua dove sopravviveva angosciato qualche pesce. C’era nell’aria un’umidità che preannunciava pioggia, tempesta, certo non quel giorno, ma il successivo, o forse dopo tre soli, o alla prossima luna. Molto lentamente, il cielo si andava rischiarando. Era tempo di cercare un nascondiglio, per riposare e dormire. Il cavallo aveva sete. Si avvicinò al corso d’acqua, che sembrava immobile sotto la cappa della notte, e quando le zampe anteriori sentirono la liquida frescura, si sdraiò per terra, sopra un fianco. L’uomo, con la spalla poggiata sulla ruvida sabbia, bevve lungamente, anche se non aveva sete. Al di sopra dell’uomo e del cavallo, la parte ancora scura del cielo si spostava lentamente, trascinandosi dietro una luce pallida, per adesso ancora giallastra, il primo e, se non conosciuto, ingannevole annuncio del cremisi e del vermiglio che poi sarebbero esplosi sopra la montagna, come aveva visto accadere su tante altre montagne di luoghi tanto diversi, o sulle pianure. Il cavallo e l’uomo si alzarono. Davanti a loro c’era la spessa barriera degli alberi, che si difendeva con i rovi fra i tronchi. Sui rami cominciavano già a
cinguettare gli uccelli. Il cavallo attraversò il letto del fiume con trotto incerto e voleva inoltrarsi sulla destra nell’intrico di vegetazione, ma l’uomo preferiva un passaggio più facile. Con il tempo, e di tempo ne aveva avuto davvero tanto, aveva imparato a moderare l’impazienza animale, talvolta opponendovisi con una violenza che esplodeva e proseguiva tutta nel suo cervello, o magari in un punto del corpo in cui si incrociavano e scontravano gli ordini che partivano proprio dal cervello e gli oscuri istinti alimentati forse tra i fianchi, dove la pelle era nera. Altre volte cedeva, incurante, pensando ad altre cose, a cose che appartenevano si a questo mondo fisico in cui egli si trovava, ma non a questo tempo. La stanchezza aveva innervosito il cavallo: la pelle tremava come se lui volesse scuotersi via un tafano frenetico e avido di sangue, e i movimenti delle zampe si moltiplicavano inutili e tanto più stancanti. Sarebbe stata un’imprudenza tentare di farsi strada attraverso il groviglio di sterpi. C’erano troppe cicatrici sul pelo bianco del cavallo. Una di esse, molto antica, tracciava sulla groppa un segno largo, obliquo. Quando il sole vi batteva, a picco, o quando, al contrario, il freddo faceva rabbrividire e rizzare il pelo, era come se in quel punto, fascia sensibile ed esposta, fosse poggiata la lama incandescente di una spada. Benché sapesse molto bene che avrebbe visto solo una cicatrice un po’ più grande delle altre, in quelle occasioni l’uomo torceva il busto e guardava indietro, come se spiasse la fine del mondo. A poca distanza, verso il punto di riflusso della marea, la sponda del fiume formava una rientranza nei campi: doveva esserci uno sbarramento, o forse c’era un affluente, altrettanto asciutto o magari anche di più. Il fondo era fangoso, con pochi sassi. Intorno a questa specie di sacca, che non era altro che un semplice braccio del fiume e insieme a esso si riempiva e si svuotava, c’erano alberi alti, neri sotto l’oscurità che molto lentamente cominciava a sollevarsi dalla terra. Se la cortina di tronchi e rami abbattuti fosse stata abbastanza folta, avrebbe potuto trascorrere lì la giornata, ben nascosto, finché di nuovo fosse giunta la notte consentendogli di proseguire per la sua strada. Allontanò le fresche fronde con le mani e, spinto dalla forza dei garretti, balzò sulla riva scoscesa nell’oscurità quasi totale che, in quel punto, le cime rigogliose degli alberi difendevano. Subito dopo, il terreno riprendeva a scendere verso un canale che, più avanti, forse attraversava la campagna allo scoperto. Aveva trovato un buon nascondiglio per riposare e dormire. Tra il fiume e la montagna c’erano campi coltivati, terreni dissodati, ma quel canale, profondo e stretto, non sembrava un punto di passaggio. Fece qualche altro passo, ora nel silenzio più totale. Gli uccelli, spaventati, osservavano. Lui guardò in alto: vide illuminate le punte più alte dei rami. La luce levigante che proveniva dalla montagna adesso sfiorava l’alta frangia vegetale. Gli uccelli ripresero a cinguettare. La luce scemava a poco a poco, un pulviscolo verdognolo che diventava roseo e bianco, la foschia sottile e instabile dell’albeggiare. I tronchi scurissimi degli alberi, in controluce, sembravano avere solo due
dimensioni, come se fossero stati ritagliati da ciò che restava della notte e appiccicati sulla trasparenza luminosa che sprofondava nel canale. Il suolo era coperto di erbacce. Un buon posto per passare il giorno dormendo, un rifugio tranquillo. Vinto da una fatica di secoli e millenni, il cavallo si inginocchiò. Trovare una posizione per dormire che convenisse a entrambi era sempre un’operazione difficile. In genere, il cavallo si sdraiava sul fianco e così anche l’uomo si riposava. Ma il cavallo poteva passare una notte intera in quella posizione, senza muoversi, mentre l’uomo, per non indolenzire la spalla e tutto quel lato del busto, doveva vincere la resistenza del grande corpo inerte e addormentato per farlo voltare sul lato opposto: era sempre un sonno difficile. Quanto a dormire in piedi, il cavallo avrebbe potuto farlo, ma non l’uomo. E quando il nascondiglio era troppo stretto, lo spostamento diventava impossibile e il suo bisogno si tramutava in ansia. Non era un corpo comodo. L’uomo non poteva mai sdraiarsi bocconi a terra, incrociare le braccia sotto il mento e restarsene così a guardare le formiche o i granelli di terra, oppure a contemplare il candore di un tenero stelo che fuoriusciva dall’humus nero. E per vedere il cielo, aveva sempre dovuto torcere il collo, tranne quando il cavallo si impennava sulle zampe posteriori e il viso dell’uomo, in alto, riusciva a inclinarsi un po’ di più all’indietro: allora si, poteva vedere meglio la grande campana notturna piena di stelle, il prato orizzontale e tumultuoso delle nuvole, oppure la campana azzurra e il sole, come l’ultima traccia della forgia originale. Il cavallo si addormentò subito. Con le zampe fra l’erba, i crini della coda sparpagliati sulla terra, respirava profondamente, con ritmo regolare. L’uomo, appena reclinato, con la spalla destra appoggiata sulla parete del canale, afferrò alcuni rami bassi e si coprì. In movimento sopportava bene il freddo e il caldo, per quanto non così come il cavallo. Ma quando era fermo e addormentato si raffreddava rapidamente. Adesso, per lo meno fintanto che il sole non riscaldava l’aria, sarebbe stato bene sotto il conforto delle foglie. Nella posizione in cui si trovava, poteva notare che gli alberi non si chiudevano completamente lassù in cima: una fascia irregolare, ormai azzurra e mattutina, si stendeva davanti a lui e di tanto in tanto, attraversandola da parte a parte, o per alcuni istanti percorrendola nella stessa direzione, volavano velocemente gli uccelli. Gli occhi dell’uomo si chiusero lentamente. L’odore della linfa dei rami strappati lo stordiva un po’. Si avvicinò al viso un ramo e si addormentò. Non sognava mai come sogna un uomo. E non sognava neppure come sognerebbe un cavallo. Nelle ore in cui erano svegli, le occasioni di pace o di semplice conciliazione non erano molte. Ma il sogno dell’uno e il sogno dell’altro creavano il sogno del centauro. Era l’ultimo sopravvissuto della grande e antica specie degli uominicavallo. Aveva partecipato alla guerra contro i Lapiti, la prima grande sconfitta sua e dei suoi. Insieme a essi, vinto, si era rifugiato fra montagne
di cui aveva ormai dimenticato il nome. Fino al giorno fatale in cui, con la parziale protezione degli dèi, Eracle aveva decimato i suoi fratelli, e solo lui era sfuggito, perché la lunga lotta fra Eracle e Nesso gli aveva dato il tempo di rifugiarsi nella foresta. Si erano estinti allora i Centauri. Ma, contrariamente a quanto affermavano gli storici e i mitologi, uno era rimasto, proprio questo che aveva visto Eracle schiacciare in un tremendo abbraccio il busto di Nesso e poi trascinarne il cadavere per terra, come con Ettore avrebbe fatto in seguito Achille, mentre rendeva lodi agli dèi per aver vinto e sterminato la prodigiosa razza dei Centauri. Forse pentiti, quegli stessi dèi avevano poi favorito il centauro nascosto, accecando gli occhi e l’intelletto di Eracle, chissà con quali disegni. Tutti i giorni, in sogno, lui lottava con Eracle e lo sconfiggeva. In mezzo agli dèi in circolo, ogni volta e sempre riuniti agli ordini del suo sogno, lui lottava braccio a braccio, sottraeva la scivolosa groppa all’astuto salto che tentava il nemico, schivava la corda che gli fischiava tra le zampe e lo costringeva a lottare faccia a faccia. Il suo viso, le braccia, il busto sudavano come può sudare un uomo. Il corpo del cavallo si ricopriva di schiuma. Questo sogno si ripeteva da migliaia di anni, e sempre vi si ripeteva l’epilogo: lui vendicava con Eracle la morte di Nesso, richiamava alle braccia e ai muscoli del busto tutta la sua forza di uomo e di cavallo. Saldo sulle quattro zampe come se fossero aste piantate nel suolo, sollevava Eracle in aria e stringeva, stringeva, finché udiva la prima costola incrinarsi, poi un’altra, e infine la spina dorsale che si spezzava. Eracle, morto, scivolava per terra come un cencio e gli dèi applaudivano. Non vi era alcun premio per il vincitore. Gli dèi si alzavano dai loro sedili d’oro e si allontanavano, sempre più allargando il circolo fino a scomparire all’orizzonte. Dalla porta attraverso cui faceva il suo ingresso nel cielo Afrodite, sempre appariva e brillava una grande stella. Da migliaia di anni percorreva la terra. Per molto tempo, finché il mondo si era mantenuto anch’esso misterioso, aveva potuto muoversi alla luce del sole. Quando passava, le persone si avvicinavano alla strada e gli lanciavano sul dorso di cavallo fiori intrecciati, o ne facevano corone che lui si poneva sul capo. Vi erano madri che gli affidavano i figli perché li sollevasse in aria e così superassero la paura dell’altezza. E in ogni luogo vi era una cerimonia segreta: al centro di un circolo di alberi che raffiguravano gli dei, gli uomini impotenti e le donne sterili passavano sotto il ventre del cavallo. Era credenza comune che sbocciasse così la fertilità e si rinnovasse la virilità. In certe epoche, portavano al centauro una cavalla e si ritiravano dentro le case: ma un giorno qualcuno, che per quel sacrilegio fu accecato, vide che il centauro copriva la cavalla come un cavallo e poi piangeva come un uomo. Da quelle unioni non nacque mai alcun frutto. Poi giunse il tempo del rifiuto. Il mondo trasformato perseguitò il centauro, lo costrinse a nascondersi. E altre creature dovettero fare lo stesso: come l’unicorno, le chimere, i lupi mannari, gli uomini pièdicapra,
certe formiche più grandi delle volpi, ma più piccole dei cani. Nel corso di dieci generazioni umane, questo popolo diverso visse riunito in regioni deserte. Ma, con il passare del tempo, la vita divenne loro impossibile anche li, e si dispersero tutti. Alcuni, come l’unicorno, morirono; le chimere si accoppiarono con i topiragni, e così comparvero i pipistrelli; i lupi mannari si introdussero nelle città e nei paesi e soltanto certe notti seguono il loro destino; gli uomini pièdicapra si estinsero anch’essi, e le formiche cominciarono a diminuire di grandezza e oggi non c’è più nessuno in grado di distinguerle dalle loro sorelle che sono sempre state piccole. Il centauro finì per ritrovarsi solo. Per migliaia di anni, fin dove il mare lo consentiva, percorse tutta la terra possibile. Ma nei suoi itinerari passava sempre alla larga quando intuiva le frontiere dell’originario paese. Passò il tempo. Alla fine non vi era più terra dove potesse vivere al sicuro. Cominciò a dormire durante il giorno e a camminare di notte. Camminare e dormire. Dormire e camminare. Senza alcuna ragione di cui fosse consapevole, solo perché aveva zampe e sonno. Di mangiare, non aveva bisogno. E il sonno gli era necessario solo per poter sognare. E l’acqua, solo perché esisteva l’acqua. Migliaia di anni dovevano essere migliaia di avventure. Migliaia di avventure, però, sono troppe perché valgano quanto una sola, vera e indimenticabile avventura. Perciò tutte insieme non valevano più di quella, avvenuta in quest’ultimo millennio, quando, in un luogo deserto e arido, vide un uomo con lancia e armatura, in sella a un cavallo imbizzarrito, attaccare un esercito di mulini a vento. Vide il cavaliere scagliato in aria e poi un altro uomo, basso e grasso, accorrere gridando sopra un mulo. Li udì parlare in una lingua che lui non capiva, e poi li vide allontanarsi, l’uomo magro malandato e l’uomo grasso che gemeva, il cavallo magro zoppicante e il mulo indifferente. Pensò di seguirli per aiutarli, ma rivolgendo lo sguardo ai mulini, vi si diresse al galoppo e, appostatosi davanti al primo, decise di vendicare l’uomo che era stato disarcionato dal cavallo. Nella sua lingua natia gridò: “Anche se tu avessi più braccia del gigante Briareo, me la pagherai”. A tutti i mulini furono spezzate le pale e il centauro fu inseguito sino alla frontiera con un altro paese. Attraversò campagne desolate e arrivò al mare. Poi tornò indietro. Il centauro dorme. Dorme il suo corpo. Il sogno è venuto ed è passato, e adesso il cavallo galoppa in un giorno antichissimo perché l’uomo possa vedere sfilare le montagne come se camminassero da sole, o perché possa salire per sentieri fino alla loro cima e da lì guardare il mare sonoro e le isole sparpagliate e nere, con la schiuma che frange intorno ad esse come se fossero appena sorte dalle profondità ed emergessero abbaglianti. Ma questo non è un sogno. Viene dal largo un odore salino. Le narici dell’uomo si dilatano e le braccia si tendono verso l’alto, mentre il cavallo, eccitato, scalpita con gli zoccoli su pietre che sono marmo e affiorano. Le foglie che coprivano il viso dell’uomo sono scivolate via, ormai appassite. Il sole, alto, ricopre il centauro di macchie di luce. Non è un viso vecchio, quello
dell’uomo. Ma neppure giovane, perché non potrebbe esserlo, visto che gli anni si contano a migliaia. Ma lo si può paragonare a quello di una statua antica: il tempo lo ha consumato, non tanto da cancellarne i lineamenti, ma solo quanto basta per mostrarli in pericolo. Un piccolo lago luminoso scintilla sulla pelle, scivola lentamente verso la bocca, la riscalda. L’uomo apre gli occhi d’improvviso, come lo farebbe la statua. Nell’erba, si allontana sinuosamente un serpente. L’uomo porta la mano alla bocca e sente il sole. In quell’istante, la coda del cavallo si agita, spazza la groppa e scaccia un moscone che sondava la pelle sottile della grande cicatrice. Rapidamente, il cavallo si mette in piedi e l’uomo lo segue. È passata quasi metà del giorno, ne manca altrettanto perché arrivi la prima ombra della notte, ma non si può dormire più. Il mare, che non è stato un sogno, risuona ancora nelle orecchie dell’uomo, o forse non il rumore reale del mare, ma il rifrangere delle onde che gli occhi hanno visto e trasformato in onde sonore che si sovrappongono all’acqua, si insinuano profondamente nelle gole rocciose, fino al sole e al cielo azzurro di nuovo trasformato in acqua. È vicino. Il canale in cui procede è solo un accidente, porta ovunque, è opera di uomini e cammino per arrivare agli uomini. Ma punta a sud, e questo è ciò che conta. Avanzerà in quella direzione fin dove gli sarà possibile, anche se è giorno, anche se il sole splende su tutta la pianura e denuncia tutto, uomo e cavallo. Ancora una volta aveva vinto Eracle nel sogno, davanti a tutti gli dèi immortali, ma, concluso il combattimento, Zeus si era allontanato verso sud ed era sparito dopo che le montagne erano sfilate e dal loro punto più alto, su cui si ergevano colonne bianche, si vedevano le isole e la schiuma intorno. È vicino alla frontiera e Zeus si è allontanato verso sud. Procedendo lungo il canale stretto e profondo, l’uomo può vedere la campagna da un lato e dall’altro. Adesso le terre sembrano abbandonate. Lui non sa più dove sia finito l’abitato che ha visto all’albeggiare. Il grande picco roccioso si è ingrandito, o forse è più vicino. Le zampe del cavallo sprofondano nel terreno molle che a poco a poco comincia a salire. Tutto il busto dell’uomo è già fuori dal canale, gli alberi sono più radi, e d’improvviso, nel momento in cui tutta la campagna è allo scoperto, il canale finisce. Con un semplice movimento il cavano supera l’ultimo declivio e il centauro appare tutto nel chiarore del giorno. Il sole si trova sulla destra e batte con forza sulla cicatrice che, ferita, arde. L’uomo guarda indietro, com’è sua abitudine. L’atmosfera è soffocante e umida. Ma non perché il mare sia tanto vicino. L’umidità promette pioggia, come quest’improvviso soffio di vento. A nord, si stanno accumulando nuvole. L’uomo esita. Da tanti anni non osa camminare allo scoperto, senza la protezione della notte. Ma oggi si sente eccitato quanto il cavallo. Avanza sul terreno coperto di vegetazione da cui provengono odori penetranti di fiori selvatici. La pianura è finita e il suolo, adesso, fa delle piccole gobbe e limita l’orizzonte o lo allarga sempre piú, perché le alture sono già colline e davanti
si innalza una cortina di monti. Comincia a comparire qualche arbusto e il centauro si sente più protetto. Ha sete, molta sete, ma non v’è traccia d’acqua. L’uomo guarda indietro e vede che metà del cielo è già coperta di nuvole. Il sole illumina il bordo nitido di un grande nembo grigio che avanza. In quel momento si sente abbaiare un cane. Il cavallo freme innervosito. Il centauro si lancia al galoppo fra due colline, ma l’uomo non perde l’orientamento: proseguire verso sud. Il latrato si avvicina e vi si aggiunge un tintinnio di campanelle e poi una voce che parla al bestiame. Il centauro si è fermato per orientarsi, ma gli echi lo hanno ingannato e, d’improvviso, ìn un avvallamento umido e inatteso, gli appare un gregge di capre e, davanti, un grosso cane. Il centauro si è bloccato. Alcune delle cicatrici che gli segnavano il corpo le doveva ai cani. Il pastore lanciò un grido spaventato e cominciò a scappare, come un folle. Chiamava e urlava: doveva esserci un abitato lì vicino. L’uomo dominò il cavallo e avanzò. Strappò un grosso ramo da un arbusto per scacciare il cane, che si strozzava ad abbaiare, di rabbia e di paura. Ma prevalse la rabbia: il cane aggirò rapidamente alcuni sassi e tentò di prendere il centauro di fianco, al ventre. L’uomo voleva guardare indietro, vedere da dove provenisse il pericolo, ma il cavallo lo precedette e, ruotando veloce sulle zampe anteriori, sferrò un calcio violento che colpì il cane nell’aria. L’animale andò a sbattere contro i sassi, morto. Non era la prima volta che il centauro si difendeva così, ma tutte le volte l’uomo si sentiva umiliato. Nel corpo gli pulsava la risacca della vibrazione di tutti i muscoli, l’onda di energia che deflagrava, lui udiva il sordo calpestio degli zoccoli, ma si trovava con le spalle rivolte alla battaglia, non ne prendeva parte, al massimo ne era spettatore. Il sole si era nascosto. Il calore scomparve improvvisamente dall’aria e l’umidità si fece palpabile. Il centauro cominciò a correre per le colline, sempre verso sud. Nell’attraversare un piccolo ruscello, vide dei terreni coltivati e mentre cercava di orientarsi si ritrovò davanti a un muro. Da un lato c’erano alcune case. Fu allora che si udì uno sparo. Come investito da uno sciame, sentì il corpo del cavallo contrarsi sotto le punture. C’era gente che gridava e poi spararono di nuovo. Sulla sinistra crepitarono i rami dilacerati, ma questa volta nessun piombino lo colpì. Indietreggiò per prendere la rincorsa e, d’un balzo, oltrepassò il muro. Vi passò sopra volando, uomo e cavallo, centauro, quattro zampe distese o ripiegate, due braccia tese verso il cielo azzurro al di là. Risuonarono altri spari e poi il calpestio degli uomini che lo inseguivano per i campi, urlando, e l’abbaiare dei cani. Aveva il corpo coperto di schiuma e di sudore. Vi fu un momento in cui si fermò per cercare la strada. Anche la campagna intorno sembrò in attesa, quasi tendesse l’orecchio in ascolto. E caddero i primi goccioloni di pioggia. Ma l’inseguimento continuava. I cani fiutavano una traccia per loro strana, ma di un nemico mortale: un misto di uomo e di cavallo, dalle zampe assassine. Il centauro continuò a correre, a correre, finché si rese conto che
le grida erano ormai diverse e l’abbaiare dei cani era dovuto a frustrazione. Guardò indietro. A una buona distanza, vide gli uomini fermi, udì le loro minacce. E i cani che li avevano preceduti tornarono dai loro padroni. Ma nessuno si faceva avanti. Il centauro aveva vissuto abbastanza tempo per sapere che quella era una frontiera, un limite. Gli uomini, tenendo i cani, non osavano sparargli: un solo colpo fu sparato, ma da così lontano che lui non udì neppure cadere la pallottola. Era in salvo, sotto la pioggia che si abbatteva torrenziale e creava tra i sassi rigagnoli veloci, su questa terra dove era nato. Continuò a camminare verso sud. L’acqua gli inzuppava il pelo bianco, lavava la schiuma, il sangue e il sudore e tutta la sporcizia accumulata. Se ne tornava a casa invecchiato, coperto di cicatrici, ma immacolato. D’improvviso, la pioggia cessò. Un attimo dopo, il cielo fu spazzato delle nuvole e il sole risplendette sulla terra bagnata da cui, ardendo, faceva sollevare nuvole di vapore. Il centauro andava a passo, come se procedesse su una neve imponderabile e tiepida. Non sapeva dove si trovasse il mare, ma lì c’era la montagna. Si sentiva forte. Aveva placato la sete con l’acqua della pioggia, sollevando il viso al cielo, a bocca aperta, bevendo a grandi sorsate, mentre l’acqua gli scivolava lungo il collo, giù per il busto, purificatrice. E adesso stava discendendo il versante sud della montagna, lentamente, aggirando gli enormi massi ammucchiati e puntellati gli uni contro gli altri. L’uomo appoggiava le mani sui picchi più alti e sentiva sotto le dita i soffici muschi, gli aspri licheni, o la rugosità eccessiva della pietra. In basso, da un capo all’altro, c’era una vallata che a quella distanza sembrava stretta, erroneamente. Nella vallata, a grandi intervalli, vedeva tre paesi, con il più grande al centro, e al di là di esso il sud. Tagliando la vallata a destra, sarebbe dovuto passare vicino all’abitato. Lo avrebbe fatto? Ripensava all’inseguimento, alle urla, agli spari, a quegli uomini al di là della frontiera. All’odio incomprensibile. Questa era la sua terra, ma chi erano gli uomini che ci vivevano? Il centauro continuava a scendere. Il giorno era ancora lontano dal concludersi. Il cavallo, esausto, poggiava gli zoccoli con prudenza, e l’uomo pensò che meglio avrebbe fatto a riposare prima di avventurarsi nell’attraversamento della valle. E, continuando a pensare, decise che avrebbe atteso la notte, che prima avrebbe dormito in qualunque rifugio avesse trovato, per riprendere le forze necessarie alla lunga camminata che gli rimaneva fino al mare. Continuò a scendere, sempre più lentamente. E mentre si accingeva infine a fermarsi tra due rocce, vide l’ingresso oscuro di una caverna, alta abbastanza per entrarvi tutto, uomo e cavallo. Aiutandosi con le braccia, appoggiando leggermente gli zoccoli graffiati sulle pietre durissime, si introdusse nella grotta. Non era molto profonda, nessuna caverna si addentrava molto nella montagna, ma c’era spazio abbastanza per muoversi agevolmente. L’uomo appoggiò gli avambracci sulla parete rocciosa e vi lasciò ricadere la testa sopra. Respirava profondamente, cercando di
resistere, di non seguire l’affannato respiro del cavallo. Il sudore gli scorreva sul viso. Poi il cavallo piegò le zampe anteriori e ricadde sul terreno coperto di sabbia. Sdraiato, o semisollevato com’era sua abitudine, l’uomo non riusciva a scorgere niente della valle. L’imboccatura della grotta lasciava vedere solo il cielo azzurro. In qualche punto, laggiù in fondo, gocciolava dell’acqua, a lunghi intervalli regolari, producendo un’eco da cisterna. Una pace profonda saturava la grotta. Allungando un braccio all’indietro, l’uomo passò la mano sul pelo del cavallo, la propria pelle trasformata o la pelle che in lui si era trasformata. Il cavallo rabbrividì per la soddisfazione, tutti i suoi muscoli si rilassarono e il sonno invase il grande corpo. L’uomo abbandonò la mano, che scivolò e andò a posarsi sulla sabbia asciutta. Il sole, abbassandosi nel cielo, cominciò a illuminare la grotta. Il centauro non sognò né Eracle né gli dei seduti in circolo. E non si ripeté neppure la grande visione delle montagne rivolte al mare, le isole spumeggianti, l’infinita distesa liquida e sonora. Solo una parte scura, o forse soltanto priva di colore, opaca, insormontabile. Il sole, nel frattempo, entrò fino al fondo della caverna, fece scintillare tutti i cristalli della pietra, trasformò ogni goccia d’acqua in una perla rossa che si staccava dal soffitto, ma che prima si gonfiava fino all’inverosimile, e poi tracciava tre metri di fuoco vivo, per sprofondare in un piccolo pozzo ormai scuro. Il centauro dormiva. L’azzurro del cielo cominciò a stemperarsi, lo spazio fu inondato da mille colori incandescenti e lentamente l’imbrunire trascinò con sé la notte come un corpo stanco, anch’esso sul punto di addormentarsi. La grotta, nelle tenebre, era divenuta immensa e le gocce d’acqua cadevano come ciottoli rotondi sulla parete di una campana. Era ormai notte fonda e sorse la luna. L’uomo si svegliò. Provava una certa angoscia di non aver sognato. Per la prima volta in migliaia di anni, non aveva sognato. Forse il sogno lo aveva abbandonato proprio quando era tornato alla terra dov’era nato? Perché? Quale presagio? Quale oracolo avrebbe parlato? Il cavallo, lontano, dormiva ancora, ma adesso inquieto. Di tanto in tanto agitava le zampe posteriori, quasi galoppasse in sogno, non un sogno proprio, perché lui non aveva cervello, o era solo in prestito, ma un sogno della volontà che erano i muscoli. Appoggiando la mano a una pietra sporgente, aiutandosi così, l’uomo sollevò il busto e, come se fosse in uno stato di sonnambulismo, il cavallo lo seguì senza sforzo, con un movimento fluido in cui sembrava non avere peso. E il centauro uscì nella notte. Tutto il chiarore dello spazio si diffondeva sulla valle. Era talmente tanto che non poteva essere solo il chiarore della semplice, piccola luna della terra, Selene silenziosa e fantastica, ma doveva essere il chiarore di tutte le lune sorte nell’infinita successione delle notti in cui altri soli e altre terre senza quei nomi e senza nessun altro nome ruotano e brillano. Il centauro fece un respiro profondo con le narici d’uomo: l’aria era tiepida, quasi fosse filtrata da una pelle umana, ed era impregnata del profumo della terra che si è bagnata e adesso, a poco a poco, si va asciugando, nel labirintico
abbraccio delle radici che trattengono il mondo. Scese a valle per un cammino facile, quasi tranquillo, muovendosi armoniosamente sulle sue quattro membra di cavallo, oscillando le sue due braccia d’uomo, passo dopo passo, senza che una sola pietra rotolasse giù, senza che alcun spigolo gli procurasse un nuovo graffio sulla pelle. E fu così che giunse a valle, come se il viaggio facesse parte del sogno che non aveva fatto mentre dormiva. Più avanti c’era un largo fiume. Al di là, sulla sinistra, c’era il paese più grande, quello che si trovava in direzione sud. Il centauro avanzò allo scoperto, seguito dall’ombra singolare che non aveva pari al mondo. Al piccolo trotto attraversò i campi coltivati, ma scegliendo i sentieri per non calpestare le piante. Tra la fascia di terre coltivate e il fiume c’erano alberi qua e là e tracce di bestiame. Sentendone l’odore, il cavallo si agitò, ma il centauro tirò avanti, verso il fiume. Entrò prudentemente in acqua, saggiando il terreno con gli zoccoli. La profondità cominciò ad aumentare, finché l’acqua arrivò al petto dell’uomo. In mezzo al fiume, sotto il chiaro di luna simile a un altro fiume che scorreva, chiunque stesse guardando avrebbe visto un uomo che attraversava il fiume a guado, con le braccia alzate, braccia, spalle e testa d’uomo, capelli al posto dei crini. Dentro l’acqua avanzava un cavallo. I pesci, risvegliati dal chiaro di luna, gli nuotavano intorno mordicchiandogli le zampe. Tutto il busto dell’uomo uscì dall’acqua, poi comparve il cavallo, e il centauro salì sulla riva. Passò sotto alcuni alberi e al limitare della pianura si fermò per orientarsi. Pensò a come lo avevano inseguito al di là della montagna, pensò ai cani e agli spari, agli uomini che gridavano, ed ebbe paura. Adesso preferiva che la notte fosse scura, avrebbe preferito camminare sotto una tempesta come quella del giorno prima, che spingesse i cani a cercare un rifugio e le persone a rientrare nelle case. L’uomo pensò che tutta la gente nei dintorni ormai doveva sapere dell’esistenza del centauro, che la notizia aveva certo oltrepassato la frontiera. Si rese conto che non avrebbe potuto attraversare la campagna in linea retta, in piena luce. Al passo, cominciò a procedere lungo il fiume, protetto dall’ombra degli alberi. Forse il terreno sarebbe diventato più favorevole avanti, dove la valle si restringeva e finiva per insinuarsi tra due alte colline. Lui continuava a pensare al mare, alle colonne bianche, chiudeva gli occhi e rivedeva l’orma che Zeus aveva lasciato nell’allontanarsi verso sud. Improvvisamente, udì un rumore di acqua. Si fermò ad ascoltare. Il rumore si ripeteva, scemava, ritornava. Sul suolo coperto di erbacce, i passi del cavallo risuonavano così attutiti da non distinguersi fra il multiforme e tiepido crepitio della notte e del chiaro di luna. L’uomo scostò i rami e guardò il fiume. Sulla riva c’erano dei vestiti. Qualcuno stava facendo il bagno. Allontanò un po’ di più i rami. E vide una donna. Stava uscendo dall’acqua, completamente nuda, brillava sotto il chiaro di luna, imbiancata. Tante altre volte il centauro aveva visto delle donne, ma così mai, in questo fiume, con questa luna. Altre volte aveva visto dei seni ondeggianti, il
tremore delle cosce mentre camminavano, il punto di oscurità a metà del corpo. Altre volte aveva visto dei capelli sciolti sulle spalle, e mani che li mandavano all’indietro, un gesto antichissimo. Ma la parte che gli toccava del mondo in cui vivevano le donne era solo quella che avrebbe soddisfatto il cavallo, forse il centauro, non certo l’uomo. E fu l’uomo che guardò, che vide la donna avvicinarsi ai vestiti, fu l’uomo che si precipitò fuori dagli arbusti, corse verso di lei nel suo trotto da cavallo e poi, mentre la donna gridava, la prese fra le braccia. Anche questo aveva fatto alcune volte, davvero poche in migliaia di anni. Un gesto inutile, che spaventava e basta, un gesto che avrebbe potuto lasciare dietro di sé la follia, ammesso che non sia accaduto veramente. Ma questa era la sua terra e questa la prima donna che vedeva qui. Il centauro cominciò a correre fra gli alberi: l’uomo sapeva che più avanti avrebbe posato la donna per terra, frustrato lui, spaventata lei, una donna intera, un uomo a metà. Adesso una larga strada quasi sfiorava gli alberi e, più oltre, il fiume faceva una curva. La donna non gridava più, adesso singhiozzava e tremava. E fu allora che si udirono altre grida. Superata la curva, il centauro si ritrovò davanti un piccolo agglomerato di casette nascoste dagli alberi. C’era gente nel piccolo spazio lì davanti. L’uomo strinse la donna al petto. Ne sentiva i seni duri, il pube nel punto in cui il suo corpo di uomo si concludeva e si trasformava in pettorale di cavallo. Alcuni fuggirono, altri gli si scagliarono contro e altri ancora si precipitarono in casa uscendone poco dopo armati di fucile. Il cavallo si alzò sulle zampe posteriori, si impennò verso l’alto. La donna, spaventata, gridò di nuovo. Qualcuno sparò un colpo in aria. L’uomo capì che la donna lo proteggeva. Allora il centauro deviò verso l’aperta campagna, allontanandosi dagli alberi che avrebbero potuto ostacolargli i movimenti. e, sempre stringendo la donna, aggirò le case e si lanciò al galoppo, verso le due colline. Sentiva gridare dietro di sé. Forse avrebbero pensato di inseguirlo a cavallo, ma non c’era cavallo che potesse competere con un centauro, com’era stato dimostrato in migliaia di anni di fuga continua. L’uomo guardò indietro: gli inseguitori erano lontani, molto lontani. Allora, tenendo la donna sotto le braccia, osservando tutto il suo corpo, con il chiaro di luna che la spogliava, disse nella sua vecchia lingua, la lingua dei boschi, dei favi di miele, delle colonne bianche, del mare sonoro, del riso sulle montagne: – Non volermene male. Poi, lentamente, la posò a terra. Ma la donna non fuggì. Le uscirono dalle labbra parole che l’uomo poté capire: – Tu sei un centauro. Tu esisti. Gli posò tutte e due le mani sul petto. Le zampe del cavallo tremavano. Allora la donna si sdraiò e disse: – Coprimi. L’uomo la vedeva dall’alto, aperta a croce. Avanzò lentamente. Per un istante, l’ombra del cavallo coprì la donna. Nient’altro. Poi il centauro si allontanò e si lanciò al galoppo, mentre l’uomo gridava, serrando i pugni
verso il cielo e la luna. Quando, infine, gli inseguitori si avvicinarono alla donna, lei non si era mossa. E mentre la portavano via, avvolta in una coperta, gli uomini che la trasportavano la udirono piangere. Quella notte tutto il paese seppe dell’esistenza del centauro. Ciò che un tempo si credeva una storia inventata al di là della frontiera a scopo di. sfruttamento, adesso aveva testimoni affidabili, tra i quali una donna che tremava e piangeva. Mentre il centauro attraversava quest’altra montagna, partiva gente dai paesi e dalle città, con reti e corde, e persino con armi da fuoco, ma solo per spaventarlo. Bisogna prenderlo vivo, si diceva. Anche l’esercito si mise in movimento. Si aspettava il nascere del giorno perché gli elicotteri si alzassero in volo e percorressero tutta la zona. il centauro cercava i cammini più nascosti, ma tante volte udì i cani abbaiare, e addirittura vide, sotto il chiaro di luna che andava scemando, gruppi di uomini che battevano le montagne. Il centauro viaggiò tutta la notte, sempre verso sud. E quando il sole sorse, si trovava in cima e una montagna da dove vide il mare. Molto in lontananza, solo mare, nessuna isola, e il suono di una brezza che profumava di pini, non il rifrangere dell’onda, non il profumo angosciante del sale. Il mondo sembrava un deserto sospeso. Non era un deserto. Si udì all’improvviso uno sparo. E poi, in ampio circolo, comparvero dalle rocce uomini che urlavano, ma non riuscivano a mascherare la paura, e tutti avanzarono con reti e corde e bastoni. Il cavallo s’impennò verso lo spazio, agitò le zampe anteriori e si voltò, frenetico, verso gli avversari. L’uomo voleva indietreggiare. I due lottarono, avanti, indietro. E sul ciglio della scarpata le zampe scivolarono, si agitarono frenetiche alla ricerca di un appoggio, così come le braccia dell’uomo, ma il grande corpo precipitò, cadde nel vuoto. Venti metri sotto, una lastra di pietra inclinata all’angolo necessario, levigata da migliaia di anni di freddo e di caldo, di sole e di pioggia, di vento e di neve, tagliò, spezzò il corpo del centauro nel punto preciso in cui il busto dell’uomo si trasformava in tronco di cavallo. Lì si concluse la caduta. L’uomo rimase sdraiato, finalmente di spalle, a guardare il cielo. Un mare che diveniva profondo sopra i suoi occhi, un mare punteggiato di piccole nuvole immobili che erano isole, vita immortale. L’uomo volse il capo da un lato all’altro: di nuovo il mare infinito, il cielo interminabile. Allora guardò il proprio corpo. Il sangue scorreva. Metà di un uomo. Un uomo. E vide che gli dèi si avvicinavano. Era tempo di morire. Rivincita Il giovane veniva dal fiume. Scalzo, con i pantaloni arrotolati sopra le ginocchia, le gambe sporche di fango. Indossava una camicia rossa, aperta sul petto dove i primi peli della pubertà cominciavano ad annerirsi. Aveva i capelli scuri, bagnati di sudore che gli scorreva giù per il lungo collo. Era leggermente piegato in avanti, sotto il peso dei lunghi remi da cui pendevano fili verdi di alghe ancora gocciolanti. La barca dondolava ancora
nell’acqua torbida e lì vicino, come se lo spiassero, affiorarono d’improvviso gli occhi rotondi di una rana. il giovane la guardò e lei guardò lui. Poi la rana fece un movimento brusco e scomparve. Dopo un minuto la superficie del fiume ridivenne levigata e calma, e brillante come gli occhi del giovane. La respirazione del fango emetteva lente e soffici bolle di gas che la corrente trascinava via. Nella calura pesante del pomeriggio, gli alti pioppi vibrarono silenziosamente e, d’improvviso, come un rapido fiore sbocciato dall’aria, un uccello azzurro passò sfiorando l’acqua. Il giovane alzò la testa. Sull’altra sponda del fiume una ragazza lo guardava, immobile. Lui sollevò la mano libera e tutto il suo corpo tracciò il gesto di una parola che non si udì. Il fiume scorreva, lento. Il giovane imboccò il sentiero in salita, senza guardare indietro. L’erba finiva proprio lì. Più avanti, il sole inceneriva le zolle dei maggesi e gli uliveti grigi. Metallica, durissima, una cicala tormentava il silenzio. In lontananza, l’atmosfera tremolava. Era una casa bassa, raccolta, brunita di calce, con una striscia di un ocra violento. Pareti cieche, senza finestre, una porta su cui si apriva uno sportelletto. All’interno, il pavimento di argilla rinfrescava i piedi. Il ragazzo appoggiò i remi, si asciugò il sudore con l’avambraccio. E tranquillamente se ne rimase ad ascoltare i battiti del proprio cuore, il lento scorrere del sudore che si rinnovava sulla pelle. Così rimase per alcuni minuti, inconsapevole dei rumori che provenivano dal retro della casa e che si trasformarono, d’improvviso, in strilli lancinanti e immotivati: la reazione di un maiale intrappolato. Quando, finalmente, cominciò a muoversi, il grido dell’animale ora ferito e mutilato gli ferì le orecchie. E subito dopo altre grida, acute, rabbiose, una supplica disperata, un appello che non si aspetta aiuto. Corse verso il giardino, ma non oltrepassò la soglia della porta. Due uomini e una donna tenevano un maiale. Un terzo uomo, con un coltello insanguinato, gli apriva uno squarcio verticale lungo lo scroto. Nella paglia brillava già un ovoide schiacciato, rosso. Il maiale tremava tutto ed emetteva urla con il grugno incappiato da una corda. La ferita si allargò, comparve il testicolo, tumido e striato di sangue, le dita dell’uomo si infilarono nell’apertura, tirarono, torsero, strapparono. La donna aveva il viso pallido e contratto. Slegarono il maiale, gli liberarono il muso e uno degli uomini si chinò e afferrò i due baccelli, grossi e morbidi. L’animale fece un giro, perplesso, e rimase lì ansimante, a muso basso. Allora l’uomo glieli lanciò. Il maiale li afferrò con la bocca, li masticò e li inghiottì. La donna pronunciò qualche parola e gli uomini si strinsero nelle spalle. Uno di essi rise. Fu allora che videro il ragazzo sulla soglia della porta. Ammutolirono e, come se fosse l’unica cosa che potessero fare in quel momento, si misero a fissare l’animale che si era sdraiato sulla paglia, sospirando, con il grugno sporco del proprio sangue.
Il giovane rientrò in casa. Riempì un boccale e bevve, lasciando che l’acqua gli scivolasse giù dagli angoli della bocca, lungo il collo, fino ai peli del petto che gli divennero più scuri. Mentre beveva, guardava fuori le due macchie rosse sulla paglia. Poi, stancamente, uscì di casa, attraversò l’uliveto, di nuovo sotto il sole cocente. La polvere gli bruciava i piedi e lui, senza accorgersene, li rattrappiva per sfuggire al contatto bruciante. La stessa cicala friniva, in tono più sordo. Poi il sentiero, l’erba con il suo odore di linfa intiepidita, l’inebriante frescura sotto i rami, il fango che si insinua fra le dita dei piedi e irrompe verso l’alto. Lui si fermò a guardare il fiume. Sopra un ciuffo di vegetazione emergente una rana, scura come la prima, dagli occhi tondi sotto le arcate sporgenti, sembrava in attesa. La pelle bianca della gola palpitava. La bocca chiusa faceva una smorfia di scherno. Passò un po’ di tempo e né la rana né il giovane si muovevano. Allora lui, a fatica sviando lo sguardo come per sottrarsi a un maleficio, sull’altra sponda del fiume, fra i rami pendenti dei salici, vide apparire di nuovo la giovinetta. E nuovamente, silenzioso e inatteso, passò sull’acqua il lampo azzurro. Lentamente, il giovane si tolse la camicia. Lentamente si spogliò, e fu solo quando ormai non aveva più alcun indumento sul corpo che la sua nudità, lentamente, si rivelò. Proprio come se stesse guarendo una cecità da se stessa. La giovane guardava da lontano. Poi, con gli stessi gesti lenti, si liberò del vestito e di tutto quanto la copriva. Nuda sullo sfondo verde degli alberi. Il giovane guardò ancora una volta il fiume. Il silenzio si diffondeva sulla pelle liquida di quell’interminabile corpo. Cerchi che si allargavano e si perdevano nella superficie calma indicavano il punto in cui la rana infine si era immersa. Il giovane, allora, s’infilò in acqua e nuotò verso l’altra riva, mentre la sagoma bianca e nuda della giovane indietreggiava verso la penombra dei rami.