PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Capolavori ritrovati
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI
NOSTOI Roma, ...
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PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Capolavori ritrovati
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI
NOSTOI Roma, Palazzo del Quirinale Galleria di Alessandro VII
21 dicembre 2007 - 2 marzo 2008
SEGRETARIATO GENERALE DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
In copertina:
Statua in marmo di Vibia Sabina II secolo d.C. Foto di Giovanni Ricci Novara, Parigi Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore
© 2007 Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica
NOSTOI
Capolavori ritrovati
Roma, Palazzo del Quirinale Galleria di Alessandro VII 21 dicembre 2007 - 2 marzo 2008
ARMA DEI CARABINIERI Gianfrancesco Siazzu Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri
Giovanni Nistri Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale
Raffaele Mancino
NOSTOI. CAPOLAVORI RITROVATI
Comandante del Reparto Operativo Tutela Patrimonio Culturale
Massimiliano Quagliarella Roma, Palazzo del Quirinale 21 dicembre 2007 – 2 marzo 2008
Comandante Sezione Archeologia Reparto Operativo Tutela Patrimonio Culturale
PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA ITALIANA
MOSTRA A CURA DI Louis Godart
Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica
ORGANIZZAZIONE GENERALE
Comunicare Organizzando Donato Marra Segretario Generale
Louis Godart Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico
Alessandro Nicosia Presidente
Martina Cocco Francesco Lozzi Organizzazione
Simona Piccini MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
Promozione e pubblicità
Francesco Rutelli Ministro
Maria Cristina Bettini Francesca Plonski
Guido Improta
Pubbliche relazioni
Capo di Gabinetto
Giuseppe Proietti
Sandra Rufo Mariangela Scaramella
Segretario Generale
Segreteria
Stefano De Caro
Ufficio stampa
Direttore Generale per i Beni Archeologici
Bruno De Santis Direttore Generale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
Daniel Berger Consulente del Ministro per i Beni e le Attività Culturali
Novella Mirri Progetto di allestimento
Michelangelo Lupo con la collaborazione di
Imerio Palumbo
Anna Maria Dolciotti Claudia Scardazza
Comunicazione e grafica della mostra
Staff tecnico
Trasporti
Studio grafico L’Asterisco Borghi Assicurazioni
In Più Broker
CATALOGO
Un particolare ringraziamento a
A cura di
Ministero della Cultura di Grecia Vivi Vassilopoulou
Louis Godart Stefano De Caro Coordinamento editoriale
Luciana Del Buono Campagna fotografica
Giovanni Ricci Novara Assistente alle riprese
Direttrice Generale
Elena Korka Direttrice delle Antichità Preistoriche e Classiche
Paolo Ferri Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma
Larissa Pusceddu
Maurizio Fiorilli
Immagini provenienti da altri archivi
Michael Brand
© The Metropolitan Museum of Art p. 77 © J. Paul Getty Museum Imaging Lab. pp. 55, 69, 81, 85, 95, 105, 111, 113, 165, 171, 181, 191, 197, 199, 201, 202-203, 205, 217, 219, 220-221, 222-223, 225, 231 Museo Archeologico Nazionale di Atene p. 235 Alfredo Dagli Orti, Thiene (VI) pp. 22, 215 Rosario Anselmo, Trapani p. 153 Immagini fornite dall’autore del testo p. 34 Progetto grafico e impaginazione
Les Hérissons, Parigi Stampa
Tecnostampa, Loreto
Avvocato dello Stato Direttore del J. Paul Getty Museum
Philippe de Montebello Direttore del Metropolitan Museum of Art
Malcolm Rogers Direttore del Museum of Fine Arts, Boston
Susan Taylor Direttore del Princeton University Art Museum
Royal Athena Galleries, New York Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale
Villa Adriana, Tivoli Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio
Museo Civico di Castelvetrano Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani
Palazzo Massimo Soprintendenza Archeologica di Roma
Museo dei Bronzi Dorati e della Città di Pergola Ufficio Cultura e Turismo del Comune di Pergola
Eleonora Di Giuseppe Ufficio Conservazione Patrimonio Artistico
Collaboratore tecnico
Si ringraziano vivamente i restauratori della Soprintendenza archeologica di Roma per la loro preziosa collaborazione e tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione della mostra.
SOMMARIO
13
Interventi Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica Italiana
Francesco Rutelli Ministro per i Beni e le Attività Culturali
Louis Godart Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica Italiana
Giuseppe Proietti Segretario Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Gianfrancesco Siazzu Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri
Maurizio Fiorilli Avvocato dello Stato
Paolo Giorgio Ferri Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma
Michael Brand Direttore del J. Paul Getty Museum
Philippe de Montebello Direttore del Metropolitan Museum of Art
Malcolm Rogers Direttore del Museum of Fine Arts di Boston
Susan M. Taylor Direttore del Princeton University Art Museum
35
Testi L’arte rubata Fabio Isman
Dalla bellezza alla storia Stefano De Caro
50
237
Schede delle opere a cura di Stefano De Caro Abbreviazioni bibliografiche
ETRURIA
32. Anfora etrusca a figure nere con la morte di Medusa e delle sorelle Gorgoni
Attribuita al Pittore di Tityos, ca. 530-510 a.C. H. 35; diam. 22 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AE.139
La spalla di quest’anfora è decorata con la scena della morte della Gorgone Medusa per mano dell’eroe Perseo, un tema già popolare nell’arte greca arcaica e da questa passata a quella etrusca. Le Gorgoni erano le mostruose figlie di Phorkys, un antico dio marino e di sua sorella Keto, un mostro marino. Su questo vaso Medusa è caduta, la lingua sporgente e le ginocchia piegate, nello schema consueto dell’epoca e dalle sue ferite emergono due cavalli alati, Pegaso e Crisaore (quest’ultimo nella mitologia greca aveva invece forma umana). Le altre Gorgoni compaiono a sinistra di Medusa e sul retro del vaso e recano in mano mazze a due teste sferiche, armi o forse simboli della loro potenza. Sulla zona inferiore, un fregio di animali e piante mentre il collo è ornato con una coppia araldica di pantere unite per la testa. Il ceramografo etrusco modernamente denominato pittore di Tityos, attivo probabilmente nella città di Vulci all’incirca tra il 530 e il 510 a.C., fu uno degli artisti di origine greco-orientale che, per sfruttare la fiorente domanda del mercato etrusco di vasi greci, crearono la classe dei vasi detti Pontici, comprendenti forme greche e indigene decorate nella tecnica a figure nere con abbondante uso di colori aggiunti, il rosso e il bianco. BIBLIOGRAFIA: CVA Getty 9, pp. 23-24, pls. 489-493; Handbook 2002, p. 140.
130
33. Oinochoe etrusca a figure nere con guerrieri
Attribuita al Pittore di Tityos, ca. 530-510 a.C. H. 29,2 Già Royal Athena Galleries, New York
Il vaso, nella tipica forma di derivazione da modelli metallici, è decorato da un fregio principale figurato all’altezza della spalla, con due schiere di guerrieri che si affrontano armati di scudo, lancia e di un elmo a calotta, vestiti solo di un perizoma. Un secondo fregio animalistico, con una fila di cigni ad ali spiegate, è posto invece nella parte inferiore del ventre. Tra i due una catena di boccioli di loto; sul collo palmette e fiori di loto. BIBLIOGRAFIA: inedito
132
34. Antefissa etrusca con Sileno e Menade danzanti
Inizi V secolo a.C. H. 54,6; largh. 32,5 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AD.33 Da scavi clandestini operati in Italia centrale
L’antefissa, realizzata a matrice, rappresenta un gruppo di una Menade e un Sileno in passo di danza. Le figure, stanti su una base dipinta a motivi geometrici, muovono verso destra; la Menade, con il chitone che conserva cospicue tracce di policromia e le nacchere in una mano, cerca di sottrarsi all’abbraccio del Sileno, coronato d’edera, che da dietro l’abbranca per la spalla con la destra e nella sinistra regge un corno potorio. Si noti la tipica bicromia arcaica per differenziare i sessi: bianco per l’incarnato femminile, l’ocra per quello maschile. Sul retro si conserva parte dell’estremità del coppo. Alternandosi probabilmente con il tipo del Sileno in primo piano volto verso sinistra che insegue la Menade, queste antefisse davano un vivace senso di movimento al bordo dei tetti dei templi etrusco-laziali. In particolare questo tipo è documentato al Museo di Villa Giulia da esemplari provenienti dal tempio minore del santuario di Civita Castellana (VT), località La Vignale. La stessa serie iconografica, più antica e con modellato più vigoroso, decorava il tempio di Mater Matuta sull’acropoli di Satricum (cfr. A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Skrifter Utgivna av Svenska Institutet i Rom, VI, Acta Instituti Romani Regni Sueciae, VI, Leipzig, O. Harrassowitz, 1940, pp. 100-101, tav. 33, I:1. Per quelli da Satricum, ibidem, pp. 471-473, tavv. 147-149). BIBLIOGRAFIA: GROSSMAN 1997, pp. 18-19, n. 9; Handbook 1997, p. 41.
136
35. Statuetta etrusca in bronzo di atleta con lo strigile
Produzione di Spina, ca. 390-380 a.C. H. col plinto 10,5 Museo Nazionale di Ferrara, inv. 3954; rubata il 03.08.1970; poi Royal Athena Galleries, New York
La statuetta, elemento terminale di un candelabro, proviene dalla tomba 45 A di Spina. Essa rappresenta un giovane atleta stante, con un braccio poggiato sull’anca e un altro steso lungo la gamba sinistra a reggere nella mano uno strigile, lo strumento con cui gli atleti, al termine delle gare, si detergevano dalla sporcizia e dall’olio di cui si erano unti, impastatosi con la polvere della palestra. Nella rappresentazione dell’anatomia e nella ponderazione la statua richiama modelli scultorei greci tardo classici; il bronzetto, datato agli inizi del IV sec. a.C. anche sulla base del contesto ceramico associato, ne richiama iconograficamente un altro, più antico di qualche decennio, ma probabilmente della stessa officina, della tomba 133 A e uno, pressoché contemporaneo, della tomba 249 A della stessa necropoli. I diversi elementi dei candelabri, piedi, fusti, bracci ed elementi decorativi, erano realizzati per fusione separatamente e assemblati con saldature. A differenza dei Greci che usavano lucerne ad olio per l’illuminazione, gli Etruschi usavano candele, che venivano fissate all’estremità dei bracci dei candelabri.
BIBLIOGRAFIA: E. Hostetter, Bronzes from Spina, I, Mainz, von Zabern,1986, p. 79.
140
36. Askòs plastico etrusco in forma di paperella
Officina chiusina, Gruppo Clusium, 350-300 a.C. Lungh. 13,5; diam. piede 5 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 83.AC.203 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Questo vaso a forma d’oca dalle penne finemente disegnate era probabilmente usato per versare oli profumati; alla sua funzione relativa alla cosmesi muliebre alludono verosimilmente le figure femminili nude alate dipinte – in altri vasi dello stesso gruppo sono rese a rilievo – sui fianchi alla cui convessità si conforma la posizione sinuosa del corpo. Una di esse, che reca in mano un alabastron può essere identificata come Lasa, divinità minore associata all’Afrodite etrusca Turan. Alcuni fori di trapano ricordano un antico restauro, segno del pregio in cui era tenuto l’oggetto. BIBLIOGRAFIA: M.A. Del Chiaro, A Clusium Group Duck-Askos in Malibu, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, Occasional Papers on Antiquities, 2, Malibu, The J. Paul Getty Museum, 1986, pp. 139-142, figg. 1a-b; CVA Getty 9, pp. 43-44, n. 42, tavv. 514 e 515, 1-2.
142
37. Specchio etrusco in bronzo a rilievo con l’incontro tra Ulisse e Penelope
Fine del III secolo a.C. H. 3; diam. 15,1 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AC.132 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Lo specchio, un oggetto caratteristico del corredo funerario femminile, qui nella forma a chiusura tipica della produzione etrusca della fine del III secolo a.C., è decorato da una scena allusiva al matrimonio e alla riconciliazione. Ulisse, a sinistra, con la barba e la corta tunica, identificato dal tipico berretto conico, ritornato a Itaca dopo vent’anni, si rivolge a Penelope, a destra, che lo ascolta ancora incredula con il fuso nella mano, allusione alla tela con cui ha tratto in inganno i Proci. Ai suoi piedi è Argo, il cane fedele che mostra invece di riconoscere il padrone posandogli la zampa sulla gamba. Tra i due sposi è un’immagine di Iuno Sospita, la dea italica delle città, delle donne e del matrimonio. BIBLIOGRAFIA: Passion for Antiquities 1994, pp. 178-180, cat. n. 83.
146
38. Statuetta etrusca in bronzo di offerente con phiale
Officina dell’Etruria interna, ca. 150-100 a.C. H. 12,7 Museo Nazionale Etrusco di Chiusi, poi rubata il 28.04.1971; già Royal Athena Galleries, New York (individuata nel lotto n. 92, catalogo n. 68, “Art of the Ancient World” volume VII, part. I January 1992)
La statuetta rappresenta un offerente, ammantato e coronato d’edera, nel tipico atteggiamento con le braccia distese e aperte, con una phiale nella mano destra. Esso appartiene a un gruppo di esemplari, generalmente di qualità corsiva, attribuito all’area dell’Etruria interna e dell’Umbria orientale (Perugia o Todi?), in cui sono diffusi in età tardo ellenistica. BIBLIOGRAFIA: G. Maetzke, I bronzetti etruschi del Museo di Chiusi, “Studi Etruschi”, XXV, 1957, p. 489 ss.; M. Bentz, Etruskische Votivbronzen des Hellenismus, Biblioteca di Studi Etruschi, 25, Firenze, Olschki, 1992.
148
Giorgio Napolitano Presidente della Repubblica Italiana La Presidenza della Repubblica consapevole che la tutela del patrimonio culturale è un principio fondamentale della nostra Carta Costituzionale, incoraggia e ospita le manifestazioni che hanno come scopo la promozione e la salvaguardia dell’arte italiana. Perciò ha accolto con favore il suggerimento del Ministro Rutelli di allestire nelle sale del Palazzo del Quirinale la mostra “Nostoi. Capolavori ritrovati” che celebra il rientro nel nostro Paese di capolavori dell’arte greca e romana strappati negli anni passati a numerosi siti archeologici disseminati sul nostro territorio dall’Etruria, al Lazio, all’area vesuviana, alla Puglia, alla Sicilia. Questa restituzione di decine di opere d’arte è stata resa possibile grazie ad un rinnovato clima di collaborazione tra i responsabili di alcune grandi istituzioni museali statunitensi e le Autorità del nostro Paese. La mostra allestita nella Galleria di Alessandro VII Chigi permetterà ai cittadini d’Italia e del mondo di ammirare insieme ai capolavori ritrovati, altri tesori che stiamo recuperando grazie al paziente lavoro dei nostri restauratori, come i mirabili affreschi che coprivano le pareti della galleria che papa Alessandro VII commissionò tra il 1656 e il 1657.
13
Francesco Rutelli Ministro per i Beni e le Attività Culturali Ancora negli anni ’70 non erano in pochi, anche nel nostro Paese, a pensare che di fronte ad una sostanziale incapacità di conservare e valorizzare il patrimonio culturale italiano, non sarebbe stato troppo grave se, per l’intermediazione di qualche trafficante spregiudicato, una parte di quel patrimonio, anziché rimanere trascurato e abbandonato in Patria, fosse stato accolto in qualche grande istituzione culturale internazionale, dove fosse preservato ed esposto al pubblico. Da allora abbiamo fatto molti passi avanti. La mostra “Nostoi. Capolavori ritrovati” ne è un’eloquente, eccezionale testimonianza, per la quale dobbiamo profonda gratitudine al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La forte azione condotta dall’Italia sul piano internazionale per il recupero delle opere d’arte è stata ispirata dalla volontà di recuperare l’unicità e la contestualizzazione del nostro patrimonio culturale, ma anche dalla determinazione di riportare al predominio dei principi etici il commercio dell’arte e dell’archeologia. Molte opere d’arte sono state trafugate dal nostro Paese anche in precedenza, ma abbiamo deciso di adoperarci attivamente tenendo a riferimento due date precise: il 1939, quando furono varate le norme tuttora in vigore di tutela del patrimonio, e il 1970, anno in cui fu varata la Convenzione UNESCO relativa ai mezzi per impedire e vietare l’importazione, l’esportazione e il trasferimento illecito di beni culturali. La nostra posizione, ancor prima che con la legge, intende proporsi con la forza dei principi etici. Pensiamo che non si possa accreditare come un’istituzione culturale quella che proponga al pubblico opere trafugate e illegalmente acquistate: sarebbe paradossale invocare la cultura per giustificare la detenzione di opere trafugate. Grazie a questo metodo, sono stati conclusi con successo i negoziati con il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Museum of Fine Arts di Boston e il Princeton University Art Museum, che ci hanno consentito di recuperare numerose ed importanti opere d’arte, molte delle quali sono esposte in questa mostra, ma ancor più di intraprendere stabili collaborazioni e scambi scientifici ed espositivi. Nella mostra figurano 68 pezzi di eccezionale valore storico-artistico, tra i quali la statua marmorea risalente al 136 d.C. raffigurante Vibia Sabina, moglie dell’Imperatore Adriano, la Psykter in terracotta a figure rosse del 510 a.C. attribuita a Smikros, il cratere a calice firmato dal Pittore Asteas, il Trapezophoros del 325-300 a.C. raffigurante due grifi che sbranano una cerva, la statua marmorea del I-II secolo d.C. raffigurante Apollo con grifone. Abbiamo stretto intese che hanno permesso alle istituzioni interessate di ottenere, in cambio degli oggetti ritornati in Italia, opere di non minore valore artistico, così da non penalizzare il proprio pubblico. Ci siamo impegnati a mantenere questa formula di cooperazione nel lungo termine, trasformando in uno scambio virtuoso quello che fino ad ora era stata una sfida, una contrapposizione. Il nostro non è un discorso nazionalistico. Al contrario: universale, perché ciascun patrimonio nazionale appartiene al mondo, e non se ne può affidare la circolazione ad organizzazioni illegali. In linea con questa politica, l’Italia ha già restituito al Perù la Maschera d’oro e il Signore di Sicam, introdotte di contrabbando nel nostro Paese, al Pakistan e all’Iran preziose opere trafugate da altri Paesi e intercettate sul nostro territorio dai Carabinieri della Tutela del Patrimonio. Si tratta di comuni successi sul piano culturale, giuridico, ma soprattutto etico e civile. Grazie a questa mostra, il grande pubblico potrà essere partecipe di questo cammino, e potrà crescere la consapevolezza e l’attenzione verso un tema che coinvolge la cultura internazionale, oltre che l’identità del nostro Paese. L’identità dell’Italia è infatti profondamente legata alla consapevolezza culturale, alla coscienza circa il valore del patrimonio, alla dimensione partecipata e critica verso le grandi scelte della tutela e valorizzazione dei nostri Beni culturali. Visitare al Quirinale la mostra “Nostoi. Capolavori ritrovati”, sotto gli auspici del Capo dello Stato, rappresenta uno dei più bei doni che il Natale 2007 e il nuovo anno 2008 possano portare agli italiani.
14
MAGNA GRECIA E SICILIA
39. Lex sacra di Selinunte su lamina di piombo
Ca. 475-450 a.C. H. 23; lungh. 60 Castelvetrano (TP), Museo Civico; già J. Paul Getty Museum, Malibu
La lex sacra selinuntina, entrata nelle collezioni del J. Paul Getty Museum nel 1981 è stata restituita all’Italia nel 1992. È costituita da una lamina di piombo applicata in origine su un supporto, presumibilmente di legno, attraverso una barra metallica che divideva il testo in due colonne. I caratteri epigrafici e l’uso del dialetto caratteristico selinuntino hanno consentito l’attribuzione dell’iscrizione alla polis e in particolare, al santuario di Zeus Meilichios, parte del complesso sacro di Demetra Malophoros. Il testo sacro, infatti, databile al secondo quarto del V secolo a.C., descrive le pratiche cultuali e i rituali di purificazione da compiere in onore di eroi locali e di divinità ctonie, tra le quali Zeus Meilichios attestato anche nella madrepatria Megara Nisea. Il culto del Meilichios, associato a gruppi familiari particolarmente influenti, rivestiva grande importanza all’interno della comunità e contribuisce alla comprensione dei rapporti intrattenuti da Selinunte con altre città e aree del mondo greco. BIBLIOGRAFIA: M. H. Jameson, D.R. Jordan, R.D. Kotansky, A Lex Sacra from Selinous, GRB Monographs, vol. 11, Durham North Carolina, Duke University, 1993; G. Nenci, La kubris selinuntina, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, s. III, XXIV, 1994, pp. 459-466; K. Clinton, A New Lex Sacra from Selinus: Kindly Zeuses, Eumenides, Impure and Pure Tritopatores, and Elasteroi, “Classical Philology”, vol. 91, n. 2 aprile 1996, pp. 159-179; G. Purpura, La lex sacra di Selinunte del V sec. a.C., in G. Purpura, Diritto, Papiri e Scrittura, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 12-14.
152
40. Askòs magnogreco di bronzo in forma di Sirena
Officina locale della Calabria ionica, ca. 470-460 a.C. H. 15,9; lungh. 19,4 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 92.AC.5 Da una tomba in località Murgie di Strongoli, nel territorio di Crotone
Le Sirene erano per gli antichi le divinità della vita nell’oltretomba. Erano immaginate come creature mostruose con il corpo di uccelli e la testa di fanciulle, dotate di un canto dolcissimo con cui attiravano irresistibilmente gli uomini verso la morte: solo Ulisse coll’espediente dei tappi di cera nelle orecchie dei suoi compagni e facendosi legare all’albero della sua nave poté resistere al loro canto. Esse appaiono sovente nel culto e nel rituale funerario come piangenti e come promessa di felicità dopo la morte. Il melograno e il flauto di Pan (syrinx) che questa Sirena ha nelle mani indicano l’uso funerario dell’oggetto, realizzato probabilmente come contenitore di oli profumati. Il manico del vaso è costituito da una statuetta di giovane, la cui resa anatomica, come la pettinatura della testa femminile, forniscono anch’esse utili indizi stilistici per la datazione dell’oggetto. Esso trova confronti in altri oggetti della metallotecnica dell’area crotoniate, in particolare un altro askòs dai pressi di Isola Capo Rizzuto (G. Jacopi, AC, 1953): vi si scorgono i caratteri di un’officina locale che si rifà a esperienze peloponnesiache, in particolare laconiche. Un anello che pende dal braccio reggeva forse il tappo, ora perduto. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1992, JPGMJ, 21, 1993, pp. 104-105, n. 5; R. Belli Pasqua, R. Spadea (a cura di), Kroton e il suo territorio tra VI e V secolo a.C. Appunti e nuove ricerche, Atti del Convegno di Studi, Crotone 3-5 maggio, Comune di Crotone 2005, vol. I, pp. 35-36, vol. II, tav. XIV, figg. 28-29 (per l’esemplare da Isola Capo Rizzuto, ibidem, p. 35, tav. XIII, figg. 24-27).
154
41. Nestorìs lucana a figure rosse con atleti e donne
Attribuita al Pittore di Amykos, ca. 420-410 a.C. H. 49,6 Già Museum of Fine Arts, Boston 1998.588
Si suole denominare con il nome di nestorìs (con allusione al celebre vaso di Nestore citato nell’Iliade) una morfologia ceramica propria della tradizione indigena dei popoli della Lucania, che continuò a essere utilizzata anche dai ceramografi educati allo stile decorativo greco. Questo vaso, decorato nella parte centrale del corpo con scene raffiguranti atleti in conversazione con giovani donne, è stato attribuito al Pittore di Amykos, uno dei ceramografi più famosi operanti nell’area di Metaponto, per la raffinatezza del linguaggio pittorico e la leggiadria delle figure. L’alta fascia sottostante presenta una minuziosa decorazione di tipo geometrico. BIBLIOGRAFIA: LCS, Suppl. 3, p. 390, n. 188b. Sulla collocazione dell’officina del Pittore di Amykos nel Ceramico di Metaponto, cfr. F. d’Andria, Metaponto. Scavi nella zona del Kerameikos (1973), NSc, suppl. vol. XXIX, 1975, pp. 447-452.
156
42. Nestorìs lucana a figure rosse con guerrieri in armatura italica
Attribuita al Pittore di Amykos, ca. 420-410 a.C. H. 28,5; diam. corpo 19,4 Già Museum of Fine Arts, Boston, 1971.49
Vi è raffigurato un guerriero osco seduto su una roccia con in mano lo scudo e una lancia. Il copricapo è tipico della cultura lucana. Davanti al guerriero è una fanciulla che gli porge una spada corta. Sul lato opposto è rappresentata una donna che indossa il chitone e porta in mano un tirso mentre si volta verso un satiro itifallico che la insegue protendendo le braccia. BIBLIOGRAFIA: Vase-Painting in Italy 1993, pp. 48, 54-55, n. 4; per le nestorides a figure rosse, cfr. K. Schauenburg, Bendis in Unteritalien? Zu einer Nestoris von umgewöhnlicher Form, JdI, 89, 1974, pp. 137-186; G. Schneider-Herrmann, Red-figured Lucanian and Apulian Nestorides and their Ancestors, Amsterdam, Allard Pierson Museum, 1980, pp. 31-33 (testo e fig. 1, 1), 46, 49, 59, 69, figg. 43, 43 a-b.
160
43. Cratere a volute apulo a figure rosse con la liberazione di Andromeda
Attribuito al Gruppo di Sisifo, 410-400 a.C. H. 63,3; diam. corpo 38 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 85.AE.102 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
La liberazione della principessa Andromeda dalle fauci del mostro marino cui era stata offerta in sacrificio dai suoi stessi genitori, Cefeo e Cassiopea – quest’ultima aveva provocato l’ira degli dei che avevano inviato il mostro a devastare il regno – era una delle più famose imprese eroiche del mito greco. Il momento qui rappresentato è quello in cui la fanciulla viene legata da un giovane alla rupe sulla spiaggia dove il mostro dovrà divorarla. Sulla destra arriva però Perseo che tratta un accordo con Cefeo: se ucciderà il mostro otterrà la fanciulla in sposa. Il retro del vaso presenta una scena di giovani e donne. Già attribuita al Pittore di Sisifo – attivo tra il 420 e il 390 a.C. –, il vaso è poi stato attribuito al più ampio Gruppo di Sisifo. Siamo comunque nell’ambito della prima generazione di pittori apuli, quella che diede inizio alla produzione tarantina sulla base della tradizione attica con l’inserimento di motivi indigeni come le armi dei guerrieri italici. BIBLIOGRAFIA: TRENDALL 1989, p. 26, fig. 44; CVA Getty 4, pp. 10-11, pls. 190-192; Handbook 1991, p. 52; RVAp suppl.II, pp. 6-7, n. 1/90a; Masterpieces 1997, p. 82; (sul Gruppo di Sisifo: cfr. RVAp I, pp. 3-27, 433-438, 1040, 1072, RVAp suppl. I, p. 3, RVA p suppl. II, pp. 5-8.; M. Denoyelle, L’approche stylistique: bilan e perspectives, in DENOYELLE 2005, p. 105).
164
44. Cratere a campana apulo a figure rosse con Achille e Troilo
Attribuito al Pittore di Hoppin, ca. 380-370 a.C. H. 36,2 Già Museum of Fine Arts, Boston 1988.532
Sul lato principale Achille, armato di lancia e di scudo rotondo assalta da destra il giovane Troilo, che avanza a cavallo recando un giavellotto nella mano destra; alla vista di Achille il cavallo di Troilo si impenna. Entrambi indossano corti chitoni di tipo italico con cinturoni. Sul lato secondario del vaso tre giovani in himation stanno in conversazione. Nella versione ateniese dell’agguato a Troilo, Achille è di norma raffigurato nascosto, in attesa, pronto a balzare contro il giovane principe mentre questi si avvicina alla fonte. Molti vasi italioti seguono questa versione tradizionale; nella versione di questo pittore Achille lo attacca frontalmente e Troilo combatte nel vano sforzo di salvarsi: la scena è ispirata a quelle dei combattimenti con le Amazzoni della fine del V secolo a.C. Il Pittore di Hoppin prende il nome da un vaso già nella collezione di questo studioso e ora nell’Arthur M. Sackler Museum dell’Harvard University; fu un seguace del Pittore di Tarporley; abile disegnatore nei modi del “Plain style”, fu dotato di grande naturalismo nella resa delle figure umane. BIBLIOGRAFIA: RVAp, vol. 1, n. 50; RVAp suppl. II, p. 23; per confronti sul Pittore di Hoppin, M.R. Jentoft-Nilsen, A.D. Trendall, Corpus Vasorum Antiquorum, The J. Paul Getty Museum, Malibu, 4 (USA 30), Malibu, The J. Paul Getty Museum, 1994, p. 21, sub pl. 267, 1.
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45. Cratere apulo a figure rosse con scena fliacica
Attribuito al Pittore del Corego, ca. 380 a.C. H. 37; diam. bocca 45 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AE.29 Da scavi clandestini in Italia meridionale
Tra i temi della ceramica italiota sono frequenti quelli legati alla tradizione teatrale delle rappresentazioni fliaciche; queste farse popolaresche, in gran voga in Magna Grecia nel IV e nel III secolo a.C., mettevano in ridicolo i temi eroici e mitologici del teatro classico o si ispiravano agli aspetti più comici della vita quotidiana. Il termine phlyax, usato sia per la recita che per il costume dell’attore, viene dal verbo greco “gonfiarsi” ed è correlato con i costumi imbottiti che insieme al grande fallo pendente caratterizzavano il tono grottesco di queste rappresentazioni. Su questo cratere, su un palcoscenico sostenuto da due pilastri in legno, un uomo vestito da attore tragico, armato di due lance, e identificato dall’iscrizione come Egisto (Aigisthos), è entrato dalla porta a sinistra. Lo accoglie un vecchio fliace, denominato Choregos, che si appoggia a un bastone; un secondo fliace con bastone, anch’egli detto Choregos, sta all’estremità destra e volge lo sguardo a un terzo fliace, che al centro della scena è salito su un cesto capovolto come su una tribuna e leva la mano destra come un oratore. Una scritta lo denomina Pyrrias (Testa Rossa), un nome che ben converrebbe a uno schiavo trace. La scena è di dubbia interpretazione: potrebbe trattarsi della parodia di una commedia che mostrava due coreghi, finanziatori di spettacoli teatrali, in dubbio se sostenere Aigisthos, forse simbolo della Tragedia, o Pyrrias, che simboleggia la Commedia. Sull’altro lato del vaso è una donna seduta in posa languida che tiene un uccellino ed è assistita da un’ancella con ventaglio. Il giovane nudo di fronte a lei si accinge a sedurla, mentre il suo gatto si prepara a mangiare l’uccellino. Il Pittore del Choregos, forse un allievo del Pittore di Sisifo, operò in Apulia ai primi del IV secolo a.C. e il suo nome moderno deriva proprio da questo vaso, uno dei primi sui quali compare il tema fliacico. Decorò grandi vasi sui quali dipinse scene che mescolavano elementi seri e burleschi. BIBLIOGRAFIA: RVAp suppl. I, n. 50; TRENDALL 1991, p. 164 ; RVAp suppl. II, nn. 1/124, pl. 3-4; M. Schmidt, Tracce del teatro Comico Attico nella Magna Grecia, in Vitae Mimus. Forme e funzioni del teatro comico greco e latino, Incontri del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia, 6, Como, New Press 1993, pp. 37-38; O. Taplin, Comic Angels and Other Approaches to Greek Drama through Vase Paintings, Oxford, Clarendon Press, 1993, pl. 9, n. 1. Sull’inclusione del pittore nel Gruppo di Sisifo, cfr. RVAp suppl. II, p. 5-8.
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46. Pelike apula a figure rosse con il compianto di Achille per Patroclo
Attribuito a un artigiano vicino al Gruppo di Ruvo 423, 375-350 a.C. H. 50,9; diam. corpo 36,2; diam. bocca 28 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 86.AE.611 Da scavi clandestini in Italia meridionale
La scena raffigurata su questo vaso ha come protagoniste le Nereidi, le ninfe marine del regno di Poseidon, che attraversano il mare cavalcando delfini e altri mostri marini in un celebre episodio della guerra di Troia. Nell’angolo superiore sinistro della scena l’eroe greco Achille siede in una grotta circondata dalle onde, reggendo la testa con la mano sinistra in un atteggiamento di dolore: piange la morte dell’amico Patroclo, ucciso da Ettore mentre in battaglia indossava le sue armi. Efesto, il dio fabbro, ha costruito per lui nuove armi e ora la madre Teti e le sue compagne gliele stanno portando. Teti su un ippocampo reca lo scudo, le sue tre compagne le altre armi. Sul lato B si ripete la scena, ma con quattro Nereidi. Il tema delle armi di Achille ritorna spesso sui vasi italioti per il potenziale decorativo nella resa delle armi e delle figure delle Nereidi. BIBLIOGRAFIA: CVA Getty 4, pp. 12-13, pls. 193-195; RVAp suppl. II, pp. 106-107, n. 15/43b; N. Icard-Gianolio, s.v. HIPPOKAMPOS, in LIMC, VIII/1, 1997, p. 634, n. 6, VIII/2 pl. 392.
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47. Cratere a calice pestano a figure rosse con Europa sul toro
Firmata dal ceramografo Assteas, ca. 350-340 a.C. H. 71,2; diam. 60 Già J. Paul Getty Museum, Malibu
Questo cratere, il più grande vaso firmato dal pittore pestano Assteas, proviene da Sant’Agata dei Goti (BN), l’antica Saticula sannitica, già diventata famosa alla fine del XVIII secolo come luogo di rinvenimento, in Campania, dei vasi che alimentarono le prime collezioni di vasi greci, tra cui quella celebre di William Hamilton, poi confluita nel British Museum, che, sia per il magnifico catalogo curato dal D’Hancarville sia per il successo tributato alle imitazioni che ne realizzò J. Wedgwood, diede inizio alla moda di queste raccolte. Il vaso raffigura nel lato principale il mito di Europa, la fanciulla fenicia amata da Zeus che, salita in groppa al dio in forma di un toro bianco comparso sulla spiaggia, è da questi rapita e trasportata tra le onde di là dal mare, a Creta, di cui la fece regina dandole tre figli, Minosse, Radamanto e Sarpedonte. La scena è inserita in una cornice pentagonale sopra i cui angoli superiori sei figure divine osservano l’evento. Ai lati della figura del toro, che occupa il centro della composizione, a identificarne l’ambientazione tra pesci e altri animali marini, sono due Tritonesse che levano le mani in gesto di meraviglia; sopra la testa di Europa è Pothos, il desiderio amoroso, che indica la forza che muove la coppia. La firma del pittore (Assteas egrapse) è al centro della fascia a palmette che corre sotto la scena figurata. Sul lato opposto, una scena dionisiaca su due registri (Dioniso giovane accompagnato da Satiri e Menadi). BIBLIOGRAFIA: TRENDALL 1989, p. 200, fig. 349 (lato A), fig. 350 (lato B); L. Godart, Capolavori dell’arte europea. I 27 celebrano il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma, Catalogo della mostra, Roma, Quirinale, 23 marzo-20 maggio 2007, Roma, Mondomostre, 2007, p. 40, figg. pp. 16, 32, 33, 41, 42, 43.
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48. Lekythos pestana a figure rosse con il giardino delle Esperidi
Attribuita al ceramografo Assteas, ca. 350-340 a.C. H. 45,5; diam. base 18,3 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AE.119 Da scavi clandestini operati a Paestum
L’attribuzione ad Assteas trova sostegno nel puntuale confronto di questo vaso con un’altra grande lekythos, firmata, trovata a Paestum agli inizi del XIX secolo e conservata al Museo Nazionale di Napoli (inv. 2873, cfr. TRENDALL 1989, p. 200, fig. 351), con l’immagine di Eracle nel giardino custodito dalle Esperidi: qui nell’ultimo dei suoi dodici athla, l’eroe doveva ottenere da queste ninfe i frutti che davano l’immortalità. Donde l’uso del tema in un vaso funerario. Anche in questa raffigurazione il giardino delle Esperidi è indicato da un albero con le mele dorate, protetto dal dragone Ladon (un grande serpente crestato), che avvolge le sue spire intorno al tronco. Gli offre cibo da una phiale un’Esperide a sinistra (tiene una corona nell’altra mano), mentre un’altra, a destra dell’albero, si alza in punta di piedi per staccare un pomo da un ramo. Ai due estremi della scena sono altre due ninfe, una a sinistra seduta su una palmetta con uno specchio nella mano, un’altra a destra che tende una corona verso un uccello appollaiato sul bordo di un bacino di fontana. Al di sopra di quest’ultima è la mezza figura di un vecchio satiro che tiene un uovo in una mano e un tirso nell’altra. L’albero con il serpente ricorre anche nelle raffigurazioni del mito di Giasone che ne stacca il vello d’oro mentre Medea distrae il serpente offrendogli del cibo: cfr. il cratere a calice pestano 82126 del Museo Archeologico Nazionale di Napoli del gruppo APZ in G. Sena Chiesa, E.A. Arslan (a cura di), Miti greci. Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al Collezionismo, Milano, Electa, p. 40, n. 3. BIBLIOGRAFIA: I. McPhee, s.v. HESPERIDES, in LIMC, V/1, 1990, p. 397, n. 5a; Passion for Antiquities 1994, pp. 146-149, cat. n. 65; Handbook 2002, p. 120.
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49. Pelike apula a figure rosse con Perseo e Andromeda
Attribuita al Pittore di Dario, ca. 340-330 a.C. H. 61; diam. corpo 38,1; diam. bocca 24,8 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 87.AE.23 Da scavi clandestini in Italia meridionale
Con la sua scena complessa a più figure questo vaso illustra bene lo stile del Pittore di Dario, così denominato da un colossale cratere a volute del Museo Nazionale di Napoli che rappresenta il re persiano. Il pittore, uno dei maggiori e più influenti del periodo 340-330 a.C., rappresentò nella scena il momento finale del mito che raccontava come l’eroe Perseo liberò la principessa Andromeda. Qui, dopo l’uccisione del mostro, la fanciulla, seduta in trono, si riconcilia con i suoi genitori, il re Cefeo e la madre Cassiopea, inginocchiata davanti a lei, mentre Perseo, la dea Afrodite (denominata Kypris) e altri personaggi guardano. Su un trono assiste alla scena Homonoia, personificazione della concordia. Tutte le figure più importanti sono identificate da iscrizioni. I ceramografi rappresentarono raramente questo episodio del mito, preferendo quasi sempre (vedi la loutrophoros che segue del Gruppo della Metopa) la più pittoresca scena della liberazione e della lotta col mostro marino. L’altro lato del vaso presenta quattro fanciulle con un giovane in compagnia di Eros, l’alato dio dell’amore. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1987, JPGMJ 16, 1988, p. 144, n. 8; H.A. Shapiro, s.v. HOMONOIA, in LIMC, V/1, 1990, p. 477, n. 2; CVA Getty 4, pp.14-17, pls. 198-200; TRENDALL 1991, p. 178, fig. 74; RVAp, suppl. II, p. 151, n. 18/69a.
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50. Anfora apula a figure rosse con l’uccisione di Atreo
Attribuita al Pittore di Dario, ca. 340-330 a.C. H. 88,3; diam. corpo 38,8 Già Museum of Fine Arts, Boston 1991.437
L’anfora, proveniente dalla Puglia, raffigura, forse ispirandosi a una tragedia di Sofocle, l’assassinio di Atreo, personaggio importante della mitologia greca, figlio di Pelope e di Ippodamia, fratello di Tieste e padre di Agamennone e Menelao. Atreo e Tieste furono vittime della maledizione caduta sulla loro famiglia, gli Atridi. La maledizione si estese a tutti i discendenti e solo Oreste, nipote di Atreo, riuscì a liberarsene con l’aiuto di Apollo. La scena del lato principale rappresenta in modo drammatico l’uccisione di Atreo, sul suo trono d’avorio, al centro, per mano di Egisto, frutto dell’incestuosa unione tra Tieste e la figlia Melopea. Egisto e Tieste stanno a sinistra del trono, a destra una Furia alata, la Vendetta che corre verso Atreo; accanto a lei due donne, serve del palazzo. Sul lato secondario una Menade, o forse Arianna, e Dioniso nudo, con Satiri e Menadi. Sul registro inferiore, un fregio continuo di dodici figure, giovani, donne ed Eroti, circonda il vaso. Il Pittore di Dario dipinse parecchie anfore di questo tipo, alcune con rari soggetti mitologici, come Meleagro che riporta la pelle del cinghiale ad Atalanta o la pazzia di Licurgo, ma quest’immagine dell’uccisione di Atreo è unica, costituendo tuttavia la prosecuzione del soggetto raffigurato su un altro suo vaso, il cratere a calice con Tieste che consegna Egisto infante perché sia esposto. BIBLIOGRAFIA: RVAp suppl. II, p. 148, n. 47b, pl. 36, 1; Vase-Painting in Italy 1993, pp. 11, 60-61, 115-118, nn. 42, 6 e pl. XI (2 views), p.105 (n. 38); C. Kraus et al. (eds.), Visualizing the Tragic: Drama, Myth, and Ritual in Greek Art and Literature: essays in honour of Froma Zeitlin, Oxford – New York, Oxford University Press, 2007, pp. xviii-xix, 179-183, 187, 193, 195-196, note 7, 9, 10, figg. 8.1, 8.2.
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51. Deinos apulo a figure rosse col mito di Busiride Attribuito al Pittore di Dario, ca. 340-320 a.C. H. 24,8; diam. 32,4 Mancante del sostegno, presenta il fondo senza base d’appoggio Già Metropolitan Museum of Art, New York, 1984.11.7 (L.2006.11.2)
Il deinos è decorato con scene tratte da una commedia, forse di Epicarmos, con Eracle alla corte di Busiride, il mitico re d’Egitto. Alla destra di un altare e di una colonna, elementi che alludono a un santuario, sta Busiride, vestito teatralmente nel costume reale orientale; regge uno scettro e brandisce un coltello da sacrificio. Secondo il mito, Busiride sacrificava qualsiasi straniero si avventurasse nel suo regno: Eracle, raffigurato a sinistra dell’altare, sta per diventare la prossima vittima. Un servo egiziano sta, infatti, stringendo una corda al suo polso mentre, sul retro del vaso, altri servi preparano il necessario per il sacrificio portando un ceppo da macellaio con due grandi coltelli, altri versano acqua in un calderone e portano dolci e vino su un vassoio. La storia avrà però il lieto fine di prammatica: Eracle si libererà e ucciderà il re Busiride, mettendo fine, da vero eroe culturale, alla barbarica pratica del sacrificio umano. Il vaso mostra uno dei caratteri tipici del Pittore di Dario che sui suoi vasi raffigurò spesso miti ed episodi di storie poco frequenti, attingendo certamente al repertorio teatrale a lui contemporaneo. BIBLIOGRAFIA: VON BOTHMER 1985, p. 38; VON BOTHMER, ANDERSON 1985, pp. 8-9; A.F. Laurens, s.v. BOUSIRIS, in LIMC, III/1, 1986, p. 148, n. 4, III/2, p. 126.
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52. Loutrophoros apula a figure rosse con Perseo e Andromeda
Attribuita al Gruppo della Metopa, ca. 340-330 a.C. H. 87; diam. orlo 26,9 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 84.AE.996 Da scavi clandestini in Italia meridionale
Sul lato principale del vaso è rappresentata la scena clou della saga di Perseo e Andromeda, la bella principessa offerta in sacrificio al mostro marino che devastava il regno paterno (vedi supra il cratere apulo del gruppo di Sisifo n. 43). La fanciulla è legata alla roccia sulla sponda del mare al centro della serie superiore delle figure, mentre ai lati assistono genitori e cortigiani. Nel registro sottostante Perseo combatte col mostro, sulle cui spalle sta un piccolo Eros, annuncio che la storia finirà felicemente con l’amore tra l’eroe vittorioso e l’eroina. Il lato posteriore del vaso presenta un monumento funerario, in forma di colonna ionica sormontata da un kantharos, al quale si avvicinano giovani e donne. Il vaso ha una forma particolare, che unisce le forme dell’anfora a collo distinto e della loutrophoros. Queste ultime, usate per contenere l’acqua del bagno nuziale, si ponevano nelle tombe delle fanciulle nubili e la loro decorazione ha per lo più temi ispirati al mondo femminile. I ceramografi raccolti sotto l’etichetta di “Gruppo della Metopa” – il nome deriva dall’abitudine di dipingere fregi architettonici a metope e triglifi nella decorazione dei naiskoi – furono attivi in Apulia nel terzo quarto del IV secolo a.C. (ca. 350-325 a.C.), operando sotto l’influenza di due dei maggiori maestri apuli, il Pittore di Varrese e il Pittore di Dario. È tipico del loro stile l’uso di colore sovraddipinto, oltre a un modo peculiare di trattare le teste sulle spalle dei vasi e i motivi decorativi. BIBLIOGRAFIA: TRENDALL 1989, p. 85, fig. 182; RVAp, suppl. II, p. 144, n. 18/16g; CVA Getty 4, pp. 1-3, fig. 1, pls. 179-182, 189.1; Handbook 2002, p. 123; K. Schauenburg, s.v. KEPHEUS I, in LIMC, VI/1, 1992, p. 8, n. 10, VI/2, p. 9.
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53. Loutrophoros apula a figure rosse con Pelope e Ippodamia
Attribuita al Pittore del Sakkos Bianco, ca. 320-310 a.C. H. 80; diam. corpo 33,2 Già Museum of Fine Arts, Boston 1988.431 Proveniente dalla Puglia, il vaso è decorato nella parte centrale da una scena raffigurante Pelope e Ippodamia su un carro
Pelope, che nella mitologia greca diede il nome alla regione del Peloponneso, era figlio di Tantalo, che lo uccise e offrì le sue carni agli dei durante un banchetto per mettere alla prova la loro onniscienza, ma gli dei respinsero inorriditi il piatto di carne, punirono Tantalo e riportarono in vita Pelope, riunendo le parti smembrate del suo corpo. Pelope sposò Ippodamia figlia di Enomao dopo aver vinto e ucciso quest’ultimo durante una corsa di carri. Sul lato principale è rappresentata la partenza di Ippodamia: la fanciulla sta con Pelope, con berretto frigio, su una quadriga che avanza verso destra trainata da quattro cavalli bianchi. Sul registro inferiore è una scena di culto presso una tomba: una donna e un giovane nudo, ai due lati di un monumento funerario, sul quale offrono una ghirlanda di rose. Sul lato secondario, simile scena di culto funerario: un giovane nudo e una donna ammantata ai lati di una stele sulla quale stanno uova e altre offerte. Prolifico pittore di vasi di grandi e piccole dimensioni, il Pittore del Sakkos Bianco, attivo a Canosa con un piccolo gruppo di allievi, fu uno dei maggiori artisti apuli del cosiddetto Stile Ornato. BIBLIOGRAFIA: Vase-Painting in Italy 1993, pp. 61, 148-150, n. 69, 3; 189, e a colori, pl. XV; K. Schauenburg, Baltimoremaler oder Maler der weissen Hauben? Zu zwei Krateren in Privatbesitz, AA, 1994, p. 549, note 25; I. Triantis, s.v. PELOPS, in LIMC, VII/1, 1994, p. 286, n. 54.
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54. Cratere a calice apulo a figure rosse con scena di oltretomba
Attribuito al Pittore del Sakkos Bianco, ca. 320 a.C. H. 89; diam. corpo 56 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 77.AE.13 Da scavi clandestini in Italia meridionale
Sul corpo il lato principale di questo monumentale vaso apulo reca una rappresentazione dell’oltretomba; tema e denominazione caratterizzano un gruppo di vasi peculiari dell’area apula centro settentrionale, la Peucezia e la Daunia degli antichi, destinati alle tombe di un ristretto numero di personaggi aristocratici che aveva adottato modelli culturali religiosi macedoni dove compaiono Ade e Persefone così come in alcune famose tombe di Vergina e Lefkadia. Al centro della composizione Ade siede in trono in un edificio che rappresenta il suo palazzo nel regno dei morti. Accanto a lui siede la sposa Persefone (o Kore), da lui rapita e condotta a vivere nel suo regno per metà dell’anno. Intorno alla coppia divina stanno altre figure connesse con l’oltretomba: seduto su una pila di sassi, Hermes (a sinistra in alto) in quanto dio psicopompo (conduttore nell’aldilà delle anime dei morti); dietro di lui, con in mano le sue tipiche torce, è Hekate, la dea dei crocicchi che assisté al rapimento di Persefone. All’estremità superiore destra sta Megara, l’infelice moglie di Eracle, affiancata da due dei suoi figli, le cui bende indicano le ferite inflitte loro dal padre impazzito. Dietro di lei sta Orfeo – il culto orfico era molto diffuso in Apulia e Magna Grecia – il cantore mortale cui fu concesso di tornare dal regno dei morti. Di fronte al palazzo di Ade siedono le Danaidi condannate alla punizione eterna per aver ucciso i loro mariti. Sul collo, inquadrati da una ricca decorazione accessoria, sono i motivi tipici di questa classe di vasi: una corona d’alloro con bacche e rosetta centrale e una testa femminile di tre quarti con in testa il polos, il copricapo cilindrico tipico delle divinità. Il lato secondario del vaso continua a sviluppare il tema della morte, come si conveniva a un oggetto proprio del culto funerario. Un giovane uomo, forse il defunto, siede in un tempietto (naiskos) reggendo in mano un vaso da offerta (phiale); lo scudo dietro di lui lo caratterizza come un soldato. Ai lati del naiskos sono delle donne che portano offerte. Il Pittore del Sakkos Bianco (il nome, coniato dagli studiosi, deriva da un berretto che egli usa spesso per le sue figure femminili), attivo probabilmente a Canosa, operò alla fine del IV secolo a.C. dipingendo sia grandi vasi funerari come loutrophoroi e crateri, sia piccoli contenitori, in particolare kantharoi e oinochoai. BIBLIOGRAFIA: RVAp, suppl. I, pp. 147-148, n. 29 A; E. Keuls, s.v. DANAIDES, in LIMC III/1, 1986, p. 339, n. 12; R. Lindner et al., s.v. HADES, in LIMC, IV/1, 1988, p. 385, n. 125; M. Schmidt, s.v. HERAKLEIDAI, in LIMC, IV/1, 1988, p. 727, n. 15, IV/2, p. 444; CVA Getty 3, pp. 7-8, pls. 133-135. Per la derivazione dell’iconografia dalle tombe macedoni, cfr. A. Pontrandolfo, La pittura parietale e la ceramografia apula come documento della pittura antica, in G. Sena Chiesa, E.A. Arslan (a cura di), Miti greci. Archeologia e pittura dalla Magna Grecia al Collezionismo, Milano, Electa, 2004, p. 47.
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55. Cratere a calice apulo a figure rosse con Fenice e Achille
Pittore del Sakkos Bianco, ca. 320 a.C. H. 103; diam. corpo 56 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 77.AE.14 Da scavi clandestini in Italia meridionale
Lato A. Sul collo, sotto una testa femminile, il tema mitologico del rapimento di Crisippo da parte di Laio. Inoltre motivo di carri e cavalli; Pelope dietro il carro. Sulla faccia dell’ansa destra un’Amazzone in groppa a un cavallo bianco. Sul corpo: in un naiskos stanno Fenice e Achille, protagonisti di un famoso episodio dell’Iliade, allorché l’anziano re di Pilo tenta di convincere l’eroe tessalo, ritiratosi dalla battaglia perché irato con Agamennone che gli aveva sottratto Briseide, a tornare a combattere, un tema evidentemente caro anche a queste aristocrazie indigene dell’Apulia. Fuori, tutt’intorno all’edificio, undici giovani guerrieri assistono alla scena. Lato B. Sul collo, al centro Dioniso, affiancato da due Menadi. Sul corpo: in un naiskos un guerriero siede su un tappeto; alla sua sinistra un giovane versa vino da un’oinochoe in una phiale. Intorno all’edificio sei figure, maschili e femminili stanti e sedute. La quasi perfetta coincidenza di forma e stile suggerisce con tutta evidenza che questo cratere in coppia con il precedente faceva parte del corredo di un’unica tomba, probabilmente canosina. BIBLIOGRAFIA: RVAp II, p. 866, n. 27/26; RVAp suppl. I, pp. 147, n. 3; 182, C (27/26); K. Schefold, s.v. CHRYSIPPOS I in LIMC, III/1, 1986, p. 288, n. 4b, III/2, p. 227; CVA Getty 3, pp. 8-10, pls. 136-139.
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56. Sostegno di mensa (trapezophoros) in marmo con due grifi che sbranano una cerva
Ca. 325-300 a.C. H. 95; lungh. 148 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 85.AA.106 Da uno scavo clandestino, tra il 1976 e il 1978, di una tomba ad Ascoli Satriano (FG)
Come indicano tracce di appoggi sulle ali dei grifoni, questo spettacolare gruppo marmoreo, un unicum di elevatissima qualità, faceva da sostegno di un tavolo, probabilmente collocato come arredo cerimoniale in una delle tombe a camera ipogea della Puglia settentrionale, dove le aristocrazie locali avevano mutuato dai Greci l’uso della tomba monumentale riproducente la casa con i suoi arredi. Come unico elemento di confronto si ricorda che in uno degli ipogei monumentali di Canosa, il Lagrasta I, fu rinvenuta “una grande tavola di marmo con cornice”. Il tema della rappresentazione, due grifoni che uccidono una cerva, ben si confà del resto all’ambito funerario e trova numerosi confronti in placchette, decorazioni metalliche, vasi dipinti, sia greci sia indigeni (cf., ad esempio, G. Andreassi, Jatta di Ruvo. La famiglia, la collezione, il Museo Nazionale, Bari, Edipuglia, 1996, p. 50; G. Sena Chiesa (a cura di), La collezione Lagioia, una raccolta storica dalla Magna Grecia al Museo Archeologico di Milano, Milano, Comune di Milano, 2004, p. 233, n. 173). L’uso del marmo asiatico – se è confermata l’identificazione di questo materiale – apre la strada all’ipotesi che possa trattarsi di un oggetto importato, forse dalla stessa Asia minore dove il tema aveva un’antichissima tradizione o dalla Grecia. Notevole la conservazione della policromia (blu, rosso, vede ocra) che, ad esempio con il particolare del sangue che scorreva dalle ferite della cerva, doveva accrescere il senso di violenza e di barbarica bellezza di quest’oggetto. BIBLIOGRAFIA: VERMEULE 1987, pp. 30-31, fig. 2 a-b; FREL 1994, p. 68; Handbook 1991, p. 23; Masterpieces 1997, pp. 90-91. Il tavolo dell’ipogeo canosino è ricordato in R. Cassano, in Principi, imperatori, vescovi. Duemila anni di storia a Canosa (catalogo della mostra, Bari 1992), Venezia, Marsilio, 1992, p. 218.
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57. Bacino in marmo dipinto con le Nereidi che trasportano le armi di Achille
Ca. 325-300 a.C. H. 30,8; diam orlo 57,2; diam. piede 30 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 85.AA.107 Dalla stessa tomba di cui al n. 56 precedente
Anche quest’oggetto, una lekanìs di marmo con decorazione dipinta, come il precedente, è una rarità assoluta, che prova l’esistenza di una tradizione di vasi marmorei decorativi che sembra quasi anticipare di due secoli la prima produzione neoattica della metà del II secolo a.C. Esso doveva rappresentare per i proprietari un oggetto di gran valore e se ne può supporre, come per il trapezoforo, un uso quale oggetto di prestigio in un ipogeo apulo. La forma coincide infatti con quella del podanipter, un bacino bronzeo a piedi leonini utilizzato per lavare i piedi (e verosimilmente anche le mani) nel banchetto, che ritorna spesso nei corredi delle tombe apule (se ne veda ad esempio l’uso nell’immagine di un deinos apulo della collezione Jatta in RVAp, I, p. 200, n. 67, tav. 64.3). Oltre alla raffinata lavorazione del marmo, modellato al tornio, con i manici scanalati, il fregio a ovuli sul labbro e il piede poggiante su una bassa colonnina a zampe feline, un elemento di notevole pregio è costituito dalla decorazione dipinta all’interno della vasca. Questa, con il tema iliaco (libro XIX, vv. 1-16) della dea Teti che porta con le sorelle Nereidi le nuove armi di Efesto al figlio Achille, era molto popolare nel mondo apulo (vedi la pelike precedente n. 46 con il compianto di Achille per Patroclo). Gran parte degli altri vasi rinvenuti nella tomba (un cratere, tre oinochoai, quattro epichyseis, una loutrophoros) sono non funzionali, come i vasi marmorei sulle tombe ateniesi; e pertanto, se il corredo è frutto di un unico acquisto, forse lo stesso è vero anche di questo bacino, tanto più che la delicata pittura a tempera mal avrebbe sopportato il contatto con l’acqua. E tuttavia il tema pittorico è quanto mai coerente con la forma: la dea naviga infatti in tondo con due sorelle sulla groppa rispettivamente di un ippocampo e due ketoi, portando lo scudo, la corazza e l’elmo dell’eroe; il pittore è riuscito a catturare e a trasmettere col colore il senso di vitalità delle creature marine sicché in trasparenza avrebbero potuto apparire veramente in atto di nuotare se il bacino fosse stato riempito d’acqua: blu profondo per i corpi con contorni rossi e macchie bianche per le luci. BIBLIOGRAFIA: VERMEULE 1987, p. 32, fig. 3a-b; Handbook 1991, pp. 22-23; N. IcardGianolio-A.V. Szabados, s.v. NEREIDES, in LIMC, VI/1, 1992, pp. 805-806, n. 287; FREL 1994, p. 68. Per l’uso dei podanipteres nelle tombe apule, cfr. ad esempio nella tomba 2 da Cavallino (Lecce) in F.G. Loporto, St.Ant.L., 7, 1994, p. 70 di fine V sec. a.C.; cfr. per la classe C. Rolley, Bronzes en Messapie, in I Messapi, Atti del XXX Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto-Lecce, 4-9 ottobre 1990), Taranto, Istituto per la storia e l’archeologia della Magna Grecia, 1993, p. 190; C. Tarditi, Vasi di bronzo in area apula. Produzioni greche e italiche di età arcaica e classica, Galatina, Congedo, 1996, pp. 136-137.
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Louis Godart Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica Italiana Nel volume sull’eccellenza del restauro italiano nel mondo si legge: “L’Italia è una potenza mondiale in campo culturale, con un esercito composto, per difetto, da oltre cinque milioni di opere catalogate, da centomila chiese, ventimila centri storici, quarantacinquemila castelli e giardini, trentacinquemila dimore storiche, duemila siti archeologici e tremila cinquecento musei tra pubblici e privati”1. Del resto il nostro Paese è al momento quello con più siti iscritti (quarantuno in tutto) nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Un così ingente patrimonio è minacciato dall’usura del tempo, dalla speculazione edilizia, dai predatori d’arte. Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, attraverso le Soprintendenze, i restauratori e il personale tutto vigila su questi tesori. Le forze dell’ordine, in particolare il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, affiancano efficacemente il Ministero nelle operazioni di salvaguardia della nostra memoria. Lentamente si è fatta strada la consapevolezza che la scomparsa o il degrado di un’opera d’arte sono ferite inferte non soltanto al patrimonio culturale di una nazione ma all’intera umanità. Nella grande sala dell’UNESCO, l’8 marzo 1960, André Malraux pronunciò un discorso per promuovere il salvataggio dei monumenti dell’Alto Egitto minacciati dalle acque della diga di Assuan. L’allora ministro della cultura del generale De Gaulle disse che, per la prima volta nella storia, tutte le nazioni erano chiamate a salvare insieme i capolavori di una civiltà che non apparteneva ad alcuna di loro e aggiunse: “La civiltà degli uomini rivendica pubblicamente l’arte mondiale come suo indivisibile retaggio”. Un’opera d’arte, soprattutto un reperto archeologico, è ammirata non solo per la sua intrinseca bellezza ma anche perché è lo specchio di un’epoca e appartiene a un ambiente culturale e storico particolare. Strappare un’opera al contesto nel quale è inserita, vuol dire renderla irrimediabilmente muta. Per apprezzare appieno un capolavoro, occorre collegarlo al mondo che lo ha visto nascere. Lo sforzo di tutti, archeologi, ricercatori, direttori di musei, deve quindi mirare a ricostruire intorno ad ogni opera d’arte il contesto nel quale è nata ed è stata in seguito depositata. Grazie all’azione condotta dal nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali, istituzioni museali che erano entrate in possesso di capolavori al termine di transazioni puramente mercantili si rendono oramai conto che, nel supremo interesse dell’arte e di tutti coloro che ne sono gli amanti, è indispensabile rispettare leggi e regole precise prima di entrare in possesso di un’opera. È con questo spirito che quattro grandi musei statunitensi hanno firmato un accordo con il nostro Ministero, accettando di restituire all’Italia decine di capolavori dell’arte greco-romana che avevano lasciato clandestinamente il nostro Paese negli anni passati. In cambio l’Italia, consapevole di aver trasmesso all’Europa e al mondo il messaggio civilizzatore di Atene e Roma, si è impegnata a favorire i prestiti di opere, creando così una sorta di immenso spazio museale che vede protagonisti la nostra arte e la nostra cultura. La mostra allestita nella Galleria di Alessandro VII Chigi, in mezzo alle mirabili pitture del 1656-1657 realizzate sotto la direzione di Pietro da Cortona e tornate alla luce dopo quasi duecento anni, non è soltanto la presentazione di 67 capolavori assoluti che tornano in Italia al termine dell’accordo stipulato tra alcune istituzioni museali americane e il Ministero per i Beni Culturali; è anche un evento che segna un cambiamento epocale nei rapporti tra i musei stranieri e il nostro Paese. Abbiamo scelto come manifesto dell’evento e copertina del catalogo la splendida statua di Vibia Sabina, nipote di Traiano e moglie dell’imperatore Adriano, databile al 136 d.C. Non è un caso. Al di là della bellezza della statua stessa, di cui rendono mirabilmente conto le belle immagini di Giovanni Ricci Novara, Vibia Sabina era la sposa di un uomo di Stato che volle porre fine alle conquiste territoriali dell’impero per dedicarsi alla loro gestione e promozione culturale. “Cedant arma togae” potrebbe essere il motto del principato di Adriano ed è un ottimo viatico per la nostra mostra. Alcune delle più straordinarie opere della Magna Grecia e del mondo romano figurano tra i sessantasette capolavori che abbelliscono pro tempore le grandiose sale dell’Ala Sista del Palazzo del Quirinale. Se la loro contemplazione ci commuove, il nostro rimpianto di non sapere nulla o quasi nulla dei contesti archeologici ai quali questi capolavori sono stati distolti ci rammarica
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grandemente e ci spinge a lottare strenuamente, insieme a tutti coloro che hanno a cuore il patrimonio culturale dell’umanità, per contrastare l’operato di chi per puro amore del denaro cerca di privarci della nostra memoria. Quando stavamo chiudendo il catalogo è giunta la proposta del Ministero della Cultura della Repubblica Ellenica di partecipare alla mostra con il prestito di una splendida Korè arcaica, uscita clandestinamente dal territorio greco e recuperata grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Il problema della salvaguardia del patrimonio archeologico e artistico investe drammaticamente tutti i Paesi che affondano le loro radici nella storia, in particolare i Paesi del Mediterraneo. Troppo spesso i loro monumenti sono stati squartati e depredati, i loro siti archeologici visitati da “tombaroli” di professione e il frutto di queste razzie ha contribuito a riempire molti musei stranieri. L’indispensabile alleanza tra tutti i Paesi di antica storia, di cui questa mostra offre una testimonianza tangibile, apre una nuova pagina nella tormentata avventura dei recuperi dell’arte rubata.
Note al testo 1
L’eccellenza del restauro italiano nel mondo, a cura di Giuseppe Proietti, Roma 2005, p. 1.
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Giuseppe Proietti Segretario Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Una serie di recenti accordi culturali ha aperto una via di importanza storica nella cooperazione fra alcuni dei più importanti musei statunitensi e il sistema dei musei italiani di antichità. Gli accordi prevedono che esperti statunitensi ed esperti italiani possano condurre, insieme, campagne di scavo sui siti archeologici d’Italia; che possano, insieme, studiare i materiali archeologici recuperati dagli scavi o conservati nei depositi dei musei italiani, che possano restaurarli e procedere alle loro edizioni scientifiche; che possano, ancora, esporli nei musei statunitensi. Per la prima volta sarà così possibile mettere a sinergia le grandi potenzialità della ricerca statunitense nel settore delle antichità, in una cornice coordinata e attraverso un programma integrato idoneo a superare le pur notevoli iniziative episodiche del passato, nelle diverse fasi che vanno dalle esplorazioni sul terreno alle analisi di laboratorio, alla presentazione al mondo degli studiosi, alla fruizione da parte del pubblico. Gli accordi prevedono, inoltre, il recupero ai loro contesti storici, in Italia, di alcune opere d’arte antica di cui erano stati privati con grave danno alla scienza degli studi archeologici; e, nello stesso tempo, che i musei italiani possano concedere in prestito a quelli statunitensi singole opere o parti delle loro collezioni anche per periodi di lunga durata. La consapevolezza, da parte dei responsabili dei musei statunitensi e italiani, della propria piena appartenenza al consesso scientifico internazionale e alla Comunità civile dei Popoli, le azioni delle Autorità giudiziarie e investigative e degli esperti italiani, nonché degli organi di informazione e più in generale, dell’opinione pubblica internazionale, hanno fatto sì che il Palazzo del Quirinale potesse ospitare nella mostra romana i primi segni tangibili del risultato degli accordi raggiunti. E che, contestualmente, il Metropolitan Museum di New York potesse far ammirare al suo pubblico la splendida Kylix laconica del Pittore del Tifone del Museo romano di Villa Giulia e che il Boston Museum of Fine Arts ospitasse nelle sue sale la monumentale Eirene marmorea da Palombara Sabina. È certamente un avvio, questo, che lascia bene sperare per il futuro.
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ARTE ROMANA
58. Statua in marmo di Tyche
Metà del I secolo d.C. H. 84,5; diam. base 19,4 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AA.49 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
La figura femminile è identificata come la Tyche (la Fortuna, in latino) di una città dalla corona turrita. Nata dalle costole di una divinità minore del pantheon classico (Cicerone ricorda un Tychaion a Siracusa non posteriore all’inizio del V sec. a.C.: Verr., II, 4 119), la Tyche cittadina è una creazione tipica del periodo ellenistico e come tale fu onorata con statue in molte città, soprattutto in quelle di nuova fondazione. Probabilmente questa statuetta, indubbiamente utilizzata come decorazione di una ricca casa di età romana, deriva da una di queste statue ellenistiche, ma è agevole riconoscere il prototipo nelle Cariatidi dell’Eretteo. La mancanza delle braccia e degli attributi – nella mano sinistra probabilmente, come si può desumere dal tipo di abrasione e dal foro per l’aggancio del pezzo mancante, era una cornucopia e nella destra, forse, un timone, mentre alle orecchie restano i fori per dei veri orecchini e altri nel velo che scende dal capo indicano che vi era attaccata una collana – impedisce di specificare l’identificazione con maggiore dettaglio. BIBLIOGRAFIA: Passion for Antiquities 1994, pp. 237-240, cat. n. 120, ill. p. 198; GROSSMAN 1997, pp. 18-19, n. 8; Handbook 1997, p. 24.
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59. Frammento di decorazione parietale ad affresco: lunetta con maschera e attributi di Ercole
II stile “pompeiano”, ca. 50-30 a.C. H. 61; largh. 81 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AG.171 Da scavi clandestini in una villa nell’area vesuviana
L’inquadratura architettonica, con una lunetta raffigurata prospetticamente sostenuta da mensole figurate a zampe feline e coperta da una volta a cassettoni, è tipica della decorazione della parte superiore dei piccoli biclini di II stile pompeiano. Nel campo della lunetta è posata una grande maschera teatrale di Ercole con il copricapo a pelle leonina, la clava, un mazzo di foglie di pioppo (l’albero sacro all’eroe), una pelle di leone e un arco con la faretra (la sua arma tipica). Lo stile sembra piuttosto vicino a quello del pittore della villa di Oplontis A (cosiddetta villa di Poppea), il che trova puntuale riscontro nella notizia di provenienza. BIBLIOGRAFIA: Passion for Antiquities 1994, pp. 251-252, cat. n. 126; C. Renfrew, Loot, Legitimacy and Ownership, Duckworth Debates in Archaeology, London, Duckworth, 2000, pp. 28-30; J. Ascherl, Das Licht in der pompejanischen Wandmalerei, Regensburg, S. Roderer, 2002, n. 207.
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60. Frammento di volto di statua in avorio
Seconda metà del I secolo a.C. H. 22
Non sappiamo a quale divinità (Giunone, Apollo) appartenesse la bella testa e alcuni frammenti della statua eburnea rinvenuti dai clandestini nel 1994 presso Roma. La qualità raffinatissima dell’esecuzione e il volto dai lineamenti classicheggianti, con i caratteri stilistici del IV secolo a.C., avevano fatto supporre che si potesse trattare di una statua di età greca, per la quale si era fatto il nome di Euphranor di Corinto, un famoso scultore del IV secolo a.C. L’esame radiometrico al carbonio 14 ha permesso tuttavia di datare la scultura al I sec. a.C., suffragando l’ipotesi che si tratti dell’opera di una bottega tardo ellenistica che operava per una committenza di altissimo prestigio, probabilmente a Roma. Scavi successivi effettuati dalla Soprintendenza sul luogo del ritrovamento, identificato dai Carabinieri, presso Anguillara Sabazia, un poggio del comprensorio del lago di Bracciano non distante dalla via Clodia che collegava Roma con l’Etruria meridionale, hanno messo in luce i resti di una grande villa romana a terrazze della cui pars urbana la statua in esame doveva costituire un importante elemento decorativo. D’altra parte, già intorno al 150 a.C. Catone il Vecchio condannava le ville e le case decorate con avorio, oltre che con legno di cedro e pavimenti punici (Catone in Festo, 282 L), e i resti della sola altra grande statua eburnea rinvenua in Italia, un’Atena oggi ai Musei Vaticani, provengono da una villa in Sabina di un importante senatore, C. Bruttius Praesens, vicino all’imperatore Adriano. BIBLIOGRAFIA: L. Del Buono (a cura di), I volti del mistero, Catalogo della mostra, Roma, Quirinale, 20 gennaio-20 marzo 2005, Bologna, FMR, 2005.
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61. Busto maschile in marmo
Ultimo quarto del I secolo a.C. H. 32,7; largh. 15 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 85.AA.265 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Il ritratto raffigura un uomo, forse un magistrato di età matura. La testa è volta leggermente a destra. I capelli, resi a corte ciocche irraggiantesi dal centro della testa, sono tagliati corti e sono rialzati sulle tempie. I canoni formali, con le sopracciglia solcate, rughe intorno agli occhi e una curva nelle guance, gli occhi infossati, il naso prominente, le labbra carnose, sono tipiche dello stile realistico del periodo repubblicano, ma lo stile (taglio degli occhi, modellato delle guance) si accorderebbe meglio con opere della fine del I secolo a.C. Nonostante la caratterizzazione, il volto resta tuttavia alquanto inespressivo. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1985, JPGMJ, 14, 1986, pp. 181-182, n. 7.
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62. Frammenti di una decorazione parietale
Dal suburbio di Pompei; III stile “pompeiano”, 35-45. d.C. (Bastet-de Vos); 42-62 d.C. (Ehrardt) H. 59,5, largh. 83; h. 55, largh. 81; h. 28, largh. 23; h. 10,5, largh. 12; h. 19,5, largh. 17 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 71. AG.111.1, 4, 5, 6, 7
I cinque frammenti sono riconducibili a una bella decorazione parietale della fase finale del cosiddetto III stile pompeiano, pertinente alla parete orientale dello spogliatoio delle terme di una piccola villa rustica posta poco a nord del lato settentrionale delle mura di Pompei. In questa fase ornamentale si abbandonarono le tendenze all’illusionismo prospettico del II stile (vedi la lunetta affrescata n. 59), e si considerò la parete quasi come un tappeto bidimensionale nel quale i colonnati e le altre membrature architettoniche diventarono calligrafici ornati miniaturistici che scandivano la parete in campi uniti dipinti a colori squillanti, rosso, nero, con preziosi dettagli in altre tinte vivacissime. Tre dei frammenti sono contigui e appartengono al lato sinistro della zona superiore della parete (si riconosce in uno il profilo di un finestrino circolare che si apriva in alto a mezzo del muro). I frammenti maggiori conservano il tipico partito architettonico a edicole, ormai molto stilizzate e appiattite, che caratterizza la zona superiore negli schemi decorativi di questa fase. Caratteristici sono altresì gli ornati floreali dei fregi, e i motivi acroteriali a volute, a cigno e a grifone e la colonna istoriata che attraversava tutta la zona mediana e superiore reggendo sul capitello un tripode. Alcuni motivi particolari, come gli acroteri a due volute o la ghirlanda con un capo pendente, che attraversa lo spazio delle edicole, lasciano ipotizzare che si tratti di un’opera, sia pure di minore impegno, della stessa bottega di decoratori della casa pompeiana di Marco Lucrezio Frontone (V, 4, 11), uno dei più celebri esempi di questo stile, e del triclinio della casa VI, 14, 40 nella stessa città. Gli altri due frammenti minori appartengono alla stessa parete: l’uno, con la mascherina gorgonica applicata su un nastro decorato, ad uno dei motivi verticali che dividono simmetricamente i due campi laterali ai lati della colonna istoriata della zona centrale; l’altro, la bugna quadrata a fondo nero con fiore reso a petali circolari bianchi, allo zoccolo di cui costituiva l’elemento centrale. BIBLIOGRAFIA: M. della Corte, Altra villa rustica, esplorata dal sig. Giovanni Di Palma, nel fondo “Agricoltura” di sua proprietà, in contrada Pisanella, comune di Boscoreale, l’anno 1906 (giorni 15) e l’anno 1908 (mesi 6), NSc, 1921, p. 461 ss.; p. 465, fig. 3; F. L. Bastet, Villa rustica in contrada Pianella, “Cronache Pompeiane”, II, 1976, p. 112 ss.; F. Bastet, M. de Vos, Proposta per una classificazione del terzo stile pompeiano, Archeologische Studiën van het Nederlands Instituut te Rome, IV, ‘s-Gravenhage, Staatsuitgeverij 1979, pp. 68-69, e p. 206, tav. XXXIV, 62; W. Ehrardt, Stilgeschichtliche Untersuchungen auf römischen Wandmalereien von der späten Republik bis zur Zeit Neros, Mainz, von Zabern, 1987, pp. 114-115.
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63. Frammento di decorazione parietale
Dal suburbio di Pompei; III stile “pompeiano”, 35-45. d.C. (Bastet-de Vos); 42-62 d.C. (Ehrardt) H. 38; largh. 42,5 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 71. AG.111.3
Nel frammento si scorge un tratto di edicola vista di scorcio con una colonnina istoriata e una a fusto vegetale spiccante da un bulbo in primo piano; proviene dalla parte destra della zona superiore di una parete della stessa villa dei frammenti precedenti, probabilmente una parete lunga dello stesso apodyterium. I motivi architettonici ritornano in forme molto simili nella zona superiore, a fondo bianco, dell’esedra 11 dello stesso complesso. BIBLIOGRAFIA: cfr. i frammenti precedenti al n. 62; per l’esedra 11, cfr. F. Bastet, M. de Vos, Proposta per una classificazione del terzo stile pompeiano, Archeologische Studiën van het Nederlands Instituut te Rome, IV, ‘s-Gravenhage, Staatsuitgeverij, 1979, pp. 68-69, e p. 206, tav. XXXIV, 61.
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64. Statuetta bronzea di Vittoria con trofeo Da Ercolano, casa del Colonnato Tuscanico, ca. 50-79 d.C. H. 16,2 Soprintendenza Archeologica Pompei, inv. E 2246; rubata il 23-24 luglio 1975 Già Royal Athena Galleries, New York
La statuetta, certamente un’applique, data la presenza di punti di ancoraggio nella parte posteriore, di fattura sommaria, rappresenta una Vittoria in volo, vestita di chitone, che regge nelle mani una cornucopia, probabilmente un trofeo. Un oggetto simile era già testimoniato a Ercolano (Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 5263); il rinvenimento, in associazione, sia pure secondaria in un cunicolo borbonico, nell’area del cubicolo 11, con una di quelle figure di cavaliere barbaro che decoravano i baltei delle corazze o i bordi delle quadrighe, fa ipotizzare che in origine la statuetta facesse parte della decorazione di una statua in bronzo collocata nell’area del Foro. Il tema della Vittoria ebbe grande fortuna nella prima epoca imperiale, in particolare sotto i Flavi: vedi la decorazione pittorica della cosiddetta Schola Armaturarum di Pompei, III, 3,6 (A. de Vos, Pompei. Pitture e Pavimenti, in Supplemento a EAA, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1991, pp. 392-405, figg. 4-18). BIBLIOGRAFIA: G. Cerulli Irelli, La casa “del Colonnato Tuscanico” ad Ercolano, “Memorie dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli”, VII, Napoli, L’arte tipografica, 1974, p. 111, fig. 78.
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65. Statuetta in marmo di Dioniso con capro
Ca. 50 d.C. H. 62,3; base: 17,3 x 17,5 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AA.211 Da scavi clandestini in Italia
Dioniso, il dio del vino, ci sta davanti e ci rivolge un sorriso enigmatico; indossa un’elaboratissima veste a pesanti pieghe e sul capo porta una corona di foglie e grappoli d’uva; la barba pettinata accuratamente è raccolta sulla punta in uno chignon. Nella mano destra perduta il dio teneva forse la coppa del simposiasta, il kantharos. Con l’altra prende la zampa di un animale, forse la capra del suo sacrificio tipico che si solleva appoggiandosi alla gamba del dio. La statua, di piena età imperiale, è eseguita nello stile arcaistico, che riproponeva manieristicamente ai colti aristocratici romani, desiderosi di grecità e sazi di classicismo, i modi dell’arcaismo greco. Ma i valori culturali, sociali e religiosi, di quell’epoca erano per sempre irrecuperabili da parte degli acquirenti di queste statue, che le utilizzavano come puri ornamenti nei giardini delle loro ville, mescolate ad altre di diversa intonazione stilistica. BIBLIOGRAFIA: Passion for Antiquities 1994, pp. 339-341, cat. n. 179; Handbook 2002, p. 158. Molto simile per gusto è la testa attribuita a un Priapo conservata al Museo dei Conservatori in Campidoglio (E. Paribeni, s.v. PRIAPO, in EAA, VI, p. 467, fig. 525).
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66. Statua di Apollo in marmo in stile arcaistico
Prima metà del II secolo d.C. H. 146 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 85.AA.108 Da scavi clandestini in Italia meridionale
Apollo, il dio della musica, della medicina e della profezia è qui rappresentato come un giovane stante in piedi nudo salvo un mantello sulle spalle e una benda annodata sulla testa. La mancanza delle braccia non consente di identificare gli attributi del dio, forse l’arco e le frecce. Accanto al piede sinistro restano i fianchi e le penne delle ali di un grifone, l’uccello mitico a lui sacro. La minor cura con cui è lavorato il retro indica che si tratta di una statua destinata a essere inserita in una nicchia. La statua è eseguita, come il Dioniso precedente, nello stile arcaistico di moda in età romana e riprende, dal punto di vista formale e iconografico, i caratteri di una scultura degli inizi del V secolo a.C.; l’esecuzione delle ciocche della pettinatura indica una data di esecuzione nel periodo adrianeo. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1985, JPGMJ 14, 1986, p. 181, n. 6; VERMEULE 1987, pp. 27-30, fig. 1; FREL 1994, p. 68; Masterpieces 1997, pp. 116-117; Handbook 2002, p. 172.
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67. Statua in marmo di Vibia Sabina
II secolo d.C. H. 204 Già Museum of Fine Arts, Boston, Classical Department Exchange Fund, 1979 1979.556
La statua rappresenta, nel tipo iconografico detto della “Grande Ercolanese”, con l’himation che le copre il capo e un lungo chitone, l’imperatrice Vibia Sabina, moglie dell’imperatore Adriano e nipote di Traiano. Questi la diede in sposa ancora giovanissima – era nata nell’85 d.C. – al suo successore designato per consolidarne la legittimità dinastica già stabilita con l’adozione. Frequente accompagnatrice del marito nei suoi viaggi, fu di carattere austero e poco adatto alla mentalità innovativa di Adriano che la definiva “capricciosa e fiera” (morosa et aspera: Historia Augusta, Vita Hadriani, 11, 3). La statua proviene forse da villa Adriana a Tivoli, dove costituiva probabilmente una delle immagini onorarie destinate a celebrare i membri della famiglia imperiale. L’immagine, dai tratti del volto idealizzati, potrebbe essere stata realizzata dopo la morte dell’imperatrice, avvenuta nel 136 d.C. Seppure esempio un po’ accademico e algido di arte celebrativa della corte imperiale, la statua è interessante per la resa della pettinatura, con i capelli che formano sulla fronte un ampio nodo a diadema, che ricorda alla lontana le acconciature delle Afroditi ellenistiche. BIBLIOGRAFIA: C.C. Vermeule, America: Masterpieces in public collections in the United States and Canada, Berkeley, University of California Press, 1981, n. 270; M. Wegner, Verzeichnis der Bildnisse von Hadrian und Sabina, “Boreas”, 7, 1984, p. 146; C.C. Vermeule, Faces of Empire (Julius Caesar to Justinian), Part IV- Hadrian and the Antonines, “Celator”, vol. 19, n. 12, December, 2005, pp. 26 (fig. 6), 27.
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68. Kore in marmo
Officina dell’isola di Paros, ca. 530 a.C. H. max. conservata 72 Atene, Museo Archeologico Nazionale; già J. Paul Getty Museum, Malibu, L.91.AA.53
La statua, di grandezza quasi naturale nella sua dimensione originaria, è scolpita in marmo pario. Il braccio destro dal gomito in giù era inserito a parte. Veste un chitone manicato che solleva con la mano sinistra e un chitone ionico obliquo che si appoggia sulla spalla destra, decorato con rosette a rilievo. I dettagli delle ciocche dei capelli e delle vesti l’avvicinano a opere analoghe trovate a Paros, come la statua di culto di Artemide Delia e la kore del Metropolitan Museum di New York, come pure a opere attribuite a officine parie, come la cariatide del Tesoro dei Sifni a Delfi. Tali elementi forniscono indicazioni sicure per un’attribuzione alla produzione di Paros intorno al 530 a.C. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1993, JPGMJ, 22, 1994, p. 59, n. 1; Masterpieces 1997, p. 34; Handbook 2002, p. 15; K. Karakasi, Archaic Kore, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, 2003, pp. 82-89, pl. 82 a-b, 83 c-d.
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Il Ministero della Cultura della Grecia ha richiesto al J. Paul Getty Museum fin dal 1995 la restituzione di quattro reperti archeologici, tra i quali questa statua marmorea di kore. Nel corso degli anni il Ministero della Cultura ha tentato la ricerca di una soluzione attraverso le vie diplomatiche, e queste alla fine hanno prodotto risultati positivi. Si era già ottenuto il rimpatrio di una stele dalla Beozia e di un frammento di rilievo da Thasos. Nel dicembre del 2006, dopo trattative durate molti mesi, il Direttore del Museo, Michael Brand, ha inviato una nota all’allora Ministro della Cultura, Gheorghios Voulgarakis con la quale comunicava la decisione del J. Paul Getty Museum di restituire alla Grecia la corona aurea macedone e la kore arcaica. Dopo la firma di un accordo al riguardo, la statua della kore veniva rimpatriata il 22 marzo 2007 per essere esposta al Museo Archeologico Nazionale di Atene, dov’è tuttora. Con questa simbolica partecipazione alla mostra di Roma, il Ministero della Cultura della Grecia desidera ringraziare le Autorità italiane per la loro determinante collaborazione ai fini della positiva conclusione delle trattative per la restituzione della scultura.
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Gianfrancesco Siazzu Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri La tutela del patrimonio culturale nazionale, principio fondamentale scolpito nella Costituzione Repubblicana, rappresenta da sempre una delle missioni affidate all’Arma che, sin dal lontano 1969, ha istituito il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. Oggi, il reparto specializzato svolge la funzione di polo d’informazione e d’analisi a favore di tutte le Forze di Polizia in Italia e all’estero. In questa sede, nella quale si celebra il ritorno di importantissimi capolavori del passato che, scavati clandestinamente in Italia, hanno raggiunto depositi di stoccaggio europei per poi approdare oltreoceano, ripuliti fisicamente e commercialmente, desidero evidenziare alcuni aspetti che rendono invero peculiare l’attività condotta dall’Arma in materia. In primo luogo mi riferisco alle modalità operative, che non attengono esclusivamente alle metodologie investigative, per quanto raffinate, né alle sole strumentazioni tecnologiche, per quanto all’avanguardia, ma richiedono altre competenze, quali, ad esempio, la capacità di sapersi inserire nell’articolato mondo dell’Arte e della Cultura e di saperne comprendere gli equilibri e le sfaccettature. Non minore rilievo assume il fine di tali attività, tutte indirizzate alla tutela del patrimonio culturale e quindi, a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio. Un compito così delicato si coniuga felicemente con il concetto di “polizia della comunità”, che caratterizza l’Arma dei Carabinieri nella sua funzione di garanzia della legalità e dell’ordinata convivenza democratica. Sottolineo, infine, che il “ritorno” in Patria di queste splendide vestigia del nostro passato, di inestimabile valore, realizza, soprattutto, un atto altamente etico perché restituisce la legittima fruizione di tali opere alla collettività nazionale e ricostruisce l’oggettivo contesto storico e sociale a cui appartengono. Questa splendida rassegna, promossa con estrema sensibilità dal signor Presidente della Repubblica, accoglie i reperti archeologici rientrati in Italia dai musei statunitensi, presso i quali erano esposti sino a poco tempo fa, e vuole anche testimoniare la tenace dedizione dei militari dell’Arma, che, insieme con l’Autorità Giudiziaria, hanno intercettato e disvelato i tortuosi percorsi del traffico illecito. Particolare riconoscenza desidero esprimere al signor Ministro per i Beni e le Attività Culturali, naturale punto di riferimento del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, per il concreto sostegno costantemente assicurato allo speciale reparto, di cui valorizza autorevolmente l’operato in Italia e in ogni consesso internazionale. Viva e sentita gratitudine esprimo, infine, al Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico del Presidente della Repubblica, Prof. Louis Godart, per il determinante contributo offerto alla realizzazione di questa encomiabile iniziativa culturale ed educativa.
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2007 presso Tecnostampa srl, Loreto - Ancona
Maurizio Fiorilli Avvocato dello Stato
Paolo Giorgio Ferri Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma Com’è noto l’Italia, per la dimensione e diffusione dei suoi tesori, può essere considerata un museo a cielo aperto. Tanta ricchezza ha attirato da sempre l’attenzione della criminalità, favorita sovente da collezionisti e da alcune istituzioni museali di altri Paesi, senza scrupoli e compiacenti ovvero, addirittura, complici rispetto all’illecito traffico di beni culturali provenienti dall’Italia. Sicuramente il fenomeno più devastante e invasivo è quello in danno delle aree archeologiche, ove operano vere e proprie organizzazioni criminali. Queste nel tempo sono state in grado di immettere sul mercato beni culturali in numero elevatissimo, anche di outstanding value. Ed è certo che hanno contribuito a decontestualizzare moltissimi siti archeologici, persi definitivamente alla ricerca scientifica, con un danno culturale irreparabile, proprio perché, com’è noto, trattasi di beni o fonti non-rinnovabili. Ma contro tale fenomeno si può reagire, mutando atteggiamenti a oggi ancora radicati non solo tra i mercanti ma anche tra i curatori e gli esperti. Se, infatti, nessuna attività di inventario e/o banca dati potrà mai catalogare materiale che provenga da scavo clandestino, proprio perché, in quanto tale, sfugge a ogni controllo, tuttavia, proprio l’omessa catalogazione dell’oggetto dovrà essere ritenuto un indice di probabile, illecita acquisizione. La globalizzazione dell’informazione e l’interesse oramai mondiale – talora anche diffuso in ambiti non propriamente scientifici – conducono a ritenere che ogni acquisizione e/o scoperta di un certo rilievo, se legittima, venga doverosamente pubblicata e ancor prima corredata con gli opportuni studi comparativi. In mancanza di tali accertamenti e informazioni, diviene evidente come i reperti archeologici di cui si contesta il lecito possesso siano con buona probabilità di recente e clandestina scoperta. Argomentare contro siffatto modo di dedurre, palesa sicura insensibilità di fronte al problema degli scavi clandestini e non tiene conto delle norme di settore e delle loro finalità. Ma soprattutto richiede una probatio diabolica ingiustificata e molto più severa rispetto a mille altre situazioni ove le cosiddette fanciful probabilities vengono invece puntualmente disattese. Si dovrà quindi affermare che ogni qualvolta il mercato internazionale e/o nazionale venga trattando reperti archeologici di ignota acquisizione e provenienza, le transazioni riguardanti l’oggetto sono e debbono essere ritenute illegittime non solo de jure condendo, ma anche sulla base del diritto positivo. In passato il mercato giustificava le proprie scelte, per lo più sostenendo che ogni politica restrittiva equivaleva a generare e a perpetuare quei nazionalismi culturali, contrari alla circolazione dei beni culturali, intesa come contributo verso il dialogo fra le culture nazionali, essenziale per il progresso dei popoli. Ma se è vero che la cultura non può essere rinchiusa in ambiti esclusivamente nazionali, tuttavia una liberalizzazione intesa come saccheggio o accaparramento è senz’altro da sempre più dannosa. E mentre alla eccessiva regionalizzazione culturale può essere data soluzione con un’attenta politica di scambi e prestiti, alla decontestualizzazione dei beni culturali consegue perdita d’identità, delle radici e, nei risultati, dell’amicizia tra popoli. Il sindacato civile e penale può servire come indubbio momento di riflessione per coloro che in passato hanno acquistato, quantomeno con disinvoltura, beni archeologici di notevole valore, incrementando, con gli elevati prezzi di acquisto corrisposti il traffico illecito, reso più allettante dagli ingenti guadagni conseguiti dalla delinquenza di settore. Sin dal 1995 è stato costituito presso la Procura di Roma un gruppo di magistrati che si occupano dei reati contro il Patrimonio Culturale Italiano. Trattasi di un esempio unico in ambito nazionale e i risultati appaiono essere estremamente positivi, sia in termini di contenimento delle spinte
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delinquenziali in questo settore particolarmente agguerrito, attesi i valori economici interessati dalle condotte criminose, sia per il recupero – grazie anche al fattivo contributo dell’Avvocatura di Stato – di importanti beni culturali, altrimenti destinati a rimanere decontestualizzati e comunque sottratti alla pubblica fruizione. Ma la risposta penale o civile non può offrire soluzione definitiva al problema del traffico clandestino dei beni culturali. Al riguardo sia consentito di segnalare come la legislazione riguardante i beni culturali non sia esente da critiche e anzi è spesso farraginosa e contraddittoria. Occorrerebbe una vera e propria radicale svolta, iniziando a riconsiderare i valori che vengono violati dalle condotte che attentano ai beni culturali. Risulta evidente che una sottovalutazione dei fenomeni criminali in esame all’interno del nostro ordinamento creerebbe sconcerto a livello internazionale ove si apprestano tutele che noi sovente disattendiamo, sia a livello normativo che giurisprudenziale. Va anche ricordata, a questo punto, quella collaborazione per così dire preventiva, a oggi ancora raramente attuata, la quale dovrebbe invece comportare una continua vigilanza da parte delle Autorità di quei Paesi che abbiano ratificato una delle tante convenzioni di settore, le quali, se non espressamente, almeno nelle finalità, impongono un dovere di spontanea denunzia. Il tutto, senza necessariamente attendere le informazioni e gli input dalle Autorità investigative. Si avrebbe così uno sviluppo di quella collaborazione e cooperazione che le norme pattizie medesime sollecitano in ogni passo, per combattere il traffico illecito di beni culturali, vero ostacolo rispetto a quello “understanding between nations” e certo danno al “common heritage of mankind”. Al riguardo si ricorda che, da ultimo, con la dichiarazione UNESCO di Parigi del 17 ottobre 2003 si viene a richiedere non solo una cooperazione tra gli Stati, ma addirittura si stabilisce una sorta di giurisdizione universale avverso “gli atti di distruzione intenzionale del patrimonio culturale che riveste una grande importanza per l’umanità”. Atti dei quali sono responsabili secondo il diritto internazionale anche e direttamente gli Stati che non abbiano preso le “misure appropriate per interdire, prevenire, far cessare e sanzionare ogni distruzione intenzionale di tale patrimonio”. Va anche sottolineato come la collaborazione internazionale in materia di beni culturali divenga necessità sempre crescente. E queste prospettive appaiono veramente incoraggianti e non è escluso che l’attività normativa finisca per consacrare quel principio condiviso da molti che vorrebbero che un bene culturale di difficile attribuzione quanto ad area geografica, venga restituito a quella nazione al cui patrimonio maggiormente si riferisce (si eviterebbero tra l’altro quelle zone grigie di mercato che tanto avvantaggiano la criminalità di settore). Va in conclusione ricordato come il ritorno dei beni culturali nel Paese di origine – o, ancor prima, la loro mancata illecita esportazione – non solo consente alla collettività di recuperare ovvero di conservare parte della propria memoria e identità; ma anche contribuisce a mantenere vivo quel dialogo tra culture che poi è il momento di formazione della storia in un continuo processo di mutuo rispetto tra le nazioni. Vi è di più. Occorre ricordare e sottolineare come i beni culturali abbiano a guadagnare sia sotto il profilo estetico ma soprattutto nel loro intrinseco valore (in beauty and truth): solo se sono inseriti nel loro ambiente naturale e sociale. In altri contesti il bene medesimo perde, per così dire, la sua “anima” e il legame culturale che gli è proprio, rimanendo oggetto solo di valutazioni estetiche. E questo non solo agli occhi del visitatore, ma ancor più dell’esperto: i quali, viceversa, ben potranno soddisfare meglio i loro legittimi interessi culturali e di ricerca nella misura in cui verrà incentivata la pratica dei prestiti, della quale vi è previsione in più fonti normative e da ultimo nei vari e lungimiranti accordi che le Autorità italiane competenti stanno concludendo. Tutte queste pratiche in tanto saranno poi concretamente realizzabili, in quanto abbiano il loro fondamento in una normativa internazionale comune e di base; alla ratifica della quale tutti gli Stati verranno invogliati, se non altro per non rimanere culturalmente isolati, perché fuori dal circuito dei prestiti, degli scambi e delle prelazioni possibili. Con tali prestiti e scambi, inoltre, nessuno, nell’altro versante – quello della criminalità –, potrà pensare di ottenere tutti quei vantaggi economici che oggi ancora accompagnano il traffico dei beni culturali; illeciti profitti che, com’è ovvio, incentivano gli scavi clandestini e/o in genere le condotte di decontestualizzazione, con tutti quegli scempi a cui quotidianamente possiamo assistere.
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Attività illecita che poi, com’è statisticamente dimostrato, accresce gli appetiti non solo di coloro che trafficano in opere d’arte vere, ma anche di quel settore della criminalità che, sfruttando l’elevata domanda, propone contraffazioni e falsi sempre più perfetti e in maniera sempre più abbondante. E sia consentito segnalare come stia, seppure lentamente, cambiando la sensibilità e l’opinione internazionale rispetto ai problemi connessi alla circolazione illecita dei beni culturali; e come ai processi di armonizzazione si siano affiancati quelli di assimilazione tra i differenti ordinamenti, grazie a quelle valutazioni delle norme imperative dei Paesi di origine rispetto al bene oggetto di controversia. Non è perciò del tutto avventato prevedere in materia il risultato finale dell’unificazione che è poi creazione di un’uniforme legislazione.
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Michael Brand Direttore del J. Paul Getty Museum Dal momento in cui ho assunto la direzione del J. Paul Getty Museum nel dicembre del 2005, ho dato la priorità assoluta alla soluzione del problema relativo alle rivendicazioni di opere facenti parte della nostra collezione di beni antichi. In virtù della diretta opera di ricerca da parte del Getty Museum nonché della presentazione da parte del Governo italiano di nuovi elementi di prova, abbiamo convenuto che è giusto che queste 40 opere d’arte ritornino in Italia. Questa mostra allestita presso il Palazzo del Quirinale, che comprende questi importanti manufatti di straordinaria bellezza, segna l’epilogo di questo processo e inaugura una nuova era di cooperazione tra il Getty Museum e l’Italia. I reperti che in precedenza appartenevano alla collezione del Getty Museum sono stati custoditi con estrema cura dai nostri curatori e conservatori per molti anni. Ciascuno di questi manufatti ha occupato una posizione di rilievo nelle nostre gallerie della Villa Getty a Los Angeles, un museo d’arte unico realizzato sul modello della Villa dei Papiri di Ercolano. I suoi numerosi visitatori, provenienti sia dagli Stati Uniti che dal resto del mondo, ne sentiranno profondamente la mancanza. Questa mostra si presenta come una pietra miliare nel complesso dibattito internazionale sul patrimonio culturale. Essa testimonia il profondo sforzo dell’Italia e di altri Paesi per combattere il traffico illecito di beni antichi, processo favorito anche dalla rigorosa politica adottata dal Getty Museum nell’ottobre del 2006 a proposito delle nuove acquisizioni. Nonostante il naturale senso di perdita che genera, questa è pur sempre un’occasione da celebrare per il Getty Museum. Il ruolo che queste opere ricoprivano alla Villa Getty, narrando da un punto di vista visivo e tematico la storia di dei e dee, di meravigliose creature mitologiche, di antichi drammi e commedie, di donne e di bambini dell’antica Grecia, di Roma e dell’Etruria, sarà ora interpretato da capolavori concessi in prestito al Getty Museum dal Governo italiano. Questo generoso programma di prestiti a lungo termine su base quadriennale servirà a rafforzare la nostra capacità di educare i visitatori della Villa esibendo loro nuovi capolavori italiani in modo continuativo. Una delle principali missioni dei musei d’arte in tutto il mondo è quella di sviluppare le proprie collezioni e offrire esempi del nostro patrimonio culturale condiviso alla portata del pubblico più ampio. Considerando il ruolo che attende il museo per il futuro, siamo certi che l’esperienza dei visitatori sarà accresciuta non soltanto da nuove acquisizioni, ma anche dal frutto dei rapporti di collaborazione con colleghi di tutto il mondo fondati sulla fiducia e la comprensione reciproca. A nome del J. Paul Getty Museum desidero ringraziare il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, per aver messo a disposizione questo illustre scenario ove esibire i capolavori restituiti all’Italia, e il Ministro Italiano per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli, per l’opportunità che il nostro accordo offre di porsi come esempio per un futuro pieno di speranze e nuove prospettive.
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Philippe de Montebello Direttore del Metropolitan Museum of Art Il Metropolitan Museum of Art apprezza la cura con la quale le opere dell’antichità, di cui l’Italia chiede la restituzione ai sensi delle disposizioni di legge sui beni culturali vigenti nel Paese, vengono esposte a beneficio di un vasto pubblico presso il Palazzo del Quirinale a Roma. È fondamentale che il patrimonio artistico e culturale dell’umanità rimanga accessibile a tutti, per essere compreso e apprezzato con un senso di meraviglia, scevro da qualsiasi questione legale. Una mostra di questo tipo serve a ricordarci che condividiamo un patrimonio comune e un sentimento di deferenza per le realizzazioni artistiche di alto livello, i quali non potranno che unirci, anziché allontanarci, in futuro. Il Metropolitan Museum of Art intende continuare – e rafforzare – la sua attuale collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali per il progresso della conoscenza, sostenuto da un eccellente livello di professionalità.
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Malcolm Rogers Direttore del Museum of Fine Arts di Boston Il Museum of Fine Arts è lieto di collaborare con l’Italia nella messa a punto di metodologie aventi per finalità lo scambio culturale. Nel settembre del 2006, il museo ha trasferito tredici pezzi antichi all’Italia, siglando un accordo senza precedenti con il Ministero per i Beni Culturali italiano. La partnership con lo Stato italiano prevede il prestito da parte italiana di opere d’arte di grande pregio al Museum of Fine Arts, perché siano esposte nell’ambito di uno speciale programma di mostre; l’accordo istituisce altresì un meccanismo in base al quale MFA e Stato italiano si scambieranno le informazioni relative alle proposte di future acquisizioni di antichità italiane da parte del museo e prevede una collaborazione negli ambiti dell’assegnazione di borse di studio per la conservazione, le indagini archeologiche e la programmazione di mostre. Questo storico accordo ha già prodotto frutti importanti. Nel novembre del 2006, il Vice Presidente del Consiglio e Ministro per i Beni e le Attività Culturali Francesco Rutelli si è recato a Boston con una delegazione di rappresentanti italiani. Ne sono scaturiti i primi prestiti destinati alle nostre gallerie. Il Museum of Fine Arts è stato il primo museo a restituire alcuni oggetti all’Italia e, in cambio, ha per primo ricevuto un prestito dallo Stato italiano. Si tratta dell’Eirene, una statua in marmo della Dea della Pace, risalente alla prima metà del I secolo d.C., che verrà esposta nella galleria del MFA dedicata al Mondo Antico fino alla primavera del 2009. La statua, di altezza superiore al metro e settanta, fu rinvenuta per caso nel 1986 nel corso di attività agricole nella zona di Palombara Sabina; nel luogo del ritrovamento sono poi stati condotti degli scavi archeologici che hanno consentito di approfondire la conoscenza della storia della zona. La testa e il busto della statua furono realizzati separatamente: la testa durante l’Età Augustea, alla fine del I secolo a.C., e il busto nell’età Giulio-Claudia, nella prima metà del I secolo d.C. In Italia, la testa e il busto erano stati esposti separatamente, mentre il conservatore del MFA ha riunito le due parti per la prima volta. L’Eirene è una rappresentazione calzante della nostra collaborazione e le è stata data adeguata visibilità nelle gallerie del Museo. Inoltre, il Ministero ci ha aiutato molto ad ottenere prestiti da altre istituzioni italiane per la nostra mostra “Tintoretto, Tiziano, Veronese”, che verrà inaugurata nel 2009. Abbiamo inviato due studiosi in Italia – uno con una borsa di studio dell’Accademia Americana e uno grazie a un Premio della città di Roma – e stiamo studiando con il Ministero la possibilità di accogliere due borsisti italiani a Boston. Cosa forse ancora più importante, abbiamo posto in essere un meccanismo di indagine sulle nuove acquisizioni future, che ci consentirà di ottenere antichità italiane essendo certi di avere il nulla osta delle autorità italiane per un’acquisizione legittima e responsabile. Ritengo che il nostro sodalizio – oggi pienamente operativo – sancisca due principi fondamentali. Innanzitutto, che gli scavi illegali sono deplorevoli. In secondo luogo, che i musei hanno la responsabilità di tutelare e garantire pubblico accesso al patrimonio artistico dell’umanità. Il nostro accordo prova che i due principi suddetti non sono necessariamente conflittuali: è possibile esporre i prodotti artistici di tutte le civiltà nei musei d’arte badando a non incoraggiare gli scavi e i traffici illeciti.
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Susan M. Taylor Direttore del Princeton University Art Museum Il Princeton University Art Museum partecipa a questa mostra che celebra l’accordo siglato con lo Stato italiano e apre la strada a una futura collaborazione. L’esposizione al Quirinale di opere d’arte appartenenti a collezioni di musei americani costituisce una pietra miliare nelle relazioni culturali tra i due Paesi. È stata resa possibile grazie all’impegno e alle energie profuse dal Governo italiano e dai musei americani per trovare una soluzione soddisfacente a una delle questioni culturali più spinose dei nostri tempi. La mostra sarà non soltanto un’occasione per esporre opere restituite all’Italia, per risolvere complesse questioni proprietarie, ma anche l’inizio di futuri scambi di oggetti provenienti dai due Paesi, che avranno un notevolissimo impatto culturale sul pubblico delle due nazioni. Un accesso agevole e costante agli originali è essenziale per le attività scientifiche e didattiche di un museo universitario. Questo nuovo capitolo della collaborazione internazionale si fonda sull’impegno per la promozione della ricerca e l’accessibilità alle opere da parte delle generazioni future di studenti della Princeton University. Il nostro accordo accrescerà le capacità formative di esperti e archeologi della nostra Università, i quali perpetueranno la tradizione di collaborazione culturale con lo stesso entusiasmo dimostrato oggi nel raggiungere l’intesa con i colleghi italiani. Il Princeton University Art Museum desidera cogliere quest’occasione per esprimere la propria gratitudine al Governo italiano e ringraziare in particolare il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli per aver reso possibile questa collaborazione, volta al raggiungimento di un accordo su questioni di notevole rilevanza. Ringraziamo altresì tutti i nostri colleghi del Dipartimento per la Ricerca, l’Innovazione e l’Organizzazione e ci uniamo ai festeggiamenti degli Italiani per il rientro nel Paese di oggetti d’arte importantissimi per il loro patrimonio culturale.
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L’arte rubata Fabio Isman L’esposizione che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ospita nel Palazzo del Quirinale, conferendole così maggiore visibilità e solennità, non solo propone sessantotto bellissimi reperti archeologici (spesso assai preziosi, perché assolutamente unici al mondo), permettendo per la prima volta d’ammirarli in Italia quantunque facciano parte delle nostre “radici”, del nostro passato, e provengano dal sottosuolo della Penisola; ma soprattutto, chiude e archivia una pessima stagione, per chiunque abbia a cuore l’arte e la cultura: quella della Grande Razzia, che è durata circa 30 anni. I suoi protagonisti sono stati chiamati “predatori dell’arte perduta”, in facile assonanza con un film giustamente famoso; ora, è forse il caso di cominciare a correggersi: predatori dell’arte perduta e ritrovata, restituita, ritornata. Sono un folto gruppo di persone («ho indagato almeno 2.500 soggetti», dice il sostituto Procuratore della Repubblica di Roma Paolo Ferri), che, dal 1970 circa ai primi anni 2000, hanno depredato tanti bacini archeologici del nostro Paese d’incommensurabili ricchezze: specialmente al centro e al sud, ma anche nelle due isole maggiori. I “predatori” sono uniti come in una catena. I “tombaroli”, scavatori clandestini e di frodo, vendono i reperti ritrovati a mediatori e trafficanti internazionali, che li cedono a celebri mercanti d’archeologia stranieri. Gli acquirenti finali sono invece una trentina dei più importanti musei europei, americani e giapponesi, e di ricche collezioni private, formate o cresciute nel dopoguerra. Confidando anche (ma non sempre) in dichiarazioni di provenienza fittizie e impossibili da riscontrare, hanno pagato cifre talora da capogiro, per assicurarsi capolavori spesso senza eguali. La catena è stata individuata e spezzata dalle indagini. Della magistratura, specie del sostituto Procuratore Ferri; e del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, un reparto che è stato il primo del genere sorto nel mondo, e che tanti Paesi ancora ci invidiano. Quando, a Ginevra e Basilea nel 1995 e nel 2002, sono stati scoperti i depositi e archivi di due tra i più attivi “trafficanti” internazionali, Giacomo Medici e Gianfranco Becchina (10 mila oggetti; ancor più documenti; migliaia di foto), il Pm Ferri ha incaricato gli archeologi Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini di comparare le fotografie ritrovate con gli oggetti, spesso dei capolavori, nei cataloghi di mostre e musei, e delle maggiori case d’asta. «Abbiamo studiato oltre 10 mila immagini, e ritrovato più di 500 reperti, sicuramente scavati di frodo in Italia», spiega Pellegrini. E analogo lavoro, con risultati ancora più corposi, l’hanno compiuto i “Carabinieri dell’arte”, oggi comandati dal generale Giovanni Nistri (e prima, da Ugo Zottin e Roberto Conforti), e la loro sezione archeologica diretta dal capitano Massimiliano Quagliarella. In parecchi casi, rinvenute anche foto polaroid (quindi, inadatte a ogni scopo scientifico) dei reperti archeologici appena scavati, ancora sporchi di terra, in attesa d’essere restaurati: quasi una “garanzia d’autenticità”, per surrogare la mancanza di qualsiasi pedigree. I risultati di questa formidabile fatica non sono soltanto quelli che si vedono nella mostra al Quirinale. In possesso di una documentazione tanto inoppugnabile, le autorità di Governo italiane hanno affrontato i direttori e i board dei grandi musei americani, proprio mentre al Tribunale di Roma si apriva un processo contro Marion True, Robert “Bob” Hetch e Giacomo Medici. Marion True è stata curator del Getty Museum dal 1986 al 2005. Hetch, classe 1919, da mezzo secolo è tra i più grandi mercanti al mondo: per la prima volta nella storia, ha spuntato un milione di dollari per un solo oggetto; era il 1972, e si trattava del celebre Cratere di Eufronio, scavato a Cerveteri e pagato 100 mila dollari, comperato dal Metropolitan di New York, che tornerà a Roma il 15 gennaio 2008. Medici, 69 anni, vive invece a Santa Marinella (villa con piscina, due campi da tennis, una Maserati), è il più rilevante “collettore” del “mercato nero” in area etrusca: ha deciso di farsi processare per conto proprio, e, in primo grado, è stato condannato a 10 anni di carcere e – mai successo – a una provvisionale di 10 milioni di euro da versare allo Stato, per i danni inferti al patrimonio culturale. Una volta scavati clandestinamente, i reperti diventano infatti “muti”; sono decontestualizzati: non forniscono più informazioni agli studiosi sulla loro provenienza, sul corredo di cui eventualmente facevano parte, sugli oggetti da cui erano accompagnati. Insomma, lo scavo clandestino cancella tutta la Storia (e le storie) che gli oggetti recano con sé, e di cui sono impregnati.
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Il Governo italiano ha iniziato le trattative quando Ministro dei Beni culturali era ancora Rocco Buttiglione (e piace che un simile tema sia stato affrontano in modo assolutamente bipartizan), e il Vicepremier Francesco Rutelli ha poi conferito loro ulteriore impulso e vigore, coadiuvato da una commissione diretta dall’Avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli. Così, nel tempo, i maggiori musei americani hanno mutato “filosofia”; sono divenuti più rigorosi; hanno cominciato a restituire (“spontaneamente”, e “senza ammissioni di colpa”) oggetti scavati di frodo nel nostro Paese, e che, in Italia, nessuno aveva mai visto, a parte i “tombaroli” e i loro sodali. E ne ricavano importanti accordi di collaborazione scientifica: la possibilità di compiere scavi nella Penisola, di studiare i reperti così ritrovati, di ospitare rilevanti mostre d’arte italiana, di ottenere prestiti a lungo termine. Quella che il nostro Paese ha condotto, e che trova oggi suggello in questa mostra, è una grande battaglia etica a livello internazionale. Prima, il Getty, senza alcuna trattativa, nel 2005 ha restituito quattro opere. Anche un vaso apulo alto oltre 70 centimetri, del diametro di 60, vecchio di 2.340 anni, su cui il famoso pittore Asteas (uno degli unici due nel sud Italia che “firmassero” i propri lavori) eterna una tra le più antiche raffigurazioni di Europa: è a cavallo di Zeus che, tramutatosi in Toro, la rapisce. I carabinieri avevano ritrovato la foto di questo capolavoro dell’archeologia di tutti i tempi nel cruscotto dell’automobile in cui, incidente che resta misterioso, era morto un famoso “trafficante”, Pasquale Camera; il vaso era stato poi individuato al Getty Museum, cui l’aveva venduto Gianfranco Becchina, il massimo “collettore” degli scavi clandestini nel sud della Penisola. Quindi, febbraio 2006, Philippe de Montebello, che da 30 anni dirige il Metropolitan Museum di New York, sigla un accordo che «corregge gli errori del passato», dice, «è importante e vantaggioso, e rappresenta, anche per gli altri musei americani, un modello». L’Italia ottiene così quattro vasi importanti (due dei Pittori “di Dario” e “di Berlino”), un corredo unico al mondo di 15 argenti ellenistici proveniente da Morgantina, che tornerà a inizio 2010, e il Cratere di Eufronio, tanto grande da contenere 45 litri di vino, decorato dal massimo vasaio attico con la Morte di Sarpedonte, il figlio di Zeus accanto a cui sono Hypnos e Thanatos, scavato a Cerveteri nel 1971, pagato 100 mila dollari da Hecht e rivenduto, appunto, per un milione. Quindi, il direttore del Museum of Fine Arts di Boston, Malcom Rogers, davanti a Rutelli svela una statua alta due metri e 4 centimetri, di Vibia Sabina, la moglie dell’imperatore Adriano cui non riuscì a dare figli, vissuta tra l’86 e il 136 dopo Cristo; e insieme ad essa, acquistata nel 1979 da Fritz Burki (vedremo chi è), restituisce 11 vasi, un paio alti quasi un metro e uno ancora del “Pittore di Berlino”, e un frammento di marmo con rilievo: «Discuteremo su eventuali altre restituzioni», spiega Rogers, «ma la casa di questi reperti è l’Italia, e noi siamo orgogliosi d’averli riportati qui». Tocca poi al Getty: trattativa più lunga, aspra e difficile. Per ora, ha fruttato l’arrivo a Roma di 40 importanti “pezzi”, anche se assai più sono quelli sospetti identificati nel museo di Malibu; rimane invece sospeso (e impregiudicato) il destino dell’Atleta vittorioso attribuito a Lisippo, un bronzo del III secolo a.C. pesante 200 chili, recuperato nel 1964 nel mare di Fano, rimasto a lungo in Italia (perfino nel sottoscala di un sacerdote a Gubbio: i fratelli Barbetti l’avevano rilevato per 4 milioni di lire) prima di essere acquistato dal museo californiano, nel 1977, per 4 milioni di dollari. Entro il 2010, il museo di Malibu rinuncerà anche alla Venere di Morgantina, un acrolito (testa di marmo, e corpo in calcare) di 25 secoli fa, alto 220 centimetri, rinvenuto ad Aidone in provincia di Enna, ceduto dal mercante londinese Robin Symes per 18 milioni di dollari nel 1988. Gli oggetti che il Getty ha restituito hanno un valore (ai fini puramente assicurativi: quelli di mercato, s’intende “nero”, sono dieci volte maggiori) di almeno 300 milioni di euro; e tutti, tranne la Venere, sono ora in mostra al Quirinale. Alcuni sono degli hapax: reperti privi di simili, o equivalenti, in qualsiasi collezione, pubblica o privata, del mondo intero. Altre “restituzioni” sono intanto già alle porte; e, complice anche la pressione della stampa americana, la nuova filosofia ha fatto sì che perfino Jerome Eisenberg, un antiquario dei più accreditati non solo a New York, abbia consegnato otto reperti, risalenti più o meno a 2.500 fa. Le sue Royal Athena Galleries esistono dal 1942 e vantano «la più vasta selezione al mondo d’oggetti antichi», e lui d’avere venduto, nelle sedi di Londra e Manhattan (Lexington Avenue, angolo 57a Strada) «oltre 30 mila capolavori ai massimi musei americani ed europei». Infine, nemmeno due mesi fa, è stata la volta del Museo di Princeton, istituzione universitaria fondata nel 1882, con un patrimonio di oltre 60 mila oggetti d’arte: otto “pezzi”, di cui quattro subito spediti a Roma, e presenti in questa mostra, e i rimanenti entro il 2011. Ma altre trattative restano aperte: perché gli oggetti razziati nel nostro Paese sono finiti in musei di tre Continenti.
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Anche in alcuni tra quelli con più tradizioni e maggiormente “al di sopra d’ogni sospetto”. E una razzia, analoga nelle modalità e nell’importanza, se non per l’entità, ha riguardato anche altri Paesi “produttori” di antichità, come per esempio la Grecia. E anche Atene ha riottenuto alcuni dei capolavori che erano stati sottratti al patrimonio della Nazione: uno, splendido, è “ospite d’onore” in questa mostra, per testimoniare che il fenomeno travalica i confini. Gli atti processuali riservano infinite sorprese, e terribili rivelazioni. Symes, ad esempio, nel 2003 è costretto a restituire il più grande reperto crisoelefantino (oro e avorio) giunto dall’antichità: la Maschera d’avorio, da lui acquistata per 10 milioni di dollari. Antonio Giuliano, archeologo e a lungo docente all’Università di Tor Vergata, spiega: «Oggetti che erano destinati solo agli imperatori; se ne sono salvati pochi frammenti, nessuno tanto grande; a Roma esistevano 100 mila statue di marmo, ma solo 66 o 77, a seconda delle fonti, crisoelefantine; questa, avrà avuto addosso non meno di 350 chili d’oro». L’aveva scavata, alle porte di Roma, ottobre 1994, Pietro Casasanta, “ritrovatore” anche dell’unica scultura che ritrae al completo la Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) sopravvissuta agli insulti del tempo e degli uomini. Casasanta vive ad Anguillara, ha quasi 70 anni, e in 50 ha eseguito mille scavi; ha subito un centinaio di processi e un paio di lievi condanne. Dice: «Solo verso Guidonia, negli anni 70, ho recuperato, tutte assieme, 63 statue, di cui 23 a grandezza naturale». Ha avuto l’onore della prima pagina sul prestigioso Wall Street Journal, per il quale è “il grande trafugatore”. Bene: torniamo a Symes. Un giorno, per vicende di quattrini pretesi dagli eredi dell’ex socio, su lui indaga la giustizia inglese. E scopre, tra Londra, Ginevra e New York, 29 depositi di materiali archeologici, 17 mila oggetti, in buona parte d’origine italiana, valutati – sempre dalla Corte di Londra –125 milioni di sterline: 190 di euro, quasi 400 miliardi delle nostre vecchie lire. Per capire l’entità del black market italiano, lui aveva 57 milioni di dollari d’affidamenti bancari. Del resto, il 13 settembre 1995, quando il maresciallo capo Serafino Dell’Avvocato, uno dei “Carabinieri dell’arte”, entra, il primo italiano, nel deposito di Giacomo Medici, nel porto franco di Ginevra, corridoio 17, stanza 23, non crede ai propri occhi. Al processo, dirà che c’era «un vero bendiddio, e nell’ultimo locale, signor giudice, affreschi pompeiani grandi come questa stanza». Il tavolone di vetro al centro della sala d’esposizione, era retto da un capitello corinzio, che, implacabile, un carabiniere certifica «provienente da Villa Celimontana, a Roma». Per l’accusa, Medici ha commercializzato «almeno 10 mila reperti clandestini». Scambiava lettere affettuose con Marion True: «Caro signor Giacomo», ma anche «Caro Giacomino, mi mandi il vaso dopo che sarà stato sbiancato»; reso, almeno apparentemente, legittimo. Per lo scopo, venivano spesso usate le maggiori case d’asta: solo nel 1988, Becchina spedisce a Sotheby’s 320 oggetti; e, travolta dallo scandalo, nel 1997 la casa d’aste cessa a Londra le vendite archeologiche. Una sola volta, che si sappia, il Getty dice no a “Giacomino”: quando propone, per due milioni di dollari, un corredo di 20 piatti dipinti, di 20 centimetri di diametro, fattura etrusca: «Mai visto qualcosa del genere al mondo», certifica l’archeologo Fausto Zevi, uno dei periti del Pm Ferri. Il direttore del museo che, non possedendo un passato cerca di costruirselo a suon di dollari, afferma di non voler spendere una tal somma per 20 opere del medesimo artista; e Marion True scrive d’esserne «assai dispiaciuta». In quei possenti archivi, che hanno costretto alcuni grandi musei ad arrendersi all’evidenza, ci sono immagini terribili. La Tavola cerimoniale in marmo policromo del 300 a.C., Due grifoni che sbranano un’antilope, è ancora in pezzi, sporca di terra e avvolta in giornali, nel portabagagli di un’automobile, appena scavata ad Ascoli Satriano, il luogo della celebre battaglia di Pirro re degli Epiri. Sarà pagata sei milioni e mezzo di dollari. Faceva parte di un ricco corredo funerario, e il Soprintendente archeologo di Roma, Angelo Bottini, ha penato molto per riunirgli altri due pezzi, pure in mostra al Quirinale, sequestrati in un’altra occasione, che erano, quasi certamente, sepolti con lui, nella stessa tomba. Ma dagli archivi spuntano anche infiniti misteri, e le immagini di un altro terribile misfatto: una Villa pompeiana (non ancora identificata dopo alcuni decenni), proprio mentre viene violata. È raccapricciante. La si vede ancora sigillata sotto la coltre lavica: tre pareti tutte affrescate nel “secondo stile” pompeiano, con colori vivacissimi. Della quarta, si vedono i detriti: i “tombaroli” sono entrati da lì. Gli affreschi vengono distaccati, e anche assai malamente; divisi in 11 pezzi, per poterli estrarre e trasportare. Finiscono in Svizzera, da Harry e Fritz Burki,
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padre e figlio, restauratori. Il padre era bidello nell’Università dove ha studiato Hetch. Alla fine, 1995, il maresciallo Dell’Avvocato li scopre, «grandi come questa stanza, signor giudice», nel corridoio 17 al porto franco di Ginevra: il caveau di Giacomo Medici. Le inchieste testimoniano il forsennato attivismo dei “tombaroli”. Bloccato un tunnel sotterraneo lungo 180 metri, a 10 di profondità, alto quanto bastava per far passare un uomo che spinga una carriola, e perfino illuminato, cui si accedeva con un ascensore nascosto: per raggiungere una villa pompeiana sepolta nel terreno di certi vicini; altri 30 metri di scavo, e ce l’avrebbero fatta. Oppure, lo stupore dei carabinieri che intercettano le comunicazioni, per la richiesta, reiterata più volte dall’équipe addetta agli scavi, di una “branda”. Finalmente la “branda” arriva, ed è «bellissima, tutti ce la invidiano». Solo quando si sente che «lavora su tutti i metalli», che «a un metro e 30 ci ha chiamato un vaso largo 30 centimetri», che «da Londra l’ingegner Paul atterrerà a Capodichino per tararla, 20 milioni il costo del viaggio», e, soprattutto, quando, un 1° maggio (ma non c’è più rispetto nemmeno per le festività) i carabinieri la sequestrano all’opera, ci si accorge che è il più immenso e potente metal detector mai visto. Cinque giorni dopo, da Londra ne arriva un altro, ancora più potente; lo saggiano «in una vallata intera di tombe a cupole grosse, sono migliaia; terreno pianeggiante, quindi buono per noi»: perché per far funzionare la “branda” bisogna essere in due, uno per parte, tanto è pesante e ingombrante. Restano i misteri. Tanti. Non si sa che fine ha fatto un altare arcaico, largo e alto 70 centimetri, scavato nel sud Italia: restano soltanto una foto e un’annotazione. Nel 1995, Hecht scrive che il Metropolitan Museum deciderà se acquistarlo; ha rinunciato, e l’altare è sparito. Come un piccolo carro villanoviano-etrusco, VIII secolo avanti Cristo, «scavato certamente a Cerveteri, o a Vulci», garantisce Antonio Giuliano, che tanti musei si contendevano, e non è tra i materiali ritrovati, né tra le fatture emesse, né nei registri, tenuti in modo assai accurato, delle vendite dei “trafficanti”. C’è perfino la prova di un trasporto eccezionale in Svizzera, compiuto da Mario Bruno, un altro grande “tombarolo” che ormai non c’è più, già socio di Giacomo Medici: il 10 febbraio 1992, spedisce un oggetto, 525 chili di peso, di cui allega una foto al documento di trasporto. È il coperchio di un Sarcofago degli sposi. Al mondo, n’esistono solo altri due esemplari certi, provenienti da Cerveteri: a Roma, nel Museo di Villa Giulia; e al Louvre, acquistato nel 1862 con la mitica raccolta del marchese Campana. Giulio Carlo Argan diceva che «distruggere l’arte è un tal peccato che, se si riscrivessero le Tavole della Legge, dovrebbe di certo esservi ricompreso»; l’attività della Magistratura e dei Carabinieri, e le trattative condotte dal Governo italiano, hanno impedito, come questa mostra può ben dimostrare, la commissione di tanti altri “peccati”, pur del tutto laici. Ora, quella terribile stagione è alle spalle: degna ancora d’alcune indagini, processi, ricostruzioni, ma archiviata nei fatti; privi del terminale formato dai grandi musei, i “predatori dell’arte perduta” hanno perduto la fetta più ingente del proprio mercato. E anche di questo, chiunque abbia a cuore la cultura e l’arte deve rendere merito a chi ha indagato, trattato, concluso.
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Dalla bellezza alla storia Stefano De Caro Bellezza. È questo il fil rouge più evidente che accomuna i sessantotto reperti che trovano posto nelle sale del Quirinale per questa esposizione così particolare per genesi e obiettivi. Non si tratta infatti di una mostra nata, come dovrebbe sempre accadere, quale risultato di una ricerca scientifica o di un ritrovamento condotto secondo i dettami della disciplina archeologica, ma di un ritorno. Com’è noto, questi oggetti sono il frutto, certamente importante per livello qualitativo intrinseco, ma ancor più forse per valore simbolico, di una lunga querelle che ha visto contrapposti, per anni, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e una serie di istituzioni americane, dal Getty Trust, al Museum of Fine Arts di Boston, dal Metropolitan Museum di New York all’University Museum of Art di Princeton, e da ultimo finanche a un gallerista privato, quale il titolare delle Royal Athena Galleries di New York, per annoverare quelle coinvolte nell’esposizione. Ai materiali oggetto delle restituzioni recenti si è ritenuto di aggiungere, anche per rendere conto della durata di questa paziente e tenace azione, due oggetti di più antica restituzione, la legge sacra di Selinunte (1992, n. 39) e la kylix di Euphronios da Cerveteri (1999, n. 9)1 mentre il celebre cratere “di Sarpedonte”, dello stesso pittore, si aggiungerà alla mostra all’inizio del prossimo anno. La diaspora di materiali archeologici dal nostro Paese fa in certo modo parte della storia stessa dell’archeologia2, sì che un filone non minore del costruirsi di una coscienza civile, non solo italiana, riguarda l’emergere di una consapevolezza volta alla tutela e il suo fissarsi nella legislazione a salvaguardia del patrimonio archeologico e storico-artistico3, dai primi editti papali fino all’articolo 9 della Costituzione Italiana, passando per nodi ideologici fondamentali come le “Lettres à Miranda sur le déplacement des monuments de l’art de l’Italie” di Quatremère de Quincy (1796), e il famoso discorso al V Congresso degli scienziati italiani a Napoli del 1845 di Francesco De Sanctis “Brevi osservazioni sull’archeologia considerata rispetto alle scuole”4 che richiamava gli italiani a questi studi quale atto di amor patrio, o l’elaborazione delle nostre leggi, progressivamente sempre più articolate e sistematiche, del 1902, 1909 e 1939. Ciò nondimeno, è un dato storico altrettanto significativo il fatto che l’emorragia di materiali archeologici dal nostro Paese non sia mai cessata, e anzi abbia conosciuto nel dopoguerra, in vaste aree dell’Italia, l’intero Mezzogiorno, la Sicilia, il Lazio e la Toscana, un’accelerazione disperante. Molti i fattori di questo grave fenomeno: la rapidissima trasformazione dei modi d’uso del territorio (l’agricoltura meccanizzata, la crescita degli insediamenti urbani) che hanno moltiplicato le occasioni di rinvenimenti fortuiti, l’insufficiente capacità di controllo del territorio da parte delle Soprintendenze, l’insinuarsi nel settore degli scavi clandestini della malavita organizzata in collegamento con i mercanti stranieri, l’accresciuta richiesta di oggetti da parte di musei e collezionisti, la mancanza di una condivisione internazionale dei principi di tutela del patrimonio archeologico pur posti alla base di solenni dichiarazioni di principio, come la Convenzione UNESCO del 1972 per la protezione del Patrimonio Culturale e Naturale dell’Umanità. La generazione di archeologi italiani cui appartengo è cresciuta con la consapevolezza di una perdita incombente e progressiva. Consapevolezza che si è costruita anche col sacrificio dei migliori funzionari, e cito per tutti Marina Mazzei che ha speso la sua troppo breve esistenza e carriera in anni di lotte nella piana di Foggia contro i clandestini intenti a spogliare a migliaia le tombe della Daunia alla ricerca di vasi a figure, oreficerie, armi, bronzi5. Consapevolezza formatasi in anni di scavi di emergenza fatti in gara di tempo con i clandestini, di sopralluoghi su siti di necropoli e santuari devastati, di testimonianze in processi penali, ma anche di collaborazione con le forze dell’ordine e della magistratura, di discussioni appassionate con uomini politici, pubblici amministratori e colleghi, italiani e stranieri sensibili al problema. Questi ultimi si sono divisi per molto – troppo – tempo tra i difensori del diritto di utilizzare i frutti del saccheggio6 in nome di una storia dell’arte antica realizzata “a prescindere” dagli strumenti di acquisizione dei nuovi materiali e quelli che, soprattutto nelle Scuole archeologiche operanti in Italia, erano più consapevoli dell’enorme perdita di dati scientifici e culturali in senso ampio che si stava consumando nei nostri siti archeologici7. La prospettiva che si voleva costruire in piena condivisione con i colleghi stranieri non era quella di una visione meramente patrimoniale (pur se del tutto legittima sul piano strettamente giuridico) né tanto meno nazionalistica dell’archeologia, ma quella scientifica, e soprattutto eticamente legittimata, del rispetto del contesto di provenienza e di una circolazione
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“sostenibile” dei materiali archeologici, per ragioni di studio e di esposizione, nel quadro di un’ampia collaborazione internazionale. Questo spirito, che trovò una sua prima formulazione nel 1988 con la “Dichiarazione di Berlino”8, con la quale molti musei con collezioni di antichità si imposero di astenersi dall’acquisto di opere d’arte la cui provenienza non fosse assolutamente chiara e legittima, per poi trovare un’ulteriore applicazione nel successivo “Memorandum of Understanding” Italia-USA (2001) sulla moratoria delle importazioni statunitensi di materiali archeologici di provenienza non chiaramente documentabile, e poi in analoghi accordi con la Germania (2002), con la Cina e con la Svizzera (2006), ha informato la politica archeologica italiana degli anni successivi per arrivare fino al risultato odierno, di cui questa mostra costituisce non solo un punto di arrivo di un percorso giuridico-culturale, per quanto importante e prestigioso, ma anche e soprattutto punto di partenza di un cammino di conoscenza condiviso e pertanto potenzialmente molto più fruttuoso. Il maturare di una prospettiva condivisa si è tradotto anche in un ampliamento dei percorsi di ricerca comuni: l’Italia ha favorito infatti in misura sempre più cospicua gli scavi archeologici delle missioni straniere sul proprio territorio (26 concessioni nel 2006), senza contare le collaborazioni in diverso regime tra Soprintendenze e Istituti o singoli studiosi; ha inoltre modificato di recente la propria legislazione in modo da favorire la possibilità di prestiti di lunga durata di materiali archeologici all’estero9 in modo tale da consentirne lo studio, oltre che l’esposizione, da parte di università e musei. È grazie alla tenacia con cui centinaia di funzionari e studiosi hanno eseguito il loro lavoro se alla fine si sono potuti ottenere risultati come quello di cui questa mostra vuole essere testimonianza, che segna dunque una vittoria non soltanto italiana ma internazionale dell’intera categoria, lato sensu, dei clerici dediti all’antichità, includendo in esso avvocati dello Stato come Maurizio Fiorilli, magistrati come Paolo Giorgio Ferri, ufficiali e carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale, diplomatici, giornalisti e quanti hanno contribuito a costruire in Italia e all’estero un’opinione pubblica avvertita e consapevole. Che questa operazione non sia da leggere come un soprassalto di nazionalismo revanscistico, ma piuttosto come il conseguimento di un più ampio livello di consapevolezza culturale, sta a dimostrarlo la richiesta del governo greco di partecipare all’esposizione romana con la kore che si aggiunge al catalogo, anch’essa restituita dal J. Paul Getty Museum. Testimonio ulteriore non della vittoria di un contendente sull’altro, ma di quel sistema di regole e principi che, frutto di una più ampia condivisione, riesce veramente a costituire un traguardo di civiltà da questo momento irrinunciabile. I reperti esposti in questa mostra, diversi per epoca, ma tutti collocabili all’interno di una forbice temporale che va dal VII sec. a.C. al II sec. d.C., sono diversi anche per provenienza: dall’Etruria storica, al Lazio, all’area vesuviana, alla Puglia, alla Sicilia. Diverse le tipologie, le classi, le funzioni, diverse le iconografie. Davvero il comune denominatore, a parte l’appartenenza a un arco temporale che li colloca nella sfera preziosa delle “antichità”, è la loro bellezza, seppure declinata attraverso modalità stilistiche affatto diversificate, da quella più compiutamente classica di taluni vasi attici, alle ipertrofie animalesche di un oggetto d’arredo, all’illusionismo prospettico o al decorativismo squillante degli affreschi romani. Esula dall’ambito della bellezza artistica per iscriversi in quello ancora più rilevante, ai nostri occhi, della storia, un reperto epigrafico eccezionale quale la lex sacra siciliana da Selinunte (n. 39). Nel campo della ceramica dipinta, che rappresenta la categoria più documentata, si segnalano alcuni oggetti di grande rilievo come l’oinochoe protocorinzia (n. 1) che si colloca in quella fase storica in cui gli artigiani delle prime città, greche ed etrusche, sorte sul suolo italiano si cimentavano nel compito di emulare i vasi prodotti a Corinto, allora capitale mediterranea dell’artigianato ceramico. Quando il Ceramico di Atene subentrò quale principale centro produttivo, il ciclo di Ercole divenne il tema iconografico preferito, come confermano molti dei vasi illustrati in catalogo tra i quali si distingue la lekythos (n. 8) per la presenza di uno degli athla meno frequentemente raffigurati quale la lotta dell’eroe con gli uccelli della palude di Stinfalo. Il secolo d’oro dell’arte greca, il V a.C., è rappresentato dalla ceramica a figure rosse, classe alla quale vanno ascritti la maggioranza dei pezzi esposti, con esemplari davvero eccezionali per soggetti e livello stilistico delle raffigurazioni. Si va dal celeberrimo cratere di Euphronios, già al Metropolitan, con la toccantissima scena, quasi una Deposizione pagana, del compianto sul corpo di Sarpedonte, caduto sotto le mura di Troia (n. 9), alla straordinaria evocazione, ancora del sommo ceramografo attico, della presa di Troia sulla kylix da pochi anni nuovamente esposta a Villa Giulia (n. 10), alla citazione su un’anfora di Eutimide, di un personaggio storicamente documentato, uno dei più grandi atleti magnogreci ricordati dalle fonti,
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il crotoniate Faillo (n. 11), all’abilità calligrafica con cui Epitteto disegna i suoi personaggi inscrivendone le sagome con straordinaria inventiva nei difficili tondi delle sue coppe (n. 12); alla sapienza compositiva con cui il Pittore di Berlino inserisce sulla lucida superficie ceramica (n. 16) i suoi personaggi, icasticamente isolati eppure in muto colloquio tra di loro e con la struttura geometrica del vaso cui li associa una sottile ma precisa serie di richiami formali; alla misteriosa religiosità di un cratere con divinità minori di un Olimpo greco che forse guardava alle opposte sponde del Mediterraneo (n. 27); al ricercato esotismo dei costumi dei mercenari e dei cacciatori traci diventati popolari ad Atene (n. 29); alla straordinaria citazione di una commedia del grande Aristofane, Gli Uccelli, con un flautista e due attori in buffi costumi da gallo (n. 31); per non dire dell’inesauribile fascino dei grandi temi mitici, inesauste icone di un canone culturale cui tutt’oggi ci richiamiamo (nn. 9, 10, 15, 18, 19, 20, 25, 28), o dei più semplici vasi configurati (nn. 23, 26) che, evocando i suoni e i canti di un banchetto, rimandano a una delle pratiche più celebrate attraverso cui si definiva l’identità aristocratica greca. Passando alla produzione di ambito etrusco, al campo dell’artigianato di più alto livello appartiene l’antefissa con Menade e Sileno (n. 34), che trova un esatto riscontro nella decorazione fittile di un tempio etrusco di Civita Castellana, in cui la grazia del duetto dei personaggi, pur di genere, è nel nostro esemplare sottolineata dalla policromia vivace e dall’alta qualità formale. L’esito di quell’affascinante capitolo di storia culturale che fu la relazione che gli artigiani etruschi intrapresero con l’arte greca nel tentativo di costruire, a partire da essa, un proprio linguaggio artistico, è illustrato nella mostra da ceramiche come l’anfora e l’oinochoe “pontiche” (nn. 32, 33) e l’askòs del Gruppo Clusium (n. 36) o da raffinati prodotti metallici, statuette (nn. 35, 38), specchi (n. 37), vasi e altri oggetti che dal centro della nostra penisola si diffusero per tutta l’Italia e oltre, fin nel cuore dell’Europa settentrionale. La Magna Grecia si racconta prevalentemente nel suo periodo post-classico, nel momento cioè in cui gli indigeni italici, superata la fase, spesso violenta, della presa di possesso delle antiche poleis greche, ne avevano rapidamente assorbito gli usi e la cultura. E insieme alle divinità, ai riti collettivi come il teatro, ai modi architettonici, ne acquisirono i costumi funerari; e cominciarono a chiedere per le tombe dei loro congiunti, dalle botteghe in cui artigiani greci e indigeni lavoravano da tempo fianco a fianco, anche i vasi dipinti alla maniera ateniese. Su di essi tuttavia i contenuti del mito classico si vestivano ora di nuove esuberanze formali o interpretavano nuovi afflati religiosi, segni di un mondo aperto a influenze che venivano dai nuovi spazi dell’ecumene ellenica: dalla Tracia con il suo orfismo che si mescolò al pitagorismo locale o da quel mondo epirota e macedone dal quale, insieme a emuli di Alessandro in cerca di gloria militare, giungevano anche nuove forme di culto dei morti. Tra gli oggetti più belli di questa civiltà italiota segnaliamo i due vasi del pittore di Paestum Assteas (nn. 47, 48), inoltre un documento di grande rilevanza per la storia del teatro, uno dei più antichi crateri apuli con attori fliacici, opera del pittore denominato, proprio da questo vaso, del Corego (n. 45). Dovunque sia da collocare l’atelier che li ha prodotti (Atene, Asia Minore?), appartengono alla cultura della Magna Grecia alcuni degli oggetti fra i più rilevanti della mostra per unicità di attestazione, oltre che per esuberanza compositiva quasi barocca in un caso e raffinatezza iconografico cromatica nell’altro: lo splendido trapezoforo in marmo con grifi che sbranano una cerva (n. 56), l’altrettanto spettacolare bacino dipinto con figure di Nereidi (n. 57), testimonianza oltretutto rarissima della pittura antica su un supporto non ceramico. Ad essi si accompagnavano almeno altri otto vasi in marmo e una coppia di mensole (questi recuperati già nel 1978 dalla Guardia di Finanza), quali raffinati elementi dell’arredo decorativo di un’unica tomba monumentale ipogea allestita. La tomba era parte di una necropoli del centro daunio di Ausculum Apulum10, allestita come un sontuoso palazzo macedone (protoellenistico, diremmo), anticipazione di quel gusto per gli oggetti marmorei che, mutuato dalla nobiltà romana, stimolerà la nascita della corrente artistica neoattica. L’arte romana, che poco si rappresentò nei corredi tombali, è fatalmente quella meno documentata. Sono invece gli arredi delle antiche ville d’otium della Campania e del Lazio, sparse in un territorio oggi investito da un’incontrollata espansione edilizia, quelli esposti nella mostra: dal bellissimo affresco, certamente “pompeiano” (o per meglio dire, di quella cultura dei ricchi Romani che vivevano “on the Bay of Naples”, per citare il titolo di un fortunato libro di John d’Arms, uno dei più acuti studiosi americani del mondo romano) nel cosiddetto secondo stile, con i simboli teatrali di Ercole (n. 59), ai frammenti di una parete del cosiddetto terzo stile dell’apoditerio di un’altra villa dell’agro pompeiano, in località Pisanella di Boscoreale, oggi Pompei, (nn. 62-63), alla straordinaria statua eburnea della villa di Cesano (n. 60), lavorata con tecnica affine a quella delle grandi statue
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classiche crisoelefantine, alla raffinatissima statua neoattica di Dioniso con il capro (n. 65), alla solenne figura dell’imperatrice Vibia Sabina (n. 67), significativa opera di un’officina che lavorava per la corte imperiale. La bellezza, dunque, come filo conduttore. Ricucendo, lungo il filo della storia, il destino di queste e di tante altre opere che hanno girato per le collezioni di tutto il mondo, si può comprendere che per i loro acquirenti, privati e pubblici, sia stato difficile resistere a tanta bellezza e a quella seduzione dell’antico, che dall’alto Medioevo in poi, i testimoni della civiltà classica non hanno mai cessato di esercitare. Il ritorno all’antico è davvero una delle grandi, ininterrotte correnti che, come poche altre, connotano la nostra cultura occidentale, a volte in forme più mediate, ma spesso con atteggiamenti di ammirazione sconfinata che hanno saputo suscitare quell’ “insaciabile desiderio” cui Isabella d’Este riconnetteva la radice di una delle prime e più straordinarie, per qualità, quantità e vicende, raccolte d’arte rinascimentali. E i grandi musei che arricchiscono la scena culturale di tante città sono, in fondo, gli eredi spesso diretti di questo fenomeno culturale. E tuttavia, pur ciò riconosciuto, questa mostra intende sottolineare come la bellezza sia destinata a rimanere una seduzione volatile, spesso addirittura ingannevole, se non accompagnata dalla memoria storica. Come è ben noto, i reperti trafugati, avulsi dal loro contesto di ritrovamento, diventano testimoni improvvisamente muti, in quanto solo attraverso il recupero integrale della documentazione di corredo, così come avviene per mezzo di uno scavo stratigrafico, è possibile datarli con precisione, collocarli in un orizzonte culturale definito, in una parola ricostruire la loro storia e renderli essi stessi testimoni narranti delle passate vicende. A chi apparteneva l’anfora di Faillo? Era un uomo o una donna il defunto sepolto col cratere che reca quelle singolari divinità della cerchia di Ge? Forse se avessimo avuto il corredo per intero, potremmo rispondere a queste domande. Purtroppo, dobbiamo solo accontentarci della loro pur grande bellezza, e rimpiangere che quei barlumi di storia che ci fanno intravedere non possano risplendere di più. Mai più. Se questa perdita è grave, un risarcimento, sia pur parziale, della lacuna è tuttavia ancora possibile. Dopo questa mostra infatti gli oggetti esposti, ricollocati per quanto consentito dai confronti stilistici e morfologici, nei contesti culturali di provenienza, saranno esposti nei musei delle relative aree di pertinenza, accanto ad altri oggetti affini per cronologia e ambito culturale e geografico, a riprendere quel colloquio interrotto che costruisce la trama della storia e a dimostrazione, di immediata evidenza visiva, di quanto potere evocativo e di quale capacità didattica possano innescare queste operazioni di ricontestualizzazione. In conclusione. Questa mostra, risultato di un successo di quella diplomazia culturale condotta dal Ministero per i Beni Culturali e da ultimo, con evidente efficacia, dal Ministro Rutelli, rappresenta un punto di svolta simbolico dell’atteggiamento di alcune grandi istituzioni culturali americane nei confronti delle antichità e del patrimonio culturale in genere del nostro Paese. È questo uno dei traguardi cui quella civiltà, che ha prodotto quelle stesse opere, ci ha condotto: il patrimonio storicoartistico e archeologico deve essere affidato “in custodia” agli eredi dei popoli che l’hanno prodotto, perchè lo tutelino nella sua pienezza di testo e contesto, ma, dal punto di vista simbolico, appartiene all’intera umanità. Al posto degli oggetti restituiti, nelle sale delle istituzioni nordamericane arriveranno presto, seppur temporaneamente, altri reperti provenienti dai nostri musei, questa volta arricchiti da quel corredo di memoria culturale che li rende ancora più preziosi e comprensibili. E gli stessi musei e università potranno, se lo desiderano, collaborare con noi a restaurare, studiare, e perché no, scavare nuovi contesti di materiali la cui conoscenza rappresenterà un acquisto più duraturo e solido di quanto possano essere anche i più bei vasi dell’antichità. La bellezza ha bisogno di essere spiegata se non vuole rimanere una pura percezione estetica; e se non vuol rimanere un’attività élitaria, riservata a pochi degustatori, ha bisogno della “didascalia” della storia e dell’analisi storico-artistica e culturale in senso ampio, che, sole, possono rendere meno disperatamente straniera, per dirla con Moses Finley, quella civiltà della quale è frutto. Così che sia possibile, dall’altra parte del mondo, “sedendo e mirando” di fronte a queste nuove opere, ascoltare la voce “delle morte stagioni” e attraverso queste comprendere qualcosa di più “della presente e viva” e ricavare, da questo momento di riflessione e contemplazione, quella “profondissima quiete” che un’esperienza di conoscenza può regalare. E perchè davvero, anche attraverso la loro bellezza “interpretata”, questi oggetti divengano per noi come la siepe leopardiana che spalanca gli orizzonti della civiltà e della storia.
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Note al testo 1
Vedi sul tema la nota di presentazione di Mario Serio, allora Direttore dell’Ufficio Centrale per i Beni Archeologici, Architettonici, Artistici e Storici del Ministero per i Beni Culturali in MORETTI SGUBINI 1999, pp. 4-6. 2
Così come il desiderium delle antichità è entrato nella storia della stessa cultura americana: già nel 1740 il sindaco di Philadelphia possedeva uno skyphos apulo a figure rosse; e Benjamin Franklin, in visita a Londra, si adoperò per acquistare il catalogo di D’Hancarville dei vasi della prima collezione Hamilton. 3
Cfr. A. Emiliani, Una politica dei beni culturali, Torino, Einaudi, 1974, in particolare pp. 25-147; A. Emiliani, Il museo, laboratorio della storia, in AA.VV., Capire l’Italia. I Musei, Milano, Touring Club Italiano, 1980, pp. 19-45. 4
Cfr. F. De Sanctis, Opere, Torino, Einaudi, 1975.
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D. Graepler, M. Mazzei, Provenienza sconosciuta! Tombaroli, mercanti e collezionisti. L’Italia archeologica allo sbaraglio, Bari, Edipuglia, 1996. 6
Si veda ad esempio il noncurante cinismo con cui uno studioso illustre di ceramografia magnogreca, A.D. Trendall annuncia in un suo articolo (TRENDALL 1991, p. 164) che era “da poco venuto alla luce” il cratere apulo del Pittore del Corego (qui al n. 45). 7
Vedi gli atti della tavola rotonda internazionale organizzata dall’American Academy in Rome nel febbraio 1995 contenuti nell’allegato: Antichità senza provenienza, “Bollettino d’Arte”, nn. 89-90, 1995. E anche, tra i molti contributi recenti, C. Chippindale, D.W. Gill, Material Consequences of Contemporary Classical Collecting, “American Journal of Archaeology”, 104, 2000, pp. 463-451; N. Brodie, J. Doole, C. Renfrew (eds.), Trade in illicit antiquities: the destruction of the world’s archaeological heritage, Cambridge, MacDonald Institute for Archaeological Research, 2001. E infine, recentissima, l’appassionata requisitoria di Sir Colin Renfrew, tenuta a Paestum il 16 novembre 2007 in occasione del conferimento del Premio Paestum durante la Decima Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, nella quale lo studioso britannico, stigmatizzando la colpevole politica di molti musei internazionali in tema di acquisizioni dubbie, ha ribadito: “restitution is only a part of the solution”. 8
Berlino, XIII Congresso Internazionale di Archeologia Classica, 1988.
9
Si veda il Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 (e successive modificazioni), art. 67, comma 1, d: “Le cose e i beni culturali indicati nell’art. 65, commi 1, 2, lettera a), e 3 possono essere autorizzati ad uscire temporaneamente anche quando: … d) la loro uscita sia richiesta in attuazione di accordi culturali con istituzioni museali straniere, in regime di reciprocità e per la durata stabilita negli accordi medesimi, che non può essere, comunque, superiore a quattro anni” 10
Si tratta del centro oggi denominato Ascoli Satriano (FG), tuttora poco noto nella fase magnogreca e divenuto famoso, in epoca successiva, per due battaglie combattute dai Romani, contro Pirro nel 279 a.C. e contro Annibale circa settant’anni dopo.
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Presentazione delle opere Nota Si è scelto di ordinare i materiali esposti raggruppandoli per ambiti di produzione e/o stilistici e in sequenza cronologica. Le schede degli oggetti in mostra costituiscono, per la massima parte, una rielaborazione della documentazione fornita dalle istituzioni museali americane, che si ringraziano per la disponibilità: le eventuali integrazioni e i malintesi interpretativi vanno in ogni caso sotto la responsabilità dell’autore delle schede. Pur nel tentativo di uniformazione, la diversità di provenienza redazionale dà conto anche di una residua difformità di impostazione delle stesse; in ogni caso, esse non hanno alcuna pretesa di esaustività dei problemi scientifici che oggetti così importanti per qualità sollevano. Si è inoltre preferito mantenere, in considerazione del carattere esplicitamente comunicativo della mostra, nonché dei tempi ridottissimi di edizione, un tono divulgativo anche nel catalogo, limitando perciò all’essenziale i confronti stilistici e cronologici e l’aggiornamento della bibliografia. Un ringraziamento a tutti coloro che, in diversi modi e tempi, hanno collaborato alla costruzione dei testi fin dalle prime fasi: Wanda Borsari, Benedetta Adembri, Daniel Berger, Irene Berlingò, Angelo Bottini, Maria Cappelletti, Anna Maria Dolciotti, Maria Lucia Ferruzza, Rossella Giglio, Giuseppe Gini, Maria Pia Guermandi, Jeannette Papadopoulos, Maurizio Pellegrini, Paola Rendini, Daniela Rizzo, Silvana Rizzo, Claudia Scardazza, Grete Stefani, Suzanne Tassinari. Tutte le misure sono espresse in centimetri.
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CERAMICA PROTOCORINZIA CERAMICA LACONICA
1. Oinochoe protocorinzia con serpente Officina corinzia, ca. 700-675 a.C. H. 28,5 Già University Museum of Art, Princeton 1995-149 Da scavi clandestini in Etruria meridionale
Questa forma vascolare deriva dalla tradizione delle oinochoai geometriche a corpo globulare del IX secolo a.C. mediata attraverso le forme ovoidali del Tardo Geometrico e del Protocorinzio Antico quando il corpo del vaso cominciò a ricevere decorazioni figurate o grafismi d’ispirazione naturalistica (pesci, girali ecc.) di tipo orientalizzante. I prototipi furono prodotti nelle officine di Corinto, ma sono note imitazioni prodotte a Pithecusa (un esemplare del 700 a.C. circa in Italia 1988, fig. 546, da Pontecagnano), a Cuma e in Etruria (da cui il nome della cosiddetta classe Cuma-Tarquinia) dove fu largamente esportata. In questo vaso, l’effetto decorativo è affidato alla sinuosa figura di un serpente che snoda il suo corpo punteggiato di bianco ondeggiante sulla fascia più ampia del corpo del vaso, alternando alle spire elementi decorativi di riempimento a rombi e rosette a punti. Queste e le lunghe punte della raggiera di base, come la scomparsa quasi totale dei motivi geometrici, inducono a una datazione nell’ambito del Protocorinzio Medio I. BIBLIOGRAFIA: Serpenti a testa lanceolata e corpo puntinato decorano già aryballoi, kotylai e lekythoi a corpo conico, anche di imitazione locale, nella necropoli di Pithecusa in tombe del Protocorinzio Antico (cfr. ad es. la tomba 152 in G. Buchner, D. Ridgway, Pithekoussai – I. La necropoli: tombe 1-723 scavate dal 1952 al 1961, Monumenti Antichi dei Lincei, IV, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1993, p. 188, n. 152/3, tav. 85, 3). Per esemplari di produzione cumana in Etruria e Lazio, cfr. MORETTI SGUBINI 2001, p. 168, II.D.1.5 (al Museo di Cerveteri, inv. 111143) con bibliografia.
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2. Olpe protocorinzia con decorazione a squame
Officina corinzia, ca. 650-625 a.C. H. 20-22; diam. pancia 14,5; diam. bocca 11,2 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 81.AE.197 (1, 2, 3)
Tra la fine dell’VIII e tutto il VII secolo a.C. Corinto detenne il primato quasi assoluto nelle esportazioni di ceramica dipinta nei mercati del Mediterraneo. I suoi raffinatissimi prodotti furono molto apprezzati in Etruria e in Magna Grecia. Quest’olpe (una brocca piriforme con bocca a trombetta), lacunosa, si ispira a prototipi metallici, evocati in particolare dal dettaglio della rotella sopraelevata all’attacco dell’ansa. Assegnabile alla fase detta Transizionale dal Protocorinzio a Corinzio, è decorata sul collo con rosette a punti, sulla spalla con linguette policrome e sul corpo con un motivo a scaglie policrome contornate da incisioni doppie. BIBLIOGRAFIA: CVA, Getty 9, p.15, n.11, pl. 477. Per un vaso simile, con un’iscrizione graffita greca dalla tomba a camera n. 125 dall’Esquilino a Roma, cfr. Italia 1988, fig. 422.
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3. Kylix laconica con guerrieri
Attribuita al Pittore della Caccia, ca. 550-525 a.C. H. 12,98; diam. 25,4 Già Metropolitan Museum of Art, New York, 1999.527 (L.2006.11.1)
La coppa, che ricorda all’esterno la semplicità delle coppe ioniche o delle lip-cup attiche, è decorata nel tondo interno con figure di due uomini armati; nell’esergo due volpi che giocano. Sulla sinistra è un soldato armato di elmo corinzio, corazza e lancia appoggiata al suo fianco; lo scudo è alle sue spalle. Davanti a lui un compagno si piega in avanti a stringere sulla gamba uno schiniere. Il suo scudo è appoggiato dietro di lui mentre la corazza occupa la parte centrale del tondo. Un uccello e una borsa da equipaggiamento sospesa alla parete completano la scena. I vasi laconici, prodotti a Sparta, si segnalano per la loro vivacità espressiva tra i vari tipi di ceramiche greche arcaiche. BIBLIOGRAFIA: Annual Report, 1999-2000, New York, The Metropolitan Museum of Art, 2000, p. 17; J. Mertens, Recent Acquisitions: A Selection, 1999-2000, “Metropolitan Museum of Art Bullettin”, n.s. 58, n. 2, 2000, p. 13; C. M. Stibbe, Lakonische Vasenmaler des sechsten Jahrhunderts v. Chr., Supplement, Mainz, von Zabern, 2004, pp. 167-168, pl. 32. Sul Pittore della Caccia, cfr. P. Pelagatti, s.v. LACONICI, vasi, in EAA, IV, p. 448 a-b.
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CERAMICA ATTICA A FIGURE NERE
4. Anfora attica a figure nere con la lotta tra Eracle e Gerione
Attribuita al Pittore di Berlino 1686, ca. 540 a.C. H. 42; diam. 27 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AE.92 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Per la sua decima fatica al servizio di Euristeo, Eracle ricevette l’ordine di rubare il bestiame di Gerione, un selvaggio guerriero con tre corpi che viveva in un’isola nel lontano Occidente, ai confini del mondo, noto ai Greci e identificabile grosso modo con l’odierna penisola iberica. Traccia toponomastica del mitico ritorno dell’eroe dall’impresa, attraverso la Gallia e l’Italia, è riscontrabile in una serie di luoghi mitici “erculei” (l’ara maxima Herculis a Roma, la città di Ercolano, ecc.), a indicare l’annodarsi di relazioni culturali tra il mondo indigeno etrusco-italico e quello greco. Eracle riuscì nell’impresa dopo aver ucciso il mandriano e il cane a due teste di Gerione. Sul lato principale è raffigurata l’ultima fase dell’athlon quando Eracle, nella consueta armatura con la leonté e la clava, affronta lo stesso Gerione, armato come un oplita greco e, sotto l’assalto dell’eroe, uno dei corpi di Gerione tenta invano di fuggire. Accanto a Eracle è un uccello, l’aquila del padre Zeus, presagio dell’immancabile vittoria. Intorno alle figure sono dipinte molte pseudoiscrizioni, usate in chiave decorativa. L’altro lato del vaso ripete – un uso poco frequente, ma tipico di questo ceramografo – la stessa scena con poche varianti. Il Pittore detto di Berlino 1686 (dal nome di un vaso nella Antikensammlung berlinese) lavorò nel Ceramico di Atene tra il 550 e il 530 a.C. circa, specializzandosi nella decorazione di anfore su cui dipinse scene di dei, eroi e guerrieri. BIBLIOGRAFIA: Passion for Antiquities 1994, pp. 81-83, cat. n. 34.
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5. Anfora attica a figure nere con la processione nuziale di Admeto e Alcesti
Attribuita al Gruppo delle Tre Linee, ca. 530 a.C. H. 29; diam. 17,3 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AE.93 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Sul lato principale del vaso è la scena della processione nuziale di Admeto, re di Tessaglia, e Alcesti, la coppia mitica famosa perché la donna volle sostituirsi al marito nel suo destino di morte immatura. Dopo il suo ritorno fra i vivi, dovuto all’intervento di Eracle che scese nell’Ade per strapparla al regno dei morti, i due giovani poterono celebrare le loro nozze. Gli sposi sono raffigurati in piedi sulla quadriga; Admeto, vestito con un chitone tiene le redini dei cavalli, Alcesti è velata, con un mantello riccamente decorato. Dietro di loro è un’altra figura femminile ammantata. In secondo piano, dietro i cavalli, è Apollo (il dio che aveva profetizzato il destino di Admeto) con la cetra, e di fronte a lui Artemide con il polos sul capo. Davanti ai cavalli altre due figure, forse Demetra e Persefone o Afrodite e Semele. Dietro la coppia è Dioniso, con un bambino. Il lato secondario del vaso presenta una quadriga vista di fronte con due coppie di donne e adolescenti o bambini ai lati; vi sono iscritti i nomi di Admetos e Alkestis. Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. le scene nuziali, umane o divine, erano molto popolari sui vasi greci. Il cosiddetto Gruppo delle Tre Linee comprende un piccolo gruppo di anfore, prodotte da una sola officina ateniese attiva verso il 530 a.C. e trae il suo nome da un motivo decorativo accessorio sulla parte inferiore dei loro vasi. BIBLIOGRAFIA: Passion for Antiquities 1994, pp. 81-83, cat. n. 35.
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6. Hydria attica a figure nere con cavalieri sciti Attribuita alla cerchia del Pittore di Antimenes, 530-520 a.C. H. 46,2 Già Museum of Fine Arts, Boston 1979.614
Il vaso, proveniente dall’Etruria, in particolare dall’area di Vulci, mostra sul corpo quattro cavalieri barbari in marcia mentre nella fascia ristretta inferiore sono raffigurati due leoni che sbranano un animale. Sulla spalla una scena di partenza di un guerriero sul carro, in presenza di altre cinque figure. L’espansione nel nord della penisola greca, alla ricerca di regioni metallifere, aveva portato gli Ateniesi in contatto con i Traci, stanziati nell’area dell’attuale Bulgaria, di cui si servirono spesso come eccellenti cavalieri mercenari e con gli Sciti, che abitavano la costa settentrionale del Mar Nero. I loro variopinti costumi compaiono spesso come un elemento di esotismo sui vasi dell’epoca (cfr. infra lo psykter a figure rosse con cavalieri dal Metropolitan e il cratere a campana del Pittore della Centauromachia del Louvre). Gli Sciti in particolare erano utilizzati come “poliziotti” dai magistrati ateniesi. BIBLIOGRAFIA: Beazley Archive: 9980; K. Schauenburg, Siegreiche Barbaren, AM 92, 1977, pp. 91-100.
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7. Kylix attica a figure nere con scena di simposio Attribuita alla maniera del Pittore di Lysippides e al vasaio Andokides, ca. 520 a.C. H. 13, 6; diam. 36,4 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 87.AE.22
Nel fregio interno della coppa, che si snoda intorno a un tondo con maschera gorgonica, sei uomini siedono in simposio sotto una pergola di vite dai lunghi tralci e appoggiati a dei cuscini ascoltano un suonatore di lira: tema perfettamente adeguato alla funzione dell’oggetto, una coppa per vino. Il motivo apotropaico della maschera gorgonica ritorna all’esterno, negli occhioni, tra i quali si pongono su un lato le due figure di Eracle e Dioniso e sull’altro quelle di Eracle che lotta con Tritone, un mostro marino. Tutt’intorno tralci di vite e grappoli d’uva estendono il motivo dionisiaco dell’interno. La riparazione, a trapano, con un frammento di orlo recuperato da un’altra coppa, sottolinea il valore che l’antico proprietario attribuì a questo oggetto. Il Pittore di Lysippides decorò vasi di varia foggia nella tecnica a figure nere dal 530 circa al 510 a.C. con uno stile che dipende da quello del suo maestro Exekias, mostrando predilezione per i cavalli e le scene mitologiche. È noto anche che lavorò col vasaio Andokides, un importante artigiano nella cui officina fu forse inventata la tecnica a figure rosse, che dedicò una statua sull’Acropoli e collaborò ai vasi bilingui del Pittore di Andokides. BIBLIOGRAFIA: ELSTON 1990, pp. 53-68, fig. 23; N. Icard-Gianolio, s.v. TRITON, in LIMC, VIII/1, 1997, p. 69, n. 5a, VIII/2, p. 42; J. Boardman, The History of Greek Vases. Potters, Painters and Pictures, London, Thames and Hudson, 2001, p. 204, fig. 224; Handbook 2002, p. 62.
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8. Lekythos a figure nere su fondo bianco con Eracle e gli uccelli Stinfalidi
Attribuita al Pittore del Diosphos, ca. 490 a.C. H. 20,8 Già Museum of Fine Arts, Boston 1989.317
Sulla lekythos è dipinta la scena di una delle fatiche di Eracle. In particolare è rappresentata l’immagine dell’eroe, assistito dal nipote Iolao, che suonando dei crotali (una specie di nacchere), spaventò gli uccelli voraci che nei boschi attorno al lago Stinfalo, in Arcadia, devastavano i campi con le loro penne bronzee e i loro escrementi velenosi e nutrendosi di carne umana, tormentavano gli abitanti. Erano talmente numerosi che volando oscuravano il sole. Al suono prodotto da Eracle si alzarono in volo terrorizzati e fuggirono in tutte le direzioni, talmente spaventati da scontrarsi fra loro. L’eroe continuò a suonare finché anche l’ultimo uccello scomparve all’orizzonte. Compiuta l’impresa, Eracle concimò con gli escrementi i campi e portò ad Euristeo come prova i corpi di alcuni uccelli. Interessanti, sotto il profilo documentario, sono le iscrizioni prive di senso che servivano esclusivamente a conferire maggior pregio all’oggetto. Un vaso molto simile è nelle collezioni del Banco di Sicilia a Palermo. BIBLIOGRAFIA: M. J. Padgett, “Minerva”, 1, n. 6, 1990, p. 43, fig. 3.
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CERAMICA ATTICA A FIGURE ROSSE
9. Cratere a calice attico a figure rosse con il trasporto del corpo di Sarpedonte
Firmato da Euxitheos come vasaio e da Euphronios come ceramografo, ca. 515 a.C. H. 45,7; diam. 55,1 Già Metropolitan Museum of Art 1972, 11.10 (L.2006.10)
Il “cratere di Eufronio”, come lo si è detto quasi per antonomasia, è uno dei più bei vasi attici pervenutici, il solo integro dei ventisette vasi dipinti dall’artista greco, il più abile del cosiddetto Gruppo dei Pionieri, come furono denominati i primi pittori attici tardo-arcaici che svilupparono la tecnica a figure rosse. Vasaio e pittore, operò nei decenni 520-470 a.C; a partire dal 500 a.C. lavorò, quasi certamente per l’indebolimento della vista, solo come vasaio. In un’iscrizione dall’acropoli di Atene, su un monumento da lui dedicato, è denominato come “il vasaio”. Sul lato principale del cratere è raffigurata la morte di Sarpedonte, l’eroe figlio di Zeus e Laodamia, che combatteva come alleato dei Troiani, un celebre episodio della Guerra di Troia. Il dio Hermes, qui nella sua funzione di messaggero di Zeus e conduttore delle anime dei morti, guida le personificazioni del Sonno (Hypnos) e della Morte (Thanatos) che trasportano il corpo dell’eroe caduto nella sua patria, la Licia, per il funerale. Il lato secondario del vaso raffigura giovani che si armano prima della battaglia, un’allusione al destino di morte che potrebbe accomunare questi giovani a Sarpedonte. La presenza delle firme associate del pittore e del vasaio, artigiano che di solito firmava più raramente i suoi prodotti, indica che Euxitheos riconosceva in questo cratere una delle sue opere migliori. Oltre alle firme degli autori il vaso reca anche l’iscrizione “Leagros kalos”: Leagro è bello, che ha fornito un prezioso elemento per la datazione, giacché l’adolescenza di Leagros, un personaggio storico ateniese considerato uno dei più bei fanciulli greci del suo tempo, è da collocare nel decennio 520-510 a.C. Nella raffigurazione, Euphronios, pur nei vincoli imposti dalla parsimonia dei mezzi cromatici consentiti dalla tecnica vascolare e dalle forzature obbligate dalla morfologia della ridotta superficie pittorica, dispiega la sua abilità nella perfezione naturalistica delle sue figure in cui si rileva l’ormai acquisita padronanza dello scorcio, l’accurata resa anatomica, il senso della composizione e la capacità di costruzione della spazialità, anche attraverso il sapiente uso della vernice, ora diluita ora più densa, per dare il senso del volume. Ma soprattutto l’artista, nella scena principale, riesce a conferire al carattere di drammaticità dell’evento, anche attraverso una magistrale composizione dei personaggi e delle relazioni tra di loro costruite sui rimandi degli sguardi e una trama di richiami geometrico formali fra le figure, un’atmosfera di dolente concentrazione e un tono di meditazione sospesa che colloca la raffigurazione al di fuori del tempo e, per questo, in ogni tempo. BIBLIOGRAFIA: J. Boardman, Attic Red Figure Vases: The Archaic Period, London, Thames and Hudson, 1975, fig. 22; T. Hoving, D. von Bothmer, The Chase, the Capture: Collecting at the Metropolitan, New York, The Metropolitan Museum of Art, 1975, p. 41, fig. 4; p. 121, fig. 22; D. von Bothmer, Der Euphronioskrater in New York, AA, 1976, pp. 485-512; Euphronios Peintre, 1992.
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10. Kylix attica a figure rosse con Ilioupersis
Firmata da Euphronios come vasaio e attribuita ad Onesimos come ceramografo, ca. 500-490 a.C. H. 20,5; diam. orlo 46,5 Museo Nazionale di Villa Giulia, inv. 121110; già J. Paul Getty Museum, Malibu, restituita nel 1999, dopo che gli scavi in località S. Antonio ne hanno dimostrato, con il ritrovamento di altri due frammenti combacianti, la provenienza da Cerveteri.
La kylix, parzialmente ricomposta, è decorata nel tondo interno dall’episodio più drammatico della notte della presa di Troia, l’uccisione del vecchio re Priamo alla presenza della figlia Polissena e del piccolo Astianatte, per mano di Neottolemo, il figlio di Achille, nonostante il re avesse cercato protezione presso l’altare di Zeus Herkeios, identificato da una scritta. Nel fregio che si sviluppa intorno al tondo, molto lacunoso, si riconoscono altri episodi troiani e del ciclo dell’Ilioupersis, fra i quali la liberazione di Aithra da parte dei nipoti Acamante e Demofonte, la violenza fatta da Aiace Oileo a Cassandra, abbracciata al Palladio; all’esterno si è identificato l’episodio di Briseide che viene condotta da Patroclo ad Agamennone, e forse un duello tra Aiace ed Ettore. Sotto il piede della coppa fu graffita, con i caratteri dell’alfabeto tipico di Caere, un’iscrizione etrusca di dedica del vaso in un santuario di Hercle, l’Eracle etrusco, che costituisce la più antica testimonianza epigrafica etrusca di un culto a questo eroe. BIBLIOGRAFIA: D. Williams, Onesimos and the Getty Ilioupersis, in Greek Vases in the J.P. Getty Museum, 5, Occasional Papers on Antiquities, 7, Malibu, The J. Paul Getty Museum, 1991, pp. 41-64; MORETTI SGUBINI 1999, pp. 4-6; MORETTI SGUBINI 2001, pp. 150-153. Per l’iscrizione, cfr. M. Martelli, Dedica ceretana a Hercle, AC, XLIII, 1991, pp. 613-621.
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11. Anfora attica a figure rosse con atleti Attribuita al ceramografo Euthymides, ca. 515-510 a.C. H. 43,5; diam. corpo 25,7 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 84.AE.63 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Una sola figura di atleta decora ogni lato di quest’anfora. Verso il 520 a.C. i pittori di vasi ateniesi rinnovarono il loro modo di dipingere le figure di atleti, valorizzando sport “leggeri” come il lancio del disco e del giavellotto e i momenti di allenamento piuttosto che quelli della gara vera e propria. L’enfasi data alla figura singola, esaltata nella muscolatura e nella resa plastica del movimento, fu propria di quel gruppo di innovatori, dominato da Euphronios, cui Beazley diede il nome-etichetta di Pionieri. Tra questi si pone Euthymides, attivo sia come vasaio che come ceramografo tra il 515 e il 500 a.C., che usava firmare come “Euthymides figlio di Polias”, probabilmente anche questi un artista, forse lo scultore Pollias. Il discobolo raffigurato sul lato principale è identificato dal nome iscritto accanto alla figura come Phayllos, probabilmente il celebre Phayllos di Crotone in Magna Grecia che vinse tre volte ai giochi Pitici a Delfi, due nel pentathlon (che comprendeva il lancio del disco e del giavellotto) e una volta nella corsa dello stadio. Altri due vasi con analoghe iscrizioni mostrano la preferenza del pittore per questo atleta, un’eccezione nella tradizione greca del periodo che rifuggiva dalle rappresentazioni dei personaggi reali. Sull’altro lato è una figura di lanciatore di giavellotto, probabilmente lo stesso Phayllos. BIBLIOGRAFIA: F. Villard, Les athlètes d’Euphronios, in Euphronios Peintre 1992, p. 38; Handbook 2002, p. 64; NEER 2002, p. 94, fig. 45.
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12. Kylix attica a figure rosse con etera sdraiata
Attribuita a Epiktetos, ca. 520-510 a.C. H. 14,5; diam. orlo 34 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 83.AE.287 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
La coppa, quasi completa sebbene ricomposta da frammenti, è decorata nel solo tondo interno con la figura di un’etera su un cuscino verso il quale si gira. È di grande effetto decorativo il gioco dei piedi contro il bordo del tondo e l’elaborata palmetta che fa da base. Un resto d’iscrizione (egrapse, dipinse) è accanto alla testa. Epiktetos, forse uno schiavo – il nome significa “il nuovo acquistato” – lavorò per circa trent’anni, tra il 520 e il 490 a.C., dai primi tempi di introduzione della nuova tecnica a figure rosse, ma produsse anche coppe bilingui secondo la moda del tempo. Firmò circa una cinquantina di vasi lavorando per diversi vasai, tra cui Hischylos e l’officina di Nikosthenes e Pamphaios. Il suo stile è delicato, calligrafico, e si applica di preferenza a scene di vita quotidiana piuttosto che a temi mitologici. BIBLIOGRAFIA: A. Dierichs, Erotik in der Kunst Griechenlands, Mainz, von Zabern, 1993, p. 57, fig. 95; M. Robertson, A Note on Epiktetos and Douris, in G. Capecchi (a cura di), In memoria di E. Paribeni, Roma, Giorgio Bretschneider Editore, 1998, p. 362 ss., tav. CIII, 1-2.
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13. Kylix attica a figure rosse con scena di palestra
Attribuita al vasaio Pamphaios e al pittore di Nikosthenes come ceramografo, ca. 510-500 a.C. H. 13; diam. orlo 34 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 96.AE.97 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Nel tondo interno del vaso è raffigurato un giovane che, seduto su uno sgabello, si allaccia un sandalo. L’aryballos e la spugna appesi di fronte a lui ambientano idealmente la scena in un ginnasio, luogo per eccellenza della paideia dei giovani nobili ateniesi. All’esterno della coppa sono altre scene tipiche dell’immaginario dei ceramografi ateniesi della fine del VI secolo a.C.: da un lato sono due giovani con i loro cavalli e tre guerrieri; sull’altro una scena dionisiaca, con le Menadi impegnate a respingere gli assalti dei Satiri. L’anonimo ceramografo che prende il nome dal vasaio Nikosthenes con cui collaborò in almeno tre vasi, è essenzialmente un pittore di coppe, e non dimostra, se non in poche occasioni, un particolare talento. Lavorò poi, insieme ai suoi contemporanei Oltos e Epiktetos, per il vasaio Pamphaios (se questo nome non indica piuttosto un marchio) che tra il 510 e il 480 a.C. prese la guida dell’officina orientandola verso l’innovazione delle forme e delle decorazioni e le esportazioni in Etruria; questa coppa appartiene probabilmente a questa fase della sua attività. Tra le preferite del pittore le scene di atleti, guerrieri e i temi dionisiaci. BIBLIOGRAFIA: Passion for Antiquities 1994, pp. 94-96, cat. n. 39; J. B. Grossman (ed.), Athletes in Antiquity: Works from the Collection of the J. Paul Getty Museum (February 1 to April 15, 2002), Utah Museum of Fine Arts, Salt Lake City, University of Utah, 2002, p. 26, n. 2.
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14. Psykter attico a figure rosse con giovani cavalieri
Attribuito a Smikros, ca. 510 a.C. H. 12,5; diam. max. 27,5 Già Metropolitan Museum of Art, New York, 1985.11.5 (L.2006.11.4) Mancante di gran parte del collo, della bocca e di tutta la parte inferiore
Questa forma particolare di vaso, con un corpo cilindrico, era utilizzata per raffreddare il vino dei banchetti, riempiendolo di neve o acqua ghiacciata e inserendolo dentro il cratere. Questo esemplare è decorato con una teoria di cavalieri; tra le figure sono nomi iscritti. I cinque cavalieri, che portano le lance e indossano identici copricapo (petasoi) e corte casacche colorate d’ispirazione tracia, rappresentano la gioventù aristocratica di Atene, la classe di cittadini che poteva permettersi di possedere e mantenere un cavallo. BIBLIOGRAFIA: Sotheby’s, London, Sale Catalogue, December 13-14, 1982, lotto 220; Annual Report 1984-1985, New York, The Metropolitan Museum of Art, 1985, p. 38; VON BOTHMER 1985, p. 38; VON BOTHMER, ANDERSON 1985, pp. 8-9; sulla forma, S. Drougou, Der attische Psykter, Beiträge zur Archäologie, 9, Würzburg, Konrad Triltsch, 1975.
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15. Lekythos attica a figure rosse con l’uccisione di Egisto
Attribuita al Pittore di Terpaulos, ca. 500-490 a.C. H. 37 Già Museum of Fine Arts, Boston 1977.713
Acquisita sul mercato antiquario, non se ne conosce la provenienza, ma si tratta certamente di un vaso molto raro per la presenza della decorazione figurata sulla spalla. La scena costituita da due gruppi di personaggi parzialmente sovrapposti che raffigurano la morte di Egisto accoltellato da Oreste e Clitennestra con la doppia ascia che si scaglia contro lo stesso Oreste, mentre Telamede cerca di fermarla. Pur in uno spazio tanto ridotto, l’artista ha saputo rappresentare, attraverso la sapiente composizione dei personaggi le cui sagome si incrociano in opposte direzioni, la violenta dinamicità della vicenda mitologica. La concitazione dell’evento è ottenuta attraverso la disarticolazione degli arti, raffigurati in gestualità esasperate, eppure governate da precisi rapporti di rispondenza simmetrica e dalla resa fluttuante delle vesti e dei capelli di Clitennestra; è soprattutto la sua espressione a connotare la drammaticità della scena, suggellata e racchiusa, emotivamente e formalmente, entro lo spazio costruito dagli sguardi dei due amanti che si incrociano per l’ultima volta. BIBLIOGRAFIA: Münzen und Medaillen A.G., Malzgasse 25, Basel, Switzerland, Auction 51, March 14-15, 1975, lot 150; Aspects of Art and Science, National Museum of History and Technology, Smithsonian Institution, February 1- September 1978, Washington 1978; R.M. Gais, s.v. AIGISTHOS, in LIMC, I/1, 1981, p. 372, n. 6a; p. 373, ill. p. 378.
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16. Anfora attica a figure rosse con citarista
Attribuita al Pittore di Berlino, ca. 490 a.C. H. 57,8; diam. 36,8 Già Metropolitan Museum of Art, New York 1985.11.5 (L. 2006.11.4)
Questa forma d’anfora, prediletta dal Pittore di Berlino, ben si adatta alla decorazione limitata esclusivamente a personaggi isolati, uno su ciascun lato del vaso, che il ceramografo amava rappresentare nelle sue opere, talvolta di modo che i contorni delle figure stesse sembrano richiamare volutamente il profilo dei vasi, probabilmente modellati nella sua stessa officina. Le singole figure che decorano l’anfora, un suonatore di cetra da un lato e un giovane che ascolta attento, sono isolate pur costituendo tematicamente un insieme; il medium che le unisce è lo spazio, vuoto di decorazione, del vaso; la forma si integra con la decorazione, esemplificando il peculiare gusto per la composizione di questo maestro che nelle sue opere poneva al di sopra di tutto l’eleganza e l’armonia. Il Pittore di Berlino (attivo tra il 490 il 460 a.C. circa) – il nome convenzionale fu attribuito dal Beazley, da un’anfora a Berlino – è considerato generalmente come un rivale del Pittore di Kleophrades. La prima produzione del ceramografo si colloca ancora nello stile tardo arcaico, da cui poi si svincolò contribuendo notevolmente – in parallelo con quanto facevano scultori e pittori – allo sviluppo dello stile classico delle figure rosse. Gran parte della sua produzione fu destinata all’esportazione e i suoi vasi sono stati recuperati soprattutto nelle necropoli della Magna Grecia, a Vulci, Nola e a Locri. BIBLIOGRAFIA: VON BOTHMER 1985, p. 38; VON BOTHMER, ANDERSON 1985, pp. 8-9.
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17. Kalpìs attica a figure rosse con Apollo sacrificante
Attribuita al Pittore di Berlino, ca. 485 a.C. H. 40,2 Già Museum of Fine Arts, Boston 1978.45
Apollo, il dio della luce e della musica è presso un altare in compagnia di altre divinità. Nella sinistra tiene una cetra e con la destra fa una libagione versando una bevanda da una phiale. Lo assiste Iris, la dea dell’arcobaleno, con una brocca. Dietro di lei è Ermes, con i calzari alati e il caduceo. Dietro l’altare è Latona, madre di Apollo, con i capelli biondi disegnati in vernice diluita, e sua sorella Artemide, con arco e faretra. Dietro di loro avanza Atena con elmo e lancia. Il significato di questa assemblea di dei non è chiara, ma la presenza di Latona suggerisce una relazione col culto del dio a Delo. Le figure statuarie hanno la qualità monumentale caratteristica del Pittore di Berlino. La kalpìs è una variante arrotondata dell’hydria che venne di moda tra il 505 e il 475 a.C. BIBLIOGRAFIA: cfr. Beazley Archive: 84; M. Robertson, The Berlin Painter at the Getty Museum and some others, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, Occasional Papers on Antiquities, I, Malibu, The J. Paul Getty Museum, 1983, p. 66 ss.; E. MathipoulouTornaritou, s.v. APOLLON, in LIMC, II/1, 1984, p. 289, n. 860.
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18. Cratere a calice attico a figure rosse (frammenti) con battaglia sul corpo di Achille
Attribuita al Pittore di Berlino, ca. 490 a.C. Il vaso è frammentario, lacunoso Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 77.AE.5 (1, 6, 7, 9,10, 11, 12) Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
I frammenti più significativi mostrano una scena di battaglia con Aiace con il corpo di Achille. Altri mostrano uno scudo con l’iscrizione Ampharaus, armi oplitiche, un elmo calcidese, parti di corpi e di decorazione accessoria. Sul Pittore di Berlino, attivo tra il 490 e il 460 a.C., cfr. scheda n. 16. BIBLIOGRAFIA: J. Frel, The Kleophrades Painter in Malibu, JPGMJ, 4, 1977, p. 76 ss., n. 26; M. B. Moore, The Berlin Painter and Troy, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, 6, Occasional Papers on Antiquities, 9, Malibu, The J. Paul Getty Museum, 2000, pp. 158-186, figg. 1a-f; 5a-1.
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19. Kalpìs attica a figure rosse con Fineo e le Arpie
Attribuita al Pittore di Kleophrades, ca. 480 a.C. H. 39; diam. corpo 32,5 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 85.AE.316 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Alla ricerca del Vello d’oro, Giasone e gli Argonauti salvarono il vecchio veggente e re trace Fineo. Gli dei lo avevano punito per aver rivelato i loro segreti. Non appena Fineo si apprestava a mangiare arrivavano le Arpie, orridi mostri alati, che rovesciavano a terra, rubavano o imbrattavano di sterco il cibo. Giasone trovò il re quasi morto di fame e fece con lui un accordo. Se Fineo gli avesse rivelato come raggiungere il Vello, lo avrebbe liberato dalle Arpie. Su questa elegante kalpìs vediamo a sinistra Fineo seduto davanti a una tavola colma di cibo, sulla quale si precipitano dall’alto tre Arpie, in verità qui in figura di graziose fanciulle alate. Il re tuttavia leva le mani in un gesto di spavento. Pittore prolifico – gli si attribuiscono oltre 100 vasi – il pittore di Kleophrades fu probabilmente un allievo di Euthymides, e usò sia la vecchia tecnica a figure nere, specialmente per le anfore panatenaiche, sia, più regolarmente, quella a figure rosse. Come Euthymides preferì la decorazione di grandi vasi, con scene tradizionali d’ispirazione mitologica, e con una preferenza per i temi troiani. BIBLIOGRAFIA: Handbook 1986, p. 50; L. Kahil, s.v. PHINEUS, in LIMC, VII/1, 1994, p. 388, n. 4; S. Woodford, Images of Myths in Classical Antiquity, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp. 132-133, fig. 100.
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20. Anfora attica a figure rosse con Eracle e Apollo in contesa per il tripode delfico
Attribuita al Pittore di Geras, ca. 480-470 a.C. H. 56; diam. corpo 26 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 79.AE.139 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Su quest’anfora, che conserva eccezionalmente anche il suo coperchio, è raffigurato al centro Eracle, identificabile per il mantello ricavato dalla pelle del leone nemeo (leontè), che fugge dopo aver rubato a Delfi il tripode dal santuario di Apollo, irritato per non aver ricevuto subito l’oracolo che aveva chiesto. Il dio, a destra, lo insegue armato d’arco, mentre all’estremità sinistra Atena guarda la scena e protegge l’eroe a lei caro. Rappresentazioni di questo mito avevano una lunga tradizione nell’arte greca, ma divennero specialmente popolari ad Atene nell’età della tirannide di Pisistrato, al volgere del VI secolo a.C. Il lato secondario del vaso presenta la scena di un guerriero che compie una libagione alla presenza del padre e della moglie, al momento di partire per la guerra. Sul lato A è dipinta in caratteri minuti l’acclamazione al giovane efebo Haisimedes HAISIMEDES KALOS: Aisimede è bello; sul lato B la più generica HO PAIS KALOS: il ragazzo è bello. Il Pittore di Geras (il nome deriva da un vaso del Louvre con Eracle che lotta contro Geras, personificazione della Vecchiaia), fu un artigiano di livello non eccezionale, ma vivace nelle sue immagini, che operò all’inizio del V secolo a.C. specializzandosi nella decorazione di pelikai oltre ad altre forme vascolari. BIBLIOGRAFIA: F. Brommer, Herakles und Theseus auf Vasen in Malibu, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, Occasional Papers on Antiquities, 3, Malibu, The J. Paul Getty Museum, 1985, pp. 183-228, fig. 13; H. Immerwahr, A Corpus of Attic Vase Inscriptions. Preliminary Edition, part VI, Supplement, 2001, n. 4939; sulla figura del ceramografo, cfr. E. Paribeni, s.v. Geras Pittore di, in EAA, III, p. 840 e fig. 1046.
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21. Cratere a colonnette attico a figure rosse con Dioniso
Attribuita al Pittore di Geras, ca. 480-470 a.C. H. 28,6; diam. orlo 27,5 Già Royal Athena Galleries, New York
È raffigurato su un lato Dioniso che regge un kantharos, seguito da un satiro che sorregge uno scranno sulla testa; sull’altro lato un satiro con un rythòn in mano. BIBLIOGRAFIA: cfr. scheda precedente.
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22. Kylix attica a figure rosse con Zeus e Ganimede
Firmata da Douris come ceramografo, attribuita al vasaio Python, ca. 480 a.C. H. 13,3; diam. 32,4 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 84.AE.569 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Il tondo interno della coppa mostra una figura maschile barbata seduta davanti a un altare con un bastone nella destra e una phiale nella sinistra. Un fanciullo, Ganimede, gli versa vino da una oinochoe. All’esterno sono due scene di divinità che inseguono i loro amanti mortali. Su un lato tre uomini barbuti osservano Eos, l’alata dea dell’alba, che insegue il giovane cacciatore Kephalos; sull’altro lato, il re degli dei, Zeus, insegue il principe troiano Ganimede. Anche questo vaso, come la kylix a occhioni e l’askòs etrusco del Gruppo Clusium, è stato restaurato con un frammento di un altro vaso, forse del ceramografo Makron. Il pittore, Douris, nel periodo della sua attività (500-460 a.C.), fu uno dei più prolifici ceramografi noti degli inizi del V secolo. Firmò almeno 40 vasi, per lo più coppe, mentre gliene sono attribuiti oltre 300, il che, se accettiamo per buona la stima che gli studiosi moderni hanno fatto, ossia che i vasi greci pervenutici rappresentano circa lo 0,5% di quelli realmente prodotti, porterebbe la sua produzione globale a circa 78.000 vasi! Collaborò con i vasai Kleophrades ed Euphronios, ma soprattutto con Python, uno specialista nella produzione di coppe. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1984, JPGMJ, 13, 1985, p. 169, fig. 23; Handbook 1991, p. 47; BUITRON-OLIVER 1995, pp. 27, 32, 39, 54; cat. n. 120, p. 80, pl. 46.
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22. Kylix attica a figure rosse con Zeus e Ganimede
Firmata da Douris come ceramografo, attribuita al vasaio Python, ca. 480 a.C. H. 13,3; diam. 32,4 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 84.AE.569 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Il tondo interno della coppa mostra una figura maschile barbata seduta davanti a un altare con un bastone nella destra e una phiale nella sinistra. Un fanciullo, Ganimede, gli versa vino da una oinochoe. All’esterno sono due scene di divinità che inseguono i loro amanti mortali. Su un lato tre uomini barbuti osservano Eos, l’alata dea dell’alba, che insegue il giovane cacciatore Kephalos; sull’altro lato, il re degli dei, Zeus, insegue il principe troiano Ganimede. Anche questo vaso, come la kylix a occhioni e l’askòs etrusco del Gruppo Clusium, è stato restaurato con un frammento di un altro vaso, forse del ceramografo Makron. Il pittore, Douris, nel periodo della sua attività (500-460 a.C.), fu uno dei più prolifici ceramografi noti degli inizi del V secolo. Firmò almeno 40 vasi, per lo più coppe, mentre gliene sono attribuiti oltre 300, il che, se accettiamo per buona la stima che gli studiosi moderni hanno fatto, ossia che i vasi greci pervenutici rappresentano circa lo 0,5% di quelli realmente prodotti, porterebbe la sua produzione globale a circa 78.000 vasi! Collaborò con i vasai Kleophrades ed Euphronios, ma soprattutto con Python, uno specialista nella produzione di coppe. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1984, JPGMJ, 13, 1985, p. 169, fig. 23; Handbook 1991, p. 47; BUITRON-OLIVER 1995, pp. 27, 32, 39, 54; cat. n. 120, p. 80, pl. 46.
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23. Kantharos attico a figure rosse configurato a maschera dionisiaca
Attribuito al Pittore della Fonderia come ceramografo, e forse ad Euphronios come vasaio, ca. 480 a.C. H. 14,7; diam. 17,4 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 85.AE.263 Da scavi clandestini operati in Italia centro-meridionale
Uno dei lati del vaso reca applicata una maschera di Dioniso, modellata a parte, l’altro una maschera di Satiro. Sul corpo della coppa sono delle scene figurate che mostrano atleti che si puliscono dopo gli esercizi. Attivo nel primo trentennio del V secolo a.C., il Pittore della Fonderia è stato così denominato dalla scena di una fonderia di statue di bronzo che dipinse su un vaso ora a Berlino. Allievo del Pittore di Brygos e a un certo momento collaboratore di Onesimos, lavorò con i vasai Brygos ed Euphronios, specializzandosi nella decorazione di coppe su cui sperimentò uno stile più realistico dei suoi contemporanei. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1985, JPGMJ, 14, 1986, p. 192, n. 155; Handbook 1991, p. 48; NEER 2002, p. 14, fig. 1; COHEN 2006, pp. 274-275, cat. n. 82, fig. 82.1-82.3.
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24. Phiale mesonfalica attica a figure rosse (frammenti) con varie scene mitologiche
Firmata da Douris come ceramografo, e forse da Smikros come vasaio, ca. 490-480 a.C. H. 13,3; diam. 32,4 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 81.AE.213 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
All’interno del vaso si riconoscono varie scene, di divinità sedute, di un combattimento, e figure in corsa, forse una scena d’inseguimento. All’esterno sono due scene distinte raffiguranti Eracle, forse nella preparazione della gara con Eurytos, e nella gara vera e propria. Sul ceramografo, vedi anche supra la scheda n. 22. BIBLIOGRAFIA: M. Robertson, A Fragmentary Phiale by Douris, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, 5, Occasional Papers on Antiquities, 7, 1991, pp. 75-98; BUITRONOLIVER 1995, pp. 15-17, 22, 51, 53, 67, catalogo n. 29, pl. 19-20.
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25. Cratere a calice attico a figure rosse con l’uccisione di Egisto per mano di Oreste
Attribuito al Pittore di Egisto, ca. 470 a.C. H. 58,2; diam. orlo 61,6 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 88.AE.66 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
La decorazione di questo grande cratere, uno dei più grandi noti ma purtroppo molto frammentario, riflette forse una tragedia greca perduta. Sul lato principale, a destra, Oreste vendica la morte del padre Agamennone immergendo la spada nel petto di Egisto, l’amante della madre Clitennestra che sulla sinistra accorre con un’ascia a difendere l’amato. In mezzo, una nutrice, con un bambino in braccio, assiste inorridendo alla scena. Sull’altro lato del vaso due donne (forse Elettra e Crisotemi) fuggono verso destra dietro tre uomini che tengono dei bastoni. La morte di Egisto è un tema poco frequente nell’arte greca, e compare solo nel periodo 510-460 a.C., evidentemente in relazione con la propaganda antitirannica del governo democratico. Alcuni elementi della raffigurazione suggeriscono che questa scena abbia tratto origine da una perduta tragedia anteriore al più noto dramma messo in scena da Eschilo nel 458 a.C. Il Pittore di Egisto, attivo tra il 480 e il 460 a.C., fu un ceramografo che visse la transizione dallo stile arcaico a quello classico decorando di preferenza grandi vasi con scene complesse. Il suo nome, di creazione moderna, deriva dal tema di un vaso conservato nel Museo Civico Archeologico di Bologna. BIBLIOGRAFIA: E. Simon, Early Classical Painting, in AA.VV., Greek Art, Archaic into Classical, Leiden, Brill, 1985, pp. 66-82, pls. 67-68; Acquisitions 1985, JPGMJ, 17, 1989, p. 113, n. 20.
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26. Kantharos gianiforme attico raffigurante la testa di Eracle
Classe M, Classe del Vaticano, ca. 470 a.C. H. 19,1; diam. 13,9 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 83.AE.218 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Il kantharos gianiforme (il termine deriva da Giano, il dio latino bifronte), una coppa formata da due teste realizzate a stampo e attaccate una all’altra, fu una delle forme più comuni dei vasi attici configurati antropomorficamente. Uno dei lati di questo esemplare rappresenta Eracle, con i baffi bianchi, la leontè decorata a punti, la barba nera. L’altro lato rappresenta una donna, la cui identità, dato il numero delle eroine che ebbero relazioni con l’eroe, resta incerta (Ebe?). Sul collo del vaso una corona d’edera a foglie bianche richiama il mondo dionisiaco. Su questa classe di vasi attici è raffigurato un limitato numero di soggetti: africani, donne, satiri, oltre a Eracle. È possibile che essi siano stati inventati per il mercato etrusco dove esisteva un’antica tradizione di vasi antropoidi. BIBLIOGRAFIA: COHEN 2006, pp. 272-273, n. 81, fig. 81.1-3.
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27. Cratere a calice attico a figure rosse con scena di divinità (Igea, suo figlio Oceano e Dioniso)
Firmato dal Pittore Syriskos, 470-460 a.C. H. 43; diam. orlo 55 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 92.AE.6
Una solenne scena di divinità raramente raffigurate, una finestra su un Olimpo minore decora questo cratere. Al centro del lato principale è seduta infatti Ge, la Terra, qualificata, da un’iscrizione dipinta accanto, come Pantaleia (colei che dà tutto), con uno scettro e una coppa da libagione nelle mani. Accanto, a sinistra, le sta il figlio, il Titano Oceano, anch’egli identificato da un’iscrizione, con uno scettro in mano a indicarne la maestà divina. Davanti, sulla destra, è il solo dio olimpico presente, Dioniso, coronato d’edera, con un ramo spoglio – che mostra alla dea – e un tralcio d’edera nelle mani a indicarne forse il potere sui cicli della vegetazione. Accanto al dio una pantera, simbolo della natura selvaggia, che è una delle componenti dell’identità del dio. L’altro lato del vaso presenta al centro, in piedi, Themis, figlia di Ge e dea della giustizia, simile nelle vesti a Ge, con accanto gli eroi Balos (figlio di Poseidone e di Lybia e padre di Aegyptos, Damno e Danao) ed Epaphos (figlio di Zeus ed Io), entrambi muniti di scettro. Tutti i personaggi sono identificati da iscrizioni. La dea porge una coppa in cui ha versato del vino da un’oinochoe al primo, seduto a sinistra, mentre l’altro guarda sulla destra. Purtroppo di queste scene, molto rare e certamente fondate su un preciso messaggio iconografico, ci sfugge il significato. Il ceramografo e vasaio Syriskos (il piccolo Siriano, forse uno schiavo) lavorò ad Atene negli anni 70 e 60 del V secolo a.C. decorando vasi a figure rosse, ma anche a fondo bianco. In vasi successivi compare la firma Pistoxenos Syriskos (lo straniero fededegno, il piccolo Siriano), e infine solo la firma Pistoxenos, forse corrispondente al momento in cui il ceramografo acquisì uno status da liberto. Sono da segnalare anche alcuni graffiti incisi sotto il piede di questo vaso. Di notevole interesse quello che ne dichiara il prezzo: uno statere, corrispondente alla paga di due giorni di un soldato del tempo. BIBLIOGRAFIA: Acquisitions 1992, JPGMJ, 21, 1993, pp. 104-105, n. 5; Masterpieces 1997, p. 46; Handbook 2002, p. 78.
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28. Pelike attica a figure rosse con Fineo e i Boreadi
Attribuita al Pittore di Nausicaa, ca. 450 a.C. H. 21,3; diam. corpo 16,3 Già Museum of Fine Arts, Boston 1979.40
La pelike, proveniente dall’Etruria, è decorata con pitture che ricordano il mito di Fineo e i Boreadi. Fineo, figlio di Agenore e di Cassiopea e marito di Cleopatra figlia di Borea, ebbe da lei due figli. Questi si innamorarono di Idea che li accusò di averle fatto violenza e per questo Fineo non esitò ad accecarli, suscitando lo sdegno di Borea, loro avo, il quale a sua volta accecò Fineo per punirlo. Infine, per aver dato ospitalità al troiano Enea, suscitò le ire di Era e Poseidone che, come punizione, gli inviarono le Arpie, mostri alati con sembianze femminili, a contaminargli le mense. Fu liberato da questo flagello solo molto più tardi a opera di Giasone e altri due Argonauti, Calaide e Zete. Il re vecchio e cieco è raffigurato sul lato principale tra i due Boreadi, alati e in costumi traci (i venti del nord est spiravano appunto dalla Tracia). Sul lato secondario, un uomo calvo con bastone. Il Pittore di Nausicaa, attivo verso la metà del V secolo a.C., fu uno degli esponenti più attardati del Gruppo detto dei Manieristi; discontinuo nella sua produzione di grandi vasi, unì a una certa felicità inventiva nelle composizioni un tratto frettoloso, duro e poco duttile (cfr. E. Paribeni, s.v. NAUSICAA, Pittore di, in EAA, V, p. 369). BIBLIOGRAFIA: K. Schefold, s.v. BOREADAI, in LIMC, III/1, 1986, p. 128, n.17, p. 132; T. Mannack, The Late Mannerists in Athenian Vase-Painting, Oxford Monographs on Classical Archaeology, Oxford University Press, 2001, pp. 94, 148 (UI.23).
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29. Cratere a campana attico a figure rosse con cacciatori traci
Attribuito al Pittore della Centauromachia del Louvre, ca. 440-430 a.C. H. 35,3 Già Museum of Fine Arts, Boston 1999.735
Il cratere, proveniente dall’Etruria, è abilmente dipinto con scene di cacciatori traci, facilmente riconoscibili dalla minuziosa definizione degli abiti e dei copricapi. Un cacciatore con mantello e berretto a lunga coda, con due lance in mano, conversa con un altro trace, similmente vestito, seduto su una roccia a sinistra. A destra un giovane accompagnato da un paio di cani, con indosso un mantello, un elmo a pilos e una spada, porta una bisaccia sulla spalla. Sul lato posteriore, tre figure maschili ammantate. Il ceramografo, noto con la denominazione moderna di Pittore della Centauromachia del Louvre, attivo durante l’età di Pericle, fu pittore prevalentemente di crateri, quasi tutti destinati all’esportazione in Magna Grecia, Sicilia ed Etruria: pochissimi da Atene, Rodi e Delo. Predilesse le figure di atleti e guerrieri, senza trascurare i temi mitologici (cfr. M. Cagiano de Azevedo, s.v. CENTAUROMACHIA DEL LOUVRE, Pittore di, in EAA, II, p. 473). BIBLIOGRAFIA: inedito. Acquistato presso Sotheby’s Londra (Sotheby’s auction, December 14, 1995, lot 95).
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30. Cratere a campana attico a figure rosse con scena dionisiaca
Ca. 420 a.C. H. 25,4; diam. corpo 33. Piede moderno Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 81.AE.149 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Il vaso è stato ricostruito da frammenti; il piede è di ricostruzione. Sul lato A è Dioniso, con una corona in testa, una veste al ginocchio e un tirso in mano. Alla sua destra è un satiro che offre cibo o acqua in un bacino ad un asino. Sullo sfondo, dietro l’asino, un silos cui è appoggiata una scala. Sul lato B sono tre figure ammantate. Al di sopra della testa di Dioniso è un’iscrizione lacunosa col nome del dio […]ysos; sulla testa del satiro si legge k[…]lumns; sopra un elemento circolare, nel campo, kallas. BIBLIOGRAFIA: ELSTON 1990, pp. 53-68, fig. 15; D. Lanza, Lo Stolto, Torino, Einaudi, 1997, fig. 3; M.J. Padgett, The Stable Hands of Dyonisos: Satyrs and Donkeys as Symbols of Social Marginalization in Attic Vase Painting, in B. Cohen (ed.), Not the Classical Ideal. Athens and the Construction of the Other in Greek Art, Leiden, Brill, 2000, p. 64, fig. 2.8.
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31. Cratere a calice attico a figure rosse con scena teatrale da Gli Uccelli di Aristofane
Ca. 415-410 a.C. H. 18,7; diam. orlo 23 Già J. Paul Getty Museum, Malibu, 82.AE.83 Da scavi clandestini in Italia centro-meridionale
Sul lato principale un flautista, con un vestito riccamente ricamato, sta al centro della scena tra due danzatori, vestiti con costumi da uccelli, forse coristi di una scena della commedia di Aristofane (448-386 a.C.) Gli Uccelli, rappresentata nel 414 a.C., evidentemente negli stessi anni in cui veniva realizzato questo vaso. Sul lato secondario è la raffigurazione di un giovane nudo al centro; di fronte a lui è un altro giovane in himation. A sinistra, una donna in chitone e himation. BIBLIOGRAFIA: J.R. Green, A Representation of the “Birds” of Aristophanes, in Greek Vases in the J. Paul Getty Museum, 2, Occasional Papers on Antiquities, 3, Malibu, The J. Paul Getty Museum, 1985, pp. 95-118, figg. 1-3, 22; O. Taplin, Phallology, Phlyakes, Iconography and Aristophanes, “Proceedings of the Cambridge Philological Society”, 33, 1987, pp. 92-104; M. Schmidt, Komische Arme: Teufel und andere Gesellen auf der griechischen Komoedienbuehne, AK, 41,1, 1998, pp. 19-20, 21, pl. 4.1.
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